Parigi è un desiderio | di Andrea Inglese | Fabio Orecchini,I
Transcript
Parigi è un desiderio | di Andrea Inglese | Fabio Orecchini,I
Parigi è un desiderio | di Andrea Inglese | Fabio Orecchini Da Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie, 2016). ****** Del primo soggiorno a Parigi ho dei ricordi confusi, come su quasi ogni periodo della mia vita. Avevo diciotto o diciannove anni? Di sicuro eravamo in tre più uno. Con Tito e Diego siamo partiti assieme da Milano, e Alessandro ci ha raggiunto alcuni giorni più tardi. Tutti freschi ed elettrizzati di Interrail, con un piano di marcia diabolico: Parigi, Amsterdam, Copenaghen, tutta la Scandinavia, con particolare riguardo per i fiordi, le capanne dei pescatori, le foreste sterminate e monotone, i tuffi nell’acqua ghiacciata. A Parigi non eravamo acquartierati in città, ma in un campeggio periferico a Joinville-le-Pont e ci si spostava all’inizio e a fine giornata con la RER, la metropolitana del popolo suburbano, quello che arriva nella capitale all’alba, dormendo ancora, e se ne va dopo mezzanotte, tra fischi e sghignazzi. Non sono ovviamente gli stessi quelli che arrivano fiacchi a Parigi alle sette di mattina, e quelli che salgono sull’ultimo treno notturno ululando. Questi ultimi li conoscevamo bene, e ne facevamo parte. Sono soprattutto giovani che hanno passato l’intera serata a Parigi, si sono riempiti di alcol, hanno accostato magnifici parigini, uomini e donne, sono stati abbagliati dalle luminarie di locali e ristoranti, hanno visto elegantissime persone fermare dei taxi, ma anche dei tipi giovani, con cappellini da gruppo rock inglese, scendere da auto sportive, e ora se ne devono tornare a casa loro, nei quartieri bui e silenziosi, e hanno una mezzoretta sola di viaggio per smaltire la loro straordinaria eccitazione. Anche noi di ritorno da Parigi, saltati in affanno sull’ultimo metrò, gironzolavamo nel vagone come ghepardi in gabbia, con una voglia immensa di fare stronzate, di tirare il freno, di sganciare un estintore dalla sua nicchia, o semplicemente di fumarci una canna con il gruppetto di ragazze appena conosciute. Alla fine, smettemmo persino di preoccuparci per il ritorno e trovammo ottimi motivi per passare l’intera notte in giro per la città. A quell’epoca, il vagabondaggio notturno era un’attività che ci riusciva particolarmente bene. Del campeggio di Joinville ricordo solo grandi distese d’erba. Mi chiedo se non ci avessero sistemati in un campo da golf incolto. Non so dire neppure se oltre alla nostra ci fossero altre tende, e dove sorgessero gli immancabili bagni in comune. Ho solo immagini di tavoloni di legno da pic-nic e di altalene costituite da pneumatici. E poi c’erano i discorsi di Diego. Diego diceva sempre: “Ma non vedi Andy, non vedi questo sole? Guarda! Cosa abbiamo in mano? Una bella bottiglia di birra ghiacciata! E adesso cosa ne facciamo? Ce la beviamo con tutta calma! E siamo qui, tranquilli, è estate, abbiamo trovato questo campeggio economico e deserto. Adesso Tito impasta un po’ di fumo, ci facciamo una superba canna, e abbiamo Parigi a portata di mano, a pochi chilometri, e sono già tutte lì, le francesi, che ci aspettano. Bevi tranquillo, Andy, e inizia a renderti conto: siamo davvero a Parigi, abbiamo tre settimane di viaggio davanti, tutto va bene, possiamo davvero godercela…”. Questa era la ramanzina tipica di Diego, ad un certo punto lui doveva tirare fuori questo discorso, ed era evidentemente un discorso contro di me, contro il mio strafare, il mio straparlare, mettendo troppe parole dentro una frase, a cui uno come Tito si era abituato, tanto strafaceva anche lui, ma Diego no, mi trattava come fossi un vecchio nevrastenico, uno di quelli che non riescono a sistemare il culo sulla sedia, perché è come se posassero le chiappe sempre su superfici irregolari e puntute. Diego faceva così con noi, soprattutto con me, era un gioco delle parti, io nel ruolo del tormentato, che fissa torvo il proprio asciugamano anche nella spiaggia più conturbante e assolata, e lui in quello del saggio hippy californiano, che è capace di sollevare la testa, di guardare in faccia il sole e l’orizzonte, respirando a pieni polmoni, senza pesi invisibili che gli schiacciano il torace. Diego aveva una sua follia piacevole, e mi sono anche molto divertito con lui, ma era un cripto-tossico, e la sua saggezza californiana una comoda copertura. All’epoca del fumo, in quei pochi anni della vita che ho interamente dedicato a fumare erba e hashish, con vari contorni di cui non è urgente parlare, ebbene in quel periodo, in mezzo ai fumatori puri, dogmatici, si annidavano anche una quantità di cripto-tossici. Il tossico era un esemplare ben identificabile in giro per parchi e piazze di fumo, ma faceva vita separata, veniva a raccattare soldi di tanto in tanto, magari lo si accoglieva in un “cerchio” per concedergli un tiro di cìlum, ma poi ognuno per la sua strada, e i tossici noi li disprezzavamo, innanzitutto per la loro evidente propensione parassitaria, ma anche per lo spettacolo abbastanza ripugnante del loro sballo, quando li coglievi a parlare con la voce impastata, le palpebre semichiuse, la schiumetta agli angoli della bocca, il braccio sospeso in aria, che non sapeva più dove andare. Col tempo, però, scoprii che tra i fumatori al di sopra di ogni sospetto vi erano tossici infiltrati, che menavano perfettamente una doppia vita: in certi luoghi e a certe ore, grandi appassionati di hashish ed erba, ben addentro nella famiglia chiassosa e gioviale dei fumatori di canne, pipe, cìlum, colli di bottiglia, ecc., ma in altri luoghi e ad altre ore schivi consumatori di eroina, per sniffate o via endovenosa, godendo appieno della clandestinità e del livello nettamente superiore, very high quality, del loro sballo. Ogni cripto-tossico, in realtà, era assolutamente convinto di vivere un’esperienza elitaria, di far parte di una congrega selezionata di persone, a cui il destino aveva aperto le porte dello sballo adamantino e incontaminato dell’ero, rispetto al quale gli effetti di tutte le altre droghe della terra non erano che sconvolgimenti abortiti. Noi fumatori credevamo nella democrazia e nella trasparenza: fumare si fumava in pubblico (intrusioni poliziesche permettendo), la canna per suo statuto doveva “girare”, e chi se la faceva sostare esageratamente tra le dita era immediatamente vilipeso dal gruppo. I cripto-tossici giocavano a fare i democratici, ma in cuor loro sapevano di appartenere all’aristocrazia dello sballo: sufficientemente padroni di loro stessi per non essere platealmente associati al tossico, e nello stesso tempo beati e regolari ospiti della loro privatissima bolla d’eroina. Con Diego, ho capito poi come fosse impossibile sapere quando il suo clandestino consumo di eroina venisse ad affiancarsi e a rinforzare quello pubblico di erba o fumo, ma durante quel nostro viaggio le cose andavano diversamente: si stava assieme ventiquattro ore su ventiquattro, e gli esclusivi e solitari appuntamenti con l’eroina erano per forza impraticabili. Quell’estate, inoltre, eravamo tutti un po’ più virtuosi. Per me e Tito, ad esempio, girare con la scorta di fumo in tasca stava cessando di essere una priorità esistenziale assoluta. ****** Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive oggi nei pressi di Parigi. Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose e sette libri di poesia, fra cui ricordiamo La distrazione (Luca Sossella, 2008), La grande anitra (Oèdipus, 2013) e Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato (Italic Pequod, 2013). È uno dei membri fondatori di Nazione Indiana, fa parte del comitato di redazione di alfabeta2 e collabora col manifesto. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini. Questo è il suo primo romanzo. I Creaturali. Appunti per una linea tratteggiata Faccio seguito alla pubblicazione degli appunti del 25 agosto scorso, sull’attuale vague lucreziana, testimoniata, fra le altre, dalle riscritture del poeta latino contenute nel volumetto La fisica delle cose (qui gli appunti), tornando a bomba sull’argomento, per mettere nero su bianco un’intuizione, che non ho ancora avuto modo di approfondire sistematicamente, ma che mi sembra venga confermata continuamente da letture occasionali. Vengo al punto: a mio avviso, oltre alla reviviscenza dell’epica, uno dei fenomeni più interessanti, che si possono registrare nella letteratura italiana di questo inizio di secolo e millennio, è l’appropriazione del linguaggio scientifico, specie della biologia, della chimica e della fisica, da parte di poeti, che mostrano anche pietas o, comunque, simpatia nei confronti della materia di cui essi stessi sono fatti. I nomi che mi balzano alla mente sono quello, che ho già fatto, di Andrea Inglese, poi quello di Fabio Orecchini (cfr. il notevole La dismissione, appena ristampato, con CD dei Pane, da Sossella: qui una prima versione, che postai su absolutepoetry.org) e di Carlo Cuppini (qui un esempio), quindi quelli di Davide Nota (qui un esempio multimediale), di Renata Morresi (da ultimo in Bagnanti, ed. Giulio Perrone) e, andando a ritroso e nel profondo del sottobosco, di Barbara Coacci (di cui, a suo tempo, scrissi qualcosa per il mensile «Urlo», a proposito del suo primo e finora unico libricino, Nessuna nuova, ed. La camera verde). Altre e altri li avrò dimenticati e su altre ancora, come Franca Mancinelli, i cui studi sul pre-creaturale Massimo Ferretti sono pure indicativi, mi riservo un supplemento d’indagine. I Creaturali, così potremmo chiamarli, hanno in comune, ciascuna/o declinandolo a suo modo, uno sguardo materialista sul mondo, che si sostanzia di compassione e slancio etico, nonché di termini e formule scientifiche. La categoria è presa in prestito dall’Auerbach di Mimesis. ma spostandola dalla connotazione della forma (il realismo nella letteratura occidentale) a quella dell’autore: dal realismo creaturale, insomma, che trova nell’Antico Testamento la sua massima espressione, ai realisti creaturali, nella maggior parte dei casi, peraltro, laici, se non atei. Che si moltiplichino queste voci, dunque, perché urge una svolta paradigmatica: in effetti, non possiamo più dirci uomini (essendoci anche le donne), ma solo – e cum grande humilitate – res congitantes, creature pensanti. Riporto, in conclusione, una cronaca letteraria in cui si parla di verità creaturale, a proposito di Alba Donati: in una newsletter ricevuta di recente dal Premio Dessì, in cui si segnala la motivazione della giuria che ha premiato la Donati per Idillio con cagnolino, ritrovo, in effetti, le seguenti, consonanti parole: «[Alba Donati è] perfettamente consapevole delle macerie del secolo alle sue spalle, come più d’una poesia dimostra. Ma c’è, in lei – prosegue la motivazione – una volontà d’uscire dal Novecento, d’oltrepassarlo nel suo autistico nichilismo. È una verità creaturale, quella di Donati: nella convinzione che, tramontate tutte le fedi, ci restano solo le verità biologiche. Per esempio questa: che i vecchi e i bambini (ma anche gli animali), proprio perché più prossimi a quel luogo da cui proveniamo e dove torneremo, siano gli esseri più vicini al mistero della vita e, per questo, i più oltraggiati dal mondo». Occorrerebbe verificare che il cambio di paradigma non abbia portato solo alla piena assunzione dei linguaggi specifici delle scienze dure nel verso (i mutamenti lessicali sono sempre superficiali), ma anche alla consapevolezza, direi sentimentale ed esistenziale, quindi sintattica, di una delle prime e più importanti scoperte scientifiche, ovvero la rotazione terrestre, ipotizzata da Copernico e verificata in via ipotetica da Galilei, con l’esperimento di caduta libera dei gravi, descritto nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, poi effettivamente realizzato da Guglielmini dalla Torre degli Asinelli a Bologna, infine sancita da Foucault con il suo celebre pendolo. La scoperta ormai ispira anche le canzoni pop, ma non mi sembra sia stata ancora messa a fuoco, come meriterebbe, in opere poetiche. Altro che nausea, Bugo, stiamo ruotando a circa 465 metri al secondo! Tenetevi forteee. E attenti a non scivolare, visto che ora si stanno anche alzando i mari. La matematica è la poesia della natura: su La fisica delle cose È piacevole scrivere di poesia, perché, al contrario della cronaca – l’omicidio, il femmicidio, il suicidio -, la poesia non invecchia, anzi, se è buona poesia, matura, come il vino. Non sarà così peregrino, dunque, scrivere oggi di un libro di poesia pubblicato nel 2011, tre anni fa. A spingerci in cantina, dove avevamo lasciato riposare il libro in questione, sono stati alcuni versi di Milo De Angelis, ascoltati dalla viva voce del loro autore, poche ore fa, di fronte alla millenaria Chiesa di Santa Maria di Portonovo (AN), durante la serata d’esordio del poesia festival La Punta della Lingua: «Morire fu quello / sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque, / noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate, / noi tra le ossa e l’essenza della terra». Morire fu quello sbriciolarsi delle linee: eco lucreziana, questa immagine, tratta dal libro di De Angelis Tema dell’addio (Mondadori), ha evocato in noi l’altro libro, intitolato La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio, lasciato a riposare tra le riserve. A pubblicarlo, per i tipi di Giulio Perrone editore, fu un gruppo di autrici e autori italiani, tra cui Andrea Inglese e Laura Pugno, che si sono impegnati in brevi riscritture dal De rerum natura, su istigazione di Giancarlo Alfano. Lucrezio ai giorni nostri Dall’Ottocento al Novecento il De rerum natura ha ispirato molti dei maggiori poeti italiani. L’hanno citato o tradotto Foscolo, Leopardi, Ungaretti e poeti del nostro tempo come Sanguineti e Milo De Angelis, fra gli altri. E proprio attraverso Sanguineti e De Angelis, Lucrezio scavalca secolo e millennio: Sotto la scure silenziosa. Frammenti dal «De rerum natura» di De Angelis è del 2005 e l’anno seguente esce Quaderno di traduzioni. Lucrezio-Shakespeare-Goethe di Sanguineti, aggiornato nel 2007 con due inediti (Proemio e Ifigenia) pubblicati da Federico Condello su «Il Verri», infine inclusi in Varie ed eventuali nel 2010. Lasciando stare filiazioni improbabili tra questi antecedenti e i nuovi lucreziani (peraltro, attendono la luce e un adeguato studio le traduzioni giovanili di Aldo Nove da Lucrezio), è il caso di chiedersi perché continui a essere così importante per la poesia appropriarsi, attraverso Lucrezio, delle meditazioni della scienza, soprattutto in riferimento all’isonomia, che lega sostanza materiale e sostanza verbale? Negli anni Zero si è parlato molto di nuova epica, sia per la narrativa sia per la poesia, e l’epos lucreziano è quello che più si attaglia alla nostra weltanschauung tardo-moderna, in cui il paradigma scientifico si è fatto carne e sangue, ben più dell’epos virgiliano, che per altro sarebbe incomprensibile senza la lezione del De rerum natura. Affinché la poesia potesse recuperare l’epos lucreziano e farne materia di canto, era però necessario che i lemmi della Fisica permeassero il linguaggio moderno, giacché «la musica della poesia deve essere una musica latente nel linguaggio comune di un’epoca», suggeriva, come noto agli intendenti, Eliot. Se le mutazioni di quest’era postuma (post-moderna, postlirica, post-umana), in cui l’umano si ibrida con il meccanico e la crisi ecologica impone un ripensamento del rapporto con la natura, sollecitano filosofi e pedagogisti a «promuovere un pensiero previsionale, ricombinativo e creativo, in grado di pensare le trasformazioni e di pensarsi in trasformazione» (così Franca Pinto Minerva e Rosa Gallelli, Pedagogia e postumo, Carocci, 2004), queste stesse mutazioni non possono non sollecitare i poeti a interrogarsi su quell’etica processuale, a cui, secondo Alfano, mira la grande fisica lucreziana: costretti tra schematismo delle configurazioni atomiche (meccaniche, aggiungiamo noi) e la casualità del nostro essere individuale non possiamo essere liberi, ma liberarci, sì, attraverso la conoscenza della natura. In altri termini, solo ripensandoci nella natura, come ci invita a fare Lucrezio, e non fuori dalla natura, come si è fatto nell’era moderna, possiamo inaugurare una nuova era, liberata dall’idea di separazione fra materia-umana e materia-non-umana. La materia umana, composta di atomi, è res cogitans: delle cose – res – condivide dunque il destino, che è la trasformazione. Le lettere, ci insegna Lucrezio, si combinano a formare mondi, come fanno gli atomi (questa è l’isonomia, analizzata tra gli altri da Ivano Dionigi in Lucrezo. Le parole e le cose, Patron, 1992). Scienziati e poeti hanno in più occasioni constatato che linguaggio matematico e linguaggio poetico condividono procedure comuni. Nominare sembrerebbe, in effetti, un denominare il tutto, l’intero, il mondo, scomporlo in tanti nomi, parti del tutto. Il rapporto tra nomi-numeri, da una parte, e universo, dall’altra, sarebbe dunque una frazione. E se non è più possibile credere in un potere magico della poesia (il canto di Orfeo che blocca la morte), è sotto gli occhi di tutti il potere magico dei nostri codici alfanumerici, ovvero quella corrispondenza tra segni alfanumerici e fenomeni fisici che con una combinazione dei primi permette di capire come funzionano e come si modificano i secondi, per cui, potremmo concludere arditamente, le espressioni scientifiche sono le rime con cui squaderniamo la natura, i riti orfici con cui, nelle corsie d’ospedale, tra misurazioni, diagnosi e prescrizioni, commuoviamo per un attimo la morte: davvero, insomma, la matematica è la poesia della natura. Lucrezio è fondamentale per questo. La fisica delle cose: la riscrittura di Andrea Inglese Una traccia di questa comunanza tra atomi e lettere sembra rintracciabile, tra le varie riscritture presenti ne La fisica delle cose, in quella di Andrea Inglese (La notorietà del vuoto), in cui il movimento incessante degli atomi nel vuoto diventa agli occhi del poeta, secondo un principio socioisonomico per così dire, il moto delle «masse fluenti», dei «flussi umani», perché lo spazio c’è, vuoto, per passare, le soglie non fanno inciampo, neppure le frontiere di mare tengono fermo l’ammarato che sconfina, tutto gonfio d’acque, a Porto Palo, e sotto l’onda, obliqui, scorrono, oscuri, oltrefrontiera i neri tra una terra e l’altra, le correnti portano via ininterrotte, anche senza un porto, una bara stagna, un buco di sepoltura. Non è una semplice fotografia politica, questa, ma una riproduzione verbo-iconica del movimento dei corpi, la cui concitazione è resa dalla punteggiatura. Così come la frammentarietà dell’essere è resa, sin dal primo componimento, con l’enumeratio: Nella cosa c’è il vuoto, il difetto, lo strappo. C’è il tappo, lo scolo, il beccuccio, il forato e l’universalità del male è restituita con la leopardiana (e volponiana) ricorrenza della rima (anche interna) in -ale (murale / centrale / mondiale / male / fatale / carnale). L’esistenza di Dio è messa in dubbio, nella prosa in prosa n. 3, ricorrendo di nuovo al vuoto, alla constatazione dell’inesistenza dell’uniforme, del bene assoluto, «il bene di cui almanacca Agostino, al di fuori del quale il male è nulla, pura deficienza d’essere», perché «è questo il punto: l’essere ondeggia, slitta su se stesso, sbanda, sfarina, cade in pezzi». A volte la tensione concettual-musicale si spezza e spuntano versi irrelati («[…] hai troppe distanze da colmare/ per ascoltare solamente la tua di voce», n. 4) o termini pleonastici («mentre io tutto vengo posseduto, succube», n. 7), a volte la retorica dell’elenco stanca e si perde la dialettica lucreziana, tra vita e morte, tra commedia e tragedia, per finire in un «pozzo/ infondato da cui, risalendo a gambero,/ edifichiamo castelli di carte» (n. 8). Nonostante questi rischi, anzi proprio perché osa prendersi questi rischi, nel combinare visione estetica, scientifica e biopolitica, meglio di altri Andrea Inglese sembra porsi nel solco di quel materialismo poetico inaugurato da Lucrezio, che a noi pare, nelle sue molteplici declinazioni, ancora tutto da indagare, ma soprattutto da sviluppare, attingendo a piene mani dall’inesuaribile serbatoio delle scienze, le cui formule, quando trovano corrispondenza nella realtà e la mutano, assumono il ruolo che da sempre appartiene a lettere e numeri, ovvero al linguaggio, codice alfa-numerico, nostro oggetto magico par excellence. Valerio Cuccaroni