25 ottobre 2015 - L`Agenzia Culturale
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25 ottobre 2015 - L`Agenzia Culturale
229 La n os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio Rassegna Stampa 25 ottobre 2015 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 17/10/2015 Francesco alla Fao: obiettivo improrogabile. No all'affannosa ricerca del profitto «Dobbiamo liberare l'umanità dalla fame» di MIMMO MUOLO ROMA La domanda del Papa è di quelle che scuotono le coscienze. «È ancora possibile concepire una società in cui le risorse sono nelle mani di pochi e i meno privilegiati sono costretti a raccogliere solo le briciole?». Domanda rivolta alle organizzazioni internazionali come ai governi, alle forze sociali come ai singoli. Cioè a tutti. Perché tutti, aggiunge Francesco, «siamo testimoni, spesso muti e paralizzati, di situazioni che non è possibile legare esclusivamente a fenomeni economici». E infatti «sempre di più la disuguaglianza è l'effetto di quella cultura che scarta ed esclude tanti nostri fratelli e sorelle dalla vita sociale». Le parole del Pontefice sono contenute nel Messaggio inviato al direttore generale della Fao, José Graziano da Silva, in occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione sul tema "Protezione sociale e agricoltura per spezzare il ciclo della povertà rurale", celebrata ieri anche in ambito Expo. Giornata che coincide anche con il 70° anniversario dell'istituzione della Fao, l'agenzia dell'Onu che combatte la fame nel mondo. Il testo (che Avvenire pubblica integralmente in questa stessa pagina) ribadisce alcuni capisaldi dell'insegnamento di papa Bergoglio in materia. Ma soprattutto rivolge un pressante appello affinché si trovino «i mezzi necessari per liberare l'umanità dalla fame e promuovere un'attività agricola capace di soddisfare le effettive necessità delle diverse aree del pianeta». L'analisi del Pontefice è contenuta in brevi ma incisive pennellate. «Viviamo un'epoca in cui l'affannosa ricerca del profitto, la concentrazione su interessi particolari e gli effetti di politiche ingiuste rallentano le azioni all'interno dei Paesi o impediscono una cooperazione efficace in seno alla comunità internazionale ». Un problema, che riguarda due terzi della popolazione mondiale »a cui manca una protezione sociale anche minima». Per questo, esorta Francesco, è necessario attuare l'Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, recentemente approvata dalle Nazioni Unite. «Auspico - scrive il Papa - che non resti solo un insieme di regole e di possibili accordi», anzi che «ispiri un modello diverso di protezione sociale, a livello sia internazionale sia nazionale». Si eviterà così, «di utilizzarla a vantaggio di interessi contrari alla dignità umana, o che non rispettano pienamente la vita, o per giustificare atteggiamenti omissivi che lasciano i problemi irrisolti, aggravando in tal modo le situazioni di disuguaglianza». Tuttavia, ammonisce il Messaggio, per liberare l'umanità dalla fame, «non bastano i buoni propositi». Così come «la condizione delle persone affamate e malnutrite evidenzia che non basta e non possiamo accontentarci di un generico appello alla cooperazione o al bene comune ». La risposta a quella domanda che scuote le coscienze consiste piuttosto, sottolinea papa Bergoglio, «nella pace sociale, vale a dire la L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che non si realizza senza un'attenzione particolare alla giustizia distributiva, la cui violazione genera sempre violenza ». Ciò che esige «una ferma volontà per affrontare le ingiustizie che riscontriamo ogni giorno», specie quelle che «offendono la dignità umana». E contro le quali l'azione della Fao «sarà fondamentale». RIPRODUZIONE RISERVATA 21/10/2015 L'apostasia dell'Europa Recuperare le radici cristiane per vincere "l'incompetenza morale" “Moralmente incompetente" è un'espressione ben riuscita in un lavoro di narrativa, nell'editoriale di un giornale e riferita alla condizione dell'Europa si colloca nel registro della tragedia. La frase completa di Bret Stephens sul Wall Street Journal è: "L'Europa sta morendo perché è diventata moralmente incompetente". Stephens non cade nella semplificazione del vecchio mondo che non crede in niente, perché gli europei credono in un sacco di cose, la tolleranza, i diritti umani, l'ambiente, ma "sono convinzioni superficiali, sostenute superficialmente", "carine ma secondarie". Quello in cui gli europei non credono più "sono le cose da cui le loro convinzioni sono scaturite", cioè la tradizione giudaico -cristiana, con tutto il suo portato in termini di libertà e capacità di costruire una società prospera. Qualche malconcia infiorescenza dell'uomo europeo è rimasta, ma le radici si sono inabissate, e quando si tratta di tracciare linee di demarcazione chiare - vedi politiche d'immigrazione l'Europa non ha la competenza morale per decidersi. Stephens prende a esempio la diplomazia di Angela Merkel, cancelliera del gran pilastro continentale e leader di un partito cristiano, che accoglie le richieste della Turchia e si fa garante dell'accelerazione del processo che la porterà in Europa. In cambio, Merkel fa le "richieste civiche" che gli europei di solito fanno, ignorando, o fingendo di non sapere, che l'islam di Erdogan le sue radici non le ha scordate. È la "singolare forma di apostasia" di cui parlava Benedetto XVI, profetizzando: "L'Europa ha bisogno di una nuova accettazione di se stessa se davvero vuole sopravvivere". pagina 2 17/10/2015 SULL'ORLO DEL P R E C I P I Z I O di LUCIO CARACCIOLO QUANDO nulla appare più possibile tutto diventa possibile. Persino che la Terra di Israele/Palestina s'avviti nel caos. PER MANCANZA di alternative. Giacché ormai tutte le ipotetiche soluzioni alla questione della sovranità sull'ex mandato britannico appaiono consunte. Impraticabili. Ai due Stati conviventi in pace l'uno al fianco dell'altro non crede più nemmeno chi per dovere di ufficio continua a sacrificarvi celebrando spente liturgie, vuoi per perpetuare lo status quo (Netanyahu) vuoi per segnalare la propria altrimenti impalpabile esistenza (Abu Mazen). Quanto allo Stato binazionale, ipotesi a suo tempo coltivata da alcuni protosionisti, presuppone un grado di fiducia fra concittadini arabi ed ebrei di cui oggi non si vede traccia. Restano in teoria alcune non-soluzioni - misure volte non a risolvere la disputa territoriale ma a limitare la violenza. Come l'apartheid in stile sudafricano, che però sancirebbe la morte della democrazia israeliana, insieme legittimando la guerriglia palestinese giacché chi si batte contro la discriminazione per razza non può essere bollato terrorista. E provocherebbe aspre forme di embargo inter-nazionale contro Israele, oltre a ritorsioni sugli ebrei in diaspora. Se poi lo Stato ebraico intendesse moltiplicare "barriere di separazione" e check point per limitare la diffusione della violenza palestinese, finirebbe per imprigionare se stesso, non solo i Territori, in un labirinto inabitabile. Già si trova a sezionare Gerusalemme, che pure vuole capitale una e indivisibile. È la carenza di prospettive che distingue la cosiddetta "terza intifada" dalle due precedenti. In questo caso il termine "intifada" ("rivolta") è però improprio. Qui non si tratta di una ribellione politica, più o meno armata e violenta, come in passato. Questa è la rivolta dei senza speranza. Soli, scoordinati, senza riferimenti. Almeno per ora. I giovani arabi che in Israele accoltellano per strada i concittadini ebrei o che vengono a loro volta liquidati dalle forze di sicurezza di Gerusalemme non perseguono un progetto politico. Non rispondono a nessun capo. E i palestinesi dei Territori hanno spesso perso quella minima base economica che consentiva loro di compensare la sconfitta geopolitica - vivere per sempre sotto occupazione. Le elemosine provenienti dall'esterno, soprattutto dal Golfo, cominciano a scarseggiare, sia perché i L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 "benefattori" sono in altre faccende affaccendati (per esempio noleggiare jihadisti sul fronte siriano), sia perché i confratelli arabi si sono stancati di fingere d'interessarsi alla causa palestinese (specie gli islamisti radicali, seguaci del "califfo" inclusi). L'intelligence israeliana discetta di "attacchi ispirati", diversi dal "terrore guidato". Violenza spontanea, non studiata. Ne sono protagonisti anche giovani acculturati, insospettabili. Ma deprivati socialmente e politicamente. Perché oggi il frastagliatissimo campo palestinese non esprime una guida. Se Abu Mazen è figura patetica, Hamas non sta molto meglio, pur se cerca di cavalcare la rivolta. La Cisgiordania è abbandonata a se stessa, mentre la Striscia di Gaza è infiltrata da cellule salafite, che lanciano sporadici razzi contro lo Stato ebraico. Sul fronte israeliano, Netanyahu è accusato di mollezza. Questa crisi lo ha sorpreso. Per lui il problema palestinese era in naftalina. Una fastidiosa infezione da tenere sotto controllo con qualche antibiotico, non certo una minaccia esistenziale. Soprattutto, gli mancano efficaci strumenti di reazione. Aerei e carri armati non servono contro i coltelli. Mentre Israele vincerebbe a mani basse qualsiasi guerra con i vicini e potrebbe venire a capo di una classica intifada colpendone le centrali vere o presunte, contro questo caos, esteso dalla Cisgiordania al territorio nazionale - dove è in questione l'asimmetrica coesistenza fra minoranza araba e non troppo omogenea maggioranza ebraica - il governo di Gerusalemme si scopre quasi inerme. Sicché gli ebrei israeliani ricorrono al fai-da-te, allestendo squadre di vigilantes o semplicemente girando armati, come il sindaco della capitale, Nir Barkat, che ostenta la sua pistola davanti alle telecamere. E a scanso di equivoci twitta (8 ottobre): "Attentati terroristici a Gerusalemme possono essere prevenuti grazie alla rapida risposta di cittadini responsabili. Detentori autorizzati e addestrati di armi possono salvare vite". C'è ancora tempo per evitare il caos che eccita gli estremisti musulmani ed ebrei, i quali amano santificare la propria causa con i colori del fanatismo religioso, nella terra più sacra ai tre monoteismi. Finora Israele ha resistito quale isola stabile e prospera nel mare in tempesta delle guerre islamiche. Oggi però la minaccia viene da dentro. E ne mette in gioco l'identità. Dunque l'esistenza. ©RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 3 15/10/2015 Voto bipartisan, le nuove norme sono legge: il bambino non dovrà cambiare famiglia Svolta nelle adozioni, affido corsia privilegiata di VALERIA ARNALDI ROMA. I bambini in affido potranno essere adottati dalle famiglie che li hanno accolti. Non solo. Gli affidatari, forti del legame già costruito, avranno una sorta di corsia preferenziale. Sono principi apparentemente semplici ma non scontati quelli previsti dalla legge sulla continuità affettiva. E, soprattutto, da ieri, sono principi concretamente applicabili. La Camera, con 385 voti favorevoli e solo due contrari, ha approvato definitivamente il testo in discussione, trasformandolo in legge. Una vera rivoluzione per molti e, soprattutto, per i bimbi. Il tribunale dei minorenni, qualora gli affidatari presentino domanda d'adozione, ora dovrà tenere conto dei «legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria». Ovviamente, solo laddove siano rispettati i requisiti per l'adozione - rapporto di coppia stabile, idoneità e differenza di età con l'adottato - e sia accertata l'impossibilità di recuperare il rapporto del piccolo con la famiglia d'origine. Il ruolo significativo degli affidatari viene ribadito nel caso in cui l'adozione non sia possibile. Se prima non era consentito ai bambini adottati mantenere rapporti con chi li aveva cresciuti in affido per una presunta semplificazione dell'introduzione del bimbo in seno al nuovo gruppo, oggi al distacco non seguirà più il silenzio. In nome del diritto alla «continuità affettiva», il minore potrà mantenere le «relazioni socio-affettive consolidatesi». Una decisione presa per contrastare gli L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 effetti di quello che potrebbe essere vissuto come un secondo abbandono. Più importanza sarà data pure al minore. Il tribunale dovrà sentire il suo parere nel caso in cui abbia più di 12 anni o meno, se sia ritenuto «capace di discernimento». Gli affidatari saranno legittimati a intervenire nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale e potranno presentare memorie. L'ultimo dei quattro punti della legge riguarda il caso particolare degli orfani di padre e madre, adottabili da persone legate da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori. In questo caso, l'adozione sarà consentita anche a coppie di fatto e single. Ed è propria questa eccezione a ribadire gli «esclusi» dalla legge, che non riconosce il canale preferenziale agli affidatari non sposati o soli. Nonostante le molte polemiche per le possibili discriminazioni, la legge, per gli addetti ai lavori, rimane un importante passo avanti. «Una bimba di cinque anni, in affido da due, in Toscana, da oltre un anno e mezzo si rifiuta di tornare dagli zii secondo quanto stabilito dalla Corte racconta l'avvocato Sibilla Santoni - Non li conosce e vuole stare con quella che sente la sua famiglia. Questa legge forse potrà aiutarla. È importante che sia riconosciuta l'importanza dei legami costruiti dal minore». Frida Tonizzo, consigliere Anfaa, registra la storia di Silvia, in affido a 7 anni, adottata, da altri, a 10: «Ha sofferto davvero molto per il distacco e la famiglia non ha più voluto bimbi in affido». © RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 4 16/10/2015 Ban Ki-moon: «Gli italiani eroici nell'accoglienza» «Grazie per l'impegno con i profughi e la Libia» diANGELO PICARIELLO ROMA «Rendo omaggio agli uomini e alle donne d'Italia che hanno salvato decine di migliaia di vite, ringrazio l'Italia per tutto quello che ha fatto e per tutti i sacrifici». È il passaggio più accorato dell'intervento del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Alla Camera si celebrano i 60 anni dall'adesione dell'Italia all'Onu e la cerimonia - alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella del premier Matteo Renzi, e dei presidenti delle Camere, Grasso e Boldrini - diventa l'occasione per tributare un grande riconoscimento per l'opera eroica svolta da uomini dello Stato e volontari nel salvataggio di vite in mare. «L'Italia da sempre è stata ponte fra culture e con- tinenti e oggi avete saputo attingere da questa esperienza per dare una risposta forte, coraggiosa e profondamente umana alla più grande crisi dei rifugiati e migratoria dalla fine della Seconda guerra mondiale». Una vicenda in cui l'Italia non ha incontrato grande solidarietà. Il numero uno dell'Onu lo sa bene. «Vicinanza geografica - ha ricordato - non significa responsabilità esclusiva verso i migranti: tutti i Paesi, lo dico sempre a tutti i Paesi europei, hanno responsabilità». E l'accoglienza «è una responsabilità globale che deve essere equamente condivisa». Un grande riconoscimento alla cultura italiana andando con il ricordo - sottolineato da una prolungata standing ovation - al grande contributo di Alcide De Gasperi per l'adesione del-l'Italia alle Nazioni Unite. E un ruolo di primo piano nella costruzione della pace - per il quale Ban Kimoon ringrazia per il suo impegno anche la Comunità di Sant'Egidio - tocca di nuovo all'Italia, sulla Libia. Ban Ki-moon ha lanciato un appello ai leader libici. Un'investitura ribadita ieri anche dal rappresentante dell'Onu per la Libia, Bernardino León, in una conferenza stampa congiunta a Palazzo Chigi col ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: «Se l'accordo per l'unità nazionale in Libia diventerà realtà - ha detto Leon -, l'Italia avrà L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 un ruolo di guida nel processo di stabilizzazione del Paese». «Stiamo lavorando per raggiungere il maggior consenso possibile», ha confermato il ministro degli Esteri. Ban Ki-moon ha preso la parola parlando in italiano. La «cultura italiana - ha aggiunto - è apprezzata in tutto il mondo, ma anche nella mia patria quando indosso una cravatta made in Italy ho l'impressione che mia moglie mi voglia un po' più bene». Poi ha aggiunto, sempre sul filo dell'ironia: lo scorso mese a New York «c'è stato un grandissimo ingorgo, a causa di una sola, piccola macchina italiana, la Fiat 500 del Papa. Quella 500 ha sempre maggiore successo, un po' come l'Italia che è in movimento verso un nuovo futuro». Renzi ha ricordato i vari teatri operativi in cui l'Italia è presente, «in alcuni casi direttamente con la guida dell'Onu, penso al Libano, al Kosovo, a tanti nostri uomini che lavorano per un'idea pace che non è astratta». L'Italia - ha proseguito il premier - ha bisogno dell'Onu ma è anche vero che l'Onu ha bisogno dell'Italia, del suo cuore, della sua generosità e della sua passione ». Dal premier è arrivato anche un impegno per l'immediato futuro: «All'Italia dei volontari che lavorano nelle periferie del mondo per la prima volta dopo tanti anni torniamo a dare più soldi, proprio quest'anno con la legge di stabilità». «Guardiamo all'Onu con rinnovata fiducia », ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso, mentre per la presidente della Camera Laura Boldrini è inevitabile andare con «forte emozione » al suo impegno di portavoce Unhcr. «Il mondo di oggi ha bisogno delle Nazioni Unite, come mai prima negli ultimi 70 anni». Quando ha preso la parola Boldrini, i deputati di Forza Italia hanno innalzato cartelli con le scritte: «Marò liberi» e «Free Italian Marines», appena ultimato l'inno nazionale e la presidente ha dovuto ordinarne la rimozione. Nota stonata, infine, i banchi vuoti del M5S, cha parla di «buffonate internazionali». RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 5 20/10/2015 «Quando lo Stato specula sulle ludopatie e la miseria» Intervista a Maurizio Fiasco, sociologo della Consulta Anti-usura: «L'economia delle slot produce danni alle persone e all'erario» Lo stato biscazziere continua a speculare sulle ludopatie. Con la legge di stabilità il governo Renzi, che solo due anni fa aveva condannato l'esecutivo Letta per lo stesso vizio, prevede di aprire 22mila nuove sale giochi e incassare un miliardo di euro. A Maurizio Fiasco, sociologo della Consulta nazionale antiusura e presidente dell'associazione Alea, insignito da Mattarella del titolo di Ufficiale dell'ordine al merito della Repubblica, chiediamo come ci si possa contraddire in maniera così plateale. «Non sono nella testa di Renzi - risponde l'autore del la ricerca Il gioco d'azzardo e le sue conseguenze sulla società italiana - Probabilmente questo è accaduto perché esiste una forte pressione sulla politica da parte del sistema del gioco. Al suo posto chiederei conto della rozzezza del paradigma economico proposto dai tecnici. Questo provvedimento è una scorciatoia cognitiva prodotta da un cumulo di incompetenze». Qual è la più importante? Manca una valutazione ponderata dei costi e benefici sul welfare, sull'economia, sulla sicurezza pubblica e la salute delle persone. Oltre ai danni che provocherà sui comportamenti della popolazione e sulle sue patologie, l'aspetto più sconcertante di questa decisione è la sua irrazionalità economica. L'azzardo è infatti un moltiplicatore economico negativo. Investendo 100, il ritorno è di 75. È una tendenza, dimostrata da una sterminata letteratura internazionale diffusa dagli Stati Uniti all'Australia, molto meno in Italia, che ha effetti esattamente opposti rispetto a quelli dichiarati. Sarà una palla al piede per la ripresa e un boomerang. Per quale ragione? L'economia dell'azzardo riduce le entrate tributarie dello Stato e contribuisce alla sua crisi fiscale, aumentala depressione dei consumi, ha un effetto di mantenimento del ciclo recessivo e frenala possibilità di una ripresa della domanda interna di beni e servizi. Quali sono i consumi da incentivare? Quelli della filiera lunga che hanno producono maggiori benefici sul Pil, sull'occupazione e sulle entrate fiscali. I prodotti della manifattura, ad esempio, oppure quelli legati al turismo o al tempo libero. Mille euro spesi per una vacanza hanno un impatto sulle entrate infinitamente più apprezzabili dei mille spesi per l'azzardo. In questo caso il prelievo erariale unico oscilla dal 2 per mille al 12,5%, ci sono imposte dirette come l'Irpeg e basta. Se invece si comprasse un'automobile, ad esempio, si pagherebbe anche l'Iva e poi si alimenterebbe l'indotto: il carrozziere, il benzinaio, la manutenzione stradale. Nell'industria dell'auto 45 miliardi di spesa alimentano un giro di affari da 200 miliardi e da un milione di occupati. Anche nel caso degli investimenti nella ricerca il ritorno è molto alto. Questi sono casi di moltiplicatore positivo, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 direb be Keynes. Alimentare l'azzardo porta all'inasprimento della criminalità, non riduce la devianza e peggiora le patologie psicologiche. Fa male sia alle persone che alla spesa pubblica. Se si vuole un vero sviluppo bisogna cambiare approccio. Altrimenti «crescita» o «consumi» diventano frasi fatte. Perché i governi cadono nello stesso vizietto? Usano questa scorciatoia perché allo Stato servono soldi. Pochi, maledetti e subito a scapito di quelli prodotti da una politica economica più lungimirante. Cosa rende attraente l'azzardo agli occhi della classe politica? Dopo la privatizzazione di importanti settori dell'economia italiana l'unico che è cresciuto in maniera imponente, per decisione politica e non per processo spontaneo, è stato il gioco d'azzardo. Parliamo di ungi ro di affari imponente: il 10% dei consumi è generato da questa economia. Quello del gioco d'azzardo è un mercato protetto alimentato dalla concorrenza sleale dello Stato, che ne detiene il monopolio, sugli altri competitori. La classe politica prova l'ebbrezza di determinare i destini di un comparto che ha numeri rilevanti. Dopo che gli è stato tolto il potere sulle banche e sull'industria si rivale sui giochi per mantenerne uno. Paradossalmente, se fossimo in un paese interamente liberista, un boom di questa portata non sarebbe mai stato raggiunto. In una crisi devastante aumentano le ludopatie. Cosa permette la riproduzione di questo sistema? Si è creato un circuito collusivo in cui coloro che si professa no contrari all'azzardo omettono tratti importanti della realtà. Di solito si sostiene che la dipendenza da azzardo è un problema che riguarda una porzione limitata e fragile della popolazione, con profili di personalità problematici. In realtà siamo di fronte a una patologia sistemica non limitabile al pazzo o al maniaco. È un'ebbrezza collettiva che ha trasformato un paese di risparmiatori e di giocatori moderati in un popolo di giocatori d'azzardo. Prima le donne non giocavano, oggi giocano quasi quanto gli uomini. Alle slot machine non ci sono solo i giovani, ma anche i pensionati. Cosa significa questo dal punto di vista culturale? L'economia dell'azzardo riproduce un altro vizio italico: la separazione tra popolo e intellettuali, tra la vita quotidiana delle masse e quella di chi ha cultura. Quando parlo con i professori, gli avvocati molti di loro non conoscono nemmeno l'abc di questa realtà. Le classi colte non vedono questa tendenza, anche se i quartieri in cui vivono sono pie nidi sale giochi. Questo può essere il riflesso del combinarsi del potere della classe politica e il distacco tra gli strati sociali del nostro paese. Quelli che stanno in basso vivono qualcosa che non è condivisa da chi ha un livello di istruzione più alto. pagina 6 21/10/2015 Adolescenti e maratone di alcol La super-bevuta è nel weekend Nuovi prodotti e sballo concentrato: come cambiano i riti collettivi di ALESSANDRA DI PIETRO Siamo i genitori che invecchiano con le All Star ai piedi e fanno l'aperitivo al wine bar sotto casa, ma quando ci troviamo davanti un figlio che torna a casa brillo dopo una festa di 16 anni, il cuore ci salta in gola e le domande si affollano: che danni alla salute si fa adesso e quali gli rimarranno dentro da grande? E se sale in macchina con qualche amico squinternato? C'è un modo per fargli capire che è meglio non bere a questa età, meglio iniziare il più tardi possibile e imparare a farlo con criterio? Su quali canali mi devo sintonizzare per capire, ascoltare e aprire un dialogo? «Non viviamo in un mondo perfetto. Non basta dire ai ragazzi che l'alcol fa male perché smettano di berlo e non dovrebbe sorprenderci, basta guardare a noi adulti, forse siamo esenti da golosità, vita sedentarie, sigarette e aperitivi sotto casa?» Queste parole della sociologa Franca Beccaria, sono la perfetta introduzione a Il gioco della bottiglia. Alcol e adolescenti, quello che non sappiamo (Add editore) un reportage giornalistico tra storie di vita e pareri di esperti. Il libro nasce dall'esigenza di indagare l'allarme mediatico sul consumo di alcol tra i minori ma si muove nella certezza che il clamore e i divieti non risolvono un problema che c'è ed è reale. I binge drinkers Secondo i dati Espad (indagine europea che coinvolge circa 40 Paesi europei), in Italia due milioni di studenti negli ultimi 12 mesi hanno bevuto almeno una volta alcol, il 55% di loro lo ha fatto meno di dieci volte, quasi 400.000 (il 20%) una volta al mese, per circa 500.000 il consumo è stato più assiduo (fino a 20 volte o più durante l'anno). Se guardiamo i numeri, dice Sabrina Molinaro del Cnr, non ci sono impennate, ma aggiunge Beccaria che «il consumo è sfacciato e visibile anche se la legge vieta la vendita ai minori», regola violata giorno e notte altrimenti non staremmo qui a discuterne. Soprattutto aumenta la quantità di «binge drinkers», ragazzi che bevono solo ogni tanto, ma quella volta bevono più di sei bicchieri. L'unica raccomandazione possibile per i minori è: ZERO ALCOL. Nel corpo ancora in crescita manca, o funziona a bassissimo L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 regime, l'enzima che serve a metabolizzare l'alcol, questo vuol dire danni per fegato e apparato digerente, mentre il cervello è impegnato in una crescita delicata su cui è saggio non interferire. Per le ragazze, poi, il rischio è maggiorato da una ridotta capacità di smaltimento e dall'interferenza con i recettori degli estrogeni. L'alcol è di sicuro la sostanza psicoattiva più dannosa, accessibile, economica e allo stesso la più diffusa nella nostra società essendo legale, ma farne il fenomeno numero uno della devianza dei ragazzi, significa creare uno stereotipo che racconta una parte degli adolescenti come fosse il tutto, ne riduce la loro complessità, permette di lavarci la coscienza con una sentenza moralista buttata lì - magari rimpiangendo i tempi andati come se fossero stati sempre migliori. L'abuso dell'alcol tra i ragazzi, invece, ci chiama in causa. Grande è stato lo stupore e l'imbarazzo ogni volta che gli adolescenti hanno evocato il bisogno di avere genitori presenti, autorevoli, capaci di essere un confine e di porre un limite. La serietà di Lavinia, una delle ragazze intervistate, quando dice: «Devi avere qualcuno cui dare conto quando ritorni, ti aiuta a tenerti entro i ranghi, eccome». Prima di puntare il dito su di loro, è bene accendere una luce sopra di noi. E ascoltare quello che hanno da dirci, valorizzando le loro esperienze. La storia di Jacopo, un ragazzo astemio, ad esempio, è fantastica e la sua capacità di dare valore a ciò che per il gruppo è un disvalore («non farsi») è notevole. In Europa, e in particolare nella superalcolica Finlandia, stanno crescendo quelli che come lui non toccano alcol. Forse è il desiderio di distinguersi dalla massa? Bello! Perché non dare valore e visibilità a questi fenomeni? I ragazzi non sono tutti uguali e però li sintetizziamo tutti in un unico titolo, come se fossero una categoria sola. Presi come siamo dalle percentuali di chi ha comportamenti a rischio, ci dimentichiamo di guardare l'altra faccia della medaglia, tipo quel 44% che nell'ultimo mese non ha bevuto, o chi si tiene entro la misura di una birra al mese ma è una quantità distante dall'abuso che ci fa salire ansia e preoccupazione. pagina 7 PAPA FRANCESCO ANGELUS Roma - Piazza San Pietro 18 ottobre 2015 Cari fratelli e sorelle, seguo con grande preoccupazione la situazione di forte tensione e di violenza che affligge la Terra Santa. In questo momento c’è bisogno di molto coraggio e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di pace. Per questo preghiamo, perché Dio rafforzi in tutti, governanti e cittadini, il coraggio di opporsi alla violenza e di fare passi concreti di distensione. Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che si faccia la pace nella Terra Santa: questo ci chiedono Dio e il bene dell’umanità. Al termine di questa celebrazione desidero salutare tutti voi che siete venuti a rendere omaggio ai nuovi Santi, in modo particolare le Delegazioni ufficiali di Italia, Spagna e Francia. Saluto i fedeli delle diocesi di Lodi e di Cremona, come pure le Figlie dell’Oratorio. L’esempio di san Vincenzo Grossi sostenga l’impegno per l’educazione cristiana delle nuove generazioni. Saluto i pellegrini venuti dalla Spagna, in particolare da Siviglia, e le Suore della Compagnia della Croce. La testimonianza di santa Maria L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 8 dell’Immacolata Concezione ci aiuti a vivere la solidarietà e la vicinanza con i più bisognosi. Saluto i fedeli provenienti dalla Francia, specialmente da Bayeux, Lisieux e Sées: all’intercessione dei santi coniugi Ludovico Martin e Maria Azelia Guérin affidiamo le gioie, le attese e le difficoltà delle famiglie francesi e di tutto il mondo. Ringrazio i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, come pure le famiglie, i gruppi parrocchiali e le associazioni. Ed ora ci rivolgiamo con amore filiale alla Vergine Maria. © Copyright 2015 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 9 quaderno 3968 24 ottobre 2015 IL TATUAGGIO NELLA CULTURA CONTEMPORANEA Francesco Occhetta S.I. Tatuarsi è una moda ormai diffusa nelle società occidentali: in Italia i tatuati sono 7 milioni (13 italiani su 100). Soprattutto nei mesi estivi, vedere persone di ogni età che hanno scelto di inscrivere sulla schiena, sui tricipiti e sulle gambe cuori, draghi, putti, nomi o segni tribali ci induce a riflettere sulla volontà di modificarsi e su quale idea di corpo attraversi la cultura contemporanea. Sembra un paradosso, ma è proprio nel tempo della fragilità dei comportamenti e della liquidità degli ideali, in cui ogni scelta sembra assunta «a tempo», che il tatuaggio si impone come la traccia di una «identità dilatata» e il simbolo del «per sempre». I giovani, in genere, si tatuano per emulare i loro cantanti o giocatori preferiti; gli adulti scelgono di inscrivere sulla propria pelle gli eventi più importanti della vita: la nascita di un figlio, un lutto, la fine di un amore, la crisi con un amico, trasformando il corpo nel diario della loro vita. Altri ancora si tatuano per incidere sulla pelle una dimensione interiore che li interpella. Tutti, però, consciamente o inconsciamente, «fermano» il tempo e, come un ponte, lanciano un messaggio al mondo relazionale che li circonda. L'idea classica di «bellezza nuda», contemplata nelle sue forme e proporzioni naturali, lascia il posto ai disegni di corpi ritoccati in cui la ferita è considerata una forma d'arte. Cambia lo sguardo sul corpo stesso: se il Davide di Michelangelo, le tre Grazie del Canova, o qualsiasi altra forma di corpo rappresentata classicamente, li si contempla attraverso l'armonia dell'insieme, un corpo tatuato lo si guarda a partire dal particolare che disvela l'insieme. Questa moda sociale che, consciamente o inconsciamente, modifica il corpo attraverso il tatuaggio pone una domanda radicale sui limiti all'intervenire e sul rapporto tra il corpo naturale e l'identità soggettiva. Il fuoco sulla pelle Il termine «tatuaggio» entra in Europa con l'esploratore James Cook. Nel 1769 questi lascia scritta nei suoi diari la parola in inglese tattoo per riprodurre il suono onomatopeico «tau-tau» dello strumento utilizzato per battere l'ago sulle carni; «tatuaggio», invece, tradurrà il termine francese tatouare. Sono gli esploratori europei del Settecento a importare il tatuaggio in Europa da terre lontane come l'Asia, in particolare dal Giappone, dal Tibet, dall'India e della Nuova Zelanda. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 10 quaderno 3968 24 ottobre 2015 Alcuni antropologi considerano i tatuaggi come un ponte di collegamento con culture lontane; per altri, essi sono una forma di esorcismo sul male e sulla morte; altri ancora li considerano un linguaggio che sostituisce la parola. Ma tutte queste definizioni sono eurocentriche e nascono a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando la parola che contesta (la politica, il conformismo, la cultura dei consumi) lascia lo spazio alla modificazione e alla mutilazione del corpo per esprimere dolore, disagio e nuove forme di identità. «Le decorazioni, le ferite simboliche della carne enunciano i desideri, i dolori e quell'insieme di stati sensoriali che vanno a definire una persona. La carnalità, la fisicità diventano un rifugio e un campo di battaglia. Il corpo si configura come l'unica proprietà di cui si dispone a piacimento». È la cultura del post-umanesimo, nata alla fine degli anni Ottanta, a tenere a battesimo l'uomo tatuato, quando l'identità viene pensata come qualcosa di performativo. «L'individuo si posiziona entro uno specchio di possibilità che vengono "drammatizzate", interpretate in maniera soggettiva. Nulla è ascritto al corpo in maniera definitiva».Il tatuaggio è tra le conseguenze di una cultura post-umana che legittima a «scegliere il proprio percorso identitario, fare le proprie opzioni di genere scardinando la realtà così come siamo abituati a pensarla». È l'identità che si fonda così su qualcosa di materiale, su azioni che si incidono nel corpo e sulla volontà di manipolarlo. È l'epoca della postbellezza, definita come «l'estetica del simulacro, dove per essere non basta apparire, ma occorre apparire in un certo modo, quello indotto da modelli che comunque sono in continuo cambiamento, in una sorta di coercizione alla liquidità». Krystyne Kolorful, la prima donna a vincere il Guinness dei primati per essersi tatuata dal collo alla punta delle dita dei piedi - spendendo circa 15.000 dollari -, e Rick Genest, il modello canadese conosciuto anche come Zombie boy, esemplificano un dato: indietro non si può tornare. Il fine del tatuaggio di moda, quello che è in auge in questi ultimi 20 anni, non è più l'esperienza esotica o la protesta radicale verso il mondo, ma anzitutto il desiderio di decorarsi. Non è più in discussione la ribellione, ma la volontà di uscire da una normalità banale e monotona. Per questa nuova cultura è stata decisiva l'antropologia della body modification, che, agli inizi degli anni Novanta, promuoveva la modificazione del corpo con l'obiettivo di esibire «corpi altri» per suscitare la repulsione di chi li osserva. È in questo periodo che «la sfera individuale e quella pubblica del corpo si intersecano, ridefinendo ruoli sociali e ruoli di genere», in cui si accentua la vittimizzazione delle «carni femminili» e una visione spirituale del mondo annichilita sul tempo presente. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 11 quaderno 3968 24 ottobre 2015 È vero, l'urlo di protesta che rappresentavano i tatuaggi del Novecento si è trasformato in decorazioni da esibire, al punto che essi ormai sono beni di consumo da paragonare a molti altri. Ma è proprio questo svuotamento di senso a portare le persone che si tatuano a decidersi, «perché così fanno tutti». Anche il New York Times ne ha sottolineato la mediocrità: «La gente adotta trasgressioni accettabili - come i tatuaggi - per mostrare che sono persone nervose, ma che rimangono entro i confini della classe media». Tutto è delimitato dai confini della propria biografia personale: sono i momenti felici e tristi che portano a tatuarsi. Ma nulla di più: è il soggettivismo anticomunitario a prevalere nella cultura contemporanea del tatuaggio. Ogni disegno porta con sé un significato, come per esempio le rondini, che rappresentano la voglia di evadere, oppure il tatuaggio marinaro, con cui si esorcizza la paura della morte durante la navigazione. Si riproducono teschi, demoni o simboli legati al lato oscuro dell'esistenza; oppure serpenti, pantere, leoni, che rimandano alla trasgressione e alla forza; oppure farfalle, fiori di loto, pavoni, per far risaltare l'intreccio tra i colori. Ci sono tatuaggi che rimandano all'immaginario esotico: samurai, geishe, mostri mitologici. Ma c'è di più: ci sono gruppi che utilizzano i tatuaggi come segni distintivi per caratterizzare la loro identità sociale. Il mondo dark li utilizza per rappresentare una visione del mondo oscura e dura. Spesso, oltre a farsi fare tatuaggi figurativi, i seguaci dei gruppi dark si tatuano il labbro inferiore con parole ad effetto, come hate (odio) o parole volgari. Tra le sottoculture underground, i tatuaggi degli skinheads sono i più violenti e ributtanti. Gli adepti di questo movimento, nato negli anni Settanta, oltre alla ragnatela tatuata sul gomito, scelgono segni fascisti, forme di croci di ferro blasfeme, disegni raffiguranti la tradizione guerriera nordica, come quelli dei vichinghi o dei germanici, le iniziali di Adolf Hitler (AH), oppure il tatuaggio dell'elmo troiano. Vi sono poi i tifosi ultras delle squadre di calcio, che imprimono sulla pelle il simbolo della propria squadra, oppure gli scudetti vinti. Per loro il tatuaggio diventa una sorta di marchio di affiliazione alla società sportiva e la città. Gli apripista sono stati, a metà degli anni Ottanta, gli hooligans. Sebbene ciò sia poco noto, anche i pellegrini avevano l'abitudine di tatuarsi; i più famosi rimangono quelli che raggiungevano il santuario di Loreto. La tecnica - per raffigurare sul proprio corpo il volto di Cristo, Maria o santi come Francesco e Antonio - era particolarmente dolorosa: il tatuaggio veniva impresso in due fasi: «prima veniva disegnato sulla pelle il disegno, solitamente con stampi in legno ricoperti di polvere di carbone. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 12 quaderno 3968 24 ottobre 2015 Successivamente, lungo le linee lasciate dallo stampo si eseguiva il tatuaggio vero e proprio, tramite un supporto in legno con all'estremità due o tre piccoli aghi che permettevano al residuo di carbone di penetrare nella pelle». Il tatuaggio nella storia Per gli studiosi del tatuaggio, è impossibile dare una risposta univoca sul perché le persone si tatuino. In realtà, per comprendere la complessità del tatuaggio, bisogna risalire alla notte dei tempi. La Bibbia ne parla e lo vieta nel libro del Levitico: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore» (Lv 19,28). Per l'antropologia biblica, il corpo è un dono di Dio da custodire. Anche nella Grecia classica e nell'Impero romano il tatuaggio è stato tollerato, ma mai approvato. Nelle culture giudaico-cristiana e greco-romana si marchiavano le persone che sbagliavano, a iniziare da Caino. Si bollavano i nemici e gli schiavi che fuggivano. Si racconta che, quando Cesare e la sua legione in Britannia videro per la prima volta uomini tatuati, si spaventarono. Per lo storico Tacito, davanti a un corpo tatuato, «per primi sono sconfitti gli occhi». Invece, in altri luoghi, come in Egitto, Persia, in molte parti dell'Asia e della Nuova Zelanda, il tatuaggio è stato per secoli un connotato sociale. Si marchiava il corpo per riconoscere le grandi imprese vissute o lo stato sociale di appartenenza. L'etnia dei maori si tatuava addirittura il viso con profondi solchi, attraverso il cosiddetto moko. Il tatuaggio giapponese è forse quello più studiato, ed esprime il maggiore fascino. Nasce nel III secolo d.C. tra le classi più povere. I soggetti preferiti sono i draghi, i volti umani e temi di racconti popolari. Tra questi si trova la carpa gialla, soggetto molto diffuso, a indicare la persona che, come una carpa, è capace di risalire il fiume (Huang Ho) della vita per trasformarsi in un drago. La cultura occidentale - eccetto Darwin e pochi altri - ha sempre espresso riserve davanti a questo fenomeno. La punta più critica è rappresentata dalla tesi di Lombroso, espressa nella rivista Archivio di Psichiatria, secondo la quale il tatuaggio rispecchia l'identità di chi lo porta, un tipico segno di una personalità criminale. È stato così per decenni. Lungo la storia dell'Occidente il tatuaggio è stato anzitutto considerato come un marchio infamante, il distintivo delle classi più basse, come i marinai, i circensi, i carcerati e le prostitute. La pelle dei naviganti diventava la carta delle loro rotte, insieme all'àncora e alla rosa dei venti, che fissavano sulla carne la direzione delle rotte. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 13 quaderno 3968 24 ottobre 2015 Nei circhi, i primi uomini interamente tatuati sono stati gli schiavi portati dalle isole del Pacifico. Tuttavia, l'esibizione dei tatuaggi era tra i numeri più richiesti dal pubblico. Tra le donne, è ricordata Nora Hildendrant, interamente tatuata dal padre, Martin, mentre gli studiosi citano tra i pionieri Horance Ridler, l'uomo zebrato. Uno studio a parte meriterebbero i tatuaggi dei carcerati, che nella storia utilizzavano il corpo per raccontare il proprio sogno di libertà. I tatuaggi più diffusi nelle carceri italiane riguardavano i temi religiosi - considerati come scaramantici - e quelli della vendetta. Il tatuaggio è definito dai camorristi «devozione». È nel carcere che la camorra ha creato tatuaggi di graduazione (per i giovanotti onorati, i picciotti o i camorristi) o tatuaggi professionali: la borsetta indicava il reato di borseggio, il rasoio uno sfregio, un asso di bastoni il boss che controllava il territorio. Il tatuaggio fatto nelle carceri in Russia scandiva le tappe della prigionia; quelli eseguiti in Francia raffiguravano, in genere, soggetti antireligiosi. Insomma, il tatuaggio nel carcere rappresenta un plus di sofferenza. La salute Il Consiglio superiore della Sanità, nelle Linee guida per tatuarsi, del 1998, definisce il tatuaggio come «la colorazione permanente di parti del corpo mediante l'introduzione sottocutanea e intradermica di pigmenti con l'ausilio di aghi, oppure con tecnica di scarificazione, al fine di formare disegni o figure indelebili e perenni». Il tatuaggio non può essere superficialmente confuso con un makeup (il trucco), perché la pelle viene bruciata in modo irreversibile. Va però aggiunto che per una piccola percentuale il tatuaggio ha finalità mediche (0,5%) o estetiche (3%); è tecnicamente definito «trucco permanente», perché serve per alleviare psicologicamente le ferite sul corpo lasciate dalle operazioni chirurgiche. Certo, da quando Samuel O'Reilly ha inventato, verso la fine dell'Ottocento, la macchina elettrica per eseguire i tatuaggi, la situazione igienico-sanitaria è migliorata, ma sono ancora troppe le conseguenze - tra cui le infezioni - che i tatuaggi veicolano. Gli errori fatti nell'esecuzione del tatuaggio non possono essere corretti, mentre l'eccessiva proliferazione di studi e di laboratori, ormai sparsi capillarmente in tutto il Paese, sta diffondendo la commercializzazione, mentre mette a rischio la qualità igienica e stilistica del tatuaggio. Il 3,3% delle persone che si tatuano hanno avuto complicanze o reazioni: dolore, granulomi, ispessimento della pelle, reazioni allergiche, infezioni e pus. Ma il dato appare sottostimato. Il 17% dei tatuati ha dichiarato di essere L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 14 quaderno 3968 24 ottobre 2015 pentito, e oltre il 4% si è già sottoposto a trattamenti per cancellare il disegno. Il ministero della Salute recentemente ha vietato alcuni pigmenti sintetici (in particolare il nero e il rosso) a causa delle contaminazioni che recano; i colori naturali invece hanno un'azione autosterilizzante. I1 18% delle sostanze usate per marchiare la pelle è contaminato da microbi o funghi. Per tatuarsi interamente la schiena o le gambe - per i più «coraggiosi», la lingua o gli occhi -, occorre avere una resistenza al dolore molto alta. Quando il movimento della macchinette permette agli aghi di entrare nella pelle depositando il pigmento, si devono sopportare scosse che possono durare ore. Circa 12.000 italiani ogni anno cercano di cancellarsi il tatuaggio ricorrendo alla medicina estetica, con risultati deludenti, perché rimane l'ombra. La rimozione di un tatuaggio è possibile solamente attraverso l'uso del laser Q-switched, che emette quantità molto elevate di energia luminosa in frazioni di tempo infinitamente piccole, per frammentare le particelle d'inchiostro. Il tatuaggio inizia a schiarirsi circa 1 settimana dopo la prima seduta, ma, per rimuoverlo, sono necessarie dalle 4 alle 10 sedute. Conclusioni L'evoluzione del tatuaggio di questi ultimi anni racconta davvero 1a storia di una nuova libertà antropologica, in cui si intrecciano la vita personale e quella sociale? A quali conseguenze personali e sociali porterà la scelta di imporre il tatuaggio come consumo? È questa la nuova emancipazione in cui, sulla carne nuda, si registrano le nuove battaglie dell'esistenza? La pelle diventa una lavagna indelebile di un malessere (spirituale)? Si cambia il proprio corpo perché non si riesce a cambiare l'ambiente circostante? Sono, queste, alcune domande le cui risposte rimangono latenti nella cultura contemporanea. Di certo il corpo tatuato è diventato un confine e un crocevia tra le dimensioni dell'interiorità e dell'esteriorità, tra l'estetica e la rappresentazione di sé. Inoltre, per i giovani tatuarsi è uno dei pochi riti di iniziazione rimasti, o un must per essere alla moda. I tatuaggi infatti sono una particolare forma di lotta per andare al di là del convenzionalmente permesso, per sentire qualcosa di forte. Come se la vita delle società occidentali non bastasse più. Per la cultura contemporanea, «avere un corpo» da modificare prevale sulla dimensione di «essere un corpo» con cui relazionarsi. La sfida è, invece, quella di trovare un equilibrio che richiede un duplice ethos: «Vedere la persona nel e al di qua del semplice corpo, l'ethos di chi si offre allo sguardo richiede di presentarsi non come simulacro - pura apparenza -, ma come soggetto». È questa una delle sfide culturali: ritrovare equilibrio L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015 pagina 15 quaderno 3968 24 ottobre 2015 tra l'immagine soggettiva del proprio corpo e quella oggettiva che si riflette nello sguardo del proprio mondo relazionale. Molti tatuatori sono considerati degli artisti. E lo sono realmente, ma a scapito del soggetto, che sceglie di diventare un oggetto da dipingere allo stesso modo di una tavola di legno, di una parete o di una tela. Il tempo aiuterà a comprendere se la costruzione della propria identità personale e sociale si limiti a significati parziali, centrati su un corpo prestato come oggetto. Se per secoli il tatuaggio è stato sia il segno di un corpo sconfitto sia un grido libero e rivoluzionario, questa cicatrice sulla pelle oggi non è più percepita come tale. Quando la moda e il tempo passeranno e i tatuaggi sulla pelle sbiadiranno, quali tracce rimarranno sui corpi? Aiutare le persone a riconoscersi nel proprio corpo per ritrovare se stessi è un compito arduo. E anche la cultura del tatuaggio deve riconoscere che non promette né una seconda pelle, né nuove identità, né che non sfiorirà con il passare del tempo. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 229 del 25 ottobre 2015