Cherry Sweet Love

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Cherry Sweet Love
Cherry Sweet Love
edito da La Vita Felice
Manuela Anna Greco
Cherry Sweet Love
Manuela Anna Greco
Cherry Sweet Love
edito da La Vita Felice
Manuela Anna Greco
Ricetta per uno Cherry Sweet Love
Ingredienti (per due persone)
Una decina di cubetti di ghiaccio, succo di arancia, una parte di Cherry Brandy, 3 parti di Gin
Soda e ciliegine per decorare.
Mettere i cubetti di ghiaccio nello shaker. Versare il succo di arancia, Cherry Brandy, Gin e
shakerare fintanto che il cocktail diventa ben freddo.
Versare nei bicchieri e aggiungere soda. A piacere, decorare con ciliegine.
Questa è la storia di un amore che si fece vivere senza opporre resistenze, che si lasciò ubriacare
dall'irruenza dei sensi, macerare nella solitudine, addolcire dalle bugie, agghiacciare dalla pioggia
violenta dei sentimenti. Ma fu un'ottima, indimenticabile esperienza di vita.
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edito da La Vita Felice
Manuela Anna Greco
I.
Notte fonda e carica di neve. Il cielo è ovatta e la luna si è andata a nascondere chissà dove.
Scosto le tende e guardo oltre la finestra della mia camera, affacciata su Corso Magenta. Più che a
Milano, mi sento in alta quota.
Nel mio letto, un uomo riposa. Supino, il braccio ripiegato sotto il capo. Il respiro calmo e regolare.
Nella mia stanza, affastellati sul soffitto, centinaia di ricordi che sfuggono alle mie mani e alla forza
gravitazionale.
Brandelli di storia ricucita agli angoli, laddove Amore mi seviziò il cuore. Senza mostrare pietà.
E fu tormenta, inesorabile, gelata, come questa notte. Ma non su Milano e non di neve.
Continuano a galleggiare i ricordi, in una girandola nauseabonda, sopra la mia testa.
Ne afferro uno. La giostra si ferma per farmi salire ed io mi accomodo, come una signora. Gratis. Il
biglietto l'ho già pagato.
Lui, l'avevo conosciuto sul posto di lavoro.
Io, ricca all'inverosimile, lavoravo part-time per inedia, per divertimento o forse per l'insana follia di
misurare la mia diversità con la quotidianità dei pendolari, con la sveglia alle sei del mattino, con
gli scioperi della metropolitana, con le manifestazioni dei tranvieri e con gli schizzi di pioggia sulle
Chanel di vitellino, alle fermate degli autobus.
Il mio stipendio proletario finiva nelle tasche di Ruena, la baby-sitter filippina che si prendeva cura
delle mie figlie, due disperate, adorabili monelle.
Un minimo sindacale che le consentiva appena di vivere. E che per me corrispondeva, invece,
all'importo di tre sedute dall'estetista, quell'amabile canaglia che mi faceva bere, mescolate alle
tisane tonificanti, beate, ignare illusioni. Ignare poi non tanto! Sapevo che non serviva a niente bere
intrugli disgustosi e spalmare sul seno, che cedeva al tempo, maschere puzzolenti e creme
rassodanti, ma, altrimenti, come potevo buttare seicento euro ogni venti giorni?
La mia giornata tipo iniziava con una doccia refrigerante, una carrellata sui vestiti, per una mise
invidiabile ed una colazione ipocalorica e rivoltante, ordinata dal dietologo. Proseguiva con le
occhiate di Ruena che, ancora strisciante sullo zerbino presidenziale del mio attico in Corso
Magenta, mi lanciava eloquenti occhiate di rimprovero, quando si innescava il pianto a sirena delle
mie figlie, ed, infine, trovava il suo apice fra le luride pareti dell'ufficio.
Anziché sprofondare le chiappe nella pelle del mio morbido Natuzzi, con il telecomando puntato
sull'ultimo reality show ambientato in un'isola del Pacifico, mi sedevo su una triste girevole in laido
tessuto, in un insignificante ufficio e osservavo i comportamenti dei colletti bianchi, famelici di
carriera e di vile denaro.
Sgambetti professionali, maldicenze boomerang, spiate e confessioni, grandi storie di sesso: quello
era il mio reality show, il mio parco dei divertimenti.
Dietro la facciata di manierato rispetto e gli odiosi sorrisi con cui i miei colleghi mi definivano, per
dirla con un eufemismo, “stravagante” per quell'assurdo capriccio di voler timbrare a tutti i costi il
cartellino, si nascondeva il reale giudizio che mi inchiodava come una “non avente diritto al posto”
in quanto già ampiamente retribuita dal destino. E del resto, come potergli dare torto?
Mio padre, sulla scia del nonno, aveva fatto la mia fortuna. Era un magnate dell'industria
calzaturiera, con un esercito di dipendenti: duemilacinquecento, tremila, non so, avevo perso il
conto e poi, francamente, non mi interessava un granché.
L'azienda contava quattro stabilimenti produttivi in Italia, uno in Spagna , due centri distributivi e
ventidue filiali commerciali.
Per i dipendenti di mio padre ero l'inaccessibile figlia del padrone: una gran bella ragazza, molto
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snob e un po' svitata.
Nell'azienda di papà, ci mettevo piede il meno possibile. Detestavo quella masnada di dirigenti,
accoliti servili con l'alito pesante mascherato da mentina fresca, che cercavano in tutti i modi di
portarmi a letto prima e all'altare poi per - come diciamo a Milano - attaccare il cappello e fare la
vita da nababbo.
Non sopporto chi, parassitando, tenta fortuna per mezzo altrui. La storia della cicala e della formica
mi è sempre piaciuta...
Dunque, come dicevo, lui l'avevo conosciuto sul posto di lavoro.
Era un semplice, modesto impiegato. Giacca, cravatta e camicia. Ventiquattrore in una mano e casco
nell'altra. Cappotto d'inverno, quando il tempo non consentiva l'uso della moto; giubbotto sportivo
appena la stagione gli permetteva di fare il centauro. Anche nei miei sogni.
Eugenio Montalto, questo il suo nome, non si poteva definire un adone, ma per me era quanto di più
bello la natura avesse mai creato: occhi grandi e un po' spioventi, foltissimi capelli neri, bocca
grande e sensuale che avrei baciato mille e mille volte ancora. Fosse stato anche solo per onorare
Catullo!
Denti irregolari di chi è stato reticente a portare l'apparecchio da bambino; naso importante, ma ben
proporzionato al viso; mani belle, affusolate.
Eugenio giocherellava spesso con una fedina d'oro rosso che, contrariamente alle convenzioni,
portava sul pollice e che io guardavo con odio perché ne conoscevo il significato.
Se gli piacevo? Dio solo sa quanto! Eppure Eugenio si teneva stretto, come un naufrago all'ancora,
alla sua frigida storia sentimentale, incancrenita dopo sette anni di fidanzamento. Ne scorgevo,
infatti, le ferite, nei provocanti complimenti al mio indirizzo, nelle complici strizzate d'occhio e
nelle allusioni più o meno velate.
Forse anche per questo mi ero sentita autorizzata a chiedergli: “Cosa sono io per te?”. Una di quelle
domande stupide, sdolcinate e pericolose che non si dovrebbero mai porre agli uomini,
specialmente ai presunti amanti.
E lui, infatti, mi aveva ferita a morte: “Il nostro rapporto? Amicizia?Attrazione? Tu mi piaci ed io ti
piaccio. Fine della trasmissione!”
Per la prima volta nella vita, sapevo cosa significasse stare dalla parte del perdente.
Eugenio poteva fare a meno di me, mentre io mi consumavo nell'attesa di una telefonata, di un
SMS, come una ragazzina di quindici anni alla prima cotta.
Io, che mi facevo beffe del mio reality show, ci ero caduta dentro “con tutte le scarpe” ed ero
diventata uno di quegli insulsi personaggi che si chiude nel “confessionale” dei cessi sudici delle
aziende, per piangere brucianti lacrime d'umiliazione sulla spalla della prima malcapitata.
Eugenio non era un colletto bianco arrivista, non in quella azienda che commercializzava all'estero
connettori, cavi e data switch e che indiceva sistematicamente una riunione alla settimana, il
venerdì pomeriggio alle sedici, per ostentare la solita presentazione sull'andamento delle vendite.
Con tanto di grafici a torta, istogrammi, percentuali e sigle misteriose: FCST vs BDGT, CONS.
AP.
Lui si era laureato al Conservatorio e la sola matematica di cui gli importasse era quella della
musica, in particolare il grande jazz di Louis Armstrong. Non era interessato alla scrivania del
Direttore Commerciale, indubbiamente la più ambita dai krumiri stacanovisti che si inchinavano a
novanta gradi all'attuale in carica, con le dita a corna nascoste dietro le schiene piegate.
Il suo sogno era quello di raggiungere il successo e le ricchezze di mio padre, ma con una differenza
sostanziale: sgobbare all'inizio per delegare in seguito ambiziosi dirigenti e godersi la vita in viaggi
d'oltreoceano.
Eugenio era sostanzialmente un bravo ragazzo e, in un'epoca di perdita di valori e spiccato ateismo,
sventolava, come una bandiera, la sua fede in Dio; un po' meno nelle istituzioni ecclesiastiche,
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ancorché per le quali prestasse la sua opera di volontariato come organista.
Anch'io ero una fervente cristiana: Messa, Confessione, sistematica Comunione. Fino a quando
avevo conosciuto lui e, allora, quel che era rimasto della mia coscienza mi aveva impedito di
frequentare la Messa, di accostarmi ai Sacramenti e di battermi il petto con falsa aria contrita.
Poiché di sensi di colpa non ne provavo affatto: solo un disperato desiderio di poterlo avere, almeno
una volta, sotto le coperte del mio letto.
Perché mi ero innamorata di Eugenio?
Non c'erano attenuanti al mio crimine, né spiegazioni plausibili, per quanto il mio matrimonio non
si potesse certo definire un idillio.
Mi ero innamorata. Punto. Avevo sbattuto contro la vita di Eugenio perché il destino aveva,
banalmente, scarabocchiato nel mio libro, quella pagina sfortunata.
Mi ero innamorata, nonostante avessi poco da condividere con lui.
La sua era una vita da medio borghese soddisfatto del molto e insoddisfatto del poco. Avido di
denaro.
La mia, una vita da ricca borghese insoddisfatta del troppo. Avida di emozioni.
Da quando lo frequentavo, le farfalle che avevano preso fissa dimora nel mio stomaco, non mi
lasciavano mangiare quasi nulla. Mi cibavo dei suoi sguardi e delle sue lusinghe, alle quali non mi
sottraevo, al contrario, ricambiavo senza pudori.
Si era creata una strana, febbricitante intimità.
Lo stuzzicavo, lo adoravo e lo detestavo. Per la sua sicurezza, per il suo misurato self control che gli
lasciava mettere le distanze tra di noi, senza riportare alcuna ferita.
Il lunedì era più affettuoso di tutti gli altri giorni della settimana, così io passavo domeniche
frenetiche, con l'orologio da polso incollato agli occhi, soprattutto da quando mi aveva confessato:
“Mi manchi durante il fine settimana.”
Un mezzogiorno, prima delle vacanze, mi aveva portata fuori a mangiare.
“E se andassimo in un bel “ristorantino” messicano?...Peperoncino puro! Così facciamo salire la
temperatura!”
Scherzava. Giocava d'azzardo, mi attirava come una calamita, mi faceva cadere e non mi aiutava a
rialzarmi.
Eravamo andati in un locale e avevamo mangiato tortilla, chips e nachos piccanti.
A cavallo di una vecchia Vespa rossa, l'avevo abbracciato e mi ero lasciata condurre verso i lidi
torridi della mia passione senza via d'uscita.
“La prossima volta ti offrirò uno Cherry Sweet Love, in un hotel a cinque stelle, sul letto di una
suite imperiale!”, aveva scherzato strizzandomi l'occhiolino dallo specchietto retrovisore del
motorino.
“Che roba è?”, gli avevo chiesto.
“Un cocktail afrodisiaco!”, mi aveva risposto, ammiccante.
Il problema fu che, da quel momento, non smisi di credere alla sua promessa...
Cara lettrice, appassionato lettore,
ti ringrazio per aver dedicato un po' di tempo
alla lettura del mio romanzo.
Spero di aver toccato le corde del tuo cuore
con il dono di una piccola emozione.
Felicità!
Mag