La responsabilità degli adolescenti

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La responsabilità degli adolescenti
LA RESPONSABILITÀ DEGLI ADOLESCENTI
Chiara Berti
1. Introduzione
Il termine “responsabilità” indica che qualcuno deve rispondere delle sue azioni a qualcun
altro, sulla base di norme vigenti in un dato contesto. Il termine “responsabilità” si riferisce
anche ad una aspettativa secondo la quale per ogni azione sia sempre possibile individuare
qualcuno che ne risponda.
La responsabilità della quale si parla è quella delle azioni delittuose o delinquenziali
commesse da adolescenti.
L’ambiguità dell’espressione – la responsabilità degli adolescenti - permette di
considerare, allo stesso tempo, i due aspetti del tema: uno, quello dell’adolescente come
persona responsabile; l’altro, quello della responsabilità degli adulti e delle istituzioni nei
confronti degli adolescenti.
Di che cosa sono responsabili gli adolescenti e chi ha la responsabilità degli adolescenti?
Tali quesiti costituiscono declinazioni di quesiti più generali, che potrebbero essere così
formulati: quali sono i doveri di una comunità verso le persone che ne fanno parte e quali
sono le responsabilità di queste persone nei confronti della comunità? Le risposte a queste due
domande sono tra loro interdipendenti e sono filtrate attraverso i valori, gli orientamenti
ideologici e le concezioni di giustizia di ciascun individuo. Ciò vale per l’attribuzione della
responsabilità in generale, e per il caso specifico della responsabilità degli adolescenti e nei
confronti degli adolescenti che delinquono.
Le risposte in merito alla responsabilità hanno conseguenze sulle politiche sociali e
giudiziarie e, in specifico, sulla risposta istituzionale alla criminalità e devianza minorile.
La questione della responsabilità e in definitiva del modo nel quale la società dovrebbe
affrontare la criminalità e la devianza minorile può essere considerata da molteplici punti di
vista: dal punto di vista delle concezioni sulla giustizia sociale, dal punto di vista giuridico, da
quello politico e infine dal punto di vista dei risultati concreti (Steinberg et al., 2000).
Da un punto di vista generale, ci si può chiedere se un determinato intervento nei confronti
della devianza adolescenziale riesca a bilanciare, da un lato, la tutela dell’autore del reato, in
quanto minore e pertanto bisognoso di protezione, dall’altro, la difesa degli interessi della
vittima e il rispetto delle esigenze e delle attese della collettività.
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Da un punto di vista giuridico, ci si può chiedere se l’intervento sia conforme con quanto
previsto dall’ordinamento (dal punto di vista dei principi e delle procedure).
Secondo una prospettiva politica, la decisione su come intervenire scaturisce dalla lettura
delle domande provenienti dalla collettività, dalle previsioni su quale sia il modo migliore per
rispondere a tali domande, da quanto chi governa è in grado, voglia o abbia interesse a
soddisfare le richieste della società o di una sua parte.
Infine, le diverse opzioni nei confronti della criminalità e devianza minorile possono essere
valutate dal punto dell’efficacia a breve e a lungo termine. Anche in questo caso, l’efficacia
viene giudicata in relazione al tipo di obiettivo prefissato. Ci si potrebbe dunque chiedere
quale sia la scelta che meglio riesce a soddisfare in maniera equilibrata le legittime e allo
stesso tempo conflittuali aspettative di sicurezza sociale, retribuzione, deterrenza e
riabilitazione.
I luoghi nei quali si discute sulla responsabilità dei minori e verso i minori sono molteplici:
non soltanto quelli nei quali vengono decise le politiche (sociali, giudiziarie, educative) e
quelli del dibattito scientifico. La responsabilità degli adolescenti è anche al centro dei
discorsi “laici”: i discorsi fatti nei bar, in treno, i discorsi espressi e veicolati dai mezzi di
comunicazione di massa.
Discorso “scientifico” e discorso “laico” contribuiscono alla creazione di una
rappresentazione sociale della responsabilità degli adolescenti e, in particolare, di quegli
adolescenti che commettono dei reati e orientano, con peso oscillante, le risposte istituzionali
alla devianza.
Questo testo presenta, nella prima parte, alcune riflessioni sulla responsabilità degli
adolescenti che delinquono e sulla risposta giudiziaria nei loro confronti. Dopo avere descritto
ciò che prevede l’ordinamento giuridico italiano in tema di responsabilità dei minori (par.2.1),
vengono illustrate e discusse le recenti proposte di modifica della giustizia minorile alla luce
del dibattito “laico” e delle tendenze culturali sulla criminalità degli adolescenti e di alcuni
mutamenti da tempo in atto negli Stati Uniti nell’ambito della giustizia dei minori (par.2.2).
L’assegnazione della responsabilità degli adolescenti che commettono crimini (e le
conseguenti risposte sociale e giudiziarie) sono anche analizzate in relazione alle concezioni
di giustizia sociale (par.2.3).
La seconda parte di questo testo affronta il tema della responsabilità degli adulti nei
confronti degli adolescenti, alla luce di alcune recenti teorie della devianza (par.3.1). La prima
responsabilità degli adulti è quella dell’educazione e, con questa, quella della prevenzione
delle condotte antisociali. Su tutti gli adulti ricade questa responsabilità. Sugli insegnanti
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ricade una ulteriore responsabilità, in virtù della loro posizione di rappresentanti istituzionali:
quella della costruzione della fiducia nei confronti delle istituzioni. La percezione della
legittimità istituzionale è considerata uno dei fattori antecedenti il rispetto delle norme sociali
e delle leggi.
2. Adolescenti e responsabilità
2.1 La responsabilità nell’adolescenza per il sistema della giustizia
Per il sistema della giustizia, l’attribuzione della responsabilità di un’azione richiede che il
suo autore, nel momento in cui l’ha messa in atto, fosse consapevole del suo disvalore sociale
e giuridico, di prevederne e comprenderne le conseguenze e di dirigere e regolare con
sufficiente autonomia il proprio comportamento. Pertanto, è imputabile solo chi, al momento
in cui commette un atto, sia “capace di intendere e di vole re”. La persona che ha compiuto i
diciotto anni è sempre presunta possedere tali capacità – a meno che non sia dimostrata la
presenza di condizioni che possano averle attenuate o annullate – e deve pertanto rispondere
sempre delle sue azioni. Al contrario, il minore di quattordici anni non è mai imputabile
perché si ritiene che la sua condizione di sviluppo non consenta una sufficiente capacità di
“intendere e volere”. Tra il quattordicesimo e il diciottesimo anno di età, tali capacità vanno
accertate caso per caso, dal momento che i tempi e i modi della loro acquisizione possono
essere differenti da persona a persona.
L’imputabilità è dunque valutata in relazione al grado di maturità evolutiva raggiunta dal
minore. Mentre nel caso della capacità di intendere e di volere degli adulti, l’incapacità è
generalmente collegata a una condizione di infermità mentale e il sapere chiamato in causa è
esclusivamente quello psichiatrico, nel caso dei minori, l’immaturità è una condizione
transitoria, non patologica e collegata all’età.
Sull’utilizzo della categoria della maturità ai fini della determinazione della capacità di
intendere e di volere si è acceso ormai da anni un dibattito che ha visto la messa in
discussione sia dei costrutti stessi di immaturità e incapacità, sia la possibilità di concepire
una relazione lineare tra l’uno e l’altro: il concetto di maturità evolutiva non può essere
considerato come un equivalente della categoria giuridica della capacità di intendere e di
volere. Secondo De Leo (1982), non è possibile identificare quale sia il grado di maturità
necessario perché una persona possa comprendere l’antigiuridicità di un fatto. Chi, ad
3
esempio, ha una maturazione “normale” per la sua età, potrebbe non essere ancora capace di
dirigere e comprendere il proprio comportamento; inoltre, un livello di maturità considerato
basso, non si connette automaticamente all’incapacità di riconoscere il disvalore morale e
giuridico di un’azione, né la sua riprovazione sociale. A ciò va aggiunto che i concetti di
natura evolutiva, come quello della maturità, sono destinati a mutare nel tempo, sia perché
cambiano i processi di crescita e di maturazione degli individui sia perché si evolvono le
concezioni e le rappresentazioni stesse su tali processi.
Già da anni, nel dibattito critico sul tema dell’imputabilità si è osservata una attenzione
crescente verso il tema della responsabilità. Il problema della responsabilità si libera e si
differenzia rispetto alla questione dell’imputabilità. Ad una concezione della responsabilità,
intesa come capacità di rispondere del reato, si accompagna una concezione della
responsabilità vista come obiettivo da costruire attraverso specifici progetti d’intervento. Oltre
alle competenze possedute da minore al momento del reato, vanno individuate quelle
competenze che si possono sviluppare nel corso del procedimento giudiziario, in termini di
consapevolezza delle conseguenze del reato e di assunzione di impegni nella vita futura. Non
si tratta di stabilire quanti e quali livelli di capacità siano richiesti per l’assunzione della
responsabilità dal momento che i minori non risultano mai totalmente privi dei requisiti da
base per sviluppare responsabilità. Si tratta piuttosto di una questione di “formato di
responsabilità”. Con lo sviluppo, tale “formato” si estende e diventa sempre più complesso
(De Leo, 1996).
Alla capacità potenziale di confrontarsi con le proprie azioni hanno guardato coloro che
hanno contribuito alla stesura dell’attuale processo penale minorile (D.P.R. 448/88), un
processo che accanto alla “minima offensività” – evitare cioè che il procedimento penale
costituisca una ulteriore condizione di rischio per il minore – esprime una “attitudine
responsabilizzante”, assegnando cioè al processo una valenza educativa sul piano della
crescita personale del minore autore di reato.
Gli schemi interpretativi che considerano la devianza una condizione determinata da
carenze individuate sul piano biologico, psicologico o sociale hanno ceduto il passo a
concezioni che pongono maggiormente l’accento sulle capacità di autodeterminazione e
autorganizzazione individuali. Ai modelli che spiegano la devianza con il fallimento dei
processi di socializzazione, si sono affiancati modelli più complessi che mettono in risalto
l’interazione sociale e la scelta personale. Al centro di questi modelli sta una concezione di
individuo come “soggetto attivo” non più e soltanto determinato da fattori interni o eventi
esterni, espressione passiva di un destino (Berti, 1997).
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Il maggiore ruolo assunto, nelle recenti interpretazioni della devianza, dalla capacità di
scelta si riflette nel dibattito sulla questione della responsabilità nell’ambito della giustizia
minorile. Presupporre una scelta comporta infatti un riconoscimento di responsabilità di
azioni, seppur e limitate o con altri condivise. Riconoscere la responsabilità significa
sollecitarla, pretendere e consentire che essa si sviluppi. La sanzione penale è rivolta alla
capacità dell’adolescente di rispondere dell’azione commessa con l’obiettivo di favorire
un’assunzione di responsabilità.
Nel complesso, le norme giuridiche del nostro ordinamento, in tema di responsabilità dei
minori, mandano messaggi contraddittori, oscillando tra la negazione della capacità di
assumersi responsabilità in determinati camp i (ad esempio, facendo ricadere la responsabilità
sugli adulti, nel caso di danni provocati a terzi, oppure non consentendo di ricevere donazioni
prima dei 18 anni) e il riconoscimento del diritto e della capacità di prendere decisioni in
merito alle questioni che li riguardano (come, ad esempio, previsto dalla vigente normativa
che regola l’iter processuale dei minori1 ).
L’ambiguità degli ordinamenti giuridici e delle giurisprudenze – quelle italiane comprese –
in materia di attribuzione di responsabilità degli adolescenti riflette il fatto che tale processo è
il prodotto di una “negoziazione” tra posizioni opposte ed esigenze talora in conflitto: la tutela
del soggetto in età evolutiva, il riconoscimento delle sue competenze, la sua
responsabilizzazione e la promozione del suo sviluppo, da un lato2 ; la sicurezza della
collettività e il risarcimento delle vittime, dall’altro.
Secondo Steinberg e Schwartz (2000), l’ambiguità delle norme riflette il fatto che il
confine tra adolescenza e condizione adulta è definito spesso in relazione alle esigenze
presenti in un dato periodo e contesto sociale, così come osservano gli storici dell’adolescenza
(Enright et al., 1987). Le teorie sulla psicologia dello sviluppo, secondo i due autori,
costituiscono solo delle fonti di legittimazione post hoc che vengono utilizzate come razionale
per giustificare leggi che sono emanate in vista di determinati scopi sociali. Il confine
cronologico tra adolescenza e vita adulta si sposta in relazione alle mutevoli esigenze presenti
in un dato momento storico. Le regole della responsabilità in età evolutiva cambiano pertanto
al cambiare delle concezioni su chi sia il minore e queste stesse concezioni mutano, al mutare
delle esigenze della società. Come ricorda Palmonari (2001), l’adole scenza comincia nella
biologia e finisce nella cultura e nella società.
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2.2 Il dibattito laico sulla criminalità adolescenziale e recenti orientamenti della giustizia
minorile
In Italia, negli ultimi mesi, la stampa, i telegiornali e i talk show si sono occupati di alcuni
delitti compiuti da adolescenti. Lo hanno fatto, ricostruendone in maniera meticolosa la
meccanica e intervistando esperti – psicologi, psichiatri, criminologi, sociologi – che hanno
cercato di spiegare al pubblico le ragioni di tali crimini.
La risonanza mediatica di certi episodi contrasta con la loro irrilevanza dal punto di vista
numerico e della loro effettiva minaccia per la sicurezza della collettività. Tuttavia, il carattere
particolarmente efferato di questi delitti, unito al fatto che siano stati compiuti da adolescenti,
ha colpito e coinvolto profondamente l’opinione pubblica. Ci si può chiedere se il dibattito
pubblico abbia favorito lo sviluppo di una migliore conoscenza delle caratteristiche
dell’antisocialità in età adolescenziale o se, al contrario, non abbia provocato la creazione e la
diffusione di una rappresentazione distorta e potenzialmente dannosa del fenomeno. É
probabile che il sensazionalismo che ha spesso segnato l’informazione e il dibattito su questi
delitti abbia contribuito in realtà ad alimentare l’allarme sociale per la criminalità minorile e a
sovrastimare la gravità del fenomeno. Può accadere infatti che azioni particolarmente violente
– quelle delle quali si occupa la cronaca -finiscono per essere consid erate rappresentative
dell’intero fenomeno della devianza adolescenziale: certi episodi perdono il loro carattere di
unicità (e “irripetibilità”) e vengono presentati come se esprimessero comportamenti abituali e
tipici di quella fascia di età. Tutto ciò contribuisce alla costruzione di una rappresentazione
sociale della devianza adolescenziale (e dell’adolescenza stessa), una rappresentazione la
quale, a sua volta, può generare stato di allarme, percezione di insicurezza e la conseguente
richiesta di una risposta più incisiva da parte delle istituzioni.
In effetti, in Italia, negli ultimi tempi sembra essere cresciuto l’allarme per la criminalità
minorile, nonostante il fatto che, contrariamente a quanto avvenuto in alcuni paesi, come, ad
esempio, Usa, Canada e Inghilterra, il tasso della criminalità sia rimasto costante, se non
addirittura diminuito. Il fervore con cui una parte dell’opinione pubblica chiede di vedere
puniti con la massima severità gli autori dei crimini può spingere i legislatori a intervenire e
accogliere queste istanze.
Già diversi anni fa, in un’epoca immediatamente successiva all’introduzione della nuova
procedura penale minorile, Pitch (1989) affermava che
“la diversità e la separatezza della giustizia minorile, se hanno dato luogo ad ambiguità,
discrezionalità, attenuazione delle garanzie giuridiche, hanno finora permesso e legittimato (…) un
esercizio della repressione penale molto limitato. E tuttavia, la non esplicita rinuncia al carcere, le
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resistenze ad operare sul piano della decriminalizzazione (sul versante delle politiche), insieme al
convivere di istanze rieducative e competenze assistenziali, rendono la giustizia minorile comunque
soggetta al rischio di oscillazione in rapporto al mutare del clima prevalente in tema di controllo e
difesa sociale” (p.132).
Un mutato clima in tema di controllo e difesa sociale sembra fare in effetti da sfondo alla
proposta di modifica del procedimento penale minorile contenuta nella legge di iniziativa
governativa “Modifiche alla composizione e alle competenze del tribunale penale per i
minorenni”, presentata alla Camera l’8 marzo 2002.
Complessivamente, la proposta di riforma caratterizza la giustizia minorile in senso più
repressivo ed esprime quella tendenza alla ricarcerizzazione e alla riscoperta alla efficacia
preventiva della privazione della libertà allo scopo prevalente di difesa sociale. Lo
spostamento repressivo è espresso dall’inasprimento delle pene e dalla diminuzione delle
garanzie attualmente previste per il minore imputato e dalla selezione dei casi per la messa
alla prova sulla base del tipo di reato e non sulla personalità del minore.
La relazione del ministro della giustizia introduttiva al disegno di legge sembra esasperare
l’allarme sociale oltre le evidenze fornite dalle statistiche ufficiali. Emblematico del mutato
clima, è il fatto che mentre, fino ad oggi, l’ordinamento ha cercato di essere tollerante verso
devianza e delinquenza dei più giovani, privilegiando il recupero, oggi c’è una forte tendenza
contraria che si esprime nella richiesta, espressa da un’altra proposta di legge, di ridurre
l’imputabilità a 12 anni, come già previsto dagli ordinamenti di altri paesi europei, e di
interventi punitivi in carcere.
Tale proposta e l’intero disegno di riforma della giustizia minorile sembrano porsi in
contrasto sia con le fonti normative sovranazionali3 sia con lo spirito e i principi che hanno
guidato la stesura della vigente normativa processuale per i minorenni (De Leo et al., 2002).
Secondo Prina (2002), giudice onorario del Tribunale per i Minorenni di Torino,
l’impostazione della questione della giustizia minorile, quale è consegnata dai disegni di legge
del governo, costituisce un esempio illuminante di una concezione dell’iniziativa legislativa
concepita come risposta a rappresentazioni semplicistiche di problemi complessi, con
l’obiettivo di ricercare il consenso politico.
Da parte della magistratura minorile, si è parlato di una destrutturazione della giurisdizione
preposta alla tutela dei diritti dei minori. In particolare, in un documento del 4 maggio 2002,
l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (AIMMF) sottolinea
che
“risulta del tutto inefficace per porre freno alla delinquenza dei minori una maggiore
caratterizzazione della materia penale in senso punitivo. I dati statistici confermano che non
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sussiste nessuna situazione di emergenza o di particolare gravità delle condotte, salvo quelle del
tutto eccezionali ben note e discusse; l’Italia, nel panorama europeo registra statisticamente il
minor numero di denunce penali a carico dei minorenni, anche nel confronto con paesi che
prevedono l’imputabilità con inizio inferiore ai 14 anni; recenti studi confermano, altresì, che non
esiste neppure una questione di devianza degli infraquattordicenni, in quanto risulta dimostrato che
il numero dei denunciati appare del tutto fisiologico e che i reati commessi non destano particolare
allarme sociale”.
Alla luce di questi rilievi i magistrati dell’AIMMF ritengono ingiustificate le proposte di
modifica, in senso più punitivo, della giurisdizione minorile contenute nel disegno di legge
del ministro di giustizia; auspicano, al fine di prevenire la criminalità minorile, che siano
rafforzate e rilanciate le iniziative ed i progetti a livello territoriale da parte degli enti locali e
delle organizzazioni sociali, con opportuni piani di finanziamento nella programmazione
regionale4 .
Le proposte di legge presentate in Italia riflettono delle tendenze da tempo in atto negli
Stati Uniti. In questo paese, il dibattito sulla questione criminale è già da alcuni decenni
caratterizzato da una rinnovata fiducia verso politiche retribuzioniste, fondate sul principio
della pena meritata (just deserts). Tradizionalmente auspicata dai conservatori, la politica del
just desert, nei primi anni Settanta è stata al centro di un pacchetto di raccomandazioni
elaborato dall'American Friends Service Committe Working Party (1971), una organizzazione
liberal impegnata nella difesa delle garanzie giuridiche e dei diritti civili contro quelle misure
che accrescevano la discrezionalità, l'arbitrio e l'ineguaglianza nell'irrogazione delle pene.
Comune ai critici di "destra" e di "sinistra" è la concezione del criminale come soggetto
consapevole: mentre i primi recuperano l'idea della deterrenza, i secondi insistono per una
risposta penale rispettosa della personalità dell'autore e che non cerchi di modificarla. La
sfiducia nei confronti della riabilitazione è alla base delle politiche retribuzioniste: inutili a
prevenire la deterrenza e troppo costosi per i conservatori, i progetti riabilitativi sono criticati
anche dai liberal quando esprimano tendenze terapeutizzanti e totalitarie, quando la risposta si
sposta dall'azione all'autore del reato (Pitch, 1989).
In ambito minorile, a quasi un secolo dalla istituzione del primo tribunale per i minorenni
(Chicago, 1899), si sta verificando una inversione di tendenza rispetto a quel movimento che
aveva portato alla separazione della giustizia minorile da quella ordinaria. In molti stati
nordamericani si osserva infatti una tendenza a equiparare il delinquente minorenne a quello
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adulto e a reintrodurre una concezione retributiva della giustizia: al minore non si chiede più
di rispondere sulla base dei suoi bisogni ma in proporzione alle sue responsabilità.5
Un altro fattore che ha contribuito a una progressiva riduzione delle differenze tra il
sistema minorile e quello degli adulti è l’introduzione del “giusto processo”, un sistema di
garanzie, sul piano procedurale, per tutelare i minori dagli arbitri delle corti. Con la sentenza
In re Gault del 1967, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che le procedure dei tribunali
minorili avrebbero dovuto assicurare ai minori gli stessi diritti legali fondamentali garantiti
agli adulti. Per circa venti anni, questa sentenza non ha avuto conseguenze rilevanti. Dagli
anni ’80 inizia invece a un progressivo cambiamento del sistema della giustizia minorile:
diventano di competenza dei tribunali ordinari i reati più gravi commessi dagli older
adolescents e cambia la missione dei tribunali minorili per i casi che restano sotto la propria
giurisdizione. Si affermano infatti sempre di più tendenze punitive: il processo è pubblico,
vengono inflitte pene più severe, diminuisce l’età minima per essere processati, le pene
vengono definite secondo un criterio di proporzionalità alla gravità del reato e diminuisce in
questo modo il margine di discrezionalità del giudice.
In questo mutato contesto, acquista una grande importanza la valutazione della
“competenza del minore a partecipare al processo”. Fino agli anni ’70, questa nozione era
priva di significato. Nel procedimento a carico dei minorenni, lo Stato non agiva contro il
minore, ma nel suo interesse. In questa cornice di riferimento, non avevano ragione d’essere
le regole procedurali che avrebbero dovuto proteggere il minore da arbitri della corti come
non aveva importanza la valutazione della capacità di partecipare al processo dal momento
che un eventuale deficit di capacità sarebbe stato affrontato nell’ambito degli interventi di
riabilitazione (Grisso e Schwartz, 2000).
Secondo Feld (2000), le garanzie del giusto processo introdotte dalla sinistra, unite alle
politiche retribuzioniste volute dalla destra, hanno finito per rendere il sistema minorile, con
un meccanismo a spirale, sempre più duro e contraddittorio. Feld ricorda come, già trenta anni
fa, la Corte Suprema degli USA avesse osservato che il minore riceveva gli aspetti peggiori
del sistema minorile e di quello adulto: non otteneva il rispetto delle garanzie formali
accordate agli adulti e neppure quel trattamento di protezione e cura al quale avrebbe diritto in
quanto minore. Anche oggi, per Feld, i minori continuano a non ricevere né trattamento né
garanzie procedurali, ma punizione senza un giusto processo.
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2.3 Responsabilità e concezioni di giustizia
Emler e Reicher (2000) propongono una sospensione del giudizio - una sorta di moratoria
sui dibattiti sulla delinquenza minorile - fino a quando sia ancora vivo nell’opinione pubblica
il ricordo di episodi ad alto impatto emotivo. Una delle ragioni che suggeriscono questa
cautela è che i casi che coinvolgono l’opinione pubblica non sono generalmente
rappresentativi del fenomeno della delinquenza minorile e le considerazioni che si applicano a
questi casi non hanno alcuna rilevanza per la maggioranza delle manifestazioni delinquenziali
in età adolescenziale. Sarebbe piuttosto opportuno osservare quelle forme minori di
delinquenza, quelle che non suscitano allarme sociale, ma che comunque permetterebbero di
comprendere meglio il carattere della devianza adolescenziale. C’è invece, purtroppo, osservano i due studiosi – una tendenza ad avviare la discussione su cause e rimedi del
fenomeno della devianza proprio quando si hanno notizie di crimini particolarmente efferati.
Si rischia in questo modo di ascrivere sbrigativamente la criminalità adolescenziale, in alcuni
casi, al degrado sociale, in altri, di leggerla nel segno della diversità individuale, senza mai
cercare di cogliere quel legame possibile tra contesto e identità.
Tuttavia, sono proprio certi crimini che, per il loro carattere estremo, mettono in evidenza
le ambivalenti aspettative nei confronti del sistema della giustizia minorile (e verso la pena in
generale). I recenti casi di crimini di adolescenti che hanno colpito l’opinione pubblica in
Italia sembrano essere emblematici dell’apparente inconciliabilità degli obiettivi di recupero
con quelli di retribuzione e controllo sociale, della tensione tra i bisogni e i diritti di alcuni
individui (alla tutela, alla cura, al recupero) e quelli della collettività (alla sicurezza, al
risarcimento). Il clamore suscitato da alcune sentenze può essere emblematico di ciò che le
persone si aspettano dalla giustizia e di che cosa rappresentino certi reati. In tanti non riescono
ad accettare, ad esempio, che un adolescente responsabile di un crimine tanto efferato possa
concludere con successo un processo di riabilitazione e a credere che non possa commettere
un nuovo delitto. Come pure inaccettabile è l’idea che possa trascorrere il resto della sua vita
in pace, dopo avere tolto la vita a qualcuno.
Di fronte a casi come quelli che negli ultimi anni hanno coinvolto l’opinione pubblica in
Italia, si possono assumere due atteggiamenti: o si crede che la riabilitazione sia possibile
oppure si respinge a priori questa possibilità, non cercando più di recuperare chi ha commesso
crimini particolarmente gravi e delegando al carcere il compito della vendetta dell’ingiustizia
subita dalla società, per mano dei criminali.
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Le reazioni suscitate da questi casi e soprattutto dal modo nel quale vengono affrontati dal
sistema giudiziario sono in stretta connessione alle concezioni di giustizia. Tali concezioni
orientano infatti le aspettative nei confronti del sistema giudiziario (non solo minorile), le
convinzioni sulle conseguenze che debbono ricadere su chi commette un crimine e quelle su
che cosa si possa legittimamente aspettare la vittima di questo crimine. Sulla base di tali
concezioni si decide anche quali siano i doveri di una collettività nei confronti dei suoi
membri ( e in particolare di quei membri che hanno bisogno di aiuto): il giudizio su tali doveri
(con la conseguente assegnazione di responsabilità e di compiti) ha sullo sfondo una
concezione di giustizia sociale (Berti, 2002).
Il giudizio sui doveri di una collettività nei confronti dei suoi membri discende dalle
concezioni di giustizia distributiva, di quella giustizia cioè che si estrinseca nella distribuzione
di beni materiali, privilegi o di qualunque alt ra cosa suddivisibile tra coloro che prendono
parte a un sistema sociale. Quali sono i criteri sui quali si fonda il giudizio sulla correttezza
dell’allocazione di risorse fra individui o fra gruppi? La ricerca psicologica sulla giustizia
distributiva si è focalizzata sui principi e sulle regole di giustizia che orientano il giudizio
sulla distribuzione di risorse e sul modo nel quale le valutazioni e le condotte degli individui
sono influenzate dalla percezione di giustizia. Uno dei principali contributi alla comprensione
del giudizio sulla giustizia sociale proviene dalla teoria dell’equità di Adams (1965). Tale
teoria, sviluppata in origine con riferimento alle organizzazioni lavorative, è stata
successivamente ampliata in una teoria generale sulla giustizia (Walster et al., 1978). Secondo
tale teoria, le persone giudicano la distribuzione di risorse (o si aspettano che queste vengano
distribuite) secondo un criterio di equità: ciò che si ottiene deve essere proporzionale a quello
che si offre, in termini di investimento, impegno, prestazione. L’elemento centrale nella teoria
dell’equità è il merito. Questo può essere stabilito sulla base di qualsiasi criterio, sul quale vi
sia accordo: uno di questi è il contributo fornito da ciascuno. In questo modo, gli scambi
sociali non tengono conto dei diritti o dei bisogni di un individuo, ma della sua produttività (o
del suo contributo).
L’equità non è l’unico criterio di giustizia adottato dalle persone. Queste possono utilizzare
la regola dei bisogni (secondo la quale si dovrebbe ricevere in proporzione alle necessità) e la
regola dell’uguaglianza.
Come già detto, le risposte alle due domande – di chi è la responsabilità degli adolescenti?
Di che cosa sono responsabili gli adolescenti? – sono tra loro interdipendenti. Infatti, in linea
generale, maggiore è la responsabilità individuale nella determinazione della condizione di
bisogno, minore sarà la responsabilità di chi eroga le risorse nei confronti di chi esprime il
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bisogno. L’attribuzione della responsabilità individuale ha dunque inevitabili implicazioni
sull’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni: meno responsabile è l’individuo,
più responsabile è la comunità nei suoi confronti, tanto dell’origine del bisogno, quanto della
risposta. In questo senso, le risposte alle due domande sono interdipendenti.
Le concezioni ideologiche influenzano la scelta delle regole di giustizia distributiva
(uguaglianza, equità, bisogno) e l’attribuzione della responsabilità. Storicamente, l’enfasi
sulle responsabilità individuali è propria delle politiche conservatrici, mentre quella sulle
responsabilità sociali, sui bisogni e sui diritti lo è delle politiche progressiste.
Secondo Stitka e Tetlock (1992) l’attribuzione di responsabilità a un individuo, rispetto
alle condizioni per le quali richiede risorse e servizi, è cruciale per la valutazione della sua
meritevolezza. Tuttavia, poiché le persone esprimono a volte una costellazione contraddittoria
di valori conservatori e progressisti, la prevalenza di un orientamento rispetto ad un altro sarà
in parte determinato dalle situazioni, quali ad esempio la disponibilità di risorse. In uno
scenario di risorse limitate, le differenze ideologiche potrebbero attenuarsi; in questo modo, i
progressisti potrebbero rinunciare alle regole di uguaglianza e adottare criteri di responsabilità
e di meritevolezza nell’allocazione di risorse. Come osserva Zamperini (1998), in uno
scenario di risorse limitate, l’attribuzione di responsabilità potrebbe svolgere un ruolo
primario nella distribuzione dei beni, indipendentemente dall’ideologia politica di chi deve
prendere una decisione.
Tutto ciò potrebbe significare che il modo nel quale disagio e delinquenza vengono letti e
affrontati muta non solo in relazione alle concezioni ideologiche politiche ma anche in
relazione alle risorse delle quali dispongono le agenzie preposte agli interventi.
I principi di uguaglianza, bisogno ed equità, che orientano le aspettative negli scambi
sociali, sono anche quelli che guidano la giustizia riparativa, (quella cioè connessa a situazioni
nelle quali una persona ha subito un’offesa da parte di un’altra persona e chiede pertanto una
riparazione) e orientano quindi le attese nei confronti del sistema giudiziario.
In virtù del principio di uguaglianza, ci si aspetta che tutti i cittadini siano uguali davanti
alla legge.
Il criterio di equità stabilisce che la pena sia commisurata alle responsabilità, che ciascuno
abbia ciò che merita, in proporzione al danno arrecato.
La regola del bisogno rammenta invece che la sanzione dovrebbe sempre tenere conto dei
bisogni di recupero della persona. Mentre il criterio del bisogno attiene maggiormente a una
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concezione riabilitativa della pena, il principio di equità è centrale nella concezione retributiva
della giustizia penale. Nel primo caso, l’attenzione è rivolta al reo; nel secondo, al reato.
Come questi principi si possano contemperare è questione cruciale per un sistema
giudiziario e in generale per una società.
Tyler e Boeckmann (1997) ritengono che la violazione delle leggi sia innanzitutto un
affronto verso i valori e le norme morali e che la punizione svolga una funzione sociale di
riaffermazione davanti alla collettività di questi valori e di queste norme. Nel decidere quale
sia la giusta pena per chi commette un reato, accanto a considerazioni di ordine strumentale,
utilitaristico, intervengono anche considerazioni di ordine simbolico, come quella concernente
la necessità di retribuire “moralmente” il male, attraverso la punizione.
Darley e collaboratori (2000), attraverso una serie di studi sperimentali, hanno osservato
che, tranne nei casi per i quali venga riconosciuta una limitazione nella capacità di esercizio
responsabile della volontà da parte dell’autore del reato, il criterio che guida l’assegnazio ne
della pena è quello della meritevolezza. La relazione tra la percezione della gravità e la
severità della pena richiesta è mediata dalla percezione dell’oltraggio morale. Ciò significa
che reati di gravità simile vengono puniti in relazione allo sdegno suscitato.
Come già accennato, la meritevolezza è una nozione centrale nella concezione retributiva
della giustizia penale. Robinson e Darley (1995 e 1997) ritengono che i legislatori e il sistema
della giustizia penale dovrebbero prestare più attenzione a ciò che le persone si aspettano
dalla giustizia nei confronti di chi commette un reato. Le ragioni per tenere conto di ciò che
pensano le persone sono molteplici. In un paese democratico, sostengono i due studiosi, il
sistema della giustizia penale dovrebbe tenere conto delle opinioni dei comuni cittadini.
L’adozione di politiche retributive è il solo mezzo per poter ottenere la fiducia dei cittadini
verso il sistema della giustizia (Darley, 2001). Il rispetto delle leggi e nei confronti
dell’autorità istituzionale è direttamente proporzionale alla sua credibilità. Maggiore è la
coincidenza tra le concezioni di giustizia della gente e il contenuto delle norme, maggiore è il
rispetto per queste norme e per il sistema della giustizia.
Il fatto che una regola di giustizia espressa dalla collettività non trovi riscontro nelle norme
giuridiche e che certi comportamenti che la collettività giudica negativamente non siano
sanzionati dal sistema giuridico minaccia la fiducia nei confronti del sistema della giustizia.
Ci sono due modi nei quali la credibilità e l'efficacia del sistema della giustizia vengono
minacciati: condannando persone innocenti oppure non perseguendo i colpevoli. Nel senso
comune sulla giustizia, la prima eventualità è considerata più grave della seconda: "Meglio
dieci colpevoli in libertà, che un innocente in galera". Una condanna ingiusta mette in
13
discussione la legittimità delle condanne precedenti mentre il fatto che un colpevole sfugga
alla giustizia comporta soltanto un giudizio negativo sull'efficacia senza conseguenze
dirompenti per la sua credibilità.
Darley e colleghi ritengono che la prospettiva retribuzionista non debba essere vista come
espressione della vendetta. Anche sulla base dei pareri espressi da altri studiosi (Hogan ed
Emler 1981; Vidmar e Miller 1980), Darley e colleghi ritengono che non si possa ignorare il
desiderio di una collettività di vedere riconosciuta nella violazione delle norme una minaccia
per la sua stabilità e per i suoi valori.
All'inizio degli anni Novanta, Robinson e Darley hanno sviluppato un programma di
ricerche sulle concezioni delle persone comuni sulla responsabilità legale e sulla giusta pena.
Secondi i due autori, questi temi sono stati relativamente trascurati dalla ricerca psicologica e
questa omissione è abbastanza sorprendente se si considera la grande varietà degli ambiti
esplorati dalla ricerca in psicologia giuridica. Sorprendente, anche alla luce del fatto che il
sistema della giustizia penale affida a una giuria popolare (o a collegi misti) il compito di
attribuire il giudizio definitivo sulla responsabilità.
In Justice, liability and blame: Community views and the criminal law, il volume del 1995
che presenta i risultati di alcune di queste ricerche, Robinson e Darley spiegano perché il
punto di vista dei comuni cittadini dovrebbe influenzare le politiche giudiziarie, anche se
affermano che questi punti di vista non possano essere visti come determinanti assoluti delle
scelte politiche. Robinson e Darley ritengono che l’esistenza di discrepanze tra le concezioni
dei cittadini e le norme giuridiche non debba comportare automaticamente un adeguamento
delle norme agli standard di giustizia espressi dai cittadini. Il consenso non può essere
utilizzato come un criterio per stabilire quale sia la giusta pena. É tuttavia necessario non
trascurare il modo nel quale le persone valutano la meritevolezza.
Nel caso dei minori che commettono reati particolarmente gravi (o come tali percepiti dalla
pubblica opinione) è richiesto un difficile equilibrio da parte di chi decide e attua e le
politiche giudiziarie: un equilibrio tra la volontà di limitare l’intervento penale, prestare la
dovuta attenzione ai processi di crescita e tenere conto delle valutazioni sull’efficacia della
pena, da un lato, e dall’altro, la consapevolezza di come tali scelte possano produrre un
sentimento di ingiustizia oltre i limiti di compatibilità e tolleranza del sistema sociale. Gli
argomenti centrati sull’inefficacia strumentale della pena (dal punto di vista della deterrenza o
da quello educativo) non bastano a giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica, un
“intervento penale minimo” perché non tengono conto, tali argomenti, dell’oltraggio morale
provocato dal crimine. Inoltre, anche se, come affermano De Leo e Patrizi (2002), non è
14
realistico distinguere tra interesse del minore e interesse della società, non sempre viene
percepita la stretta interdipendenza tra queste due dimensioni. Al contrario, l’interesse del
minore potrebbe essere sentito in conflitto sia con l’interesse della società alla sicurezza sia
con il bisogno di risarcimento, sia pure sul piano simbolico, che questa esprime.
Per queste ragioni, chi decide ha anche la responsabilità di non incrinare quel patto di
fiducia tra la collettività e istituzioni: è sulla base di tale fiducia che si delega ad un’autorità il
compito di esercitare la giustizia per conto dei cittadini. L’essenza dell’autorità è proprio
quella del trasferimento del potere di molti nelle mani di pochi. Il riconoscimento della
legittimità dell’autorità istituzionale dipende dal giudizio sulle decisioni prese da questa
autorità. Per questo, una decisione che violi l’aspettativa sociale di risarcimento simbolico (e
non solo materiale) potrebbe innescare una spirale che, attraverso la produzione di insicurezza
e di sdegno morale, condurrebbe a politiche giudiziarie sempre più punitive.
Secondo De Leo (1985) si deve evitare la confusione tra il piano dell’intervento relativo
all’azione in rapporto alla quale si pone il problema della responsabilità e quello relativo ai
bisogni dell’adolescente, autore dell’azione. Mentre l’intervento in risposta all’azione ha
come obiettivo l’assunzione della responsabilità in rapporto all’azione stessa e, in generale, la
socializzazione alla responsabilità generale e a quella penale, la risposta ai bisogni, pur non
trascurando le implicazioni responsabilizzanti degli interventi assistenziali, educativi,
terapeutici, non pone queste implicazioni al centro di tali interventi. La risposta ai bisogni
rientra all’interno di altri confini di competenza di altri sistemi di risposta che sono in
rapporto di pertinenza con quei bisogni. Questa separazione dei confini degli interventi e delle
competenze è necessaria anche perché, come osserva De Leo, chi commette un reato può non
domandare un intervento assistenziale o terapeutico, ma ha l’obbligo di rispondere dell’azione
commessa; chi, d’altro canto, esprime bisogni che vanno al di là dell’assunzione di
responsabilità, ha diritto di ricevere risposte alle proprie domande di aiuto e di cambiamento,
senza che queste risposte abbiano immediate implicazioni responsabilizzanti, rispetto alle
azioni compiute.
Questa separazione è anche necessaria dal momento che, se da un lato la risposta ai bisogni
non produce automaticamente un risultato educativo e socializzante, il solo confronto con le
azioni commesse non sempre costituisce una risposta a tutte le domande di aiuto di chi quelle
azioni ha commesso.
15
3. La prevenzione della devianza: responsabilità degli adulti e delle istituzioni
3.1 La devianza adolescenziale e l’orientamento verso l’autorità istituzionale
Emler e Reicher (2000)6 concepiscono la delinquenza adolescenziale nei termini di un
comportamento giuridico, vale a dire un comportamento volontario in relazione a una norma;
tale comportamento origina dagli atteggiamenti individuali nei confronti dell’autorità
istituzionale, atteggiamenti che si consolidano e si esprimono nel contesto del gruppo di
appartenenza. Il rapporto con le norme e l’autorità istituzionale viene analizzato dai due autori
alla luce delle dinamiche dello sviluppo adolescenziale e, in particolare, in relazione alle
esigenze di riconoscimento sociale e di valorizzazione del proprio sé, di identificazione e di
differenziazione e dei processi di socializzazione (Berti, 1997).
Secondo i due studiosi, l’orientamento nei confronti dell’autorità istituzionale è un aspetto
chiave del mondo sociale dell’adolescente ed è a questo livello che vanno ricercate le
spiegazioni della devianza e della delinquenza. La delinquenza adolescenziale può essere
vista come una strategia per costruire e consolidare la propria reputazione tra i coetanei e, in
generale, nel proprio ambiente di vita.
É errato concepire la devianza come un comportamento accidentale e non intenzionale;
esistono progetti alternativi di costruzione e di gestione della propria reputazione e la scelta
delinquenziale è espressione di uno di questi. L’antisocialità non deriva – come vorrebbe la
teoria del controllo sociale (Hirschi, 1969) - da una mancanza di forti ragioni per guadagnare
e conservare una buona reputazione. É, al contrario, una scelta in positivo e non l’esito di un
fallimento della socializzazione.
Il comportamento antisociale è raramente nascosto e segreto: le trasgressioni vengono
commesse perché c’è un pubblico e non perché questo sia assente. La scelta deviante, come
sostiene Matza (1976) amplifica la comunicazione: quando altre possibilità di esprimere
significati appaiono inadeguate, si ricorre al gesto deviante per rendere i significati meno
ambigui e più decifrabili, più evidenti ed incisivi gli effetti.
La rottura delle regole sociali consente una presentazione di sé solo quando è visibile e
dotata di significati chiari ed inequivocabili per il gruppo dei pari, che costituisce l’audience
più rilevante per l’adolescente.
La violazione delle norme ha un’efficacia comunicativa maggiore di quella garantita
dall’osservanza delle leggi. Dal momento che i comportamenti conformi sono incoraggiati
socialmente e le violazioni punite, l’atto deviante sembra essere l’esito di una scelta piuttosto
16
che il frutto di una coercizione e perciò diventa indicativo dell’identità di chi lo compie.
L’asimmetria tra il potenziale “diagnostico” dei comportamenti conformi e quello dei
comportamenti devianti spiega perché sia più difficile conquistare una fama di persone
“virtuose” che una cattiva reputazione e perché questa, una volta consolidata, sia difficilmente
modificabile.
La delinquenza per queste ragioni è un comportamento chiaro e inequivocabile che
fornisce
informazioni
sull’orientamento
dell’adolescente
nei
confronti
dell’autorità
istituzionale. L’adolescenza costituisce un momento significativo per la definizione del
rapporto con l’autorità istituzionale, vale a dire della fiducia e dello spazio che l’adolescente
concederà allo Stato affinché medi e definisca i termini delle proprie relazioni con gli altri.
Secondo i due studiosi, la relazione tra devianza adolescenziale e orientamento verso
l’autorità istituzionale può essere compresa se si tiene conto di quale sia la natura di questo
tipo di autorità. Ciascun individuo ha due tipi di relazione con il sistema istituzionale:
obbedienza, da un lato; protezione e promozione, dall’altro. In cambio di obbedienza alle
regole formalmente definite sui comportamenti da tenere o da evitare, il sistema offre
implicitamente agli individui la tutela dei diritti e la possibilità di promozione sociale. La
devianza è espressione del rifiuto da parte di un individuo ad accogliere le pretese del sistema
istituzionale sulla propria vita e sulle proprie relazioni. É la dichiarazione pubblica del fatto
che non si ha bisogno della protezione delle istituzioni e, allo stesso tempo, una dichiarazione
di sfiducia verso la capacità delle istituzioni di tutelare i propri diritti.
L’orientamento verso l’autorità istituzionale trae origine dalle esperienze che da bambini e
poi da adolescenti si hanno con le istituzioni (insegnanti e forze dell’ordine); se l’autorità è
considerata soprattutto una fonte di discriminazione e di pregiudizio, la relazione che si
stabilirà con essa sarà di sfiducia e di diffidenza. La messa in atto di comportamenti devianti
rivela il tipo di accomodamento verso l’autorità (Emler e Reicher, 2000).
3.2
L’esperienza scolastica e l’orientamento verso le istituzioni
É attraverso la scuola che la maggior parte dei bambini e degli adolescenti entra in contatto
con il sistema istituzionale. L’educazione scolastica costituisce la prima esperienza diretta e
prolungata con una organizzazione formale e con una autorità istituzionale. La scuola
permette di capire che cosa sia un’autorità formale e quali siano i principi e le regole
17
attraverso le quali essa opera e costituisce il principale contesto di sviluppo del rapporto con
l’ordine istituzionale. Secondo Emler e Reicher (2000), l’esperienza dell’educazione formale
orienta gli atteggiamenti verso l’autorità istituzionale. É stato in effetti osservato come gli
atteggiamenti degli adolescenti verso le regole scolastiche e l’autorità degli insegnanti siano
effettivamente correlati con quelli verso la legge e i rappresentanti delle istituzioni (Reicher e
Emler 1985; Rigby e Rump, 1979). Inoltre, l’orientamento verso l’autorità influenza sia la
devianza sia tutta l’esperienza scolastica: la devianza è infatti correlata negativamente con il
rendimento scolastico, con l’interesse per la scuola e con l’età di uscita dalla scuola.
Le modalità di adattamento al processo di educazione formale sono dunque fondamentali
per il rapporto futuro con il sistema istituzionale della società e gli insegnanti si trovano in
una posizione cruciale per la direzione che possono imprimere ai rapporti tra adolescenti e
istituzioni.
Palmonari (2001) ricorda che gli adolescenti non diventano giovani e adulti in un vuoto
sociale e la loro transizione verso l’età adulta può essere compresa solo in rapporto al contesto
sociale e culturale nel quale vivono.
Friedman (1978), uno dei maggiori sociologi del diritto americano, sostiene che se è vero
che la proporzione della devianza tende ad avere un valore costant e per ogni società, questa
tesi non è applicabile per tutti i tipi di devianza. Si può prevedere, sostiene Friedman, la
quantità di devianza che si produrrà su una qualsiasi nave (come su quella grande nave che è
lo Stato) ma l’ammutinamento si verifica solo sul Bounty e solo quando a comandarlo c’è
Capitan Bligh.
Sugli insegnanti ricadono, accanto alle responsabilità proprie di ogni adulto, anche quelle
di adulti che rappresentano il sistema istituzionale.
3.3
Giustizia procedurale e legittimità delle istituzioni
Il rispetto delle norme e nei confronti dell’autorità istituzionale è direttamente
proporzionale alla sua credibilità e questa deriva dal modo nel quale tale autorità è esercitata.
Il processo di formazione delle impressioni sulle autorità non si discosta da qualsiasi altro
processo di formazione delle impressioni in una interazione sociale. Come in qualsiasi
processo di formazione delle impressioni, le fonti delle informazioni sulla relazione sono
ricavate dalle interazioni sociali e dalle procedure seguite dalle autorità.
Dal trattamento ricevuto da una autorità istituzionale si possono inferire conclusioni su
altre autorità e sulla propria posizione nella società.
18
Alcune teorie sulla giustizia hanno riconosciuto che le persone si interessano non solo a ciò
che ottengono, anche ai modi nei quali sono ottenuti i risultati. Il giudizio sulla correttezza di
questi modi investe la cosiddetta giustizia procedurale (Lind e Tyler, 1988).
L’importanza della correttezza procedurale varia in relazione ai ruo li sociali, agli interessi
personali e alle caratteristiche del sistema sociale. Da persone che rivestono ruoli come quelli
di giudice, di un poliziotto o di un insegnante ci si aspetta una particolare attenzione al
rispetto delle regole nell’espletamento delle proprie funzioni: la violazione delle regole,
proprio da parte di chi dovrebbe farle rispettare, rende ancora più saliente la scorrettezza.
Una delle ragioni dell’importanza della percezione di giustizia procedurale per il giudizio
sulla legittimità dell’istituzione sta nell’impatto duraturo delle procedure: è questa qualità
durevole delle procedure a rendere una procedura ingiusta molto più preoccupante di un
singolo risultato sfavorevole. Le procedure che un’autorità adotta per arrivare a una decisione
infatti sono viste come espressione dei valori di quell’autorità; un giudizio negativo sulla
correttezza delle regole ha implicazioni molto più gravi dell’insoddisfazione per un risultato
svantaggioso. La correttezza procedurale ha una valore euristico molto più elevato di quello
della correttezza distributiva e questo spiega la sua centralità negli atteggiamenti verso
l’autorità (Tyler e Lind, 1992).
Il ricorso a procedure decisionali corrette è dunque la chiave della legittimità istituzionale.
La legittimità istituzionale produce il rispetto delle regole sociali e questo rispetto diventa
sempre più indipendente dai vantaggi personali derivanti dalle singole decisioni di
un’autorità.
La ragione di questi effetti può essere ricondotta alla centralità della giustizia procedurale
nel processo di legittimazione dell’autorità: il riconoscimento della legittimità delle autorità
istituzionali e il rispetto delle loro decisioni dipendono dal giudizio sulla correttezza delle
procedure decisionali. Il riconoscimento della legittimità istituzionale aumenta la disponibilità
ad accettare misure sulle quali non si è d’accordo o che non comportano un vantaggio
personale (Tyler e Degoey, 1995).
La giustizia procedurale può essere anche vista come uno dei fondamenti della credibilità
dell’insegnante e della legittimità dell’istituzione scolastica.
19
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21
Note
1
Nel processo penale (D.P.R. 448/1988), il minore ha la possibilità di: a) indicare figure ritenute a suo parere
idonee a garantirgli assistenza affettiva e psicologica nel corso del procedimento giudiziario (art.12); b)
richiedere un giudizio abbreviato e immediato (art.25); c) ricorrere in Cassazione contro l’ordinanza della
sospensione del processo e messa alla prova, al pari del suo difensore e del pubblico ministero (art.28); d)
chiedere, dopo i 16 anni, lo svolgimento dell’udienza a porte aperte (art.33); e) presentare impugnazione che
prevale, se in contraddizione, su quella presentata da chi esercita la potestà genitoriale (art.34); f) appellarsi
contro i provvedimenti del magistrato di sorveglianza (art.41).
2
Per una analisi dei modelli di responsabilità in età minorile espressi da alcune norme dell’ordinamento
italiano, si veda De Leo, 1996.
3
Tra le fonti sovranazionali, ricordiamo la Dichiarazione delle Na zioni Unite sui diritti del fanciullo del 1959,
le Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile approvate dall’ONU nel 1985, che
costituiscono la fonte alla quale si è ispirato il processo penale minorile italiano; la raccomandazione
n.20/1987 del Consiglio d’Europa; la Convenzione sui diritti del fanciullo approvata all’ONU nel 1989 e
ratificata dall’Italia nel 1991; la Convenzione europea per l’esercizio dei diritti dei bambini emessa dal
Consiglio d’Europa nel 1996.
4
Al dibattito in corso sulle proposte governative di modifica della giustizia minorile è dedicato un numero
monografico della rivista MinoriGiustizia (1-2), 2002.
5
In questa direzione sembra andare anche la giustizia dei minori in Italia . Si vedano a tale proposito gli
emendamenti presentati dal Governo in data 7 marzo 2003 al testo del disegno di legge n. 2517 in
discussione alla Commissione Giustizia della Camera .
6
Per un approfondimento della teoria di Emler e Reicher, si veda il testo inserito tra il materiale telematico,
dal titolo Il carattere collettivo della condotta adolescenziale.
Chiara Berti
Istituto di Psicologia, Università di Urbino, Via Zeppi, 61029 Urbino
e-mail: [email protected]
Qualifica: Ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Formazione- Università di Urbino
22