Le donne italiane e la lussuria ARMANDO VERDIGLIONE

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Le donne italiane e la lussuria ARMANDO VERDIGLIONE
IL SECONDO RINASCIMENTO
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ARMANDO VERDIGLIONE
Chi non ha lo stato in questa terra, de’ nostri pari,
non truova cane che gli abbai.
(Messer Nicia)
Machiavelli legge Ovidio, il suo testo come il poema della lussuria
intellettuale, del lusso del giardino del tempo, della guerra artificiale e
dell’odio, anziché dell’erotizzazione dello stato e del tempo, e scrive la
storia impossibile dell’amore e la favola impossibile dell’odio. L’amore
custodisce la struttura della storia, la sintassi e la frase; l’odio custodisce
la struttura della favola, il pragma, nazione, industria. Come nel caso di
Leonardo, nessuna traccia dell’amor cortese nel testo di Machiavelli:
l’irrisione, se mai, e la vanificazione. La donna di Machiavelli,
dall’anonimato del nome all’enigma della differenza, dimora nella
parola. La vecchia di Verona appare come animale fantastico, esposto
all’ipotiposi e al motto di spirito. E intervengono, per esempio, la Sandra
di Pippo, la Mariscotta, la Riccia, la vedova dell’Impruneta, la Barbera
(Barbara Salutati, moglie di Pietro Landi), la Janna e altre, altre ancora,
per case, città, valli e prati e fontane, nei castelli e nelle capanne.
La sessualità è termine coniato da Freud, non esiste prima. Per
Machiavelli, come per Leonardo, nella parola s’instaura la lussuria,
dove il tempo non finisce a vantaggio della procreazione, della
luogocomunicazione, a vantaggio del sistema militare mondiale e della
mitologia dell’impero: la lussuria intellettuale è senza incesto, senza lo
scopo di salvare il segno dello stato, mai finendola, mai conformandola,
mai sottoponendola, alla fisiologia della politica. La favola della lussuria
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è la favola stessa della guerra come della politica. Il 5 gennaio 1514, a
Vettori: io “tocco et attendo a femmine”. Impossibile imitare il modo di
fare, il modo dell’altro tempo. Anfibologia del pazzo e del savio, del
puttaniere e dell’uomo dabbene. Impossibile fantazoologia sessuale.
Luca Ugolini scrive a Machiavelli (11 novembre 1503), dopo avere
visto Bernardo, il bimbo appena nato: “ché tutto sputato vi somiglia;
Leonardo da Vinci non l’avrebbe ritratto meglio”. E la moglie, Marietta
Corsini, gli scrive: “Per ora el bambino sta bene, somiglia voi: è bianco
come la neve, ma gl’ha el capo che pare velluto nero, et è peloso come voi;
e da che somiglia voi, parmi bello” (24 novembre 1503).
Favola definisce Machiavelli ciascuna pièce: né commedia né tragedia, favola, estranea al discorso della festa, alla pedagogia del teatro, alla
demonologia, al luogo del lirismo e del dramma, dell’esorcismo e
dell’inquisizione. E non c’è più servitù: né indotta né volontaria. Non ci
sono più il buon senso, il consenso e il senso comune. Non c’è più
soggetto, in tutti i suoi apparati: nessuna apoteosi. Il teatro, arte
dell’alterità della sembianza, accanto alla teoria, organizzazione, cultura dell’alterità, sua trovata. Ma anche struttura e scrittura della sembianza. E specialmente, pure: dispositivo, scrittura della politica, clinica
della lussuria artificiale. Teatro politico? Nulla di pastorale né di pedante: nessuna severità, che è materna, domina la favola di Machiavelli,
l’artificio avvia il modo della sua caratterizzazione, e la comunicazione
diplomatica resta indiretta e senza contatto, senza la corporazione di
stato e di partito, fino alla lezione, fino al messaggio. E i versi costituiscono i ritornelli impossibili nella cifratura della prosa.
Quattro favole: le Maschere, l’Andria, la Mandragola, la Clizia. Il nipote
Giuliano de’ Ricci scrive a proposito delle Maschere: “Sotto nomi finti va
lacerando e maltrattando molti di quelli cittadini che nel 1504 vivevano”. L’Andria: esercizio di scrittura, dove importano la variazione e la
differenza rispetto al modello, nella lingua della scrittura, in etrusco e in
fiorentino. La traduzione e la trasmissione avvengono in etrusco, l’altra
lingua; la trasposizione avviene in fiorentino, la lingua altra, lingua
diplomatica. Anche l’Andria appartiene al testo di Machiavelli e alla sua
qualità. Davos sum, non Oedipus: così Terenzio. Come se Edipo dovesse
togliere l’enigma della differenza, anziché enunciarlo. L’Andria: “Io
sono Davo, non propheta; vel non el frate”. Savonarola sta sullo sfondo.
E la profezia vale, con Machiavelli, da proprietà del sembiante. Ecco
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ancora Davo: “Credi tu che vi sia differenza o parlare da cuore, secondo
che ti detta la natura, o parlare con arte?”. E la lingua adamica, naturale,
materna, nazionale? La nominazione introduce l’altra lingua e la lingua
altra e la parola sfugge a qualsiasi presa. Miside: “Veramente e’ non ci
è boccone del netto. O Iddii! io vi chiamo in testimonio che io mi pensavo
che questo Panfilo fussi alla padrona mia un sommo bene, sendo amico,
amante e uomo parato a tutte le sue voglie”. Ciò viene contrastato dal
dolore. “È ella cosa degna di memoria o credibile che sia tanta pazzia
nata in alcuno, che si rallegri del male d’altri, e degl’incommodi d’altri
cerchi i commodi suoi?”. Comodità devastante e rovinosa: la comodità
psicocriminologica crea il male dell’Altro, la malattia mentale, espunge
l’Altro, lo rappresenta in negativo. Ecco il male ultimo. La semiologia
serve il sommo bene. Ecco la comodità dello sciacallaggio: il comune
modo dell’unità di origine. “Non si truova quasi mai veruno uomo che
sia fedele ad una donna”: quasi mai; il maschile e il femminile sono
maschere del carnevale; anche il nudo. Chi può identificare l’immagine
o renderla analoga, simile, opposta? “In questi tempi chi sa ire a’ versi
acquista amici, e chi dice il vero acquista odio”. Nel carnevale l’inganno
può essere intenzionato, disciplinato, reso sociale e politico? Può farsi
strumento della persuasione politica e del consenso sociale? Il proverbio
trae il motto di spirito. L’inganno dell’immagine sta nella sua alterità da
se stessa, insoggettiva.
Riguardo alla Mandragola, gli accostamenti che si fanno a Terenzio, a
Plauto, a Boccaccio, a Pulci si palesano irrisori, provano da quale
apertura procedano l’idioma e il messaggio. La Mandragola: impossibile
congiura degli idioti; dalla contraddizione al malinteso, la lussuria
conclude alla pace. Nessuna commedia a chiave: non sta qui la portata
della politica nel testo di Machiavelli. Il commentatore cerca nella
Mandragola l’antidoto del Principe. La Mandragola: l’intervallo fra il
sentiero della notte e il sentiero del giorno produce il racconto, la favola,
l’altra lettura, e l’intrigo testimonia che la trama non è politica, la virtù
contraddistingue il ritmo. Esperimento di commedia di costume o di
carattere la Mandragola? Altra la caratteristica, già perché altro il dispositivo. E il costume, con la sua anatomia, trova un’altra portata nel ritmo.
Impossibile l’abito. Entrato nella catacresi, lo stereotipo lascia il posto a
ben altra notizia, quella che anche Leonardo chiama la piena notizia
delle cose. La Mandragola: la favola incomincia con la canzone. È la festa
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della parola: la festa del cielo e la festa del paradiso. Nelle sue dimensioni, anche nella sua sembianza eterna, anche nell’eternità dell’istante. La
festa: chi potrebbe confiscarla per farne il luogo comune? La festa lieta.
La gioia. Il piacere intoglibile del linguaggio, la gloria della sembianza:
l’approdo alla qualità. Il prologo della Mandragola acquista a volte un
tono solenne, quasi una parodia dantesca: “per tutto traligna/ da
l’antica virtù el secol presente”. L’antica virtù, per nulla ideale, la virtù
esclusa dall’epoca, dal secol presente, la virtù della parola.
Gl’impersonaggi non la rappresentano né s’inscrivono nel secol presente. Prologo: un nuovo caso, a Firenze, come Roma o Pisa, altrove; il caso
viene dall’altrove di Firenze; questa volta è già l’altra volta; cosa da
smascellarsi per le risa. Le facezie delle lettere di Machiavelli inducono
allo stesso effetto, come informa Bartolomeo Ruffini. Il Prologo si rivolge
agli uditori oscillando dal voi al tu. Ecco gl’impersonaggi: il dottore in
legge; il giovane venuto da Parigi abita in quella sinistra porta; la
giovane accorta. “La favola Mandragola si chiama”. E ancora: il frate mal
vissuto, il parassita cocco di malizia. La favola sia il vostro badalucco. Il
compositore s’ingegna a rendere più soave il tristo tempo: altrove non
può volgere il viso e dare prova di altra virtù con altre imprese. L’altrove
è qui. Anche la virtù altra. Anche l’altra impresa. Ben altro il premio della
battaglia. Facile facile la maldicenza. O gli sciocchi credono che il
compositore, che percorre altra strada, senza occuparsi di loro, delle loro
calunnie, li stimi? Forse perché fa il sergente “a colui/ che può portar
miglior mantel di lui”? Tipografia della favola. Fra’ Timoteo: “Capitommi
innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno
errore, donde io vi ho messo el braccio e tutta la persona”. Fra’ Timoteo
si dà del cazzone: e il personaggio non serve nessuna polemica
anticlericale. L’anfibologia del beffardo e del beffato, il modo dell’inconciliabile. Ligurio: “Tu, io, i denari, la cattività nostra, la loro”. L’anfibologia
vale tra gl’impersonaggi, ciascuna volta, e per ciascun personaggio. Da
qui procedono le maschere, la favola e i tipi, senza il fatto né la sua
riproduzione drammatica o giudiziaria né la sua economia, senza la
scoperta progressiva e successiva, senza la rivelazione. Anfibologia di
Callimaco e del garzonaccio: l’innamorato è il soldato, che, però, ora non
muore più. Lucrezia: dall’ombra al colore e alla luce, e dall’anfibologia
al tempo e alla piega, senza più incesto. Lucrezia: o dell’atto di parola.
E messer Nicia? Il nonno conferma il figlio. Nessuna corrispondenza tra
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la fama e la verità. Rarissime volte, comunque, la fama è assai minore
della verità. Tanto per la favola. Lo schermo giunge mai alla causa di
verità? Callimaco si trova lontano tanto dallo schermo quanto dalla
causa, entrambi sfuggono alla sua presa. Anche la verità. La disperazione, nel suo atto, è l’ironia. Senza soggetto. L’amore e l’odio procedono
dall’ironia. “Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. Il governo del
tempo, il tempo governante. Leggete la canzone dopo il primo atto: le
armi dell’amore e della lussuria. Il discorso della morte si definisce come
discorso dell’amore e come discorso della guerra: assurdo il discorso
come causa; la sua vanificazione. Come il pubblico, il coro ribadisce,
ciascuna volta, nella canzone, la teorematica e l’assiomatica. Leggete la
canzone dopo il secondo atto: il proverbio introduce la fantasmagoria
zoopolitica dell’asino volante, soggetto automa, il dottore in legge, il
solo in grado di rispettare il finalismo procreativo. Apparentemente.
La mandragola. Anfibologia: rimedio-veleno, fecondazione-infezione, renovatio-morte, filiazione-rovina. Ossimoro, da cui procedono la
lussuria e la diplomazia: nessuna sostanza, nessuna finibilità del tempo,
nessuna animazione. Il garzonaccio deve proprio morire? Si prospetta
proprio il “caso da Otto”? L’eutanasia del garzonaccio? O di Callimaco?
Niente eutanasia. Niente morte bianca. Nemmeno di Nicia. La
mandragola: dall’anfibologia alla particolarità della parola, alla cifra
della vita. La droga del principe, anziché il principe droga. E non c’è più
incestagogia. Lo ius primae noctis, l’infezione, l’incesto, il sangue. Poi:
la filiazione genealogica, la procreazione, la riproduzione della specie.
Lo ius primae noctis: l’economia del sangue fonda l’economia dell’incesto. Tutto ciò, il discorso della festa lo avanza nel discorso politico. Tutto
ciò si dissipa nella Mandragola: e la società non è più incestagogica. Lo ius
primae noctis: impossibile fondare la prima volta, impossibile fondare
l’atto, nessun atto sull’atto, nessun pettegolezzo, nessun sapere sul fare,
che dia la procreazione come la quintessenza della salvezza dello stato.
Lo ius primae noctis rappresenta l’erotizzazione dello stato e della
politica, l’ideologia della procreazione, il matricidio, la coppia gnostica
becco-amante. La Mandragola: o della lussuria in atto, del matrimonio,
della sua diplomazia. Nessun personaggio autobiografico, nessuna
autobiografia; l’autore non è personaggio e neppure statuto nel dispositivo. Callimaco, Nicia e Timoteo: gli statuti del tu (lo specchio), dell’io
(lo sguardo) e del lui (la voce), e parodie, rispettivamente, di Apollo, di
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Dioniso e di Nessuno. Mai tipi sociali né psicologici né archetipi.
Callimaco, il despota impossibile: come potrebbe togliere lo specchio
come causa per fondare la specularità? Nicia, il tiranno impossibile:
come potrebbe togliere lo sguardo come causa per fondare la
spettacolarità e la visione pura? Timoteo, il vampiro impossibile: come
potrebbe togliere la voce come causa per fondare il finibile e il significabile?
Come Bernardo Machiavelli, come Pier Soderini, messer Nicia è
uomo di legge. Inassimilabile a loro. Irrisione per il borioso candore
legalistico, come per il prestigio che il latino gode alle sue orecchie.
Messer Nicia ha una dotta soluzione legale o morale o politica per tutto.
Apparentemente. È, apparentemente, l’uomo dallo psicofarmaco scientifico, tratto direttamente dall’arte liberale. Propriamente, avviene come
se messer Nicia sapesse investendosi dello stato di nonno, ma come se
non avesse bisogno di sapere. Non c’è mai — né per lui né per il pubblico
né per gli altri impersonaggi — il sapere sessuale. La favola non è erotica
e non ha bisogno di erotismo. Messer Nicia: “Come io ebbi veduto che
gli era sano, io me lo tirai drieto ed al buio lo menai in camera; messi a
letto, e innanzi mi partissi, volli toccare con mano come la cosa andava,
ché io non sono uso ad essermi dato ad intendere lucciole per lanterne”.
Il tiranno non solo prende le lanterne per lucciole, ma le lucciole
diventano, nelle sue mani pulite, putridi vermi. La posizione pregiudiziale
di messer Nicia rimane compresa nel suo apparente naturalismo lucidissimo fatto di legalità e di moralità, di diffidenza radicale, di buona
coscienza comune. Egli è per la presa di coscienza, per le idee chiare e
distinte, per la deontologia del professionista e del funzionario della
provincia Italia. Apparentemente. Tanto vale per le facezie che costellano la favola. Pare che messer Nicia creda più al medico che al confessore.
Pare che creda. Pare. La donna mal coperta. La regina di Francia. Il
garzonaccio prende a sé l’infezione della mandragola esercitando lo ius
primae noctis? Dopo questa fine del tempo — tale la sanzione dello ius
primae noctis — l’economia ordinaria dell’incesto è assicurata e la
politica può inscriversi nella semiologia? La favola sfata tanto la religione della droga quanto la religione dell’incesto.
Callimaco: “Oh benedetto frate! Io pregherò sempre Dio per lui!”.
Ligurio: “Oh buono! Come se Dio facesse le grazie del male, come del
bene. Il frate vorrà altro che preghi”. Fra’ Timoteo accetta, per il bene
comune, la somministrazione del farmaco o per l’aborto o per la procre-
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azione, accetta il travestimento politico, studia il caso sui libri, osserva
il segreto di stato, come messer Nicia; disprezza le donne, conferma
Lucrezia nella volontà di bene, nel bene come fine. Le figlie di Loth. Il
mistero dello strumento, la lussuria. S’immagina la cura che tutti hanno
del bene comune, s’immagina pure la notte di Callimaco e di Lucrezia e
aspetta tutti alla chiesa, “dove la mia mercanzia varrà di più”. Fra’
Timoteo: “Callimaco e madonna Lucrezia non dormiranno, perché io so,
se io fossi lui e se voi fussi lei, che noi non dormiremmo”. Pietro Bembo,
poi cardinale, trova nelle case dei frati, “molte volte, tutte le umane
scelleratezze coperte da diabolica ipocrisia”. Di ciò che scrive dei frati
Leonardo abbiamo riferito altrove e anche di ciò che ne scrive Guicciardini.
Con Machiavelli, l’irrisione dei frati e dei medici è l’irrisione verso
l’economicismo, altra faccia del naturalismo dello stato e dell’individuo.
Mai ironia morale l’irrisione, mai sociale la beffa e mai politica la satira.
La relazione non fonda né forma la società e la politica. Non è sistema
morfologico dinamico di relazioni. E Ligurio come Fabrizio Colonna?
“Io voglio essere el capitano, e ordinare l’esercito per la giornata”.
Ligurio conduce il gioco, dirige la partita, prevede interamente l’esito?
Scenografo, storico o giornalista? Le carte sono scoperte, s’intrecciano e
s’intersecano a modo loro e altrimenti. Parodiando il ruolo del miles
gloriosus, Callimaco racconta della notte senza segreto e riferisce le
parole di Lucrezia: e ciò basta perché resti il dubbio che pure lui,
Callimaco, sia preso nella beffa. Chi è il beffatore? Chi è il beffato? La
beffa enuncia a sua volta il modo dell’inconciliabile e il dispositivo
artificiale viene restituito dalla favola, anziché dominarla. Messer Nicia
non è una vera vittima della beffa. Da Lucrezia a Clizia, l’enigma donna
è l’enigma della differenza, finché la mandragola risulta la cifra della
lussuria e della favola, la cosa intellettuale. Lucrezia sembra man mano
definirsi per astrazione. “Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come
una lepre”. Per fuggire o per intervenire? Dice a fra’ Timoteo: “Che cosa
mi persuadete voi?”. Quindi, nessuna persuasione, né occulta né palese.
Si enuncia l’ipotesi, l’abduzione. Lucrezia subisce qualcosa? Manifesta
questo genere di complicità? Messer Nicia: “Ella pareva iersera mezza
morta”; “Guarda come ella risponde! La pare un gallo”. La lepre, il gallo.
Lucrezia interviene come imprenditrice o come regista? Lucrezia segna
il destino della virtù. Non accetta il vituperio e nemmeno la morte di un
uomo in cambio del vituperio. La proposta le viene dalla madre,
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Sostrata. Lucrezia: “io non crederrei, se io fussi sola rimasa nel mondo
e da me avessi a resurgere l’umana natura, che io mi fussi simile partito
concesso”. L’idea di palingenesi è materna. Tutte le donne scomparse,
rimasta l’unica donna. Ma la morte è improbabile e senza incesto la
lussuria. Luigi Pirandello scrive, da giovane, il suo poemetto Belfagor e
assiste, con straordinario interesse, alla Mandragola, cui resta il solo in
Italia a dare un seguito. Carlo Goldoni, diciassettenne, legge la Mandragola
e se ne entusiasma, colpendola però con severa riprovazione moralista.
Riccardo Bacchelli stima “il sempre straordinario e spregiudicatissimo
Machiavelli”, “sempre singolarissimo”. Bacchelli ammira l’ironia, lo
stile, l’intelligenza di Machiavelli, segnatamente nella Mandragola, e
nota come la pagina del Valentino risponda più alla favola sublime che
alla pura concezione politica. Machiavelli, “dalla vocazione poetica
tanto più geniale quanto men desiderata e compiaciuta”. E ancora:
“Machiavelli è grande, nobile e sano, in questo: che, insegnando l’inganno politico, distrugge l’ipocrisia morale”.
Una facilissima sociologia universitaria stravede nella Mandragola il
sovvertimento dei valori borghesi della famiglia e nella Clizia il ritorno
agli stessi valori borghesi della famiglia. La Mandragola, quattro ristampe, vivo Machiavelli. Una delle rappresentazioni ha le scene dipinte da
Andrea del Sarto e da Aristotele da San Gallo. La Clizia viene rappresentata il 13 gennaio 1925, scene dipinte da Bastiano da San Gallo. Nessun
ricalco della Clizia dalla Casina di Plauto, nessuna riduzione, nessun
riflusso. L’edipismo, apparente, viene travolto dal sarcasmo, dall’equivoco, dal carnevale, dalla vasta gamma dei malintesi. Buffo il finale.
Senza deus ex machina normalizzante. Frettolosa improvvisazione, la
Clizia, dettata dalla circostanza? La Clizia segue al Dialogo della lingua e
alle Istorie fiorentine. Lo storicista se ne ritrae, infastidito. Clizia non
parla: ora sembiante e il suo schermo ora mito e leggenda, come pure
enigma della differenza: “questa favola si chiama Clizia, perché così ha
nome la fanciulla che si combatte”. Inassegnabile come premio del
combattimento. Questa la portata stessa del finale, senza riscrittura di
Plauto. I miti di Elettra, di Mirra, delle figlie di Loth, e non solo la Casina
di Plauto, stanno sullo sfondo del mito di Clizia, senza più matricidio,
senza la possibilità che l’assemblea si tramuti in Areopago o in cerimoniale gnostico. L’assemblea sorge per il dispositivo artificiale e dipende
dal diritto dell’Altro. Clizia: simultaneità fra quanto si traduce, quanto si
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trasmette e quanto si traspone; importa il varco da una struttura all’altra
e come ciascuna struttura si scrive. L’automagrafia non ha nulla di
automatico. Questione di lingua, di dispositivo e di diplomazia. La Clizia
integra, a suo modo e nel suo modo, anche l’Andria, anche la Mandragola
e il resto, ciò che resta del testo. Altra l’adiacenza. Niente soggiacenza.
L’adiacenza è l’Altro. La Clizia è anche una lettura della Mandragola,
sorge dal suo compimento e dal compimento delle Istorie. La favola si
costituisce oltre le storie, nell’intervallo fra la legge e l’etica. La mitologia
del matricidio fonda la politica salvatrice, incestagogia, fabbrica
procreativa sempre più pura, riproduttiva della specie-stato, politica
magistrale quanto materna, aristotelica e hegeliana. La Clizia trae la
lezione della Mandragola nel proprio messaggio, alla punta della scrittura della politica del tempo, e risulta la cifratica della vita civile e politica.
Mandragola: “Oh buono! Come se Dio facesse le grazie del male come del
bene!”. Clizia: “O vecchio impazzato! Vuole che Dio tenga le mane a
queste sue disonestà!”. La divinità pagana che presieda al bene e al male,
al positivo e al negativo componendoli, conciliandoli, assumendoli nella
propria superiore unità è estranea al testo di Machiavelli. Sofronia a
proposito di fra’ Timoteo: “Gran miracolo, un frate ingravidare una
donna! Miracolo sarebbe se una monaca la facessi ingravidare!”. Sofronia
fraintende il miracolo e escogita subito la fantasmagoria del regno di
Gomorra: il femminilismo è il fondamento della procreazione, la sua
forma principale, la politica fra sole donne, la luogocomunicazione
autorinnovantesi, il cerchio materno. Leggete il prologo: il caso risente
dell’unico, cento anni, nessuna metempsicosi, il caso di qualità, ciascuna
volta è l’altra volta, senza ritorno, assai casi e strani accidenti. Firenze
doppia Atene? Il fiorentino doppia forse il greco? Voi intendete nella
vostra lingua. Il caso: senza l’appartenenza al casato e alla categoria,
senza la conoscenza del male di Atene o di Firenze. Atene rovinata,
irriconoscibile, il caso proviene da Firenze. Chi vagheggia Clizia non la
vede sul palcoscenico durante il prologo. E nemmeno dopo. Per onestà.
Vana l’attesa di vederla. La fanciulla che si combatte. L’annunciazione
è senza fenomeno. Il fatto non esiste se non come idea che qui rimane
immaterna, e i vizi, anziché comporre una zoologia sociale negativa,
profittano all’ossimoro. Favola dall’“onestà grandissima”. E l’autore?
“Uomo molto costumato”. Il vecchio, tutto pieno d’amore, il giovane
innamorato, il servo, il fattore. Dove sta l’amore? Dove la condizione
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dell’innamoramento? L’impossibile della commedia è costituito già
dall’inconiugabile dell’amore. Cleandro: “Fantastico no, ma innamorato sì”. Il dubbio resta, ironico. L’animale fantastico anfibologico —
l’innamorato — viene tratto nell’ironia. Da qui procede il viaggio,
inspettacolare, fino al caso. I “nomi fitti”. Lungo la via della finzione,
dell’equivoco, dell’artificio. Il carro artificiale: fugato il carico, sfumato,
vanificato; il ricordo non pesa; imponderabile, imperpendicolare,
impreponderante la memoria. Chi è l’innamorato? Palamede: “se tu gli
parli, e’ pone una vigna”. Animale fantastico la donna nel discorso
amoroso, secondo Palamede: come cantoniera, assassina troppo o caccia
di casa; come donna da bene, procura dolori per le mille invidie, mille
gelosie, mille dispetti; l’una o l’altra, comunque, domestica. L’animale
fantastico può forse rappresentare l’Altro nel due, nella dicotomia
positivo-negativo? Può fare del due il doppio dell’uno e la forma
dell’Altro? Il discorso amoroso è il discorso della guerra: l’assurdo
indica l’innegabile dell’originario e l’assenza della commedia e della
tragedia; niente sentimentalità comica o tragica. Cleandro, l’amore
straordinario, il desiderio impossibile: l’impedimento “hammi fatto e fa
tanta guerra che io vivo con più affanni che se io fussi in inferno”. Anche
Nicomaco, il padre di Cleandro, è innamorato. Questa la ballata dell’amore e dell’odio inassumibili. L’agguato virtuale di Nicomaco viene
guastato dall’industria di Sofronia, e non solo. Cleandro: Pirro “è omo
che mi ebbe sempre in odio; di modo che io vorrei che l’avessi piuttosto
el diavolo dello Inferno”. L’innamorato e il soldato. Quale impresa?
Quale battaglia? Quale vittoria? “Il soldato muore in una fossa, lo
amante muore desperato”. Ma “nuovi accidenti m’arrecheranno nuovi
consigli e nuove fortune”. Nicomaco, il vecchio soldato innamorato?
“Ma io non sono ancora sì vecchio che io non rompessi una lancia con
Clizia”. Iddio e il diavolo si volgono contro lui. Sofronia continua la
parabola della guerra: “Ognuno le ha posto il campo intorno”. Le
bagattelle impediscono che la favola sia del popolo. La favola: senza
dominatore e senza dominato. Il capitale è quello di Eustachio o della
favola, mentre politico risulta il dispositivo della giornata. L’anfibologia
di Nicomaco viene enunciata dalla moglie, Sofronia: savio-pazzo. Lo
scrittoio, a casa. Il figlio: “con qualche esemplo antico e moderno
gl’insegnava vivere”. Come evitare ora la rovina, dato che il capitano è
impazzito? A Nicomaco, Cleandro sembra né morto né vivo e pazza
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Sofronia. Nicomaco: “Di che diavol t’intendi tu?”. Cleandro: “Non di
cotesto”. La pazzia, il diavolo, l’inferno, la tresca. Cleandro dice di
Nicomaco: “parmi che gli sia entrato el diavolo addosso”. Chi è il rivale?
Cleandro dice che è il padre. E aggiunge: “io amo Clizia come sorella”.
L’edipismo si dissipa: Clizia non è figlia di Nicomaco né sorella di
Cleandro. Eustachio: “ In questa terra chi ha bella moglie non può essere
povero; e del fuoco e della moglie si può essere liberale con ognuno,
perché quanto più ne dai più te ne rimane”. Lo dice a Nicomaco,
coinvolgendo il suo affare con Pirro. L’adagio vale da sarcasmo del
lenone. Chi è il nemico e chi l’amico in questa giornata? L’intrigo è senza
il fatto. La fortuna sembra amica dei vecchi? Dovrebbe vergognarsi?
Come un tiranno dinanzi a un cittadino, la fortuna sembra togliere a
Cleandro la roba e la donna? Nicomaco prende la droga dalle virtù
afrodisiache, la droga del capitano: “Quando si va armato alla guerra, si
va con più animo la metà”. Il carnevale, il travestimento: dove sta la
maschera? Chi potrebbe indossarla? Chi accetta la divisa? Chi piange e
chi ride? Nicomaco: “poi ch’io presi el cibo, io mi sento gagliardo come
una spada”. Arriva Ramondo da Napoli: ecco le nuove nozze. Sofronia
si rivolge agli spettatori. Clizia: da sembiante, irraggiungibile dall’amore e dall’odio, alla lingua diplomatica, alla cifra della favola e del testo.
Capitolo conclusivo del libro Niccolò Machiavelli
di Armando Verdiglione, Spirali/Vel 1994
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