25 ottobre 2015 - L`Agenzia Culturale

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25 ottobre 2015 - L`Agenzia Culturale
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Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
Rassegna
Stampa
25 ottobre 2015
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
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Estratti da:
Ciclostilato in proprio
17/10/2015
Francesco alla Fao: obiettivo improrogabile. No all'affannosa ricerca del profitto
«Dobbiamo liberare l'umanità dalla fame»
di MIMMO MUOLO
ROMA La domanda del Papa è di quelle che scuotono le
coscienze. «È ancora possibile concepire una società in cui
le risorse sono nelle mani di pochi e i meno privilegiati sono
costretti a raccogliere solo le briciole?».
Domanda rivolta alle organizzazioni internazionali come ai
governi, alle forze sociali come ai singoli. Cioè a tutti.
Perché tutti, aggiunge Francesco, «siamo testimoni, spesso
muti e paralizzati, di situazioni che non è possibile legare
esclusivamente a fenomeni economici». E infatti «sempre
di più la disuguaglianza è l'effetto di quella cultura che
scarta ed esclude tanti nostri fratelli e sorelle dalla vita
sociale».
Le parole del Pontefice sono contenute nel Messaggio
inviato al direttore generale della Fao, José Graziano da
Silva, in occasione della Giornata Mondiale
dell'Alimentazione sul tema "Protezione sociale e
agricoltura per spezzare il ciclo della povertà rurale",
celebrata ieri anche in ambito Expo. Giornata che coincide
anche con il 70° anniversario dell'istituzione della Fao,
l'agenzia dell'Onu che combatte la fame nel mondo. Il testo
(che Avvenire pubblica integralmente in questa stessa
pagina) ribadisce alcuni capisaldi dell'insegnamento di
papa Bergoglio in materia. Ma soprattutto rivolge un
pressante appello affinché si trovino «i mezzi necessari per
liberare l'umanità dalla fame e promuovere un'attività
agricola capace di soddisfare le effettive necessità delle
diverse aree del pianeta».
L'analisi del Pontefice è contenuta in brevi ma incisive
pennellate. «Viviamo un'epoca in cui l'affannosa ricerca del
profitto, la concentrazione su interessi particolari e gli
effetti di politiche ingiuste rallentano le azioni all'interno
dei Paesi o impediscono una cooperazione efficace in seno
alla comunità internazionale ». Un problema, che riguarda
due terzi della popolazione mondiale »a cui manca una
protezione sociale anche minima». Per questo, esorta
Francesco, è necessario attuare l'Agenda 2030 per lo
Sviluppo Sostenibile, recentemente approvata dalle
Nazioni Unite. «Auspico - scrive il Papa - che non resti solo
un insieme di regole e di possibili accordi», anzi che «ispiri
un modello diverso di protezione sociale, a livello sia
internazionale sia nazionale». Si eviterà così, «di utilizzarla
a vantaggio di interessi contrari alla dignità umana, o che
non rispettano pienamente la vita, o per giustificare
atteggiamenti omissivi che lasciano i problemi irrisolti,
aggravando in tal modo le situazioni di disuguaglianza».
Tuttavia, ammonisce il Messaggio, per liberare l'umanità
dalla fame, «non bastano i buoni propositi». Così come «la
condizione delle persone affamate e malnutrite evidenzia
che non basta e non possiamo accontentarci di un generico
appello alla cooperazione o al bene comune ». La risposta a
quella domanda che scuote le coscienze consiste piuttosto,
sottolinea papa Bergoglio, «nella pace sociale, vale a dire la
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stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che non si
realizza senza un'attenzione particolare alla giustizia
distributiva, la cui violazione genera sempre violenza ».
Ciò che esige «una ferma volontà per affrontare le
ingiustizie che riscontriamo ogni giorno», specie quelle che
«offendono la dignità umana». E contro le quali l'azione
della Fao «sarà fondamentale».
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21/10/2015
L'apostasia dell'Europa
Recuperare le radici cristiane per
vincere "l'incompetenza morale"
“Moralmente incompetente" è un'espressione ben riuscita in un
lavoro di narrativa, nell'editoriale di un giornale e riferita alla
condizione dell'Europa si colloca nel registro della tragedia. La frase
completa di Bret Stephens sul Wall Street Journal è: "L'Europa sta
morendo perché è diventata moralmente incompetente". Stephens
non cade nella semplificazione del vecchio mondo che non crede in
niente, perché gli europei credono in un sacco di cose, la tolleranza, i
diritti umani, l'ambiente, ma "sono convinzioni superficiali, sostenute
superficialmente", "carine ma secondarie". Quello in cui gli europei
non credono più "sono le cose da cui le loro convinzioni sono
scaturite", cioè la tradizione giudaico -cristiana, con tutto il suo
portato in termini di libertà e capacità di costruire una società
prospera. Qualche malconcia infiorescenza dell'uomo europeo è
rimasta, ma le radici si sono inabissate, e quando si tratta di tracciare
linee di demarcazione chiare - vedi politiche d'immigrazione l'Europa non ha la competenza morale per decidersi. Stephens
prende a esempio la diplomazia di Angela Merkel, cancelliera del
gran pilastro continentale e leader di un partito cristiano, che accoglie
le richieste della Turchia e si fa garante dell'accelerazione del
processo che la porterà in Europa.
In cambio, Merkel fa le "richieste civiche" che gli europei di solito
fanno, ignorando, o fingendo di non sapere, che l'islam di Erdogan le
sue radici non le ha scordate. È la "singolare forma di apostasia" di
cui parlava Benedetto XVI, profetizzando: "L'Europa ha bisogno di
una nuova accettazione di se stessa se davvero vuole sopravvivere".
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17/10/2015
SULL'ORLO DEL
P R E C I P I Z I O
di LUCIO CARACCIOLO
QUANDO nulla appare più possibile tutto diventa
possibile. Persino che la Terra di Israele/Palestina
s'avviti nel caos.
PER MANCANZA di alternative. Giacché ormai tutte
le ipotetiche soluzioni alla questione della sovranità
sull'ex mandato britannico appaiono consunte.
Impraticabili. Ai due Stati conviventi in pace l'uno al
fianco dell'altro non crede più nemmeno chi per
dovere di ufficio continua a sacrificarvi celebrando
spente liturgie, vuoi per perpetuare lo status quo
(Netanyahu) vuoi per segnalare la propria altrimenti
impalpabile esistenza (Abu Mazen). Quanto allo
Stato binazionale, ipotesi a suo tempo coltivata da
alcuni protosionisti, presuppone un grado di fiducia
fra concittadini arabi ed ebrei di cui oggi non si vede
traccia.
Restano in teoria alcune non-soluzioni - misure
volte non a risolvere la disputa territoriale ma a
limitare la violenza. Come l'apartheid in stile
sudafricano, che però sancirebbe la morte della
democrazia israeliana, insieme legittimando la
guerriglia palestinese giacché chi si batte contro la
discriminazione per razza non può essere bollato
terrorista. E provocherebbe aspre forme di
embargo inter-nazionale contro Israele, oltre a
ritorsioni sugli ebrei in diaspora. Se poi lo Stato
ebraico intendesse moltiplicare "barriere di
separazione" e check point per limitare la diffusione
della violenza palestinese, finirebbe per
imprigionare se stesso, non solo i Territori, in un
labirinto inabitabile.
Già si trova a sezionare Gerusalemme, che pure
vuole capitale una e indivisibile.
È la carenza di prospettive che distingue la
cosiddetta "terza intifada" dalle due precedenti. In
questo caso il termine "intifada" ("rivolta") è però
improprio. Qui non si tratta di una ribellione politica,
più o meno armata e violenta, come in passato.
Questa è la rivolta dei senza speranza. Soli,
scoordinati, senza riferimenti. Almeno per ora.
I giovani arabi che in Israele accoltellano per strada i
concittadini ebrei o che vengono a loro volta
liquidati dalle forze di sicurezza di Gerusalemme non
perseguono un progetto politico. Non rispondono a
nessun capo. E i palestinesi dei Territori hanno
spesso perso quella minima base economica che
consentiva loro di compensare la sconfitta
geopolitica - vivere per sempre sotto occupazione.
Le elemosine provenienti dall'esterno, soprattutto
dal Golfo, cominciano a scarseggiare, sia perché i
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"benefattori" sono in altre faccende affaccendati
(per esempio noleggiare jihadisti sul fronte siriano),
sia perché i confratelli arabi si sono stancati di
fingere d'interessarsi alla causa palestinese (specie
gli islamisti radicali, seguaci del "califfo" inclusi).
L'intelligence israeliana discetta di "attacchi ispirati",
diversi dal "terrore guidato". Violenza spontanea,
non studiata. Ne sono protagonisti anche giovani
acculturati, insospettabili. Ma deprivati socialmente
e politicamente.
Perché oggi il frastagliatissimo campo palestinese
non esprime una guida. Se Abu Mazen è figura
patetica, Hamas non sta molto meglio, pur se cerca
di cavalcare la rivolta. La Cisgiordania è
abbandonata a se stessa, mentre la Striscia di Gaza è
infiltrata da cellule salafite, che lanciano sporadici
razzi contro lo Stato ebraico.
Sul fronte israeliano, Netanyahu è accusato di
mollezza. Questa crisi lo ha sorpreso. Per lui il
problema palestinese era in naftalina. Una fastidiosa
infezione da tenere sotto controllo con qualche
antibiotico, non certo una minaccia esistenziale.
Soprattutto, gli mancano efficaci strumenti di
reazione. Aerei e carri armati non servono contro i
coltelli.
Mentre Israele vincerebbe a mani basse qualsiasi
guerra con i vicini e potrebbe venire a capo di una
classica intifada colpendone le centrali vere o
presunte, contro questo caos, esteso dalla
Cisgiordania al territorio nazionale - dove è in
questione l'asimmetrica coesistenza fra minoranza
araba e non troppo omogenea maggioranza ebraica
- il governo di Gerusalemme si scopre quasi inerme.
Sicché gli ebrei israeliani ricorrono al fai-da-te,
allestendo squadre di vigilantes o semplicemente
girando armati, come il sindaco della capitale, Nir
Barkat, che ostenta la sua pistola davanti alle
telecamere. E a scanso di equivoci twitta (8
ottobre): "Attentati terroristici a Gerusalemme
possono essere prevenuti grazie alla rapida risposta
di cittadini responsabili. Detentori autorizzati e
addestrati di armi possono salvare vite".
C'è ancora tempo per evitare il caos che eccita gli
estremisti musulmani ed ebrei, i quali amano
santificare la propria causa con i colori del fanatismo
religioso, nella terra più sacra ai tre monoteismi.
Finora Israele ha resistito quale isola stabile e
prospera nel mare in tempesta delle guerre
islamiche. Oggi però la minaccia viene da dentro. E
ne mette in gioco l'identità. Dunque l'esistenza.
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15/10/2015
Voto bipartisan, le nuove norme sono legge: il bambino non dovrà cambiare famiglia
Svolta nelle adozioni,
affido corsia privilegiata
di VALERIA ARNALDI
ROMA. I bambini in affido potranno
essere adottati dalle famiglie che li hanno
accolti. Non solo. Gli affidatari, forti del
legame già costruito, avranno una sorta di
corsia preferenziale. Sono principi
apparentemente semplici ma non scontati
quelli previsti dalla legge sulla continuità
affettiva. E, soprattutto, da ieri, sono
principi concretamente applicabili.
La Camera, con 385 voti favorevoli e solo
due contrari, ha approvato definitivamente il testo in discussione,
trasformandolo in legge. Una vera
rivoluzione per molti e, soprattutto, per i
bimbi.
Il tribunale dei minorenni, qualora gli
affidatari presentino domanda d'adozione, ora dovrà tenere conto dei «legami
affettivi significativi e del rapporto stabile
e duraturo consolidatosi tra il minore e la
famiglia affidataria».
Ovviamente, solo laddove siano rispettati i
requisiti per l'adozione - rapporto di
coppia stabile, idoneità e differenza di età
con l'adottato - e sia accertata l'impossibilità di recuperare il rapporto del
piccolo con la famiglia d'origine.
Il ruolo significativo degli affidatari viene
ribadito nel caso in cui l'adozione non sia
possibile. Se prima non era consentito ai
bambini adottati mantenere rapporti con
chi li aveva cresciuti in affido per una
presunta semplificazione dell'introduzione del bimbo in seno al nuovo
gruppo, oggi al distacco non seguirà più il
silenzio. In nome del diritto alla
«continuità affettiva», il minore potrà
mantenere le «relazioni socio-affettive
consolidatesi».
Una decisione presa per contrastare gli
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effetti di quello che potrebbe essere
vissuto come un secondo abbandono.
Più importanza sarà data pure al minore.
Il tribunale dovrà sentire il suo parere nel
caso in cui abbia più di 12 anni o meno, se
sia ritenuto «capace di discernimento».
Gli affidatari saranno legittimati a
intervenire nei procedimenti civili in
materia di responsabilità genitoriale e
potranno presentare memorie.
L'ultimo dei quattro punti della legge
riguarda il caso particolare degli orfani di
padre e madre, adottabili da persone
legate da vincolo di parentela fino al sesto
grado o da rapporto stabile e duraturo
preesistente alla perdita dei genitori.
In questo caso, l'adozione sarà consentita
anche a coppie di fatto e single. Ed è
propria questa eccezione a ribadire gli
«esclusi» dalla legge, che non riconosce il
canale preferenziale agli affidatari non
sposati o soli.
Nonostante le molte polemiche per le
possibili discriminazioni, la legge, per gli
addetti ai lavori, rimane un importante
passo avanti. «Una bimba di cinque anni,
in affido da due, in Toscana, da oltre un
anno e mezzo si rifiuta di tornare dagli zii
secondo quanto stabilito dalla Corte racconta l'avvocato Sibilla Santoni - Non li
conosce e vuole stare con quella che sente
la sua famiglia. Questa legge forse potrà
aiutarla. È importante che sia riconosciuta
l'importanza dei legami costruiti dal
minore». Frida Tonizzo, consigliere
Anfaa, registra la storia di Silvia, in affido
a 7 anni, adottata, da altri, a 10: «Ha
sofferto davvero molto per il distacco e la
famiglia non ha più voluto bimbi in
affido».
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16/10/2015
Ban Ki-moon: «Gli italiani
eroici nell'accoglienza»
«Grazie per l'impegno con i profughi e la Libia»
diANGELO PICARIELLO
ROMA «Rendo omaggio agli uomini e alle donne
d'Italia che hanno salvato decine di migliaia di vite,
ringrazio l'Italia per tutto quello che ha fatto e per
tutti i sacrifici». È il passaggio più accorato
dell'intervento del segretario generale delle
Nazioni Unite, Ban Ki-moon.
Alla Camera si celebrano i 60 anni dall'adesione
dell'Italia all'Onu e la cerimonia - alla presenza del
capo dello Stato Sergio Mattarella del premier
Matteo Renzi, e dei presidenti delle Camere,
Grasso e Boldrini - diventa l'occasione per
tributare un grande riconoscimento per l'opera
eroica svolta da uomini dello Stato e volontari nel
salvataggio di vite in mare. «L'Italia da sempre è
stata ponte fra culture e con- tinenti e oggi avete
saputo attingere da questa esperienza per dare una
risposta forte, coraggiosa e profondamente umana
alla più grande crisi dei rifugiati e migratoria dalla
fine della Seconda guerra mondiale». Una vicenda
in cui l'Italia non ha incontrato grande solidarietà.
Il numero uno dell'Onu lo sa bene. «Vicinanza
geografica - ha ricordato - non significa
responsabilità esclusiva verso i migranti: tutti i
Paesi, lo dico sempre a tutti i Paesi europei, hanno
responsabilità». E l'accoglienza «è una
responsabilità globale che deve essere equamente
condivisa».
Un grande riconoscimento alla cultura italiana
andando con il ricordo - sottolineato da una
prolungata standing ovation - al grande contributo
di Alcide De Gasperi per l'adesione del-l'Italia alle
Nazioni Unite. E un ruolo di primo piano nella
costruzione della pace - per il quale Ban Kimoon
ringrazia per il suo impegno anche la Comunità di
Sant'Egidio - tocca di nuovo all'Italia, sulla Libia.
Ban Ki-moon ha lanciato un appello ai leader
libici. Un'investitura ribadita ieri anche dal
rappresentante dell'Onu per la Libia, Bernardino
León, in una conferenza stampa congiunta a
Palazzo Chigi col ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni: «Se l'accordo per l'unità nazionale in
Libia diventerà realtà - ha detto Leon -, l'Italia avrà
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un ruolo di guida nel processo di stabilizzazione
del Paese».
«Stiamo lavorando per raggiungere il maggior
consenso possibile», ha confermato il ministro
degli Esteri.
Ban Ki-moon ha preso la parola parlando in
italiano. La «cultura italiana - ha aggiunto - è
apprezzata in tutto il mondo, ma anche nella mia
patria quando indosso una cravatta made in Italy ho
l'impressione che mia moglie mi voglia un po' più
bene». Poi ha aggiunto, sempre sul filo dell'ironia:
lo scorso mese a New York «c'è stato un
grandissimo ingorgo, a causa di una sola, piccola
macchina italiana, la Fiat 500 del Papa. Quella 500
ha sempre maggiore successo, un po' come l'Italia
che è in movimento verso un nuovo futuro».
Renzi ha ricordato i vari teatri operativi in cui
l'Italia è presente, «in alcuni casi direttamente con
la guida dell'Onu, penso al Libano, al Kosovo, a
tanti nostri uomini che lavorano per un'idea pace
che non è astratta». L'Italia - ha proseguito il
premier - ha bisogno dell'Onu ma è anche vero che
l'Onu ha bisogno dell'Italia, del suo cuore, della sua
generosità e della sua passione ». Dal premier è
arrivato anche un impegno per l'immediato futuro:
«All'Italia dei volontari che lavorano nelle
periferie del mondo per la prima volta dopo tanti
anni torniamo a dare più soldi, proprio quest'anno
con la legge di stabilità».
«Guardiamo all'Onu con rinnovata fiducia », ha
detto il presidente del Senato Pietro Grasso, mentre
per la presidente della Camera Laura Boldrini è
inevitabile andare con «forte emozione » al suo
impegno di portavoce Unhcr. «Il mondo di oggi ha
bisogno delle Nazioni Unite, come mai prima negli
ultimi 70 anni». Quando ha preso la parola
Boldrini, i deputati di Forza Italia hanno innalzato
cartelli con le scritte: «Marò liberi» e «Free Italian
Marines», appena ultimato l'inno nazionale e la
presidente ha dovuto ordinarne la rimozione. Nota
stonata, infine, i banchi vuoti del M5S, cha parla di
«buffonate internazionali».
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20/10/2015
«Quando lo Stato specula
sulle ludopatie e la miseria»
Intervista a Maurizio Fiasco, sociologo della Consulta Anti-usura:
«L'economia delle slot produce danni alle persone e all'erario»
Lo stato biscazziere continua a speculare sulle ludopatie. Con la
legge di stabilità il governo Renzi, che solo due anni fa aveva
condannato l'esecutivo Letta per lo stesso vizio, prevede di aprire
22mila nuove sale giochi e incassare un miliardo di euro. A
Maurizio Fiasco, sociologo della Consulta nazionale antiusura e
presidente dell'associazione Alea, insignito da Mattarella del titolo
di Ufficiale dell'ordine al merito della Repubblica, chiediamo come
ci si possa contraddire in maniera così plateale. «Non sono nella
testa di Renzi - risponde l'autore del la ricerca Il gioco d'azzardo e
le sue conseguenze sulla società italiana - Probabilmente questo è
accaduto perché esiste una forte pressione sulla politica da parte
del sistema del gioco. Al suo posto chiederei conto della rozzezza
del paradigma economico proposto dai tecnici. Questo
provvedimento è una scorciatoia cognitiva prodotta da un cumulo
di incompetenze».
Qual è la più importante? Manca una valutazione ponderata dei
costi e benefici sul welfare, sull'economia, sulla sicurezza pubblica
e la salute delle persone. Oltre ai danni che provocherà sui
comportamenti della popolazione e sulle sue patologie, l'aspetto
più sconcertante di questa decisione è la sua irrazionalità
economica. L'azzardo è infatti un moltiplicatore economico
negativo. Investendo 100, il ritorno è di 75. È una tendenza,
dimostrata da una sterminata letteratura internazionale diffusa
dagli Stati Uniti all'Australia, molto meno in Italia, che ha effetti
esattamente opposti rispetto a quelli dichiarati. Sarà una palla al
piede per la ripresa e un boomerang. Per quale ragione?
L'economia dell'azzardo riduce le entrate tributarie dello Stato e
contribuisce alla sua crisi fiscale, aumentala depressione dei
consumi, ha un effetto di mantenimento del ciclo recessivo e
frenala possibilità di una ripresa della domanda interna di beni e
servizi. Quali sono i consumi da incentivare? Quelli della filiera
lunga che hanno producono maggiori benefici sul Pil,
sull'occupazione e sulle entrate fiscali. I prodotti della manifattura,
ad esempio, oppure quelli legati al turismo o al tempo libero. Mille
euro spesi per una vacanza hanno un impatto sulle entrate
infinitamente più apprezzabili dei mille spesi per l'azzardo. In
questo caso il prelievo erariale unico oscilla dal 2 per mille al
12,5%, ci sono imposte dirette come l'Irpeg e basta.
Se invece si comprasse un'automobile, ad esempio, si pagherebbe
anche l'Iva e poi si alimenterebbe l'indotto: il carrozziere, il
benzinaio, la manutenzione stradale. Nell'industria dell'auto 45
miliardi di spesa alimentano un giro di affari da 200 miliardi e da un
milione di occupati. Anche nel caso degli investimenti nella ricerca
il ritorno è molto alto. Questi sono casi di moltiplicatore positivo,
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direb be Keynes. Alimentare l'azzardo porta all'inasprimento della
criminalità, non riduce la devianza e peggiora le patologie
psicologiche. Fa male sia alle persone che alla spesa pubblica. Se si
vuole un vero sviluppo bisogna cambiare approccio. Altrimenti
«crescita» o «consumi» diventano frasi fatte. Perché i governi
cadono nello stesso vizietto? Usano questa scorciatoia perché allo
Stato servono soldi. Pochi, maledetti e subito a scapito di quelli
prodotti da una politica economica più lungimirante. Cosa rende
attraente l'azzardo agli occhi della classe politica? Dopo la
privatizzazione di importanti settori dell'economia italiana l'unico
che è cresciuto in maniera imponente, per decisione politica e non
per processo spontaneo, è stato il gioco d'azzardo. Parliamo di
ungi ro di affari imponente: il 10% dei consumi è generato da
questa economia. Quello del gioco d'azzardo è un mercato
protetto alimentato dalla concorrenza sleale dello Stato, che ne
detiene il monopolio, sugli altri competitori. La classe politica
prova l'ebbrezza di determinare i destini di un comparto che ha
numeri rilevanti. Dopo che gli è stato tolto il potere sulle banche e
sull'industria si rivale sui giochi per mantenerne uno.
Paradossalmente, se fossimo in un paese interamente liberista, un
boom di questa portata non sarebbe mai stato raggiunto. In una
crisi devastante aumentano le ludopatie. Cosa permette la
riproduzione di questo sistema? Si è creato un circuito collusivo in
cui coloro che si professa no contrari all'azzardo omettono tratti
importanti della realtà.
Di solito si sostiene che la dipendenza da azzardo è un problema
che riguarda una porzione limitata e fragile della popolazione, con
profili di personalità problematici. In realtà siamo di fronte a una
patologia sistemica non limitabile al pazzo o al maniaco. È
un'ebbrezza collettiva che ha trasformato un paese di
risparmiatori e di giocatori moderati in un popolo di giocatori
d'azzardo. Prima le donne non giocavano, oggi giocano quasi
quanto gli uomini. Alle slot machine non ci sono solo i giovani, ma
anche i pensionati. Cosa significa questo dal punto di vista
culturale? L'economia dell'azzardo riproduce un altro vizio italico:
la separazione tra popolo e intellettuali, tra la vita quotidiana delle
masse e quella di chi ha cultura. Quando parlo con i professori, gli
avvocati molti di loro non conoscono nemmeno l'abc di questa
realtà. Le classi colte non vedono questa tendenza, anche se i
quartieri in cui vivono sono pie nidi sale giochi. Questo può essere
il riflesso del combinarsi del potere della classe politica e il distacco
tra gli strati sociali del nostro paese. Quelli che stanno in basso
vivono qualcosa che non è condivisa da chi ha un livello di
istruzione più alto.
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21/10/2015
Adolescenti e maratone di alcol
La super-bevuta è nel weekend
Nuovi prodotti e sballo concentrato: come cambiano i riti collettivi
di ALESSANDRA DI PIETRO
Siamo i genitori che invecchiano con le All
Star ai piedi e fanno l'aperitivo al wine bar
sotto casa, ma quando ci troviamo davanti un
figlio che torna a casa brillo dopo una festa
di 16 anni, il cuore ci salta in gola e le
domande si affollano: che danni alla salute si
fa adesso e quali gli rimarranno dentro da
grande? E se sale in macchina con qualche
amico squinternato? C'è un modo per fargli
capire che è meglio non bere a questa età,
meglio iniziare il più tardi possibile e
imparare a farlo con criterio? Su quali canali
mi devo sintonizzare per capire, ascoltare e
aprire un dialogo? «Non viviamo in un mondo
perfetto. Non basta dire ai ragazzi che
l'alcol fa male perché smettano di berlo e non
dovrebbe sorprenderci, basta guardare a noi
adulti, forse siamo esenti da golosità, vita
sedentarie, sigarette e aperitivi sotto
casa?» Queste parole della sociologa Franca
Beccaria, sono la perfetta introduzione a Il
gioco della bottiglia. Alcol e adolescenti,
quello che non sappiamo (Add editore) un
reportage giornalistico tra storie di vita e
pareri
di
esperti.
Il
libro
nasce
dall'esigenza di indagare l'allarme mediatico
sul consumo di alcol tra i minori ma si muove
nella certezza che il clamore e i divieti non
risolvono un problema che c'è ed è reale.
I binge drinkers Secondo i dati Espad
(indagine europea che coinvolge circa 40
Paesi europei), in Italia due milioni di
studenti negli ultimi 12 mesi hanno bevuto
almeno una volta alcol, il 55% di loro lo ha
fatto meno di dieci volte, quasi 400.000 (il
20%) una volta al mese, per circa 500.000 il
consumo è stato più assiduo (fino a 20 volte o
più durante l'anno).
Se guardiamo i numeri, dice Sabrina Molinaro
del Cnr, non ci sono impennate, ma aggiunge
Beccaria che «il consumo è sfacciato e
visibile anche se la legge vieta la vendita ai
minori», regola violata giorno e notte
altrimenti non staremmo qui a discuterne.
Soprattutto aumenta la quantità di «binge
drinkers», ragazzi che bevono solo ogni
tanto, ma quella volta bevono più di sei
bicchieri.
L'unica raccomandazione possibile per i
minori è: ZERO ALCOL. Nel corpo ancora in
crescita manca, o funziona a bassissimo
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regime, l'enzima che serve a metabolizzare
l'alcol, questo vuol dire danni per fegato e
apparato digerente, mentre il cervello è
impegnato in una crescita delicata su cui è
saggio non interferire. Per le ragazze, poi,
il rischio è maggiorato da una ridotta
capacità di smaltimento e dall'interferenza
con i recettori degli estrogeni.
L'alcol è di sicuro la sostanza psicoattiva
più dannosa, accessibile, economica e allo
stesso la più diffusa nella nostra società
essendo legale, ma farne il fenomeno numero
uno della devianza dei ragazzi, significa
creare uno stereotipo che racconta una parte
degli adolescenti come fosse il tutto, ne
riduce la loro complessità, permette di
lavarci la coscienza con una sentenza
moralista buttata lì - magari rimpiangendo i
tempi andati come se fossero stati sempre
migliori. L'abuso dell'alcol tra i ragazzi,
invece, ci chiama in causa. Grande è stato lo
stupore e l'imbarazzo ogni volta che gli
adolescenti hanno evocato il bisogno di avere
genitori presenti, autorevoli, capaci di
essere un confine e di porre un limite. La
serietà di Lavinia, una delle ragazze
intervistate, quando dice: «Devi avere
qualcuno cui dare conto quando ritorni, ti
aiuta a tenerti entro i ranghi, eccome».
Prima di puntare il dito su di loro, è bene
accendere una luce sopra di noi. E ascoltare
quello che hanno da dirci, valorizzando le
loro esperienze. La storia di Jacopo, un
ragazzo astemio, ad esempio, è fantastica e la
sua capacità di dare valore a ciò che per il
gruppo è un disvalore («non farsi») è
notevole. In Europa, e in particolare nella
superalcolica Finlandia, stanno crescendo
quelli che come lui non toccano alcol. Forse è
il desiderio di distinguersi dalla massa?
Bello! Perché non dare valore e visibilità a
questi fenomeni? I ragazzi non sono tutti
uguali e però li sintetizziamo tutti in un
unico titolo, come se fossero una categoria
sola. Presi come siamo dalle percentuali di
chi
ha
comportamenti
a
rischio,
ci
dimentichiamo di guardare l'altra faccia
della medaglia, tipo quel 44% che nell'ultimo
mese non ha bevuto, o chi si tiene entro la
misura di una birra al mese ma è una quantità
distante dall'abuso che ci fa salire ansia e
preoccupazione.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
18 ottobre 2015
Cari fratelli e sorelle,
seguo con grande preoccupazione la situazione di forte tensione e di violenza
che affligge la Terra Santa. In questo momento c’è bisogno di molto coraggio
e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di
pace. Per questo preghiamo, perché Dio rafforzi in tutti, governanti e
cittadini, il coraggio di opporsi alla violenza e di fare passi concreti di
distensione. Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che
si faccia la pace nella Terra Santa: questo ci chiedono Dio e il bene
dell’umanità.
Al termine di questa celebrazione desidero salutare tutti voi che siete venuti a
rendere omaggio ai nuovi Santi, in modo particolare le Delegazioni ufficiali
di Italia, Spagna e Francia.
Saluto i fedeli delle diocesi di Lodi e di Cremona, come pure le Figlie
dell’Oratorio. L’esempio di san Vincenzo Grossi sostenga l’impegno per
l’educazione cristiana delle nuove generazioni.
Saluto i pellegrini venuti dalla Spagna, in particolare da Siviglia, e le Suore
della Compagnia della Croce. La testimonianza di santa Maria
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dell’Immacolata Concezione ci aiuti a vivere la solidarietà e la vicinanza con
i più bisognosi.
Saluto i fedeli provenienti dalla Francia, specialmente da Bayeux, Lisieux e
Sées: all’intercessione dei santi coniugi Ludovico Martin e Maria Azelia
Guérin affidiamo le gioie, le attese e le difficoltà delle famiglie francesi e di
tutto il mondo.
Ringrazio i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, come
pure le famiglie, i gruppi parrocchiali e le associazioni.
Ed ora ci rivolgiamo con amore filiale alla Vergine Maria.
© Copyright 2015 - Libreria Editrice Vaticana
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IL TATUAGGIO NELLA CULTURA
CONTEMPORANEA
Francesco Occhetta S.I.
Tatuarsi è una moda ormai diffusa nelle società occidentali: in Italia i tatuati
sono 7 milioni (13 italiani su 100). Soprattutto nei mesi estivi, vedere persone
di ogni età che hanno scelto di inscrivere sulla schiena, sui tricipiti e sulle
gambe cuori, draghi, putti, nomi o segni tribali ci induce a riflettere sulla
volontà di modificarsi e su quale idea di corpo attraversi la cultura
contemporanea. Sembra un paradosso, ma è proprio nel tempo della fragilità
dei comportamenti e della liquidità degli ideali, in cui ogni scelta sembra
assunta «a tempo», che il tatuaggio si impone come la traccia di una «identità
dilatata» e il simbolo del «per sempre».
I giovani, in genere, si tatuano per emulare i loro cantanti o giocatori
preferiti; gli adulti scelgono di inscrivere sulla propria pelle gli eventi più
importanti della vita: la nascita di un figlio, un lutto, la fine di un amore, la crisi
con un amico, trasformando il corpo nel diario della loro vita. Altri ancora si
tatuano per incidere sulla pelle una dimensione interiore che li interpella.
Tutti, però, consciamente o inconsciamente, «fermano» il tempo e, come un
ponte, lanciano un messaggio al mondo relazionale che li circonda.
L'idea classica di «bellezza nuda», contemplata nelle sue forme e
proporzioni naturali, lascia il posto ai disegni di corpi ritoccati in cui la ferita è
considerata una forma d'arte. Cambia lo sguardo sul corpo stesso: se il Davide
di Michelangelo, le tre Grazie del Canova, o qualsiasi altra forma di corpo
rappresentata classicamente, li si contempla attraverso l'armonia dell'insieme,
un corpo tatuato lo si guarda a partire dal particolare che disvela l'insieme.
Questa moda sociale che, consciamente o inconsciamente, modifica il corpo
attraverso il tatuaggio pone una domanda radicale sui limiti all'intervenire e
sul rapporto tra il corpo naturale e l'identità soggettiva.
Il fuoco sulla pelle
Il termine «tatuaggio» entra in Europa con l'esploratore James Cook. Nel
1769 questi lascia scritta nei suoi diari la parola in inglese tattoo per riprodurre
il suono onomatopeico «tau-tau» dello strumento utilizzato per battere l'ago
sulle carni; «tatuaggio», invece, tradurrà il termine francese tatouare. Sono gli
esploratori europei del Settecento a importare il tatuaggio in Europa da terre
lontane come l'Asia, in particolare dal Giappone, dal Tibet, dall'India e della
Nuova Zelanda.
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Alcuni antropologi considerano i tatuaggi come un ponte di collegamento
con culture lontane; per altri, essi sono una forma di esorcismo sul male e sulla
morte; altri ancora li considerano un linguaggio che sostituisce la parola. Ma
tutte queste definizioni sono eurocentriche e nascono a partire dagli anni
Settanta del secolo scorso, quando la parola che contesta (la politica, il
conformismo, la cultura dei consumi) lascia lo spazio alla modificazione e alla
mutilazione del corpo per esprimere dolore, disagio e nuove forme di identità.
«Le decorazioni, le ferite simboliche della carne enunciano i desideri, i dolori
e quell'insieme di stati sensoriali che vanno a definire una persona. La
carnalità, la fisicità diventano un rifugio e un campo di battaglia. Il corpo si
configura come l'unica proprietà di cui si dispone a piacimento».
È la cultura del post-umanesimo, nata alla fine degli anni Ottanta, a tenere a
battesimo l'uomo tatuato, quando l'identità viene pensata come qualcosa di
performativo. «L'individuo si posiziona entro uno specchio di possibilità che
vengono "drammatizzate", interpretate in maniera soggettiva. Nulla è ascritto
al corpo in maniera definitiva».Il tatuaggio è tra le conseguenze di una cultura
post-umana che legittima a «scegliere il proprio percorso identitario, fare le
proprie opzioni di genere scardinando la realtà così come siamo abituati a
pensarla». È l'identità che si fonda così su qualcosa di materiale, su azioni che
si incidono nel corpo e sulla volontà di manipolarlo. È l'epoca della postbellezza, definita come «l'estetica del simulacro, dove per essere non basta
apparire, ma occorre apparire in un certo modo, quello indotto da modelli che
comunque sono in continuo cambiamento, in una sorta di coercizione alla
liquidità».
Krystyne Kolorful, la prima donna a vincere il Guinness dei primati per
essersi tatuata dal collo alla punta delle dita dei piedi - spendendo circa 15.000
dollari -, e Rick Genest, il modello canadese conosciuto anche come Zombie
boy, esemplificano un dato: indietro non si può tornare.
Il fine del tatuaggio di moda, quello che è in auge in questi ultimi 20 anni,
non è più l'esperienza esotica o la protesta radicale verso il mondo, ma
anzitutto il desiderio di decorarsi. Non è più in discussione la ribellione, ma la
volontà di uscire da una normalità banale e monotona. Per questa nuova
cultura è stata decisiva l'antropologia della body modification, che, agli inizi
degli anni Novanta, promuoveva la modificazione del corpo con l'obiettivo di
esibire «corpi altri» per suscitare la repulsione di chi li osserva. È in questo
periodo che «la sfera individuale e quella pubblica del corpo si intersecano,
ridefinendo ruoli sociali e ruoli di genere», in cui si accentua la
vittimizzazione delle «carni femminili» e una visione spirituale del mondo
annichilita sul tempo presente.
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È vero, l'urlo di protesta che rappresentavano i tatuaggi del Novecento si è
trasformato in decorazioni da esibire, al punto che essi ormai sono beni di
consumo da paragonare a molti altri. Ma è proprio questo svuotamento di
senso a portare le persone che si tatuano a decidersi, «perché così fanno tutti».
Anche il New York Times ne ha sottolineato la mediocrità: «La gente adotta
trasgressioni accettabili - come i tatuaggi - per mostrare che sono persone
nervose, ma che rimangono entro i confini della classe media». Tutto è
delimitato dai confini della propria biografia personale: sono i momenti felici
e tristi che portano a tatuarsi. Ma nulla di più: è il soggettivismo anticomunitario a prevalere nella cultura contemporanea del tatuaggio.
Ogni disegno porta con sé un significato, come per esempio le rondini, che
rappresentano la voglia di evadere, oppure il tatuaggio marinaro, con cui si
esorcizza la paura della morte durante la navigazione. Si riproducono teschi,
demoni o simboli legati al lato oscuro dell'esistenza; oppure serpenti, pantere,
leoni, che rimandano alla trasgressione e alla forza; oppure farfalle, fiori di
loto, pavoni, per far risaltare l'intreccio tra i colori. Ci sono tatuaggi che
rimandano all'immaginario esotico: samurai, geishe, mostri mitologici.
Ma c'è di più: ci sono gruppi che utilizzano i tatuaggi come segni distintivi
per caratterizzare la loro identità sociale. Il mondo dark li utilizza per
rappresentare una visione del mondo oscura e dura. Spesso, oltre a farsi fare
tatuaggi figurativi, i seguaci dei gruppi dark si tatuano il labbro inferiore con
parole ad effetto, come hate (odio) o parole volgari.
Tra le sottoculture underground, i tatuaggi degli skinheads sono i più
violenti e ributtanti. Gli adepti di questo movimento, nato negli anni Settanta,
oltre alla ragnatela tatuata sul gomito, scelgono segni fascisti, forme di croci di
ferro blasfeme, disegni raffiguranti la tradizione guerriera nordica, come
quelli dei vichinghi o dei germanici, le iniziali di Adolf Hitler (AH), oppure il
tatuaggio dell'elmo troiano.
Vi sono poi i tifosi ultras delle squadre di calcio, che imprimono sulla pelle
il simbolo della propria squadra, oppure gli scudetti vinti. Per loro il tatuaggio
diventa una sorta di marchio di affiliazione alla società sportiva e la città. Gli
apripista sono stati, a metà degli anni Ottanta, gli hooligans.
Sebbene ciò sia poco noto, anche i pellegrini avevano l'abitudine di tatuarsi;
i più famosi rimangono quelli che raggiungevano il santuario di Loreto. La
tecnica - per raffigurare sul proprio corpo il volto di Cristo, Maria o santi come
Francesco e Antonio - era particolarmente dolorosa: il tatuaggio veniva
impresso in due fasi: «prima veniva disegnato sulla pelle il disegno,
solitamente con stampi in legno ricoperti di polvere di carbone.
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Successivamente, lungo le linee lasciate dallo stampo si eseguiva il tatuaggio
vero e proprio, tramite un supporto in legno con all'estremità due o tre piccoli
aghi che permettevano al residuo di carbone di penetrare nella pelle».
Il tatuaggio nella storia
Per gli studiosi del tatuaggio, è impossibile dare una risposta univoca sul
perché le persone si tatuino. In realtà, per comprendere la complessità del
tatuaggio, bisogna risalire alla notte dei tempi. La Bibbia ne parla e lo vieta nel
libro del Levitico: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi
farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore» (Lv 19,28). Per l'antropologia
biblica, il corpo è un dono di Dio da custodire. Anche nella Grecia classica e
nell'Impero romano il tatuaggio è stato tollerato, ma mai approvato.
Nelle culture giudaico-cristiana e greco-romana si marchiavano le persone
che sbagliavano, a iniziare da Caino. Si bollavano i nemici e gli schiavi che
fuggivano. Si racconta che, quando Cesare e la sua legione in Britannia videro
per la prima volta uomini tatuati, si spaventarono. Per lo storico Tacito,
davanti a un corpo tatuato, «per primi sono sconfitti gli occhi».
Invece, in altri luoghi, come in Egitto, Persia, in molte parti dell'Asia e
della Nuova Zelanda, il tatuaggio è stato per secoli un connotato sociale. Si
marchiava il corpo per riconoscere le grandi imprese vissute o lo stato sociale
di appartenenza. L'etnia dei maori si tatuava addirittura il viso con profondi
solchi, attraverso il cosiddetto moko.
Il tatuaggio giapponese è forse quello più studiato, ed esprime il maggiore
fascino. Nasce nel III secolo d.C. tra le classi più povere. I soggetti preferiti
sono i draghi, i volti umani e temi di racconti popolari. Tra questi si trova la
carpa gialla, soggetto molto diffuso, a indicare la persona che, come una
carpa, è capace di risalire il fiume (Huang Ho) della vita per trasformarsi in un
drago.
La cultura occidentale - eccetto Darwin e pochi altri - ha sempre espresso
riserve davanti a questo fenomeno. La punta più critica è rappresentata dalla
tesi di Lombroso, espressa nella rivista Archivio di Psichiatria, secondo la
quale il tatuaggio rispecchia l'identità di chi lo porta, un tipico segno di una
personalità criminale. È stato così per decenni.
Lungo la storia dell'Occidente il tatuaggio è stato anzitutto considerato
come un marchio infamante, il distintivo delle classi più basse, come i
marinai, i circensi, i carcerati e le prostitute. La pelle dei naviganti diventava la
carta delle loro rotte, insieme all'àncora e alla rosa dei venti, che fissavano
sulla carne la direzione delle rotte.
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Nei circhi, i primi uomini interamente tatuati sono stati gli schiavi portati
dalle isole del Pacifico. Tuttavia, l'esibizione dei tatuaggi era tra i numeri più
richiesti dal pubblico. Tra le donne, è ricordata Nora Hildendrant, interamente
tatuata dal padre, Martin, mentre gli studiosi citano tra i pionieri Horance
Ridler, l'uomo zebrato.
Uno studio a parte meriterebbero i tatuaggi dei carcerati, che nella storia
utilizzavano il corpo per raccontare il proprio sogno di libertà. I tatuaggi più
diffusi nelle carceri italiane riguardavano i temi religiosi - considerati come
scaramantici - e quelli della vendetta. Il tatuaggio è definito dai camorristi
«devozione». È nel carcere che la camorra ha creato tatuaggi di graduazione
(per i giovanotti onorati, i picciotti o i camorristi) o tatuaggi professionali: la
borsetta indicava il reato di borseggio, il rasoio uno sfregio, un asso di bastoni
il boss che controllava il territorio. Il tatuaggio fatto nelle carceri in Russia
scandiva le tappe della prigionia; quelli eseguiti in Francia raffiguravano, in
genere, soggetti antireligiosi. Insomma, il tatuaggio nel carcere rappresenta
un plus di sofferenza.
La salute
Il Consiglio superiore della Sanità, nelle Linee guida per tatuarsi, del 1998,
definisce il tatuaggio come «la colorazione permanente di parti del corpo
mediante l'introduzione sottocutanea e intradermica di pigmenti con l'ausilio
di aghi, oppure con tecnica di scarificazione, al fine di formare disegni o figure
indelebili e perenni». Il tatuaggio non può essere superficialmente confuso
con un makeup (il trucco), perché la pelle viene bruciata in modo irreversibile.
Va però aggiunto che per una piccola percentuale il tatuaggio ha finalità
mediche (0,5%) o estetiche (3%); è tecnicamente definito «trucco
permanente», perché serve per alleviare psicologicamente le ferite sul corpo
lasciate dalle operazioni chirurgiche.
Certo, da quando Samuel O'Reilly ha inventato, verso la fine
dell'Ottocento, la macchina elettrica per eseguire i tatuaggi, la situazione
igienico-sanitaria è migliorata, ma sono ancora troppe le conseguenze - tra cui
le infezioni - che i tatuaggi veicolano. Gli errori fatti nell'esecuzione del
tatuaggio non possono essere corretti, mentre l'eccessiva proliferazione di
studi e di laboratori, ormai sparsi capillarmente in tutto il Paese, sta
diffondendo la commercializzazione, mentre mette a rischio la qualità
igienica e stilistica del tatuaggio.
Il 3,3% delle persone che si tatuano hanno avuto complicanze o reazioni:
dolore, granulomi, ispessimento della pelle, reazioni allergiche, infezioni e
pus. Ma il dato appare sottostimato. Il 17% dei tatuati ha dichiarato di essere
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pentito, e oltre il 4% si è già sottoposto a trattamenti per cancellare il disegno.
Il ministero della Salute recentemente ha vietato alcuni pigmenti sintetici (in
particolare il nero e il rosso) a causa delle contaminazioni che recano; i colori
naturali invece hanno un'azione autosterilizzante. I1 18% delle sostanze usate
per marchiare la pelle è contaminato da microbi o funghi.
Per tatuarsi interamente la schiena o le gambe - per i più «coraggiosi», la
lingua o gli occhi -, occorre avere una resistenza al dolore molto alta. Quando
il movimento della macchinette permette agli aghi di entrare nella pelle
depositando il pigmento, si devono sopportare scosse che possono durare ore.
Circa 12.000 italiani ogni anno cercano di cancellarsi il tatuaggio
ricorrendo alla medicina estetica, con risultati deludenti, perché rimane
l'ombra. La rimozione di un tatuaggio è possibile solamente attraverso l'uso
del laser Q-switched, che emette quantità molto elevate di energia luminosa in
frazioni di tempo infinitamente piccole, per frammentare le particelle
d'inchiostro. Il tatuaggio inizia a schiarirsi circa 1 settimana dopo la prima
seduta, ma, per rimuoverlo, sono necessarie dalle 4 alle 10 sedute.
Conclusioni
L'evoluzione del tatuaggio di questi ultimi anni racconta davvero 1a storia
di una nuova libertà antropologica, in cui si intrecciano la vita personale e
quella sociale? A quali conseguenze personali e sociali porterà la scelta di
imporre il tatuaggio come consumo? È questa la nuova emancipazione in cui,
sulla carne nuda, si registrano le nuove battaglie dell'esistenza? La pelle
diventa una lavagna indelebile di un malessere (spirituale)? Si cambia il
proprio corpo perché non si riesce a cambiare l'ambiente circostante? Sono,
queste, alcune domande le cui risposte rimangono latenti nella cultura
contemporanea.
Di certo il corpo tatuato è diventato un confine e un crocevia tra le
dimensioni dell'interiorità e dell'esteriorità, tra l'estetica e la rappresentazione
di sé. Inoltre, per i giovani tatuarsi è uno dei pochi riti di iniziazione rimasti, o
un must per essere alla moda. I tatuaggi infatti sono una particolare forma di
lotta per andare al di là del convenzionalmente permesso, per sentire qualcosa
di forte. Come se la vita delle società occidentali non bastasse più. Per la
cultura contemporanea, «avere un corpo» da modificare prevale sulla
dimensione di «essere un corpo» con cui relazionarsi.
La sfida è, invece, quella di trovare un equilibrio che richiede un duplice
ethos: «Vedere la persona nel e al di qua del semplice corpo, l'ethos di chi si
offre allo sguardo richiede di presentarsi non come simulacro - pura apparenza
-, ma come soggetto». È questa una delle sfide culturali: ritrovare equilibrio
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tra l'immagine soggettiva del proprio corpo e quella oggettiva che si riflette
nello sguardo del proprio mondo relazionale.
Molti tatuatori sono considerati degli artisti. E lo sono realmente, ma a
scapito del soggetto, che sceglie di diventare un oggetto da dipingere allo
stesso modo di una tavola di legno, di una parete o di una tela.
Il tempo aiuterà a comprendere se la costruzione della propria identità
personale e sociale si limiti a significati parziali, centrati su un corpo prestato
come oggetto. Se per secoli il tatuaggio è stato sia il segno di un corpo
sconfitto sia un grido libero e rivoluzionario, questa cicatrice sulla pelle oggi
non è più percepita come tale. Quando la moda e il tempo passeranno e i
tatuaggi sulla pelle sbiadiranno, quali tracce rimarranno sui corpi? Aiutare le
persone a riconoscersi nel proprio corpo per ritrovare se stessi è un compito
arduo. E anche la cultura del tatuaggio deve riconoscere che non promette né
una seconda pelle, né nuove identità, né che non sfiorirà con il passare del
tempo.
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