La confraternita delle ossa

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La confraternita delle ossa
Paolo Roversi
La confraternita
delle ossa
La prima indagine
di Enrico Radeschi
farfalle Marsilio i gialli
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FARFALLE
Dello stesso autore
nel catalogo Marsilio
Milano criminale
Solo il tempo di morire
Paolo Roversi
La confraternita
delle ossa
La prima indagine di Enrico Radeschi
ANTEPRIMA ESCLUSIVA
AD USO RISERVATO
Marsilio
Copyright © 2016, Paolo Roversi
Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)
© 2016 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Edizione speciale non venale
www.marsilioeditori.it
Questo libro è frutto dell’immaginazione dell’Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio.
LA CONFRATERNITA DELLE OSSA
1.
30 dicembre 2001
La mano lascia un’impronta rossa sulla pietra nuda.
Sangue.
L’avvocato Giovanni Sommese, membro di uno degli
studi più prestigiosi di Milano, si appoggia a una colonna
per non cadere. Gli gira la testa e il dolore è indicibile per
via del pugnale conficcato nel ventre.
Da piazza del Duomo gli giungono le voci delle persone ma lui non ha sufficiente fiato in gola per chiedere
aiuto.
Il grande abete addobbato scintilla nella notte; i turisti
lo fotografano e passeggiano estasiati in Galleria Vittorio
Emanuele II col naso rivolto all’insù per ammirare gli addobbi della cupola.
Il freddo è intenso ma Sommese, ormai, non lo avverte
più. Sente la vita correre via.
Con grande sforzo si toglie il coltello dal corpo. Subito
un copioso fiotto di sangue impregna i sampietrini sotto di
lui e il suo costoso abito sartoriale. Sa, per esperienza forense, che deve fare in fretta; con una ferita allo stomaco
non si sopravvive, morirà dissanguato nel giro di pochissimo tempo. Si lascia cadere e, combattendo col dolore lancinante, chiama a raccolta tutte le forze residue. Non ha
dubbi su chi abbia armato la mano dell’assassino.
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C’è una sola cosa che può tentare, ammesso che riesca
a restare attaccato alla vita il tempo necessario per portare
a termine quel compito...
*
«Caro Enrico Radeschi, da quello che leggo qui direi
che sei un candidato perfetto!»
Il matusa che ho di fronte sembra davvero soddisfatto.
Sorrido appena. Forse l’ho scampata ma è meglio non
appendersi al lampadario e dondolarsi per la gioia come
una scimmia. Sarebbe perlomeno prematuro.
Il colloquio, finora, è filato liscio nonostante mi senta
piuttosto a disagio in questo bar di classe: il Sant’Ambroeus,
uno storico caffè di corso Matteotti fra San Babila e la Scala, dove il tizio, che all’anagrafe fa Riccardo Guarneri, mi
ha dato appuntamento per fare colpo.
Quando arrivi nella grande città, la provincia te la
porti dentro come la puzza di naftalina sui vecchi vestiti
e certe cose, il verme deve saperlo fin troppo bene, intimidiscono. Non fosse altro per via dei tre spiccioli che
mi ritrovo in tasca: non posso certo permettermi un posto come questo, anche se, da che mondo è mondo, il
conto non dovrebbe toccare al sottoscritto. Ma non si
può mai sapere.
Il locale risale ai tempi della Belle Époque e ne ricorda
ancora i fasti: grandi specchi e sontuosi lampadari, camerieri in livrea e, dietro il lungo bancone, una fila di bottiglie perfettamente allineate tanto che, forse anche per via
del fumo che galleggia a mezz’aria, mi viene da pensare
che, da un momento all’altro, spunterà una donna in abito
scuro per ricreare una copia esemplare di quel quadro di
Manet, Il bar delle Folies-Bergère.
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A parte questo dettaglio che certo noto solo io, ciò
che colpisce di più è la montagna di dolci al cioccolato in
bella mostra nelle vetrine. A quanto pare – cioè da quanto risulta alla guida verde del Touring che ho letto in treno venendo a Milano – il locale è rinomato per i maestri
pasticceri che vi lavorano e, infatti, nonostante Natale sia
passato da qualche giorno ci sono ancora in vendita i panettoni tradizionali che, oltre a essere una specialità, sono una prelibatezza. Non penso però li facciano pagare
di meno solo perché il vecchio col vestito rosso s’è già
calato per il camino...
Abbuffarmi, comunque, mi sarebbe parso sfacciato al
mio primo colloquio di lavoro, così ho optato per un classico espresso. Anche perché se il matusa decide di farmi
pagare non mi devo dissanguare. Un paio di caffè me li
posso ancora permettere anche se, visto che sono quasi le
otto di sera, sarebbe stato meglio un aperitivo.
«Certo che con quel nome non sarà semplice...»
Oddio, ci risiamo. Come alle medie. Come al liceo. Come all’università. Come in ogni maledetto luogo in cui si
parla di lui.
Guarneri sorride, si stringe nelle spalle e aggiunge: «Intendevo che con quel cognome che porti qui non ti accoglieranno certo a braccia aperte. Non è che il maresciallo
Radetzky abbia lasciato un così bel ricordo a Milano...»
«Ma sono passati secoli!»
«Gli stronzi si ricordano sempre di tutto, ragazzo.»
Oh, ma non mi dire. Ne ho uno proprio qui davanti.
«Lo terrò presente.»
«Bravo. Vedi sono le piccole cose quelle a cui dobbiamo dare importanza nel nostro mestiere. I nomi, i luoghi,
le coincidenze. Tutta roba che la gente normale non nota.
Gli passano accanto senza accorgersene e invece...»
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«Invece?»
A volte, specialmente nelle interviste ai testimoni, è sufficiente ripetere l’ultima parola pronunciata dal tuo interlocutore perché la conversazione non langua.
«Invece dobbiamo tenere sempre le antenne rizzate.
Non ci deve sfuggire nulla. Specialmente i fatti secondari,
quelli a cui non si dà importanza. I giornalisti devono sempre essere sul pezzo, anche per quello che riguarda le piccole cose. Hai qualcosa sotto mano?»
«Sotto mano?»
«E non ripetere ogni volta quello che dico!»
«Scusi. Diceva?»
«Dico se hai una storia di cui ancora nessuno ha parlato.»
Già, bravo, e la vengo a raccontare a te?
«Be’, no.»
«Lo vedi? A questo punto io mi sarei aspettato una tua
proposta, uno spunto. E invece...»
«Invece?»
«Ma la pianti?»
Calma Enrico. Zen. A piedi nudi in un prato verde come il protagonista di quel film, Willy Signori. Solo senza
pestare merde. Respira.
«Una storia, diceva.»
«Esatto. Io ne ho una che sto cullando. Roba che ancora non è esplosa ma che sto monitorando.»
Come no. Avrai uno scoop che il Watergate a confronto
sarà una barzelletta, una storiella ridanciana per signore
imbolsite del Clackmannanshire su cui disquisire mentre
si prende il tè.
Mi fingo molto coinvolto. Ho bisogno di lavorare. E ho
la gola secca come il deserto dei Gobi.
Chissà quanto costerà un whisky in questo locale?
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Troppo. Anche se mi ci vorrebbe proprio per sopportare
le elucubrazioni di Guarneri. Che ora si è zittito. Vorrei
fargli la solita domanda interlocutoria ma non mi voglio
beccare un altro rimprovero. Quindi aspetto. Ho tutto il
tempo del mondo. E anche di più.
Alla fine il vecchio si rimette a confabulare con aria da
cospiratore.
«Da un po’ di tempo» dice abbassando il tono «continuano a sparire degli uomini.»
«E perché non se ne parla?»
«Perché non si sono mai trovati i corpi e questi magari
hanno solo tagliato la corda, hai presente? Via dagli obblighi, dalla quotidianità, dalle fidanzate, da una famiglia opprimente. Cose così. Ne abbiamo accennato una volta in
trasmissione ma l’argomento ha interessato poco il pubblico: senza il cadavere non c’è morbosità. E di conseguenza
niente audience.»
Mentre lo dice annuisce con aria severa, come se mi
avesse appena svelato il terzo segreto di Fatima anziché la
più trita delle ovvietà.
Rimango comunque zitto assumendo un’espressione
greve.
«Devi sapere che il mestiere di giornalista televisivo è
parecchio diverso da quello della carta stampata.»
Non è che questo mi prende per ebete? O forse è la
classica obiezione per abbassare la paga: Non hai esperienza? Allora ti becchi meno soldi. Semplice e lineare. Stringo
i denti e annuisco.
«Capisci? La televisione, ora che siamo nel nuovo millennio, ha tempi e modi diversi per raccontare le notizie.
Veloce, immediata.»
«Credo che mi adatterò.»
«Come fai a esserne tanto sicuro?»
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«Imparo in fretta.»
Lui abbozza mentre si fruga in tasca ed estrae un pacchetto di Marlboro. Sembra riflettere ma so che è solo una
tattica per tirare sul prezzo. L’adotterei anch’io se avessi
davanti uno sbarbato appena arrivato dai confini dell’impero e disposto a tutto.
Guarneri è caporedattore di Telecity Milano, un’emittente cittadina il cui segnale copre anche tutta la Brianza e
buona parte del pavese. Insomma, non è la Cnn e uno con
la mia esperienza sarebbe ben più che qualificato ma lui si
crede David Letterman e vuole farmelo pesare.
«Ascoltami bene» dice accendendosi una sigaretta.
«Quello che sto cercando è un assistente tuttofare. Uno
che mi stia dietro nei miei spostamenti, che mi faccia le
ricerche, che si occupi delle revisioni...»
Uno schiavo. Non lo dico, ovviamente, anzi faccio di sì
con la testa come se mi stesse proponendo il lavoro più
favoloso del mondo. Ora vorrei tossire visto che mi ha soffiato il fumo praticamente in faccia ma, con sforzi enormi,
resisto.
Quando si decideranno a vietare di fumare nei luoghi
pubblici anche da noi, come in tutti i paesi civili?
Guarneri non si accorge minimamente del disagio che
provo, preso com’è nell’elencare le mansioni da Umpa
Lumpa che mi attenderanno. Così, giusto perché non legga il disprezzo in fondo ai miei occhi, lascio che il mio
sguardo vaghi oltre il vetro del bar e si posi su una troupe
televisiva che sosta proprio sul marciapiede di fronte. Sulla telecamera e sul microfono della giornalista spicca il logo della Bbc, l’emittente pubblica inglese.
Guarneri nota subito la mia distrazione e, da vecchia
volpe, adatta prontamente il discorso alla situazione.
«Ecco, vedi? Quelli stanno facendo un servizio in ester-
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na. Fra qualche anno, se tutto andrà bene, anche tu potresti lavorare sul campo...»
«Qualche anno?»
Perché non un secolo o due? Magari dopo la prossima
glaciazione?
«Be’, ragazzo, leggo qui sul tuo curriculum che hai solo
ventisei anni, cosa pretendi? Sai quanto ci ho messo io prima di andare in video?»
«Quanto?» chiedo più per sfida che per interesse.
«Be’, parecchio! Parecchio davvero! Prima ho trascorso
un decennio a La Notte a farmi le ossa, poi tre a Telemontecarlo... Comunque non siamo qui per parlare di me. Raccontami un po’ di te, piuttosto. Com’è che hai deciso di
abbandonare il tuo paesello di provincia per trasferirti qui?»
«Cosa vuole sapere esattamente?»
«Oh, nulla in particolare. Solo tutto quello che non c’è
scritto qui. La vita vera, insomma. Che ti sei laureato in
Lettere alla Statale lo leggo da me. Anche se c’hai messo la
bellezza di sei anni... Cos’è, non ti piaceva studiare?»
«No, è che lavoravo. Sa, facevo lo studente fuori sede.
Venivo a Milano solo per gli esami e così ho perso un po’
di tempo...»
«Non hai mai vissuto qui?»
«Durante il primo semestre. A cavallo tra il ’94 il ’95.
Ha presente l’epoca della discesa in campo di...»
Lo sguardo del vecchio viene attraversato da un lampo.
Meglio correggere il tiro.
«Be’, insomma, negli anni di fermento dopo Tangentopoli. Il problema era che trascorrevo più tempo alle feste
che a lezione, quindi ho deciso di ritornare nella Bassa e di
studiare coi miei ritmi.»
«Capisco. E ora dove stai? Ho bisogno di qualcuno
sempre disponibile.»
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«Ah, di questo non si preoccupi; da ieri ho una sistemazione: condivido l’appartamento con uno studente del Politecnico, in piazza Piola.»
«Non sei troppo cresciuto per stare ancora con gli studenti?»
Ovvio che lo sono, carogna, solo che i miei non fanno
Rockefeller di cognome e quindi mi tocca adattarmi!
«Forse sì. Ma per ora è tutto quello che mi consentono
le mie finanze. Certo se dovessi ottenere questo lavoro...»
Il mio interlocutore solleva la mano in aria. Un gesto
solenne nelle intenzioni.
«Alt! Ti ho detto che mi serve un assistente, quindi finché farai la gavetta non avrai diritto a uno stipendio vero e
proprio. Diciamo che godrai di un rimborso spese.»
«Un rimborso spese? Tutto qui?»
Scuote la testa scocciato. Lui è scocciato!
«La vedi quella giornalista bionda lì fuori della Bbc?
Credi che lei non abbia fatto sacrifici per arrivare dov’è?
O peggio?»
«Peggio?»
«Stai facendo l’ingenuo ragazzo o sei semplicemente
tonto?»
Ora lo mando a cagare sul serio. Poi però ripenso al
prato verde, a Willy Signori che ci cammina a piedi nudi...
Non funziona granché. Mi resta la voglia di litigarci a morte. Per fortuna il suo telefonino inizia a squillare e questo
mi toglie dall’imbarazzo.
Ascolta con aria preoccupata, poi scatta in piedi.
Mi alzo a mia volta, senza capire se abbiamo finito o
meno il colloquio.
«Sei pronto ragazzo?»
«Pronto per cosa?»
«Be’, per la tua prima esperienza sul campo: mi hanno
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appena comunicato dalla redazione che c’è stato un omicidio in piazza dei Mercanti.»
«Un omicidio?»
«La città è pericolosa, sai? Non te l’avevano detto?»
«Sì ma...»
«Niente chiacchiere. Con cosa sei venuto?»
«In metrò.»
«Cosa?»
«Non ho la patente, quindi uso solo i mezzi pubblici.»
«Non ci siamo, ragazzo. Un cronista deve essere libero
di muoversi senza orari. Ti devi procurare un veicolo. Una
moto, una bicicletta...»
E tu con cosa sei venuto, in carrozza? Col taxi? No,
scommetto che pure tu usi i mezzi pubblici, magari facendo il portoghese sull’autobus e, ora che puoi, fai lo splendido con me.
«Fa niente!» annuncia come un fiero condottiero. «Andiamo a piedi. Tanto non è lontano.»
Fa scivolare una banconota da diecimila lire sul tavolo.
Lo seguo sollevato: perlomeno non mi ha lasciato il
conto da pagare.
*
Le luminarie si specchiano pigre nelle acque gelide del
Naviglio Grande mentre una coppia si bacia con trasporto
sotto al portico di legno del vicolo dei lavandai, incurante
della temperatura polare. Dal tavolo d’angolo in cui li ha
fatti accomodare il maître del Brellin si gode un’ottima vista sul pittoresco scorcio di quel quartiere dove non sembra nemmeno di stare a Milano. Loris Sebastiani, però,
non ci bada. Il romanticismo non fa per lui. Anzi, è concentratissimo nel fingere di studiare con attenzione l’eti-
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chetta della bottiglia di Lagrein della cantina Kellerei di
Bolzano, nel disperato tentativo di ricordare il nome della
ragazza che gli sta seduta di fronte.
Purtroppo senza successo. Che dal suo bicchiere si alzassero sentori fruttati di ciliegie mature e more, floreali di
viole e lillà, del resto, lo sapeva da sé. È un esperto, dopo
tutto. Ciò che ignora è il nome della sua accompagnatrice
e cerca in quel modo goffo di farselo venire in mente.
«Buono questo vino» cinguetta lei per rompere la monotonia. «Anche se io preferisco il bianco ghiacciato.»
Loris solleva appena gli occhi dalla bottiglia.
«Non avevo dubbi.»
Lei gli sorride di rimando.
«Perché?»
«Oh, chiamiamolo intuito.»
Sebastiani fatica perfino a ricordare dove l’abbia conosciuta. In un bar? In un negozio? In questura dopo una
retata?
Non certamente al vernissage di una mostra...
Sospira. Ci sarebbe arrivato con la deduzione: in fondo
è uno sbirro, no?
«Quindi tu, ehm, scusa, ho un vuoto di memoria improvviso... Non sai che giornata tremenda è stata oggi.»
«Minnie.»
«Ma certo! Quindi tu, Minnie, ti occupi di...»
«Moda, Loris. Lavoro nel campo del fashion.»
Sebastiani s’infila un toscanello fra le labbra riflettendo
mestamente sul fatto di essere uscito a cena con una donna
che sostiene di chiamarsi Minnie.
Comincia a mordicchiarne un’estremità come fa sempre quando è nervoso. Non fuma ma è un tabagista di riflesso, un consumatore per via orale, come ama definirsi.
Lui i sigari li mastica e si è chiesto un sacco di volte quanto
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faccia male questo vizio ma non ha mai voluto approfondire.
«Cosa fai, fumi? Prima dell’antipasto?»
«No, è solo una mania. Tengo il sigaro fra le labbra. Mi
aiuta a riflettere.»
«Ah sì? E su cosa dovresti riflettere in questo momento?»
«Be’...»
Il poliziotto benedice il cellulare che inizia a squillare.
Numero della questura.
«Scusa un secondo.»
Lei annuisce comprensiva.
Chissà per cosa sta il diminutivo Minnie: Mirna? Milena? Minerva, forse? Messalina?
Non che gli importi granché in fondo: adesso che ha la
scusa del telefono può finalmente concentrarsi sul décol­leté
di lei senza preoccuparsi di fare conversazione.
«Pronto dottore, mi perdoni per l’orario.»
La voce è quella dell’ispettore capo Vincenzo Lonigro.
Se chiama, riservato e riguardoso com’è, deve essere successo qualcosa di grave. Ragione non sufficiente, tuttavia,
per stendergli il tappeto rosso.
«Ti ascolto. Ragguaglio veloce.»
«In centro. Sotto al portico di piazza dei Mercanti, per
la precisione. C’è stato un accoltellamento. L’uomo è deceduto, solo che non è così semplice come sembra, dottore. Pare sia un avvocato molto conosciuto e poi... Insomma, meglio se viene a dare un’occhiata.»
«D’accordo. Arrivo.»
Minnie lo osserva scuotendo la testa.
«Mi spiace» annuncia Sebastiani, anche se il suo tono
esprime l’esatto contrario. «Ho un’emergenza.»
«A quest’ora?»
«Purtroppo sì.»
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«Vai ad arrestare qualche cattivo?» chiede la ragazza
mordendosi un labbro. Un gesto studiato e provocante.
Lui sorride versando a entrambi un altro giro di vino.
«Forse.»
«Non dovresti bere in servizio.»
«Lo so.»
Lei fa tintinnare il bicchiere contro quello del poliziotto.
«Dimmi un po’, Loris» chiede lasciando un’impronta di
rossetto sul vetro. «È sempre così eccitante il tuo lavoro?»
«Oh, Minnie. Non immagini nemmeno quanto!»
*
La Madonnina, simbolo della città, splende luminosa in
cima al Duomo. Si trova a poche centinaia di metri in linea
d’aria, così vicina che se allungasse la mano potrebbe toccarla. Fratello Ottaviano non lo fa, si limita a lanciarle una
rapida occhiata prima di calarsi il cappuccio nero sul viso
e girare la pesante chiave nell’antica serratura del portone.
Non è un prelato ma fra loro si chiamano fratelli, indossano un cappuccio chiuso con solo due fessure per gli occhi
e una tunica di lana grezza stretta in vita da un cordone da
cui pende un teschio.
Davanti a lui compare una lunga scala buia. L’uomo si
aiuta con una piccola torcia per percorrerla senza scivolare. Quell’ingresso è conosciuto e a disposizione solo della
confraternita. Nessun altro a Milano può usufruire di quel
passaggio.
Spegne la torcia. Non gli serve più adesso; ci sono le
candele – centinaia – a rischiarare le tenebre del piccolo
ambiente in cui è sbucato.
Si tratta di una cappella a pianta quadrata con al centro
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un altare, contornato da decine di ex-voto e reliquie. La
volta è affrescata con angeli e nuvole.
Quando vi mette piede, specialmente di notte, avverte
sempre un brivido corrergli lungo la schiena. C’è qualcosa
d’inquietante e spaventoso in quel luogo: contro le pareti
sono accatastate centinaia di ossa umane. Un macabro
spettacolo. Fratello Ottaviano sa che i resti provengono
dai morti dell’ex ospedale di San Barnaba in Brolo, quasi
sicuramente vittime della peste nera di manzoniana memoria. Spoglie vecchie di secoli. Tuttavia non sempre la
ragione ha la meglio sulle inquietudini umane. L’effetto,
specialmente alla luce delle candele, risulta inquietante.
Così come la vista delle cassette poste sopra la parte esterna. Dentro vi sono sistemati i teschi di decine di condannati a morte oltre a mandibole, tibie, femori di anonimi
criminali. Uno spettacolo decisamente macabro.
Uscendo dalla cappella, si sente sollevato.
Adesso è sbucato nella chiesa barocca, vuota e silenziosa.
Riaccende la torcia e individua rapidamente quello che
cerca. Al centro del pavimento in marmo la grata che conduce nel sottosuolo è stata sollevata, segno che il suo ospite è già arrivato.
Scende velocemente i pochi scalini che lo separano dalla cripta dove lo attende un uomo incappucciato.
Sta seduto su una delle quattro postazioni di marmo
scolpite appositamente per gli eletti.
«Buonasera, fratello Ottaviano.»
«Buonasera, Maestro»
«Ti stavo aspettando. Qualche problema?»
«No, nessuno.»
«Bene. Allora prego, ti ascolto.»
La voce del Maestro è ferma e serena. In tutti questi
anni, fratello Ottaviano ha notato che niente pare mai tur-
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barlo né irritarlo. Perfino quando si erano trovati ad avere
a che fare con situazioni difficili o estreme come quella che
stavano affrontando nelle ultime ore.
La preghiera, evidentemente, lo rende sereno e impermeabile alla rabbia, pensa prima di schiarirsi la voce e annunciare: «Tutto è stato fatto, Maestro. Seppur il tempo a
nostra disposizione questa volta fosse davvero poco... Rimarranno delle esili tracce ma se anche la polizia dovesse
seguirle non arriverà mai a noi. È stata predisposta una tutela preventiva. Ogni cosa esattamente come desiderava.»
«Come desiderava il Sublime.»
«Certo, Maestro. Mi scusi: come desiderava il Sublime.»
Anche se fratello Ottaviano non l’ha mai visto in volto
e ignora quindi quale sia il suo nome – solo i ranghi superiori della confraternita conoscono l’identità degli adepti
di rango inferiore – quella voce lo rincuora ogni volta. Sa
che sotto al cappuccio si nasconde un uomo di potere, non
più giovane, ovviamente, ma certo abituato a impartire ordini, uso al denaro e, al tempo stesso, misericordioso. Dote, questa, che condivide con tutti gli altri confratelli, uomini illuminati con un grande progetto da realizzare. Ispirati da uno dei santi più cari al loro ordine e ai milanesi:
san Carlo Borromeo.
Il silenzio viene rotto da un urlo straziante che giunge
alle loro orecchie dal fondo buio della cripta. Gemiti e
pianti seguiti da grida di dolore.
Fratello Ottaviano chiude gli occhi cercando di rimanere calmo e respira profondamente.
«Paura?»
«No, Maestro.»
«Sei pronto, fratello, per chiedere perdono e purificarti?»
«Lo sono, Maestro.»
«Sai che il dolore sarà quasi intollerabile, vero?»
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«Ne sono conscio. Ma la mia fede è salda e il mio corpo
ben disposto al supplizio.»
*
Un uomo accoltellato la notte prima di Capodanno in
pieno centro di Milano: ecco quant’è eccitante il mio mestiere, pensa Sebastiani scendendo dalla sua Alfa Romeo
156 nera, il lampeggiante blu ancora acceso sul tettuccio.
C’è una folla da non credere assiepata intorno al cadavere. Il vicequestore sospira; al confronto di quello che
l’attende una conversazione sulla teoria della relatività di
Einstein con Minnie gli risulterebbe un’alternativa allettante.
Il freddo è pungente e il poliziotto si stringe nel soprabito nero sotto il quale, come sempre, è elegantissimo.
Completo scuro di lana, scarpe di cuoio lucido, capelli tirati indietro col gel. E non solo perché viene da un appuntamento, quella è la sua divisa classica. Insieme all’immancabile toscanello spento in un angolo della bocca.
Le mani gli tremano ma non per il freddo: è infuriato;
non solo per la serata galante sfumata ma per la chiamata
che ha ricevuto mentre era in auto.
Il questore in persona, Lamberto Duca, al telefono da
Buenos Aires, dove avrebbe trascorso il Capodanno, si era
preso la briga di alzare la cornetta per chiedergli – meglio
ordinargli – di occuparsi di quel caso.
«Lo so Sebastiani che da domattina è in vacanza ma mi
capisca: sono tutti via e lei è l’unico di cui mi fidi rimasto
ancora a Milano. Poi deve sapere che la vittima era un mio
vecchio amico e proprio due giorni fa mi aveva telefonato
perché voleva incontrarmi per sottopormi una questione
urgente al mio rientro, dopo l’Epifania. Non credo che le
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cose siano collegate ma mi sentirei più tranquillo se seguisse lei l’indagine. Mi risolva questa rogna e poi potrà partire, d’accordo?»
Lui aveva grugnito un obbedisco fra i denti. Tutti in
questura sapevano che da quando si era separato dalla
moglie non aveva una famiglia a cui render conto quindi
niente orari e, di conseguenza, un sacco di tempo libero.
Il solo pensiero che fra poche ore avrebbe dovuto trovarsi su un aereo diretto a Marsa Alam per una settimana
d’immersioni nella barriera corallina lo manda in bestia.
«Buonasera, dottore» lo accoglie l’ispettore Luigi Mascaranti aprendo un varco a furia di spintoni fra i curiosi.
«Non lo è, se siamo qui» ribatte asciutto il vicequestore facendo scivolare il sigaro da una parte all’altra della
bocca.
Mascaranti non si scompone: è abituato al carattere ruvido del superiore. E poi non è mai stato permaloso. Sebastiani, dal canto suo, lo considera alla stregua di un uomo di
Neanderthal che, vai a sapere come, è riuscito a entrare in
polizia ed è ben felice di star lontano dalla moglie e dalla
famiglia per seguire quel caso. Tanto in ferie non ci va mai,
se non tre settimane ad agosto da certi parenti del sud.
«Venga, le faccio strada.»
Il vicequestore lo segue a testa bassa mentre due agenti
cercano di tenere a bada la folla di curiosi. Una cinquantina di persone almeno.
«E meno male che a Natale sono tutti più buoni» commenta Mascaranti.
«Natale è passato, ispettore. E quelli sono tornati a essere gli stronzi di sempre.»
«Così pare. Ecco, ci siamo.»
«Brutto spettacolo» commenta l’ispettore capo Lonigro accogliendo il superiore.
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Loris risponde con un grugnito.
«Quindi sappiamo chi è.»
Non è una domanda visto che la notizia è già arrivata
fino in Argentina.
«Si chiamava Giovanni Sommese, un principe del foro.
Perlomeno lo era stato. Aveva superato i sessantacinque e,
da qualche anno, non frequentava più il tribunale ma lavorava ancora. Il suo studio è proprio qui vicino, in piazza
Cordusio. L’assassino deve aver aspettato che uscisse per
poi assalirlo.»
«Un luogo non casuale?»
«Direi di no.»
Sebastiani si piega sulle ginocchia per osservare meglio il cadavere mentre il subalterno continua con la spiegazione.
«Lo hanno pugnalato tre volte allo stomaco, con quello
che si direbbe un coltello da cucina con la punta affilata; è
morto dissanguato prima che arrivassero i soccorsi. Durante l’agonia, però, ha avuto il tempo di fare questo.»
Lonigro indica un punto accanto al morto. Sebastiani si
piega per osservare.
«Siamo sicuri che l’abbia fatto lui?»
«Sì. E l’ha fatto con il suo sangue.»
Il vicequestore sospira e morde nervosamente il sigaro.
Ora capisce perché il questore si è scomodato a chiamarlo.
Quanto al morto, lui lo conosceva di fama: Sommese era
uno degli avvocati più in vista della città, casi celebri in
tribunale, nel cda di molte banche, sempre alla prima della Scala, perfino un Ambrogino d’oro, se la memoria non
lo inganna. Tutto il pacchetto, insomma, che ne faceva
uno degli uomini più potenti di Milano. E ora l’avevano
ammazzato, nel pieno centro della città.
Quello che più inquieta il vicequestore, tuttavia, è quel-
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la sorta di messaggio che il morente ha cercato d’inviare. E
che ora tocca a lui decifrare per scovare l’assassino.
*
«Un simbolo disegnato col sangue.»
«Ne sei sicuro? Non è che te lo sei sognato? Magari era
una semplice pozza di sangue e voi anime sensibili alla sola vista ci ricamate sopra...»
Il vecchio comincia davvero a risultarmi odioso; prima
mi manda avanti perché lui è esausto e poi mette in dubbio quello che gli riferisco.
«Sono sicuro.»
«Di che simbolo si tratta?»
«Non so, un...»
«Aspetta, fammi riprendere fiato...»
Guarneri ansima come un labrador dopo la corsa che ci
siamo fatti dal caffè a qui. Prima che mi spingessero via a
forza sono riuscito a dare un’occhiata al cadavere. Non
avevano ancora isolato la zona con i nastri bianchi e rossi
per tenere lontani i curiosi e così, approfittando di un attimo di distrazione della guardia, mi sono avvicinato e ho
notato quel macabro disegno.
Ai piedi di una colonna, e non una colonna qualsiasi,
quella con in cima l’effigie della scrofa lanuta, simbolo
della città. Lo so non perché io sia particolarmente erudito
bensì perché l’informazione è riportata su tutte le guide
della città; quindi anche su quella verde del Touring, il
mio personale vangelo.
Il morto ha la schiena appoggiata contro il basamento e
la testa piegata in avanti, crollata probabilmente quando la
vita se n’è fuggita via. Con una mano si tiene la ferita e con
l’altra... be’, ha disegnato quel simbolo.
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«Descrivimelo accuratamente.»
Il mio mentore ha ripreso colore e non sembra più
sull’orlo di un infarto.
«Assomiglia a un candelabro rovesciato.»
«Cosa?»
«Una Menorah, ha presente la lampada a sette bracci
degli ebrei?»
«No.»
Ah, perfetto! E poi sarei io quello che non sa niente?
Che deve imparare dai parrucconi che fanno questo mestiere da una vita? Che deve sudare anni e anni per...
«Allora ragazzo? Ti sei addormentato?»
«Come le dicevo sembra questo candelabro ebraico,
solo che è capovolto e con appena tre punte.»
«Quindi è una cosa diversa.»
«Forse. O forse la vittima non ha fatto in tempo a finirlo.»
«Non mi pare di grande aiuto.»
«Il fatto è che c’era tantissimo sangue sotto il corpo...»
«E tu cuoricino delicato ti sei impressionato?»
«Di cronaca nera ne ho macinata parecchia nella Bassa
e di morti, purtroppo, ne ho visti tanti.»
«Quindi?»
«Quindi so per esperienza che quando ti bucano la
pancia a quel modo muori dissanguato tra atroci dolori.
In questo caso, però, la vittima si è impegnata per tracciare quel disegno sul selciato, come a voler lasciare un’indicazione agli inquirenti. O a qualcuno che avrebbe dovuto capire.»
«Teoria interessante.»
Solo interessante, vecchia mummia? Evidentemente
questo è il massimo della gratificazione che Guarneri concede, visto che subito mi incalza con una nuova domanda.
«Hai scattato qualche foto?»
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«E con cosa? Magari il mio cellulare avesse la fotocamera! La macchina fotografica l’ho lasciata a casa.»
«Vedi che sei proprio un pivello? Tutti i giornali, tutti,
nessuno escluso, avrebbero pagato fior di quattrini per
quell’istantanea. Ora però non c’è tempo per recriminare.
Corri dall’altro lato del portico.»
«A fare cosa?»
«Per osservare da un’altra prospettiva e per ascoltare
quello che dicono gli inquirenti.»
La mia espressione deve esprimere tutti i miei dubbi
perché lui scuote la testa.
«Comincio a credere che tu non sia così sveglio come
pensavo» commenta prima di tossire. È tutto sudato e respira ancora a fatica.
«Vedi ragazzo, sotto questo portico, una volta, c’era un
antico mercato e l’acustica è stata costruita apposta per
poter comunicare da una parte all’altra del loggiato. Non
ci credi? Vai a metterti dietro la colonna di fronte a questa.
Vedrai un foro posto obliquamente: parlaci vicino e io da
qui sentirò tutto quello che dirai. E viceversa. Era un vecchio stratagemma utilizzato per comunicare dai commercianti. E noi lo utilizzeremo a nostro vantaggio, capito?»
Un punto per te, matusa. Questa mi piace. Non glielo
dico, ovviamente, e mi sbrigo a portarmi dal lato opposto
del colonnato mentre Guarneri si mette a tossire come un
tubo di scappamento.
Con grande stupore mi rendo conto che il vecchio ha
ragione: da qui riesco a carpire brandelli della conversazione tra un poliziotto in divisa e un tizio col paltò nero e
il sigaro in bocca che sembra essere il suo capo.
«Che cosa significherà quello scarabocchio?»
«Non ne ho idea, Lonigro. Intanto fai fotografare tutto
dalla scientifica.»
26
«Magari siamo fortunati e viene fuori che è una lettera
di qualche alfabeto strano. La prima lettera in geroglifico
del nome dell’assassino?»
«Come no: perché allora non ha scritto direttamente il
nome se lo conosceva? Voleva che risolvessimo un indovinello per arrestare il suo assassino? No, c’è qualcosa sotto.
Qualcosa che vuole comunicare. A noi o a chi comprenderà cosa significhi quel simbolo. Per il momento, comunque, teniamo la notizia riservata e che nessuno ne parli ai
media. Siamo intesi?»
Queste sono le ultime parole che riesco a cogliere. I due
si sono spostati di un paio di metri e non si sente più niente, blackout completo. Ho sicuramente del materiale interessante per Guarneri. Peccato che il vecchio cronista non
sia più dove l’avevo lasciato.
Ritorno di corsa dall’altra parte del loggiato.
Dove si sarà cacciato?
Ho una brutta sensazione, confermata dall’urlo di una
donna.
No, no. Mi affretto più che posso finché lo vedo...
Non ho nemmeno cominciato a lavorare e forse sono
già a spasso: il mio mentore giace a terra immobile.
*
L’ambulanza si fa largo a fatica fra la folla al punto che
la polizia è costretta a intervenire per permetterle di allontanarsi da piazza dei Mercanti invasa da volanti, furgoni
della scientifica e auto della municipale.
Hanno ragione a dire che in provincia si sta più tranquilli. Il casino lo trovi solo se t’infili nei centri commerciali, per il resto nada. Nessuno in giro, nessuno a ficcare
il naso. Qui a Milano no. C’è più ressa che alla sfilata di
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carri di carnevale di Viareggio. Del resto siamo un popolo
di guardoni, no? Quando rallentiamo in auto per vedere
l’incidente sulla corsia opposta, quando uno sviene e tutti
si fanno intorno anche se non sono medici.
Il delitto, poi, è solo una forma perversa di voyeurismo.
E oggi, sotto la Madonnina, è un 30 dicembre di luci blu e
rosse che attirano più curiosi del grande abete addobbato
di cristalli preziosi in piazza del Duomo, proprio qui accanto.
Sono tornato alla mia postazione sul lato opposto del
colonnato e di nuovo origlio la conversazione degli sbirri.
«Cos’è questo casino?» chiede quello col sigaro in bocca.
«Un giornalista s’è beccato un infarto. È corso qui apposta per vedere quello che succedeva e gli è preso un
coccolone. Per fortuna c’era un giovane con lui che gli ha
prontamente praticato il massaggio cardiaco.»
«Quale giovane?»
«Quel tizio lì che ci osserva con la barbetta e la giacca a
vento gialla.»
Il poliziotto segue con lo sguardo l’indice del collega.
Puntato sul sottoscritto. Eh sì, ho un brevetto di primo
soccorso. Non sono così idiota, visto, caro Guarneri? Se lo
fossi stato ora tu saresti dal creatore. Forse all’inferno, visto la bella persona che sei.
Ad ogni modo questo non è il miglior momento per
pensarci. I due sbirri mi stanno osservando e io, senza sapere esattamente che pesci pigliare, alzo istintivamente il
braccio come per salutare.
Non è la mossa della vita. Decisamente. La mia mano
destra è piena di sangue, dato che nella frenesia del momento – salvare una vita è una scarica di adrenalina che
uuuh fremo ancora al pensiero – mi sono scorticato il palmo contro lo spuntone di ferro di una colonna. L’effetto
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che suscito nei due poliziotti non è dei migliori. Ho un
paio di testimoni, però, che lo possono confermare: mi sono tagliato con un maledetto affare appuntito che sporge
dalla colonna, lo giuro vostro onore!
«Andiamo a farci due chiacchiere» ringhia quello che
comanda.
Ottima mossa, Enrico. Prendi nota: mai salutare gli
sbirri con le mani insanguinate, potrebbero pensare a te
come a uno dei cattivi.
Me li ritrovo davanti coi volti tirati.
«Il suo amico se la caverà?»
«Spero di sì. Anche se non è proprio un mio amico.»
«Ah no?»
«Si tratta di un collega.»
«Capisco. Cosa è successo alla sua mano?»
Me la sfrego sui pantaloni ottenendo il solo risultato
d’imbrattarli.
«Mi sono ferito mentre lo soccorrevo.»
«Uhm.»
Lo sbirro col paltò nero mi osserva. Tiene un sigaro
mezzo mangiato fra le labbra. Una specie di Clint East­
wood con quell’unica espressione: occhi semi chiusi e faccia incazzata.
Vai a sapere perché, ma decide di cambiare strategia;
compie un gesto ampio con la mano a indicare la folla assiepata intorno al cadavere adesso pudicamente coperto
da un lenzuolo.
«Sono tutti fuori di testa in questa città.»
«Così pare» rispondo a disagio.
«Io sono il vicequestore Loris Sebastiani. Mi occupo
delle indagini.»
«Omicidio, vero?»
«Lei cosa ne sa?»
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«Non lo so, chiedevo soltanto. Ho visto il coltello e ho
immaginato...»
«Ha immaginato cosa?»
«Niente.»
«Come ha detto che si chiama?»
«Non l’ho detto.»
«Fai un’altra battuta del genere, stronzetto, e te ne pentirai» ringhia.
È passato al tu e alle minacce. Brutto segno.
«Radeschi, Enrico.»
«Bravo. E di cosa ti occupi Radeschi Enrico?»
Vorrei riportare la discussione su un piano più professionale ma con quella alzata d’ingegno sul nome mi sono
giocato male le mie carte. Eh già.
«Sono un cronista di nera.»
Il sigaro di Sebastiani ha come un sussulto.
«Ah sì? E per quale testata lavori?»
«Nessuna.»
«Mi prendi in giro?»
«Sono un freelance. E vendo i miei pezzi al miglior offerente.»
«Come le battone?»
Che la battuta sia infelice, il vicequestore lo comprende
da sé. Ma non si scusa. Abbiamo cominciato decisamente
male.
«Senti, ragazzino vestito da Charlie Brown, fai una bella cosa. Levati dai piedi che qui abbiamo da fare. Magari
corri in ospedale a vedere come sta il tuo amico. Anzi,
pardon, collega.»
«E se poniamo il caso, io volessi rimanere qui?»
Lo dico apposta per dargli sui nervi, visto che appena si
volterà taglierò la corda. Ma polemizzare mi stuzzica. Ce
l’ho nel dna.
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Lo sbirro mi guarda. Non contrattacca, non azzanna.
Deve saperla lunga. Lui utilizza altri metodi per persuadere gli scocciatori.
«Oh, liberissimo» sorride. «Anzi, ti do un consiglio.»
Un consiglio da questo qui è l’ultima cosa che vorrei,
gradito come un confetto al gusto muffa. Ma non ho scelta, visto che quello prosegue imperterrito.
«Lo vedi il tizio laggiù con quel cappellaccio in testa? Si
chiama Beppe Calzolari ed è il caporedattore della nera
del Corriere della Sera. Uno che non alza il culo dalla sua
sedia nemmeno se cade la Madonnina. Se ne sta sempre
chiuso nella redazione di via Solferino e manda i suoi scagnozzi dove succede la tragedia. Sbarbati come te, in genere. Questa volta deve aver fatto un’eccezione, oppure
non ha trovato nessun altro a cui affidare la patata bollente. Magari potresti proporgli di scriverlo tu il pezzo. Cosa
ne pensi?»
Finisce la frase con una bella risata. Poi si volta per tornare dal suo ispettore che lo aspetta come un cagnolino
fedele.
«Oh sì, penso che lo farò» ribatto a mezza voce in modo che possa sentirmi solo lui. «Sono sicuro che gli piacerebbe sapere che la vittima prima di morire ha lasciato una
specie di messaggio scritto col proprio sangue...»
31
2.
«Ultimo dell’anno al Labanof. Sembra il titolo di un
horror di serie B, non trova?»
Sebastiani si limita a un grugnito e a una quasi impercettibile rotazione del sigaro per liquidare l’infelice battuta dell’ispettore Mascaranti.
A quell’ora sarebbe dovuto essere in volo per il Mar
Rosso anziché alla morgue. Tutta la questura, comunque, è
in fermento: la morte di un avvocato importante come
Sommese ha intasato il centralino. Politici, magistrati, avvocati: tutti vogliono sapere come sia potuto accadere che
in pieno centro storico durante il periodo delle feste qualcuno potesse uccidere un uomo e poi fuggire indisturbato! Se lo chiede anche Sebastiani, così come si domanda
cosa rappresentasse quel simbolo tracciato col sangue da
Sommese e se fosse indirizzato a loro o a qualcuno che
avrebbe capito. Per il momento stanno vagliando la prima
ipotesi visto che quel particolare non era stato diffuso e il
giovane sbarbato – Radeschi, si chiamava – quando ne
aveva fatto cenno era stato zittito in malo modo.
«Nessun messaggio» gli aveva risposto Sebastiani a muso duro. «Solo delle macchie senza senso. La vittima ha
perso troppo sangue e non era abbastanza lucida per scrivere. Tutto qui. Possiamo parlare al massimo di una mac-
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chia di sangue sbavata. La mano del morto è caduta nella
pozza e il movimento ha prodotto un segno. Tutto qui.»
Il giornalista se n’era andato via con l’espressione di chi
non se l’era bevuta ma, almeno, i grandi giornali non ne
avevano parlato.
Le brutte notizie, però, erano in agguato: l’arma del delitto – un coltello da cucina con lama in acciaio Inox – si
poteva acquistare in quasi tutti i supermercati della città e
le uniche impronte rinvenute sul manico erano quelle della vittima, segno che l’assassino aveva usato i guanti.
Nel frattempo, Lonigro, barricato in ufficio, era alle
prese con le rogne burocratiche e le foto scattate dalla
scientifica cercando di capire cosa rappresentasse quel disegno. A Sebastiani era quindi toccato portarsi il suo mastino, Mascaranti, alla morgue, dove pareva ci fossero già
delle novità.
«Entriamo, su.»
Labanof è l’acronimo di laboratorio di antropologia e
odontologia forense. Un edificio dell’università di Milano
in via Mangiagalli affacciato su un bel viale alberato, come
a volere stemperare quello che vi avviene all’interno. Principalmente autopsie e analisi sui cadaveri.
Per questo Sebastiani non si stupisce che il dottor Ambrosio, l’anatomopatologo con cui ha già avuto a che fare
in diverse occasioni, non sprizzi allegria né sia particolarmente brillante nella conversazione. Semplicemente riflette il mondo in cui è immerso giorno e notte, come un coleottero nel liquido d’incorporazione di un vetrino. Anche
se, a dire la verità, il necroforo non ha nulla dell’insetto: al
contrario è un uomo corpulento, sulla cinquantina, completamente calvo, scorbutico e poco loquace. Caratteristiche, queste, che il vicequestore non si stupisce di trovare
in qualcuno che si occupa tutto il giorno di cadaveri.
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«Non è mai successo prima che mi chiamasse così presto.»
Quello di Sebastiani sembra quasi un rimprovero.
«Non era mai successo prima che il questore mi facesse
rientrare da Courmayeur, durante le mie meritatissime ferie, per un’autopsia. Quindi prima la faccio, prima ritorno
in montagna, spero in tempo per il veglione di stasera. Ora
ha capito?»
«Non fa una grinza.»
«Ottimo. Vogliamo procedere allora?»
La stanzetta in cui entrano in fila indiana è asettica, piena di celle frigorifere d’acciaio.
Ambrosio s’infila i guanti e fa scivolare fuori da una di
esse il cadavere di Sommese.
Il sigaro nella bocca di Sebastiani scivola lento da un’estremità all’altra. Lo spettacolo non è mai piacevole in
questi casi.
L’uomo è nudo e sotto alla luce impietosa del neon sembra ancora più vecchio. Ha una cicatrice a forma di V sul
torace – quella classica dell’esame autoptico – e un bel taglio non ricucito sull’addome. Lì dove è stato accoltellato.
Presenta anche altri piccoli tagli: i rimanenti colpi inferti.
«La causa della morte, prima che me lo chieda, è un
colpo di arma da taglio allo stomaco. Il nostro uomo è
morto dissanguato in pochi minuti. Lo hanno colpito con
tre coltellate ma solo l’ultima è risultata letale.»
Sebastiani pare deluso: che fretta c’era di convocarlo lì se
gli stavano comunicando quello che già sapeva? Non bastava una telefonata e il referto spedito via fax come sempre?
Doveva esserci dell’altro. Così tiene queste considerazioni per sé e si limita a tormentare il suo sigaro coi denti.
Mascaranti, che invece il cervello ce l’ha sempre disconnesso, non riesce a trattenersi.
«Che l’avevano accoltellato già lo sapevamo, dottore.»
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Ambrosio lancia un’occhiata al poliziotto più offensiva
di mille insulti.
«L’uomo è sicuramente deceduto per le pugnalate, e
non ci piove. Però se vi ho fatto venire è perché diate
un’occhiata a questo.»
Con un gesto esperto il medico gira il cadavere sulla
pancia in modo che si veda la schiena.
Sebastiani sgrana gli occhi e, quasi inconsapevolmente,
inizia a masticare il toscanello come fosse tabacco.
«Non ce l’aspettavamo, in effetti» grugnisce Mascaranti prima di ritirarsi in un angolo, imbarazzato.
Sulla pelle di Sommese sono visibili una serie di orribili lacerazioni.
«Sono recenti e pre mortem» spiega Ambrosio. «Ferite
non ancora del tutto cicatrizzate.»
«Come se...»
«Come se l’avessero fustigato» completa la frase il medico. «Proprio così, Loris.»
*
«Quindi la tua brillante carriera nel giornalismo televisivo è già tramontata?»
La diplomazia non è certo fra le doti innate del mio
nuovo amico del cuore, Fabio Spadafora. E nemmeno il
tempismo, visto che se n’è uscito con questa domanda
idiota mentre siamo travolti da spintoni e gomitate.
Vorrei ignorarlo ma lui insiste.
«Allora? Cos’è, un segreto professionale di cui non
puoi parlare?»
«Non è un segreto» sospiro facendomi largo fra l’orda
umana che ci viene incontro. «E poi la mia carriera non è
tramontata. Semmai è in stand by.»
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«Che tradotto in parole povere?»
«D’accordo: sì!» sbotto. «Vuol dire che Guarneri ci ha
ripensato e non mi prenderà più come suo assistente.»
«Che carogna, eh?»
«E pensare che l’ho pure salvato! Ho perfino messo la
mia bocca sulla sua che sapeva di... bleah, non voglio nemmeno ricordarlo! Comunque un po’ lo capisco, poveraccio. Ieri è quasi schiattato e, a quanto dicono i medici, ne
avrà per diverse settimane prima di ritornare al lavoro.»
«Quindi cosa conti di fare adesso?»
«Non so, Fabio. Sto cercando di vendere il pezzo
dell’avvocato morto a tutti i quotidiani e settimanali di Milano ma finora non si sono nemmeno presi la briga di rispondermi. Hanno mandato i loro cronisti. Ed evidentemente se n’è già parlato fin troppo anche se nessuno ha
ancora fatto cenno al simbolo.»
«Forse è come diceva quello sbirro: il morto voleva
scrivere il nome di chi l’ha pugnalato ma si stava dissanguando ed è riuscito solo a tracciare uno scarabocchio
senza senso.»
«Dobbiamo parlarne proprio adesso?»
«Era tanto per fare conversazione.»
«Sono sicuro che con l’anno nuovo qualcosa salterà
fuori. Milano è la città delle opportunità.»
«Sei serio?»
«Certo! E poi non ho intenzione di deprimermi più del
dovuto stasera.»
«Come vuoi. Tanto peggio di così...»
Ha ragione. Fino a questo momento l’ebbrezza massima della nostra notte di Capodanno non ci è stata data
né dai fuochi d’artificio né dai tappi che hanno salutato
l’anno nuovo, ma dalla gente che si mette in coda ai bancomat.
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Piazza Duomo è invasa di gente, petardi e bottiglie di
vetro ovunque.
«Sembra Beirut sotto le bombe... Da noi nella Bassa i
capodanni in piazza sono diversi!»
«Togliamoci di qui» propone Fabio. «Finalmente è
ora!»
In mano teniamo un paio di birre con cui abbiamo
brindato. Sul palco, a circa un milione di anni luce da dove
ci troviamo, si esibisce un cantante napoletano di grande
successo ma, a quanto pare, la gente non lo ascolta granché, preferisce tirarsi addosso bottiglie mezze vuote di
spumante da due lire, scoppiare botti sui piedi del vicino
e saltellare sulle punte per scrollarsi via il gelo della notte.
Il freddo picchia duro sui nostri volti lividi e io ho voglia di rintanarmi sotto le coperte. Prima però abbiamo
una missione da compiere.
«Oggi è il primo giorno di una nuova era» annuncia
Fabio mentre ci mettiamo in coda allo sportello automatico di una banca. Questa bramosia da prelievo è inedita per
il sottoscritto ma motivata: a partire da mezzanotte in punto tutti quanti vogliono mettersi in tasca le nuove banconote! Toccarle, esaminarle e, magari, spenderle subito.
«Questo è l’anno zero dell’euro, la nuova moneta!»
Non che la cosa mi entusiasmi più di tanto, ma siccome
non ho nulla di particolarmente eccitante da fare assecondo lo spirito nerd del mio amico. Ecco allora che, dieci
minuti dopo, nel mio portafoglio di ecopelle, accanto alle
due banconote da diecimila lire infilo cinque banconote
da venti euro. Così colorate che sembrano quelle del Monopoli.
«Buon 2002!» gridano un paio di ragazze da un’auto in
corsa. Sono sbronze e si sporgono pericolosamente dai finestrini.
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Le saluto con la mano come un idiota. Speriamo davvero sia un anno buono quello che comincia stasera. Il 2001
è stato un mezzo disastro. Ed è finito anche peggio.
Anche se, devo ammettere, le speranze non sono mancate. Dopo Natale avevo chiuso la valigia ed ero salito sul
trenino che dalla Bassa faceva la spola con la metropoli. La
mia decisione era stata presa. Sofferta, ponderata ma irreversibile; indietro non sarei mai tornato: sarei partito per
Milano, come un emigrante degli anni Sessanta, per cercar
fortuna.
Il primo a incrociare la mia strada era stato Fabio, un
calabrese, studente al secondo anno d’ingegneria al Politecnico, che aveva messo un annuncio – di quelli con i bigliettini col numero di telefono che strappi e ti porti a casa
– su tutte le bacheche dell’università. Cercava un coinquilino per dividere le spese del monolocale in cui abitava.
L’avevo incontrato e lui mi aveva mostrato la stanza semi vuota: due letti singoli addossati alle pareti, un angolo
cottura, un tavolo, un armadio a quattro ante e una mini
dispensa.
«Russi di notte?» avevo chiesto.
«No.»
«Allora la prendo.»
Non ero certo venuto per alloggiare al principe di Savoia, quel monolocale in piazza Piola sarebbe andato benissimo. Soprattutto perché costava poco. Molto poco.
Che poi fosse temporanea come sistemazione l’aveva
messo subito in chiaro lo stesso Fabio: «A fine febbraio
abbiamo lo sfratto. Un paio di mesi e poi vedremo, ok?»
Io mi ero stretto nelle spalle. Otto settimane sarebbero
state più che sufficienti per capire se sarei riuscito a vivere
in quella città frenetica dove già una volta avevo tentato la
sorte.
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A ripensarci mi sembra sia trascorso un secolo, invece,
sono passati solo pochi anni.
Era successo, nel ’94, quando mi ero iscritto alla Facoltà di Lettere dell’università statale. A lezione c’ero andato
davvero poco.
Se n’erano accorti anche dalla Bassa, tanto che mio padre – venuto a conoscenza dei miei scarsi, anzi nulli, risultati nel primo semestre – mi aveva richiamato seduta stante alla base e io ero stato costretto a proseguire gli studi da
non frequentante, impiegando quasi sei anni per conseguire la laurea. Una vita intera!
Da quel momento il mio rapporto con la metropoli era
diventato sporadico, toccata e fuga: a Milano ci venivo in
giornata. Sveglia all’alba, treno, Facoltà, esame e poi subito a casa. Era capitato che qualche volta mi fossi fermato a
dormire da un amico o in uno di quei tristi hotel a una
stella di via Vitruvio che avevano il merito di costare poco,
ma niente di più. La città, insomma, non l’avevo vissuta se
non in quell’assaggio di pochi mesi che si potevano riassumere in sbronze notturne, canne diurne e scarsa luce del
sole. Conducevo, per così dire, una sorta di esistenza da
vampiro. Rare ore di lezione e molta notte. La Madonnina
di giorno non l’avevo praticamente mai vista se non in cartolina, ed era tutto dire!
Di Milano, tuttavia, avevo sempre conservato due bei
ricordi. Uno lontano e uno vicinissimo nel tempo.
Il primo risaliva a quando avevo dodici anni: con la
scuola ci avevano portati in gita a visitare il Duomo, il Castello Sforzesco e il museo della Scienza e della Tecnica (la
gabbia di Faraday con l’elettricità che l’avvolgeva e l’uomo
all’interno che se la cavava senza un graffio invece di friggersi costituiscono ancora oggi uno dei ricordi più strabilianti che io possieda); il secondo risale a circa tre mesi fa,
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quando ero venuto in città per presentarmi all’ordine dei
giornalisti e ritirare il mio sospirato tesserino: finalmente
ero diventato giornalista pubblicista!
Era il 10 settembre 2001, un lunedì, il giorno prima
dell’attacco alle torri gemelle.
Io come un alieno, mi ero goduto la città, inseguendo
solo i miei pensieri. Avevo girato a piedi fino a consumare
le suole delle scarpe. Dalla Centrale avevo percorso tutta
via Vittor Pisani per poi immettermi in via Turati e quindi
risalire via Manzoni sino a piazza della Scala, attraversare
a bocca aperta la Galleria e sbucare davanti al Duomo.
«Allora esiste davvero!»
Bianco e rosa, imponente, bellissimo con la Madonnina
d’oro che brillava sotto il sole tiepido di fine estate. Da
studente non c’ero mai venuto se non a notte fatta. E strafatto. Quindi non contava.
Quel giorno mi ero innamorato della città. Caotica, frenetica, viva.
Ritornando in treno a casa, quella sera, avevo deciso
che avrei tentato l’avventura.
«Se non ora, quando?» mi ero chiesto parafrasando il
titolo di un romanzo di Primo Levi. «È il momento di dare
una svolta alla mia vita.»
Lo era davvero, del resto. Con una laurea in tasca e un
tesserino da giornalista pubblicista guadagnato soffrendo
le pene dell’inferno, rincorrendo tutti i morti della provincia di Mantova, ritenevo fosse arrivato per me il momento
di cambiare aria. Se non avessi fatto nulla per migliorare la
mia situazione avrei dato di matto. Giuro. Avevo sopportato di lavorare per ventiquattro mesi scrivendo articoli di
ogni genere – dalla nera, soprattutto, allo sport, agli spettacoli, ai consigli comunali fiume che duravano anche sette ore... – tutti pagati ottomila lire a pezzo quando erano
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impaginati su due colonne e tredicimila lire quando erano su quattro. Tariffe al lordo delle tasse, ovviamente.
Una miseria.
Il giorno in cui il direttore mi aveva firmato le carte per
l’ottenimento del tesserino avevo provato una gioia immensa: il secondo grande traguardo della mia vita, dopo la
laurea. Scorgevo la luce in fondo al tunnel. Almeno così
credevo. Ben presto però l’eccitazione era svanita lasciando spazio allo sconforto.
Ero sempre stato convinto che diventare pubblicista mi
avrebbe aperto le porte; che mi avrebbero finalmente assunto alla Gazzetta di Mantova o, magari, a quella di Parma.
Non era successo e così, dopo mesi d’incertezza e mal
di stomaco, avevo deciso di andarmene da Capo di Ponte
Emilia, l’ultimo baluardo lombardo prima dell’Emilia che,
per via del nome, faceva cadere tutti nell’equivoco. Un po’
come Novi Ligure, che sta in Piemonte.
Questo sarà l’anno della svolta!, penso mentre con Fabio scendiamo i gradini della metropolitana per tornare a
casa.
Le lancette dell’orologio indicano mezzanotte e quattordici del primo gennaio 2002, ho ventisei anni e, nonostante solo ieri mi sia imbattuto in un morto ammazzato,
mi sento pieno di speranze per il futuro.
Il mio amico forse intuisce i miei pensieri e, caso strano,
decide pure di condividere l’entusiasmo.
«Sai che ti dico Enrico? Che se nessuno te lo prende
potresti fare da solo!»
«Come col sesso intendi?»
«Parlavo dell’articolo sull’avvocato morto!»
«Non ti seguo.»
«Ti metti in proprio. Almeno finché non trovi un acquirente.»
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«Che diavolo significa mettersi in proprio?»
«Non sei così creativo a quanto pare. Siamo nell’era della net economy, del boom di Internet... Apri un blog, no?»
«Un blog? È questa la tua sfavillante idea?»
«Lo sai cos’è un blog, vero?»
Una roba in rete uh?
«Ma certo che lo so! Per chi mi hai preso?»
«Ho capito. Non ne hai la minima idea!»
Bravo genio, ma non lo ammetterò mai!
«Un blog» continua lui paziente «è una sorta di diario
online che tutti possono leggere. Ce ne sono di tutti i tipi.
Chi parla di sé, chi racconta di viaggi, chi di donne, chi di
sesso. Tu parlerai di cronaca nera. La nera di Milano come
ti sembra?»
Mi sembra un’idea pazzesca! Perché non ci ho pensato
io? Ora, però, non posso mostrarmi troppo entusiasta sennò sai quanto me la menerà?
«Mi sembra un’idea passabile» gli concedo distrattamente «ma penso che il nome faccia schifo. Magari lo potrei chiamare Milanonera.»
Sì, Milanonera suona davvero bene.
*
Il solitario veglione di Capodanno di Loris Sebastiani è
costellato dai dubbi. Unica compagnia il televisore col volume azzerato sintonizzato sul canale della tv Svizzera Italiana, mentre sfoglia una guida sulle bellezze nascoste della città. In particolare sta cercando informazioni sul luogo
in cui è stato rinvenuto il cadavere.
«Piazza dei Mercanti è uno dei luoghi più antichi di
Milano, che esisteva già prima che venisse edificato il
Duomo e che si trova a poche centinaia di metri da esso.
42
Sotto i suoi portici si radunavano i commercianti, ma anche il popolo perché vi si tenevano le sedute del tribunale,
tanto che in uno dei palazzi intorno c’era anche un carcere. I portici e gli archi della piazza rappresentano un valore particolare per la città, visto che vi è scolpito un bassorilievo raffigurante la “scrofa lanuta” – una scrofa con una
sorta di pelliccia – animale al quale si associa la fondazione
della città di Milano.»
Il cadavere giaceva esattamente sotto al bassorilievo e la
simbologia che ne deriva non può essere stata scelta a caso, pensa Sebastiani chiudendo il libro.
Interrogativi a parte, la sua serata non era stata poi così
male. Era rientrato dalla questura distrutto; gli strascichi
dell’indagine sull’omicidio si facevano sentire pesantemente – giornalisti che chiamavano, politici che alzavano la voce, il questore che voleva essere costantemente aggiornato
sugli sviluppi, la difficile ricerca di testimoni affidabili; non
c’è niente di peggio di uno che ricorda vagamente e ti mette
più sulla cattiva strada che su quella buona...
Arrivato a casa si era infilato sotto la doccia per togliersi di dosso la sgradevole sensazione di quella giornata d’indagini inconcludenti. E il senso di morte che finiva per
opprimerlo ogni volta che gli capitava di transitare al Labanof.
Uscito dal bagno era passato in cucina dove lo attendeva una sorpresa: Maria gli aveva lasciato un pensiero.
«Qualcuno che mi pensa ancora quindi c’è» si era detto
controllando il contenuto della pentola.
Maria era la sua donna di servizio, anche se definirla
così sarebbe riduttivo; lei, in realtà, si prendeva cura di
Loris quasi come una seconda madre. Era alle sue dipendenze da diverso tempo, assunta da sua moglie (ormai ex)
subito dopo le nozze.
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«Ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano con le
faccende domestiche. Tu non muovi un dito e io non sono
la tua serva, chiaro?»
Lui aveva acconsentito e una settimana dopo ecco fare
il suo ingresso nella loro casa una donnina sui cinquanta,
vedova ma con un sorriso dolce sempre sulle labbra.
Dopo tre lustri sua moglie Giulia se n’era andata mentre Maria era rimasta. Nonostante non fosse più giovane,
restava una donna energica, dotata di una tempra formidabile. Cucinava, stirava, lavava, si preoccupava di portare
gli abiti del poliziotto in lavanderia, gli riempiva il frigorifero. E lo viziava.
Gli aveva lasciato un biglietto scritto a mano in stampatello con quella sua calligrafia infantile.
«Una mia specialità per il tuo cenone. Buon anno.»
Dentro il tegame c’era un’abbondante porzione di fettuccine al ragù di cinghiale. Sebastiani si era subito sentito
sollevato e aveva deciso che la pietanza meritasse un abbinamento adeguato. Aveva quindi ispezionato la sua cantinetta frigo da sessanta bottiglie, una via di mezzo fra un
mobile e una vetrina che però custodiva alla temperatura
ideale i suoi tesori: vini che provenivano da tutto il mondo, comprati da Sebastiani nel corso dei suoi viaggi per
visitare cantine.
Quella sera aveva pescato una bottiglia da grande occasione: un Sassicaia del 1992.
«Annata con pochissima piovosità» aveva recitato fra
sé e sé mentre stappava e lasciava arieggiare nel decanter
di cristallo «che ha conferito al vino struttura e tannini
ricchi. Senza fargli perdere la finezza. Spero.»
Il prezzo non aveva importanza. Doveva farsi del bene.
Bastare a se stesso. Risollevarsi, e per farlo non c’era niente di meglio che una stampella da mezzo stipendio.
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La solitudine non è una cosa cattiva se riesci a sopportarla con stile, aveva pensato gustando il primo bicchiere
di quel nettare. Anche la cena che ne era seguita era stata
ottima, all’altezza della miglior cucina di Maria, che nel
sugo di cinghiale si era superata.
Finite le fettuccine e il vino era subentrato nel poliziotto un senso di sconforto o, meglio, la consapevolezza che
quello, dopo tanti anni, sarebbe stato il primo Capodanno
che avrebbe trascorso completamente solo. Subito dopo la
separazione – che risaliva al gennaio del 2000 – si era affrettato a reagire: viaggi, appuntamenti e cene galanti.
L’ultimo 31 dicembre l’aveva passato in Sudafrica, al caldo, in giro per cantine con la sua fiamma dell’epoca, Mary,
commessa in una boutique di via della Spiga con vent’anni
meno di lui e il quoziente intellettuale di una libellula.
«Perfetta per l’attività fisica e per dimenticare» si giustificava con chi gli chiedeva conto di quella scelta.
Da allora di Mary, Lucy, Samy, Maddy, Minnie e Dio sa
quali altri nomi storpiati, se n’erano alternate parecchie
nel suo letto. Sebastiani, del resto, era ancora un uomo
piacente, anzi un bell’uomo, come lo definivano tutte. Elegante, ben vestito e disposto a spendere anche più di quel
che guadagnava per rendere felice la sua compagna. Certo
la faccenda non durava mai più di un mese ma per la fortunata erano trenta giorni da sogno.
Quella di turno – Minnie era solo, diciamo, un provino
per rimpiazzare l’attuale – si chiama Ludovica e fa – se la
memoria precaria del poliziotto non lo inganna – la vetrinista. La fanciulla ha cercato di spiegare più volte in cosa
consista il proprio lavoro ma Loris non è mai riuscito ad
ascoltarla più di un minuto senza perdere interesse.
In questo preciso momento, le 23.17 del 31 dicembre
2001, Ludo – come vuole che lui la chiami – si trova in una
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qualche località delle Dolomiti con i suoi coetanei a festeggiare il Capodanno nella casa del suo ex ragazzo.
«Non ho più l’età per queste cose» aveva risposto lui
quando l’aveva invitato. E un secondo dopo aveva prenotato il volo per il Mar Rosso, dove avrebbe soddisfatto l’altra sua grande passione (oltre all’enologia): le immersioni.
L’omicidio di Sommese però, gli ha sabotato i piani.
Anzi glieli ha proprio mandati in malora.
Mentre ci riflette si trasferisce in salotto e, affondando nell’enorme divano di pelle, inaugura una bottiglia di
Pampero Reserva.
«Destinazione oblio» annuncia cambiando canale senza però rimettere il volume.
Le immagini in movimento lo aiutano a pensare, così
come il toscanello che si infila fra le labbra e mordicchia
con ferocia. Sfoglia la guida della città e riflette. Ormai è
tornato a ragionare sul delitto di piazza dei Mercanti.
Prende un foglio di carta e prova a riprodurre con un
pennarello il simbolo insanguinato che la vittima ha voluto
trasmettere alla polizia.
Quello che viene fuori sembra la testa della Medusa, il
mostro mitologico che con un solo sguardo impietriva. A
testa in giù, però.
Il Capodanno, intanto, arriva, bussa alla porta e se ne
fugge via. Fuochi d’artificio, risate, clacson e urla giù in
strada. Anche mezza bottiglia di Pampero svanisce.
Se ne rende conto quando tenta di alzarsi per raggiungere il cellulare abbandonato sul tavolo della cucina. Gli è
arrivato un messaggio.
Mezzanotte e ventuno del nuovo anno. È di Giulia, la
sua ex moglie. Qualcuno almeno lo pensa.
«Buon anno. O perlomeno che sia meglio di quello passato.»
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3.
«Brucia?»
Lui scuote la testa.
Fuori dalla finestra cade un nevischio leggero. Non è
pioggia, non è neve. Tira giusto un vento fastidioso e si
gela. All’interno della villetta, però, è tutta un’altra storia.
La cera calda della candela cola sul petto muscoloso
dell’uomo e un brivido attraversa la sua pelle. È legato mani e piedi ai montanti di ferro del baldacchino con corde
di velluto cremisi e ha una benda sugli occhi. Nudo ed
eccitato come non mai. Il letto è enorme, un king size con
lenzuola di seta e grandi cuscini morbidi. Luce soffusa, un
vago profumo di patchouli nell’aria, due calici di champagne vuoti abbandonati sul pavimento.
«Sei pronto? Adesso ti farò morire.»
«Non vedo l’ora.»
«Però voglio che tu mi guardi mentre lo faccio...»
«Dai.»
La donna appoggia la candela con cura sul comodino e
preleva dal cassetto un altro oggetto.
«Con questo ti farò impazzire» sussurra mordicchiandogli un lobo.
Lui sospira.
Si sono incontrarti meno di due ore prima in un locale
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del centro dove era in corso una festa di Capodanno.
Drink, paillettes, cocaina a fiumi.
Lui con una banda di amici già strafatti, lei apparentemente sola.
I loro occhi si erano inseguiti, cercati così come i loro
corpi e le loro labbra quando si erano incrociati in pista per
ballare. Quasi si divoravano per la passione finché avevano
capito che quel posto non faceva più per loro. Su di giri avevano abbandonato la festa e si erano precipitati a casa di lei.
Le dita lunghe e abili della donna sciolgono la benda.
Ha unghie rosse, perfette. E un profumo inebriante.
L’uomo apre gli occhi pronto a godersi lo spettacolo ma
subito il suo volto si contrae in una smorfia di terrore.
«Cosa vuoi fare?»
Lei sorride. Dopo che erano arrivati a casa si era cambiata «per rendere tutto più eccitante». E si era trasformata da timida gattina in panterona. Ora gli sta sopra a cavalcioni. Indossa un paio di mutandine di pizzo e degli stivali di vernice nera e lucida che le arrivano sopra le ginocchia. Seni grandi sorretti da un reggiseno a balconcino
molto sexy, capelli nerissimi, trucco aggressivo intorno
agli occhi. Rosso fuoco sulle labbra.
Ma non è quello a spaventare l’uomo. Ciò che lo atterrisce è il lungo coltello da pesca che la sua amante stringe
nella mano destra.
Cerca di divincolarsi ma i nodi alle caviglie e ai polsi
sono scorsoi, fatti con perizia. Più tira, più stringono.
«Ora mi divertirò io» sussurra lei con voce suadente.
«Tu sei pazza! Lasciami andare, subito!»
Lei scoppia in una risata sguaiata.
«Non sei più così macho adesso, eh?»
L’uomo grida con quanta voce ha in gola. Stringe gli occhi per il dolore e cerca con tutte le sue forze di liberarsi.
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«Ti dimeni come un puledro! Mi piace. E laggiù sei
ancora eccitato!»
Gli carezza il viso con la mano sinistra, quasi con tenerezza, mentre con l’altra estrae, con un gesto perentorio, il
coltello. Un fiotto rosso la investe spruzzandole il ventre e
il seno.
Lo sguardo della donna adesso è eccitato. Le sue pupille luccicano quando lecca con lentezza il sangue dalla lama
per poi conficcarla nuovamente nel corpo di lui.
«Vedi? Te l’avevo detto che ti avrei fatto morire!»
*
Toccare il fondo serve per darsi la spinta. E risalire.
Me lo ripeto mentre accendo la terza canna della giornata. Fuori mi spia un cielo plumbeo e dentro una solitaria lampadina nuda appesa al soffitto illumina il nostro
Capodanno. Io sono comunque pervaso da una strana
euforia.
Fabio deve notare qualcosa ed esce dal suo letargo grugnendo.
«Si può sapere che stai facendo? È almeno un’ora che
traffichi senza sosta su quel ferrovecchio...»
Il ferrovecchio in questione è il mio computer. Un modello portatile che mi avevano regalato quando avevo
scritto la tesi di laurea. Fabio lo disprezza – lui, il fighetto
della tecnologia, ha bisogno sempre di qualcosa di moderno e veloce – e l’ha ribattezzato con sfregio “il polmone”,
perché a suo dire è pesante e ingombrante come un polmone d’acciaio. Io, invece, ne vado molto fiero.
«Tu non hai idea, Fabio: mi sento un pioniere! Hai presente Jessie James? Anzi, meglio ancora: Cristoforo Colombo che scopre l’America?»
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Non so quanto io possa essere credibile mentre lo sostengo: sono in mutande con uno spinello acceso fra i denti e gli occhi incollati al monitor.
Fabio sospira. Sta per sbafarsi una pizza surgelata fatta
rinvenire nel microonde: la sua pietanza preferita.
«Jessie James non era un pioniere ma un bandito, semmai potevi ispirarti a Davy Crockett, che comunque non
era un pioniere ma un avventuriero del vecchio West!
Quanto a Colombo non credo che i nativi Americani condividano il tuo giudizio...»
«Sei pesante Fabio per questo le donne non ti filano!»
«Mentre a te, sì?»
«Oggi ho altri programmi.»
«Uh. Stai calcolando la traiettoria per sparare una sonda su Marte? O forse analizzi il genoma umano per scoprire qualche miracolosa cura?»
«No, sto scrivendo i primi articoli del blog. Per questo
mi sento un pioniere! Anzi, già che ci sei vieni qui che di
questo Splinder non capisco granché...»
«Ma come non capisci? Questa è la modernità» sentenzia Fabio avvicinandosi con le mani unte di pizza. È ansioso di fornire l’ennesima lezione d’informatica a quel pivello del suo coinquilino. Un gioco delle parti che fa piacere
a entrambi. È il nostro punto di contatto. Per quanto appartenenti a galassie differenti, infatti, abbiamo trovato –
cioè io ho scoperto, visto che per lui era già il suo pane –
un terreno d’interesse nell’informatica.
Per questo mi sforzo di andare d’accordo con un disagiato mentale come Fabio. Anzi, devo confessare che per
tanti versi lo apprezzo perché questo ragazzotto con l’acne, giorno dopo giorno, con pazienza e un umorismo che
non riesco mai a cogliere appieno, mi sta iniziando, come
uno stregone, al suo mondo di alchimie.
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Non avendo nessun reale argomento di conversazione
su cui confrontarci, ho finito per appassionarmi a quello
di cui il mio coinquilino blatera in continuazione, da quando si sveglia a quando si addormenta: diavolerie tecnologiche di ogni specie.
E la faccenda si è rivelata subito molto vantaggiosa per
il sottoscritto. Per esempio, possiamo goderci tutte le partite di calcio gratis. Non che io sia un fan pallonaro ma fra
poter scegliere di fare una cosa e non poterla fare ce ne
passa. Possiamo perché in un laboratorio di informatica
del Politecnico, il mio coinquilino calabrese, in combutta
con un altro paio di disadattati come lui, ha clonato alcune
schede della pay tv satellitare, Tele+, che ci permette di
vedere tutti gli incontri di serie A, la Champions League, i
film in prima visione e, soprattutto, i porno di cui il mio
coinquilino è un avido fruitore. E pure io, a volte.
Senza contare che Fabio mi ha fornito – ma non lo ammetterò mai in termini entusiastici – l’idea della vita: aprire un blog, la mia personale vetrina virtuale in cui mostrare
urbi et orbi le mie doti di cronista di razza.
Del resto, un impiego ancora non l’ho trovato anche
se, a dire il vero, non l’ho nemmeno cercato seriamente,
fatta eccezione per il colloquio finito quasi in tragedia
con Guarneri. Che comunque è stato illuminante: parlando col vecchio giornalista ho capito che su Milano io
sono ancora impreparato. Prima ho bisogno di ambientarmi, entrare sotto la pelle della metropoli, assorbirla. Come
farò altrimenti a raccontarla il giorno in cui mi assumeranno in un quotidiano? Farei la figura di un turista smarrito
in un paese straniero privo di una mappa.
Meglio non avere fretta, in fondo sono solo pochi giorni che vivo sotto la Madonnina, no? Mi attende una vita
intera per lavorare, rodermi il fegato e non accorgermi più
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di quello che mi sta intorno, preso dalla frenesia che qui
sembra contagiare tutti. In autobus, sul metrò, in tram,
persino in Galleria o alla Rinascente. I milanesi adorano
fare le cose alla svelta, nel minor tempo possibile. Non
dedicano nemmeno un minuto più del necessario a una
commissione o a elargire un’informazione quando qualcuno gliela chiede.
La Milano che ho scoperto io in questi giorni non è
così. Scommetto che molti abitanti non sanno nemmeno
dell’esistenza di straordinari giardini, semplicemente perché non si sono mai fermati a sbirciare negli androni dei
palazzi mentre il portinaio spazza il marciapiede: l’avessero fatto avrebbero visto alberi, fontane, prati all’inglese,
fiori. Un mondo nascosto di cui la maggioranza dei milanesi ignora l’esistenza. Certo, non sono l’unico a sapere
del tunisino che vende il fumo in piazza Vetra, ma m’illudo che il mio pusher abbia la migliore roba in circolazione.
Sono un romantico, non c’è che dire. Per questo appena
posso esco a bighellonare per Milano, per scoprirla; cosa
assolutamente inconcepibile per il mio coinquilino. Del
resto, Fabio Spadafora di fantasia ne possiede il giusto.
Rappresenta il classico nerd: uno smanettone fatto e finito
interessato a ogni congegno elettronico, patito del computer e di Internet. Senza l’ombra di una donna che gli ronzi
intorno, ovviamente. Non che non gli interessi il sesso opposto, anzi, ma sono le ragazze a rifuggirlo come un appestato. Non brilla nemmeno per charme, il povero Spadafora da Lamezia Terme: occhialoni, brufoli da adolescente,
già mezzo calvo nonostante i vent’anni appena compiuti e,
soprattutto, una noia mortale quando ci chiacchieri a meno che tu non sia un patito di tecnologia o di Star Trek.
D’informatica e compagnia cantante non ci ho mai capito molto: per me risulta già difficile inviare messaggini
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con quel Motorola giurassico che mi ritrovo, un maledetto
affare la cui batteria non tiene mai la carica e che, una volta su due, si spegne nel bel mezzo delle conversazioni...
Tuttavia sono uno curioso di natura e cerco di imparare
più che posso da Fabio. Non che trascorriamo tutto il
giorno a chiacchierare come allegre comari, per carità; appena alzato io esco e cammino per la città con le cuffie del
walkman infilate nelle orecchie. Ogni mattina scelgo una
cassetta di quelle che ho registrato prima di lasciare Capo
di Ponte Emilia e poi gambe in spalla: imbocco via Gran
Sasso, quindi corso Buenos Aires fino a porta Venezia e
poi al parco di Palestro a vedere le anatre nel laghetto come un novello Holden cullato dalle note di Paolo Conte.
La cassetta con le canzoni del cantante astigiano è la mia
preferita, la più gettonata di tutte. Mi serve per pensare,
per distrarmi, per rilassarmi perfino. Paolo Conte è una
medicina che va bene con qualsiasi umore. E non ha controindicazioni.
Fabio indica lo schermo poco convinto.
«Qual è il problema?» chiede.
«lluminami su questo mirabolante Splinder: sono tre
quarti d’ora che cerco di pubblicare il pezzo senza riuscirci!»
«Ora ti faccio vedere, caro Jessie James! Vedi, questa
piattaforma è completamente gratis ed è il massimo che ci
sia in circolazione. L’idea del tizio che l’ha inventata è semplice e, al tempo stesso, rivoluzionaria. Ecco, leggi qui sul
suo blog, The Lonely Net. In parole povere dice che oggi
utilizzare la rete è un’esperienza solitaria, ma non dovrebbe esserlo! Spesso ci chiediamo: che cosa stanno facendo
le altre persone online? Che cosa stanno guardando? Di
cosa stanno parlando? Ecco, Splinder è lo strumento per
rispondere a queste domande.»
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«Bene, ma non me ne frega nulla delle vostre pippe da
smanettoni. Fammi solo vedere come pubblicare il mio articolo, d’accordo?»
Fabio sorride, poi batte su un paio di tasti e il gioco è
fatto.
«Ecco: il tuo primo articolo intitolato Caccia all’assassino che, se vuoi il mio spassionato parere, non è per nulla
originale, è online.»
«Non lo voglio, grazie.»
«Bene. Comunque ora il mondo intero – noti la punta
d’ironia, vero? – potrà leggerlo, contento?»
«Non del tutto. Fammi rivedere, passo a passo, come
diavolo hai fatto a pubblicare il pezzo. Mica posso avere la
balia per ogni articolo che scriverò, no?»
54
4.
Un mercoledì vuoto come la città. Pioviggina e la questura è deserta. A eccezione di Sebastiani, con un sigaro
mezzo masticato in bocca, dell’ispettore capo Lonigro,
che rientra in servizio proprio quel giorno, e di Mascaranti, che le ferie le fa solo d’estate per tornare al paesello.
Il vicequestore fa roteare il toscanello. Ripensa a come
ha cominciato l’anno nuovo. Ha schivato, come direbbe
lui. Niente scenate, e nemmeno una telefonata. Riprendere a lavorare può fargli solo bene, dato che la notte precedente la sua Ludo l’ha scaricato. Giusto un sms. «Tra noi
è finita. Addio.» Testo degno di una commedia romantica.
O tragica. Il poliziotto sospetta che lei si sia rimessa col
suo ex, complici le piste da sci. In fondo, da Last Christmas
in poi la montagna ha rovinato tutte: se nessuno le bacia
sotto al vischio si sentono inutili, cadono in paranoia e si
buttano sul primo che passa. Esattamente come nel video
degli Wham! che aveva rivisto, dopo secoli, su Mtv, proprio quel mattino, mentre scanalava alla ricerca della tv
Svizzera.
Non le aveva risposto. Non c’era niente da dire. L’unica
cosa che gli restava da fare era cercare di recuperare la situazione con Minnie. Ecco come stava messo. Quarant’anni suonati, un matrimonio fallito alle spalle, una ragazzina
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dal nome improbabile da irretire per un po’ di svago sul
materasso, un sigaro mangiucchiato in bocca e Lonigro
immobile davanti a lui. Pieno di dubbi.
Mascaranti s’incarica di rompere quel silenzio imbarazzato.
«Comunque, buon anno dottore!»
«Anche a te. Non mi sembra sia cominciato nel migliore dei modi, però: fuori c’è un tempo da lupi.»
«Non esiste un cattivo tempo, solo un cattivo abbigliamento.»
«Non sono dell’umore, Mascaranti.»
«Ma è un detto lappone!»
«Ho per caso la faccia da esquimese?»
«Direi di no» interviene Lonigro. «Anche se i lapponi e
gli esquimesi sono due popolazioni ben distinte... Gli euro
li ha visti?»
«Sì, li ho visti. E ora che abbiamo esaurito i convenevoli ditemi se ci sono eclatanti novità riguardo al nostro omicidio.»
Lonigro prima di rispondere si lascia cadere su una
delle scomodissime poltroncine dell’ufficio di Sebastiani
mentre Mascaranti, che ha ancora paura di essere redarguito per qualcosa, se ne rimane in piedi in disparte.
«Il referto autoptico è arrivato stamattina. Nessuna novità: Ambrosio ci ha scritto esattamente quello che vi aveva anticipato a voce. Ucciso a coltellate e ferite non ancora
rimarginate sulle schiena pre-mortem. Per oggi pomeriggio abbiamo convocato la moglie e il figlio Andrea per interrogarli.»
«D’accordo. Il questore mi ha già chiamato due volte
per raccomandarsi che questa indagine abbia la priorità
sulle altre. È tutto?»
L’ispettore sospira.
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«Sembra che ne sia scomparso un altro» annuncia.
Il vicequestore si appoggia contro lo schienale della poltrona, il toscanello ormai ridotto a tabacco da masticare.
«Stesse caratteristiche dei precedenti?»
«Sì. Un ragazzo di vent’anni, Davide Mari. Milanese.
La madre ne ha denunciato la scomparsa stamattina. Dal
pomeriggio del 31 dicembre non ha più notizie di lui...»
«Mi sembra ancora presto per cercarlo. Magari la festa
di Capodanno è durata più del dovuto e ora se la sta dormendo della grossa.»
«Forse. Però rientra nel profilo degli altri due.»
Lonigro si alza in piedi e lascia scivolare un fascicolo
sulla scrivania del superiore.
«Qui c’è tutto. Nomi, date... Due ragazzi scomparsi nei
mesi scorsi, Giorgio Conti e Ivan Gasparini, a distanza di
parecchie settimane uno dall’altro, e ora con questo, se
confermato, sono diventati tre.»
Sebastiani annuisce. Quelle misteriose sparizioni sono
un suo cruccio. Giovani uomini che svaniscono nel nulla,
come inghiottiti da un buco nero.
«L’anno comincia davvero sotto i migliori auspici.»
«Così pare. E giusto per non rovinarle del tutto la giornata...»
«Che altro, Lonigro?»
«Ha presente quel giornalista testimone della sparatoria?»
«Il disoccupato?»
«Sì, il freelance.»
«Allora?»
«Ha aperto un blog.»
«Un cosa?»
Inutile sprecare altre parole per spiegargli cosa sia, meglio mostrarglielo: Lonigro si avvicina al computer e digita
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qualcosa sulla tastiera. Dopo un attimo sullo schermo
compare una pagina Internet.
«Si chiama Milanonera ed è una specie di giornale investigativo online; da quando è stato aperto, ovvero ieri, ha
già pubblicato due articoli che riguardano il nostro omicidio. Niente che non si sappia già, a parte il fatto che nelle
ultime righe dell’articolo comparso oggi fa riferimento a
un misterioso simbolo di cui, parole sue, presto ci darà
conto...»
Sebastiani si piega per vedere meglio.
«Milanonera, eh? Ma non era il nome di un vecchio
film degli anni Sessanta?»
*
Milano è un’isola.
Le coste sono le tangenziali e intorno c’è l’oceano, con le
sue correnti e le sue tempeste. È protetta da scogliere dove
s’infrangono i flutti. Dentro al porto ci sono le barche, gli
uomini e gli squali d’acqua bassa. E io su quest’isola ci sono
arrivato da naufrago senziente e, tutto sommato, ci sto bene. Davvero. Non so spiegare esattamente perché. A pensarci bene non dovrei visto che le cose, da quando sono arrivato, non sono affatto filate per il verso giusto.
Il vecchio Yoan mi aveva messo in guardia che qui sarebbe stato un vero inferno.
A Capo di Ponte Emilia, da dove vengo io, vive un tizio. Sulla sessantina, vestiti che gli cadono addosso, barba
lunga, età indefinita. Passa le sue giornate al bar della stazione. Ed è lì che l’ho incontrato l’ultima mattina prima di
trasferirmi a Milano.
«Ci troverai solo ladri, finocchi e psicopatici, in quella
città.»
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«In quest’ordine?»
«Prima ti fregheranno il portafogli, poi t’inchiappetteranno e, alla fine, ti faranno credere che ti sei inventato
tutto.»
«Mi mancherà il tuo ottimismo.»
Anche sul vero nome del saggio del bar esistono parecchie leggende. Alcuni lo chiamano il poeta. Altri, sprezzanti, il sapientone. Altri ancora il cinema, perché quello
che racconta proprio non sta in piedi se non in un mondo
di fantasia. Il suo giornale sono i muri della stazione del
borgo che imbratta con frasi del calibro di «Prima ero
schizofrenico ma adesso siamo guariti» che in un certo
senso dice molto su di lui.
Nei murales si firma Y perché vuol far credere di chiamarsi Yoan, sostenendo di essere un esule cubano fuggito
dalle grinfie di Castro. In realtà, il vecchio saggio non è caraibico ma mantovano come il sottoscritto. All’anagrafe fa Giovanni, Juan in dialetto, e forse è per quest’assonanza che si
firma a quel modo; per quanto mi riguarda lo reputo un genio anche se non c’ha tutte le rotelle che girano in sincrono.
Non si è sbagliato poi tanto, Yoan: per ora la città ha
cercato di fregarmi in tutti i modi.
Le belle speranze sono state inghiottite dalla monotona
routine del monolocale di piazza Piola. La vita, in questa
stanza che dovrebbe essere arieggiata molto più di frequente, scorre tranquilla e senza sorprese. Ho riempito il
vuoto scrivendo tre articoli sul mio blog. Cose apprese dai
giornali, soprattutto, e rielaborate. Eccetto in quello che
ho pubblicato poco prima di uscire intitolato Il simbolo
misterioso (lo so, anche questo sa di già visto e rivisto ma è
quello che vuole la gente: sentirsi rassicurata da qualcosa
che già conosce). Nel post, per la prima volta, si descrive
accuratamente il disegno che l’avvocato Sommese ha trac-
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ciato col proprio sangue in punto di morte. Per renderlo
ancora più accattivante (Fabio dice che se voglio avere più
visitatori devo mettere più immagini perché la gente altrimenti si annoia senza le figure...) l’ho disegnato io – come
me lo ricordavo – su un foglio bianco col pennarello e poi
l’ho messo in rete grazie allo scanner di Fabio.
Forse è stato un azzardo ma anche un modo per far
smuovere le acque che, a parte il colloquio con Guarneri
finito con l’infarto, ristagnano da morire. Da quando sono
qui, purtroppo, di lavoro vero non ce n’è manco l’ombra,
così cerco d’inventarmelo. Non lo dico per dire: ho portato personalmente – e pure con un certo disagio per via di
come mi hanno trattato le segretarie – il mio curriculum al
Corriere della Sera, alla sede milanese di Repubblica, a
quella del Giorno, al Giornale, a Libero, a Panorama.
Nessuno, in quasi due settimane, si è ancora fatto vivo.
Saranno le feste, d’accordo. Il Natale, il Capodanno, la
Befana alle porte... Però il mio vecchio Motorola è rimasto
muto e io la mia metà di bolletta elettrica e la mia quota di
affitto la devo pur pagare.
Così dopo aver espresso il mio sconforto – gravissimo
errore tattico! – Fabio, forte del basilare diagramma di
flusso che regola i suoi processi mentali, mi ha suggerito
una soluzione: «Inutile che ti giri i pollici e cazzeggi sul
blog in attesa del messia. Se Maometto...»
«Lo so. Ora dimmi della montagna.»
La montagna è una pizzeria/trattoria dal nome volatile
e traballante, il Fenicottero, in zona Politecnico. Specialità
cucina calabrese e pizza con la ’nduja.
Il proprietario è imparentato con Fabio e grazie a una
sua intercessione da un paio di sere lavoro lì in nero come
cameriere.
I piatti forti del locale si contano sulle dita di una mano:
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la padellaccia, che altro non è che un guazzabuglio di salsicce, ’nduja e fagioli tutto arrostito in un tegame di rame
con cipolla a strafottere; il caciocavallo ripieno di ’ndjua,
pesante come un menhir e impossibile da digerire, e poi le
famigerate puppette a base di carne, ’ndjua e dio sa cosa
(anche se io sospetto che ci sbattano dentro i resti del giorno precedente) mischiate sapientemente: la morte del
buon senso e il trionfo dei trigliceridi.
La paga non è male: trenta euro a sera, cinquanta il venerdì e il sabato. Il locale si trova sempre a Lambrate ma dalla
parte opposta del quartiere rispetto a dove abitiamo, quasi
tre chilometri che ieri ho fatto a piedi, sulla scia dell’entusiasmo, ma oggi che diluvia qualche scrupolo mi è venuto. Così risalgo la rampa di scale fino al nostro buco al primo piano. Trovo Fabio che si sta scongelando la solita pizza.
«Farai tardi al lavoro. E guarda che ho garantito personalmente...»
Ormai parla come una moglie. Una madre. O una concubina asessuata.
«Lo so. Ma ho avuto un’illuminazione.»
«Ci risiamo. E questa volta chi sarà a chiamarti per offrirti il posto da direttore? Canale 5? Rai Uno? Al Jazeera?»
«No, oggi il tema è la mobilità.»
Fabio annuisce, quindi imposta il timer e va a sedersi
nuovamente davanti al computer.
«Ascolta» continuo gesticolando nel centro della stanza. «Cosa sarebbe stato Don Chisciotte della Mancia senza
il suo fedele destriero Ronzinante? Avanti, dimmelo.»
Lui alza appena gli occhi dal portatile, mi fissa un secondo, solleva un sopracciglio e chiede: «Tu quindi saresti
Don Chisciotte?»
«Sto solo facendo un esempio» dico lasciandomi cadere sul mio letto.
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«Ah, e io allora sarei, uhm, vediamo, Sancio Panza e ti
dovrei pure fare da scudiero?»
«Come al solito non stai capendo. Sto parlando di destrieri.»
«Di cavalli?»
«Sì, be’ no. Era una metafora.»
«Di cosa?»
«Del fatto che sono appiedato.»
«Non ti seguo.»
«Ho bisogno di un mezzo di trasporto, Fabio! Capito?
Non posso andare al lavoro a piedi ogni giorno. Oggi poi
che c’è il diluvio universale e mi tocca una scarpinata esagerata! Non posso farlo.»
Ho esasperato la faccenda. Devo creare empatia in quel
maledetto nerd che non reagisce agli stimoli.
«Cosa c’entra Don Chisciotte?» chiede.
«Lascia stare. Hai idee a riguardo?»
«Auto? Jeep? Nave spaziale?»
«Frena, Spock. Pensavo più a una moto.»
«Hai la patente?»
«No.»
«Quindi lascia perdere, non la puoi guidare. Al massimo ti puoi prendere un cinquantino. Uno scooter da ragazzini.»
«Perché da ragazzini?»
Fabio ignora la domanda, sbatte solo gli occhi come fa
sempre quando deve liquidare qualcosa senza importanza.
«Quanto hai di budget?»
«Non molto.»
«Definisci non molto.»
«Il corrispondente di dieci giorni di affitto di questa
topaia.»
«Ho capito, ti puoi permettere solo un catorcio.»
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«Non la metterei in questi termini. Diciamo che per iniziare avrò bisogno di un modello base, con pochi optional.»
«Non sono sicuro che ti diano nemmeno le ruote con
quello che puoi pagare. A meno che...»
«A meno che?»
*
«Ti piace così?»
Minnie esce dall’apnea e lo fissa dritto negli occhi. Maliziosa.
Sebastiani annuisce. Non trova niente di appropriato
da dire. Solo rimpiange di non avere tra le labbra il suo
toscanello. Non lo tiene mai in quei momenti.
La sua serata riparatoria sta andando bene anche se,
con le ultime manovre di lei, si sta sfiorando la tragedia.
E dire che tutto era cominciato ottimamente. L’intenzione del vicequestore era quella di riprendere da dove li aveva interrotti l’inopportuno omicidio dell’avvocato. Ora che
Ludo l’aveva scaricato puntava a un rimpiazzo immediato.
Aveva portato Minnie alla Pobbia, uno storico ristorante
milanese sulla Gallaratese dove si gusta la migliore cucina milanese della città. Una cena che si era dimostrata all’altezza
della fama del locale: antipasto di mondeghili – polpette
buonissime per cui Sebastiani aveva chiesto il bis – e nervetti,
seguiti da risotto allo zafferano con ossobuco e, per concludere, zabaione caldo coi biscotti fatti in casa. Una vera cena
meneghina servita in un tavolo di riguardo, quello accanto
al camino dove scoppiettava il fuoco. Perfetto, insomma.
E infatti, adesso, sto riscuotendo.
Un pensiero che avrebbe fatto inorridire sua moglie.
«Ex moglie. Brutto maschilista sciovinista!» avrebbe
sbraitato lei.
63
«D’accordo, ma è Minnie che sta facendo tutto, senza
forzature. Per gratitudine, ecco.»
Quei pensieri lo tormentavano. Non riusciva a rilassarsi, a godersi la ricompensa. Forse il bis anche dell’ossobuco era stato un azzardo.
Ma non è solo quello a turbarlo. C’è anche la faccenda
del rumore che la ragazza emette con la bocca: lo distrae.
Gli ricorda l’idraulico che stura il lavandino di casa. Fastidioso. Tipo il gorgo, il risucchio delle tubature quando
togli il tappo della vasca. Meglio non farci caso.
Però te lo dovrebbero insegnare, ragazza mia, pensa.
Mia moglie. Anzi, la mia ex moglie sì che... No, no. Non è
giusto... Non possono confrontare mia moglie con... E poi
come diavolo ti chiami veramente? Minerva? Mariangela?
Mannaia? Mannaggia a me che non so tenerlo nelle brache!
Meglio se si leva dalla testa quei pensieri. Solo che non
ci riesce. Ora sono le indagini ad affiorare nel silenzio della camera rotto soltanto dal quel rumore...
La faccenda dei tre ragazzi scomparsi lo preoccupa. Se
venisse confermata, cioè se ritrovassero i cadaveri, allora sì
che si scatenerebbe l’inferno. Avrebbero a che fare con un
serial killer. Un mostro che si accanisce su giovani maschi...
Come Minnie si sta accanendo su di lui.
Gli scappa un sospiro.
Lei solleva la testa, seccata.
«Ora però Loris ti vuoi concentrare, così finisco questa
cosa?»
*
«Stasera conoscerai l’uomo che ti risolverà un sacco di
problemi.»
«Mister Wolf?»
64
«Una specie.»
Fabio mi ha trascinato in via Adelchi, davanti a un’anonima vetrina in legno con sopra uno stemma giallo su cui
si legge: «Microbirrificio di Lambrate».
Dentro, una selva fluttuante di persone e fumo. Studenti e impiegati, perlopiù, ma anche famigliole con bimbo piccolo e cane al seguito. Tutti stipati nello strettissimo
locale dove non si fa servizio ai tavoli. Le birre artigianali
bisogna andarsele a prendere al bancone, armati di pazienza. Non solo perché la fila è sempre chilometrica, ma
anche perché la birra, non essendo pastorizzata, schiuma
moltissimo, e per ottenerne un bel bicchiere ci vuole il
suo tempo.
«Perché veniamo qui a cercarlo?»
«Questo è il suo ufficio.»
«Un bar?»
«Una birreria, prego.»
«E gli permettono di usarlo come ufficio?»
«Diciamo che qui riceve solo gli amici.»
«Tu come fai a conoscerlo?»
«Amico di amici, ok? E ora piantala.»
Trovare chi cerchiamo non è difficile. È un omone corpulento, col pizzetto sulla punta del mento e una giacca
che andava di moda negli anni Settanta. Arrampicato su
uno sgabello del bancone.
«Andiamo» mi esorta Fabio. «Ma niente domande su
quello che fa.»
«E cosa fa?»
Il coinquilino sospira.
«Ha i suoi giri. So che traffica in hashish con i maghrebini e in computer rubati con i serbi, anche se la sua occupazione ufficiale credo sia quella di agente immobiliare.
Un’attività che gli permette di venire continuamente in
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contatto con gente nuova, offrendogli, al tempo stesso, la
possibilità di ampliare gli altri suoi commerci.»
«È da lui allora che hai comprato quel mega portatile
che non ti puoi permettere?»
«Esatto. Ed è l’ultima risposta per stasera Enrico, ok?»
Ci avviciniamo con la deferenza che si riserverebbe a
un boss mafioso. Avessimo un cappello in testa ce lo leveremmo per tenerlo in mano.
Quando siamo abbastanza vicini lui alza gli occhi dal
posacenere e ci lancia uno sguardo distratto.
«La più alta forma d’intelligenza quando non si conoscono i fatti è farsi i cazzi propri» sentenzia.
«Tu sei un vero guru, amico mio!» rido.
«Sta con te?» chiede rivolto a Fabio.
«Sì, scusalo. È che ha il vizio di parlare troppo.»
«Gran brutto vizio.»
A quel punto rimaniamo in silenzio, lì in piedi come
due idioti per almeno tre minuti finché l’omone si rimette
a parlare.
«Se vi serve del fumo o avete la grana e volete festeggiare con una zoccola come si deve, fatemi un fischio.»
«Esistono zoccole come si deve?»
Torna a fissarmi come se avessi detto un’eresia.
«Pagami da bere, sbarbato. E farò finta di non aver sentito.»
«Cosa prendi?»
«Bevo solo Ligera, come la mala milanese.»
Vado al bancone e ordino una Domm per me, una Ligera per il boss e una Montestella per Fabio: in questo locale
solo birre dai nomi milanesi. Mi piace.
Quando torno con le pinte, Fabio gli ha già spiegato tutto.
«Quindi ti serve un mezzo di trasporto ma sei al verde,
esatto?»
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«Non si possono rincorrere le notizie e i criminali a piedi.»
«Piano con le parole, ragazzo: chi per te è un criminale
per altri è un eroe.»
«Scusa, mi sono espresso male. Volevo solo dire che per
fare il giornalista e scorrazzare in giro non posso usare i
mezzi pubblici.»
Lui grugnisce, poi scrive qualcosa su un sottobicchiere
con la stilografica d’oro che tiene nel taschino.
Me lo passa.
«Domattina vai a questo indirizzo. È un’officina in via
Padova, subito dopo il cavalcavia ferroviario. Chiedi di
Salvo e digli che ti mando io, Antonio Sciamanna. Ti tratterà bene.»
Io lo guardo stupito: tutta quella scena per un misero
indirizzo? Però non fiato e mi bevo la mia birra in religioso silenzio.
Il giorno seguente capisco tutto.
Sciamanna ha i suoi giri, i suoi contatti, e in questo posto dove mi ha mandato non è che si entri senza raccomandazione. Come in un ministero, insomma.
Il Salvo che mi ha indicato ostenta una cicatrice da arma da taglio sulla guancia destra e una sfilza di tatuaggi
sulle braccia. Fuori ci sono sei gradi, forse meno, ma lui
sta in t-shirt bianca lurida e mi fissa. Deve capire chi sono,
cosa voglio e se può sbarazzarsi del mio cadavere senza
dare nell’occhio.
«Mi manda Antonio Sciamanna» annuncio prima che
gli vengano strane idee.
Scarface non mostra alcuna sorpresa, tuttavia mi pare
di vedere la cicatrice distendersi leggermente.
«Che ti serve e quanto hai da spendere?»
Non è un tipo molto loquace il nostro meccanico e
nemmeno uno che ha tempo da perdere.
67
Gli spiego brevemente i miei desiderata e gli mostro
due banconote da cinquanta.
Quello scuote la testa.
«Ora che fa Sciamanna, mi manda i morti di fame?»
*
Sebastiani respira e l’aria che gli esce dalla bocca sembra il fumo del sigaro. Che come al solito è spento.
Metà pomeriggio ma si battono i denti. Un’aria gelida
che corre giù dalla montagnetta di San Siro e gli flagella la
faccia. C’è anche una nebbia fastidiosa che inghiotte tutte
le forme.
«Che ci facciamo qui con questo freddo?» sbotta l’ispettore Mascaranti strofinandosi le mani.
«Sei hai freddo tu, grande e grosso come sei, cosa dovrebbero dire quelle?»
Il vicequestore indica sei ragazze svestite per l’occasione: minigonna, stivaloni al ginocchio, una pelliccia finta
aperta a mostrare ampi décolleté.
L’ispettore scuote la testa.
«Siamo di supporto ai colleghi» spiega Sebastiani.
«Di supporto a chi?»
«A quello» interviene Lonigro indicando un uomo corpulento infilato in un giaccone di pelle, barba di un centimetro e faccia sorridente.
«Il commissario Giannuzzi? Quello della Mobile? E
cosa c’entra con noi della Omicidi?»
Il sigaro di Sebastiani compie una rotazione.
«Aveva bisogno di uomini e quindi eccoci qui. Stasera
il questore rientra dall’Argentina e il collega, evidentemente, vuole fare bella figura.»
«Con le mignotte arrestate in un parco?»
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«Lui la chiama operazione Runner.»
«Run che?»
«Quelli che corrono, Mascaranti!»
«Ah.»
Giannuzzi li raggiunge e stringe calorosamente la mano
a Sebastiani.
«Visto? Dodici romene abbiamo pizzicato. Da non credere...»
«Perché l’avete ribattezzata operazione Runner?» domanda Lonigro incuriosito.
«Per stare al passo coi tempi. Sai come lo chiamano qui
in gergo il via vai di uomini che corrono dalle battone?
Jogging-love. Davvero. I clienti delle nostre signorine sono giovani con la fissa del “sempre in forma” ma anche
uomini di mezza età che desiderano sciogliere la pancetta.
Vengono qui alla montagnetta di San Siro a correre nel
parco. Uno, due, tre giri finché decidono di rilassarsi un
attimo. E chi trovano a porgergli l’asciugamano e a strizzargli...»
«Abbiamo capito!»
Dalla bruma compaiono delle figure. Poliziotti che
scortano donne e uomini, tutti in manette. Le ragazze vengono fatte salire sul cellulare. Su un altro furgone, in calzoncini corti e maglietta, tutti a testa bassa, una fila di uomini di varie età. Gli passano delle coperte per coprirsi.
«Eccoli qui. Le ragazze si chiamano Marinela, Adalia,
Catalina, Georgia... Gli uomini dottore, avvocato, ingegnere. Quasi nessuno di loro ha battuto ciglio quando li
abbiamo beccati: dicono che lo fanno per il defaticamento... Li rilassa.»
«Ma dove si mettono per....» Mascaranti lascia la frase in
sospeso ma compensa con un gestaccio dell’avambraccio.
«Oh, i più arrapati dietro un cespuglio. Per gli altri ci
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sono i bagni pubblici al centro del parco e quelli che proprio se la vogliono godere comodi le portano in un alberghetto di via Washington...»
«Parli sul serio?»
Giannuzzi ride.
«Certo! Ci sono arrivate non sai quante proteste dai
frequentatori del parco per denunciare questa situazione.
Così eccoci qui.»
«Che oggi torni Duca è solo una coincidenza, vero?»
Il commissario si stringe nelle spalle e s’incammina verso la volante.
«Qui abbiamo finito, grazie per il supporto, colleghi. E
a buon rendere!»
I tre poliziotti rimangono lì con i loro pensieri finché il
solito Mascaranti non rompe gli indugi.
«Questi almeno corrono e sono allenati. Ve lo ricordate
il tizio che l’anno scorso è morto mentre si faceva una lucciola in un motel?»
«Come no?» ribatte Lonigro. «Era un direttore di banca mi pare, amico del questore. Proprio come...»
Il sigaro del vicequestore corre da una parte all’altra
della bocca. Sta rincorrendo il ragionamento dell’ispettore capo.
«Come Sommese, intendi?»
«Sì. Anche quella volta Duca l’aveva chiamata per dirle
di non pubblicizzare troppo la faccenda, vero?»
Ora il sigaro si è incagliato in un angolo mentre i denti
di Loris ne mordono un’estremità. Ricorda bene quella telefonata. La prima che il questore gli avesse mai fatto. Poi
ce n’era stata un’altra, mesi dopo. Un medico di grido era
morto d’infarto e Duca gli aveva telefonato per avvisarlo
di andarci piano. Da ultimo, pochi giorni fa, c’era stato
l’avvocato Sommese e la terza telefonata...
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Sebastiani riferisce brevemente ai due sottoposti questa
sua riflessione.
«Me li ricordo quei casi» ribatte Lonigro. «Due pezzi
grossi proprio come Sommese. Uno, Denis Fabbris, cardiologo del San Raffaele morto d’infarto a febbraio. Da
riderci su se non fosse tragico. L’altro, Guglielmo Branca,
direttore di una filiale della Popolare di Milano, stroncato
da un malore a settembre mentre si intratteneva con una
esuberante signorina che non era certo la moglie. In entrambe le occasioni i decessi erano stati classificati come
morti naturali. Il magistrato aveva archiviato, quindi niente autopsia per Ambrosio.»
«Pensate che anche le morti degli altri due siano collegate a quella dell’avvocato?» chiede Mascaranti.
Sebastiani scuote la testa. Il sigaro ormai è da buttare.
«Non ne ho idea. E, comunque, anche se volessimo riesu­
mar­li ci vorrebbe un’ordinanza del tribunale e prove solide a sostegno. Senza considerare che uno dei due l’hanno
pure cremato...»
*
La nebbia si stende sopra Milano come un’amante pigra si sdraia sul letto. A volte non serve viaggiare per sentirsi a casa. Quando si sta in sella a un vecchio scooter,
però, con aggrappato a te un calabrese che si lamenta nel
suo dialetto aspirato, non è la più piacevole delle sensazioni.
La schighera, come la chiamano qui, è fitta, umida e
spavalda. Come quella della Bassa quando solo a camminarci in mezzo ti bagni.
«Tu sei fuori di testa» sbotta Fabio. «A nessuno piace la
nebbia.»
71
«Io adoro la nebbia, la pioggia battente, la neve che
cade per ore...»
«Le ragadi anali... Bravo Radeschi, quando cresci fammi un fischio.»
«Il mondo non è solo bianco o nero, Fabio. Ci sono
fenomeni che accadono e che devi accettare.»
«Mi sei diventato pure filosofo? Ti preferivo quando
scarabocchiavi simboli magici sul tuo blog...»
«Una cosa non esclude l’altra.»
«Ora però accosta.»
«Devi vomitare?»
Ho voluto fare con lui il giro inaugurale a bordo del
mio nuovo mezzo di trasporto: una Vespa ’50 classe
1974.
Prima di propormela, Scarface mi aveva mostrato un
sfilza di motorini palesemente rubati ma soprattutto fuori
dal mio budget. Quando aveva capito che in tasca avevo
davvero solo quelle due banconote, mi aveva condotto sul
retro dell’officina e, dopo aver spostato rottami vari, mi
aveva mostrato la carcassa di quella che doveva essere stata una Vespa Piaggio. Un ferro vecchio di un colore amaranto inguardabile ma dalla forma arrotondata e sinuosa
che subito mi aveva conquistato.
«Questa te la puoi permettere» aveva sentenziato.
«Funziona?»
Lui si era stretto nelle spalle.
«D’accordo, affare fatto. Posso mettermi in un angolo
dell’officina per sistemarla?»
Scarface si era infilato i soldi nella tasca dei jeans e non
mi aveva risposto.
L’avevo preso come un sì.
Prima avevo tolto le ragnatele e il grosso dello sporco che vi era depositato, poi, con l’aiuto di uno straccio
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e di qualche attrezzo rimediato in giro mi ero messo
all’opera.
Non ho mai avuto grande esperienza di motori ma un
carburatore lo so smontare dai tempi in cui possedevo un
Ciao e una candela riesco a sostituirla senza chiamare il carro attrezzi.
Tanto era bastato per dar vita al vecchio cuore meccanico della Vespa. Prima di andarmene avevo approfittato
anche del compressore per gonfiare le gomme e avevo
messo in moto sotto lo sguardo di disapprovazione di
Scarface.
Mancava però l’ultimo tocco... di colore. Così mi ero
indebitato per venti euro – chiesti in prestito a Fabio – di
bombolette spray. Colore giallo canarino non perché mi
piacesse particolarmente – non è male, intendiamoci – ma
perché era in offerta a prezzo speciale.
Mentre ci accendiamo una sigaretta il mio coinquilino
contempla l’opera.
«Non male il colore.»
«Solo non male?»
«Enrico non sei certo Picasso. Comunque nel complesso sopportabile. E con la nebbia direi perfetta anche se
forse è troppo...»
«Troppo?»
«Niente. Gli manca solo un nome.»
«Intendi tipo lo space shuttle Columbia? L’Olandese
Volante? Il Millennium Falcon?»
«Hai afferrato il concetto.»
«Suggerimenti?»
«Yellow Submarine?»
«Lasciamo stare i Beatles. La battezzerò il Giallone.
Come ti sembra?»
«Appropriato.»
73
«Andata allora. Adesso procuriamoci una bottiglia di
birra per il varo ufficiale!»
*
Piove forte. Dopo la nebbia del mattino, la giornata è
peggiorata.
Lampi e tuoni, tuttavia l’ossario avvolto dalle tenebre
stavolta non appare così macabro a fratello Ottaviano.
Forse è per via della tensione che lo pervade.
Era capitato qualcosa, dato che era stato convocato
con la procedura d’urgenza. Non quella ordinaria, non
quella straordinaria: quella d’urgenza e non gli era mai
successo; una voce l’aveva cercato al telefono per comunicargli data e ora della convocazione. Appena riattaccato
aveva provato a richiamare il numero ma quello risultava
già disattivato.
«La prudenza per proteggere i membri della confraternita non è mai troppa» si era detto.
La cosa più sconvolgente era che lui non aveva mai fornito a nessuno il suo numero di cellulare. Loro però lo
conoscevano. Il Maestro e il Sublime, perlomeno.
Scende le scale con trepidazione e quando arriva nella
cripta il suo respiro si arresta per un attimo.
Lo attendono due uomini. Insieme al Maestro c’è un
altro confratello incappucciato. Siccome non possono vedersi in viso, come naturale, si riconoscono dalla voce.
Questa, però, non ricorda di averla mai sentita.
«Sono fratello Gaspare» si presenta l’ombra.
«Piacere di conoscerti, fratello.»
«È qui per aiutarci» lo informa il Maestro.
«Aiutarci?»
«Sì.»
74
«Non mi aspettavo questa convocazione in modalità
così inconsueta...»
«Le cose, purtroppo, sono cambiate.»
«Cosa è accaduto?»
Il Maestro scuote la testa contrariato. Non bisogna
chiedere ma ubbidire. Tuttavia comprende la curiosità del
confratello.
«Sanno del simbolo. E se sono svegli non ci metteranno
molto a capire chi ci sta dietro.»
«Capisco.»
«Qualcuno ne ha parlato in un blog. Un articoletto su
Internet. Una cosa piccola, per ora. Di nessuna importanza. Hanno anche provato a riprodurlo, disegnandolo molto grossolanamente. Comunque abbiamo già provveduto
a oscurarlo. Tuttavia non possiamo permettere che i grandi media ne vengano a conoscenza. Non ci metterebbero
molto a risalire a noi.»
«Voi come l’avete scoperto?»
«Fratello Gaspare si occupa di monitorare la rete e di
tutelarci. È il suo compito» risponde secco il Maestro.
Non è abituato a elargire spiegazioni. E ne ha già elargite troppe.
«Cosa devo fare?» domanda docile fratello Ottaviano,
conscio della gravità della situazione.
«Dobbiamo fornire alla polizia un colpevole per l’omicidio di piazza dei Mercanti. Anzi, il colpevole. Tanto non
abbiamo nulla da temere, esatto?»
«Nulla» conferma Ottaviano anche se la sua voce appare dubbiosa.
«Bene, allora procediamo con la seconda fase del piano.
Visti i tempi strettissimi non potevamo fare altrimenti.»
Un flebile lamento li distrae e una figura compare alle
loro spalle.
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Fratello Ottaviano si volta e rimane senza fiato. Di fronte
ha un uomo nudo, a eccezione del volto coperto dal cappuccio, con le carni martoriate. Respira a fatica e si avvicina con passo claudicante. Gronda sangue dalle ferite
profonde e si tiene in piedi a fatica. Alle sue spalle, sbucati fuori dal nulla, due confratelli con le tuniche lorde e le
mani insanguinate.
«Chi sbaglia paga» commenta il Maestro osservando
con indifferenza. «E questo nostro confratello sta espiando la sua pena.»
L’uomo compie ancora qualche passo prima di crollare
a terra sfinito. Fratello Ottaviano si china per aiutarlo ma
la voce imperiosa del superiore lo blocca.
«No, lascialo dov’è. Con lui non abbiamo ancora finito.
Più grande è l’errore commesso più duro il supplizio. E
poi tu hai un compito da eseguire, no?»
«Certo, Maestro.»
«Allora vai e procedi in modo che questa faccenda si
sgonfi e nessuno interferisca più coi nostri piani. Oppure
il prossimo a dover chiedere perdono potresti essere tu.»
Fratello Ottaviano abbassa il capo mentre i due confratelli con le vesti macchiate sollevano di peso l’uomo agonizzante dal pavimento e lo trascinano via, ignorando le
sue suppliche.
76
5.
La fine del mondo.
Non ci penso nemmeno un secondo e compongo il numero di Fabio. So che è a lezione ma non importa: si tratta di un’emergenza.
«Tutto. È sparito tutto quanto, tutto! Capisci?»
«Stai calmo... E poi non urlare al telefono che altrimenti
non capisco niente. Cosa di preciso ti è sparito, Enrico?»
«Il blog. Milanonera, ecco cosa.»
«Ora sono a lezione, non possiamo...»
«No! Esci dall’aula e dammi retta. Quelli mi hanno sabotato!»
Sento dei fruscii, poi Fabio che chiede scusa sottovoce
e finalmente eccolo di nuovo a mia disposizione.
«Ok, raccontami.»
«Non c’è nulla da raccontare: sono spariti tutti gli articoli. Puf!»
«Aspetta, forse il sito è solo in manutenzione. Fammi
controllare su uno dei PC della Facoltà. Ti richiamo fra
dieci minuti.»
Ce ne mette dodici. I più lunghi della mia vita.
«Allora?» chiedo agitato.
«Quanto ne capisci di...»
«Niente, lo sai.»
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«Allora ti basti sapere che ti hanno hackerato.»
«Mi hanno cosa? Voi nerd proprio non ce la fate a farvi
capire dalla gente normale? E non sospirare!»
«Vuol dire che dei cattivoni per burla hanno cancellato
il tuo blog.»
«Stronzi, li definirei.»
«La possiamo vedere anche così.»
«Chi è stato?»
«Be’, non sarà facile da scoprire ma potremmo tentare.»
«Non potremmo, dobbiamo! I miei dati si possono recuperare?»
«Hai fatto un backup?»
«Un cosa?»
«Una copia degli articoli?»
«No.»
«Allora mi spiace.»
«Cosa? Mi stai dicendo che un bastardo sconosciuto ha
cancellato tutti i miei articoli e che li ho persi per sempre?»
«Dovevi farne delle copie in locale.»
«Perché mai? Erano lì, sul blog. Su Internet!»
«Ti svelo un segreto, Enrico: la rete è molto più pericolosa di quello che sembra e niente, una volta che lo metti
lì, è al sicuro.»
«Potevi dirmelo prima!»
«Te lo dico adesso. Per il futuro.»
«Dal tono direi che sei quasi felice.»
«Oh, no. Ma cosa dici mai?»
«Va bene Topo Gigio. Li riscriverò. Il disegno ce l’ho
ancora. Solo che dobbiamo scoprire cosa è capitato...»
«Dobbiamo?»
«Siamo una squadra, no?»
«No.»
«Siamo coinquilini... Amici!»
78
«Amici, solo quando ti fa comodo...»
«Non ci provare. Ricorda che sei stato tu a tirare fuori
la storia del blog...»
«D’accordo, d’accordo. Quando è successo?»
«E che ne so? Stanotte, stamattina, ieri? L’ultima volta
che ho controllato Milanonera è stato un paio di giorni fa
per pubblicare il simbolo... Che sia stato per quello?»
«Come no. La Spectre si preoccupa del tuo piccolo
blog.»
«E se fosse?»
«E se io fossi Batman e avessi una doppia vita?»
«La mia è più credibile.»
«Comunque sono almeno quarantotto ore che potrebbe essere successo, giusto?»
«Sì, sai, ultimamente sono parecchio impegnato, ho
una Vespa da mettere a punto. Preparare la miscela, lucidare la carrozzeria...»
«Ho capito, ho capito.»
«No, tu non capisci affatto! Quello che è successo per
me è un dramma, è come se tu avessi perso la tua collezione di videocassette di Star Trek... Come se ti avessero bruciato la t-shirt con Spock, se ti fosse andato a fuoco l’hard
disk con la collezione di porno...»
«Ho afferrato il paragone.»
«Non credo. Tu non provi empatia per gli altri. E sai
qual è il tuo problema, Fabio?»
«Lo so, le donne che non me la danno. È la tua battuta
preferita, vero? Sai invece qual è il tuo problema? Che
non sai fare niente da solo. Almeno in questura a denunciare la violazione ci sai andare? È un reato penale quello
che hanno commesso...»
*
79
La questura di via Fatebenefratelli è uno di quei luoghi
che prima ancora di arrivarci la riconosci: l’hanno fatta
vedere non so quante volte in tv. Dopo ogni arresto, oltre
allo sventurato in manette, inquadrano questo edificio.
Parcheggio il Giallone abbastanza lontano per evitare noie. Non ho il libretto né ho pagato il bollo, quanto all’assicurazione, be’, la farò il prima possibile. Il casco sì: una
specie di elmetto stile esercito prussiano nero che mi copre appena la testa. Insomma, non è il caso che gli sbirri
mi vedano in sella alla mia Vespa gialla.
«Ho subito una violazione informatica» dico al piantone.
Quello scuote la testa, certamente non ha capito o non
mi ha ascoltato. Ma non lo dice, si limita a fissarmi scocciato.
«L’ufficio denunce?»
«Primo piano.»
Tutto qui. Né buongiorno né altro. Faccio le scale e mi
ritrovo in un corridoio gremito di gente. Tutti in coda per
denunciare un furto, uno smarrimento di documenti o
dio-sa-cosa. Sono le nove di mattina e già avrò quaranta
persone davanti. Milano non è più da bere da un pezzo, a
quanto pare.
Tutte le panche in legno sono occupate, così non mi
resta che rimanere in piedi appoggiato al muro ruvido.
Un minuto scarso e qualcuno mi picchietta sulla spalla.
Si tratta dell’uomo elegante che conduceva le indagini la
sera dell’omicidio dell’avvocato.
«Tu non sei quel giornalista freelance?»
«Vedo che si ricorda, vicequestore Sebastiani...»
«Una rogna non me la dimentico mai.»
Osservo il sigaro spento a un angolo della sua bocca.
«Non lo accende?»
80
«Non sono affari tuoi. Che ci fai qui? Sei venuto a costituirti?»
Pur essendo esilarante l’ironia dello sbirro non mi
strappa nemmeno un sorriso.
«No, è per una denuncia.»
«Oh, ti hanno rubato la macchina da scrivere?»
«Hanno violato il mio blog.»
Lo sbirro a questo punto non replica. E io comincio a
dubitare che sappia cosa sia un blog. Per fortuna per lui
arriva in suo aiuto l’ispettore che avevo già visto in piazza
dei Mercanti. Lonigro credo si chiami.
«Ti hanno hackerato il sito?»
«Esatto.»
Lui e Sebastiani si scambiano un’occhiata.
«E cosa c’era mai di così importante su quel tuo Milanonera?»
Quando pronuncia il nome sobbalzo: come fanno a conoscerlo?
Lonigro sorride a mezza bocca: «Ti stupisci? Guarda
che noi siamo la polizia...»
Certo, come no. La spiegazione più logica è che abbiano
fatto una ricerca in rete e abbiano trovato i miei pezzi riguardanti il loro caso. Grazie a una magia di Fabio – quale
esattamente lo ignoro – Milanonera è stata indicizzata benissimo nei motori di ricerca e ora compare fra i primi risultati. Così se si cercano informazioni sull’omicidio Sommese un mio articolo appare in cima. Almeno prima che
cancellassero tutto.
«Secondo me lo conoscete perché se cercate su Altavista i miei pezzi sono tra i primi risultati.»
«E su Google?»
«Oh, quel motore è troppo nuovo. Non lo usa nessuno.
Secondo me non farà strada...»
81
«Se lo dici tu.»
In realtà lo sostiene Fabio ma spaccio per mia quell’affermazione per darmi un tono.
Sebastiani scuote la testa.
«In questo ufficio, comunque, non raccogliamo questo
genere di denunce. È compito della polizia postale.»
«Quindi dove devo andare?»
La solita burocrazia italiana: tu subisci un torto a cui
poi segue la beffa di non riuscire nemmeno a denunciarlo.
L’ispettore Lonigro, però, mi stupisce.
«Venga nel mio ufficio, le faccio firmare io una dichiarazione che poi passerò ai colleghi della postale. Altrimenti ci perde tutto il giorno.»
«Grazie.»
«Non fare quella faccia stupita» interviene Sebastiani.
«Noi siamo i buoni!»
«Lo so. A che punto sono le indagini sull’omicidio
Sommese?»
«Ora stai esagerando, ragazzino.»
«Be’, ne approfitto per fare il mio mestiere» rispondo
sommessamente prima di sganciare la bomba: «Ritengo
che l’omicidio sia collegato alla violazione del mio blog.»
I due poliziotti aggrottano simultaneamente la fronte.
«Prego?»
«Quello che ho detto: avevo già dedicato diversi pezzi
alla vicenda. Nell’ultimo, postato un paio di giorni fa, poi,
avevo parlato del simbolo...»
«Ancora con questa storia?» sbotta Sebastiani. «Ti ho
detto che non c’è nessun simbolo! Era solo un segno lasciato per sbaglio...»
«Non devono pensarla così quelli che hanno violato
Milanonera, visto che in questo modo l’hanno fatto sparire. Almeno dalla rete.»
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A quel punto prendo dalla tasca dei jeans un foglio A4
piegato e lo passo ai due poliziotti. Sopra c’è il mio disegno.
I due si scambiano un’occhiata che la dice lunga su
quelli che sono i loro reali pensieri. Così ne approfitto per
aggiungere: «Sapete come si dice: attirare l’attenzione su
argomenti innocui per evitare che ci si concentri su altri
ritenuti pericolosi.»
«Sarebbe a dire?» domanda Lonigro.
«Che è meglio oscurare un sito che dover giustificare
un simbolo. Qualcuno ha preferito cancellarlo prima che i
grandi media ne venissero a conoscenza.»
«Sei fuori strada, sbarbato. Questa roba non mi dice
niente» taglia corto Sebastiani.
Il sigaro nella sua bocca, però, viaggia a una velocità
vorticosa da un’estremità all’altra. Se quello non è nervosismo io sono il papa.
«D’accordo» ribatto conciliante. «Era solo una teoria.»
Gli stringo la mano e sorrido sotto i baffi mentre seguo
Lonigro nel suo ufficio.
*
Dicono che a non lavorare non si sudi. Quando mai.
Sono quasi più rilassato quando servo le pizze atomiche
al Fenicottero che il resto del tempo. Sì, perché la frenesia
della metropoli ormai mi ha catturato. In due settimane ho
accumulato più stress di quando preparavo gli esami all’università.
«La città l’è tentacolare» aveva vaticinato una volta Yoan e comincio a credergli.
La mia giornata è cominciata all’alba. E non è un modo
di dire. Alle cinque e mezza io e Fabio siamo andati alla
stazione di Lambrate per scaricare da un treno una dami-
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giana di «vino buono» che i suoi gli fanno arrivare ogni
due mesi dalla Calabria. Sicuramente è illegale tanto è alcolico. Se ne bevi più di un bicchiere ti stende.
L’abbiamo trasportato a braccia fino al nostro appartamento, una fatica immane ma glielo dovevo. In un paio
d’ore, ieri, ha ripristinato il mio blog. Manca solo che io
ripubblichi gli articoli scomparsi. Se solo li avessi.
Quando Fabio è uscito per le sue lezioni, io sono andato a pagare l’assicurazione e il bollo per il Giallone. Risultato: adesso sul conto corrente sono a secco. Non ci fosse
il lavoro in pizzeria non saprei proprio come arrivare alla
fine del mese.
Intanto che ci rimugino esco di casa e vado a zonzo. Le
luminarie ancora accese e la città addobbata per le feste
anche fuori tempo, non l’avevo mai vista. Mi piace. Comincio a pensare che vivere a Milano per me equivalga a
un giro ininterrotto al luna park. Da quando sono qui non
c’è giorno che, gambe in spalla, non abbia scoperto qualche via o qualche piazza, oppure un negozio, un bar, un
locale che non suscitasse la mia curiosità. Non so quanti
chilometri ho macinato a piedi! Oggi toccava alla cassetta
con le più belle canzoni di Lucio Dalla. Il Gigante e la
bambina devo averla ascoltata quattro volte.
«Una città ti si svela quando passeggi con il naso al­
l’insù, fermandoti ogni tre passi per soddisfare un’improvvisa curiosità» spiegavo a Fabio quando mi chiedeva
conto di quel mio strano comportamento. Per uno quadrato come lui è inconcepibile bighellonare tutto il giorno senza meta solo per «scoprire la città». Visitare mostre o simili, poi, rappresenta, a suo dire, un’inutile perdita di tempo.
Non sono d’accordo ma devo confessare che il mio interesse per i musei milanesi si è esaurito in fretta. Dopo il
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Cenacolo vinciano e il giro completo del Castello Sforzesco avevo deciso che di cultura ne avevo avuto abbastanza.
Mi ci voleva qualcosa di diverso, anche per tenermi impegnato mentre aspettavo l’ingaggio di un giornale. L’illuminazione mi era venuta a pranzo; del resto è risaputo che a
pancia piena si ragiona meglio. Un’idea spuntata mentre
camminavo ascoltando Attenti al lupo nel walkman. Da
nebulosa com’era all’inizio si era rischiarata piano piano
fino a risultare limpidissima, focalizzandosi su un libro
che mia madre mi aveva regalato quando ero partito e che
tengo ancora chiuso nella valigia.
«Ti servirà, fidati.»
Il libercolo s’intitola Cinquanta ricette per sopravvivere
anche se non sapete cucinare di Rodolfo Bronzetti, un riminese che pare abbia fatto fortuna grazie a questo volumetto. A ben vedere, oltre alle pizze surgelate dell’Esselunga,
la nostra alimentazione – mia e di Fabio – era principalmente a base di pasta aglio, olio e peperoncino annaffiata
dal robusto vino di paese calabrese.
Non ci sarebbe voluto molto a migliorare quella situazione, no? E poi, se si mette ai fornelli il cuoco pakistano
sempre mezzo sbronzo del Fenicottero posso riuscirci
anch’io. E dieci volte meglio!
Quella, però, rappresentava solo la prima parte del piano. La seconda la metto in atto all’ora di cena, quando
accolgo Fabio con la tavola perfettamente apparecchiata.
Posate e stoviglie vere al posto della solita plastica.
«Buonasera.»
«Non so cosa ti sei messo in testa ma non finiremo sotto la doccia a insaponarci a vicenda...»
«Anche se l’idea mi attrae da matti non è quello che
avevo in mente. Ora siediti e falla finita.»
Si accomoda e gli servo un piattone di pasta.
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«Questa che roba è?»
«Si chiamano bombolotti alla gricia»
«Cioè?»
«Diciamo una carbonara rivisitata.»
Non ho voglia di raccontargli che praticamente quella a
Roma fa furore e compagnia bella. Fabio pur essendo molto intelligente – e su questo non ci piove – ha processi
mentali semplici: se ti chiede A devi rispondergli A e non
B, altrimenti si perde. E diventa molesto.
«Definisci rivisitata.»
«Sono mezzi rigatoni con guanciale croccante, pecorino e senza uova. Una carbonara bianca.»
«Buoni.»
Gli faccio segno che può prendere il tegame con quello
che rimane della pasta.
Non si fa pregare e completa l’opera di pulizia con una
magistrale scarpetta.
«Va bene, Enrico. Sputa il rospo.»
«Non avrei potuto cucinarti questa cena solo per puro
piacere personale?»
«No.»
Come mi conosce.
«Infatti non è così. Ho una proposta.»
Lui solleva un sopracciglio mentre si versa un generoso
bicchiere di vino.
Normalmente lo pagherei per ottenere quello che chiedo ma siccome sono al verde ho deciso che lo prenderò
per la gola.
«Ho un baratto da proporti: io cucinerò per te, per entrambi insomma. Non mangeremo più solo pizza surgelata
ma ogni giorno mi sforzerò di preparare qualcosa di diverso. Farò io la spesa e tu non mi dovrai nemmeno un soldo.
In cambio mi fornirai delle regolari lezioni d’informatica.
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Voglio diventare un hacker come quello che mi ha bucato
il sito!»
«Vuoi passare al lato oscuro della forza, giovane Jedi?»
«Cosa?»
Scuote la testa.
«Comincia col rivederti tutta la trilogia di Guerre Stellari. Non puoi diventare un nerd se non entri nello spirito.
E siccome io sarò il tuo maestro mi chiamerai Yoda.»
«Chi?»
«Lascia perdere. Dimmi perché lo fai?»
«Vendetta, Fabio. Voglio scovare quello che mi ha
­hacke­rato il blog. È come se un ladro mi fosse entrato in casa
e avesse rubato i gioielli di mia madre. Mi sento indifeso.»
«Mi sembra lo spirito giusto.»
«Allora ci stai?»
«Dipende. Quanti pasti cucinati mi spettano alla settimana?»
«Cinque?»
«Nove: tutte le sere più i weekend a pranzo e cena.»
«Quindi sempre, visto che a pranzo rimani in Facoltà!»
Lui sorride come un vampiro.
«Prendere o lasciare.»
«Ci sto.»
Bastardo.
«Bene, caro allievo. Sarà un piacere renderti erudito del­
l’af­fa­sci­nan­te arte dell’information tecnology. Per prima
cosa domani andrai alla biblioteca Sormani a procurarti
questi manuali che ti appunto. I rudimenti della programmazione C e quelli dell’Html.»
«Ma se siamo pieni di libri sull’argomento qui in casa!»
protesto.
«Quelli sono troppo avanzati. Prima ti studi le basi e
poi vedremo se ci sei portato o meno.»
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«Scherzi?»
«Affatto. L’informatica è un’arte. Ci sono mille modi
per ottenere gli stessi risultati ma non tutti sono ugualmente efficienti. Quando raggiungi il massimo risultato
col minimo sforzo vuol dire che sei portato. Che la forza
scorre potente in te.»
«Niente meno?»
«Già. E poi comincia con l’installarti, da solo, Linux.
Un hacker come si deve non utilizza Windows: è come se
volessi andare a rapinare una banca con la pistola ad acqua. Siamo intesi?»
*
Saltinbocca alla romana.
Cordon Bleu.
Penne alla vodka che fanno terribilmente anni Ottanta.
Stracotto d’asino con polenta per un giorno di pioggia.
Bucatini all’amatriciana.
Carré d’agnello alle erbe perché col sapore di selvatico
bisogna cimentarsi.
Pasta al forno.
Risotto alla milanese, un classico qui.
Spaghetti alle vongole.
Ecco le mie prime ricette da cuoco. E da discepolo.
Fabio ha apprezzato tutti i piatti e io mi sono messo
sotto a studiare come ai tempi dell’università (al liceo non
mi sono mai spezzato la schiena più di tanto). Tutto il mio
mondo, al di fuori del Fenicottero, in questi giorni sono
stati i manualoni d’informatica e un PC collegato a Internet. Oltre a un quaderno fitto di appunti e una mail che,
puntuale ogni mattina, mi arrivava da Fabio zeppa di esercizi da fare. Devo dire che comincio a ingranare. Ora il
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sistema operativo che prediligo è Linux anche se ci ho
messo quattro giorni interi per installarlo («Senza sforzo
non otterrai nulla», il mantra di Fabio), e ho imparato,
nell’ordine: a navigare in maniera anonima, a causare il
crash di un server remoto, a leggere la posta di chiunque
sia abbastanza sprovveduto da rispondere a una mail di
phishing (che è una roba tipo la pesca «allo stupido» e non
c’entra con l’urina) e, infine, a realizzare quasi interamente
un sito Internet.
Per studiare sono uscito davvero poco in questo periodo. Giusto un paio di giri col Giallone che ha bisogno di
essere acceso di tanto in tanto per non ingolfarsi. Peccato
che i miei brevi tour intorno all’isolato mi siano bastati per
beccarmi un raffreddore coi fiocchi.
«Per quello esiste un rimedio naturale» aveva pontificato Fabio ingozzandosi con lo stracotto.
«Ah, sì?»
«Me l’ha insegnato mia nonna materna.»
Potevo rifiutare?
Così da uno di quei cartoni messi a terra di un discount
avevo pescato un bottiglione di vin brulé aromatizzato alla
cannella. Bevanda a base di vino (90%), glucosio, aromi
naturali e altre schifezze non riportate sull’etichetta. Me
ne scaldavo un tazzona nel microonde appena potevo, anche tre o quattro volte al giorno, e alla fine, anche se non
stavo meglio, ero comunque mezzo sbronzo e mi assopivo
col naso chiuso.
La notte Fabio mi svegliava ogni tre minuti per dirmi di
piantarla di russare, come se un qualsiasi uomo riuscisse
nell’impresa.
«Ma ti senti? Non posso controllare il mio russare!»
«Secondo me lo fai apposta!»
«Come no. Dai la colpa al rimedio di tua nonna!»
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«Ehi, la famiglia non si tocca!»
«Lasciamo perdere e dormi.»
«Ci provo. Basta che non russi!»
«Ok, devo dirti un’altra cosa prima che tu spenga la
luce: ho bisogno di un nuovo PC.»
«E ci credo. È già un miracolo che quel polmone abbia
resistito così tanto!»
90
6.
Caffè doppio senza zucchero.
Il vicequestore ha dormito troppo. A volte gli succede.
Anche se la notte scorsa l’ha trascorsa da solo. Topolino, alla
fine, ha scaricato Minnie perché a tutto c’è un limite, specialmente all’idiozia. E quella ragazza era tanto bella quanto indisponente. Senza contare che la faccenda del rumore idraulico
l’aveva demolito. Gli sembrava di andare a letto con la sorella
di Super Mario Bros e, insomma, proprio non funzionava.
Si è già masticato mezzo toscanello e, quando Lonigro
fa irruzione nel suo ufficio, senza bussare, ha la tentazione
di mordere anche lui.
«Si è costituito!» esordisce l’ispettore capo.
Sebastiani lo osserva prima di replicare. Lonigro è la
sua ombra, il suo vice. Quando lui è in ferie o impossibilitato a seguire un’indagine diventa Vincenzo il responsabile e prende la faccenda terribilmente sul serio. Poco incline alle chiacchiere e alle battute, preferisce puntare al sodo. Uno sbirro vecchia maniera, quasi una caricatura dello
stereotipo del poliziotto reso popolare dalle serie televisive. Sulla quarantina, sposato e con due figli piccoli, appena può dà fuoco a una sigaretta tanto che a tutti quelli che
hanno la sventura di mettere piede nel suo ufficio pare
d’infilarsi dentro una camera a gas.
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Si presenta sempre perfettamente rasato, mani e divisa
impeccabili, capelli ricci e nerissimi, tagliati corti e pettinati all’indietro. Parla lentamente cercando di nascondere, per quanto arduo, l’inflessione meridionale.
Alla sua vista il vicequestore chiude in fretta e furia un
cassetto della scrivania. Minnie – prima della rottura – gli
ha regalato un portamonete di pelle e se ne vergogna.
Quello è un oggetto che da anni era caduto nel dimenticatoio ma ora, con l’arrivo della nuova moneta, tutti l’hanno
rispolverato: un euro vale quasi duemila lire, ragion per
cui bisogna fare attenzione agli spicci.
L’ispettore osserva il superiore corrugando la fronte.
«La prossima volta bussa» gli ringhia. «E ora dimmi,
chi si è costituto?»
«L’assassino di Sommese.»
«Cosa?»
«Ha capito bene, tal Guido Bellantuono. È qui. E non
è solo.»
«Cioè?»
«Si è portato l’avvocato. E non le piacerà.»
«Perché, chi è?»
«Manfredi Visconti.»
Sebastiani sospira. Visconti è un cosiddetto principe
del foro. Un ariete. Uno schiacciasassi. Un incubo per loro. Meno male che il soggetto ha già confessato...
«Come fa a potersi permettere la parcella di uno squalo
come quello? È ricco?»
«Da quello che sono riuscito a sapere fino a ora il nostro uomo è un disoccupato con una fedina penale lunga
come quella di Vallanzasca.»
«Cosa ci fa quell’azzeccagarbugli ancora a Milano l’otto di gennaio? Non va a sciare a Courmayeur come tutti gli
avvocati?»
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In quel momento dalla porta fa capolino un uomo distinto. Giacca di lana, camicia Brooks Brothers e scarpe
fratelli Rossetti. Particolari che uno come Sebastiani, abituato al lusso dei begli abiti, nota.
«Purtroppo non c’è neve. Quindi eccomi qua.»
Il vicequestore si alza di scatto e va incontro al nuovo
venuto.
«Piacere, sono l’avvocato Manfredi Visconti. Sa, mi fischiavano le orecchie così ho pensato di entrare e presentarmi.»
Sebastiani gli stringe la mano imbarazzato. È rosso in
viso e il toscanello sta già correndo a mille su e giù per la
sua bocca.
«Piacere di conoscerla» balbetta il poliziotto. Lonigro
se ne sta in disparte, in silenzio.
L’altro sorride.
«Da quello che ho sentito arrivando non mi sembra entusiasta che sia io a difendere il signor Bellantuono...»
Il vicequestore tenta di riprendere il controllo della situazione.
«Ha ragione. Io e il mio collega, l’ispettore capo Vincenzo Lonigro, ci chiedevamo come uno sbandato come il
suo cliente possa permettersi il suo onorario.»
«Non può, infatti. E non le permetto di definirlo uno
sbandato.»
«Ha detto che non può permettersi la sua parcella, ho
sentito bene?»
«Caro vicequestore, lasci che glielo spieghi in due parole: patrocinio gratuito. Due volte l’anno mi prendo a cuore
dei casi di gente comune che, normalmente, non potrebbe
permettersi la mia difesa. Lo faccio per spirito cristiano. E
per non perdere il contatto con la realtà.»
«Ma non mi dica.»
93
«Non apprezzo le sue battute di spirito.»
«Uh, la cosa mi sconcerta, avvocato.»
«Lo vedo.»
«Quindi» riprende Sebastiani, «l’anno è appena iniziato e lei ha già il suo primo caso umano?»
«Meglio cominciare per tempo, no? Il mio studio riapre domani e siccome oggi ero libero, eccomi qui. Sa come
si dice, no? Chi ha tempo...»
«Lo so come si dice. E ora se abbiamo finito con i convenevoli direi che possiamo procedere con l’interrogatorio del suo assistito.»
*
Il vecchio Motorola squilla proprio mentre sto per infornare lo stinco alla birra. Carne dell’Esselunga e Porpora
del Microbirrificio Lambrate. Ormai sono entrato perfettamente nella parte della perfetta casalinga che cucina
ogni giorno. Mi mancano solo le pantofole rosa e il fazzoletto coordinato legato in testa.
«Pronto.»
«È finita, ragazzo: si è costituito. Non farai il tuo scoop!»
«Chi parla?»
«Sono Guarneri.»
Il vecchio cronista infartuato. Vuoi vedere che ci ha ripensato e mi prende a lavorare con lui?
«Come sta? Si è ripreso?»
«Lascia perdere le smancerie. Non ti posso più assumere. Ti chiamo solo per dirti che qui in redazione è arrivata
un’Ansa che dice che l’assassino di Sommese si è appena
costituito in questura.»
Non replico. Sto cercando di capire se abbia chiamato
per sfottermi.
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«Ti eri sbagliato» insiste il vecchio cronista.
Come certa gente nasca per essere molesta non me lo
spiego.
«Prego?»
«Il misterioso simbolo che avevi visto disegnato col
sangue te lo sei sognato.»
«Non me lo sono sognato!»
«Oh, io credo di sì, pischello. L’unico a parlarne sei stato tu su quel tuo blog che ora è scomparso...»
«Ma lei che ne sa? Leggeva i miei pezzi?»
«Be’, te l’ho detto che ti avrei tenuto d’occhio, no? E poi
con la convalescenza ho molto tempo libero. Quando vengo in redazione, un paio d’ore al giorno, scorro le news e...»
«E legge Milanonera. Bene. E quest’Ansa cosa riporta
di preciso?»
«Nulla. Tre righe in croce. È un flash, come si dice in
gergo: l’assassino si è consegnato e la polizia lo sta interrogando. Fossi in te...»
«Mollerebbe tutto e si precipiterebbe in questura?»
«L’hai detto.»
Cos’è: ora vuole aiutarmi?
Non lo saprò mai visto che ha già riattaccato. Prima di
correre fuori metto il timer al forno: d’accordo che il lavoro viene prima di tutto ma carbonizzare uno stinco che ho
lasciato a marinare tutta la notte in erbe aromatiche, aglio
e birra scura mi dispiacerebbe parecchio!
*
Sebastiani lascia che Bellantuono e il suo avvocato si
accomodino nella stanza degli interrogatori.
«Lonigro, registriamo tutto, ok? Non voglio che poi il
magistrato abbia da ridire.»
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«Certo dottore.»
«Bene, allora andiamo e sentiamo cosa ha da dirci.»
Bellantuono è un uomo sui cinquanta, tarchiato, sopracciglia folte e rughe profonde in fronte. Lo stereotipo
di uomo che Lombroso avrebbe condannato a prescindere.
«Quindi lei afferma di aver ucciso l’avvocato Giovanni
Sommese, esatto?»
«Sì.»
La voce è roca, profonda.
«Ci racconti com’è andata.»
L’uomo si volta un attimo verso il suo avvocato che con
un cenno del capo gli dà la conferma che può procedere.
«Non è che c’è tanto da dire. L’ho aspettato davanti al
suo studio di piazza Cordusio, poi quando è uscito l’ho
seguito e al momento giusto l’ho spinto sotto al portico
e...»
«Continui, avanti.»
«Io volevo solo rapinarlo... Davvero. Solo che la cosa
mi è sfuggita di mano, ecco.»
«Così l’ha accoltellato?»
«Esatto.»
Sebastiani scuote la testa.
«Indossava dei guanti?»
«Sì.»
«Come mai?»
«Be’, per non lasciare impronte... Cioè no, volevo dire...»
«Quindi vede che aveva intenzione di ucciderlo!»
«No, no. Mi sono confuso! Avevo i guanti perché faceva freddo...»
«Freddo?»
«Sì, un freddo terribile.»
Il vicequestore è sempre più contrariato; l’avvocato Vi-
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sconti, invece, pare impassibile, una maschera di cera, mentre il suo cliente racconta quella storiella da due lire.
«Una cosa non capisco» riprende Sebastiani mordendo
il sigaro. «Se non voleva lasciare impronte perché non la
identificassimo, come mai oggi è venuto qui a costituirsi?»
A quel punto è l’avvocato Visconti a intervenire con
voce perentoria.
«Il mio cliente si è consegnato alla giustizia sopraffatto dai sensi di colpa. Non aveva mai ucciso nessuno e
così, dopo diversi giorni di tormento interiore, ha preferito liberarsi la coscienza confessando. Naturalmente
chiederemo il rito abbreviato con uno sconto di un terzo
della pena.»
«Naturalmente.»
Sebastiani getta il sigaro mangiucchiato nel cestino e se
ne infila uno nuovo fra le labbra prima di riprendere con
le domande.
«Signor Bellantuono, lei conosceva personalmente la
vittima, il dottor Sommese?»
«No, non l’avevo mai visto prima di... Insomma, avete
capito.»
Il vicequestore scuote la testa e anche Lonigro, solitamente impassibile, ha un sussulto.
«Quindi non sapeva nemmeno chi fosse?»
«Esatto.»
«Allora mi può dire per quale ragione l’ha ucciso?»
Bellantuono si agita sulla sedia.
«Be’...»
L’uomo guarda Visconti, che annuisce.
Devono essersela preparata per bene questa sceneggiata, pensa Sebastiani.
«Allora?»
L’altro scuote la testa, disorientato.
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«Mi sembrava uno col grano, ecco. Bei vestiti, paltò di
lusso. Volevo solo fregargli il portafogli, ma poi quello ha
reagito ed è finita male...»
«Ha reagito? Un avvocato che andava per i settanta e
con centomila lire in tasca?»
«Sì, si è messo a urlare e mi ha afferrato per un braccio.
E io ho perso la testa...»
«Cos’ha fatto: ha cercato di colpirla? Di disarmarla?»
«Ha urlato e io ho avuto paura che arrivasse qualcuno... Così l’ho colpito e sono scappato. Senza nemmeno
prendere il portafogli...»
«L’ha pugnalato tre volte. Non bastava uno spintone se
voleva solo scappare?»
Bellantuono chiude gli occhi.
«Non lo so, non ragionavo lucidamente in quel momento. Volevo che si zittisse e l’ho colpito.»
«Quante volte?»
«Non so.»
«Glielo dico io: lei l’ha pugnalato tre volte! Allo stomaco. Non mi sembra proprio la reazione di uno terrorizzato
che vuole solo fuggire...»
«Io non...»
Bellantuono si prende la testa fra le mani e inizia a singhiozzare.
«Gli dia un attimo» chiede Visconti.
Il delinquente si copre la faccia. Finge le lacrime. Finge
di essere pentito. Un vero attore.
Sebastiani attende paziente. Fa tutto parte della grande
messa in scena. L’avvocato che gli porge i kleenex, l’altro
che si asciuga gli occhi e con voce rotta sussurra che gli
dispiace. Lui e Lonigro ne hanno viste cento di scene madri come quella.
Quando Bellantuono, cinque minuti più tardi, si ricom-
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pone, il vicequestore riprende l’interrogatorio come se
nulla fosse.
«Poi che ha fatto? Dopo il delitto, intendo?»
«Sono scappato e sono corso subito a casa. A piedi.»
«Perché ha abbandonato il coltello? Non temeva che
saremmo risaliti a lei da quello?»
«Non lo so, non ci ho pensato... Avevo i guanti, comunque... Quando gli ho dato l’ultima coltellata, l’avvocato ha
afferrato il manico e allora io l’ho mollato e me ne sono
andato...»
«E il portafogli? Se era una rapina perché non l’ha preso?»
«Gliel’ho detto: mi sono agitato. Quello ha reagito, io
l’ho accoltellato e poi sono fuggito. Dei soldi mi ero già
scordato!»
Il sigaro di Sebastiani scivola da una parte all’altra della
bocca senza sosta.
«Dove sono i guanti?»
«Li ho gettati in un cestino dell’immondizia mentre
fuggivo. Non ricordo quale.»
«Ti pareva?» ironizza Lonigro.
Bellantuono si stringe nelle spalle.
«Dopo dov’è andato?»
«Da nessuna parte. Ho corso fino in via Torino e da lì
ho camminato fino a casa.»
«Una bella passeggiata visto che, leggo dal suo fascicolo, lei abita in via Lorenteggio...»
«Sì, ma non mi è pesata. Avevo l’adrenalina a mille, sa
com’è, no?»
«No, non lo so. E poi non faceva troppo freddo quel
giorno per andarsene a spasso a piedi? L’ha detto lei che si
gelava, no?»
Sebastiani osserva Bellantuono con occhi di ghiaccio.
«Bene, direi che il mio cliente ha riferito quello che do-
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veva, no?» interviene l’avvocato. «Ha confessato e ha risposto a tutte le vostre domande. C’è altro?»
Il vicequestore non replica.
«Abbiamo finito?» insiste Visconti.
«Per quanto ci riguarda sì, avvocato. Da qui in avanti
ve la vedrete col magistrato.»
Lonigro fa alzare Bellantuono e lo affida a un agente
perché lo porti in cella. Sebastiani stringe la mano dello
squalo – gelida – e chiude la porta.
«Ci hanno preso in giro» sbotta mordendo il toscanello.
Lonigro annuisce in attesa del resto. Che non tarda ad
arrivare.
«Io a questo buffone non credo per nulla! Troppa approssimazione, troppi punti oscuri. Qual è il rapinatore
che ti prende a coltellate e poi non ti sfila nemmeno il
portafogli? Non sta in piedi...»
«Allora che si fa?»
«Indaghiamo! Andiamo a vedere dove abita, se qualcuno ha visto qualcosa, facciamo domande.»
«Vecchia scuola.»
«Esatto.»
«Bene, ma come la mettiamo col fatto che ha confessato? Il magistrato ci dirà che l’indagine è ufficialmente
chiusa.»
«Allora riapriamola ufficiosamente, d’accordo?»
*
Mi sono perso venendo in questura.
L’ultima volta era stato più semplice, forse perché era
mattina, c’era il sole e ci si vedeva. Col buio e il traffico
Milano diventa un blob immondo dove non ti raccapezzi
100
più, specie se, come il sottoscritto, vieni dalla campagna
e queste strade le hai percorse solo un paio di volte in
vita tua.
Dulcis in fundo, ora che sono dentro vogliono sbattermi
fuori.
«Lei non può entrare» ripete il piantone con aria minacciosa.
«Perché?»
«Non è accreditato, gliel’ho già spiegato. E ora la smetta d’insistere!»
Sto per mettergli le mani addosso – rischiando quindi
l’arresto e magari anche dolorose e accuratissime perquisizioni corporee – quando in fondo al corridoio vedo spuntare una sagoma famigliare: Sebastiani col suo sigaro spento.
Gli vado dritto incontro a passo di carica.
«Buonasera» mi saluta. «Che diavolo ci fai ancora in
questura: un’altra denuncia per quel tuo blog?»
«No, sono qui per il tizio che si è costituito per l’omicidio Sommese.»
«Ah.»
«Può dirmi qualcosa?»
«Neanche per sogno. C’è il mio collega, l’ispettore capo Lonigro, che in questo preciso momento sta tenendo
una conferenza stampa spiegando i dettagli dell’arresto.
Fossi in te mi sbrigherei.»
«Lo farei volentieri. Solo che non mi hanno fatto entrare in sala stampa.»
Mi pare di scorgere un sorrisino malvagio a un angolo
della bocca del vicequestore. Spero si strozzi con quel toscanello!
«Non lo sai che ci vuole l’accredito, pivello?»
«Ora lo so. Me l’hanno ripetuto in tutte le lingue. Solo
che non mi hanno detto come si ottiene...»
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«Be’, a quanto ne so il tuo direttore deve rilasciarti una
dichiarazione...»
«Ma io non ho un direttore!»
«Ah già. Tu sei un freelance con un blog...»
Simpatico come l’herpes. Forse se ne accorge e aggiunge: «Vedrò cosa posso fare. Per oggi comunque è andata.»
Sono proprio sicuro che se ne occuperà... Sarà il suo
pensiero ossessivo per i prossimi giorni: procurare un accredito a Radeschi. Come no.
«La ringrazio.»
Lui si volta e mi fa un cenno di saluto con la mano.
«Quindi è finita?» chiedo quando è già a due passi da me.
Si volta lentamente. Il sigaro che gli vibra fra le labbra.
Sorride.
«Ha confessato.»
«Non è quello che le ho chiesto.»
«Vuoi dire se è innocente o colpevole?»
Non gli rispondo. È ovvio, no?
«Be’» prosegue calmo, «ora il pallino è passato al magistrato. Noi abbiamo raccolto la confessione e trasmesso
tutto alla procura. Fine dei giochi.»
«Del simbolo ha detto qualcosa?»
«Allora sei fissato!»
«Ne ha parlato?»
«No.»
Come immaginavo. Sebastiani adesso se ne va davvero
e io rimango a rodermi con i miei dubbi.
*
Il questore Lamberto Duca accoglie Sebastiani con una
calorosa stretta di mano nel suo enorme ufficio. È raggiante.
«Prego, si accomodi. Si metta a suo agio.»
102
Ha un gran sorriso sulle labbra mentre si siede sulla sua
poltrona di pelle chiara.
«Le faccio i miei complimenti! Davvero ha risolto in
poco tempo un caso che rischiava di mettere tutti quanti
in imbarazzo...»
L’imbarazzo ce l’ha il vicequestore ora. Non sa bene cosa rispondere al suo superiore. Forse che loro hanno fatto
ben poco visto che Bellantuono si è consegnato da solo?
«In realtà...»
«Oh, non sia modesto» lo interrompe il superiore. «So
cosa sta per dire: che il reo ha confessato. E con questo?
Lo ha fatto perché si sentiva il nostro fiato sul collo! Ecco
tutto. La polizia lo braccava e, allora, lui è venuto allo scoperto e si è consegnato. Anche questo fa parte del nostro
mestiere. E lei lo sa bene.»
Il toscanello fra le labbra di Loris corre veloce.
«Allora grazie, signor questore. Anche se ho trovato
poco convincente la confessione...»
Duca si sporge verso la scrivania con aria crucciata.
«Cosa intende dire?»
«Be’, mi è sembrata una storia raffazzonata. Una rapina
andata male che finisce con un accoltellamento...»
«Oh, la follia umana non ha limiti se è per questo!»
«Ha ragione.»
«Bene, bene. Quindi possiamo considerare chiusa la
faccenda, dico bene?»
Il vicequestore esita.
«Sebastiani?»
Loris cerca le parole giuste e inizia a mordere l’estremità del sigaro.
«Ci sarebbe la faccenda del simbolo tracciato col sangue da Sommese.»
«L’omicida ne ha fatto cenno?»
103
«No.»
«Allora non me ne preoccuperei. C’è altro?»
«Niente, signore.»
«Ottimo! Adesso pensi solo a rilassarsi. Non ho dimenticato che lei ha sacrificato le vacanze, sa? Quindi ecco qui
un permesso di sette giorni: parta e si goda le sue ferie
meritate! Avete chiuso un caso. Bisogna esserne felici!»
Sebastiani stringe la mano di Duca sorridendo flebilmente. Pensa che in fondo il questore abbia ragione: hanno arrestato l’assassino. Il lavoro non è tutto. Gli restano i
suoi vini. Gli resta una settimana di immersioni da godersi. E gli restano pure mille dubbi. Quanto alla faccenda
dei giovani scomparsi nel nulla, be’, resta anche quella ma
per qualche giorno può anche occuparsene Lonigro.
*
“L’assassino ha confessato.”
“Così ho accoltellato a morte l’avvocato.”
“Ho perso la testa e l’ho ucciso.”
Grandi titoli a effetto ma poca ciccia: sui giornali, del­
l’indagine vera e propria, hanno scritto poco o niente. Si
sono limitati a ricamare su quel poco che gli hanno raccontato in conferenza stampa. Bocconi che i cronisti si sono sforzati di rielaborare a loro piacimento. Succo dei vari
articoli, in breve: un certo Bellantuono si è costituito confessando il delitto dell’avvocato Sommese dopo un tentativo di rapina andato male. Tutto qui. Nessun accenno al
simbolo tracciato dalla vittima col sangue. Per i media e il
questore il caso è chiuso. Non per me che, per non impazzire a forza di rimuginarci sopra, sto escogitando nuove
fonti di guadagno per sbarcare il lunario.
Anche per uscire dalla routine; qualche settimana appe-
104
na di convivenza e io e Fabio già sembriamo una vecchia
coppia abitudinaria: manicaretti preparati dal sottoscritto,
tv sempre accesa e roba da nerd. Codici, manualoni di programmazione, infinite discussioni teoriche su quale sia il sistema migliore per violare il sito di una banca...
Non stasera, però. Ho avuto un’idea che forse mi permetterà di licenziarmi dal Fenicottero. Ormai la ’nduja mi
esce dagli occhi. E siccome non ho voglia di cucinare ho
invitato Fabio a un aperitivo.
«La noia delle coppie sposate ci sta prosciugando» gli
ho detto. «Stasera si esce.»
Ci siamo dati appuntamento al Matricola per bere qualcosa e assaltare il buffet dell’aperitivo. Quando arrivo, poco dopo le sei di sera, l’atmosfera nel locale è, come al solito, allegra. Tavoli di legno e pinte di birra sempre a portata di mano.
«Dove sei stato?» chiede Fabio con un libro aperto sotto al naso.
«A prendere qualcosa per la serata!»
«Marijuana dal tuo amico di piazza Vetra?»
«Molto meno eccitante.»
«Superalcolici?»
«Nemmeno.»
«Mi arrendo.»
«Meglio così, tutta questa pressione mi stava uccidendo...»
Sorrido ed estraggo dallo zaino due videocassette avvolte in una confezione gialla e blu.
«Sono stato da Blockbuster in viale Monza a noleggiare
un paio di film e a comprare schifezze da mangiarci insieme. Non puoi capire la roba che hanno: popcorn per il
microonde, gelati, patatine...»
«Cos’hai preso?»
105
«Tutto quanto.»
«Intendevo come film.»
«Ah, due novità. Una è gli X-Men.»
«Ottima scelta. E poi?»
«Le ragazze del Coyote Ugly.»
«Che roba è?»
«Belle ragazze sbronze che ballano sul bancone del
bar.»
«Sembra interessante.»
«Molto interessante. Prima di correre a vederli, però, ti
vorrei parlare di un progetto.»
Lui aggrotta la fronte. Si capisce che preferirebbe
un’unghia incarnita a un’altra delle mie trovate.
Da qualche giorno mi ronza in testa un modo non proprio legale per alleviare la cronica mancanza di liquidi che
mi attanaglia e che affligge pure il mio amico calabrese
che, lo so per certo, campa grazie a una borsa di studio e a
qualche spicciolo – oltre al micidiale vino paesano – che
gli mandano i suoi che, però, non sono certo l’Aga Khan.
«Ho pensato a una nuova fonte di business.»
«Ci mettiamo a fare rapine stile Lupin III?»
«Non esattamente. L’idea è di sfruttare le debolezze di
quelli come te.»
«Che vuol dire quelli come me?» si schermisce mentre
sottolinea con un evidenziatore azzurro alcune righe del
libro che tiene davanti.
«Senza offesa, amico: gli smanettoni onanisti.»
Fabio sbuffa. Adesso impugna un evidenziatore giallo
con cui segna righe diverse della stessa pagina.
«Voglio dire, guardati: siamo al pub e studi. E anche
per studiare hai una metodologia da nerd. Adoperi tre colori diversi. Che senso ha?»
«Uno per i concetti, l’altro per gli esempi, il terzo per le...»
106
«Vedi cosa intendo?» lo interrompo. «Non avete tempo per il resto, per le ragazze che vi rifuggono come la
peste...»
«Ha parlato il vitellone!»
«Eccolo! Chi utilizza ancora la parola vitellone in questo
secolo? Solo voi cervelloni. A cui però manca qualcosa.»
«Sarebbe?»
«Lo sai benissimo. Ne sentite la necessità pressante e se
non lo fate vi si annebbia il cervello perché non si può
sempre studiare, no?»
«Vieni al punto.»
«Vi occupate troppo volenterosamente di voi stessi...
Ma non è un male, davvero.»
Indico i suoi occhialoni da miope e mi scappa anche un
mezzo sorriso.
«Stai tranquillo: mica è vera quella storia che si diventa
ciechi...»
«Stronzo.»
«Ok, me la sono cercata.»
Prendo un generoso sorso di birra e ricomincio a parlare.
«Comunque quello che ti volevo suggerire è di offrire ai
tuoi amici – e a tutti i ragazzi fidati del Politecnico – che
ne faranno richiesta qualcosa che possa dar loro sollievo.»
«Vuoi mettere su un giro di prostitute? Guarda che io
non ci sto! Nel modo più assoluto!»
«Ma no! Cosa vai a pensare! Il servizio lo offriremo noi,
in maniera diciamo più casalinga...»
Fabio chiude il libro di scatto.
«Cosa?»
«Rilassati: sto parlando di porno. Cassette vhs di carnazzi, come li chiamiamo nella Bassa, da vendere a dieci
euro.»
107
«E chi sarebbe interessato a comprarle?»
«Scherzi? Tutti quegli studenti sbarbati fuori sede che
non hanno Tele+ come credi che sopravvivano? Coi giornaletti? Forse. Con un film che si sono procurati secoli fa
e che vedono e rivedono un migliaio di volte e che conoscono a memoria? Può darsi. Invece noi offriremo un servizio di pubblica utilità. Anzi, guarda ho già il nome adatto: operazione Fede!»
«Ti riferisci a Fede, speranza, carità, le tre virtù teologali, giusto?»
«Direi proprio di no.»
«Allora chi è Fede? Forse una tua amica?»
«Federica? Diciamo amica un po’ di tutti. Ti dà una
mano nel momento del bisogno.»
Finalmente il nerd capisce e scuote la testa contrariato.
«Ma come intendi fare? Come ci procuriamo i film?»
«Oh, ma li registriamo dal satellite, no? Ogni settimana
ne passano due o tre nuovi. Lo sappiamo bene io e te,
sbaglio?»
Gli strizzo l’occhio e lui annuisce in lieve imbarazzo.
«Bene. Prima ce li guardiamo, per valutare la merce, diciamo. E se ci soddisfa, la seconda volta che lo passano lo
registriamo e il gioco è fatto. A tutti quelli che richiederanno il nostro atto di Fede offriremo una bella videocassetta a
settimana. A dieci euro. Mi sono informato: la cassetta vergine costa più o meno un euro. Ergo, guadagno netto di
nove a pezzo, quasi ventimila lire. Cosa ti sembra?»
Fabio adesso mi guarda negli occhi. Sono sicuro che sta
cercando di capire se lo sto prendendo per il culo o se
davvero sono serio mentre gli propongo quel progetto
strampalato.
«Allora?» lo incalzo. «Vuoi mangiare per tutta la vita le
pizze surgelate dell’Esselunga o vuoi permetterti di andare
108
al ristorante qualche sera? E magari di comprarti qualche
aggeggio elettronico che brami da tempo ma per il quale
non hai i dané?»
Fabio finalmente stira un sorriso.
«Inizia a registrare quello che abbiamo visto ieri: conosco tre o quattro ragazzi del primo anno che un servizio
così non se lo lasceranno scappare di certo!»
Mi sporgo e abbraccio il mio coinquilino di slancio.
«Niente lingua, però» si schermisce.
«Allora siamo in affari, socio?» chiedo liberandolo dalla presa.
«Lo siamo.»
«Grande! Cameriere: altre due pinte per favore! Questo giro lo offro io!»
Fabio sorride e, per la prima volta da quando lo conosco, sembra addirittura sciogliersi. Anzi, si lancia pure in
un’uscita che mi lascia di sasso: «Sai che ti dico, Enrico?
Ubriachiamoci e prendiamo pessime decisioni!»
«Quelle riusciamo a imbroccarle anche da sobri.»
«Sì, ma in maniera più sofferta.»
«Hai ragione. Dobbiamo allontanarci dalla razionalità.»
«Esatto: i vostri etilometri non fermeranno la nostra sete!»
«Ma nessuno di noi due ha la patente!»
«Che importa? Intanto brindiamo; tanto per iscriversi a
scuola guida c’è sempre tempo!»
*
Senza divisa addosso Lonigro si sente nudo. Oggi però
gli tocca adattarsi. Ha elaborato una specie di piano per
infilarsi nell’appartamento di Bellantuono senza un mandato e l’uniforme non è adatta allo scopo. Peccato che non
possa attuarlo da solo: ha bisogno dell’aiuto del commis-
109
sario Giannuzzi. Dopo la retata deve un favore alla Omicidi ed è venuto il momento di riscuotere. Estrae il telefonino di tasca e compone il numero del collega.
«Buongiorno commissario. Sono Lonigro: hai per caso
una volante di pattuglia in zona Lorenteggio?»
«Aspetta che controllo... Sì, una in piazza Frattini, perché?»
«Sebastiani mi ha detto che è venuto il momento di riscuotere: abbiamo un piccolo favore da chiederti.»
«Purché sia legale.»
«Certo, per chi ci prendi?»
«Dimmi cosa ti serve.»
Lonigro spegne la sigaretta sotto la suola. È arrivato a
piedi davanti al palazzo di Bellantuono. Con sé ha una
ventiquattrore nera e un giubbotto di pelle sotto al quale
porta la pistola nella fondina.
L’atrio è grande e deserto. Unica presenza umana, semi
riparata da un grande ficus, un ometto con i baffi e gli
occhi piccoli, dentro al suo gabbiotto. La sceneggiata verrà apparecchiata proprio per lui.
Lo sbirro lo punta deciso mentre in strada, lentissima,
passa una volante della polizia.
«Buongiorno, lei è il portiere?»
«Sì e lei chi è?»
L’ispettore Lonigro, sguardo cattivo ed espressione
crucciata, mostra il tesserino.
«Polizia?»
«Li ha visti i miei colleghi giù in strada?»
«No.»
«Li vedrà. Passeranno qui davanti per tutto il giorno.
Stiamo tenendo sotto controllo il palazzo.»
Finalmente il baffetto ha una reazione di stupore.
110
«Questo palazzo? E come mai?»
«Sospettiamo che ci si nasconda un latitante.»
«Un... Ma dove? Chi?»
Lonigro ripassa mentalmente la piantina dello stabile
che ha studiato fino a poco tempo prima. Bellantuono occupava un monolocale al primo piano proprio sotto a...
«Secondo piano, interno 4.»
Il portinaio strabuzza gli occhi.
«Il vecchio Brambilla? Ma se avrà ottant’anni!»
«Non lui, ovviamente» ribatte scocciato l’ispettore.
«Brambilla ospita l’uomo che cerchiamo. E lo fa bene
visto che nemmeno lei, che è qui tutto il giorno, l’ha notato.»
Il portinaio incassa il colpo. Quando solleva lo sguardo
verso la strada nota la volante della Madama che ripassa
molto lentamente. I due poliziotti a bordo lo fissano accigliati.
Lonigro si compiace della riuscita del piano ma non
mostra segni di soddisfazione. Il tizio c’è cascato mani e
piedi.
«Come posso aiutarvi?» chiede iniziando a mostrarsi
preoccupato.
«C’è un appartamento adiacente a quello del Brambilla
in cui posso entrare per piazzare le cimici?»
Mentre lo dice batte con le dita sulla valigetta come se
lì dentro ci fossero davvero sofisticatissime apparecchiature tecnologiche invece di un misero paio di guanti di lattice che gli servirà a non lasciare impronte. Poi precisa:
«Deve trovarsi accanto oppure anche sopra o sotto...»
Lonigro la butta lì con nonchalance. Il baffetto deve
bersi la panzana che esistano cimici in grado di origliare
attraverso i muri. Il portinaio non lo delude.
«Be’, mi hanno lasciato le chiavi dell’appartamento di
111
Bellantuono... Un inquilino che è finito in carcere. Abitava
proprio sotto a Brambilla...»
«Me le dia. Entrerò nella casa e da lì piazzeremo le cimici per ascoltare le conversazioni del latitante.»
«Ma chi è questo tizio?»
Lonigro scuote la testa in segno di diniego.
«Meno sa meglio è. Per la sua incolumità.»
In strada la volante passa per la terza volta. Il portinaio
finalmente cede.
«Posso fidarmi?»
«L’ha visto il tesserino?»
«Sì.»
«Ecco, e se non si fida ancora le mando quei miei due
colleghi che stanno passando e la faccio portare in questura
accusandola di complicità col latitante: come le sembra?»
L’uomo, bianco in volto, porge il mazzo di chiavi a Lonigro e va a chiudersi nella guardiola.
*
La mattina è cominciata male per Sebastiani. Sveglia a
un’ora antelucana, tassista scontroso, coda al gate e, dulcis
in fundo, ritardo di settanta minuti rispetto all’ora di partenza schedulata. Adesso, però, il bus ha finalmente scaricato i passeggeri sulla pista e lui sta salendo la scaletta del­
l’aereo quando il suo cellulare inizia a squillare.
Loris osserva il numero sullo schermo: Lonigro.
«Pronto ispettore, mi sto imbarcando. È urgente?»
«L’hanno pagato, dottore. Ne sono certo!»
La voce di Lonigro è agitata.
«Vincenzo, mettici un soggetto nella frase così capisco
anch’io.»
«Bellantuono: sono stato nel suo appartamento.»
112
«Come hai fatto senza mandato?»
«Mi sono ingegnato; vecchia scuola, ricorda?»
Sebastiani trova il suo posto e si siede.
«Raccontami tutto. Ma veloce che l’aereo sta per partire.»
«Ho spaventato il portinaio con una storiella e gli si è
sciolta la lingua. Mi ha riferito che prima di finire al gabbio Bellantuono ha fatto la bella vita per un po’. Pare l’abbiano visto in un night di via Carducci: champagne e donnine tutta notte. Se n’è perfino portate a casa un paio.»
«E con cosa le pagava se era ridotto a rapinare la gente
per campare?»
«Coi soldi che qualcuno gli ha dato per ammazzare
Sommese!»
«Ne hai le prove?»
«Sì. Nello sciacquone del gabinetto, avvolte in un cellophane, ho trovato due buste con dentro un po’ di quattrini.»
«Due?»
«Una presumo per commissionargli l’omicidio; l’altra
come premio a cose fatte. Cosa ne dice? In una, la prima
immagino, c’era anche una fotografia dell’avvocato Sommese.»
«Quanto gli avranno dato?»
«Mah, parecchi milioni stando alla bella vita che faceva.»
«Sicuramente chi l’ha assoldato gli aveva detto di sbarazzarsene ma questo era troppo impegnato a godersi quei
soldi...»
«Esatto. Ho consultato il casellario giudiziario del nostro amico: Bellantuono era uno specialista in accoltellamenti. A quanto risulta è già stato diverse volte a San Vittore e dentro ha pugnalato un uomo – che alla fine però è
sopravvissuto – con un punteruolo ricavato da uno spazzolino da denti.»
113
«Quindi chi l’ha assoldato sapeva dei suoi precedenti.
Quanti soldi sono rimasti nelle buste?»
«In una cinquecentomila lire in biglietti da cento,
nell’altra una sola banconota: cento franchi svizzeri.»
«Franchi svizzeri? Doveva andare a mignotte oltre confine?»
«E chi lo sa? A ogni modo le ho con me e farò rilevare
le impronte. Vediamo se salta fuori qualcosa.»
«Controlla anche i tabulati telefonici; magari chi l’ha
assoldato l’ha chiamato...»
Una mano si posa delicatamente sul braccio del vicequestore.
«Deve chiudere signore, stiamo per decollare.»
«Faccio subito, scusi.»
«Davvero, signore, deve riagganciare. Adesso!»
La hostess lo fissa decisa. Bionda, occhi nocciola. Non
più di venticinque anni. Seno prominente con la traghetta
con un nome: Lory.
Sebastiani sospira.
«Mi scusi, Lory. Chiudo immediatamente.»
Quindi, rivolto a Lonigro.
«Devo lasciarti.»
«Solo un’ultima cosa.»
«Spara.»
«Con Giannuzzi siamo pari. Ci ha reso il favore. A conti
fatti abbiamo fatto un affare ad aiutarlo in quella retata!»
114
7.
Il sole. Il caldo secco. Il cielo azzurro senza smog e
senza quella cappa orrenda di grigio duecento giorni l’anno. La barriera corallina, la spiaggia di sabbia fine, l’open
bar anche se gli alcolici non è che siano proprio di prima
qualità.
Meraviglioso.
Peccato stia male di corpo. Come un cane. Sopra e sotto. Spara fuori tutto quanto.
Mi sono beccato un Montezuma coi fiocchi, pensa Sebastiani lasciandosi cadere sul letto.
Di immersioni ne ha fatte poche. Un paio appena, il
primo giorno. Poi sempre chiuso al cesso.
Questo, però, in questura non lo sanno, a Milano sono
convinti che se la stia spassando come un pascià. E lui, fra
una scarica e l’altra, non vuole vanificare quell’illusione.
Così, finalmente, si decide a rispondere al cellulare: da
quando l’ha acceso, due ore prima, non ha mai smesso di
squillare a intervalli regolari.
«Che c’è? Qui col telefonino in roaming internazionale
mi costa una fortuna!»
«Ma se chiamo io?»
«Non conta, testone! E ora dimmi, Mascaranti: cosa
vuoi?»
115
«Lonigro la cerca. Ha importanti novità. Dice di controllare la mail.»
«Lo sa che non le leggo.»
«Dice che ha una pista.»
«E perché non mi ha chiamato lui?»
«Ha tentato. Cinque o sei volte ma lei non rispondeva
mai. Ora è dovuto uscire e ha incaricato me di riprovare.
Questa è la terza volta che...»
«Ho capito. Stavo facendo snorkeling.»
«Cos’è, una roba araba?»
«No! Il bagno, Mascaranti. Facevo il bagno nel Mar
Rosso con la maschera e le pinne!»
«Deve essere strana l’acqua di quel colore, no?»
Sebastiani sospira, poi avverte una contrazione allo stomaco.
«Ora devo andare. Digli che lo richiamo tra poco. Arrivederci!»
Gli chiude in faccia mentre corre in bagno.
Quando esce recupera il cellulare e compone il numero
dell’ispettore capo Lonigro.
«Buongiorno dottore.»
«Buongiorno Lonigro. Mascaranti mi ha riferito.»
«Sì, purtroppo io sono dovuto correre fuori per un’emergenza. Due stronzi hanno rubato una Mercedes ma erano
così ubriachi che si sono schiantati duecento metri dopo e...»
«Dimmi del nostro caso» sbotta Sebastiani avvertendo
di nuovo un senso di disagio salire dallo stomaco.
«Le ho scritto.»
«Qui non ho il computer» taglia corto il vicequestore.
«Riassumi in poche parole per favore che... mi aspettano
per l’immersione mattutina.»
«Prima di tutto volevo informarla che il magistrato ha
convalidato il fermo: Bellantuono è stato ufficialmente incriminato per l’omicidio dell’avvocato Sommese.»
116
«Questo era scontato. La moglie e il figlio cos’hanno
detto quando li hai incontrati?»
«Non molto. Erano distrutti dal dolore e affermano che
l’avvocato non avesse nemici. Il figlio, che lavora con lui e
che quindi è informato delle pratiche che stava seguendo,
dice che non c’era nulla di critico in questo periodo. Ordinaria amministrazione.»
«Il solito, quindi.»
«Già.»
«Sapeva perché il padre volesse incontrare Duca?»
«Negativo.»
«Gli hai mostrato la foto di Bellantuono?»
«Sì. Non l’hanno mai visto. E stando sempre al figlio
nemmeno Sommese lo conosceva.»
«La scientifica ha ricavato qualcosa dalle banconote?»
«Oh sì, almeno una trentina di impronte diverse. Sono
soldi che hanno circolato parecchio, maneggiati da un sacco di persone, quindi...»
«Da nessuno in particolare...»
«Non proprio.»
«Cosa vuoi dire?»
«Sulla banconota svizzera hanno ritrovato l’impronta,
molto nitida, di un pollice. Solo quella e nessun’altra. Strano, no?»
«Sono risaliti a qualcuno?»
«No, non è nei nostri archivi.»
«Sulle buste?»
«Solo le impronte di Bellantuono.»
«È andata meglio coi tabulati?»
«Negativo. Le uniche telefonate che ha ricevuto nei
giorni prima del delitto gli sono state fatte da una cabina
telefonica della stazione Garibaldi.»
«Da parte di chi lo ha assoldato?»
117
«Chissà. Quelle due telefonate potrebbe avergliele anche fatte un amico per chiedergli se uscivano a bere...»
«Troppi se.»
Sebastiani sospira prima di riprendere a parlare.
«Un’ultima cosa, Lonigro.»
«Mi dica, dottore.»
«Procurami un accredito per la nostra sala stampa per
quel giornalista freelance, Enrico Radeschi. Prima di partire quasi me lo sono ritrovato nel mio ufficio, visto che
non lo facevano entrare.»
«Sarà fatto.»
«Grazie, per oggi mi hai già depresso abbastanza...»
«Mi spiace ma forse qualcosa che le tiri su il morale c’è.»
«Vale a dire?»
«Il caso dei ragazzi che scompaiono nel nulla, ha presente?»
«Sì.»
«Bene, sono andato a fare domande nel locale dove
l’ultimo ragazzo, Davide Mari, è stato prima di scomparire. Un posto fighetto, si chiama Le Coffre: solo per entrare
devi ipotecare la casa. A ogni modo uno dei buttafuori si
ricorda del tipo, per via di una mancia generosa. E anche
perché l’ha visto andarsene in compagnia di una mora, parole sue, stratosferica.»
«Una ragazza?»
«Una donna sui trentacinque. Una a cui sbavavano dietro tutti quanti. Ma che ha scelto Mari. Ho trascinato in
questura il buttafuori e ora abbiamo un identikit.»
«Che mi hai spedito via mail.»
«Esatto.»
«Bel lavoro, Lonigro» conclude Sebastiani già in piedi
accanto alla tazza. «Continua su questa pista. Ora devo
staccare. L’istruttore mi sta facendo dei gestacci.»
118
Nel minuto successivo Loris si dedica all’ennesimo
rito purificatorio, quindi si toglie i vestiti, si piazza sotto
il getto freddo della doccia e, finalmente, riesce a realizzare che mentre per Sommese l’indagine è insabbiata
forse hanno una pista concreta riguardo ai ragazzi scomparsi: vengono sedotti da una donna. E svaniscono nel
nulla. Li uccide lei? Ha dei complici che li addormen­
tano e gli prelevano gli organi? Ne fa sapone come la
Cianciulli?
Qualunque sia la risposta adesso hanno un identikit. A
quanto pare una bella mora che farebbe girare la testa a
chiunque. Una mantide assassina.
*
A piedi. Fino in cima, col cuore che martella e la gambe
che cedono.
Ma non mollo, è diventata una questione di principio
ormai.
Un ultimo sforzo e ci sono. 257 gradini. Il cielo di Milano, la terrazza del Duomo.
Oggi c’è un sole che abbaglia e io mi godo lo spettacolare panorama da quassù mentre riprendo fiato. La Madonnina luccica quasi da accecare e, vista da qui, non è poi
così piccina come dice la canzone.
«Alta più di quattro metri» mi informa la guardia.
«Quattro metri e sedici, per la precisione.»
Annuisco mentre dalle guglie osservo la città ai miei
piedi: la piazza con i turisti e i piccioni, la Galleria bellissima anche da qui, la torre Velasca, un grattacielo che più
brutto non si può, il Castello Sforzesco e poi non so quanti campanili... Dieci, trenta. Cinquanta. Milano è una città
di chiese a quanto pare.
119
Questa è l’ultima tappa del mio tour ideale della città.
Mi manca solo la cima del grattacielo Pirelli.
L’unica utilità della tessera da pubblicista che ho trovato sino a ora, dato che non è servito per accaparrarsi un
lavoro, è quella di poter entrare senza pagare nei musei
meneghini. In questo primo scampolo di anno mi sono
visto l’acquario, il planetario, Palazzo Reale, la pinacoteca
di Brera, e, appunto, la terrazza del Duomo.
Scendo piano, con le gambe piene di acido lattico e i
muscoli che mi dolgono. Oggi però non riesco a smettere
con le novità, così sulla strada del ritorno, sempre a piedi
per tenermi anche in forma, decido di fare un salto al museo di Storia Naturale.
Quando la sera finalmente rientro a casa sono sfinito.
Senza voglia di cucinare e con le vesciche al punto che
Fabio, rincasando, mi sorprende con i piedi a mollo in una
bacinella d’acqua calda. Non un grande spettacolo ma lui
non s’impressiona.
Solleva solo un sopracciglio a mo’ di domanda quando
vede che ho tirato fuori la pizza dal congelatore.
«Ho pensato che da un po’ non la mangiavi e ti mancava...»
Lui annuisce distrattamente.
«Cos’hai fatto oggi?» chiede più per cortesia che per
vero interesse. Del resto se abiti in venti metri quadri non
è che non puoi parlare con il tuo coinquilino. Specialmente se si sta facendo un pediluvio mentre tu mangi.
«Sono stato in cima al Duomo.»
«Uhm uhm.»
«E al museo di Storia Naturale. Magnifico, davvero.»
«Uhm uhm.»
Un orango intavolerebbe una conversazione migliore.
«Lo sai che c’è conservato uno scheletro completo di
dinosauro?»
120
«Che tipo: un triceratopo? Un T-Rex? Cosa?»
Scuoto la testa.
«Un bestione enorme. Non so bene. Comunque vale la
pena vederlo: impressionante. E c’è pure quello di una balena!»
«Sei sicuro che si tratti di una balena? O è forse quello
di un’orca? Magari di un’otaria o una megattera?»
«Lasciamo perdere... Tu piuttosto che hai fatto? Hai
risolto qualche equazione differenziale che ti aiuterà a salvare la terra in caso di attacco alieno?»
Il calabrese estrae la pizza fumante dal microonde.
«No, quelle le farò con l’esame di Analisi Matematica II.
Quando finalmente riuscirò a passare quello di Analisi I...»
«Vabbe’ dai, pace.»
«Pace. Ti va una fetta di pizza?»
«Certo!»
«Prima però fai sparire quella bacinella dalla mia vista
e, già che ti alzi, recupera un paio di birre dal frigo.»
Questo posso concederglielo. Anche perché non gli ho
ancora raccontato la cosa più eccezionale della giornata.
Un po’ perché non siamo venuti sull’argomento, un po’
per scaramanzia, visto che non so come andrà a finire. E
un po’ perché effettivamente rimorchiare una ragazza nei
cessi di un museo non è proprio la tipica situazione da
corteggiamento...
È accaduto alla fine della visita agli scheletri preistorici.
Mi sono infilato nella toilette degli uomini, ho spinto la
porta di una delle ritirate e mi sono trovato davanti questa
ragazza. Capelli a caschetto neri, occhi dello stesso colore,
labbra carnose. Indossava una giacca di pelle e se ne stava
seduta sulla tazza a fumare. I jeans non erano abbassati,
fumava, punto. E fumava erba.
Lei mi aveva sorriso quasi materna.
121
«Scusa» avevo balbettato.
«E di cosa? Sono io che mi sto facendo una canna nel
bagno degli uomini! Sai, quello delle donne era occupato.»
«Capisco.»
«Mi piace sballarmi nei luoghi d’arte.»
«Così dopo visualizzi al meglio le opere?»
«Vero? Lo penso anch’io. Ti va di fare un tiro?»
«Certo.»
Eravamo rimasti a parlare e a fumare per un po’. Poi lei
si era alzata, mi aveva sorriso e mi aveva scritto con un
pennarello sulla mano il suo numero di telefono.
«Sei simpatico, Enrico. Chiamami qualche volta, ok?»
Appena era uscita mi ero salvato subito il numero sulla
rubrica del Motorola.
Una giornata proficua se non fosse che per l’agitazione
avevo dimenticato il nome della ragazza. Certo, ci eravamo presentati e tutto. Ci eravamo perfino stretti la mano.
Solo che il nome proprio non lo ricordavo.
Nessuno ascolta veramente la prima volta. Il nome lo
impari dalla seconda in poi, sempre che ci sia. Alla fine,
avevo risolto l’impasse salvandola in rubrica come “la ragazza delle canne”.
Prima o poi mi sarebbe tornato in mente il suo nome.
*
«Essere un hacker significa accedere ai sistemi remoti
senza disporre delle autorizzazioni necessarie. Il suo gemello cattivo, invece, il cracker, è quello che elimina le
protezioni e le limitazioni dei programmi commerciali distribuiti.»
Fabio è entrato davvero nella parte del professore e io,
mio malgrado, mi adeguo al punto da sorbirmi le sue lectio
122
magistralis fingendomi pure interessato. Sa bene che non
ho scelta; sono nelle sue grinfie. I nerd, del resto, sono
androidi senza cuore. Anche se nell’Impero colpisce ancora
i due droidi, quello dorato e il barattolo di latta, sembravano avercela un’anima...
Alla fine ho dovuto farmi una cultura per comprendere
a fondo il mondo degli smanettoni. Mi sono sparato una
full immersion di Guerre Stellari e, in un intero pomeriggio, mi sono visto la trilogia. Bella. Davvero. Anche se non
ho capito perché abbiano iniziato dall’episodio quattro.
Forse i primi tre non erano così interessanti. Vai a sapere.
Fabio intanto continua a discettare di filosofia hacker. I
buoni e i cattivi. Il lato oscuro della forza, i cracker, e quello buono, gli hacker.
«Bisogna anche sottolineare la differenza che esiste tra
hacker e gli idioti che, come puoi immaginare, crescono
esponenzialmente. Ovunque. Il vero hacker utilizza le tecniche studiate per giungere ai suoi fini solo per aumentare
il suo bagaglio culturale e in ogni caso non per recare danni ai sistemi attaccati. Capito? Molti hacker, anzi, quelli
che si attengono alla vera filosofia, spesso lasciano messaggi al responsabile del sistema “attaccato” avvisandolo delle falle e aiutandolo a eliminarle. Noi siamo i buoni.»
Ci risiamo col panegirico sulla giustizia, i valori, il bene
e il male, il paradiso e l’inferno...
«Un famoso detto afferma che “tutte le strade portano
a Roma”. Informaticamente parlando potremmo adattarlo
in “tutti i linguaggi portano all’Assembler: il linguaggio
macchina”.»
Manca solo la colonna sonora di 2001 Odissea nello
spazio e la solennità di quanto dice Fabio sarebbe completa.
«Purtroppo l’elettronica è sorda o perlomeno capisce
123
solo una sottospecie di codice morse che è il linguaggio
binario. Questo concetto è facile da comprendere, visto
che elettricamente lo stato logico zero può essere rappresentato da una mancanza di segnale mentre nello stato logico uno il segnale è presente. Erroneamente negli anni si
è sempre considerata l’informatica come la scienza dei
computer. L’informatica, come dice il nome, è l’arte di
analizzare il mondo intorno a noi ricavandone i modelli
matematici composti da dati descrittivi, quantitativi e qualitativi, e da istruzioni indirizzate a manipolarli. L’arte della programmazione nasce sempre dall’analisi dei sistemi
reali.»
Non ce la faccio più.
«Ti prego Fabio, arriva al punto altrimenti mi taglio le
vene...»
Lui sospira.
«D’accordo. Ti senti pronto, vero?»
«Sì.»
«Bene. Sappi allora che aver imparato a programmare è
un po’ come guidare. Ora bisogna scoprire se sei un pilota
di Formula Uno o una schiappa da corsia d’emergenza.»
«Vieni al punto.»
«Devi craccare un sistema esterno. Qualcosa di reale.»
«Questo è illegale.»
«Certo che lo è! Ma se lo fai e NON tocchi niente nessuno se ne accorge. Ricordi quello che ti ho appena detto?
Agendo così dimostri solo quanto sei bravo. Se invece entri in casa di qualcuno e gli cominci a rovistare nei cassetti,
be’, quello se ne accorgerà.»
«Ho capito. E chi colpiamo?»
«Non colpiamo nessuno, noi. Mettiamo alla prova dei
sistemi di sicurezza.»
«D’accordo. Da chi cominciamo?»
124
«Da qualcosa che ti motivi. Chi è che ha i migliori sistemi anti intrusione?»
«La Nasa? La Cia? Le banche?»
«I siti porno, Enrico. Tutti vogliono guardarsi il film
intero senza pagare. Ecco qui: prova a bucare worldsex.
com»
«Sei serio?»
«Non lo sono mai stato di più.»
«Va bene. E poi che facciamo: ci scarichiamo i film e li
vendiamo?»
«Sarebbe pirateria.»
«Sarebbe un guadagno ulteriore.»
Fabio si stringe nelle spalle.
«Tu intanto entra in quel server. Poi ne riparliamo.»
So che sarà un lavoro immane. Una bella sfida. Prima
di cominciare Fabio prepara il caffè.
«Ne avrai bisogno.»
Leggo nei suoi occhi la sfida. È sicuro che fallirò.
«Hai ripreso a scrivere sul blog?» chiede.
«Ancora no. È come se avessi un blocco.»
«Una lassativo aiuterebbe?»
«Da quando a voi nerd è concesso fare battute di spirito?»
«Da sempre, solo che in genere la gente non ride e
quindi tendiamo a evitarle.»
La smetto di chiedere. Come diceva Oscar Wilde? Mai
discutere con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti
batte con l’esperienza.
Parole sante.
*
Stasera è una di quelle sere.
Fratello Ottaviano avverte l’eccitazione corrergli lungo
125
la schiena mentre parcheggia la sua Mercedes nel parco
della villa. Ci sarebbero stati tutti. Una casa patrizia fuori
Milano, vicino Monza. Una dimora in affitto, o magari di
proprietà di un confratello, circondata da un muro alto e
da una siepe imponente. Tutto intorno un servizio di security degno di un primo ministro. Si entra solo proferendo
una certa parola d’ordine: Vanitas.
Ogni dettaglio gli ricorda la sua prima volta.
All’interno, nel grande ed elegante salone, ci sono solo
uomini mascherati. Nuovi adepti e vecchie conoscenze.
Fratello Ottaviano riconosce il Sublime dalla barba bianca. Non troppo lunga, curatissima sotto alla maschera da
satiro. A prima vista pare tutto blasfemo ma la religione
non c’entra con loro. Gliel’ha spiegato il Maestro quando
è stato cooptato.
«Siamo molto diversi da quello che eravamo. Come tutti ci siamo evoluti. La religione non ha più bisogno di soggiogarci e tenerci sottomessi. Ora abbiamo nuovi dei a cui
votarci. Per condurre e illuminare la strada. Il potere e il
denaro.»
Fratello Ottaviano, a quei nuovi dei, era devoto da tempo e non era stato quindi difficile adottarli come propri. Il
suo patrimonio personale, da quando era entrato nella
confraternita dieci anni prima, è più che duplicato. E il
trend è in costante crescita.
Cerca il Maestro con lo sguardo. Lo riconosce, seduto
su un divanetto, dalla maschera nera con un punto rosso
sangue fra gli occhi. La stessa con cui l’ha avvicinato la
prima volta.
«La serata promette bene.»
Anche fratello Ottaviano indossa la maschera di sempre: rossa e nera, come la sua squadra di calcio del cuore.
«Così sembra» lo accoglie il Maestro. Prima di aggiun-
126
gere: «Il Sublime si compiace per come hai risolto il nostro
piccolo problema. Dopo la confessione il clamore mediatico si è sgonfiato.»
«Mi fa piacere.»
«Purtroppo adesso abbiamo un’altra situazione da risolvere. Lo vedi quell’uomo con la maschera da Cirano?»
Il dito nodoso del Maestro indica un tizio grande e
grosso che conversa con un altro confratello bevendo
champagne.
Fratello Ottaviano annuisce.
«Non si vuole allineare. E dovremo sistemarlo come gli
altri. Deve sembrare un incidente.»
«Posso avere qualche informazione in più sulla sua
identità da civile?»
Il Maestro gli passa una busta che l’altro fa velocemente sparire nella giacca.
«È un uomo potente che si muove spesso con la scorta. Dovrai inventarti qualcosa ed essere fantasioso. E mi
raccomando: che sia meglio dell’ultima volta. Non voglio
altre grane che possano intralciare il nostro progetto, intesi?»
Il discepolo vorrebbe ribattere ma ormai l’attenzione di
tutti è concentrata altrove.
Al centro della sala un telo copre qualcosa di molto
grande. Il Sublime gli si è avvicinato e con un gesto della
mano ha richiesto l’attenzione di tutti. Cala il silenzio.
«Cari fratelli, adesso assisterete a qualcosa di straordinario.»
Quando finisce di parlare il telo viene rimosso e tutti i
presenti rimangono a bocca aperta. Chiuso dentro una teca di vetro protetta da una doppia porta c’è un uomo, o
meglio, quello che una volta era un essere umano. Adesso
è qualcosa di ripugnante. Un incubo orribile. Il poveretto
127
ha il corpo attraversato da spasmi e tremori, completamente ricoperto da pustole purulente. Tenta di urlare, di
chiedere aiuto ma gli mancano le forze e quando apre la
bocca si nota che ha perso quasi tutti i denti. Molti confratelli abbassano gli occhi. Disgustati e intimoriti.
Non il Sublime, che sorride e annuncia tronfio: «I peccatori finiscono così! Vedete? La punizione è terribile!»
Senza aggiungere altro si avvicina alle porte ed entra
all’interno della teca.
Tutti trattengono il respiro. Impauriti e stupiti per quello che vedono.
Il Sublime si avvicina all’uomo e lo bacia sulle labbra.
Quello cerca di ritrarsi ma è troppo debole ed è costretto
a subire. Così com’è entrato il Sublime esce dalla teca attraverso la doppia porta.
Tutti si allontanano istintivamente, spaventati.
«No, cari confratelli. Non temete: noi siamo immuni da
questo. Tutti noi! Avete bevuto l’immunità con lo champagne! Il nostro progetto è ormai pronto!»
Un sospiro di sollievo generale investe la sala. Fratello
Ottaviano si sente le gambe molli e gli è anche venuta voglia di vomitare.
«Noi saremo immuni» proclama ancora il Sublime. «E
i peccatori come quest’uomo moriranno! Il destino dell’umanità ormai è ineludibile!»
Fra i confratelli non c’è tempo per sconvolgersi o congratularsi.
«Ecco la vergine» annuncia qualcuno mentre sopra la
teca viene riposizionato il telo.
La chiamano così per via del rito, ma fratello Ottaviano
dubita fortemente che la ragazza bionda che sta scendendo nuda – fatta eccezione per i tacchi altissimi – dalla lunga scalinata sia illibata. Anzi, data la disinvoltura che di-
128
mostra deve sicuramente trattarsi di una professionista
assoldata allo scopo. Nessuno se ne preoccupa; l’importante è che venga rispettato il cerimoniale.
La vergine scende l’ultimo gradino, raggiunge il centro
del salone e si sdraia sul freddo pavimento di marmo.
Tutti i confratelli iniziano a slacciarsi i pantaloni.
Fratello Ottaviano li trova ridicoli nudi dalla cintola in
giù, ventri sporgenti, gambe bianchissime, vene azzurre in
evidenza. Non molti sono sotto i sessanta. Lui rappresenta
una delle rare eccezioni.
La bionda sorride: è pronta. Accoglierà su di sé il seme
di tutti i confratelli che poi chiederanno perdono e faranno penitenza. Mentre lei si ritirerà al piano superiore col
Sublime.
129
8.
Tre notti e quattro giorni: ecco quanto ho impiegato a
violare i sistemi del portale del sesso. Non ho quasi dormito, ho bevuto litri di caffè, ho trascurato la mia igiene personale, mi sono nutrito a surgelati e non mi sono mai nemmeno pettinato. Insomma, mi sono trasformato in uno di
loro. Un nerd.
Quando ho mostrato il risultato a Fabio – vale a dire
una scorta immensa di film a luci rosse, l’intero archivio
del sito a nostra completa disposizione – ha sorriso.
«Bravo! Non era facile. Ora disconnettiti e cancella la
password che hai recuperato. Noi non commettiamo azioni illegali, chiaro?»
«Ma come? Dopo tutta questa fatica?»
«Sì, noi siamo meglio di così.»
Sento che ha ragione. E non posso nemmeno replicare
visto che aggiunge: «E ora fatti una doccia che puzzi come
un caprone!»
Dopo l’abluzione mi sento meglio, come un clochard
che da tempo non incontrava l’acqua e il sapone.
Solo adesso, mentre mi stappo una birra e mi rilasso
seduto sul mio lettino, realizzo che nelle ultime novantasei
ore sono stato tagliato fuori dal mondo. Ho trascurato il
blog e le indagini.
130
Sulla segreteria telefonica ci sono tre messaggi di mia
madre che vuole sapere se sono ancora vivo e uno del mio
datore di lavoro. A quanto pare è inutile che ritorni al Fenicottero: non hanno più bisogno di me.
Dopo aver rassicurato mia madre sulle mie condizioni
di salute comunico a Fabio che mi hanno licenziato.
«Lo so. Non ti ho detto niente perché eri impegnato col
tuo esame.»
«Il mio esame?»
«Esatto, Enrico. Quello che hai fatto non è da tutti. Sei
quasi uno di noi adesso.»
«Quindi mi verranno i brufoli e non vedrò mai più una
donna nuda dal vero?»
«Qualcosa del genere. Comunque per il lavoro non devi preoccuparti. Mentre tu ti trasformavi nell’uomo delle
caverne io ho fatto un po’ di conti. Il nostro commercio
rende bene. Adesso guadagniamo abbastanza con la vendita delle videocassette per pagarci l’affitto e pure le bollette.»
«Vuoi dire che non dovrò più spezzarmi la schiena portando le pizze o quelle mega porzioni di pasta che trasudano ’nduja?»
«Esatto.»
L’avrei abbracciato ma, proprio in quel momento, avevo aperto una pagina Internet in cui si raccontava del delitto Sommese e della confessione di quel tale, Bellantuono. Nessun accenno al simbolo misterioso.
«Che c’è ora? Non sei contento?»
«No, va tutto bene. Anzi, sai che ti dico?»
«Spara.»
«Che è giunta l’ora che io mandi in pensione il polmone. Non avessi avuto questo ferro vecchio ci avrei messo
metà del tempo a bucare quel sito.»
131
«Addirittura!»
«Mi accompagni dal nostro vecchio amico per consigliarmi sull’acquisto?»
Fabio sorride.
«Non ti permetterei mai di comprarlo senza la mia supervisione: saresti capace di farti rifilare un altro rottame.»
*
Al Birrificio di Lambrate regna la calma. Durante la
settimana, dopo una certa ora, ci bazzicano solo gli studenti, gli ubriaconi e Sciamanna arrampicato sul solito
sgabello. Un bicchiere vuoto davanti in attesa che qualcuno gli offra il prossimo.
Quel qualcuno è il sottoscritto.
«Ti posso far spillare una Ligera, Antonio?»
Lui alza appena lo sguardo su me e Fabio e annuisce.
Quindi indica un tizio con la coda di cavallo dietro al bancone.
«Quello è il Monarca, e quell’altro laggiù coi riccioletti
è il Principe.»
«Perché li chiamano così?»
«Questo posto è nato da cinque ragazzi che l’hanno
messo in piedi per gioco. Con un impianto da cinquanta
litri, pensate un po’. Aprivano bottega e dopo due ore era
finita la birra. Da lì hanno capito che erano sulla strada
giusta e oggi tutti li conoscono a Milano. Pare addirittura
che si vogliano espandere e aprire un altro locale... Il successo gli ha dato un po’ alla testa: fra loro si chiamano il
Principe, il Monarca, l’Imperatore di Lambrate. Però la
birra è buona e gli si perdona tutto.»
Non ci ho capito granché ma l’assecondo.
«Certo.»
132
«Cosa vi serve?»
Mentre glielo spiego il mio coinquilino va al bancone
dal Monarca a recuperare le birre: ha insistito per pagare
lui, visto che ho superato l’esame. E, la faccenda, a quanto
pare, l’ha parecchio impressionato.
La trattativa con Sciamanna parte in salita. Sono un po’
a corto di quattrini; tolti affitto, bollette e due lire per ricaricare il cellulare sono praticamente al verde. Così contratto per un nuovo PC per il quale lui vuole centocinquanta
euro, ma che alla fine mi molla per cento.
«Io non so niente di caratteristiche tecniche o altro. Posso solo dirti che questo è nuovissimo e che è arrivato ieri.»
«In che senso arrivato ieri?»
«Nel senso che l’hanno rubato ieri» precisa Fabio depositando le birre sul tavolo.
«Esatto» grugnisce Sciamanna afferrando la sua. «Lo
vuoi?»
Scambio un’occhiata d’intesa con Fabio. Lui si stringe
nelle spalle e solleva la pinta.
«Affare fatto!» dico.
Dieci minuti dopo, Sciamanna molla il bicchiere vuoto
e si alza in piedi.
«Seguitemi, sbarbati.»
Non è lontano. Una manciata di passi e siamo davanti a
un portone scrostato di via Vallazze.
«Ora devi andare da solo» mi annuncia.
«Cos’è, una prova iniziatica di coraggio?»
«O vai solo o non se ne fa niente.»
«Va bene, come si chiama il tizio?»
«Noi lo chiamiamo Veleno.»
«È il nome sul campanello?»
«Piantala di fare il pagliaccio.»
«Ok, comunque deve essere un tipo a modo.»
133
«Non mi ha mai tirato un bidone. E ora sbrigati.»
«Va bene.»
«Aspetta.»
«Cosa?»
«Pagamento anticipato» mi dice mostrandomi il palmo
della mano.
«E se il PC non mi piace?»
Sciamanna si limita a piegare la testa da un lato.
«D’accordo.»
Gli metto le banconote in mano e mi avvio su per le
scale del palazzo.
Casa di ringhiera, primo piano.
Il venditore è un serbo. Che evidentemente ha già ricevuto istruzioni via sms da Sciamanna, visto che, senza parlare, apre la porta e mi porge un Sony di ultima generazione. Un giocattolo che vale almeno un migliaio di euro in
negozio. Un autentico affare, se si accende.
«E se non funziona?»
Lui mostra i denti. Un sorriso da vampiro.
«Tu ha pagato. Tu ha avuto portatile.»
Mi sbatte la porta in faccia.
«E il caricabatteria?»
Nessuna risposta.
Dovrò procurarmelo da solo, penso mentre ritorno sui
miei passi.
Fabio e Sciamanna mi aspettano giù in strada.
«Allora?» chiede il mio coinquilino.
Mi stringo nelle spalle e premo il tasto di accensione.
La lucina dell’hard disk si illumina.
«Funziona!»
«Dubitavi?» ghigna Sciamanna.
Sorrido ebete. Poi aspetto che il portatile carichi il sistema operativo.
134
Niente password. Io e Fabio facciamo un rapido controllo. Doveva appartenere a un quadro o roba simile. Ci sono
documenti Excel, prospetti finanziari, bilanci di aziende...
In una cartella scoviamo le foto di un tizio in giacca e
cravatta, un manager a vederlo così, che si fa tenere al
guinzaglio e che mangia le proprie feci.
«Avete fatto bene a fregarglielo!»
«Sì? Allora mi dovete un’altra birra» ride Sciamanna.
«Ovvio e già che ci siamo, forse riusciamo a fare un altro affare.»
«Davvero?»
Ritornati al birrificio, quando i bicchieri sono nuovamente pieni, il nostro amico non si lascia sfuggire l’occasione di guadagnare ancora qualcosa.
«Che altro ti serve, Enrico?»
«Sarà un gioco da ragazzi per te...»
«Non adularmi.»
«Sarò diretto: e se, poniamo, volessi ascoltare quello
che dicono gli sbirri nelle loro comunicazioni radio?»
«Saresti un fuorilegge.»
«E se comunque desiderassi farlo?»
Lui abbozza.
«Ti occorrerebbe una radio di un certo tipo sintonizzata sulle loro frequenze.»
«Bene.»
«Perfetto.»
«Allora mi aiuti ad ascoltare quello che trasmette la
Madama o no?»
Sciamanna si fa spillare un’altra Ligera a mie spese, poi
aggiunge: «Dipende da quanto sei disposto a pagare. Non
la solita miseria, comunque.»
*
135
Un paio di panzerotti da Luini, un classico milanese al
pari del panettone.
«Libidine pura.»
Dopo una settimana sul cesso in Egitto, Milano appare
a Sebastiani come il paradiso della gastronomia. E i panzerotti sono una di quelle eccellenze per cui vale la pena
fare la fila.
Da meno di due ore è sceso dalla scaletta dell’aereo, il
tempo di lasciare i bagagli a casa e poi subito fuori. La
prima tappa è questa bottega in centro a Milano, a due passi dal Duomo, dove finalmente può dare sfogo alla propria fame.
Quando si sente sazio decide di farsi una passeggiata.
Non ha nessun voglia di tornarsene a casa da solo a deprimersi; la serata è fresca ma non gelida e una camminata gli
schiarirà le idee. Così s’incammina per via Torino fino a
raggiungere piazza Vetra e qui corso di Porta Ticinese. Ha
in mente un altro luogo, un bar che già negli anni Settanta
era un mito: il Rattazzo. C’è ancora il vecchio proprietario
dietro al bancone, si possono mangiare ottimi panini farciti e la birra costa poco. Così come gli shot di rum e pera.
Ha quasi voglia di accenderselo il sigaro che tiene fra le
labbra quando si siede fuori, con una birra fresca in mano,
e gli occhi che vagano sul prato tagliato di fresco del parco
pubblico che sta proprio accanto al locale.
Quella serata si sta rivelando per il vicequestore più serena di tutte quelle trascorse sul Mar Rosso. Domani riprenderà a lavorare. Da una parte è ansioso di sapere se ci
sono sviluppi sul caso Sommese o se, invece, dovrà rassegnarsi, come il questore, a considerare Bellantuono l’unico colpevole per quel delitto. Mentre ci rimugina una ragazzina bionda, con le trecce stile bella olandesina gli si
avvicina con aria maliziosa.
136
«Ciao.»
«Ciao. Sai che potrei essere tuo padre, vero?»
«Sei sempre così diretto?»
«Sono realista.»
«La risposta comunque è sì: potresti essere il mio vecchio. Ed è questo che mi piace di te.»
«Vattene.»
«Non posso.»
«Ah no?»
«No, vedi ho scommesso con le mie amiche laggiù che
stasera tornerò a casa con te.»
«Davvero? E cosa ti fa pensare che vincerai la scommessa?»
«Questi.»
La ragazza gli mostra il piercing sulla lingua e si solleva
la maglia per mostragli anche quello sull’ombelico, rivelando un fisico perfetto.
«Il terzo lo vedrai quando sarò nuda. E te lo farò vedere molto da vicino.»
«Sei maggiorenne?»
«Perché, sei uno sbirro?»
«Sì.»
«Uh, allora possiamo usare le tue manette, se vuoi. E
anche il manganello.»
«Non sono quel genere di sbirro.»
«E di che genere sei?»
La ragazza sbatte gli occhi come un gattina. Le sue amiche ridacchiano.
«Allora poliziotto, cosa vogliamo fare?»
«Fammi vedere la carta d’identità.»
Il bel musino della ragazza s’imbroncia.
«Fai sul serio?»
«Sì, tesoro. Sto valutando seriamente la tua proposta
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ma non vorrei scoprire a posteriori – come succede a un
sacco d’idioti, credimi, lo so per esperienza – che avevi
solo diciassette anni. O magari sedici.»
Lei lo guarda incerta. Non sa se rovesciargli il bicchiere
addosso o assecondarlo.
Sebastiani, al contrario, comincia a essere intrigato dalla situazione.
«Allora? Hai paura che chiami in questura e ti faccia
controllare i precedenti? In questo caso non devi preoccuparti. Mi limiterò a leggere la tua data di nascita.»
«Promesso?»
«Sono un pubblico ufficiale. Non posso mentire a una
cittadina.»
«E chi mi dice che tu non sia solo un pervertito?»
«Mi hai abbordato tu.»
«Io cosa?»
«D’accordo, dolcezza, ho una proposta.»
Sebastiani sfodera il suo miglior sorriso. Quello che in
genere funziona. Almeno con le shampiste, le commesse,
le vetriniste e tutte quelle che si abbreviano il nome con
una y.
«Ti ascolto.»
La voce della biondina è incerta mentre lo dice.
Il sigaro nella bocca del vicequestore compie una rotazione completa prima che lui riprenda a parlare.
«Ecco, guarda qui. Quello che ho in mano è il mio tesserino. Tu prendi da quella graziosa borsetta la tua carta
d’identità e ce li scambieremo. Che ne dici?»
«Che come modo di presentarsi fa schifo.»
Loris scoppia a ridere.
«Sono d’accordo. Ma questo è l’unico modo che ho per
vedere il tuo terzo piercing. Se non hai almeno diciott’anni
avremo messo in scena tutto questo per nulla...»
138
Il crocchio di ragazzine a pochi metri da loro li osserva
come una specie di bestie rare in uno zoo safari.
La biondina si mostra incerta ma anche incuriosita. E
alla fine accetta. Passa la sua carta d’identità a Sebastiani
e, al tempo stesso, gli sfila il tesserino dalle mani.
«Wow, sei davvero un poliziotto. Addirittura vicequestore.»
«Già, e tu sei davvero maggiorenne. Diciannove anni.
Pochini...»
«Dici, Loris?» chiede lei sbattendo gli occhioni. «Mi
piace il tuo nome.»
«Dico, Susanna, che ti dovrei sculacciare.»
«Oh, mi piacerebbe. Te lo lascerò fare volentieri... Però
chiamami Susy.»
«Susy?»
«Sì, e oltre a sculacciarmi cosa mi farai?»
Ormai la fanciulla è lanciata. Beve la birra del vicequestore e si appoggia con entrambe le mani al suo petto. Unghie laccate di nero.
«Non so ancora.»
«Oh, sei un indeciso? Guarda che a me piace il sesso
duro.»
«Ma non mi dire...»
«Invece è così. Mi puoi legare se vuoi. E anche frustare
se ti piace. Non è reato se sono consenziente vero, bel poliziotto?»
Sebastiani, però, non la segue più. Una delle parole che
ha sentito l’ha colpito ed è come se gli avesse acceso una
lampadina: davanti agli occhi rivede la schiena martoriata
dell’anziano avvocato.
«Ma certo!» esclama. «Quel disegno rappresenta una
frusta a tre code!»
«Dio mio, che pervertito che sei! Mi piace!»
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La mente di Loris continua a correre.
«Al vecchio avvocato piaceva farsi frustare. Da una
donna. Da un uomo. Magari da entrambi! E voleva che
lo sapessimo perché in quell’esperienza c’è la chiave del
mistero!»
Peccato, però, che ora di quell’informazione non sappia proprio cosa farsene. L’assassino ha confessato, l’avvocato è stato seppellito e per il questore e la procura il
caso è chiuso.
Non per Sebastiani. Ma ci penserà dopo che avrà finito
di sculacciare come si deve questa biondina.
*
Quattro del pomeriggio di mercoledì: è giunto il momento. E poi un sms non si nega a nessuno, no?
Non la pensa così la fanciulla che nemmeno un secondo dopo mi chiama.
«Ciao, sono Marina: non sarai di quelli che sfiniscono
le donne di sms invece di telefonare?»
Ecco come si chiama la ragazza delle canne!
«Io? No, Marina, figurati.»
Certo che sono di quelli che sfiniscono le donne di sms!
«Ce ne hai messo di tempo a deciderti!»
Su questo non so rispondere. Non molto, in realtà.
Dodici giorni sono tanti? A me sembra un lasso di tempo
ragionevole. Non devi apparire smanioso. Devi far capire
che ti interessa ma che non è in cima ai tuoi pensieri.
Che, insomma, tu sei uno impegnato, pieno di cose da
fare. E così almeno non appari un disperato alla canna
del gas.
«Volevi chiedermi di uscire, giusto?»
«Esatto.»
140
«Cerca però di essere un filino più eloquente altrimenti
qui non arriviamo da nessuna parte...»
«D’accordo. Marina, ti andrebbe di uscire stasera?»
«Stasera?»
«Be’, sì, o domani. O quando puoi.»
Quanto mi sento idiota!
«Stasera va bene: dove volevi andare?»
E dove volevo andare? Non ci ho ancora nemmeno
pensato.
Primo passo: il messaggio.
Secondo: stare a vedere cosa succede.
Ora, però, con la sua chiamata mi ha incasinato tutta la
strategia...
Marina non è una tipa paziente. Tutt’altro, visto che
subito mi incalza: «Non ci avevi pensato? Va bene, se sei
d’accordo avrei io una proposta...»
Ovvio che la sua proposta mi va bene. A prescindere.
Ne sono molto meno convinto ora che stiamo uscendo
dallo Splendor, un vecchio cinema per studenti in viale
Gran Sasso.
Marina parla senza quasi prendere fiato. Eccitata, pienamente nella parte della studentessa di Scienze Politiche
impegnata. Io sarei andato volentieri a vedere L’era glaciale
o Minority Report, ma se volevo fare colpo dovevo accettare di sorbirmi qualcosa intellò, come direbbero i francesi.
E quindi mi è toccato questo documentario di Michael
Moore di cui tutti parlavano da mesi. Per di più in lingua
originale, dato che è un’anteprima da “gustare” in contemporanea con gli States. Dopo venti minuti di visione già
avrei voluto fare cambio con un’unghia incarnita. Ma ho
resistito ed è stata una mossa azzeccata: lei è entusiasta.
«Ma ci pensi? Quelli avevano un’ora di lezione per fare
bowling a scuola!»
141
Annuisco serio. Ho solo voglia di scolarmi una pinta
ma non posso portarla al Microbirrificio o al Matricola:
non sono luoghi adatti a lei. Ci vuole un posto più di classe ma, al tempo stesso, finto intellettualoide e non snob.
Insomma, un casino.
La situazione un aspetto positivo, comunque, lo presenta: il cinema sta praticamente di fronte al mio monolocale di piazza Piola. Mi sono già fatto il film di portarla di
sopra e nel contempo cacciare Fabio. Sarei persino arrivato a offrire al mio coinquilino dei soldi per andare in hotel
quella notte. Non ce n’è bisogno. Di salire da me la ragazza non ne ha la minima intenzione.
«Già finita la nostra serata? Non vorrai mica andare a
dormire così presto?»
«Ma no, figurati! Stavo giusto pensando di portarti in
un posto che ti stupirà.»
«Giura.»
«Oh sì, sempre che tu non abbia paura di salire sul
Giallone con me.»
«Il Giallone?»
«Lei» dico indicando con orgoglio la mia Vespa gialla
legata con la catena a un cassonetto della spazzatura.
Marina sorride.
«Ce l’hai un casco per me?»
«Sì, lo usa il mio coinquilino ma credo che ti andrà bene.»
*
Una scala stretta che gira su se stessa, in legno, con
pareti di cemento che ci passi a stento, e che conduce,
suppongo, al centro della terra. Inaspettatamente, invece,
porta alle toilette. Forse il percorso è per scoraggiare le
tipe coi tacchi altissimi dallo scendere per chiudersi dietro
142
una porta con qualche fighetto appena rimorchiato. Sarebbe sconveniente. Comunque a quelle scale strettissime
e ripide bisogna adattarsi: sono un lascito della Milano da
bere per un locale che si chiama come il sottoscritto: Radetzky. Ho pensato fosse divertente portare qui Marina.
Quando torno di sopra, lei mi sorride seduta a un tavolino sorseggiando un Mojito, che qui costa come due pieni
di benzina del Giallone.
Riprende a parlare come se non me ne fossi mai andato.
«Così tu saresti un blogger?»
«Non esattamente. Sono un giornalista.»
«Ma non lavori per nessuno...»
«Be’, al momento no. Sono un freelance, che scava nel
ventre molle e torbido di questa città...»
«Questa te l’eri preparata, dì la verità.»
«Fa troppo i tre giorni del Condor, vero?»
«Direi di sì.»
«Scusa. È che dire che non trovo uno straccio d’impiego mi deprime.»
Marina ride.
«Ho dell’erba. Ti va?»
«Be’, sì. Ma non qui.»
Lei ride ancora.
«Certo che no. Ma dimmi la verità, tu lo sapevi?»
Oddio, è fidanzata, sposata, lesbica?
«Cosa?»
«Che abito qui sopra»
Stavolta sono io che sorrido.
«Ti giuro che non ne avevo idea.»
«Come bugiardo non vali niente, Enrico.»
Mi sorride per la terza volta di fila. Languida.
«Secondo me è destino che io conoscessi uno come te:
uno che si chiama come il bar che sta sotto casa mia...»
143
«Ah sì? Voglio dire tu abiti DAVVERO qui sopra?»
«Davvero. E dimmi, Enrico, ti andrebbe di salire per
un ultimo brindisi e una canna?»
Mi piace quando il piccante atto della fornicazione viene mascherato di eufemismi. E parecchio, anche. Almeno
così spero: non vorrà mica solo fumare, vero?
144
9.
Il grigio è il colore imperante. Indistinto dal cielo sopra
la sua testa all’asfalto sotto ai suoi piedi. Anche il vestito è
color topo e così il suo umore. L’unico tocco di colore, se
così si può considerare, è il solito toscanello spento che
stringe fra i denti.
«Buongiorno dottore, come sono andate le ferie?»
Mascaranti gli sorride, affabile. Inutile trattarlo male.
«Bene, grazie. È già arrivato Lonigro?»
«Sissignore.»
«Gli puoi dire che appena può lo aspetto da me?»
L’ispettore annuisce e sparisce in corridoio.
Mentre aspetta Lonigro, Sebastiani riprende possesso
del proprio ufficio. Un po’ di pratiche nuove, qualche scartoffia da firmare ma, soprattutto, un computer dove può
leggere le mail che gli avevano inviato mentre era sul Mar
Rosso. Stampa l’identikit della Mantide e lo attacca sull’armadio di ferro alle sue spalle, come si faceva una volta coi
ricercati del vecchio West.
Vincenzo Lonigro entra nell’ufficio e sorprende il superiore ancora con lo scotch in mano.
«Bella, vero?»
«Molto. Ed è per questo che ci cascano, no?»
«Probabile. La solita storia del carro e dei buoi...»
145
I due poliziotti si stringono la mano.
«Quindi è questo faccino che dobbiamo cercare?»
«Non sarà facile trovare una donna in una città di più
di un milione di abitanti che va a caccia di ventenni arrapati.»
«Be’, dobbiamo provarci. Facciamo una mappa degli
ultimi posti in cui sono stati visti i nostri desaparecidos.
Forse è quello il suo territorio di caccia.»
«Ci avevo già pensato: ogni volta li ha adescati in locali
diversi.»
«Continuiamo comunque su questa linea d’indagine.»
«D’accordo. Era per i ragazzi scomparsi che voleva vedermi?»
Il sigaro del vicequestore compie una mezza rotazione.
«In realtà, no. Ieri sera, diciamo così, ho avuto un’intuizione.»
Mentre lo dice, Sebastiani rivede Susy completamente
nuda, col terzo piercing bene in vista, accovacciata sul suo
letto che gli ordina, letteralmente, di frustarla con la cintura. Non aveva ceduto alla tentazione, non era per quel genere di pratiche, lui. Cosa avrebbe detto del resto sua moglie – anzi ex moglie – se l’avesse saputo? Si era limitato al
classico repertorio. La ragazzina avrà pensato a lui come a
un vecchio arnese e, in fondo, rispetto ai diciannove anni
di lei lo era eccome...
«Quale intuizione?»
«Ricordi le ferite sulla schiena dell’avvocato Sommese
segnalate nel referto autoptico del dottor Ambrosio?»
«Sì, e allora?»
«E se al vecchio fosse piaciuto farsi frustare? Magari da
un’amante, donna o uomo importa poco?»
«Ci vede un delitto passionale, quindi? Il mandante di
Bellantuono era un ex amante?»
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«Sto solo formulando delle ipotesi. Resta il fatto che
qualcuno lo fustigava. E l’avvocato ci teneva che lo sapessimo perché è quella la chiave del mistero!»
Sebastiani prende un pennarello rosso e disegna il simbolo su un foglio.
«Secondo me rappresenta una specie di frusta, tipo
quelle che vendono nei sexy shop e che si usano nei club
sadomaso.»
Lonigro annuisce poco convinto.
«Dato che ti intendi di tecnologia e diavolerie simili vorrei che tu facessi delle ricerche in rete su questo simbolo.»
«Va bene.»
«E manda Mascaranti in archivio a recuperare i fascicoli di Denis Fabbris e Guglielmo Branca.»
«Chi sono?»
«Il cardiologo e il direttore di banca morti l’anno scorso.»
«Non avevamo archiviato?»
«Sì. Quello che mi piacerebbe sapere, però, è se anche
loro avevano dei segni sulla schiena.»
«A che scopo?»
Il toscanello nella bocca di Sebastiani è ormai ridotto a
tabacco da masticare.
«Vorrei chiedere al questore di riesumare i corpi di quei
due signori, almeno quello di Fabbris, dato che quello di
Branca è stato cremato. Rimango convinto che siano morti
in circostanze ambigue ma non ho elementi a supporto. Solo fantasie, e con quelle non posso arrestare nessuno.»
*
Ormai faccio parte della forza. E siccome il mio addestramento da Jedi Nerd è a buon punto, ho deciso che
stasera si festeggia.
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Non solo mi eviterò di cucinare ma io e Fabio ci presteremo anche a uno dei riti milanesi per eccellenza: l’aperitivo con buffet.
Dopo qualche inciampo iniziale – cioè essere capitati in
locali dove non ci si poteva ingozzare fino a stare male –
abbiamo individuato un posto che risponde a tutte le nostre esigenze – cioè dove il prezzo è onesto e ci si può
strafogare – in porta Romana.
Ci arriviamo col metrò e gli zaini sulle spalle con dentro
i tupperware: quattro vaschette di plastica pronte ad accogliere il meglio del buffet. La nostra tecnica, ormai perfezionata col tempo, è quella di riempire il proprio piatto
con il doppio della pasta o dello spezzatino o delle patate
o di quello che c’è e, appena arrivati al tavolo, riporne metà dentro una vaschetta per garantirsi così anche il pasto
dell’indomani e, forse, addirittura quello del giorno successivo. La vergogna non sta di casa da noi.
Dopo aver preso posto e aver riempito le quattro vaschette, io e Fabio possiamo finalmente rilassarci e berci
la nostra unica consumazione, che centelliniamo con cura. Nello zaino, a scanso di equivoci, abbiamo anche due
bottiglie d’acqua, con le quali ci disseteremo appena
usciti da qui. Lo scoprissero i gestori ci caccerebbero a
calci.
«Così l’altra sera è andata bene» butta lì Fabio quasi
per caso mentre mastica un’oliva all’ascolana.
«Prego?»
Fingo, ovviamente. Mica è così facile farmi sbottonare...
«Quando non sei rientrato a dormire...»
«Hai ragione mamma, la prossima volta ti avviso.»
Stavolta è lui a sorridere. Solleva il bicchiere e lo fa tintinnare col mio. Annuisco.
«Bene» riprende Fabio. «Ora che abbiamo festeggiato
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il tuo ritorno al sesso dopo decenni di astinenza, ti devo
comunicare una cosa.»
«Non sarà successo anche a te?»
«Macché.»
«Sarebbe stato eccessivo, in effetti. Per la legge dei
grandi numeri, intendo.»
«Hai finito?»
«Sì. Comunicami tutto.»
«La faccenda è seria: fra meno di un mese dobbiamo
sloggiare, ricordi? Contratto scaduto. È ora di muoversi
per cercare un altro appartamento, non credi?»
Questo mese milanese è letteralmente volato. Quattro
settimane in cui sono passato dall’euforia allo sconforto
fino a una relativa tranquillità.
«Hai già qualche idea?»
«No, ma ho un amico che lavora nell’immobiliare.»
«Non dirmi che...»
«Te lo dico, invece: Sciamanna.»
*
I giardini di via Palestro distano una decina di minuti a
piedi dalla questura e Sebastiani, nelle belle giornate di
sole, ama farci una passeggiata durante la pausa pranzo.
Non gli piace mangiare nei bar. Detesta i panini e, piuttosto di addentarne uno, preferisce rimanere digiuno e abbuffarsi il doppio la sera.
Oggi comunque non ha fame. È già qualche giorno che
l’appetito gli è passato e che sopravvive grazie a quello che
Maria gli fa trovare nel frigo alla sera.
Tutte le indagini sono ferme al palo.
Meno di un’ora prima l’ultima delusione.
«Finalmente abbiamo recuperato quelle pratiche dall’ar-
149
chivio: i due vecchietti stecchiti» aveva annunciato Lonigro
porgendogliele.
«Qualcosa d’interessante?»
«Niente. Poche paginette per dire che si tratta in entrambi i casi d’infarto.»
«Segni strani sul corpo?»
«Impossibile saperlo senza autopsia.»
Su quelle parole si era masticato il primo sigaro della
giornata.
«Hai trovato qualche riscontro in rete sul simbolo?»
«Niente per ora. Ma non mi do per vinto.»
«Va bene.»
«Cosa facciamo adesso?»
«Bisognerebbe andare da quelli delle pompe funebri
che hanno vestito i due defunti per le esequie per capire se
avevano dei segni...»
«Scherza, vero?»
Sebastiani aveva esitato qualche istante prima di rispondere.
«Perché no? Mandaci Mascaranti e magari accompagnalo, altrimenti chissà cosa gli chiede.»
L’ispettore Lonigro si era schiarito la voce come faceva
sempre quando non era d’accordo su qualcosa.
«Che problema c’è?»
«Be’, dottore: l’indagine è chiusa. Finché si tratta di recuperare un paio di fascicoli dall’archivio nessun problema, ma andare in giro a fare domande...»
«Ho capito, ho capito. Hai ragione, lasciamo perdere.
Non posso coinvolgervi nelle mie ossessioni. Voi è meglio
se continuate a occuparvi dei ragazzi scomparsi. A proposito, è venuto fuori qualcosa di nuovo?»
«Nulla. Quei tre ragazzi sono come svaniti dalla faccia
della terra. I loro cellulari sono stati tutti disattivati, le car-
150
te di credito non sono state più utilizzate e non ci sono
neanche stati avvistamenti di sorta.»
«Sono morti.»
«Così pare. Un indizio però c’è. Meglio, una coincidenza. Me l’hanno comunicato proprio poco fa le rispettive
compagnie telefoniche di Davide Mari, Ivan Gasparini e
Giorgio Conti.»
«Quale?»
«In tutti e tre i casi i cellulari sono stati spenti quando
erano agganciati alla stessa cella.»
«Frena, Einstein. Cos’è una cella?»
L’ispettore capo aveva preso un lungo respiro prima di
rispondere. L’ignoranza tecnologica del superiore lo stupiva ogni volta.
«I telefoni vengono chiamati cellulari perché, in pratica, sono mini ricetrasmettenti che si collegano alla rete telefonica attraverso stazioni dotate di più celle. Ciascuna
cella ha un raggio di azione che può variare da alcune centinaia di metri fino a trenta chilometri.»
«Quindi, se ho ben capito, mi stai dicendo che tutti e
tre i nostri ragazzi scomparsi hanno spento, o sono stati
costretti a spegnere, il loro telefonino in una zona ben precisa della città?»
«Esattamente.»
«Grande quanto?»
«Grande quanto un quartiere. Il quartiere Corvetto.»
Sebastiani s’infila il terzo sigaro della giornata fra le labbra.
Nel parco ci sono frotte di persone che corrono, qualche tizio a spasso col cane, dei nonni coi nipotini, un paio
di signore che spingono delle carrozzine e lui seduto su
una panchina che affaccia sul laghetto.
Osservando quello specchio d’acqua si ricorda anche
gli ultimi scampoli della conversazione con Lonigro.
151
«Se dobbiamo cercare una femme fatale in uno stagno
non dobbiamo far altro che gettare l’esca. Ora che sappiamo che lo stagno è il quartiere Corvetto non dovrebbe essere così difficile.»
Lonigro era tornato a schiarirsi la voce prima di ribattere: «Diciamo che abbiamo solo ristretto l’area di pesca. Se
prima era l’oceano ora abbiamo un lago...»
«Spiegati meglio.»
«È vero che non dobbiamo più cercare in tutta Milano,
che conta più di un milione di abitanti, ma in un quartiere
molto popoloso.»
«Quanto popoloso?»
«Centomila abitanti.»
«Hai ragione, non è uno stagno. E non è nemmeno un
lago: è ancora un mare. E noi non abbiamo nemmeno
l’esca.»
152
10.
Paolo Molinari è un genio assoluto. Non scherzo. Ed è
anche il nostro nuovo coinquilino.
Detto così sembra folle ma è successo tutto nel giro di
quarantotto ore.
Esiste solo una persona che può trovarti tutto e subito:
Antonio Sciamanna.
Siamo andati a questuare da lui e, in cambio di una
lauta commissione, eccoci in questo spazioso trilocale il
cui affitto è davvero basso, anzi, dato che Sciamanna è
amico del proprietario dell’immobile, quasi irrisorio. E
siccome era già libero abbiamo traslocato seduta stante,
abbandonando prima del tempo il monolocale di piazza
Piola: così finalmente ho una stanza tutta mia!
La fregatura, naturalmente, era in agguato, come i pidocchi sulla testa di un rasta.
Quando l’avevamo visitato, in pieno giorno, più o meno all’ora di pranzo, tutto ci era apparso normale, uno stabile civile anni Sessanta quasi poetico con quel suo cortile
interno dall’aria vissuta e un po’ démodé. Peccato che la
notte quel quadrato di cemento diventi una specie di suk
dove rischi la vita se solo ti azzardi a metterci il naso.
Il lato positivo è che procurarmi il fumo ora non è un
problema. Basta uscire sul pianerottolo e qualcuno che te
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lo venda lo trovi sempre. Con buona pace del mio pusher
di piazza Vetra.
Quando avevamo protestato per la fauna del luogo,
Sciamanna, che sa che un cliente insoddisfatto è un cliente
che ti farà cattiva pubblicità, aveva provveduto a calmarci,
soddisfacendo alcuni nostri desideri. Il mio, per esempio,
di possedere una radio scanner sintonizzata, giorno e notte, sulle frequenze della polizia era stato esaudito a prezzo
politico.
«Ecco qua» aveva detto tronfio accendendola. «Ora
puoi ascoltare la Madama 24 ore al giorno. Da sballo no?
Anzi, niente scherzi: se stanno venendo ad arrestarmi fammi un fischio.»
Aveva corredato il tutto con una risata roca e truce, finita in una tosse ruvida da far paura a un tisico.
Per calmare Fabio, invece, aveva proposto un affare
che non si poteva rifiutare, dato che solo con quello ci
pagavamo l’affitto, le bollette e pure la fornitura di birra
del mese. Sciamanna, venuto a sapere del nostro piccolo
trucco per vedere gratis la tv satellitare – in cambio della
solita percentuale – ci aveva procurato in un colpo solo
una quindicina di clienti interessati al prodotto. Così, nel
giro di poche ore tutti gli extracomunitari del palazzo e
pure qualche autoctono disponevano di una parabola e
vedevano Tele+ a sbafo.
«Ci ha fregato ma almeno non dovremo preoccuparci
dei soldi per un po’» avevo commentato quando se n’era
andato. «E poi abbiamo tre stanze, direi che abbiamo tutto, no?»
Fabio aveva scosso la testa.
«Ci manca ancora qualcosa.»
«Sarebbe?»
«Un terzo coinquilino per dividere le spese.»
154
«Ma cosa dici? Già così per tre mesi stiamo a posto coi
soldi.»
«Non durerà, Enrico. Aggiorneranno il sistema o ci
beccheranno e allora saremo senza niente. Meglio essere
previdenti.»
«D’accordo» convenni toccandomi senza che mi vedesse. «Almeno prendiamolo normale questo, ok?»
«Normale in che senso?»
«Non uno del tuo corso di laurea, ecco.»
Lui aveva abbozzato. Così il giorno seguente, un’ora
dopo aver affisso nella bacheca di Economia e commercio
della Statale il nostro annuncio per la ricerca di un coinquilino, era sbucato fuori Paolo Molinari.
*
Paolo Molinari è uno sveglio, elegante e, come dicono
qui a Milano, pieno di grano: la perfezione.
Il detto americano “il sogno americano è di farsi da solo
e diventare ricco” qui si potrebbe ripensare con “il sogno
italiano è nascere da padre ricco”. Molinari modestamente
lo nacque e, al contrario di ogni previsione, non è affatto
uno snob, anzi. È un ragazzo alla mano, generoso e pieno di
amiche carine. Una sorta di dandy con un guardaroba sconfinato, la battuta pronta e la generosità di un mecenate.
Fabio, vedendolo entrare in casa, così ben vestito e pettinato, aveva sparato una cifra esagerata.
«Settecento euro per la stanza più grande? Ci sto. Questo quartiere mi piace. Il palazzo non è il massimo ma voi
mi sembrate due tipi a modo.»
Io l’avevo adorato subito e, quando aveva staccato l’assegno con tre mesi d’affitto anticipato, il calabrese si era
quasi commosso.
155
«Quando posso trasferirmi?»
«Quando vuoi Paolo, mi casa es tu casa.»
«Allora domani faccio portare le mie cose.»
Fabio aveva aggrottato la fronte.
«Cosa significa, scusa, che fai portare le tue cose?
Quanta roba hai?»
«Be’, soprattutto materiale high tech: una tv da cinquanta pollici, il dolby surround, la PlayStation con una
sessantina di giochi, il dvd player, il microonde...»
«Basta così, Paolo» l’avevo interrotto. «Già ti amiamo
troppo.»
Eravamo tutti scoppiati a ridere.
«Noi abbiamo la tv satellitare» avevo ribattuto.
«Grande. Così mi vedrò tutte le partite in trasferta
dell’Inter. Quando gioca in casa, be’, San Siro o morte no?»
«Amen!»
Da quel momento è cominciato l’idillio. Sul serio: da
quando Paolo ha messo piede qui sembriamo tre adolescenti in preda agli ormoni che vanno per la prima volta al
bordello. Ok, forse non è il paragone più calzante ma la
verità è che ci divertiamo un sacco.
Con la PlayStation ogni notte è una sfida, senza contare
che Paolo ha un computer di ultimissima generazione, un
giocattolo che fa brillare gli occhi a Fabio ogni volta che lo
guarda e che lo sfiora.
«Usalo pure quando ti pare, io lo adopero poco» gli ha
detto Paolo e il calabrese quasi voleva baciarlo.
Per il resto, oltre alle partite di campionato, guardiamo
parecchia tv e in particolare due show.
Alle 19.45 cascasse il mondo ci ritroviamo tutti nella
stanza di Molinari che ha il maxischermo enorme col
subwoofer – qualsiasi cosa sia – che è perfetto per godersi
il nostro programma musicale preferito: Sarabanda. Lo
156
passano in tv tutti i giorni feriali e il gioco consiste nel­
l’in­do­vi­na­re una canzone sentendo solo le prime note. Ci
siamo appassionati come idioti, tanto che abbiamo anche
pensato di iscrivere Fabio come concorrente, visto che è il
più dotato dei tre.
«Dopo l’uomo gatto,» aveva suggerito Paolo «tu potresti andarci mascherato da dottor Spock o Darth Vader.»
L’altro momento in cui ci si raduna davanti al televisore
è la sera tardi per goderci il Maurizio Costanzo Show, anche se il più delle volte Paolo è fuori con qualche amica o
per una cena o a una festa. Mica come noi, larve da divano.
Due sere fa è rincasato tardi e ci ha trovati sdraiati sul
suo letto intenti a goderci le invettive di un noto critico
d’arte contro uno sventurato giornalista accusato di essere
«ignorante come una capra!».
«Scusate ragazzi ma mi servirebbe la camera.»
L’aveva detto malizioso, e infatti, mentre noi uscivamo
– in pigiama e coi capelli spettinati come selvaggi – lui faceva entrare due ragazze che avrebbero infestato i sogni
erotici miei e di Fabio per mesi.
Dieci minuti e nonostante la musica che aveva messo di
sottofondo, avevamo iniziato a sentire urletti e gemiti.
«Hai capito Molinari...»
«Intendi il mio nuovo idolo?» aveva sospirato Fabio.
«Lui non ha certo bisogno della nostra operazione
Fede...»
*
Marina ha chiamato due volte ieri – come ogni giorno
da due settimane a questa parte – ma non le ho risposto.
Fra trasloco, lezioni di forza nerd e le nuove attività con
Molinari, be’, non mi rimane tempo per lei. Non muoio
157
dalla voglia di sorbirmi un altro film intellò, magari con
cena vegana annessa (nell’intimità mi ha rivelato che non
mangia praticamente nulla di quello che ho cucinato negli
ultimi due mesi). Anche perché il finale da lei non era stato male finché non eravamo arrivati al dunque...
Oggi poi abbiamo un programma fitto. Ci ha pensato
Paolo.
«Vi farò passare una domenica che non vi dimenticherete.»
Io e Fabio ci siamo guardati. Il nostro ideale di giorno
del Signore è pigiama, pizza, serie tv, computer e partita.
Fine. Molinari invece ci ha fatto lavare e vestire, e ora siamo spaparanzati su un taxi. Il primo che prendo da quando sono a Milano, ma del tassametro non mi preoccupo:
offre Molinari, come sempre.
«Siete già stati a un brunch, vero?»
«Scherzi?»
«Sì, scusate: è ovvio che ci siate già stati.»
Come no. Io non so nemmeno cosa voglia dire brunch,
figurarsi se ci siamo stati. Siamo uno della Bassa e l’altro
del­l’Aspro­mon­te, manco sappiamo come si pronuncia quella parola. Fabio mi lancia un’occhiata interrogativa e io gli
faccio segno che va tutto bene. Peggio dei morti ammazzati
che ho visto come cronista non potrà essere, giusto?
Dieci minuti più tardi scopriamo che il brunch è una
cosa davvero milanese e che ci piace anche più dell’aperitivo: il principio è più o meno lo stesso. Si finge di fare
colazione intorno a mezzogiorno e, insieme al caffè, ti puoi
rimpinzare di roba: dolce, salato, speziato, caldo o freddo.
Prima di abbuffarci, però, rimaniamo a bocca aperta
alla vista del locale. Si chiama Atlantique e sopra l’ingresso
– sul tetto, intendo – c’è piazzata una vera carlinga di aeroplano. Un 767. Una cosa che a due provinciali nerd co-
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me noi già fa impazzire. A ben vedere anche Molinari, essendo di Piacenza, sarebbe un provinciale ma per lui questa considerazione non vale.
Il locale è sterminato, enorme. E pure pieno di donne.
«Allora vi piace? Oggi siete miei graditi ospiti» annuncia Paolo.
«Come facevamo prima senza di te?» chiede Fabio con
gli occhi che gli brillano.
«Ah, non lo posso nemmeno immaginare» ride lui.
Per le due ore seguenti ce la spassiamo. Io e Fabio assaltiamo il buffet che nemmeno due naufraghi dopo cinque anni in mare aperto. Beviamo litri di caffè – che una
gentile e arrapante cameriera ti versa ogni volta che sollevi
lo sguardo – e assaggiamo tutte e dodici le torte che sono
a disposizione. Dulcis in fundo, mentre Paolo paga io mi
frego una tazza rossa della Nescafè identica a quella che si
vede nella pubblicità in televisione: farà un figurone nella
nostra cucina!
«Ora che si fa?» chiede Fabio mentre risaliamo su un
taxi.
«Be’» risponde Molinari consultando il Patek che
porta al polso destro, «filiamo a casa per vederci le partite ma non rimettetevi in mutande: stasera ci aspettano a
una festa.»
Fabio lo abbraccia. Lui a eventi di quel tipo non è mai
stato invitato. Il massimo di festa per i nerd è smontare un
computer per vedere cosa c’è dentro e poi rimontarlo. Eccitante come una ceretta inguinale.
«Decisamente c’è stato un prima e un dopo Molinari.»
Ecco cosa penso quando, tirati a lucido come scolaretti
al primo giorno di scuola, mettiamo piede in un appartamento in corso Buenos Aires dove ci affacciamo da un
lunghissimo balcone con tanto di erba finta. Quella vera la
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fumano metà dei presenti. E poi ci sono così tanti alcolici
che se cade un fiammifero rischia d’incendiare tutto.
«Vi piace?» chiede Paolo.
«Non so» rispondo adocchiando un crocchio di ragazze, vestiti leggeri e senza scarpe. Rilassate e sorridenti.
«Forse era meglio se rimanevamo in casa a vedere il Maurizio Costanzo Show.»
«Stasera è una replica» ribatte Fabio.
Io e Paolo ci voltiamo a guardarlo.
«Sei serio?»
«Scherzavo, ragazzi. Mica sono troglodita fino a questo
punto.»
Una delle ragazze scalze ci saluta con la mano e ci fa
segno di avvicinarci.
«Posso confessarti una cosa, Paolo?»
«Spara.»
«Anche se porti il nome di una Sambuca – e io detesto
la Sambuca – ti adoro!»
«Grazie, Enrico. Possiamo evitare di limonare, però?
Sarebbe sconveniente: quelle ragazze laggiù ci aspettano e
credo che abbiano intenzioni bellicose.»
*
Il sole è già tramontato quando Molinari fa irruzione
nella mia stanza e mi afferra per il bavero.
«Andiamo!» ordina.
«Cosa ti salta in mente? Sto...»
«Niente storie, molla il computer e seguimi.»
«Non posso, Paolo, davvero. Oggi è...»
Non mi permette di finire. Mi solleva quasi a forza.
«Cosa succede?»
Ormai mi sta già trascinando giù per le scale.
160
«Dai che è già tardi!»
«Lasciami almeno avvertire Fabio che usciamo. Sai,
stasera...»
«Non c’è tempo! Lo chiamerai per strada.»
«Perché, dove andiamo?»
«Lo scoprirai presto.»
«Prendo la Vespa?»
«Oggi non ne avrai bisogno, passano a prenderci sotto
casa.»
«Chi passa?»
«Ci ho pensato io, tranquillo.»
Sarà il solito taxi, mi dico sempre più confuso.
Quando però vedo che Paolo si sbraccia e quello che si
avvicina sferragliando è un tram vado nel pallone.
«Da quando prendi i mezzi pubblici?»
«Chi ti dice che questo sia un mezzo pubblico?»
Il tram si è fermato proprio davanti a noi. I finestrini
sono protetti da lunghe tende scure e non si riesce a vedere all’interno. Quando saliamo è buio pesto, come se fossimo entrati in una di quelle dark room da discoteca.
Il mezzo riparte con uno strattone e io quasi perdo l’equilibrio perché non so a cosa aggrapparmi.
«Ma dove...»
In quel momento la luce si accende e parte la musica.
«Sorpresaaaaaaaaaaaaaa!»
Una pioggia di coriandoli mi investe. Poi baci e abbracci.
C’è Fabio che sorride complice, ci sono le amiche gnocche di Paolo conosciute alla festa, gli studenti nerd colleghi di Fabio e c’è pure Sciamanna, che ridacchia e solleva
un bicchiere.
«Allora non vi eravate dimenticati!»
«No, fratello. È tutto il giorno che fingiamo di essercene scordati!»
161
«Bastardi!»
«Come? Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?
Anzi, guarda, c’è pure il catering.»
Dal fondo del tram sbuca il cuoco pakistano del Fenicottero con un enorme vassoio ricolmo di salsicce, patate
e caciocavallo, naturalmente tutto affogato nella ’nduja!
«Il cibo è un’idea di Fabio, immagino.»
«Sì, io ho pensato a questo ambaradan e lui alle libagioni!»
Il calabrese mi abbraccia.
«Auguri Enrico!»
Mi porge un pacchettino.
«Cos’è, un accendino?»
«Un accendino? Ti ho portato nel nuovo millennio!»
Strappo la carta e rimango a bocca aperta.
«È quello che credo?»
«Esatto. È venuto il momento di pensionare il tuo vecchio walkman. Questo è un iPod, hai presente? L’ha appena lanciato la Apple e dentro ci stanno centinaia di canzoni. Basta con i nastri, ora c’è l’mp3 e Napster, dove puoi
scaricare tutto quello che vuoi!»
Molinari arriva con una bottiglia di spumante e tre bicchieri.
«Ecco, brindiamo! A proposito, anch’io ho contribuito
a quel regalo musicale: sopra ci trovi la discografia completa di Paolo Conte!»
«Non so cosa dire.»
«Ringraziaci, Radeschi! E goditi la festa. Eccoci alla
prima fermata.»
Questa serata è costellata da un’emozione dietro l’altra.
«La festa è itinerante, Enrico. Ma siccome lo spazio a
bordo di questo trabiccolo è limitato gli invitati saliranno
a rotazione.»
162
I freni stridono e le porte si spalancano. Siamo in via
Vitruvio. Un po’ di gente scende lasciando il posto ad altre
persone. Altre amiche di Paolo e anche qualche altro invitato di Fabio: nerd con gli occhiali spessi e gli abiti di
quando avevano dieci anni di meno.
Vengo risucchiato dall’euforia di questa festa mobile.
«Da questa parte gente: lui è il festeggiato!» grida Molinari.
Tutti mi abbracciano e baciano, brindano, qualcuno
addirittura mi consegna un regalo...
E via così sino alla fermata successiva, dove cambiano
gli ospiti: musica che esce da grandi casse e vassoi calabresi che spuntano dal fondo del tram.
Un delirio itinerante per le vie di Milano. Un tour notturno strabiliante di cui non mi capacito, così, ogni tanto
– per convincermi che non sto sognando – scosto una tenda e sbircio fuori: piazza del Duomo, via Dante, Castello
Sforzesco...
Quando la notte è ormai alta e io sono sbronzo perso,
Molinari mi afferra per un braccio.
«Siamo all’ultima fermata, Enrico.»
«Cos’è, devo scendere?»
«No, devi vedere se hai ancora abbastanza energie o se
sei troppo vecchio.»
«Per cosa?»
Al suo segnale tutti abbandonando il tram. Rimaniamo
solo io, lui e Fabio.
La luce si spegne e parte una musica carioca: la samba.
Quando si riaccendono i riflettori sono puntati su un
trio di ballerine brasiliane vestite solo di tanga e microbikini che ci coinvolgono in un trenino mentre il tram riprende il suo viaggio.
«Non ci posso credere!»
163
«Devi, invece. Ho pagato anche per il dopo, se ti va...»
Scuoto la testa. Sono già contento così: oggi compio
ventisette anni, sono coi miei migliori amici, che mi hanno
organizzato la festa di compleanno più bella che io abbia
mai ricevuto e, forse per via dell’alcol, posso dire di sentirmi davvero felice.
164
11.
«Ma mangi abbastanza? Hai un’aria così sciupata!»
Tre mesi che non torno a casa nella Bassa e la prima
esclamazione di mia madre è piuttosto prevedibile. Vorrei
risponderle che m’ingozzo a ogni occasione ma sarebbe
comunque una causa persa. Penserà lei a mettermi all’ingrasso nei miei giorni di permanenza qui. In fondo va bene così, farsi coccolare è un privilegio. Un piacere che è
cominciato arrivando, attraverso i finestrini del treno
quando la città ha lasciato il passo al verde e tutto intorno
si è presentata la campagna lussureggiante. E poi il Po, il
grande fiume, salutato dal ponte di ferro. È bello tornare.
Odori, sapori, ritmi rallentati.
La mia Capo di Ponte Emilia è sempre la stessa. Pigra e
tranquilla. Mio padre è venuto a prendermi in stazione e
mi ha abbracciato senza parlare. Non c’è bisogno di tanti
discorsi.
«Stai bene?» ha solo chiesto. Tanto per dire qualcosa.
Ho annuito e il viaggio verso casa l’abbiamo fatto in silenzio.
I miei abitano da sempre in una corte appena fuori dal
paese. C’è la stalla, l’aia di pietra puntellata dalle erbacce,
i campi a fare da cornice. Tutto è rimasto come quando
ero bambino, eccetto quelli che ci lavorano: i bergamini
165
adesso hanno il turbante e vengono dal Punjab. La vendemmia e il lavoro di aratura sono svolti da uomini di paesi lontani che il nostro dialetto non lo parleranno mai.
Papà parcheggia sull’aia e io osservo l’edificio che si
affaccia sul lato opposto rispetto alla casa.
«Avete ristrutturato e ridipinto la facciata del fienile?»
«Sì, finalmente tua madre ha ceduto e ora vedremo di
affittarlo.»
Sospiro. Deve essere stato un duro colpo per la mamma. Lei ha sempre desiderato che nell’appartamento ricavato nel vecchio fienile mi ci trasferissi io con la mia sposa.
Sogni che si sono infranti, a quanto pare.
Avevo anche pensato di mettere su una commedia come quelle che si vedono mille volte nei film, tipo portare
una ragazza e fingere che fosse la mia fidanzata. A mia
madre avrebbe fatto un gran piacere e avrebbe cullato ancora per un po’ l’idea di avermi lì con lei insieme a una
caterva di marmocchi vocianti a scorrazzare sull’aia.
Purtroppo non è stato possibile visto che con Marina,
l’intellettuale che si fa la canne nelle toilette dei musei, le
cose non hanno funzionato. E non si tratta di mie elucubrazioni mentali: non hanno funzionato in senso fisico! Il
mio martelletto pneumatico non è riuscito a portare a termine la missione. Non ha nemmeno iniziato, a dire il vero.
E quando cominci così poi è dura riprendere. Ho avuto
quella che definiscono una défaillance e me ne sono fuggito come un ladro alle prime luci dell’alba.
Da quel momento era stato chiaro che non ci saremmo
più rivisti anche se Marina aveva continuato a chiamarmi
per giorni. Non ho mai risposto perché so già cosa mi
avrebbe propinato.
«Guarda che sono cose che succedono.»
«Guarda che andrà meglio la prossima volta.»
166
«Guarda che...»
Non voglio guardare niente! A me non era mai successo quindi o è l’aria inquinata di Milano che mi rammollisce oppure è stata la selva oscura di peli sulle gambe e sul
resto che ha smorzato la mia libido.
Inutile ripensarci, comunque. Me ne sono fatto una ragione. E ora annego i dispiaceri nel lambrusco che mio
padre adora servire ghiacciato. La Coca-Cola della Bassa,
la chiama. E io sono d’accordo con lui.
Mia madre mi bacia, sorride, e ribadisce tre volte di fila
che secondo lei mangio poco e che mi trova sciupato. Poi
finalmente ci sediamo a tavola e ci sono i tortelli di zucca,
il culatello, il salame con l’aglio e la sbrisolona con cui
consolarsi.
Pure lo zabaglione caldo: «Così riprendi le forze!»
Peccato che già col primo piatto il solco di questa giornata venga tracciato dal sorriso malinconico e indagatore
di mia madre. Che mai e poi mai si darà per vinta.
«Allora Enrico» chiede riempiendomi il piatto, «quand’è
che ti sposi e ci regali un nipotino?»
*
«Tu non la festeggi la Pasquetta?»
Lui sorride e accarezza le cosce della ragazza che gli sta
sopra.
«Oh, a me sembra di star festeggiando nel migliore
dei modi. E poi questo è il genere di scampagnata che
preferisco.»
Lei sorride e gli sfiora il viso.
Tutto ha funzionato alla perfezione. Come al solito; è
entrata nel locale con aria spaesata, poi si è illuminata alla
vista del ragazzo seduto a un tavolo e gli è subito corsa
167
incontro per salutarlo. Vecchio trucco: “Fingi di conoscerlo e quello attaccherà bottone, ti offrirà da bere e il resto.”
Ancora una notte così e poi avrebbe trascorso tre giorni
a Santa Margherita Ligure, all’Imperiale Palace, un hotel
da sogno, anni luce da dove stava lei. Li avrebbe trascorsi
fra massaggi, champagne e aragoste.
In fondo ne valeva la pena.
Convincerlo a lasciare il locale non era stato difficile
tanto che ora sono sdraiati sulle lenzuola di seta rosso fuoco del letto di lei.
Prima è andata a cambiarsi in bagno così, invece del
vestito lungo di prima, adesso sfoggia lingerie nera, tacchi
altissimi e una bottiglia ghiacciata con cui, parole sue, «ci
rilassiamo».
L’aveva spogliato avidamente, con la bocca, e lui aveva
molto apprezzato.
Adesso si baciano, brindando, si sfiorano e quando la
temperatura si alza, lei si ferma per pescare qualcosa dal
cassetto del comodino.
«Ora giochiamo, ti va?»
L’espressione di lui, però, alla vista della benda e dei
lacci cambia. Si adombra.
«No, così no.»
«Su, dai, prometto che sarò birichina.»
Lei sorride languida ma lui non si sente più a proprio
agio. La situazione non gli piace, qualcosa non lo convince. Lo assalgono mille dubbi. Troppo facile arrivare al
dunque, troppo strano mettersi a giocare coi lacci la prima
volta...
La passione gli si asciuga.
«Non è questo che avevo in mente. Scusa, ma così non
mi diverto.»
Mentre lo dice si sta già rivestendo. Lei cerca di fargli
168
cambiare idea con qualche moina, gli infila la lingua in un
orecchio ma niente.
Lui le lancia un saluto frettoloso ed esce di corsa sotto
la pioggia battente.
*
«Finalmente ci siamo.»
Sebastiani abbozza un mezzo sorriso. Mai come oggi
avrebbe voglia di accendersi il toscanello che stringe fra le
labbra. È dal 1999 che ha smesso, in contemporanea con
la separazione dalla moglie. Fare il conto è stato facile: tre
anni esatti. Oggi finalmente l’agognato ultimo passo: il divorzio in tribunale.
Mentre l’avvocato gli parla di qualcosa che non ascolta,
Loris ripensa ai tempi dell’università quando frequentava
Scienze Politiche a Bologna, decisione maturata soprattutto per stare lontano da casa più che per convinzione. Lì, in
un’aula magna occupata dove tutti fumavano e discutevano di politica, aveva conosciuto sua moglie Giulia. Lei studiava al Dams e l’aveva sedotto convincendolo ad accompagnarla al corso di Semiotica che teneva un professore
piemontese. Loris non aveva la minima idea di cosa fosse
la semiotica ma, dopo la prima, non si perse più una lezione di quel docente alla mano e coltissimo che trasmetteva
a tutti il desiderio di leggere.
Fra lui e Giulia era stato amore folgorante su e giù per
i colli bolognesi con una vecchia lambretta di terza mano
che si accendeva solo a spinta.
Un amore travolgente, totalizzante. Sempre insieme fino a quando, nel 1984, si erano sposati. Lui aveva appena
ventiquattro anni, lei un paio di meno. L’anno prima delle
nozze, Sebastiani aveva vinto il concorso per entrare in
169
polizia come commissario. Giulia, senza esitazione, l’aveva
seguito a Roma dove Loris aveva frequentato la scuola superiore di polizia. Si era iscritta alla Sapienza e si era laureata lì in Lettere. Gli anni romani erano stati bellissimi:
avevano vissuto in un appartamentino a Trastevere dove si
schiattava dal caldo d’estate, si battevano i denti d’inverno
e non si riusciva mai a dormire per il chiasso che facevano
in strada ma a vent’anni si tollera tutto.
Nel 1986, finita la scuola e con la qualifica di commissario capo, Sebastiani era stato assegnato a Viterbo dove
era rimasto – mettendosi in luce risolvendo parecchi casi –
fino a quando era stato promosso a vicequestore e assegnato, dal 1997, a Milano. Ritornare a casa era stato un
dramma per la coppia. Nel 1998 era comincia la crisi e nel
1999 Giulia, che aveva sempre rinunciato a tutto per stargli dietro, l’aveva lasciato per un professore di matematica, suo vecchio compagno di scuola alle medie.
«Mi dà sicurezza» si era giustificata. «E non mette la
questura prima di noi!»
Per Sebastiani, dopo quindici anni ininterrotti di fedeltà coniugale, era cominciata quella che lui aveva definito
«la tarda adolescenza dei sentimenti» con relativo libero
sfogo dei suoi ormoni.
L’avvocato gli stringe il braccio.
«Loris?»
«Eh?»
«Ci siamo.»
«Accomodatevi, prego.»
Il cellulare di servizio inizia a vibrare nella sua tasca.
«Meglio se non rispondi» consiglia il legale.
«Faccio subito.»
Si sposta in corridoio e porta il telefonino all’orecchio.
«Ora non posso, Lonigro.»
170
«C’è stato un omicidio in piazzale Corvetto.»
«Anche qui ce n’è in corso uno. Quello delle mie finanze.»
«Prego?»
«Niente. Appena mi libero, arrivo. Tu intanto vai sul
posto e comincia con gli interrogatori.»
Riattacca e si volta, attirato da un rumore di passi. Inconfondibile. Solo una persona al mondo cammina a quel
modo, come se stesse sempre per mancare un appuntamento: sua moglie, anzi ormai ex. Giulia gli passa a fianco,
accompagnata dal suo legale, scuotendo la testa.
«Non cambi mai eh, Loris? Sempre il lavoro prima di
tutto.»
«Tranquillizzati: questa è l’ultima volta che devi sopportarmi. Da coniuge.»
*
Ritornare a Milano, dopo tre giorni di abbuffate e di
occhiate piene di compatimento e frustrazione, è un sollievo. La stazione centrale, il metrò, i viali alberati, Lambrate. Il Giallone al sicuro nel cortile del palazzo (grazie alla
lauta mancia che ho rifilato a un magrebino che ne ha assicurato la protezione e l’integrità...)
L’appartamento è deserto: sono tutti ritornati dai parenti per le feste. Fabio in Calabria e Paolo a Piacenza o
chissà dove. Non è uno che ti racconta molto i fatti suoi.
Mi stendo sul letto, stanco, anche se l’unica cosa che ho
fatto oggi è stata prendere il treno per un paio d’ore. Di
guardare la tv non ne ho voglia, così opto per la radio della polizia che mi ha procurato Sciamanna. Quel ronzio alternato dalle voci metalliche, ho scoperto, mi concilia il
sonno. Sto quasi per addormentarmi quando sento una
171
chiave nella serratura e un urlo beduino che sveglierebbe
anche un sordo.
«Belli e brutti, a morte s’i ‘ngliutta! C’è qualcuno in casa?»
Mi affaccio in corridoio e ritrovo Fabio sulla porta, tutto rosso per la fatica. Lascia cadere sul pavimento due valigie piene fino all’inverosimile.
«Hai fatto scorta?»
«Mia madre ci ha pensato. Ho tanta di quella ’nduja
che basterà per un secolo. Quasi non me la facevano imbarcare in aereo.»
Ci abbracciamo.
«Be’, visto che è quasi ora di pranzo che ne dici se mi
metto a preparare qualcosa? Una bella pasta alla calabrese.»
Lui fa una smorfia.
«Sì, ma carica bene col piccante. Dopo quattro giorni
giù mi devo disintossicare lentamente. Hai presente come
i drogati col metadone?»
«Sarà la pasta calabra più piccante che io abbia mai fatto.»
«Bravo. Paolo c’è?»
Scuoto la testa.
«Non è ancora rientrato.»
«Starà con qualcuna delle sue amichette.»
Torno in camera per spegnere la radio quando la voce
di una donna della centrale operativa mi blocca.
CO: Attenzione volante 11...
Volante 11: Avanti!
CO: Portati in piazzale Corvetto... Piazzale Corvetto davanti al civico 15... Ci è stato segnalato un cadavere.
Volante 11: Ricevuto. Ci portiamo sul posto.
CO: Ti mando in ausilio un’altra macchina.
Volante 11: Ok.
CO: Volante 17
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Volante 17: Avanti!
CO: Portati in ausilio alla volante 11, in piazzale Corvetto, davanti al civico 15. Quelli dell’AMSA hanno ripescato
un cadavere fra i rifiuti...
Non ho bisogno di ascoltare una parola di più. Mi fiondo verso la porta d’ingresso a gran velocità, tanto che quasi travolgo Fabio.
«Cos’è questa fretta?»
«Devo andare.»
«E la mia pasta piccante?»
«Sarà per la prossima. Hanno ammazzato un tipo e
questa proprio non voglio perdermela!»
«Ma se ancora non hai nemmeno ripristinato il blog...»
«Prima o poi lo farò. Magari con questo fatto, ok? Comunque, se hai fame c’è del salame nel frigo. Roba delle
mie parti. Non è piccante ma è pieno d’aglio.»
*
Una barriera di cemento svetta in mezzo alla piazza e
sopra ci corrono veloci le auto. Un viadotto, come un serpente che striscia fra i palazzi e che rende deprimente anche solo alzare lo sguardo. Intorno, qualche albero desolato a inframmezzare una colata di cemento quasi ininterrotta: piazzale Corvetto.
«L’hanno trovato a mezzogiorno. Il corpo era nascosto
sotto una pila di cartoni e nessuno l’ha notato finché quelli della nettezza urbana non sono arrivati per pulire. Sa
come funziona: dopo le feste è sempre un disastro con la
spazzatura...»
Il sigaro di Sebastiani ruota lentamente.
Il piazzale è pieno di auto della polizia. Hanno già iso-
173
lato la zona col nastro e Ambrosio, il medico legale, è piegato sul morto. Per una volta quel pachiderma ha fatto
prima del vicequestore ma non gli brucia. Non è una gara.
E poi lui ha altri pensieri per la testa.
Questo è il mio primo caso da divorziato, pensa.
Ha ascoltato quello che diceva il giudice, ha firmato le
carte che doveva e ha perfino salutato Giulia con un bacio
sulla guancia. Come fanno le persone civili che hanno percorso un lungo tratto di vita insieme.
«Cerca di essere felice» ha sussurrato lei. Loris si è limitato a guardarla sorpreso. Poi di corsa fuori, giù dai gradini del palazzaccio, dove Mascaranti lo aspettava a bordo
di una volante con il lampeggiante già acceso. Era come
scappare dalle responsabilità, dai doveri. Dalla famiglia.
Come aveva sempre fatto. La questura, il lavoro, i delitti, i
balordi e i criminali: quello era il suo rifugio. Dove non
c’era tempo per pensare a se stesso ma solo ragionare, dedurre, scovare il colpevole.
Ora ascolta l’ispettore capo Lonigro riferirgli quello
che aveva scoperto. Non un granché, a ogni buon conto.
«Gli hanno sparato un colpo alla testa. Uno soltanto.
Non sembra che abbia lottato né altro. Un’esecuzione in
piena regola.»
Lonigro smette di parlare e osserva il superiore. L’unica
reazione che ottiene è un altro quarto di giro del sigaro.
«Tutto bene, dottore?»
«Sì. Continua.»
«Ieri sera diluviava, quindi scordiamoci di trovare impronte o altro. Questo poveraccio ha i vestiti ancora inzuppati d’acqua. L’unico che ha visto qualcosa è il barista
di fronte, ha scorto una figura avvolta in una cerata scura
col cappuccio alzato. Tutto qui. Uomo, a giudicare dalla
corporatura, altezza media...»
174
«Avete ricostruito la dinamica?»
«Più o meno. La vittima è arrivata a piedi, forse per prendere un taxi o il metrò, ed è sotto alla sopraelevata che l’assassino l’ha sorpreso alle spalle. Un colpo alla nuca, mentre quello nemmeno guardava, e tanti saluti. Via da questo
mondo senza accorgersene. L’omicida l’ha quindi trascinato
vicino a quei bidoni, dove in genere stanno i barboni, e l’ha
coperto con alcuni cartoni. Per guadagnare tempo.»
«L’abbiamo identificato?»
«Sì, aveva il portafogli in tasca. Non hanno toccato nulla: ci sono ancora i soldi e le carte di credito.»
«Come si chiama?»
Una voce alle loro spalle li costringe a voltarsi.
«Lo so io come si chiama! Quello è Paolo Molinari!»
*
«Sicuro di conoscerlo?»
Sebastiani mi viene incontro a passo di carica.
A tenermi a distanza, oltre il nastro, c’è quel poliziotto
burbero, Mascaranti, e io non posso far altro che sbracciarmi e urlare. Anche se sono sconvolto: Paolo è stato
ammazzato come un cane sotto un viadotto di cemento.
«È una scusa per scrivere qualcosa su quel tuo blog?»
Scuoto la testa. Non mi vengono le parole. Devo essere
impallidito tanto che lo sbirro, sempre con quel suo sigaro
stretto tra i denti, piega la testa da un lato e mi domanda
se sto bene.
«Sì, cioè no. Paolo era un mio amico!»
Decide di credermi. Fa segno al mastino in divisa di
lasciarmi passare.
«Non potrai scrivere nulla.»
«Nulla di quello che mi rivelerete voi, intende?»
175
«Esatto. Da qui in avanti è come se tu fossi entrato nel­
l’Area 51. Fai trapelare qualcosa e ti faccio venire a prendere a casa per un soggiorno in cella dove ti aspetteranno
i peggiori bastardi in circolazione.»
«Mi sembra equo.»
Dovrei andarmene, tornare a casa a piangere il mio amico. Lasciar fare a chi è del mestiere ma qualcosa mi convince che posso dare una mano. Un piccolo contributo.
Il toscanello compie un quarto di rotazione.
«Ti ascoltiamo.»
«Prego?»
«Non ti ho fatto passare per ficcare il naso ma perché
mi dicessi quello che sai.»
«Quello che so gliel’ho detto: era un mio amico.»
«Sai dov’era ieri sera?»
«No.»
«Allora informati e ne riparliamo.»
Mi lascia in un angolo del piazzale sorvegliato a vista da
Mascaranti.
Decido di spedire un sms a tutti i compagni di corso di
Molinari che conosco. Uno mi risponde quasi subito.
«Ecco» dico mostrando il messaggio allo sbirro.
Il mandrillo ha colpito ancora! Ieri dovevamo vederci al
Magenta per una birra. Quando siamo arrivati però lui stava uscendo con una mora. Ci ha strizzato l’occhio ed è sparito!
Sebastiani sgrana gli occhi e gli sento sfuggire una parola che vale più di mille rivelazioni.
«La Mantide...»
«Cos’ha detto?»
«Nulla.»
176
«Riguarda la faccenda dei ragazzi che scompaiono,
vero? Sa cosa dico i criminologi: dopo tre omicidi si diventa serial killer...»
«Dimmi qualcosa che non so, sbarbato.»
«Le professione con più serial killer è quella del medico, seguita a breve distanza da quella dell’infermiera.»
«Ecco, ora capisci perché voglio stare alla larga dagli
ospedali?»
«Eh?»
Nella mia testa le rotelle hanno preso a girare. A collegare i puntini come nei disegni sulla Settimana Enigmistica.
«Quindi è una donna quella che fa sparire tutti quei
ragazzi di cui poi non si sa più nulla?»
«No, genio, visto che questo l’abbiamo ritrovato. Morto ammazzato.»
La smetto. Un punto per lui. Ma ciò non significa che
non si tratti della stessa persona. Forse Paolo si è ribellato, forse qualcosa non è andato come doveva. Forse si
tratta solo della solita coincidenza che fa impazzire gli investigatori.
«Com’è che lo conosci?» mi chiede Lonigro.
«Condividiamo casa. Paolo è... era il mio coinquilino!»
«Da quanto?»
«Poco più di un mese.»
«Sai se aveva nemici?»
Mi sento proiettato in una puntata di Law&Order. Ma
davvero la polizia fa domande del genere?
«Non saprei.»
«Debiti?» chiede Sebastiani.
«Aveva pestato i piedi a qualcuno?» incalza Lonigro.
«No!»
Davvero pensano di arrivare all’assassino così?
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«Si è divertito con la donna sbagliata?»
Il vicequestore deve notare qualcosa sul mio volto. Una
reazione involontaria.
«Allora?»
«Ecco, questa mi sembra la più probabile di tutte quelle che avete detto...»
«Continua»
Mi stringo nelle spalle.
«Paolo piaceva alle donne. Ci sapeva fare, ecco.»
«Chissà che invidia per te, vero? L’hai mica ammazzato
tu, per caso?»
Io rimango senza parole. Immobile.
«Rispondi!»
«No! Certo che no! Gli volevo bene, eravamo amici!»
«Dov’eri ieri sera?» interviene Lonigro.
Ora il sospettato numero uno sono io?
«Dai miei. A Capo di Ponte Emilia. Centocinquanta chilometri da qui. Sono tornato stamattina in treno...»
Mi frugo in tasca.
«Ecco, questo è il biglietto.»
Sebastiani non lo degna di uno sguardo. Mi ha già depennato dalla lista.
«Ho capito. Non ti agitare. Dov’è che abiti?»
«In via Porpora.»
«Bene, andiamo a casa vostra. Forse troveremo qualcosa di utile. Qui ora lasciamo campo libero a quelli della
scientifica.»
Ormai non riesco più a ribellarmi né a ribattere: gli
sbirri vogliono perquisire casa mia. Cosa posso farci se
non acconsentire mio malgrado?
«Ok, seguitemi, quella è la mia Vespa.»
«Ti diamo un passaggio noi, Radeschi, verrai più tardi
a riprendere quel residuato motorizzato.»
178
«Non è un...»
«Andiamo che non ho tempo da perdere!»
*
Fabio apre la porta in mutande e mi fissa stralunato.
«Si rivesta» ordina Lonigro perentorio.
«E questi chi sono? Io in casa mia faccio quello che...»
«Sono della polizia» taglio corto. «E non c’è da scherzare: Paolo è morto. L’hanno trovato un’ora fa sotto un
pilone della sopraelevata di piazzale Corvetto.»
Il calabrese sbianca e quasi perde l’equilibrio.
«Oh Dio... Scusate, scusate» balbetta mentre corre in
camera sua per mettersi qualcosa addosso.
Io intanto faccio accomodare i poliziotti in cucina.
Due minuti dopo siamo tutti e quattro seduti intorno al
tavolo.
«Come mai non avete dato l’allarme?» domanda Lonigro.
«Perché avremmo dovuto?»
«Non vi insospettiva il fatto che Molinari non fosse tornato a casa ieri notte?»
«Be’, no» risponde Fabio. «Anche perché noi, ieri sera,
non c’eravamo. Siamo rientrati oggi...»
Ha l’aria provata e gli occhi rossi. Mentre si vestiva deve aver pianto.
«Il mio amico voleva dire» riprendo io, «che Paolo non
sempre rientrava a dormire. A volte rimaneva fuori con
qualcuna...»
Sebastiani mi osserva.
«Era uno che piaceva, Molinari?»
«Gliel’ho già detto: aveva un sacco di amiche...»
«Ci fate vedere la sua stanza?»
«Non ci vuole un mandato o roba simile?»
179
Il vicequestore solleva appena un sopracciglio. Il sigaro
immobile puntato inquisitorio contro di me. Cedo subito.
Calpestate pure i nostri diritti.
«Di qua.»
Attraversiamo il corridoio ed entriamo. La porta non è
chiusa a chiave: nessuno di noi lo fa. Dentro tutto è in ordine. Il letto rifatto, il laptop appoggiato sulla piccola scrivania, l’armadio strabordante di giacche e pantaloni.
«E tutti questi vestiti?»
«Paolo era uno alla moda. Begli abiti, sempre nuovi.»
«Come poteva permettersi un guardaroba di questo tipo? Armani, Ralph Lauren... Mica stiamo parlando di capi
da grande magazzino.»
Mi stringo nelle spalle.
«Era uno che stava di bene di famiglia.»
Il vicequestore annuisce.
«I suoi genitori li conoscete?»
«Mai visti. Però ci ha lasciato il loro numero scritto da
qualche parte in caso d’emergenza.»
Sebastiani si passa il sigaro da una parte all’altra della
bocca.
«Direi che questa lo è, no?»
«Vado a recuperarlo. Volete che li chiamiamo noi per
dirglielo?»
Lonigro scuote la testa.
«No, ci penseremo noi. Sappiamo come affrontare queste situazioni.»
Deo gratias! Trovo il biglietto dentro un cassetto e lo
porgo all’ispettore. Mi sento sollevato: non ce l’avrei mai
fatta a telefonare a una madre e a un padre per comunicargli che loro figlio è stato ammazzato. Certo, quando facevo
la nera nella Bassa mi è capitato più volte di avere a che
fare con i genitori di qualche morto ma solo dopo che que-
180
sti avevano ricevuto la notizia e l’avevano un minimo assimilata...
Sebastiani esce dalla stanza e si avvia lungo il corridoio.
La porta della mia camera è aperta; lo sbirro ci getta un’occhiata svogliata ma non gli sfugge la radio sul comodino.
Sorride a mezza bocca.
«Quindi è grazie a quella che hai saputo dell’omicidio...»
«Ho bisogno di lavorare. Di scrivere. Di essere sempre
in prima linea.»
«Attenzione a non trovarti troppo sotto la prossima
volta. Rischi che ti investiamo...»
«Me lo ricorderò. Abbiamo finito?»
«Per ora.»
«Vi accompagno alla porta.»
«Bene, prima però un’ultima domanda.»
Io e Fabio ci rimettiamo sull’attenti. Sembriamo soldatini.
Il toscanello del vicequestore indica la libreria del salotto.
«Tutte quelle videocassette cosa sono?»
«Quelle?» balbetta Fabio.
«Esatto.»
«Quelle» rispondo cercando di non impappinarmi «sono le lezioni di fisica che passano su Rai Educational a
notte fonda. Le registriamo e le riguardiamo a orari più
umani.»
«Ma davvero?»
«Già.»
«Tu non eri l’aspirante giornalista?»
«Infatti. Parlavo al plurale perché io e il mio socio qui
siamo una squadra: io le registro e lui le guarda, esatto?»
«Verissimo» conferma Fabio, ormai bordeaux per l’imbarazzo.
181
Per tutta risposta otteniamo un grugnito.
«Noi ce ne andiamo. Se vi ricordate qualcosa chiamatemi. Questo è il mio biglietto. C’è anche il cellulare ma se
mi disturbate per una stronzata vi faccio arrestare, ci siamo capiti?»
«Perfettamente» articolo chiudendo la porta.
Fabio, invece, non dice nulla. Si è sdraiato a pancia in
giù sul divano e piange.
*
L’ombra si allunga pigra sul marciapiede e la via è stranamente silenziosa. Fa caldo e una birra gelata ci starebbe
proprio bene.
Magari seduto a un tavolino all’aperto in piazza Vetra,
pensa Sebastiani.
Peccato che, invece, si trovi di nuovo al Labanof.
Dopo averci passato l’ultimo dell’anno, ora tocca al pomeriggio del giorno del suo divorzio!
Rimuginandoci sopra ha già masticato tre toscanelli e
ora si appresta a divorare il quarto, manco fosse liquirizia.
Lonigro lo fissa in silenzio mentre aspettano che dalle porte d’acciaio compaia la tozza figura del dottor Ambrosio.
Dopo l’interrogatorio dei due inquilini della vittima e la
telefonata, penosa come sempre, ai genitori, sono venuti
direttamente alla morgue. Digiuni.
Sono quasi le quattro del pomeriggio e lo stomaco del­
l’ispet­to­re gorgheggia.
«Prenditi qualcosa alle macchinette» suggerisce il vicequestore.
«Non ce la faccio a mangiare in questo posto. Ogni
boccone saprebbe di...»
«Ho capito, ho capito.»
182
Finalmente Ambrosio fa capolino dalla sala autoptica.
Scuote la testa.
«Un ragazzo sano. Sanissimo.»
Sebastiani si avvicina al medico.
«Morto per il colpo alla testa?»
«Esatto. Un’unica pallottola che ho estratto e che passerò alla balistica per l’esame. Come sospettavate voi:
un’autentica esecuzione.»
«Ci sono tracce di droghe o altro nel corpo?»
Ambrosio si stringe nelle spalle.
«Questo lo riveleranno gli esami del sangue. Per conto
mio posso dire che non aveva patologie. Non ha lottato né
ci sono tracce di ferite sul suo corpo.»
«Dunque non abbiamo nessun indizio?»
«Qualcosa ho trovato ma non riguarda il cadavere.»
Sebastiani aggrotta la fronte. Ha voglia di bere e di
uscire da quel posto che gli mette tristezza.
«In che senso, non riguarda il cadavere?»
«Per eseguire l’autopsia, come sapete, l’ho spogliato.
Ho tagliato i vestiti ed ecco qui qualcosa che può interessarvi.»
Dal camice Ambrosio estrae una busta di plastica. Dentro ci sono un paio di boxer bianchi.
Lonigro osserva il tessuto sollevandolo verso la luce al
neon.
«Quella è una macchia?»
«Sì, di rossetto.»
Ambrosio sorride sornione mentre l’ispettore e il suo
superiore si scambiano un’occhiata d’intesa.
«Mi viene da dire che le donne con la pistola sono davvero pericolose, no?»
«Comunque, questo è quanto» conclude Ambrosio.
«Se non avete più bisogno di me...»
183
«Grazie, dottore.»
Appena la porta si richiude alle sue spalle Lonigro attacca coi dubbi.
«Quindi una donna prima ha cercato di sedurlo e poi,
magari dopo un rifiuto, gli ha sparato in testa?»
«Una mantide, non trovi, ispettore?»
«Quella che fa scomparire i ragazzi...»
«Molinari assomiglia agli altri, no? Stessa età, capelli
neri...»
«Sì, bisogna però capire dove sono i cadaveri degli altri
desaparecidos.»
«Un passo alla volta. Prima ci sono ancora parecchi tasselli da mettere a posto.»
«Tipo?»
Un nuovo sigaro corre veloce da un lato all’altro della
bocca di Sebastiani.
«Tipo: perché una serial killer si prende delle pause così lunghe fra un omicidio e il successivo?»
«Forse viaggia molto e ammazza solo quando è a Milano.»
«Oppure c’è un’altra spiegazione che ora ci sfugge... E
poi: ti sei reso conto che la nostra Mantide agisce sempre in
occasione delle feste comandate? Capodanno, Pasqua...»
«Magari le detesta e vuole vendicarsi.»
Sebastiani scuote la testa.
«Non credo. L’idea che mi sono fatto è che, per qualche
ragione, non possa fare altrimenti.»
«Chissà. Forse è solo una che odia: odia la gente, odia i
ragazzini viziati. E odia le feste comandate.»
«La ritieni davvero un’ipotesi investigativa plausibile,
ispettore?»
«No, è che muoio di fame e sparo cazzate.»
La battuta strappa finalmente un sorriso a Sebastiani.
184
«Hai ragione: togliamoci di qui e andiamo a mettere
qualcosa nello stomaco. Anche a me è venuta una fame
assassina.»
*
«Ti rendi conto, Enrico? Fino a una settimana fa Paolo
stava qui con noi, su questo divano. E oggi...»
Fabio non ce la fa a terminare la frase. Si copre il volto
con le mani e piange. È un po’ che continua con questa
pantomima. Colpa dell’alcol: gli è presa la sbronza triste e
ora sta contagiando anche me. Abbiamo cominciato col
vino assassino calabrese e dopo una pasta piccante come il
fuoco dell’inferno abbiamo continuato col Fernet Branca,
da bravi milanesi d’adozione. E la ciucca da Fernet è triste
e cattiva. Parecchio.
«Dobbiamo fare qualcosa, Enrico. Scoprire chi l’ha
ammazzato.»
«E come, di grazia?»
«Non ne ho idea ma tu qualcosa devi fare. Vuoi fare il
cronista investigativo, no? È l’ora di dimostrarlo!»
«Dici sul serio?»
«Sì, devi deciderti.»
«Posso scegliere anche di rimanere alla finestra, però.»
«Potresti, ma perderesti la mia stima. Devi agire, buttarti. Ricorda che una cattiva decisione, in fondo, è sempre
meglio di nessuna decisione.»
Sospiro. Il calabrese ha ragione. Parlo tanto di sporcarmi le mani, scrivere pezzi, ricercare la verità e poi cosa
faccio? Niente. Me ne sto qui a crogiolarmi nel mio dispiacere per la perdita di un amico e l’inerzia di non sapere da
dove cominciare a indagare.
E allora prendiamola, questa decisione! Accendo il lap-
185
top e mi metto all’opera. All’improvviso mi ricordo di quel
vecchio trombone di Guarneri, anzi, ci manca poco che gli
telefoni. Poi però soprassiedo, visto che l’informazione
che mi serve la scovo in un angolo della memoria. La pulce
nell’orecchio me l’aveva messa proprio lui durante il nostro primo e unico incontro in quel caffè: «Scompaiono
dei ragazzi e nessuno ne parla» era stato il suo monito.
Adesso, quattro mesi dopo, un mio caro amico è stato
trovato morto ammazzato forse proprio da quella Mantide
– come la chiamano gli sbirri – che fa sparire dei ragazzi
sui vent’anni. Devo saperne di più, capire le dimensioni
del problema; peccato che in rete le notizie siano poche e
scarne.
«Sai quanta gente scompare ogni giorno?» chiedo a Fabio.
«Non me ne frega nulla!» sibila fra le lacrime.
«Mi sei davvero utile.»
Dopo parecchia fatica – considerando anche che non
sono proprio al culmine della lucidità, con più sangue
nell’alcol che viceversa – grazie ad Altavista scovo un articolo di un quotidiano pieno di dati statistici. Uno di quei
pezzi che riempiono di cifre per far paura all’uomo della
strada. E pure a me.
Sembra che ogni giorno che Dio manda in terra, in questa nostra bella Italia, svaniscano nel nulla ventotto persone. Più di una all’ora. Ergo: tre ragazzi che scompaiono
nell’arco di sei mesi, fra giugno e dicembre, non sono quasi degni di nota.
Non danno nell’occhio. A quel che risulta da queste
cifre, fornite dalla banca dati interforze dal ministero degli
Interni, pare che dal 1974 alla fine del 2001 siano scomparse complessivamente più di venticinquemila persone.
Un terzo di queste di nazionalità italiana.
186
«Sarà come cercare il proverbiale ago nel pagliaio» annuncio. «Non puoi nemmeno immaginare quanta gente
svanisca nel nulla!»
«Lo leggerò su Milanonera.»
«Certo quando riprenderò ad aggiornarlo.»
«E quando riprenderai a scrivere su quel maledetto
blog?»
«Non lo so. Quando mi sentirò pronto, ok? E ora vedi
di renderti utile: guarda nella credenza se è rimasto qualcosa da bere.»
187
12.
Fratello Ottaviano scende i gradini che portano alla
cripta ansimando.
Ha caldo sotto il cappuccio di lana grezza. La temperatura
negli ultimi giorni si è alzata e lui suda parecchio. Ha la schiena indolenzita per il supplizio che si è auto-inflitto. Il dolore lo
aiuta a pensare, da sempre. Sin da quando era molto giovane
e, suo malgrado, qualcuno lo aveva iniziato a quella pratica...
L’uomo si ferma un attimo per asciugarsi la fronte con
un fazzoletto. È madido.
Forse è l’agitazione per il nuovo incarico, anche se
quello che ha progettato per eliminare il confratello dissidente sarà il suo capolavoro. Un’idea mai tentata prima e,
per questo, molto rischiosa.
Trae un profondo respiro e riprende a scendere le scale.
Ad attenderlo, seduti a capo chino sui troni di pietra, ci
sono il Maestro e fratello Gaspare, che riconosce dalla postura curva. La prossemica caratterizza più di quanto si
possa immaginare; lo sa bene fratello Ottaviano per via del
mestiere che fa.
«Benvenuto fratello, ti attendevamo con ansia.»
Lui abbassa la testa in segno di deferenza. Non gli chiedono di sedersi, deve parlare in piedi, al centro della cripta,
in modo che la sua voce rimbombi.
188
«Avanti, spiegaci il tuo piano.»
Fratello Ottaviano ha la gola secca, la pelle gli prude
sotto alla pesante tunica grezza e la schiena frigge come se
fosse straziata da carboni ardenti.
Inizia a parlare. Un discorso che ha già provato. Poche
parole, dirette. Efficaci.
Quando finisce trascorre un tempo lunghissimo, minuti interi, prima che il Maestro replichi.
«Caro fratello, noi abbiamo sempre apprezzato la tua
audacia e anche la tua ingegnosità. In questo caso specifico, tuttavia, ti suggeriamo di essere cauto. Non sarà troppo pericoloso e avventato quello che hai in mente?»
«Quello che vi ho illustrato è l’unico modo efficace che
sono riuscito a escogitare. Una falla nel sistema, la definirei. Il
nostro obiettivo è un uomo accorto. Maniaco della sicurezza, spesso scortato da un uomo armato. Difficile quindi da
sorprendere se non colpendolo quando meno se lo aspetta.»
Dal fondo della cripta giunge una voce: «Il piano è ardito ma non lascerà tracce anche se susciterà molto clamore.»
Le parole rimbombano come se provenissero da una
stanza adiacente.
È stato il Sublime a parlare. Ecco perché l’hanno fatto
rimanere in piedi parlando ad alta voce! Non erano soli. E
chissà chi altri ci sarà nascosto in quelle tenebre.
«Il piano è perfetto» conferma fratello Ottaviano.
«Sembrerà un suicidio.»
«Sei sicuro che funzioni?» chiede con una punta di
scetticismo il Maestro.
Se potessero guardarlo in viso ora vedrebbero un sorriso sadico comparire sulla faccia dell’uomo mentre risponde: «Ha funzionato per Enrico Mattei, no?»
*
189
Poteva rappresentare davvero la svolta, la ragazza giusta. Lavorava in uno studio notarile e aveva perfino un
nome normale che non storpiava: Camilla.
Sebastiani l’aveva portata a cena in un ristorante toscano di via Panfilo Castaldi. Buon vino, cibo discreto e atmosfera rilassata. Usciti dal locale le aveva proposto maliziosamente di rilassarsi a casa sua. Aveva detto proprio
così e la tipa, con le lunghissime gambe accavallate, sulla
pelle del sedile dell’Alfa 156 aveva arricciato le labbra.
Il suo musino da cerbiatta si era incupito.
«A quest’ora?» aveva squittito. «Ma non mi porti a ballare?»
Sebastiani aveva fatto il conto: non andava a ballare dal
1992, quando avevano arrestato tutte quelle persone per
Tangentopoli. Anche se a ben vedere non era nemmeno
una discoteca ma un locale dove la gente brindava alla caduta della prima repubblica. Che ingenui.
Loris tuttavia aveva preferito non discutere. Non ce
n’era motivo. E Camilla si era così ritrovata alla fermata
dei taxi di porta Venezia. Sola, indignata e inferocita.
«Non c’è chimica fra noi» si era giustificato lui ingranando la prima.
Stamattina è arrivato in ufficio all’alba. Ha dormito male, nonostante la cura di Pampero cui si era sottoposto
mentre alla tv Svizzera trasmettevano un documentario
sulle otarie.
Si è appena lasciato cadere sulla sua poltrona quando
Lonigro compare davanti a lui.
«Non ci crederà» annuncia.
Sebastiani si limita alla solita, annoiata, rotazione di toscanello. Alla sua età, e con tutta la sua esperienza, non si
entusiasma più di niente. Quanto a credere, be’, non è un
faccenda che faccia per lui.
190
«Stupiscimi, ispettore.»
Lonigro porge al superiore una cartelletta con dentro
un paio di fogli.
«La pistola che ha ammazzato Molinari è nel nostro database. Si tratta di una Glock.»
«Da quanto?»
«Parecchio tempo. Sedici anni. Pare sia stata utilizzata
per ammazzare un giovane.»
«Qui a Milano?»
«No, a Padova.»
«Chi era questo tizio?»
«Uno studente universitario.»
«Come il nostro.»
«Esatto. E le analogie non sono finite. Guardi qui, mi
sono procurato la segnaletica della vittima di Padova.»
Sebastiani osserva la fotografia lasciandosi andare sullo
schienale.
Il toscanello compie un’andata e ritorno completa da
un’estremità all’altra della bocca.
«Ogni tanto scompaiono, ogni tanto riappaiono con un
proiettile in testa. Secondo te si tratta sempre della nostra
Mantide, sulla piazza da così tanto tempo?»
«I testimoni dicono che sia sui trentacinque, quindi è
plausibile, anche se avrebbe dovuto cominciare molto giovane...»
Sebastiani annuisce distrattamente, non riesce a staccare gli occhi dalla foto che tiene fra le mani. Legge il nome:
Mattia Schiavon.
«Assomiglia parecchio a Molinari, non trova?»
«Troppo, direi» sbuffa il vicequestore.
«Una bella coincidenza.»
«Ho smesso di credere alle coincidenze dopo che quel­
l’anar­chi­co “è stato suicidato” proprio qui da noi... Con-
191
tatta la questura di Padova e cerca di capire chi ha condotto le indagini. Voglio sapere tutto su questo caso.»
*
Ognuno vive il dolore a modo suo. In silenzio. Magari
piangendo. Oppure sfogliando vecchie fotografie, abbuffandosi, ubriacandosi...
Io non ce la faccio a struggermi e piangere. Devo tenermi impegnato, attivo. E questo Fabio non me lo perdona.
«Mentre eri fuori hanno chiamato i genitori di Paolo.
Sono distrutti, poverini. La madre non riusciva quasi a
parlare. Il padre mi ha detto che oggi manderanno qualcuno a ritirare la sua roba.»
«Chi sei, il mio segretario?»
«Non riesci non dico a non essere carogna, questo non
te lo posso chiedere, ma perlomeno a fingere di essere civile in momenti come questi?»
Alzo le mani.
«Scusa, è che dopo sei ore chiuso in una biblioteca
pubblica divento piuttosto intrattabile. Mi ricorda il periodo in cui scrivevo la mia tesi di laurea: ho odiato tutte
quelle ricerche. Ho masticato così tanta polvere che ho
rischiato di beccarmi la tisi...»
«Non si prende la tisi con la polvere!»
«Era una metafora.»
«Oh, scusa, poeta. Io vado in camera mia. Che c’è per
cena?»
«Fabio, sono sfinito: non possiamo scongelare una
pizza?»
«Sarebbe la terza sera di fila: non rientra nel nostro patto.»
Abbasso la testa, sconfitto.
192
«D’accordo: finiamo quel grosso grasso pezzo di ’nduja
che hai portato su dalla CalAfrica, ok?»
«Va bene, ma stasera spaghetti.»
Ecco come trattano la servitù in questo secolo! Tutto per
qualche misera nozione informatica. Che ancora non ho saputo mettere a frutto come vorrei. Certo, ho imparato molto, questo è innegabile. Fabio è una piattola ma anche un
gran maestro nerd. Allo stato attuale della mia preparazione
mi sento più o meno come Skywalker ne Il ritorno dello Jedi
quando affronta Darth Vader per la prima volta...
Nonostante questo, non ho trovato il coraggio di rimettermi all’opera col blog. Mi sento ancora vulnerabile
dopo la faccenda del simbolo. So che quella è una partita
aperta che dovrò riprendere un giorno o l’altro. Per ora
preferisco studiare e dedicarmi alla ricerca dell’assassino
di Paolo.
Dopo le statistiche recuperate in rete oggi sono stato
alla Sormani, la più grande e gloriosa biblioteca di Milano, per ricerche di tipo “tradizionale”. Giornali, riviste,
libri. Sul taccuino mi sono appuntato dei nomi e delle
date che riguardano altri casi di ragazzi scomparsi qui a
Milano. Tre nel corso dello scorso anno. Prima di Paolo
Molinari, infatti, c’è stato Davide Mari, sparito a Capodanno dopo che è stato visto per l’ultima volta con una
mora avvenente. In precedenza era toccato a un ragazzo
di Imola, Ivan Gasparini, i primi di novembre. La famiglia aveva aspettato un po’ prima di dare l’allarme perché
i genitori erano all’estero. Appena tornati avevano cercato in tutti i modi di rintracciare il figlio che viveva da solo
in un monolocale sui Navigli, ma senza esito, così avevano
dato l’allarme.
Il primo era stato Giorgio Conti, sparito il primo di giugno; uno studente di Vercelli che frequentava la Cattolica.
193
La faccenda stuzzica la mia curiosità; se lavorassi per
uno di quei giornali a cui ho lasciato il curriculum questa
notizia la cavalcherei eccome! C’è il mistero, c’è una serial killer che opera proprio qui in centro a Milano e che
in tre casi su quattro – a quanto ne sappiamo – ha sedotto e ucciso dei giovani ragazzi facendone scomparire i
cadaveri. Nel quarto caso, quello di Paolo, forse qualcosa non ha funzionato come al solito, lui ha capito ed è
fuggito ma lei non poteva tollerare di lasciare un testimone a piede libero.
Questa ipotesi porta a una sola conclusione: la tana della donna deve essere per forza vicino a piazzale Corvetto,
visto che Paolo mai si sarebbe mosso a piedi.
Vedo già il titolo a cinque colonne: “La Mantide di Corvetto”.
Anzi, forse dovrei riprendere il blog proprio con questo pezzo.
Ci rimugino mentre, seguendo i miei pensieri, entro in
camera di Molinari. Come un detective di quelle serie
americane cerco un dettaglio, un suggerimento che mi aiuti a capire quello che gli è successo.
Spalanco l’armadio e vengo colto da una sorta di folgorazione.
Prendo una delle sue giacche di velluto e la indosso: se
voglio capire chi era davvero il mio amico devo comportarmi come lui. Essere lui. Vestire come lui.
Confesso che mi faccio prendere un po’ la mano. In
qualche minuto tutto il suo guardaroba è sparso sul letto
e io, in mutande, provo compulsivamente ogni capo d’abbigliamento.
Una giacca di velluto, calda ed elegante, così posso finalmente gettare nell’immondizia la mia vecchia giubba
arancione da Charlie Brown!
194
Mi sento una iena ma non posso farne a meno; ormai
ho preso il via.
Dopo le giacche passo alle camicie – le Brooks Brothers classiche; le Kenzo con fantasie strane non le sfioro
nemmeno! – da portare rigorosamente fuori dai pantaloni. Mi stanno da Dio: tutte azzurre o comunque con tinte
molto sobrie. Poi i jeans: Levi’s, Calvin Klein ed Emporio Armani. Mi vanno un po’ larghi ma con la cintura
stanno su senza cadere. Infine le Clarks: ne ha quattro
paia, visto che le adorava. E siccome le adoro anch’io e
portiamo lo stesso numero, il 43, be’... Tanto a lui non
servono più, giusto?
Ultimo tocco, gli occhiali da vista. Lascio perdere il mio
vecchio modello di metallo color oro e inforco i suoi, RayBan Wayfarer. Perfetti. Mi danno quell’aria da JFK che
non guasta per un giornalista ficcanaso. Farò cambiare le
lenti e mi staranno a pennello.
Così conciato mi osservo nel grande specchio – pure
questo lo porterò nella mia stanza – che mi riflette a figura
intera: un devoto discepolo dello stile di Molinari.
La metamorfosi è compiuta. Mi rimiro soddisfatto: del
ragazzo di provincia arrivato dalla Bassa non c’è quasi più
traccia. Ora ho uno stile, una personalità che si sgretola
come sabbia del mare contro l’onda quando nella stanza
entra una ragazza alta e slanciata che mi guarda come fossi un alieno prima di sbottare: «E tu cosa ci fai con addosso gli abiti di mio fratello?»
Quasi svengo.
«Chi?»
«Enrico, ti presento Margot, la sorella di Paolo.»
Fabio mi osserva imbarazzato. Scuote la testa rosso di
vergogna. E pure io mi sento un completo idiota con indosso i vestiti di Molinari. Sembro un avvoltoio che ap-
195
profitta del cadavere ancora fresco. Mi vergognerei come
un ladro se la ragazza non mi elargisse un sorriso.
«Ti stanno bene, comunque.»
Dall’espressione capisco che non lo dice per farmi sentire un verme spregevole o condannarmi. È una semplice
constatazione.
«Grazie.»
Le porgo la mano ancora in imbarazzo.
«Bel nome Margot, mi piace.»
«Mi prendi in giro?»
«No, è come la fidanzata di Lupin.»
«Ah, volevo ben dire. Siete tutti fini intellettuali in questa casa, eh?»
Fabio ormai è fucsia.
«Lascialo perdere. Scherza.»
«Invece sono serio: Margot è un nome bellissimo. Mi
ricorda la mia adolescenza che, fra parentesi, non è ancora
conclusa.»
Lei ride.
«Allora saprai che Margot è la variante francese di Margherita. Un’idea di mia madre, sapete, lei è parigina. Il nome proviene dal greco Margaritès o dal persiano Marvarid
e vuol dire perla.»
«Raccontata così, in effetti, fa tutto un altro effetto»
ammetto.
«Già» conferma Fabio cercando di recuperare. «Non
certamente quella fesseria sui cartoni animati.»
A questo punto cade il silenzio e rimaniamo tutti lì un
po’ in imbarazzo. Io più di tutti visto come sono conciato.
Così affondo le mani nelle tasche della giacca, dove trovo
un pacchetto di tabacco da rollare. Quello profumatissimo di Molinari. Francese. Lo annuso e mi inebrio. Sa di
cioccolato.
196
Margot nota il gesto.
«Buono, vero? Paolo lo adorava. Lo faceva arrivare apposta dalla Francia; glielo mandava mio zio una volta al
mese col corriere espresso. Sei capace di rollare?»
«Sì» balbetto. In questo appartamento ci siamo fumati
più canne che in un coffee shop di Amsterdam. E questo
tabacco, manco a farlo apposta, si chiama Amsterdammer.
«Me ne prepareresti una?»
«Certo. Vieni, andiamo sul balcone: Fabio non vuole che
si fumi in casa! Paolo aveva predisposto un bel dehors...»
E non solo. Aveva praticamente creato un angolo romantico su quel terrazzino che affaccia sul cortile interno
del palazzo: lo usava come preliminare con le ragazze.
Completo di un tavolinetto basso con sopra una candela
profumata, un posacenere di design e un tappeto verde
con due cuscini per sedersi.
Preparo due sigarette e ne porgo una a Margot. Non è
che ci sentiamo proprio a nostro agio in questa dépendance precoito allestita da suo fratello ma ci adattiamo.
«Tu cosa fai, studi? Lavori con tuo padre? Sai, Paolo
non ci ha parlato molto di te...»
Sentendo il nome del fratello il bel viso di Margot ha
una contrazione e una lacrima le corre veloce lungo una
guancia. Però si ricompone subito. Deve essere una ragazza tosta.
«Sto frequentando un master in Business Administration
a Londra. Ha insistito mio padre: sai, lui ha una fabbrica
metalmeccanica che commercia con tutto il mondo e voleva
che noi figli un giorno ne prendessimo in mano le redini...»
Ora piange e io, sempre più in imbarazzato, le porgo un
fazzoletto di carta. Lei si asciuga il viso.
Per un po’ nessuno parla finché Margot rompe il silenzio.
«Oggi comincio a impacchettare e domani porterò via
197
tutto, ok? Ho prenotato un hotel qui vicino, giuro che non
vi disturberò.»
«Oh, ma è un piacere averti qui.»
«Bugiardo. Ho visto la faccia di Fabio.»
«I nerd non sono fatti per stare vicino alle belle ragazze.»
«Ah no?» ride lei.
«No, i loro processi mentali vanno in tilt. Si surriscaldano. Come un computer che frigge. Brutta cosa.»
«E tu invece, Enrico, sei fatto per stare vicino alle fanciulle?»
«Scherzi? Noi giornalisti viviamo di rapporti umani.»
«Quindi lavori per un quotidiano, un settimanale?»
«Be’, non proprio. Ho un blog.»
«Ah.»
In quel sospiro intuisco tutta la sua delusione. Starà
pensando che sono solo un millantatore frustrato che siccome non ha uno straccio d’impiego finge di lavorare scrivendo articoli esclusivi su un blog. Che allo stato attuale è
pure inattivo. Forse ha ragione lei. Sto fallendo la mia scalata al successo. Al solo pensiero mi sale una depressione
micidiale. Margot deve intuirlo. Schiaccia il tabacco incandescente nel posacenere e si alza.
«Mi ha fatto piacere conoscerti, Enrico, ma ora devo
andare. Sistemo un po’ di roba e poi vado a dormire. Sono
esausta.»
Ha l’aria sfinita, in effetti. Saputa la notizia deve aver
dormito davvero poco.
«Come preferisci. Ti serve una mano?»
«No grazie, preferirei rimanere da sola nella stanza di
mio fratello.»
Annuisco e me ne vado col morale sotto le scarpe.
Mi chiudo in camera e mi metto al computer. Per rilassarmi mi preparo un’altra arrotolata di Amsterdammer e
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mi concentro sul mio rancore. Non so se è sano però mi
aiuta. Come L’avvelenata di Guccini, di cui ho pure una
vecchia cassetta. La infilo nel walkman e l’ascolto a nastro
mentre fumo.
Nella raccolta c’è anche A muso duro di Bertoli. Canalizzare l’odio verso l’avversario per cavarne qualcosa di
buono, ecco come faccio.
Il mio è tutto rivolto verso la carogna che mi ha hackerato il blog. Oscurandomelo mi ha levato la dignità. E per
rendermene conto c’è voluto il sospiro imbarazzato di una
ragazza. Mi ha lasciato senza nulla, svuotato. Il tempo
dell’incertezza però è finito. Ora ho la preparazione necessaria per affrontarlo, per confrontarmi con lui.
Fabio mi ha ribadito fino alla noia che l’hacking è una
sfida all’intelligenza altrui.
Gli ingegneri del software studiano i metodi per codificare e nascondere certe funzioni mentre gli altri utilizzando tecniche e astuzie, a volte allucinanti, per smascherarli
cercando di ricreare gli algoritmi di codifica. Tante sono le
conoscenze che bisogna possedere per non perdersi in
questo labirinto. Ma se non hai il coraggio di entrare nel
labirinto, prima o poi il Minotauro uscirà a cercarti.
Ecco, il mio nemico si chiamerà Minotauro ed è venuto
il momento di mettermi sulle sue tracce. Di sfidarlo a viso
aperto. Ho abbastanza tabacco per seguire il filo d’Arianna che, bene o male, ha lasciato lui. L’ha fatto passare per
mezzo mondo, rimbalzare dall’Indonesia al Messico, dal
Sudafrica alla Polinesia. Ma io ho la pazienza e la determinazione per inseguirlo.
All’una del mattino arrivo al penultimo tassello. L’ho
tracciato per tutto il globo ma ora ci siamo: Lione. Da lì
manca solo un passo e lo compio. Non è una sorpresa:
l’attacco è partito da Milano. Ora lo so. L’IP, vale a dire
199
l’indirizzo di casa del Minotauro, è una multinazionale che
ha sede in un palazzone di vetro vicino alla stazione Garibaldi. Una di quelle società di servizi dove si affannano
frenetiche qualche migliaio di formichine digitali. Resta
solo da individuare da quale computer specifico sia stato
lanciato l’assalto al mio sito per poi risalire all’autore materiale dello stesso.
Per farlo occorreranno ulteriori accorgimenti. Nel frattempo riattivo il mio blog Milanonera pubblicando un paio
di pezzi sulla scomparsa di Paolo Molinari e sulle inquietanti statistiche dei ragazzi scomparsi. Ma non basta ancora per
stanare il mio nemico. Ripristino anche i post precedenti
– dei riassunti o poco più, visto che gli originali sono andati
perduti – riguardo al delitto dell’avvocato Sommese. Pubblico anche la foto del reo confesso e getto il boccone avvelenato: il simbolo disegnato col sangue. Non da solo, però:
stavolta gli allego un ricordino invisibile.
Un’esca per far cadere il pesce nella rete, quello che i
nerd chiamano – eccitandosi per l’assonanza col nome – un
trojan. Un programma spia che lo condurrà dritto da me.
Il Minotauro ha i giorni contati.
*
Sull’armadio di metallo dell’ufficio di Sebastiani sono
attaccate con lo scotch e ben allineate quattro fotografie e
un identikit: quello della Mantide assassina.
Il vicequestore le osserva perplesso. Un’indagine quando s’incaglia deve ripartire dall’inizio. Dal ragionamento.
Dal delineare un quadro complessivo in cui ascriverla.
Osserva i volti dei ragazzi scomparsi negli ultimi dieci
mesi: Giorgio Conti, Ivan Gasparini, Davide Mari.
L’ultimo è quello di Paolo Molinari. Anche lui rimor-
200
chiato in un bar dalla Mantide, solo che, al contrario degli
altri, è ricomparso in piazzale Corvetto. Con una pallottola piantata nella nuca.
Il toscanello che ha fra le labbra compie un’andata e
ritorno completa da un’estremità all’altra della bocca. Solo quando Lonigro tossisce debolmente nota la sua presenza nella stanza.
«Da quanto sei lì?»
«Abbastanza da capire che era troppo concentrato per
disturbarla.»
«Cos’hai in mano?»
L’ispettore prende lo scotch e attacca accanto a quella
di Molinari una quinta immagine.
«L’hanno appena mandata dalla questura di Padova.
Questo è il ragazzo ucciso con la stessa pistola che ha sparato a Molinari.»
«Come l’hanno avuta?»
«Era nel suo fascicolo. All’epoca dei fatti, l’avevano
portata i genitori alla polizia, per aiutare le ricerche.»
Sebastiani si alza in piedi e si avvicina.
«Incredibile.»
La foto è molto diversa da quella segnaletica in loro
possesso. Questa è a colori e il ragazzo sorride. Dietro c’è
una libreria e lui indossa una camicia bianca.
«Strabiliante la somiglianza con Molinari, vero?»
«Strabiliante la somiglianza fra tutti» conferma Sebastiani. «Ragazzi mori, sulla ventina, bellocci e con gli occhi
scuri.»
Il sigaro è ormai ridotto a tabacco masticato quando il
vicequestore sentenzia: «Caro Lonigro, direi che abbiamo
individuato uno schema.»
*
201
I milanesi la chiamano porta Cicca.
Spengo il Giallone e la osservo. Porta Ticinese, affacciata sulla Darsena.
Questa città è una sorpresa continua. Se penso che Leonardo con le sue vie d’acqua ne aveva fatto una piccola
Venezia e che poi qualche pazzo ha interrato tutti i navigli
perché potessero passare le auto, non mi capacito. Da scelte come queste si presagisce il declino di un popolo. Cementificare i fiumi per farci passare sopra degli stronzi su
quattro ruote.
Stamattina ho provato a riprendere le ricerche sui giornali nell’emeroteca della Sormani ma mi si chiudevano gli
occhi per via del poco sonno della notte scorsa, così sono
uscito per farmi un giro in Vespa.
Da queste parti c’è un chiosco di una pescheria che
vende cartocci di pesce fritto. Il profumo non ti dà scampo, lo devi prendere. Cedo alla tentazione.
La giornata è tiepida così mi siedo sul bordo della Darsena a mangiare. Sto per stappare una lattina di birra
quando il Motorola inizia a squillare.
«Hai riattivato il blog, bravo!»
«Mi chiami per questo, Fabio?»
«Ti pare poco? Ero davanti al PC e ho visto le statistiche. Sai, mi arrivano in automatico. Dopo gli zeri dei giorni scorsi oggi quasi mi piglia un colpo.»
Il maledetto nerd ha ottenuto la mia attenzione.
«Quanti?»
«Trecento visitatori unici in dieci ore. Cosa diavolo hai
postato, delle donne nude?»
«Trecento? Non ci credo. Ho scritto un paio di articoli
sull’omicidio di Paolo. E riciclato qualche pezzo del vecchio archivio.»
«Così ti sei rimesso in carreggiata.»
202
«Era ora, no?»
Lo sento battere sui tasti.
«Oh, ma ti sei pure lanciato: hai ripubblicato anche il
simbolo!»
«Sto sfidando il Minotauro a riprovarci. Stavolta però
ho preso le contromisure.»
«Vuoi dir...»
Non ha il tempo di terminare la frase: batteria kaputt.
Come sempre: il telefonino si è spento. Dovrò decidermi a
cambiarlo prima o poi.
Finisco con calma la birra e poi risalgo in sella al Giallone. Se le cose stanno andando così bene per il blog, il
Minotauro sarà già sulle mie tracce nel labirinto.
*
Si possono fare pensieri impuri sulla sorella del tuo
coinquilino morto?
Me lo chiedo quando rientro a casa e mi ritrovo davanti Margot. Indossa dei mirabolanti shorts rosa da cui spuntano due gambe lunghe e slanciate. I capelli neri sono legati in una lunga coda e la t-shirt stretta ne fa risaltare il
seno. Suda e sorride.
Sì, si possono fare. Ne ho appena immaginati un’ottantina di fila.
«Ciao Enrico!»
«Ciao ti serve aiuto?»
La vedo circondata da scatole e valigie. La roba del fratello defunto.
«No, ho già praticamente finito. Però questi li puoi
prendere.»
Mi indica una pila di vestiti piegati con cura sul letto.
«Scherzi? Ieri facevo solo il cretino.»
203
«No, davvero. Stanno meglio a te. Noi li daremmo alla
Caritas o chissà, li dimenticheremmo chiusi in un armadio.»
«Grazie ma...»
«Ho visto come li bramavi. Non è un problema, davvero.»
Vorrei abbracciarla, o baciarla o quell’altra cosa ma dal
corridoio spunta Fabio che si offre a sua volta di aiutarla.
Siamo cavalieri noi ragazzi di provincia.
Finisce che Margot lascia anche il PC di Paolo, il maxischermo e un sacco di altra roba hightech a Fabio. Dobbiamo farle davvero pena.
«A casa nostra abbiamo già abbastanza tv e computer.
Non sapremmo dove metterli e finirebbero in un ripostiglio a prendere polvere...»
Il mio coinquilino la guarda, intuisco, con lo stesso tipo
di pensieri che ronzano in testa a me; perdonaci, Paolo.
«Ho anch’io un favore da chiedervi, ragazzi.»
«Tutto quello che vuoi.»
Lei arrossisce.
«Non esagerare, Enrico.»
Mi mordo la lingua.
«Chiedi e ti sarà dato.»
«Siccome ho fatto tardi non me la sento di mettermi in
macchina stanotte. Però l’hotel l’avevo prenotato solo per
ieri. Posso stare qui da voi?»
«Ma certo!»
«Sarà un piacere.»
«Enrico, non è che...»
Dormire insieme? Darci dentro come ricci fino all’alba?
«Che?»
«Be’, non mi va di dormire nel letto di mio fratello sapendo che... Capisci?»
«Nessun problema: puoi dormire con me.»
204
«Eh?»
Ma come mi viene una cazzata del genere? Lei in lutto
e io arrapato come un facocero...
«Cioè, voglio dire: puoi dormire da me, nella mia stanza, io mi sistemerò qui da Paolo.»
«Sei un tesoro.»
Già, un tesoro. E un coglione.
Le sorrido e mi avvio con la coda fra le gambe nella
stanza del morto.
La notte la trascorro seduto nel salottino sul balcone. Il
portatile sulle ginocchia e un’arrotolata via l’altra fra le labbra. Ancora non ci credo: cinquecento accessi nelle ultime
ventiquattro ore. Solo il simbolo insanguinato ha avuto trentadue visualizzazioni. Trentadue trojan spediti. Ora aspetto
di sapere quale fra questi fortunati sia il Minotauro.
*
Il mattino seguente mi sveglio presto. Non è il mio letto
e poi sapere che Margot è a un passo mi ha regalato scorci
di sogni erotici inimmaginabili: a ogni piccolo rumore me la
figuravo che entrava nuda nella stanza per supplicarmi di...
La caffettiera sta borbottando, quando me la trovo davanti. In pigiama ma sempre bellissima.
«Buongiorno.»
«Buongiorno, principessa. Vuoi del caffè?»
Mi esce così. Da decerebrato totale quale sono. Come
in quel film di Benigni che ha vinto l’Oscar.
Lei annuisce e sorride. Un sorriso largo, sincero. Anche
se in fondo agli occhi cova una grande tristezza. Sono arrossati, deve aver pianto. E anche il bel viso è provato e io
mi sento un verme per aver pensato a qualcosa di diverso
dal lutto che sta vivendo.
205
Verso il caffè e le porgo una tazzina.
«Ho ripreso col blog, sai?»
«Cosa?»
«Il mio blog Milanonera. Ho scritto di Paolo...»
Lei si rabbuia. Che diavolo mi è saltato in mente?
Sto per scusarmi quando il Motorola inizia a squillare.
Lo maledico ma non posso sperare che cada la linea: è attaccato alla corrente col caricabatterie.
«Pronto?»
«Sei bravo. Non mi ero sbagliato!»
La voce è quella di Guarneri. Ormai la riconosco.
«L’aveva detto anche mesi fa e poi non mi ha assunto.»
«Non potevo, però da un po’ di tempo leggo quello che
scrivi su quel tuo blog. E ribadisco: sei bravo. Anche con
l’indagine sul tuo coinquilino.»
«Grazie.»
«Ti chiamo per farti una proposta, però non saltare sulla sedia, non ho cambiato idea.»
«Mi dica.»
«Ho un vecchio amico, Rino Parodi, che da un anno è
diventato direttore di un quotidiano locale, Milano (e hinterland) Oggi, lo conosci?»
«Mai sentito.»
«Be’, ha una tiratura modesta ma è distribuito in tutta
la città e anche nei comuni limitrofi. Gli ho parlato di te
ora e sarebbe felice di averti come collaboratore sul campo. Vedi, la redazione – che poi sono in tre compreso lui –
è piuttosto âgé e non si muovono. Hanno bisogno di un
cronista come te. Un segugio. Avresti tutto lo spazio che
desideri: anche una pagina intera se la notizia che porti è
buona.»
Certo, e poi la fatina dei denti mi lascerà un milione di
euro sotto al cuscino.
206
«Dove sta la fregatura?»
«Niente compenso. Sai...»
«... alla mia età devo farmi le ossa, eccetera. Conosco la
canzone.»
«Io te l’ho detto. Secondo me è una buona occasione.
Siamo qui al bar insieme, se vuoi te lo passo così fate due
chiacchiere.»
Le iene non si mordono fra loro, si coalizzano.
«Sì, grazie, me lo passi.»
Sento vari fruscii poi una voce baritonale.
«Caro Radeschi, che piacere conoscerti.»
«Altrettanto.»
«Guarneri ti ha spiegato le condizioni?»
«Più o meno.»
«Tu mandi le proposte, noi le valutiamo e se ci piacciono
le pubblichiamo. Ma non paghiamo. Siamo d’accordo?»
Stronzo sfruttatore.
«Posso pensarci?»
«Se tu ci pensi noi passiamo al prossimo della lista.»
«Avete una lista?»
«C’è un esercito di aspiranti giornalisti lì fuori. Allora,
cos’hai deciso?»
«Accetto.»
«Perfetto! Mi faccio dare il tuo numero da Guarneri e
domani mattina appena arrivo in redazione ti chiamo per
le prime proposte. Mi raccomando: stupiscimi.»
Forse nella Bassa non si stava poi così male, mi dico
mentre mi lascio cadere su una sedia.
«Tutto bene?» chiede Margot.
«Benissimo. A quanto pare ho un nuovo lavoro. Gratis,
però.»
Lei sorride.
«Grazie agli articoli che hai pubblicato sul blog?»
207
«Sì.»
«Il bicchiere è mezzo pieno.»
«Hai bisogno di aiuto per caricare i pacchi in auto?»
«Non osavo chiedertelo...»
«Figurati. Io e Fabio saremo ben felici di farti da sherpa. E anche qualcosa di più.»
208
13.
Le sensazioni sono tutto, sono ciò che ci fa respirare e
immaginare cosa succederà dopo.
In questi giorni, sembra che il mio fiuto da segugio di
nera mi abbia abbandonato. Non trovo notizie degne di
questo nome da pubblicare e il mio domani lo vedo sempre più a tinte fosche.
Mi sento solo senza Paolo. Lui riempiva le nostre giornate, le nostre serate, le nostre vite.
Sua sorella Margot è partita da diversi giorni.
L’ho rivista al funerale a Piacenza ma non ci siamo fermati molto a chiacchierare. Io e Fabio abbiamo pianto tutto il tempo e, dopo la funzione, siamo subito ritornati a
Milano in treno. La famiglia Molinari era distrutta e lei era
pallida e con gli occhi gonfi.
Anche i miei lo sono: non per le lacrime. Oggi ho cambiato le lenti da vista e mi devo abituare alla nuova gradazione. Fa parte della trasformazione. Di quella che mi sono autoimposta. Adesso vesto quasi solo gli abiti di Paolo.
Le giacche scure di velluto – che poi sono diventate una
sorta di divisa insieme alle Clarks blu e ai jeans – e, da
oggi, la montatura degli occhiali tipo JFK.
La cosa che più mi fa effetto è che mi sento a mio agio.
Non lo interpreto come indossare i panni di un morto ma
209
come un modo per onorarne la memoria perpetrando il
suo stile, rendendogli omaggio.
Così come fumare il suo tabacco: basta con le sigarette.
Solo arrotolate, gitane al gusto di cioccolato. In uno dei
suoi cassetti ce n’era una scorta sufficiente per qualche
mese; quando finirà m’inventerò qualcosa: magari salterò
in sella al Giallone e andrò fino al confine, a Mentone, per
rifornirmi.
Nelle tasche delle giacche, insieme alle matite e ai taccuini, conservo la macchina fotografica digitale di Molinari. Solo il cellulare è rimasto quel bidone di Motorola che
si spegne sempre, dato che l’ultimo modello in possesso di
Paolo l’ha sequestrato la polizia...
La mia giornata milanese è pigra e rilassata. Dopo un
caffè e una brioche da Pattini, lungo corso Buenos Aires,
ho fatto una passeggiata e sono appena uscito da uno di
quei negozi di carabattole a mille lire, anzi adesso a un
euro. Con l’arrivo della nuova moneta hanno fatto tutti
presto ad arrotondare. Ogni cosa costa il doppio. Una pizza la pagavi seimila lire? Ora sono sei euro. E così via.
Per quel che mi riguarda non che è mi sia svenato. Ho
comprato un accendino. Niente follie. L’avevo dimenticato
e ora finalmente posso accendermi la prima paglia hand­
made della giornata. Mi avvio per via Vitruvio verso una
storica libreria, la Lirus, per farmi consigliare un buon romanzo da leggere. Sono sempre stato persuaso che per scrivere – ogni tipo di composizione, dalla missiva all’articolo
di giornale – occorra ispirazione e tanta buona ginnastica.
E visto che ultimamente sto producendo articoli a ritmo
continuo è meglio se mi tengo in allenamento. Ho già mandato quattro pezzi al nuovo giornale Milano (e hinterland)
Oggi (che nome idiota!). Per raccontare le atmosfere cupe
e incuriosire copio dai romanzi gialli. Mi diverte farlo e
210
penso che anche ai lettori piaccia: arricchire la cronaca con
un pizzico di letteratura non può che far bene a tutti.
Con questo metodo ho raccontato anche degli altri ragazzi scomparsi; ne è venuto fuori un dossier online che
tengo costantemente aggiornato. Storie tutto sommato simili a quelle del mio amico su cui, però, la polizia sembra
non progredire molto. Così io continuo la mia personale
indagine. Gratis, visto che il giornale non paga un euro
ma, perlomeno, mi pubblica gli articoli integralmente,
senza cambiare nemmeno una virgola. Questo mi fa da
megafono: hanno quindicimila lettori, a cui se ne aggiungono qualche migliaio su Milanonera.
Servirà a qualcosa? Non so, ma siccome non ho alternative per ora me lo faccio andar bene.
Getto il mozzicone in un tombino quando sento un
botto fortissimo, quasi sopra la mia testa.
Un milione di allarmi iniziano a suonare per lo spostamento d’aria. In un attimo il marciapiede e la strada si riempiono di persone. Tutti col naso in su, increduli, sconvolti,
spaventati. C’è un grattacielo in fiamme. Non un palazzo
qualsiasi: il grattacielo Pirelli, sede della regione Lombardia
e orgoglio urbanistico della città, sta andando a fuoco.
*
Io mi ricordo dov’ero.
Penso che tutti lo sappiano. È uno di quei momenti che
rimane, a cui ripensi, a cui attribuisci un significato. Sono
passati solo sette mesi ma credo che rimarrà un’immagine
indelebile impressa nella mia mente.
Era primo pomeriggio, di martedì, e io stavo seduto
nella sala d’attesa della Gazzetta di Mantova.
Il giorno prima ero stato a Milano a ritirare il tesserino da
211
pubblicista che volevo mostrare al direttore. Cosa mi aspettassi esattamente da quell’incontro non lo so: l’avrebbe
guardato con malcelata compiacenza? Si sarebbe complimentato e mi avrebbe assunto? «Ormai fai parte della squadra» avrebbe detto, «scegli pure la scrivania che preferisci.»
Non era andata così. Non ero nemmeno arrivato a mettere piede nell’ufficio. La tv appesa al muro di fronte alla
reception aveva cominciato a mostrare il World Trade
Center in fiamme. Prima uno, poi un altro aereo si erano
schiantati contro le torri.
Da quel momento la sonnolenta redazione si era svegliata. Un brulicare di voci, telefoni, volti trafelati. Io mi ero
alzato ed ero uscito. Sconvolto per quello che avevo visto:
gente che si buttava dalle finestre per non morire fra le
fiamme o per i fumi dell’incendio che si era sprigionato. Gli
uomini sanno uccidere e terrorizzare. Questo li distingue
dagli animali: nessuna altra specie stermina i propri simili.
Adesso, guardando il fumo che sale nero dal grattacielo
Pirelli, mi coglie quella stessa sensazione di malessere, mi
si stringono lo stomaco e la gola.
«Sono arrivati anche da noi. Al Qaeda è qui per punirci!» strilla una donna fra le lacrime.
Panico generale. Clacson che urlano, sirene impazzite. Le
strade si sono improvvisamente riempite di automobili: tutti
stanno tornando a casa. Dai proprio cari. Tutti telefonano
per sapere se stanno bene. Qualcuno dice che sia stato un
aereo a schiantarsi contro uno dei piani alti del grattacielo.
«Proprio come a New York!»
«E se crolla?» chiede una signora coi capelli bianchi.
«Non crolla» la tranquillizza un uomo. «L’han fatto di
cemento armato, quel bestione.»
Anche le due torri gemelle erano di cemento armato,
penso. Ma sono troppo agitato per impelagarmi in una di-
212
scussione da uomo qualunque con una folla di persone in
preda al panico. Siamo tutti col fiato in gola, tutti pensiamo la stessa cosa: i terroristi hanno colpito a Milano.
Oggi è il nostro undici settembre.
Percorro come in trance le poche centinaia di metri che
mi separano dal piazzale antistante la stazione centrale, ai
piedi del grattacielo.
Da lì il paesaggio è ancora più desolante. Ci sono fogli
che volano ovunque; una montagna di carta che cade come pioggia su piazza Duca d’Aosta.
Alzo lo sguardo e osservo la lamiera contorta della struttura al ventiseiesimo piano che sputa fiamme e fumo nerissimo. Ci sono gli elicotteri che volano intorno al palazzo, gli
automezzi dei vigili del fuoco che arrivano da tutte le direzioni, le volanti delle polizia e il pianto di tante persone,
intorno a me, che osservano quel disastro col naso all’insù.
Il cellulare che squilla mi riporta alla realtà. Milano. Italia. Primavera 2002.
«Un aereo si è schiantato contro il Pirellone! Dimmi
che stai bene!»
Il mio Motorola funziona alla perfezione. Un mezzo
miracolo visto i capricci che fa sempre con la batteria.
«Sì, mamma, sto bene.»
«Oh, meno male. Ho avuto così tanta paura...»
Mi racconta che tutte le reti televisive stanno trasmettendo le immagini del grattacielo in fiamme. Ci sono un
sacco di ipotesi sul tappeto; oltre all’attentato alcuni pensano che il pilota abbia voluto suicidarsi e altre fantasie del
genere. Qualunque sia stata la dinamica dell’incidente – se
di questo si tratta – la strategia dei terroristi ha comunque
funzionato, non ci sono dubbi. In qualsiasi luogo tu ti trovi, dopo la caduta delle torri gemelle, ti senti in pericolo. Il
213
mondo è improvvisamente diventato un luogo pericoloso.
Le grandi metropoli, specialmente.
«Ho avuto paura che fosse Bin Laden!» sospira mia
madre. «Tu dove sei ora?»
«A casa» mento. «Sono appena entrato. Ora mi tolgo le
scarpe e mi piazzo anch’io davanti al televisore.»
«Bravo. Stai dentro che la città...»
«..l’è na bruta bestia. Sì, lo so, mamma. Stai tranquilla.»
Riattacco ma subito il cellulare riprende a squillare. Incredibile.
«Pronto.»
«Sei vivo allora!»
Ora vorrei non esserlo. Perché quella voce è un ritorno
al passato devastante. Come cadere nel vuoto gettandosi
dalla Madonnina.
«Sei ancora lì?»
«Sì, sì. Ciao Cristina. Come stai?»
«Balbetti ora? Non ti aspettavi questa chiamata. Lo
so. Ma mi sono preoccupata a vedere quella cosa terribile in tv...»
La cosa terribile è che non so cosa dire. Mi sento un
idiota. Abulico. Del resto, il tuo primo grande amore non
lo scordi mai. Cerchi di sostituirlo, di rimpiazzarlo ma te
lo ricorderai sempre.
«Stai bene, Enrico?»
«Sì.»
«Fai sempre quello che cerca la grande storia da scrivere?»
«Più o meno.»
Sono un conversatore nato, non c’è che dire.
«Bravo, non mollare. Mi manchi.»
Riaggancia. Lasciandomi più bruciato del palazzo che
ho davanti.
214
Mi frugo in tasca e cerco l’iPod. Ho bisogno di una
canzone di Paolo Conte. Il suo Paolo Conte, il nostro cantante. Blue Tango era la canzone mia e di Cristina circa un
millennio fa.
Sto per premere PLAY quando il maledetto cellulare
squilla di nuovo.
Numero che non ho in rubrica. Rispondo scocciato con
una frase, ormai, di rito.
«Sto bene, sì. Non sono schiattato.»
«Scusa, volevo solo sapere...»
«Margot?»
«Ero preoccupata per te, così mi sono fatta dare il tuo
numero da Fabio e...»
«Preoccupata per me?»
Dio, ti ringrazio che aiuti anche gli sfigati imbranati!
«Sto bene, grazie.»
«Ho provato a chiamarti diverse volte ma dava sempre
occupato.»
«Lavoro» mento. Inutile raccontarle della mia ex.
«È terribile quello che è successo.»
Il cuore mi batte a mille e sono piuttosto frastornato.
Successo? Ah, già il Pirellone...
Entro subito nella parte.
«Terribile, sì. Sono già nei paraggi per documentare
tutto con delle foto e poi scrivere un pezzo.»
«Sei coraggioso, Radeschi.»
Oh, non sai quanto, bambina. Se poi trovassi il coraggio d’invitarti a uscire sarei davvero un cuor di leone.
«Non è niente. Tu piuttosto come te la passi?»
«Qui a casa c’è un clima pesante. Non mi va di ritornare a Londra così presto, non riuscirei a concentrami. Non
è che per qualche giorno posso venire a stare da voi? Mi
farebbe bene distrarmi. Magari una sera mi porti fuori...»
215
Nella mia testa risuona Hallelujah di Jeff Buckley a tutto volume.
«Ma certo! La mia camera è tua. Anzi, mi casa es tu casa.»
Sorrido mentre riattacco. Poi mi rendo conto di aver
appena pronunciato le stesse parole che avevo detto a suo
fratello: mi casa es tu casa. Mi sale l’angoscia. Sollevo lo
sguardo al cielo e alla vista del fumo sul Pirellone mi sento
meno di zero.
*
Di avvenimenti terribili Loris Sebastiani ne aveva visti
parecchi in vita sua ma mai come quello. Due donne morte oltre al pilota del piccolo velivolo, un Rockwell Commander. Una settantina di feriti.
«Per fortuna non sembra terrorismo» riferisce al telefono al questore.
Si sono già sentiti quattro volte e a lui ci sono voluti
quattro toscanelli, masticati uno dopo l’altro, per padroneggiare la situazione. E questo solo da quando si è potuto
togliere la mascherina che lo riparava dalle esalazioni di
fumo e di plastica bruciata.
L’odore è ancora pungente ma sopportabile. Intorno al
vicequestore c’è grande movimento: ci sono degli uomini
dello Stato, come si chiamano quelli a cui non puoi dire di
togliersi dai piedi, e poi i carabinieri, gli artificieri, i vigili
del fuoco...
Tutti quanti sul Pirellone a cercare di comprendere se è
stato solo il gesto isolato di un folle, come dicono alla tv, o
se dietro ci siano i terroristi.
Il piano è devastato. Vedendolo ora, dopo che hanno
spento il fuoco, è desolante. Un cimitero di mobili distrutti che ospita metà della carlinga dell’aereo. Alcuni pezzi
216
del velivolo hanno sfondato anche le vetrate sul lato opposto del palazzo e sono precipitati.
«Il cadavere del pilota l’avete rinvenuto?» chiede Sebastiani alla squadra che sta perlustrando palmo a palmo la
scena.
«Non proprio» ribatte uno. «Per ora abbiamo rinvenuto solo questo.»
L’uomo mostra un arto umano, la mano destra di un
uomo.
«Del pilota?»
«Riteniamo di sì, visto che era attaccata alla cloche. Il
resto del cadavere lo stiamo ricomponendo.»
«Sappiamo chi era?»
«Sì, dottore. Dalla torre di controllo di Linate ci hanno
inviato le sue credenziali: Luciano Müller, classe 1936. Imprenditore di Lugano. Era decollato da Locarno con il suo
aereo venti minuti prima dello schianto.»
«Mi faccia vedere più da vicino.»
Il tecnico solleva con cautela la busta e Sebastiani si
piega per osservare il reperto. Quasi inghiotte il sigaro per
lo stupore: sull’anulare c’è un anello, un grosso anello, che
mostra un altrettanto importante effigie.
«Non può essere...»
Anche l’ispettore capo Lonigro si avvicina per osservare.
«Ma quello è...» comincia a dire.
«Già» lo interrompe Sebastiani. «Sull’anello è raffigurato lo stesso simbolo che l’avvocato Sommese ha disegnato col proprio sangue sul selciato prima di morire.»
«Quindi non si tratta di terrorismo?»
Il vicequestore mastica il tabacco con vigore.
«No, ispettore. Qui, come già in quel caso, siamo di
fronte a un omicidio. E il mandante, mi ci gioco il distintivo, è lo stesso.»
217
14.
«Buongiorno, chiamo dalla PostalTrack per informarla
che lei è la fortunata vincitrice di un viaggio alle Maldive.
Per attribuirle il premio, però, ho bisogno di alcune informazioni. No, signora, nessuna fregatura! Ho solo necessità di verificare che lei sia davvero Marta Guadagnino, residente in viale Monza 74. Me lo conferma? Perfetto. Ed è
nata il 12 maggio del 1951, vero? Ottimo. Suo marito come si chiama? Aldo Dionigi. Benissimo. Le manderemo
un voucher per posta; risponda a qualche altra domanda
per i nostri sponsor. Ha figli? Un maschio e una femmina,
bene. Marco e Anna. Possiede anche un cane? Oh, un jack
russel, che carino. Nome? Gordon, mi sembra perfetto! E
mi dica, signora, lei ama i fiori? Adora le azalee. Be’, direi
che ho tutto quello che mi serve. Lei è stata gentilissima.
Grazie, il voucher per il viaggio alla Maldive le arriverà
per posta nel giro di un paio di giorni. Arrivederci.»
Riaggancio e faccio partire il cronometro. L’hacking
non è solo codici e numeri, è anche psicologia. E in questo
caso è sin troppo facile: in un minuto e venti trovo la password della mail della signora Marta.
Fiore preferito e data di nascita al contrario: azalea1591.
Ora posso leggere tutta la sua posta e spiarne i segreti.
Ma non lo farò. Questo era solo l’ultimo degli esercizi che
218
Fabio mi ha affibbiato per oggi: pescare a caso un utente
da un forum e scoprire tutto su di lui.
Aveva vinto la signora Marta Guadagnino con l’account: [email protected].
Il telefono che squilla mi distoglie da questa piacevole
attività.
«Sei bravo, Radeschi. Davvero. Questo pezzo che mi
hai appena mandato sul tizio che si è schiantato sul Pirellone è una vera bomba! La pelle d’oca. Giuro.»
«Quindi inizierete a pagarmi?»
Una domanda caustica ci sta a pennello dopo una sviolinata del genere. Solo che il mio interlocutore non ci sente da quell’orecchio.
«No, questo no. Ma lo sapevi fin dall’inizio.»
«Certo ma...»
«Niente ma. Fra un anno o due ne riparliamo.»
«Ma io ho delle spese, le bollette, le telefonate...»
Rino Parodi sospira nella cornetta. Immagino la sua
faccia scocciata, anche se non posso vederlo. È contrariato, quando invece dovrei essere io quello incazzato per
essere sfruttato così. Certo, potrei smettere. Ma per scrivere dove? Solo sul blog? Per guadagnare nulla anche lì...
Meglio mandare giù e rimanere a Milano (e hinterland)
Oggi – che nome idiota! – in attesa di tempi migliori.
«Che c’è, ti si è seccata la lingua, Enrico? Non mi stavi
proponendo un pezzo?»
«No, è che...»
«Va bene, va bene. Forse conosco un modo per farti
guadagnare qualcosa.»
Sarà una fregatura.
«Devo scaricare cassette al mercato ortofrutticolo?»
«No, meno faticoso. E poi non c’hai il fisico per quello.
Tu sei un intellettuale.»
219
Da come lo pronuncia Rino sembra un’offesa mortale.
«Che lavoro si offre a un intellettuale?» domando.
«Una collaborazione retribuita: una casa editrice cerca
dei lettori esperti, ti interessa?»
«Quanto esperti?»
«Che riconoscano una storia nera autentica o quantomeno credibile da una fasulla. Allora?»
«Mi interessa.»
«Ecco, bravo. Vedi che abbiamo trovato un accordo?
Ora ti metto in contatto con l’editore, prima però parliamo del tuo prossimo pezzo.»
Il ricatto, a quanto pare, è la moneta di scambio preferita di chi fa questo mestiere.
Propongo a Parodi un approfondimento sulla tragedia
del Pirellone; poi riparto all’attacco.
«Come si chiama questa casa editrice?»
«Calibro 9.»
«Niente meno?»
«Ora chiamo l’editore e ti fisso un appuntamento per
oggi pomeriggio, d’accordo? Poi non dire che non ho a
cuore i miei giornalisti.»
*
La sede della casa editrice Calibro 9 si trova al primo
piano di un palazzo anni Sessanta di via Tenca, non lontano da via San Gregorio, dove quel donnino sensibile di
Rina Fort aveva compiuto il suo massacro nel 1946. Che
sia un indizio per ciò che mi aspetta?
L’editore si chiama Carlo Giuffrida ed è un siciliano
piccoletto che fuma una sigaretta via l’altra. Appena mi
accomodo nel suo piccolo ufficio, si premura di mettere
subito le cose in chiaro.
220
«Noi pubblichiamo giallazzi che piacciono al pubblico.
Li leggono in treno, al mare, in metrò. Non vogliamo Maigret, a noi va bene così. Non cerchiamo il fenomeno ma
quello che scrive un romanzo poliziesco onesto, con tutti i
crismi.»
«Tutto chiaro.»
«Ti interessa? Aspetta, non rispondere; non hai sentito
tutto: ti daremo da leggere tre o quattro manoscritti a settimana. La cernita fra tutta la roba che ci arriva la faremo
noi. A te arriveranno quelli reputati degni di valutazione.»
«Bene, ma...»
«Vuoi sapere quanto ti pagheremo, giusto? Me l’avevano detto che sei uno attaccato ai dané.»
Ma chi, Parodi? E poi cosa sentono le mie orecchie:
questi mi vogliono addirittura pagare! Mantengo la calma
e mostro la mia migliore espressione da giocatore di poker
quando chiedo con nonchalance: «Quanto?»
«Poco. Dieci euro a manoscritto. Ma solo se redigi una
scheda di lettura.»
«Facciamo quindici?»
Giuffrida si accende la quarta sigaretta da quando sono
seduto lì, nel suo piccolo ufficio ricolmo di libri.
«Dodici e non se ne parli più. Se accetti qui ci sono già
tre manoscritti.»
Quando esco li tengo sotto braccio e sono quasi felice.
Quasi perché la felicità non si misura in lavoro. Che poi
non è un vero e proprio lavoro ma mi serve comunque per
racimolare qualcosa. Per quanto possano essere osceni i
romanzi che leggerò, sarà sicuramente più dignitoso questo che spacciare sottobanco film a luci rosse a una manica
di studenti onanisti, no?
*
221
«Ci stiamo vedendo troppo spesso ultimamente, Loris.»
«Vallo a dire alla mia ex moglie: non sai quanto sarà
gelosa!»
Il dottor Ambrosio sorride a mezza bocca. Quello è l’unico istante di relax che si sta concedendo da venti ore a
questa parte; da quando, cioè, sul suo tavolo autoptico sono arrivati i resti del pilota svizzero che si è schiantato sul
Pirellone.
Da quel momento, davanti alla porta della sala autopsie
del Labanof, si era radunato un piccolo esercito di persone. Tutti con pieno diritto di star lì a chiedere informazioni: il magistrato incaricato delle indagini, un paio di graduati in uniforme dell’Aeronautica, due figuri in abiti eleganti che parevano la caricatura degli agenti dei servizi
segreti dei telefilm americani (quindi probabilmente lo
erano), un tenente dei carabinieri e lui, Loris Sebastiani,
che seguiva il caso per la questura.
Un televisore acceso in uno degli uffici aveva appena
trasmesso un aggiornamento in diretta da piazza Duca
D’Aosta, ai piedi del grattacielo sventrato.
Tutti avevano teso le orecchie senza darlo a vedere.
...In città si respira ancora un clima da post 11 settembre ma
dagli elementi emersi, come si dice in gergo, fonti investigative
escludono che si tratti di terrorismo. La sensazione è che ci si
trovi di fronte al gesto, sconsiderato, di un singolo...
Nessuno aveva commentato, visto che chiunque poteva
aver girato l’imbeccata al giornalista. Ma non sarebbe stato comunque molto grave: lo stesso ministero degli Interni
si era premurato di far sapere, urbi et orbi, che non si trattava di Al Qaeda o di terrorismo islamico. E si era anche
raccomandato che le persone coinvolte nelle indagini si
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preoccupassero di farlo sapere a tutti per evitare una psicosi collettiva.
Così dopo che tutti, in buon ordine, erano passati a
chiedere un primo parere al medico della morgue, era finalmente giunto il turno di Sebastiani.
«Bene, Loris, ti ripeterò la lezioncina. Per la quinta
volta.»
«Se non le spiace ascolterei anch’io, così risparmia
tempo.»
Sebastiani si volta verso il nuovo venuto e lo squadra
con astio. Il toscanello ruota lentissimamente di trecentosessanta gradi.
Il tizio è sulla trentina, occhiali spessi e giacca sportiva.
Non è un militare né un poliziotto, questo lo si capisce
subito. Mostra però un tesserino.
«Mi chiamo Armando Labate e sono dell’Ansv, l’Agenzia nazionale per la sicurezza al volo. Saremo noi a stilare
il rapporto tecnico su quanto avvenuto.»
Il vicequestore gli tende la mano.
«Sono il vicequestore Loris Sebastiani e mi occupo delle indagini.»
«Piacere. Lei era sulla mia lista.»
«Quale lista?»
«Quelle delle persone a cui inviare il mio rapporto una
volta ultimato.»
«Mi fa piacere. E ora che abbiamo finito con i convenevoli, caro dottore, può dirci cosa ha scoperto?»
Ambrosio annuisce.
«Il pilota era in buona salute. Nessuna traccia di malori
improvvisi o altro. Però aveva un alto tasso di concentrazione di monossido di carbonio nel sangue.»
«Quindi c’era fumo in cabina?» chiede Labate.
«Forse. Purtroppo però si tratta ancora di risultati par-
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ziali. Per un giudizio completo, bisogna aspettare gli esiti
degli esami, e la mia relazione scritta...»
«Non prima di sessanta giorni...» lo interrompe Sebastiani. «Sì, conosco la canzone. Può darci un secondo, dottore?»
Il medico si allontana di qualche passo mentre Loris
punta il suo sigaro inquisitore dritto in faccia a Labate.
«Giù la maschera, Armando: lei non me la sta raccontando tutta.»
L’uomo aggrotta la fronte.
«Io? E perché mai?»
«La faccenda del monossido non l’ha stupita: lo sapeva già?»
«Diciamo che lo sospettavo.»
«Diciamo che condividiamo, in maniera ufficiosa e informale le nostre informazioni, d’accordo?»
«Va bene. Dopo l’incidente abbiamo acquisito le registrazioni delle comunicazioni avvenute fra il pilota e la torre di controllo di Linate, la scatola nera dell’aereo e, come
lei, siamo in attesa dei referti completi dell’autopsia.»
«Venga al punto. Cosa sospettate? Suicidio?»
«Non necessariamente.»
«Vada avanti.»
«Si tratta solo di ipotesi, d’accordo? Tutto rimane da
dimostrare.»
«Quello che dirà resterà fra noi.»
«Sospettiamo che il carrello anteriore del velivolo avesse
un problema. Quando Müller ha cercato di aprirlo si è verificato un corto circuito che ha scatenato un incendio in cabina. A questo punto, l’uomo, che non era un pilota provetto
visto che aveva già avuto altri incidenti in precedenza, sicuramente in preda al panico, ha tentato di spegnere il fuoco.»
«Come fa a dirlo?»
«Prima era solo un’ipotesi investigativa ma direi che
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l’elemento tossico nei polmoni del pilota conferma che a
bordo del Rockwell Commander, prima dell’impatto, potrebbe essere scoppiato un incendio. Inoltre, alcuni testimoni oculari sostengono di aver visto una scia di fuoco
abbattersi contro il Pirellone...»
«Perché Müller non ha cercato di virare o di atterrare?
Linate era a due passi.»
«Col carrello in avaria si sarebbe schiantato. Avrebbe
dovuto sbloccarlo a mano ma col fuoco gli è risultato impossibile.»
«E il grattacielo? Non poteva evitarlo?»
«La nostra ipotesi è che quando il pilota si è accorto di
quello che stava accadendogli forse era già troppo tardi.»
«Come è stato possibile?»
«Tanti fattori. Negligenza, impreparazione, panico... E
poi non dimentichiamo che aveva anche il sole negli occhi,
quindi può darsi che abbia visto l’ostacolo all’ultimo.»
«Lei chiama il grattacielo Pirelli l’ostacolo? Centoventisette metri di acciaio e cemento?»
Il tecnico scuote la testa.
«D’accordo. Un’ultima domanda: pensa che il carrello
sia stato sabotato?»
«Potrebbe ma se anche fosse non riusciremo mai a dimostrarlo: è andato quasi completamente distrutto nell’impatto, impossibile stabilire se fosse stato manomesso in
precedenza o se si sia trattato solo di un guasto.»
«Grazie per la collaborazione. Questo è il mio biglietto,
mi chiami se ci sono novità.»
«Senz’altro.»
Appena Labate si allontana, Sebastiani torna a rivolgersi al dottor Ambrosio.
«Scusa per l’attesa, Antonio, ma non potevo chiederti
quello che devo di fronte a quello.»
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«L’avevo capito. Dimmi tutto.»
«Secondo te gli svizzeri si deprimono? Voglio dire, nonostante la cioccolata, i caveau pieni di lingotti e il formaggio coi buchi?»
«Mi stai chiedendo se il tizio si è suicidato? Per ora, è
solo una delle ipotesi. Un’altra è che si sia trattato di un
incidente.»
«La mia invece è che l’abbiano assassinato.»
«Niente meno? E non potevano sparargli un colpo in
testa?»
«Evidentemente no. Ora ti chiedo un ultimo favore.
Hai notato se il pilota aveva qualcosa sulla schiena?»
«In che senso? Ti ricordo che il poveretto è arrivato
qui... a pezzi.»
«Lo so che è difficile, Antonio. Ma fai uno sforzo: aveva
per caso delle piaghe o delle ferite simili a quelle che avevi
riscontrato sull’avvocato Sommese?»
Ambrosio fissa Sebastiani negli occhi. Uno sguardo intenso ma vuoto: sta frugando nella memoria per ricordare,
per confrontare gli elementi a sua disposizione.
«In effetti, presentava dei segni che avevo attribuito allo schianto.»
«Naturalmente...»
«Ora però che mi ci fai ragionare forse quelle ferite potevano essere antecedenti la morte. Come se fossero state
inflitte...»
«... da uno scudiscio?»
«Ecco, sì. Da una frusta.»
«Grazie dottore, sei stato prezioso come sempre.»
«Di niente. Ah, e di’ pure alla tua ex moglie di stare
tranquilla ché tanto non sei il mio tipo!»
*
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Risotto al salto.
L’unica cosa salvabile di una giornata altrimenti da dimenticare per il vicequestore Loris Sebastiani. Maria
glielo ha fatto trovare nel frigo, una bella porzione abbondante.
Per fargli festa come si conviene, il poliziotto decide di
aprire una bottiglia all’altezza. La sua cantinetta è costruita meticolosamente sulla scorta di viaggi fuori porta in giro per cantine in Trentino, Piemonte, Toscana... Ma anche
in Borgogna e nella regione di Bordeaux. Ogni scusa è
buona per acquistare una cassa di vino.
Stasera opta per un bianco di medio corpo, della stessa
regione della ricetta: un Oltrepò Pavese Sauvignon Doc.
Quella che gusterà è una specialità della vecchia Milano. Cucinato con il riso avanzato, veniva preparato in
grosse padelle nere che, per facilitare l’operazione di rigiro, venivano utilizzate ancora unte. Per friggere, siccome
una volta l’olio era merce davvero preziosa, si utilizzava il
burro o, ancora più economicamente, il lardo.
Maria non l’aveva preparato così. Loris se l’immaginava ai fornelli mentre cuoceva il riso in padella con la cipolla e lo zafferano e poi lo stendeva lasciandolo raffreddare
un poco prima di completare la cottura friggendolo in padella col burro chiarificato.
Il Sauvignon è perfetto, tanto che quando ha finito il
piatto decide di continuare solo con la bottiglia. La porta
con sé nello studio.
Sotto la luce della lampada studia due ingrandimenti
dell’anello che Müller portava al dito.
Che segreto c’è dietro questo anello?, si chiede Loris.
Come in quel librone di Tolkien che aveva letto da giovane e da cui, l’anno scorso, avevano tratto un film. Anzi,
tre. Il primo era già uscito: La Compagnia dell’Anello.
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Quest’anno sarebbe toccato al secondo capitolo, Le due
torri, e poi, l’anno venturo, si sarebbe chiusa la trilogia con
Il ritorno del re.
Sebastiani continuava a preferire il libro anche se una
delle sue fiamme dell’anno scorso – il nome ora non lo ricorda – lo aveva trascinato a vedere il primo film e aveva
dovuto ammettere che non era così male.
Prende una delle istantanee e la osserva da vicino. Apre
un cassetto da cui estrae il fascicolo riguardante il caso
Sommese. Dentro c’è una busta con altre fotografie.
«Eccola» esclama ponendo l’immagine accanto a quella dell’anello. «Non ci sono dubbi: è lo stesso simbolo.»
Accanto ha disposto il disegno tracciato col sangue
dall’avvocato.
Lo stesso simbolo che l’imprenditore svizzero portava
impresso sul suo anello.
Entrambi gli uomini morti ammazzati.
Il cellulare vibra. L’ora è insolita anche per il chiamante: il sostituto procuratore Antonio Testori, il magistrato
incaricato delle indagini sull’omicidio Sommese.
«Buonasera Sebastiani, e mi scusi per l’orario.»
«Non si preoccupi, signore. A cosa devo questa chiamata?»
«La scientifica mi ha appena comunicato di aver identificato l’impronta di pollice sconosciuta sulla banconota
di Bellantuono.»
«Davvero? Mi pare che non ci fossero riscontri...»
«Fino a oggi, infatti, non c’erano.»
«Non capisco, a chi appartiene quell’impronta?»
«A Luciano Müller, l’uomo che si è schiantato sul grattacielo Pirelli col proprio aeromobile.»
Loris rimane in silenzio. Non sa cosa pensare.
«È ancora lì, Sebastiani?»
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«Sì, dottore. Cosa vuole che faccia?»
«Be’, a questo punto mi pare evidente che, se mai ci
fosse stato un mandante per l’omicidio di Sommese,
quello era Müller, no? Dalle indagini abbiamo stabilito
che i due si conoscevano ed è quindi plausibile che lo
svizzero abbia assoldato Bellantuono per accoltellare
l’avvocato Sommese. Forse per screzi o divergenze personali.»
«Quindi vuole che smetta di indagare su questo caso?»
«Gliel’avevo già detto, mi pare. È inutile continuare a
profondere energie e danari in un’indagine che per noi
risulta ormai chiara. Ne ho già parlato anche con il questore, che si è detto d’accordo con me. Buonasera.»
Sebastiani rimane col telefono in mano. Müller, ancora
lui. Ora che è morto gli hanno addossato anche la colpa
dell’omicidio di Sommese così il cerchio si chiude. Almeno per la procura della repubblica.
Si lascia andare contro lo schienale della sedia. La bottiglia di Sauvignon è finita e il televisore è sintonizzato sulla tv svizzera. Senza audio. Trasmettono un documentario
sui laghi elvetici. Inquadrano quello di Lugano, proprio
doveva viveva Müller...
Così gli viene un’idea. Vorrebbe tanto fare un’ispezione
nell’ufficio e nell’abitazione del pilota. Per cercare indizi e
magari trovare qualcosa che spieghi quel simbolo misterioso oppure un documento che lo incastra in cui magari
ricattava Sommese per qualche ragione...
Solo che la cosa è più facile a dirsi che a farsi.
Mica può andare a Lugano così, per capriccio. Dovrebbe passare da un magistrato – ipotesi da archiviare vista la
chiamata appena ricevuta – e poi ci vorrebbe una rogatoria internazionale. Impensabile. Senza contare la montagna di carte bollate da compilare e poi chissà quando – e
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se – gliel’avrebbero concesso. Non può aspettare. Lui ha
fretta. Una fretta dannata. Per una rogatoria ci vorrebbero
prove concrete, rapporti, verbali e chissà cos’altro. Qualcuno però potrebbe farlo senza lo straccio di un documento. Gli basterebbe giusto un osso...
230
15.
«Scendi» mi ordina la voce al telefono prima di riattaccare.
Il numero non ce l’ho salvato in memoria però il timbro, e soprattutto il tono, mi suonano famigliari.
La curiosità è troppa, così infilo una delle giacche ereditate da Molinari, raccatto la borsa con il portatile e il
taccuino – perché non si sa mai quando fai questo mestiere – e inforco le scale. Qualcosa mi dice che oggi sarà giorno di caccia.
«Mi pareva di aver riconosciuto la voce...»
Sebastiani mi aspetta sotto casa, appoggiato contro
un’Alfa 156 nera.
«Andiamo» mi esorta.
«Dove? In questura?»
«No a Lugano, in Svizzera. E sbrigati, che abbiamo un
sacco di cose da fare.»
«Veramente avrei altri progetti...»
Stavolta non mi venderò per niente. Chi si crede di essere questo sbirro per piombarmi sotto casa e dirmi quello
che devo fare?
Lui si passa il sigaro da una parte all’altra della bocca,
poi sbuffa ed estrae una foto ripiegata in quattro dalla
tasca.
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«Dai un’occhiata.»
Me la porge e io rimango a bocca aperta.
«Il disegno su questo anello è identico a...»
«Esatto. E noi stiamo andando a casa del tizio che lo
portava al dito. Allora, hai ancora altri progetti o ci possiamo schiodare da qui?»
Quando imbocchiamo la Milano-Laghi decido di porre
la mia prima domanda. Ho aspettato perché ora non può
sbattermi giù senza spiegazioni, adesso siamo obbligati a
stare insieme e lui deve rispondermi. Almeno fino al primo autogrill, dove mi potrebbe abbandonare come un
cucciolo a ferragosto.
«A chi appartiene l’anello?»
Sebastiani stringe il solito sigaro fra le labbra agitandolo nel vuoto, ma sa che una spiegazione me la deve. Così lo
muove lentamente verso la parte destra della bocca e sussurra.
«A Luciano Müller, il pilota del Rockwell che si è schiantato sul Pirellone.»
Se mi avessero schiaffeggiato sarei rimasto meno scioccato.
«Vuoi dire che questa morte assurda è collegata con
l’omicidio dell’avvocato Sommese?»
«Da quando ti permetti di darmi del tu?»
«Da ora. Loris, se mi coinvolgi in questa faccenda non
siamo più sbirro e giornalista. Diventiamo quasi colleghi
in questa indagine.»
«Noi due colleghi?»
«Sei stato tu a venirmi a cercare. Hai bisogno di me, è
evidente. O sbaglio?»
Il sigaro ruota lentamente e scivola sul lato opposto della bocca.
Cambia argomento. E mi accusa.
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«Non è che stai indagando sui ragazzi scomparsi e ti
vuoi mettere nei guai?»
«Io? Neanche per sogno.»
«Sicuro? In questura ci sono saltati agli occhi i pezzi
che scrivi.»
«Leggete tutto quello che viene pubblicato in rete?»
«Non solo in rete. Ora imbratti pure la carta a quanto
ci risulta... E fai bene perché Internet finirà in niente come
tutte le mode passeggere.»
«Certo, come no.»
«Comunque non sono io a seguirti, figurati! È l’ispettore Lonigro quello che si occupa di tecnologia. Se stiamo
indagando su di te, ragazzo, è perché vivevi con Molinari.
Magari avete litigato e l’hai fatto fuori...»
«Scherzi?»
«Ho la faccia di uno che racconta barzellette?»
«No.»
«Bene.»
Stavolta sono io a cambiare discorso.
«Abbiamo un mandato per perquisire la casa del
morto?»
«No.»
«E come pensi di entrare?»
«Ho un amico nella polizia di Bellinzona che mi deve
un favore.»
«Uno sbirro svizzero che infrange la legge?»
«Non ho detto questo. Con lui entreremo nella casa di
Müller. Una visita informale. Viveva solo con la moglie.
Mentre noi la interrogheremo tu dovrai copiare i dati del
suo computer.»
«Cosa? Non se ne parla nemmeno! Se mi beccano mi
arrestano. E lì non scherzano mica!»
«Allora vedi di non farti sorprendere come un pivello.»
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«Chi ti dice che io lo sappia fare?»
«Non prendermi per stupido, Radeschi. Abbiamo fatto
i compiti a casa io e Lonigro. Sappiamo come vi divertite
tu e il tuo amichetto Fabio. Smanettoni in erba che esplorano la rete e bucano siti porno... E sappiamo anche delle
videocassette. Ho mandato Mascaranti a fare qualche domanda in giro al Politecnico dopo che ho visto quella pila
di vhs in casa vostra. E indovina? La vostra operazione
Federica, o come diavolo la chiamate, è molto conosciuta
da quelle parti. Lonigro ha anche fatto controllare il vostro traffico Internet e sono saltate fuori un sacco di cose
interessanti...»
Siamo fregati.
«Io non...»
«Stai tranquillo. Sono cose che non ci interessano. Per
ora. Certo, se tu ti ostinassi a non voler collaborare...»
Mi sento preso all’amo.
«Va bene. Tutto qui il nostro accordo?»
«No, c’è anche una contropartita per te. Resta inteso
che tu non potrai mai parlare di questa faccenda. Con nessuno. Tuttavia sarai il primo ad avere la dritta giusta quando scopriremo chi muove i fili di tutto questo.»
«Mi stai proponendo un’esclusiva?»
Il sigaro si muove su e giù.
«Ti sto proponendo, come dicevi tu, di collaborare insieme a questa indagine in maniera leale. Se tutto andrà
come deve ne riceverai grandi benefici. Se cerchi di fregarmi ricordati che la galera da noi può essere anche peggio
di quella svizzera.»
«Mi piace il tuo modo velato di minacciarmi.»
«Metto solo le cose in chiaro. Allora, siamo d’accordo?»
«Ho scelta?»
«Direi di no.»
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Stavolta il sigaro rimane immobile e un mezzo sorriso
spunta sulle labbra dello sbirro.
*
Lugano è una città linda e ordinata. Tutta banche e
panchine affacciate sul lago. L’amico sbirro di Sebastiani,
tale Pierre Rochat della polizia cantonale di Bellinzona –
ma a giudicare dal nome sicuramente del canton Vaud – ci
aspettava appena oltre confine. L’abbiamo caricato in auto, ha salutato e fino a quando siamo arrivati davanti alla
villetta di Müller non ha aperto bocca. Un tipo alla mano,
insomma, dalla simpatia prorompente.
«Ho già avvertito la vedova» si è limitato a spiegare
quando abbiamo parcheggiato. «Le ho detto che la polizia
italiana vuole farle qualche domanda riguardo all’incidente
di suo marito. Io vi accompagnerò ma non in veste ufficiale.
Questa chiacchierata non è mai avvenuta, d’accordo?»
«Certo.»
«Lui chi è?»
«Meglio che tu non lo sappia.»
Rochat mi squadra. Magari pensa che io sia un agente
speciale o chissà che. Non credo però che il dubbio gli rimanga a lungo.
«Va bene. Entriamo.»
La moglie di Müller è una donna sulla sessantina, elegante, capelli neri raccolti in uno chignon e occhi gonfi.
Deve aver pianto molto.
Ci fa accomodare in un ampio soggiorno dalla cui vetrata si gode una bella vista sul lago.
Sebastiani le porge le sue condoglianze e comincia a
chiederle del marito. Le solite cose da sbirro: se negli ultimi tempi era nervoso, se aveva mai manifestato l’idea di
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uccidersi e via di questo passo. Io non ascolto più di tanto.
Ho una missione da compiere con un piccolo hard disk
portatile da un tera, un affarino poco più grande di un
accendino Zippo anch’esso ereditato da Molinari, che nascondo nella tasca interna della giacca.
Mi alzo in piedi e chiedo se posso usare la toilette.
«Prego. Quando esce in corridoio è la seconda porta
sulla destra, dopo lo studio di mio marito.»
Un guizzo attraversa gli occhi di Sebastiani e anche
Rochat, a questo punto, capisce cosa abbiamo in mente.
Scuote la testa.
Ringrazio ed esco dalla stanza.
Quando ritorno, dieci minuti dopo, Sebastiani ha tirato
fuori la foto dell’anello di Müller e la sta mostrando alla
vedova.
«Sa dove suo marito abbia preso questo anello e cosa
rappresenti il disegno che ci è raffigurato sopra?»
La donna scuote la testa.
«Lo ha sempre avuto. Da prima che ci conoscessimo.
Credo sia un ricordo dell’università. Sapete, mio marito
aveva studiato a Milano e quello inciso lì era il simbolo
distintivo del suo gruppo.»
«Quale gruppo?»
«Oh, non so bene. Loro erano sei ma ce ne sono molti
altri...»
«Sei?»
«Ecco, guardate: sopra al camino c’è una loro foto.»
Io e Sebastiani ci alziamo quasi contemporaneamente.
Si tratta di una vecchia fotografia in bianco e nero e ritrae
dei ragazzi sorridenti. Sono seduti su una panchina davanti al Castello Sforzesco. Sul retro è riportato l’anno in cui
è stata scattata: 1956.
«Mio marito è il secondo da sinistra.»
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«Gli altri sa chi sono?»
«Oh, i nomi non li ricordo. Solo quello di Giovanni,
poverino. Luciano è andato al suo funerale poco tempo fa,
a inizio anno.»
«Giovanni?» chiede Sebastiani incredulo. «Si riferisce
per caso a Giovanni Sommese? L’avvocato assassinato a
fine anno in piazza dei Mercanti?»
«Proprio lui.»
«Possiamo prendere questa foto, signora? Le prometto
che gliela restituiremo il prima possibile.»
«Non so se...»
«Garantisco io» interviene Rochat.
«Allora d’accordo.»
«Non si ricorda i nomi degli altri uomini?»
«No, so però che li incontrava almeno una volta al mese, a Milano.»
«Solo per amicizia?»
«Anche per lavoro, ma non mi chieda di scendere nei
particolari. Non so granché delle attività di mio marito.»
«Di cosa si occupava?»
«Faceva l’avvocato d’affari specializzato in brevetti e
tutela della proprietà intellettuale.»
«D’accordo. Grazie per la sua collaborazione.»
Risaliamo in auto e, come all’andata, nessuno parla.
Arrivati a Bellinzona, Rochat scende e non chiede niente. Ha capito che non mi sono chiuso al cesso per tutto
quel tempo ma non vuole nemmeno sapere cosa io abbia
fatto.
Sebastiani, invece, appena passato il confine, mi lancia
una domanda sibillina.
«Abbiamo quello che desideravamo?»
Prendo l’hard disk dalla tasca della giacca e lo collego
al laptop che tengo acceso sulle ginocchia.
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«Ora controllo. Ho copiato tutto il contenuto del computer di Müller. Lo teneva sulla scrivania del suo studio.
Non ho dovuto neanche accenderlo. È bastato un cacciavite per...»
«Risparmiami i dettagli. Meno so di cosa hai fatto meglio è.»
«Bene. Solo che ora ho un problema.»
«Grave?»
«No. Ho bisogno della rete per completare l’opera. Devo scaricare alcuni software. Andiamo da me. Prima però
fermiamoci all’autogrill per un panino. Muoio di fame.»
«Bene. Ma andremo in questura: l’hard disk con i dati
che hai sottratto a Müller non dovrà mai uscire dal mio
ufficio. Siamo intesi?»
*
Sebastiani ha masticato due interi sigari osservando la
foto dello svizzero nell’inutile tentativo d’indovinare chi
fossero gli altri quattro uomini. Difficile, visto che sono
passati quasi cinquant’anni da quello scatto e i tratti fisici
cambiano parecchio. Magari alcuni sono già morti, oppure li hanno fatti fuori proprio come Giovanni Sommese e
Luciano Müller.
Dubbi sul fatto che i loro omicidi siano collegati ora
non ne esistono: due morti ammazzati ritratti nella medesima fotografia non è una casualità, è premeditazione. Di
chi e perché lo ignoriamo.
Ne abbiamo parlato brevemente prima che lo sbirro si
chiudesse in un ostinato silenzio.
«Non siamo qui per fare conversazione. Hai il cavo di
rete e la presa di corrente. Disponi di tutto quello che ti
serve per cavare qualcosa da quell’hard disk, ok?»
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La simpatia non è certo fra le doti principali di Sebastiani.
Quanto a me, ho trascorso le ultime ore seduto su una
delle scomode poltrone nel suo ufficio a lottare con una
cartella dal contenuto criptato apparentemente inviolabile.
Sospiro e chiudo il laptop.
Lo sbirro solleva un sopracciglio.
«Per oggi basta. Ho bisogno di riposare un po’ e di chiedere qualche dritta al mio coinquilino. Müller ha criptato
una cartella e non sono riuscito a decifrarne il contenuto.»
«Quanto ci vorrà?»
«Non so, posso portare a casa questo hard disk?»
«Escluso.»
Lo guardo. Preso dallo sconforto riesumo un consiglio
di Fabio adattato allo scopo. Nella mia testa suona più o
meno come: “Prendilo per la gola. Funziona con le donne,
ha funzionato con me. Andrà bene anche per uno sbirro.”
Tanto vale tentare.
«Allora Loris, facciamo che vieni anche tu con questo
hard disk da me. Cucino io.»
Lui mi guarda storto ed è come se un punto interrogativo gli si materializzasse sopra la testa.
«Non sono di quella sponda» puntualizza.
«Nemmeno io.»
«Non si direbbe.»
«Spiritoso.»
Il suo sigaro compie una piccola rotazione.
«Vuol dire sì?»
«Vuol dire dipende.»
«Da cosa?»
«Io sono uno di gusti difficili.»
«Ma va? Sai che non l’avrei mai detto?»
239
Peck è il tempio del gusto milanese. Una vera e propria istituzione per i gourmet con qualche soldo in tasca.
La qualità ha un prezzo e qui è distribuita su due piani
più una cantina rifornitissima. Pasta, carne, pesce, salumi, tè pregiati, spezie. Basta chiedere e sicuramente otterrai quello che desideri. E io oggi desidero del guanciale di prima scelta.
Sebastiani mi ha accompagnato uscendo dalla questura. Grazie al lampeggiante acceso sul tetto della sua Alfa
(ma senza sirena) siamo riusciti a parcheggiare proprio davanti all’ingresso, che sta praticamente in piazza Duomo.
Ho cominciato a frequentare questo posto da un paio
di mesi, per nostalgia; la nostalgia dei buoni sapori. Quando non posso tornare nella Bassa corro qui, la boutique
del cibo sopraffino, a fare scorta di salame che mi ricorda
casa, di pane tipo ferrarese e di tortelli di zucca. Certo non
costano come all’Esselunga ma è anche vero che non vivremo per sempre quindi se possiamo godercela, perché
non farlo?
Lo sbirro sembra approvare le mie scelte a giudicare
dai movimenti ondulatori del sigaro.
«Io procuro un vino adatto» annuncia scendendo le
scale verso la cantina.
Mentre eravamo in auto, ho scritto un messaggio a Fabio per dirgli che avrei portato il vicequestore a cena e lui
mi ha risposto che si rintanerà al birrificio Lambrate per
uno stinco di maiale e qualche pinta di birra.
«Manco legato verrei a cena con quello sbirro» ha poi
ribadito in un secondo sms.
Mi toccherà un tête-à-tête con il poliziotto.
«Davvero vuoi prepararmi la gricia?»
Siamo appena entrati in cucina con le borse di Peck
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piene di cibo e la bottiglia di Sagrantino di Montefalco
acquistata dal mio ospite. Lo giudica adatto come abbinamento perché «intenso e tannico», qualsiasi cosa significhi.
«Non ti piace?»
«Sei in grado di cucinarla come si deve?»
«E tu sei in grado, non dico di non essere burbero, ma
almeno di fidarti un minimo di chi ti sta difronte?»
«Parli come la mia ex moglie, lo sai?»
«Povera donna. A lei va tutta la mia solidarietà. Quanti
anni siete rimasti sposati?»
«Non sono cazzi tuoi, bamboccio. Quelli cosa sono?»
Indica una montagna di fogli accatastati in un angolo
del tavolo.
«Le mie letture da bagno.»
«Ah sì? Io leggo i tuoi articoli al cesso.»
«Simpatico.»
«Seriamente, cosa sono?»
«Sono i manoscritti terribili che leggo per racimolare
qualche soldo. Mica mi paga lo Stato a me.»
Si mette a sedere mordicchiando il suo sigaro.
«Ti intendi di cucina?»
«Diciamo che mi diletto. Mi serve per passare il tempo
e riflettere. Magari mentre ascolto Paolo Conte. Ti va se
accendo lo stereo?»
«E poi cosa? Le candele profumate? Cercherai anche
di baciarmi dopo il primo brindisi?»
«Va bene. Allora godiamoci il silenzio, d’accordo?»
«Il silenzio è d’oro.»
Così rimaniamo zitti fino a quando scolo la pasta e servo i piatti. Pecorino romano DOP come se piovesse e un
guanciale croccante da gran chef. A forza di preparala per
Fabio è diventata di gran lunga la mia specialità.
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Il vino è ottimo e Sebastiani, anche se gli costa molta
fatica ammetterlo, deve arrendersi. Spazzola il piatto e mi
chiede addirittura il bis.
«Allora?»
«Hai passato l’esame, sbarbato. Non mi hai avvelenato
e devo confessare che questa roba è commestibile.»
«Sarebbe un complimento?»
«Vuoi una stella Michelin per aver fatto rosolare della
pancetta e grattato del formaggio?»
Scuoto la testa.
«Un grazie sarebbe sufficiente.»
«Te lo dirò quando avrai svelato il segreto contenuto in
questo hard disk.»
Lo fa scivolare sul tavolo. Scuoto la testa. È venuto il
mio momento di contrattare. Ho finalmente il coltello dalla parte del manico.
«Io ho un altro caso a cui non riesco a smettere di pensare.»
«Lo so: il tuo amico Molinari.»
«Esatto.»
Il vino è finito e insieme al caffè ho messo sul tavolo
una bottiglia di Pampero Reserva.
«Come fai a sapere che questo è il mio rum preferito?»
«Non lo sapevo. Sarà un segno del destino.»
Annuisce poco convinto, s’infila un toscanello fra le
labbra e si versa un bicchierino abbondante di rum.
«Allora come vanno le indagini per scovare l’assassino
di Paolo?»
«In via confidenziale, d’accordo?»
Faccio il gesto di chiudermi le labbra con la chiave.
«Forse c’è un precedente.»
«Parli dei ragazzi scomparsi?»
«No. Lasciali da parte per un attimo quelli. Il precedente
242
di cui ti parlo io è un altro omicidio con lo stesso modus
operandi e con, cosa più importante, la stessa arma.»
«Quindi avete una pista concreta?»
«Più o meno. Freddina, però, visto che si tratta di un
caso di sedici anni fa.»
«Qui a Milano?»
«No, a Padova.»
Sebastiani beve un sorso poi riprende a raccontare.
«La vittima, uno studente universitario di ventun anni,
è stata uccisa con un colpo alla testa. Il suo cadavere è
stato poi gettato in un fiume e ritrovato molti giorni dopo,
trascinato dalla corrente sotto a delle erbacce. Era mezzo
mangiato dai topi e gonfio. Niente impronte, niente fluidi,
Nulla. Solo una pallottola in testa. Stesso calibro e stessa
pistola usata con Molinari, come ha confermato la balistica. L’assassino non è mai stato catturato.»
Riempio altri due bicchieri di rum mentre rifletto.
«Hai detto che è successo a Padova?»
«Sì. E dovrò andarci presto. Appena rintracciamo il poliziotto che all’epoca ha seguito le indagini, sperando che
possa aiutarci.»
«Io quella città la conosco come le mie tasche.»
«Come mai?»
«Te lo spiego domani. Ti accompagno a Padova! Però in
treno è più comodo e io non rischio la vita a ogni sorpasso...»
«Noi non andremo da nessuna parte.»
«Credo che tu me lo deva, Loris. Altrimenti forse non
riuscirò mai a decrittare i file di questo hard disk.»
«Mi ricatti?»
«Mi adatto al tuo sistema, caro vicequestore. Allora?»
Il sigaro si muove impercettibilmente verso il basso.
«Abbiamo un accordo. Ora versami un altro giro di
Pampero!»
243
16.
La stazione centrale brulica di vita. Con quel dorso di
vetro e acciaio sembra la balena di Pinocchio che tutto
inghiotte.
Salito sul treno, però, vengo subito riportato alla realtà
dal mio compagno di viaggio.
«Solo perché andiamo insieme a Padova non significa
che diventeremo amici per la pelle e giocheremo a 1 2 3
Stella.»
«Che roba?»
«Lascia perdere, non sai niente della vita.»
Queste sono più o meno tutte le parole che Sebastiani
pronuncia fino a quando arriviamo a destinazione. Non
mi ha perdonato di non aver ancora decrittato i dati di
Müller, anche perché l’hard disk è sempre in suo possesso.
Dovrò rimettermi all’opera – in questura da lui – quando
torneremo da questa trasferta veneta.
A metà mattina arriviamo a destinazione. Lonigro ha
procurato a Sebastiani un appuntamento con l’ispettore
Guido Sturaro, che all’epoca, il 1986, aveva seguito il caso.
Raggiungiamo un bar proprio di fronte alla stazione
ferroviaria, dove ci aspetta il nostro uomo. Sulla sessantina, tarchiato, con due occhi infossati nella testa, scuri come la notte.
244
«Ormai sono in pensione» annuncia stringendoci la
mano. «Non vedo come posso esservi utile.»
Il toscanello di Sebastiani inizia a navigare veloce. Noi
ordiniamo due caffè, l’ex sbirro un’ombra, che da queste
parti significa vino, a quanto capisco.
«È lei che si era occupato del caso di omicidio di Mattia
Schiavon?»
«Sì, certo. Ma cosa vi fa credere che mi ricordi qualcosa? Sa quanti anni sono passati?»
Il sigaro si ferma, dritto come un fucile puntato verso
l’uomo.
«I delitti irrisolti sono croci nell’anima di noi sbirri»
sussurra Sebastiani. «Sono sicuro che si ricorda perfino il
volto del morto.»
La frase suscita l’effetto sperato.
«Da quanto tempo è in polizia?» chiede Sturaro.
«Abbastanza da sapere come girano queste cose.»
«Perché le interessa questo vecchio caso?»
«La pistola che ha ucciso Mattia è ricomparsa. A Milano. Ed è servita per ammazzare di nuovo.»
L’ex ispettore abbassa lo sguardo, a disagio. Si capisce
che quella è una ferita ancora aperta per lui. Loris ne approfitta per mettergli la foto di Molinari sotto agli occhi.
Per me è una fitta al petto: non è più una persona, il mio
amico. Così è solo un caso freddo, una pratica burocratica
che va espletata.
«Assomiglia parecchio a Mattia. Anche lui era moro,
occhi chiari.»
«Sì, crediamo sia la tipologia di vittime preferite dal nostro killer.»
«Quindi pensate che questo delitto sia collegato a quello di Milano. Non suona strano?»
«Suona macabro, non strano. Gli assassini non smetto-
245
no mai. A volte riposano, rimangono nell’ombra anche
per molto tempo ma alla fine ci ricascano. Sempre.»
«Sarà come dice lei.»
«Cosa può dirmi del delitto?»
Il vecchio poliziotto si accende una sigaretta e fissa l’orologio che tiene al polso. Un Casio digitale di nessun valore. Non lo vede nemmeno, sta solo rivivendo quei giorni
dentro di sé.
«Abbiamo ripescato il corpo di Mattia nel Piovego, il
fiume che attraversa la città. Erano trascorsi sei giorni e
non vi dico in che stato era... Gonfio, mangiato dagli animali. Me lo sogno ancora di notte...»
«Qualche indizio?»
«Sul cadavere niente. Era stato troppo tempo in acqua...»
«Che tipo era la vittima?»
«Un ragazzo a posto. Di buona famiglia. Nessuna ombra. Frequentava il secondo anno di Giurisprudenza ed
era in pari con gli esami. Ottimi voti.»
«Si ricorda altro che potrebbe esserci utile?»
L’altro scuote la testa.
«Avanti, faccia una sforzo. C’è un assassino ancora in
giro da allora...»
Sturaro beve d’un fiato. Poi sospira.
«Qualcosa ci sarebbe ma...»
«Tutto può servire.»
«Pare che Schiavon, poco prima di scomparire si trovasse a una festa in un appartamento di studenti.»
«Sì, l’ho letto nel rapporto.»
«Be’, qualcuno dei presenti riferì di averlo visto uscire
in compagnia di una ragazza. Una mora, molto piacente.»
«Sicuro? Nel verbale non c’è questa informazione.»
«Perché non avevamo un testimone. Erano voci che
circolavano. Alcuni dicevano che se n’era andato solo, al-
246
tri addirittura con un travestito molto appariscente... Vede: in quella festa girava parecchia droga e molto alcool.
Quando abbiamo raccolto queste dichiarazioni nessuno
ricordava granché così abbiamo preferito soprassedere.
C’era mancato poco che ci raccontassero che fosse stato
rapito dagli alieni...»
«Allora perché ritiene che quella della ragazza sia una
pista attendibile?»
«Non lo ritengo, dottore. Penso che fra tutte quelle
ipotesi fantasiose quella sia la più probabile: Schiavon se
n’è andato con la sua assassina; da quel momento in poi
nessuno l’ha più visto...»
«D’accordo, grazie per il suo tempo.»
Sturaro si alza e se ne va tenendo lo sguardo basso. Abbiamo appena risvegliato un fantasma dentro di lui che
forse lo perseguiterà per tutta la vita.
Anche per noi è il momento di lasciare questo bar triste
che sa di fumo e treni persi. Pago le consumazioni a una cassiera dal volto pechinese che, per mia fortuna, non morde.
«Ora che si fa?» chiedo una volta sul marciapiede.
«Prima del treno di ritorno abbiamo due ore.»
«Aspettiamo.»
«Ti porto io in un posto, dai.»
«Che ne sai tu di posti a Padova?»
«Te l’ho detto, ci ho passato parecchi weekend quando
la mia ragazza dell’epoca studiava qui.»
«Va bene, però risparmiami le tragedie amorose. E non
portarmi dal Santo che non me ne frega niente.»
«Oh tranquillo, dove andremo ti piacerà.»
Spritz come se piovesse.
Questo è stato il mio pensiero fisso sin da quando siamo scesi dal treno. E ora lo sto realizzando.
247
Due bicchieri alti e riempiti fino all’orlo che a Milano
sarebbero illegali.
Seduti a un tavolino all’aperto in piazza dei Signori. Ed
è così che ci sentiamo io e Sebastiani, osservando la torre
dell’Orologio di fronte a noi. Non c’è bisogno di chiacchierare. Il silenzio è d’oro, come sostiene lo sbirro e oggi
sono d’accordo con lui.
Loris rosicchia il suo solito sigaro, godendosi il sole primaverile sulla faccia mentre io mi fumo un’arrotolata di
Amsterdammer.
Tornare in questa piazza dopo così tanto tempo mi fa un
effetto strano. Non sono più uno studente, non sono più il
ragazzo di allora. E non c’è più Cristina al mio fianco.
«Ci stai pensando, vero?»
«Come?»
Sebastiani sorride perfido.
«A quella ragazza con cui stavi all’epoca. Dio, non ti
facevo tanto sdolcinato, Radeschi!»
«Non lo sono. Mi godo solo il mio aperitivo.»
«Certo, come no.»
«Dimmi di te, piuttosto: com’è andata con la tua ex
moglie?»
«Non siamo ancora così in confidenza, sbarbato.»
«Sarà finita sicuramente a causa del tuo carattere solare
e altruista.»
«Credo anch’io.»
Certo che sto pensando a Cristina! Come non potrei?
Siamo venuti mille volte in un baretto qui vicino, in piazza
della Frutta, a stordirci di vermut e vino bianco. Sono stato una vita insieme a quella ragazza del borgo finché sette
anni fa abbiamo rotto. Perché? Semplicemente perché era
tempo. Eravamo arrivati al punto in cui tutto era diventato
un’abitudine, scontato, già visto. E a vent’anni forse è un
248
po’ presto per accontentarsi, no? Me n’ero reso conto una
sera; lei era venuta a trovarmi a Milano, all’epoca in cui
ancora studiavo alla Statale.
Cristina odiava il traffico, la confusione, i mezzi pubblici, le code.
«Non potrei mai vivere in questa città.»
L’avevo abbracciata senza ribattere. Poi l’avevo fatta salire di nascosto nella mia stanzetta della Casa dello Studente. Avevo acceso la radio e avevamo iniziato a fare l’amore.
Ero distratto, poco presente e mi ero concentrato sul
verso di una canzone che diceva più o meno «che sapore
ha quando finisce un amore?».
Un rapporto meccanico, come mille altre volte l’avevamo fatto prima. Senza che nessuno dei due avesse realmente voglia di confessare che non ne aveva voglia. Era un
dovere, un obbligo, quasi, dato che non ci vedevamo da
un paio di settimane.
Fu lì che compresi definitivamente che non poteva più
funzionare.
Il giorno dopo avevo accompagnato Cristina alla stazione centrale fino al trenino che partiva dal solito binario
20 diretto a Capo di Ponte Emilia.
Non c’era stato bisogno di grandi discorsi, l’avevamo
capito entrambi quando ci eravamo baciati sulle labbra
per l’ultima volta.
Era finita. Finita per sempre.
Che sapore ha quando finisce un amore? Un retrogusto
di ruggine e plastica bruciata.
249
17.
«Se il tuo amico sbirro ti vedesse con quel pezzo di fumo in mano ti arresterebbe seduta stante.»
Non ce la posso fare se non con un paio di canne. Quello che stiamo facendo è la noia totale anche se ci porta
soldi.
Gli ultimi giorni sono stati di attesa e monotonia. Fabio mi ha consigliato un software, Decripx, a suo parere
strepitoso per bucare la cartella di Müller. Unico difetto
è che per scardinarla il programma dovrà tentare milioni
di combinazioni e ci vorrà parecchio tempo. L’ho lanciato appena tornati da Padova sul computer dell’ufficio di
Sebastiani in questura e, ancora adesso, dopo novantasei
ore, quello continua a provare a forzare l’accesso. Inutilmente.
Guardo Fabio e gli sorrido storto mentre mi accendo lo
spinello.
«Non lo saprà mai. E comunque fai poco lo spiritoso,
altrimenti non te lo passo.»
Sono esausto: è dall’una del pomeriggio che siamo
chiusi in salotto a duplicare le cassette vhs porno per i nostri “clienti”. Abbiamo dovuto comprare un paio di videoregistratori a doppia cassetta per velocizzare il lavoro.
Non che mi lamenti, la miniera o la fonderia sarebbero
250
molto peggio. Ormai il nostro giro si è stabilizzato: abbiamo una cinquantina d’abbonati. Ergo: cinquanta cassette
a settimana per quattro settimane. Duemila euro. Mille
per l’affitto e cinquecento a testa per noi.
Fabio inserisce altre due cassette e preme REC. Oggi duplichiamo film dal titolo ammiccante con qualche aspirazione evocativa e artistica: Via col ventre e Il glande freddo.
Sulle etichette, però, scriviamo titoli di tutt’altro genere –
per non destare sospetti casomai finissero nelle mani sbagliate – parecchio fantasiosi: siamo arrivati a Rocky XIV,
Rambo IX e, perfino, a Indiana Jones e il mistero del buco
nero, che devo aver partorito io in un momento di particolare ispirazione.
Gli passo lo spinello rilasciando una nuvola di fumo.
«Non si sciala ma si sopravvive con questo nostro piccolo business, eh?»
«Per ora» sospira lui.
«Che vuoi dire?»
«Un giorno Internet metterà online, invece delle sole
foto come ora, dei video interi. Milioni di video!»
«Già, ma col modem a 56k ci vorrà un’eternità per scaricarli.»
«Ingenuo che sei: miglioreranno anche le connessioni.
E a quel punto dovremo chiudere bottega. Il porno sarà
libero e alla portata di tutti.»
«Quando pontifichi sulle stronzate mi terrorizzi!»
«Ti dirò di più. Dobbiamo cambiare supporto se non
vogliamo estinguerci come i dinosauri.»
«Eh?»
«Le videocassette sono il passato! Dobbiamo passare
ai cd e ai dvd! Con questo successo è ora che ci evolviamo. I vhs presto saranno sorpassati, il porno avrà nuove
frontiere digitali. E poi le cassette danno troppo nell’oc-
251
chio. Hai detto tu che la polizia sa tutto, meglio mutare
strategia...»
«Come desideri, nostro signore Bill Gates dei carnazzi.»
Finalmente sorride e si rilassa.
Io, in attesa di sostituire le cassette, mi dedico ai manoscritti della Calibro 9.
Fino a ora me ne sono sorbiti sedici. Schifezze immonde tranne uno che mi ha tenuto sveglio una notte intera.
Davvero un intrigo notevole. Ho redatto una scheda di
lettura così entusiasta che se non lo pubblica quel Giuffrida è meglio che cambi mestiere...
Alle otto di sera, finalmente, abbiamo terminato. Io sono esausto e anche parecchio sballato per via della marijuana.
«Adesso rilassiamoci, ce lo meritiamo» dico impugnando i joystick della console. «Ordiniamo due pizze dall’egiziano e ci diamo dentro ammazzando qualche centinaio di
cattivi.»
«Dovremmo tenere il lutto.»
Mi volto per fissare Fabio in viso: si deve essere preso
male per via del fumo.
«Non siamo pie donne. E poi giocare ad Halo sarebbe
piaciuto anche a Paolo.»
«Se lo vuoi sapere non approvo neanche che tu indossi
i suoi vestiti. Mi pare inappropriato.»
Mi osserva. Sguardo spento, intasato dal pakistano che
abbiamo consumato allegramente fino a ora. Inappropriato, non lo sentivo pronunciare dai tempi della prima comunione.
«Non lo voglio sapere» ribatto.
Lui allontana la console con un gesto secco.
«Zugzwang!» dice.
252
«Stai male?»
«Ma no! Stavo ripensando al tizio che ti ha raso al suolo il sito. E zugzwang è una mossa degli scacchi.»
Delira, ormai è chiaro. Tuttavia decido di stare al gioco.
«Oh, molto interessante. Davvero, non dico che non
me ne freghi nulla in senso assoluto, ma se dovessi definire
il mio entusiasmo per questa informazione sarebbe tipo
come se mi dicessero che hanno appena scoperto la terza
luna di Orione.»
«Orione non ha lune, è una costellazione.»
Lo schiaccerei con la Vespa quando fa così. E non è finita purtroppo.
«Zugzwang rappresenta una mossa obbligata negli
scacchi. Quando si presentano determinate condizioni
non c’è altra scelta se non quella.»
«Quindi?»
«Ora ti interessa, eh?»
«Che fai, polemizzi?»
«Dunque, quella parola descrive la situazione in cui un
giocatore si trova in difficoltà perché qualsiasi mossa faccia, subirà lo scacco matto.»
«Quindi, fuori di metafora...»
«Non è una metafora.»
Lo odio.
«Come ti pare! Ma finisci il ragionamento!»
«Mi pare chiaro: anche noi dobbiamo agire; il Minotauro – come fantasiosamente l’hai definito – si aspetta
che facciamo proprio questa mossa. Non abbiamo scelta.»
«Non ti seguo.»
«D’accordo» sospira Fabio. «Prima, mentre leggevi i
tuoi dattiloscritti, mi sono collegato al server di Milanonera. Dove hai gettato la tua esca.»
«Vuoi dire che il pesce ha abboccato?»
253
«Esatto. Venti minuti fa. Il vigliacco ha provato nuovamente a sabotarci e a cancellare il simbolo. Solo che stavolta...»
«Stavolta ho preso le mie contromisure» lo interrompo.
«E l’ho fregato io!»
«Esatto. Ora il suo computer è infettato col nostro virus. Dobbiamo solo decidere quando attivarlo e quello,
come le briciole di Pollicino, ci condurrà da lui. Lo facciamo subito?»
Scuoto la testa.
«No, meglio aspettare. Com’era quella parola?»
«Zugzwang.»
«Ecco: voglio giocarmela quando sarò sicuro di colpire
duro. La mossa è obbligata ma non ha una scadenza temporale, no? Per ora lasciamolo nell’incertezza.»
«Sei diventato saggio, Radeschi.»
«Lo so. Ora ce la facciamo quella partita a Halo?»
*
Anisette Pedroni.
Sebastiani oggi ha deciso di cambiare. Niente toscanelli, vuole provare i sigari della concorrenza. Non per fumarseli, ovviamente, ma per sentirne il sapore in bocca,
visto che finisce sempre col masticarli.
Il telefono che squilla purtroppo gli rovina quel momento d’idillio tabagistico.
«Niente ponte quando si lavora a un caso?»
«Da quando voi svizzeri fate battute?»
La sorpresa per Sebastiani è doppia: prima la chiamata
di Rochat e poi lo stesso che se ne esce addirittura con una
battuta. Il giorno prima si era festeggiato il 25 aprile, la
festa della Liberazione, e siccome cadeva di giovedì, il ve-
254
nerdì mezza Italia era rimasta a casa dal lavoro per fare il
ponte.
Non il vicequestore.
«Volevo farti sorridere prima di farti piangere» precisa
lo svizzero.
«Piangere?»
«Un altro modo di dire, Loris. Qualcuno ha messo sotto sopra l’ufficio di Lugano di Luciano Müller e anche la
sua casa, approfittando di un momento in cui la moglie
riposava. Hanno portato via documenti e computer. Pure
il laptop che c’era nello studio di casa...»
Sebastiani evita di ribattere. Ha capito che il collega sa
di quello che ha fatto Radeschi.
«Quando?» chiede alla fine.
«Subito dopo che ce ne siamo andati da casa di Müller.
Solo che io l’ho saputo soltanto adesso da un collega. Non
è di mia pertinenza, sai, io mi occupo di ben altro.»
«Lo so che stai più col camice che in divisa. Grazie per
l’informazione.»
A Rochat però non sta bene di essere liquidato così.
«In che casino mi hai cacciato, Loris?»
«Nessun casino. Quel Müller aveva dei segreti.»
«Sarà per questo che girava sempre con un uomo di
scorta che gli faceva anche da autista?»
«Davvero? E che fine ha fatto adesso?»
«Dopo la sua morte, come logico, è stato congedato e
gli uffici lasciati incustoditi.»
«Chi te le ha date queste informazioni?»
«Sempre il solito collega di Lugano. In via ufficiosa.»
«Perché la moglie non ci ha detto della scorta?»
«Non gliel’hai chiesto, no? Siamo persone discrete da
queste parti.»
«Così pare.»
255
«Un’ultima cosa: quella foto che vi siete portati via, la
signora la rivuole.»
«Ne abbiamo fatto delle copie. Lunedì gliela spedisco
col corriere. Grazie per le dritte. Ti devo un favore.»
Non fa in tempo a riagganciare che già Lonigro spunta
dal corridoio.
«Posso?»
«Entra, ispettore. Niente ponte nemmeno tu?»
«No, lavoro anche domani e domenica. Tengo le ferie
per l’estate; mia moglie preferisce così...»
«Ci sono novità?»
«Ragionamenti che ho fatto, più che altro.»
Il sigaro di Sebastiani compie una rotazione completa
in segno d’apprezzamento.
«Allora accomodati e racconta.»
«La scansione temporale dei delitti mi fa impazzire:
non la capisco!» sospira il poliziotto. «Voglio dire perché
la Mantide avrebbe ucciso sedici anni fa per poi fermarsi
per così tanto tempo?»
«Forse non è stata lei all’epoca.»
«Due casi separati, quindi?»
«Non ho detto questo: forse siamo di fronte allo stesso
caso ma gli esecutori sono diversi.»
«Un maestro e un discepolo?»
«Qualcosa del genere.»
«Dove saranno finiti quei ragazzi?»
«Dove sono i corpi, vuoi dire?»
«A questo punto sì.»
«Tre sparizioni e un omicidio in meno di un anno. Non
mi sembra possibile che non li troviamo.»
«Non abbiamo ancora trovato il modo di pescare la
Mantide nello stagno di Corvetto...»
«Già, peccato che sia uno stagno con centomila pesci.»
256
Sebastiani fissa il volto di Lonigro poi abbassa lo sguardo e osserva un oggetto che tiene sulla scrivania da quando ne ha memoria. Un posacenere in metallo in stile anni
Settanta, di quelli col pulsante nel centro che quando lo
premi abbassa il coperchio rotante perché tu possa spegnere la sigaretta all’interno. Quel coso è lì, in piena vista,
da almeno dieci anni e a nessuno verrebbe mai in mente di
guardarci dentro dato che Sebastiani non fuma e non tollera che lo si faccia nel suo ufficio.
«Forse non cerchiamo dove dovremmo, ispettore. O
proprio dove non dovremmo...»
«È una specie di quiz?»
Sebastiani si alza in piedi, eccitato.
«Dov’è l’ultimo posto in cui cercheremmo un sospetto?»
«Fa della retorica?»
«No, sul serio. Spara a ruota libera.»
«Devo dire qualcosa di reale o di paradossale?»
«Più è paradossale più farà al caso nostro.»
«Dunque, mi lasci pensare. Ecco: in duomo non lo cercherei mai.»
«D’accordo. Vai a avanti. Elencami un po’ di posti, su.»
«Be’, al cimitero monumentale. Nei musei. Nei commissariati. Qui in questura. Bastano?»
Loris scuote la testa e agita il sigaro.
«Sai invece dove non cercherei mai qualcuno io?»
«Dove?»
«Nel carcere di San Vittore.»
«Ovviamente.»
«Dico sul serio. Se il nostro assassino si fosse fermato
perché impossibilitato ad agire...»
«Questo spiegherebbe anche il blackout di tutti questi
anni.»
«Esatto; non ha ucciso perché era in gabbia.»
257
«Potrebbe essere un’idea.»
«Allora facciamo un tentativo, tanto cosa abbiamo da
perdere?»
Lonigro strabuzza gli occhi.
«Che tentativo?»
«Ti ricordi i boxer sporchi di rossetto di Molinari?»
«Sì»
«Se c’è il rossetto c’è saliva no? La scientifica lo ha analizzato e oggi sono arrivati i risultati dell’esame del dna
estratti da lì.»
«Li ho ricevuti anch’io. Ma cosa possiamo farne? Allo
stato attuale non disponiamo di una banca dati del dna...»
«Tranne che per le prove forensi... Voglio dire se durante un processo il dna è stato utilizzato come prova l’abbiamo nei nostri archivi elettronici no?»
«Sì ma si tratta di pochi casi isolati...»
«Tentiamo comunque.»
«D’accordo. Andiamo nel mio ufficio, lì posso accedere al nostro archivio informatizzato.»
Mezz’ora più tardi la faccia di Lonigro s’illumina.
«Ho un riscontro.»
Sebastiani si alza dalla sedia sulla quale aspettava impaziente e si avvicina allo schermo del PC.
«Ecco qui. Il dna appartiene a una detenuta: Dania Méndez, originaria di Santo Domingo. Sta scontando dieci anni
e otto mesi per aver ammazzato il marito. Stando alla sua
scheda l’uomo la pestava e la costringeva a battere...»
Il sigaro nella bocca di Sebastiani balla la rumba.
«Come mai abbiamo il suo dna?»
«È stato trovato sotto le unghie del marito. L’aveva
graffiata cercando di difendersi mentre lei l’accoltellava.
Grazie a quella prova l’hanno incastrata.»
258
«Una cosa mi sfugge, però: hai detto che sta ancora
scontando la sua pena?»
«Sembra impossibile ma è così: le mancano cinque anni.»
Il sigaro ha un sussulto prima di venire morso con violenza dal vicequestore.
«Ma se sta in prigione come diavolo ha fatto il suo dna
a finire sui boxer della vittima?»
259
18.
«Oggi è un classico giorno da Mantide.»
«Mi sa che hai fumato troppo, Fabio»
Siamo entrambi sdraiati sul divano. Devastati da una sessione micidiale di Halo e di cannabis. Gli occhi rivolti al soffitto.
«No, dico sul serio.»
«Da cosa lo deduci?»
«I milanesi ammazzano al sabato, no?»
«Esatto, visto che gli altri giorni lavorano.»
«Guarda che ho letto anch’io Scerbanenco, sai?»
«Non ti facevo uno da gialli, Fabio.»
«Tu mi sottovaluti.»
«Ah sì?»
«Già; per esempio sai che sono stato per due anni campione italiano delle olimpiadi di matematica e che completo un cubo di Rubik in ventotto secondi?»
Annuisco stancamente.
«Ti preferivo quando leggevi gialli.»
«Va bene, lasciamo perdere.»
«No, ora mi hai incuriosito: perché dici che oggi è un
giorno da Mantide?»
«Per via del ponte, del periodo di festa, insomma. Nei
casi precedenti, ogni volta che ha colpito, è sempre stato
durante le feste.»
260
«E tu come fai a saperlo?»
«Ieri ho letto il tuo pezzo su Milanonera. C’è quella tabellina con i nomi e le date di quando sono scomparsi i
ragazzi. Ebbene: erano sempre giorni di vacanza o simili.
Giorni in cui la gente non lavora. Da qui la mia deduzione
che oggi sia un giorno buono per la Mantide. Ieri era il 25
aprile, festa della Liberazione, e fino al primo maggio, festa dei lavoratori, l’Italia se ne starà in vacanza. Sei giorni.»
«E la Mantide ne approfitterà» concludo io. «Come
ogni volta che ha colpito!»
Sono sbalordito dalle capacità analitiche di Fabio. E
anche incazzato per non averci pensato da solo: ho creato
io quella stupida tabellina a uso dei lettori e non sono stato
in grado di dedurne nulla. Questo nerd calabrese mi stupisce ogni giorno di più.
«La tua teoria mi piace, Fabio. Ma si può fare meglio,
non credi?»
«In che senso?»
Recupero il portatile e apro un file che contiene un
mappa di Milano modificata.
«Guarda questa, l’avevo abbozzata qualche giorno fa: i
puntini rossi sono i luoghi dove i ragazzi sono stati visti
per l’ultima volta prima di sparire.»
«Che posti erano?»
«Tutti locali alla moda.»
«E a parte questo?»
«Tutti in centro, dove è impossibile parcheggiare» aggiungo. «Capisci?»
«Dove vuoi arrivare?»
«Come ha fatto la Mantide a portarseli a casa?»
«Che ne so? Avranno preso i mezzi pubblici.»
«L’ho pensato anch’io. Così sono andato per esclusione. Il metrò chiude poco dopo mezzanotte e il bus non
261
passa mai abbastanza in fretta per due che sono su di giri.
Quindi resta...»
«Il taxi. Molinari non sarebbe mai salito su nessun altro
mezzo.»
«Esatto.»
«Va bene. E ora che sappiamo come sono tornati a casa
cosa abbiamo risolto?»
«Molto, caro mio. Non ci resta che scoprire dove sia
questa casa.»
Fabio, pur annebbiato dalla droga, capisce finalmente
dove voglio andare a parare.
«Oh no! Non pensarci nemmeno.»
«Oh sì, Fabio. Ora faremo qualcosa d’illegale.»
Dopo cinque minuti le sue proteste si esauriscono. La
sfida informatica lo stuzzica sempre più dell’etica.
«Passami la tastiera» ordina. «Meglio che sia un professionista a occuparsi di questa cosa, così non rischiamo di
essere scoperti!»
Gli cedo il comando, ben felice che si sia proposto di
prenderlo.
«Da dove cominciamo?»
«Le principali società di taxi a Milano sono due. E, a
quanto ne so, sono state anche tra le prime aziende a modernizzarsi e a mettersi in rete. Non dovrebbe essere difficile bucarle. Attacchiamo da lì, nel vero senso della parola.
Ecco, questi sono i loro nomi.»
Fabio legge dal foglietto che gli passo ed entra nel tunnel, come gli piace definire questo stato di simil catalessi
in cui nulla esiste intorno a lui. La sua completa concentrazione è riservata al codice che fluisce dalle sue dita. Una
sorta di Matrix in salsa alla ’nduja.
Mi metto in disparte e aspetto fumando un’arrotolata.
«Sono dentro» annuncia dopo una decina di minuti,
262
come se fosse la cosa più naturale del mondo bucare i server delle compagnie di taxi.
«Ora incrocio le chiamate con le date delle scomparse
e vediamo cosa salta fuori.»
«Dì la verità che ti stai divertendo?»
Il calabrese non risponde. È già rientrato nel suo tunnel.
«Ho trovato qualcosa.»
Mi avvicino, concentrandomi sulla lista di percorsi e
orari elencati sullo schermo.
«Ho incrociato le date con le chiamate dei taxi provenienti dalla cella telefonica in cui sono situati i locali dove
si trovavano i ragazzi scomparsi.»
«E?»
«Una media di trenta risultati per ogni data.»
«Che tu hai confrontato fra loro per vedere se ci fossero
delle analogie, dico bene?»
Lui mi lancia un’occhiata di biasimo.
«Ovvio.»
«Non tenermi sulle spine, allora.»
«Intersecando i dati è venuto fuori un dato sorprendente: in quelle date un taxi ha sempre riportato qualcuno
a casa in un certo indirizzo del quartiere Corvetto.»
«Proprio dove hanno ritrovato il cadavere di Paolo!»
«È quello che ho pensato anch’io. Però, non dimostra
nulla. Potrebbe trattarsi di un tipo a cui piace sbronzarsi
nei locali alla moda e che non ama guidare al rientro.»
«Certo, una semplice coincidenza» ammetto alzandomi
in piedi. «Tu però dammi l’indirizzo.»
«Piazzale Gabrio Rosa al 7.»
Mentre lo dice la sua espressione cambia di colpo. Impallidisce.
«Cos’altro c’è? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»
«Non un fantasma.»
263
«Cosa allora?»
«La Mantide: qualcuno ha appena richiesto a un taxi di
essere portato in piazzale Gabrio Rosa.»
«Quando?»
«Nove minuti fa.»
*
La città è vuota. Deserta come sempre nei giorni di
ponte. Auto rade, qualche scooter e gli autobus che viaggiano senza passeggeri. I milanesi scappano appena possono.
Spengo il motore del Giallone e mi avvio a piedi verso
la casa della Mantide.
Quando sono quasi davanti alla villetta decido di chiedere consiglio.
«Pronto.»
«Buonasera e scusi per l’orario. Sono Radeschi.»
Avverto un’esitazione nella voce della perpetua.
«Lei è un parente?»
Ci risiamo.
«No signora. Mi chiamo Radeschi senza la k. Sono
anch’io di Capo di Ponte Emilia, non austriaco.»
«E cosa desidera a quest’ora?»
«Parlare con monsignore. Si tratta di una questione
molto urgente che non può aspettare.»
«Quanto urgente?»
«Ha presente il passo 82, 7 della Bibbia?»
«Veramente no.»
Meno male perché ho sparato a caso.
«Oh sapesse! Urgentissimo!»
«Un attimo.»
Mi lascia in attesa. Sento sbattere la cornetta e ciabattare.
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Cinque minuti dopo all’apparecchio arriva la voce squillante di don Lino.
«Enrico bello! Come stai? Stavo andando a letto.»
«Bene don e mi scusi per l’ora.»
«Ah, non è l’ora, è l’umidità che mi massacra le giunture. Sai, l’età e la nebbia....»
«Già.»
«Non hai chiamato a quest’ora per sapere dei miei acciacchi, giusto?»
«In effetti no. Per quanto...»
«Parla.»
«Ha presente il caso di quei ragazzi scomparsi qui a
Milano?»
Don Lino è uno che vive di cronaca nera. Si legge tre
quotidiani al giorno e alla tv si guarda tutte le trasmissioni
sulle persone scomparse, i delitti irrisolti e così via. Sostiene di farlo perché «se sai dove si nasconde il Diavolo lo
combatti meglio».
Sarà.
«Vagamente» mente sapendo di mentire. Ma i preti
non devono sempre dire la verità?
«Peccato, speravo che...»
Abbocca subito.
«Avanti, ne so comunque abbastanza per risponderti.»
«Ha ascoltato per quarant’anni le confessioni di uomini
e donne, amanti, ladri, magari pure assassini, non lo so. Si
sarà fatto delle idee. Avrà delle statistiche mentali. Insomma potrà confermare una mia teoria senza fare nomi. A me
interessano i comportamenti umani in generale, non il
soggetto specifico.»
«Detta così sembra anche ragionevole. Cosa vuoi sapere?»
«Se l’idea che mi sono fatto è giusta.»
265
«Vale a dire?»
«L’omicida è una donna.»
«Non mi sembra che questa sia poi una grande deduzione: ne parlano tutti i giornali...»
«Lo so. Quello che non le ho detto è che ho in mente di
prenderla in trappola. E devo capire se agisce da sola o in
combutta con altri.»
«Tu... cosa?»
«Non ho tempo per discutere adesso. Devo solo avere
il suo placet.»
«Non ce l’hai.»
«Cosa le dice la sua esperienza?»
«Dalle mie parrocchiane non ho mai sentito storie del
genere! Qui al massimo prendono a scopettate il marito
che torna ubriaco dall’osteria...»
«D’accordo. Scusi per il disturbo.»
«Enrico?»
Conosco quel tono: vuole dissuadermi. E non posso
permetterglielo. Così riattacco e spengo il cellulare perché
non si metta a squillare sul più bello.
Ormai sono qui. Non ha senso tornare indietro.
*
Luce soffusa, inceso al patchouli che brucia, champagne ghiacciato nel secchiello. Tutto perfetto. O quasi. La
donna non si sente tranquilla; i lamenti del cane ai piedi
del letto la disturbano. Un elemento che non può controllare, fuori dagli schemi. Il cucciolo si alza sulle zampe posteriori per saltare sul materasso insieme a loro e guaisce.
Quando si erano incontrati, alla vista del cagnolino lei
avrebbe voluto lasciar perdere ma constatando quanto
fosse bello il suo padrone si era detta che, in fondo, quel
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piccolo pulcioso non poteva certo causargli un grande fastidio.
«Sai, non so a chi lasciarlo» si era giustificato l’uomo col
suo accento British molto marcato. «È così piccolo! Ha appena tre mesi. E poi serve a far colpo sulle donne, no?»
Lei aveva sorriso e aveva baciato di slancio sulle labbra
il suo spasimante. Senza preavviso.
«Tu hai già fatto colpo, tesoro. Ti va se ce ne andiamo
subito da qui e ci rilassiamo da me?»
Lui aveva accettato con entusiasmo e ora eccoli lì, lei e
il suo giovane amante nudi sulle lenzuola vermiglie.
«Ti spiace se metto il cucciolo di là? Meglio che non
veda certi giochetti...»
«Ma certo» ride lui. «Fai pure!»
La donna solleva il labrador e lo porta in cucina. Poi in
bilico sui tacchi a spillo, ritorna dalla sua preda.
Prende la candela dal comodino e l’accende.
«Ora faremo un gioco con la cera calda, va bene old
boy?»
«Wonderful.»
«Vedrai, ti farò morire!»
*
Il grimaldello che tengo in tasca è un souvenir di Sciamanna. Uno di quegli affari dentellati in metallo che si vedono nei film. Non è un regalo, figurarsi, quella serpe
piuttosto che farti un favore gratis si strappa le unghie. Per
cinquanta euro me l’ha procurato insegnandomi al contempo i rudimenti del mestiere. Non ne vado fiero ma una
volta compreso il meccanismo dei pistoncini che bloccano
la serratura e il senso in cui girare, non ci vuole una scienza infusa per scassinarla. Lui si era premurato di fornirmi
267
una dimostrazione pratica forzando la porta dei cessi del
birrificio di Lambrate. Il tizio dentro ci aveva guardati come se ci volesse ammazzare ma appena aveva capito chi
aveva di fronte – lui ovviamente – aveva abbassato la cresta e si era richiuso la patta.
Ora è il momento di provarlo sulla porta di questa villetta a due piani di piazza Gabrio Rosa che sta proprio di
fronte a un parco giochi. Da dentro non provengono rumori e le luci sono spente.
Mi calo un vecchio berretto sul volto e preparo l’aggeggio.
Non è la migliore pensata che io abbia mai avuto ma i
pistoncini stanno già girando e in meno di cinque secondi
sono dentro che manco Lupin!
All’interno tutto è buio e silenzioso. Avanzo prestando la
massima attenzione. Mi sembra di sentire un latrato seguito
da una randellata tremenda alla nuca. E tutto svanisce.
Quando riapro gli occhi quasi svengo per la puzza. Un
odore pungente, violento. Fatico a respirare, visto che ho
la bocca sigillata con un pezzo di nastro adesivo di quelli
da pacchi. Così non posso urlare né chiedere aiuto.
La testa mi duole ma non mi lamento; la mazzata me
la sono meritata. Cosa credevo: di piombare nella casa di
un’assassina e catturarla a mani nude? Provo ad alzarmi
ma mi rendo conto di avere i polsi e le caviglie legate
strette. Ciò che mi fa ritornare davvero alla realtà, tuttavia, è qualcosa che mi bagna il volto; un cucciolo di labrador che mi lecca. L’hanno legato con una corda a uno
dei pilastri di cemento del luogo in cui mi trovo. Sembra
una cantina.
Un filo di luce filtra attraverso una finestrella e quando i miei occhi si abituano all’oscurità noto che vicino a
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me sono accatastati dei sacchi di tela. La puzza proviene
da lì.
Provo a liberarmi ma non c’è verso. Sono legato stretto
con fascette da elettricista e comunque, se anche riuscissi
ad alzarmi, c’è una lunga scala da percorrere per tornare al
piano superiore: impensabile coi piedi bloccati.
Provo in tutti i modi a liberarmi. Anche il cane strattona ma ci rinuncia subito con un guaito. Se tira troppo rischia di strozzarsi. È legato con una catena a strozzo. Mi
lascio scivolare a terra.
Sono fregato. È il giorno dopo la Liberazione e io sono
prigioniero. Ironia della sorte.
Sospiro e solo allora avverto una presenza dietro di me.
Qualcuno che si muove nel buio. Vicinissimo.
Il cane abbia e io cerco di voltarmi per guardare ma
nuovamente qualcosa di duro mi colpisce alla nuca e la
luce si spegne.
*
«Quello col cappellino chi diavolo è?» chiede il sovrintendente Sciacchitano.
Lui, l’ispettore Lonigro e il vicequestore Sebastiani sono appostati a bordo di una Tipo grigia. Un’auto civetta
della polizia per non dare nell’occhio. Sono arrivati davanti alla casa da sorvegliare da una manciata di minuti quando vedono un’ombra avvicinarsi alla porta.
«Quelle che tiene in mano non mi sembrano delle chiavi» commenta il vicequestore.
«Sta scassinando la serratura.»
«Che facciamo, interveniamo?»
Il sigaro di Sebastiani si muove lentamente da un’estremità all’altra della bocca. Sta valutando i pro e i contro.
269
Fare irruzione senza mandato nella casa di un sospetto
non è mai una buona idea a meno che non si disponga di
prove inconfutabili. E loro non le hanno.
«Aspettiamo. Quando quel tizio esce lo fermiamo.»
«E se non esce?» chiede Lonigro.
Loris stavolta inizia a masticare il sigaro.
«Diamogli dieci minuti. Se non viene fuori lui entriamo noi.»
Il tempo trascorre lento sulle lancette del Longines di
Sebastiani. Pigro e interminabile come sempre quando si è
in una situazione di tensione.
Lonigro e Sciacchitano fremono preparandosi all’azione.
Allo scoccare dell’undicesimo minuto il vicequestore si
rassegna.
«Andiamo. Prima però avvertite la Centrale che ci
mandino qualcuno.»
I tre scendono dall’auto con le pistole in pugno e attraversano la strada di corsa fino alla porta della villetta.
«Io entro per primo, poi Lonigro mentre tu, Sciacchitano, rimani di copertura.»
La notte è silenziosa e la strada vuota.
Si avvicinano piegandosi sulle ginocchia fino alla porta,
che trovano accostata. La serratura è stata scassinata e non
chiude più.
Sebastiani la spinge lentamente ed entra urlando «polizia!”.
Da una delle stanze sul fondo del corridoio giungono
dei rumori di lotta e il poliziotto ci si precipita seguito da
Lonigro.
«Fermi tutti!»
Con un calcio spalanca la porta ma quello che vede lo
lascia interdetto. La Mantide è ancora più bella di quanto si aspettasse. Labbra carnose, occhi da lupa, capelli
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selvaggi, profumo pungente. Indossa una vestaglia nera e
calze autoreggenti con giarrettiera. Non è la sola cosa che
colpisce lo sbirro. Sul letto, pieno di sangue, giace il cadavere di un ragazzo con un pugnale conficcato nel cuore mentre Radeschi – «Che diavolo ci fa qui?» – imbavagliato e legato mani e caviglie, è inginocchiato ai piedi
della donna.
Sebastiani ordina alla Mantide di alzare le mani ma
esita più del dovuto, così lei ne approfitta per estrarre
una piccola pistola che nasconde sotto la vestaglia e fa
fuoco.
Chi non si lascia soggiogare dai movimenti della donna
è Radeschi, che facendo leva sulle gambe piegate, si lancia
in aria per proteggere il suo amico sbirro beccandosi così
il proiettile, seppur di striscio, nella chiappa destra.
La pallottola scheggia lo stipite della porta a un metro
dalla testa di Sebastiani che rimane impietrito. Non Lonigro, che a testa bassa travolge la donna senza darle il tempo di sparare ancora. La spinge a terra come una iena che
si avventa su una carcassa. La disarma e l’ammanetta senza
tanti complimenti mentre lei strilla come un’aquila. Solo
allora il vicequestore si scuote e si piega su Radeschi rantolante sul pavimento.
«Grazie» sussurra.
Il giornalista mugola per via del cerotto ancora sulla
bocca.
Sebastiani glielo strappa con un gesto secco mentre da
sotto i loro piedi proviene il rumore di una vetrata che va
in pezzi.
«Ha un complice» grida Radeschi appena può. «E sta
scappando dalla finestra del seminterrato!»
*
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«Andato. Ho provato a inseguirlo ma quello correva
come una lepre. Si è dileguato.»
Il sovrintendete Sciacchitano ha l’aria del cane bastonato e il fiato corto di un maratoneta scoppiato, quando ritorna a fare rapporto.
Io sono sdraiato sul pavimento con il culo all’aria e un
asciugamano, pescato da Sebastiani chissà dove, a tamponarmi il sangue.
La Mantide l’hanno presa in custodia due agenti mentre l’ambulanza ancora tarda ad arrivare. Da dove mi trovo intravedo una mano che pende dal letto. Quella del
ragazzo che la donna ha appena ucciso.
La stanza è uno scannatoio in piena regola: prima l’amore e poi la morte. Dall’anta socchiusa dell’armadio scorgo gli accessori della seduzione: parrucche, vestiti, pail­
lettes, profumi e afrori coloniali che escono da un vecchio baule.
«L’ambulanza è arrivata» annuncia Sebastiani, ancora
scosso per quello che è successo. «Non morirai, Radeschi,
stai tranquillo.»
Sorrido amaro mentre Lonigro ricompare dopo una veloce ispezione al seminterrato.
«Giù dabbasso è uno schifo. Pieno di cadaveri sotto
canfora.»
«Cadaveri?» domanda Sebastiani.
«Affermativo. Mi sa che abbiamo scoperto dove nascondeva i corpi...»
«E il cucciolo?» chiedo.
L’ispettore mi ignora e si scansa di lato per far passare
la barella.
«Mi hai salvato, grazie» sussurra Sebastiani mentre mi
sollevano di peso.
«Prego.»
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Lo sbirro però non cede al sentimentalismo e torna ruvido.
«Sappi che la versione ufficiale sarà che la pallottola te
la sei presa mentre cercavi di fuggire a gambe levate dalle
grinfie di quella donna.»
«Molto eroico, direi.»
«Farai un figurone.»
«Come avete fatto a trovarmi?» chiedo. «Vi ha chiamati Fabio? O è stato il mio amico prete?»
«Tu hai un amico prete?»
Non gli bado e insisto: «Allora, come ci siete riusciti?»
«Niente di quel che pensi. La verità, come dimostra anche la tua attuale situazione, è che hai avuto culo. Non
abbiamo trovato te, abbiamo trovato lei. Sorvegliavamo la
casa, quando ti abbiamo visto commettere un’effrazione...
Eravamo qui per arrestare un’assassina e ci sei capitato fra
capo e collo. Per tua fortuna, aggiungerei.»
«Danno collaterale.»
«Esatto.»
«Dobbiamo portarlo in ospedale» interviene uno dei
paramedici.
«Un secondo» chiedo rivolgendomi a Sebastiani. Lui fa
segno ai soccorritori di attendere: tanto non si crepa per
una pallottola di striscio nel didietro.
«Vuoi affidarmi le tue ultime volontà?»
«Non mi hai detto come siete arrivati qui: io e Fabio
siamo risaliti a questo posto grazie alle chiamate dei taxi.
Voi?»
«Dovrei arrestarvi tutti e due.»
Lo ignoro e insisto: «Come siete arrivati a lei?»
Il sigaro dello sbirro scivola lentamente verso un lato
della bocca.
«Dai permessi premio.»
273
«Frena. Parli di lotterie?»
«Parlo dei permessi che ti danno in carcere per buona
condotta.»
Ora la testa mi pulsa e anche la ferita.
«Mi stai dicendo che quella pazza in realtà è una detenuta e ogni tanto esce e ammazza?»
«Più o meno.»
«Come è possibile?»
«Quando un carcerato ha scontato almeno metà della
pena può richiederli.»
«Quanto ha preso?»
«Dieci anni per un omicidio.»
«Non mi sembrano molti...»
«Aveva un bravo avvocato: quella carogna di Manfredi
Visconti...»
«E lui avrà giocato al meglio le sue carte.»
Il sigaro si muove veloce.
«Lonigro ha spulciato la sua scheda. Si chiama Dania
Méndez, trentotto anni, ed è stata giudicata con rito abbreviato, che già permette una riduzione di pena di un
terzo. Condannata con le attenuanti generiche a dodici
anni ridotti a dieci e otto mesi in appello. Ha goduto del
suo primo permesso premio l’anno scorso a giugno...»
«Proprio quando sono cominciati a scomparire gli uomini...»
«Esatto.»
«Abbiamo controllato le date dei permessi, confrontandole con quelle delle denunce di scomparsa. E indovina?»
«Corrispondono.»
«Sei perspicace ragazzo, sai? Dieci mesi fa, come ti dicevo, ha goduto del suo primo permesso. Cinque giorni
dal 31 maggio al 5 giugno.»
«Quando è scomparso Giorgio Conti.»
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«Bravo. Il secondo permesso l’ha avuto, sempre nel
2001, quattro giorni dal 31 ottobre al 3 novembre. Per il
ponte dei morti...»
«Quando è toccato a Ivan Gasparini!»
«Un nuovo permesso di tre giorni per Capodanno.»
«E siamo a Davide Mari. Quest’anno?»
«Cinque giorni, Pasqua, dal 31 marzo al 4 aprile...»
«Quando è stato ucciso Molinari!»
«Sì, è lei che ha ammazzato il tuo amico.»
«Maledetta. E oggi come mai siete venuti qui?»
«Era uscita ieri per il ponte del 25 aprile. Cinque giorni. Così abbiamo chiamato il giudice di sorveglianza;
quando un detenuto lascia il carcere anche solo per un
giorno deve fornire un domicilio in cui poter essere sempre rintracciato...»
«E la Méndez ha dato questo indirizzo.»
«Per tua fortuna.»
275
19.
«Così hai giocato all’eroe e ti sei fatto sparare nel...»
«Già.»
«Questa sì che è una storia da raccontare!»
«Peccato non si possa. Segreto istruttorio.»
Mi osserva divertito: «Stai comodo messo così?»
«Sparisci!»
Fabio se ne va ridacchiando.
In ospedale mi hanno dimesso dopo una medicazione e
un paio d’ore sotto osservazione. A parte questo l’esperienza della pallottola nel gluteo, per quanto dolorosa, ha
portato molte novità.
Innanzitutto il mio primo vero scoop. Sono rimasto su
tutta la notte – cioè coricato prono sul letto per alleviare il
bruciore e con le dita incollate alla tastiera del portatile –
per scrivere un paio di pezzi che hanno fatto parlare tutta
la città. Uno per Milano (e hinterland) Oggi che ha occupato la prima pagina e l’altro su Milanonera. Entrambi con
il medesimo titolo, “Catturata la Mantide di Corvetto”.
Modestamente detengo il copyright di questa espressione e ora tutti lo stanno riprendendo. Pure all’estero,
visto che è venuto fuori che l’ultima vittima della donna
era un ragazzo inglese: Michael Taylor di Manchester.
Negli articoli ho raccontato la storia della Mantide che
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adescava giovani ragazzi, ne abusava e poi li uccideva, depositando i loro cadaveri in cantina. Del complice la polizia mi ha detto di non fare cenno e io ho ubbidito. In fondo non sono più così sicuro che esista. In faccia non l’ho
visto e la donna giura e spergiura di aver agito da sola.
Afferma di non sapere chi abbia rotto il vetro del seminterrato. Forse un ladro. Non certo un complice, sostiene.
Se ne riparlerà quando, e se, lo arresteranno.
Il mio Motorola non la smette un attimo di squillare.
Devo tenerlo attaccato alla presa di corrente perché non si
spenga ogni volta che rispondo. I giornali si sono finalmente ricordati dei curriculum che gli ho mandato mesi
prima e le proposte di collaborazione retribuite finalmente stanno arrivando.
L’altra novità di questa faccenda è che il cucciolo di labrador me lo sono portato a casa. Nessuna trafila burocratica. La questura mi ha rilasciato una liberatoria e io – appena uscito dall’ospedale – sono andato a recuperarlo al
canile dove l’avevano confinato. Ora devo solo passare da
un veterinario convenzionato per iscriverlo all’anagrafe
canina. Era la cosa giusta da fare: quando un piccolo cuore
ti viene a cercare non c’è carta bollata che tenga. Il suo
padrone è morto ammazzato e il piccolo sarebbe rimasto
chiuso in gabbia chissà per quanto. Forse per sempre.
Sebastiani non ha avuto nulla da eccepire quando gli
ho formulato la mia richiesta: difficilmente potrà dirmi di
no ora che gli ho salvato la pelle.
Chi non l’ha presa altrettanto bene è Fabio; forse è per
questo che, nonostante io sia convalescente, è così acido.
«Gli animali non sono ammessi in questa casa!»
«E dove sta scritto? Tu, allora?»
Non ho fatto in tempo a dirlo che il cagnolino ha pisciato sulle sue scarpe ma per fortuna il calabrese era di
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spalle. Più tardi tenterò di asciugarle col phon ma non so
quanto servirà. Sto cercando d’insegnargli a non farlo.
Magari dovrei parlagli in inglese, forse capirebbe di più.
Chissà.
Il problema è che il mio coinquilino è un patito dell’igiene e della pulizia. Non che a me piaccia vivere nella
spazzatura, intendiamoci, ma c’è un giusto mezzo per tutto. Dal canto suo Margot stravede per il piccolo doggy.
«Adorabile» continua a ripetere mentre si fa leccare la
faccia.
Ah, quasi dimenticavo: la terza grande novità è che da
oggi la dolce ragazza è venuta ad abitare con noi. Rimarrà
per tre mesi e, se tutto va nel verso giusto, io avrò un’amorevole crocerossina a mia disposizione.
*
«Esiste davvero questo fuggitivo o ve lo siete sognato?»
La voce del questore, Lamberto Duca, è imperiosa.
Non gli è piaciuto per niente come sono andate le cose:
l’approssimazione dell’irruzione, il giornalista fra i piedi,
la fuga del complice. Ammesso poi che esista davvero, visto che non sono stati trovati indizi di sorta.
Sebastiani, seduto a disagio di fronte al superiore, tormenta fra i denti il solito toscanello mentre si sottopone
all’interrogatorio. Dopo l’arresto della Mantide hanno festeggiato a metà in questura. La stampa ha suonato la
grancassa scrivendo che l’incubo è finito che e i ragazzi
ora possono nuovamente uscire tranquilli. Quello che non
sanno – perché gli inquirenti hanno deciso di mantenerlo
riservato – è che forse la Méndez aveva un complice. Questo particolare fa infuriare il questore, che ora batte il pugno sulla scrivania.
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«Chi è?»
«Ancora non lo sappiamo» ammette Sebastiani. «Un
uomo, senza dubbio: il sovrintendente Sciacchitano l’ha
visto di spalle mentre scappava. Da quanto abbiamo ricostruito ha sollevato di peso il giornalista, Radeschi, per
portarlo in cantina. Qui l’ha legato e, forse, l’avrebbe seviziato se ne avesse avuto il tempo. Riteniamo che lo abbia
anche riportato al piano superiore. Quando, però, si è accorto della nostra presenza è scappato.»
«E ve lo siete perso. Questo lo so. Quindi tutto si basa
sulla dichiarazione di questo Radeschi di essere stato trasportato a peso, giusto?»
«Esatto.»
«Non può essere stata la Méndez ?»
«Improbabile: peserà meno di cinquanta chili...»
«Potrebbe o no?»
«Sì.»
«E potrebbe anche essere stato un ladro quello che avete visto fuggire?»
«Questo è ciò che sostiene la donna...»
«Risponda sì o no.»
«Sì» sospira Sebastiani.
«Bene. Allora forse non esiste nessun complice...»
«Quelli della scientifica hanno trovato parecchie impronte nella camera da letto e in cantina forse...»
«Forse troveremo un riscontro. Mi dica qualcosa di
nuovo, Sebastiani! Per esempio riguardo ai cadaveri.»
«Quattro. Tre in cantina – Conti, Mari e Gasparini –
tenuti in sacchi di yuta pieni di canfora per rallentare la
decomposizione e uno sul letto. Ucciso proprio ieri: Michael Taylor, un ragazzo inglese di ventidue anni qui per
un master alla Bocconi.»
«Il caso è diventato europeo, dunque.»
279
«Mi hanno segnalato un pezzo apparso proprio oggi sul Daily Mail: “English student killed by Mantis in
Milan.”»
«Che mi dice invece di quella casa? Apparteneva alla
Méndez?»
Il sigaro vibra nelle labbra del vicequestore.
«No, è intestata a un certo Pasquale Esposito.»
«E dove sta questo Esposito?»
«A Poggio Reale.»
«In carcere pure lui?»
Sebastiani allarga le braccia.
«Sì, ora stiamo cercando di chiarire la dinamica e capire come facesse la Méndez ad avere le chiavi...»
Duca è visibilmente contrariato.
«Dalle autopsie è emerso qualcosa di utile?»
«Il dottor Ambrosio non ha ancora finito gli esami ma
da quello che abbiamo potuto constatare il modus operandi utilizzato è sempre stato lo stesso. Prima i ragazzi venivano sedotti e legati al letto, quindi trafitti in punti non
vitali sul petto con un coltello da pesca, e alla fine giustiziati con un colpo dritto al cuore.»
«Terribile.»
«Non è finita. Da quello che risulta sono anche stati
sodomizzati. Tranne Taylor, forse, perché l’uomo non ha
fatto in tempo...»
«L’uomo? Quindi pensa che sia il complice ad abusare
dei ragazzi.»
«L’idea è questa.»
«La donna cosa dice?»
«Non parla. A parte ribadire di aver fatto tutto da sola.
Ha chiesto del suo avvocato – quella serpe di Visconti – e
si è chiusa in un ostinato silenzio. Non ha nulla da perdere
e lo sa. Dubito ci dirà il nome del complice.»
280
Duca sospira mentre sfoglia nervosamente le pagine del
rapporto che tiene davanti.
«Leggo che avete trovato anche una pistola nella cantina.»
«Una vecchia Glock col silenziatore. Era in un cassetto
ben oliata e ripulita. Senza impronte.»
«Sa il fatto suo il nostro fuggitivo.»
«Così pare.»
«Sappiamo a chi appartiene l’arma?»
«No. La matricola è abrasa. E poi, come le dicevo, è
molto vecchia, una specie di residuato bellico.»
«Allora non abbiamo niente.»
«Qualcosa invece l’abbiamo, signore: un collegamento.
Dall’analisi delle scanalature nella canna della pistola e dei
proiettili in nostro possesso si è stabilito che questa Glock
è l’arma che ha ucciso Molinari il giorno di Pasquetta e
Mattia Schiavon sedici anni fa a Padova. Se prima era solo
un sospetto ora è una certezza: tutti questi delitti sono collegati e resta da stabilire se la Méndez sia l’esecutrice materiale di tutti o solo di quelli recenti.»
281
20.
A quest’ora del mattino dovrebbe essere illegale anche
solo aprire gli occhi per chi a letto ci è praticamente appena arrivato. Dopo una sbronza di birra da record, per
giunta, in cui abbiamo festeggiato la mia completa guarigione: il mio lato B si è ristabilito, eccetto per una piccola
cicatrice.
Invece delle grida beduine ci svegliano di soprassalto.
«Non è possibile! Ki è stato quello skifoso!»
Io e Fabio stropicciandoci gli occhi corriamo in bagno
dove una donnona bionda brandisce uno spazzolone e ci
guarda con occhi di brace mentre indica disgustata delle
gocce di urina sul pavimento.
All’inizio la convivenza, quando eravamo squattrinati,
prima del commercio dei porno, era un incubo per via dei
turni di pulizia. Dovevo ripassare il cesso come un vaso
Ming almeno tre volte la settimana per compiacere Fabio.
Ci si poteva mangiare, in quella tazza!
Ora grazie al contributo economico di Margot che ci
ha già anticipato i suoi tre mesi d’affitto – e alla sua insistenza dopo una decina di giorni di convivenza – ci possiamo permettere una signora ucraina che ci faccia i lavori di casa.
Oggi è il suo primo giorno di lavoro e non promette
282
bene. L’ha scelta Margot che ancora ronfa nel suo letto,
ignara del dramma che si sta consumando.
«Io me ne torno a dormire» annuncia Fabio senza
scomporsi.
Così io rimango lì con Tatiana, credo si chiami, che mi
punta il dito contro minacciosa.
Nella vita precedente, probabilmente faceva ben altra
professione e ora che il fisico l’ha abbandonata lava i pavimenti e stira – immagino male – le camicie.
«Colpa del cane. Ogni tanto gli scappa.»
Il piccolo labrador se ne sta raggomitolato sotto il lavandino con un’espressione di puro terrore negli occhi.
«Kuesto perTe troppo pelo» dice con tono accusatorio.
«Fosse quello! Pensa che caga pure in casa. Per fortuna
lo sto addestrando e quella grossa dovrebbe tenerla e farla
al parchetto qui sotto. Per il pelo, purtroppo, non ci posso
fare nulla.»
Lei scuote la testa e inizia a passare furiosamente il mocho sul pavimento.
«Tu no kamina kui ke sporka!»
«Va bene. Esco col cane, ok?»
«Kome si kiama pestiaccia?»
«Non gli ho ancora trovato un nome adatto e non è una
bestiaccia!»
Lui mi salta addosso e mi lecca la faccia. Entrambe le
zampe contro il mio petto. Diventerà grosso. E per ora è
ancora un innominato. In effetti, avrei già dovuto trovargli
un nome dopo tutti quei giorni ma la scelta non è semplice.
Alla fine, come tutte le cose importanti della vita, la
soluzione al dilemma arriva quando meno te l’aspetti, quasi per caso. Succede quella stessa sera mentre, con Fabio,
ciondoliamo con due pinte all’esterno del birrificio di
Lambrate. L’illuminazione mi coglie sul marciapiede di via
283
Adelchi, tra una weiss e una canna, come è d’uopo in queste calde sere di primavera. Ho appoggiato il bicchiere ormai vuoto della mia Domm su un muretto e il cucciolo, in
un momento in cui sono distratto, salta su e si scola il fondo del bicchiere. Un dito di birra.
«Ora so come chiamarti piccolo, come il mio scrittore
preferito. A Milano mi sono portato solo i suoi romanzi. Ti
chiamerò Buk.»
«Come il richiamo della foresta?»
«Macché, quello era Buck! Comunque mi compiaccio:
oltre a giocare col Commodore 64 leggevi anche libri da
ragazzino.»
«Sai la Calabria degli anni Ottanta quanto a divertimenti non era Las Vegas. A ogni modo per cosa sta Buk?»
«Per Bukowski, no?»
«Direi che per un cane è un nome proprio azzeccato.»
«Mi prendi per il culo?»
«Davvero non ti viene in mente niente di meglio?»
Il cucciolo si sta ancora leccando i baffi con gusto.
«Direi di no. Buk è il nome perfetto per questo cagnolino.»
*
Nella Bassa i cinesi li trovi solo nei ristoranti con le lanterne rosse all’esterno. A Milano, invece, sono dappertutto, specialmente se vai nel loro quartiere, dove sembra di
stare a Pechino o a Shanghai: via Paolo Sarpi, la Chinatown meneghina.
Io ci vengo per comprare materiale informatico di
dubbia provenienza ma economico e funzionante e per
fare la spesa di alcuni generi alimentari introvabili altrove. Siccome l’adoro, oggi ho comprato una salsa piccante
284
– ma non voglio sapere con che ingredienti sia fatta! – in
una specie di supermercato bazar. Il negoziante col resto
mi ha elargito una perla di saggezza; parlando del più e
del meno è venuto fuori che il sottoscritto è nato nell’anno del Coniglio.
«Ne terrò conto e smetterò di mangiarlo» ho risposto.
«Da oggi lo salvaguarderò. Voglio che diventi solo un animale da compagnia.»
Farò di più, mi dico, mi iscriverò alla Lav e per ogni
articolo che pubblicherò (pagato) devolverò almeno un
euro all’associazione. Non che sia molto ma è quello che
posso fare per ora. Quando i tempi saranno meno grami
farò di meglio. Oggi comunque un po’ di quattrini li ho
incassati: Buk mi porta fortuna. Diventare suo padrone mi
ha reso un umano migliore. Almeno nei confronti degli
animali.
I dané sono arrivati dopo che ho scritto un pezzo su
commissione per il settimanale Panorama dal titolo “Il
giorno della Mantide” con lei in copertina in una foto sensuale pescata chissà dove. Sarà un successo di vendite, tanto che pure il Daily Mail, mi hanno detto, ha ripreso la mia
definizione di Mantis, all’inglese.
Non ho fatto tutto da solo, ovviamente: Sebastiani mi
ha aiutato a ottenere il permesso per intervistare la donna.
Un colloquio a San Vittore in presenza dell’avvocato Visconti, un pezzo grosso del foro meneghino, tutto cravatte
Marinella, gessato e gemelli d’oro.
«Acconsentiamo a questa intervista perché la mia cliente ci tiene a raccontare la propria versione senza distorsioni» aveva chiarito il principe del foro. «In particolare
smentisce categoricamente di aver agito in combutta con
chicchessia.»
In parole povere la Méndez voleva recitare la parte del-
285
la vittima: lei abusata e schiavizzata dal marito. Appena
uscita dal carcere provava questi impulsi terribili di sedurre e uccidere giovani ragazzi. Come lei all’epoca degli abusi, una sorta di transfert.
Nessun accenno al complice e un chiaro disegno dietro:
far passare il messaggio all’opinione pubblica in modo da
poter richiedere le attenuanti e, magari, la seminfermità
mentale. Giochetti da azzeccagarbugli che non mi interessano.
Il vicequestore, comunque, non mi ha fatto gratis questo piacere; anzi, ha colto i proverbiali due piccioni con
una fava: la contropartita che mi ha chiesto è che io scavi
in segreto nella vita del Visconti. La cosa non mi sconvolge, però ho chiesto lumi.
«Sospetti dell’avvocato?»
«Sospetto di tutti» mi aveva risposto l’uomo col toscanello perenne.
«Una ragione ci deve essere...»
«Questo Visconti è un pezzo grosso. Dubito che la
Mèndez si possa permettere la sua parcella, a meno che
anche per lei non ci sia il patrocinio gratuito...»
«Non ti seguo.»
«Visconti è anche l’avvocato di Guido Bellantuono, il
tizio che ha ammazzato Sommese. E ha usato la scusa del
patrocinio gratuito per darcela a bere. Vedi, si tratta di
due persone che non si potrebbero permette le sue parcelle.»
«Il mondo è pieno di fuorilegge e di avvocati corrotti.»
«Certo, ma il suo rapporto con la Méndez mi puzza.
L’ha difesa cinque anni fa all’epoca del primo processo,
quando è stata condannata per aver accoltellato a morte il
marito. Da allora è andato a trovarla regolarmente in carcere almeno una volta al mese. Strano, no? Negli ultimi
286
tempi, poi, ha addirittura intensificato le visite: anche più
d’una a settimana.»
«Pensi sia lui il complice?»
«Non lo so e non lo escludo. Però da solo non posso
approfondire.»
«Cosa vuoi dire?»
Sebastiani aveva esitato un istante prima di rispondere.
«Quello è uno che conta, pieno di agganci anche in
procura. Non puoi sparare al leone se non sei sicuro di
ammazzarlo al primo colpo, finisce che quello ti sbrana!
Ci vuole qualcosa di solido prima di sollevare un polverone. Già dalla procura mi hanno fatto sapere, neanche
troppo velatamente, di togliermi questa idea dalla testa...»
«Premesso che sono contro la caccia e che aborro l’esempio che hai appena fatto, dimmi cosa vuoi che faccia.»
«Voglio sapere tutto sul suo conto. Dove abita, dove
lavora, da dove viene, chi frequenta. Però stai in campana:
non deve sospettare di nulla. È uno con agganci molto in
alto.»
«Lo so. L’hai già detto!»
Nell’intervista la donna, come ci si aspettava, aveva raccontato la propria personale visione del male. La storia di
un marito molto più vecchio di lei che la picchiava e la
costringeva a prostituirsi. E che lei ha ammazzato a coltellate.
Mi sono informato: i criminologi lo chiamano fattore
scatenante. Da quel momento la Méndez ha cercato dei
sostituti. A ruoli invertiti, però; lei è diventata quella che
conduceva il gioco con partner molto più giovani.
Non so se crederci o meno. Non importa: la verità non
la si trova sui giornali.
«Ti va un aperitivo?» chiedo a Margot.
«Qui a Chinatown?»
287
«Vedrai, ti stupirò. Conosco un’enoteca da favola gestita da italiani; non uno di quei posti fighetti che adorano i
milanesi. Chi sta dietro al bancone se ne intende davvero
di quello che mesce.»
Lei sorride e accetta.
All’interno l’atmosfera è allegra e nessuno ha da ridire
per il fatto che ci sia Buk con noi. Molti esercenti storcono
il naso quando porti il cane. Non qui dove va in scena il
vero aperitivo meneghino, vale a dire nervetti, tartine con
salse fatte in casa, uovo sodo. Porzioni modeste perché poi
si va a cena. A questo dovrebbe servire l’aperitivo: aprirti
lo stomaco prima dei pasti e non istigarti a quell’orrendo
apericena (termine che già da solo mi dà l’orticaria) che
qui è tanto in voga in cui ci si ingozza di schifezze.
Margot sorride, fa tintinnare il bicchiere contro il mio,
mi sbatte gli occhioni e mi osserva liquida. Le nostre labbra si avvicinano naturalmente. Come quando il cielo da
grigio diventa blu e limpido senza quasi che tu te ne accorga. Sul più bello, però, lei si ritrae.
«Ti squilla il telefono.»
«Lascia stare.»
«Oh no! Magari è importante: forse si tratta di un altro
giornalone che vuole offrirti un lavoro!»
Il momento magico è passato. Tanto vale rispondere.
«Ho saputo che ti hanno sparato. C’era scritto su Panorama!»
Niente nuovi ingaggi, solo disagio. Cristina, la mia ex,
che mi coglie di sorpresa come sempre.
«Mai credere a quello che scrivono.»
«L’hai scritto tu! Come stai?»
«Bene. Ho solo una piccola cicatrice sul...»
«Ho capito. Non c’è bisogno che tu mi dica dove.»
«Adesso ho un cane.»
288
Non sapevo cosa dire...
«Tu? Qualcuno da accudire?»
«Che c’è di strano?»
«Come l’hai chiamato?»
Non mi chiede com’è, se è affettuoso, se gioca, se è carino, se ha il pelo lungo, qual è la sua storia. Lei vuole sapere il nome. La gente troppo spesso si accontenta di essere superficiale.
«Buk.»
«Come?»
«L’ho chiamato Buk.»
«Non è un nome da cane.»
«A lui piace!»
«L’hai chiamato come quello scrittore sporcaccione?
Ma ti rendi conto?»
«A lui piace» ribadisco. «E anche a me.»
«D’accordo. Mi fa piacere che tu stia bene. Ciao.»
Quando riattacco Margot mi sta fissando negli occhi.
«Non mi hai detto che avevi una ragazza.»
«Non stiamo più insieme da anni» balbetto.
«Ma lei ti chiama ancora.»
«Già.»
Leggo nei suoi occhi che oggi non limoneremo come
adolescenti.
«Sono stanca, Enrico. Portami a casa, per favore.»
*
Non mi piacciono i bar all’ora di punta. Quando tutti
urlano e spintonano per un caffè. La colazione è bello farla col locale deserto. Non perché devi ma perché puoi.
Con Buk abbiamo iniziato a frequentare un’antica pasticceria in via Pacini, praticamente sotto casa. Ci presentia-
289
mo in genere non prima delle dieci e mezza del mattino.
Mezza brioche a testa e un caffè per me. Con calma. Il
vero piacere del bar. Stamattina, però, abbiamo dovuto
saltare il nostro piccolo rito perché ho ricevuto una chiamata che attendevo da mesi. Forse da sempre.
«Vieni oggi pomeriggio alle tre con una proposta scritta» mi è stato ordinato al telefono. Dall’altro capo del filo
c’era Beppe Calzolari, il caporedattore della cronaca milanese del Corriere. Quell’uomo alto e secco, con gli occhi
sporgenti sotto le lenti spesse e i capelli pettinati col riporto, che avevo intravisto di sfuggita il giorno del delitto
Sommese.
Da allora avevo provato a contattarlo molte volte sia via
mail che al telefono senza mai ottenere risposta.
Fino a stamattina, quando quelle poche parole sibilline
mi hanno gettato nel panico. Sono rimasto tutto il tempo
piegato sul portatile cercando di farmi venire un’idea, di
scrivere qualcosa di sensato: il mio primo articolo di prova
per il Corriere della Sera!
Alle due e mezza arrivo in via Solferino con un paio di
cartelle stampate.
Calzolari viene a recuperarmi alla reception.
«Prendiamoci un caffè» dice dopo avermi stretto distrattamente la mano. «Abbiamo il bar interno.»
Lo seguo lungo i corridoi del giornale fino al bancone.
«Due caffè» ordina.
«Per me macchiato.»
«Te sé propri un pistola.»
«Come, prego?»
«Ul cafè al va bevu sbruient, sedent e per nient! Se lo
macchi si raffredda subito.»
«Me lo faccia normale, per favore» dico al barista.
«Bravo fioeu» approva il caporedattore.
290
Beviamo i nostri caffè in silenzio, poi, sempre senza
parlare, raggiungiamo il suo ufficio.
«Allora, cosa mi hai portato?»
Gli consegno il dattiloscritto.
«Che roba è?»
«Un pezzo sull’omicidio del Pirellone.»
Una ruga gli si disegna sulla fronte.
«Omicidio?»
«Be’, è una delle ipotesi sul tappeto. C’è scritto tutto lì.»
«Zitto e fammi leggere.»
Sono i cinque minuti più lunghi della mia vita. Nelle
righe che sta leggendo mi interrogo se si sia trattato di suicidio, disgrazia o, appunto, omicidio. Azzardo perfino la
teoria della cloque sabotata... Idee basate sul sentito dire,
ipotesi anche campate in aria. Ma dovevo fare qualcosa
che lo colpisse.
«Ok, questa cosa è una schifezza. Piena di cazzate.
Fuori tempo massimo per giunta. Ma scritta bene.»
Trattengo il fiato senza sapere bene cosa rispondere.
«Sei in prova» aggiunge Calzolari. «Ho dato una letta
anche a quel tuo blog, come si chiama, Milanonera. Mi
piace, se non fai stronzate potrebbe diventare un appuntamento settimanale, magari al sabato. Non ti montare la
testa, però. Una ventina di righe tappabuchi quando abbiamo poco di nera. Anche per il compenso, non correre a
comprare lo champagne: sarai pagato a pezzo. Tariffa
standard, té capì? Non so nemmeno quant’è, fattelo dire
dalla segretaria di redazione. Questo è il suo numero. E
ora fuori dai piedi che ho da fare.»
291
21.
La metropoli alle sette di mattina è un’esperienza mistica.
C’è luce e silenzio. Niente auto, niente pendolari, niente clacson, niente pedoni, pochissimi autobus.
Solo uomini e cani che devono farla. Gli umani con le
facce assonnate, salutano, sorridono e scambiano volentieri qualche parola mentre i quadrupedi si annusano.
Ecco l’umanità come dovrebbe essere. Gli animali ci
rendono migliori, anche se non lo vogliamo. È un dato di
fatto. Più tolleranti, più pazienti e meno pigri.
Buk, poi, è un’esplosione di energia. Sempre al trotto
come i cavalli, sempre a fiutare tutto a menare la coda
vorticosamente, sempre pronto a entusiasmarsi per un
fazzoletto sporco o un mezzo panino gettato sul marciapiede.
Beati i cani che capiscono tutto da un’odorata di culo.
E non mentono perché non parlano. Ma sanno farsi capire e s’intendono benissimo fra loro. O si adorano o si
ringhiano. Poi uno piscia contro uno spigolo di un palazzo e tutti quelli che passano di lì annusano la sua orina. E se è il caso ci lasciano anche la loro. Fine delle
trasmissioni.
Andare a passeggio con Buk mi ha aperto un mondo.
292
Sospetto mi abbia reso perfino più socievole. La gente si
avvicina, mi sorride, lo carezza e mi chiede notizie. Sopratutto le donne. Se lo fa un uomo lo guardo male e tiro
dritto. Non ho bisogno di così tanta socialità.
Dopo aver trascorso la mattinata a fare ricerche più o
meno sull’avvocato della Mantide per conto di Sebastiani,
rientro a casa dove trovo la tv accesa che mostra le immagini del carosello variopinto dei ciclisti.
«Lo spagnolo Juan Carlos Domínguez ha vinto a Groningen il cronoprologo dell’85° Giro d’Italia, indossando così la
prima maglia rosa della corsa.»
Fabio invece di salutarmi sbotta: «Ti pare logico che il
giro d’Italia parta dal Belgio?»
«Veramente Groningen è in Olanda»
«Vabbe’, sempre fiamminghi sono.»
«Dammi retta, Fabio: lascia perdere, la geografia non
fa per te.»
Mi lascio cadere sulla poltrona.
«Cosa ti affligge?» mi chiede cambiando argomento.
«Lo vedo che muso hai. Più lungo di quello del cane.»
«Il simbolo.»
«Ancora?»
«Sì. Devo capire cosa rappresenta. Altrimenti non me
lo leverò mai dalla testa.»
«Vai da un esperto, allora! Qualcuno che ne capisca,
no?»
«Già ma chi? Ci vorrebbe un professore di...»
«Di?»
«Di Semiotica, no?»
«Non so che cosa sia. A ingegneria abbiamo materie
con nomi comprensibili...»
«Si tratta della scienza che studia i segni e il modo in cui
questi abbiano un senso... Quando frequentavo l’universi-
293
tà avevo un docente. Un omaccione. Aspetta... Ferraro.
Ecco sì: Alberto Ferraro si chiamava.»
«Ma non era quel professore sempre arrapato di cui mi
hai parlato?»
«Esatto.»
«Quello che pensava solo alle studentesse?»
«Se n’è fatte più lui di Kennedy.»
«Esagerato.»
«Giuro. Quello era un geniaccio che poteva aspirare a
grandi cariche accademiche, pubblicazioni e il resto. Ma è
stato fregato, anzi, zavorrato da quella.»
«Quella?»
«Sì, quella di quattro lettere verticali, hai presente?»
«Non stai parlando di parole crociate, giusto?»
*
«Usciamo da qui» ordina Sebastiani in tono secco.
Il toscanello è immobile e questo è un pessimo segnale,
così l’ispettore Lonigro non protesta e segue il vicequestore giù per le scale.
Escono su via Fatebenefratelli e si avviano a piedi in
direzione di Brera. Un quartiere di locali alla moda, antiquari, ristoranti e cartomanti pronti a predirti un fantasioso futuro per un lauto compenso.
Lonigro non si azzarda a parlare finché non sono seduti a un tavolino di un caffè di piazza del Carmine. Un posto da turisti, da Milano bene. Non certo da sbirri. E questa è probabilmente la ragione per cui si trovano lì: per
parlare al riparo da orecchie indiscrete.
«Hanno archiviato.»
«Cosa hanno archiviato dottore?»
«Il caso Müller. Nei giorni scorsi l’Ansv, l’agenzia na-
294
zionale per la sicurezza al volo, ha consegnato la perizia
preliminare; sostengono che si sia trattato di un incidente.
Nulla di più.»
«Ma quel tecnico non aveva detto che...»
«Sì. Ma non poteva provarlo. Dai rottami era impossibile capire se il carrello fosse stato o meno sabotato.»
«Capisco.»
«In procura non hanno perso tempo e hanno ordinato
l’archiviazione dell’indagine. La firma è quella del sostituto procuratore Antonio Testori.»
«Perché questo nome non mi è nuovo?»
«Perché Testori è lo stesso che ci ha fatto sapere in via
ufficiosa di lasciar perdere Visconti, ti ricordi?»
«Però se lasciamo perdere l’avvocato della Mantide
non abbiamo nulla: lei non parla e riguardo al suo fantomatico complice non ci sono indizi.»
«Forse qualcosa abbiamo» ribatte sibillino Sebastiani
mescolando il caffè.
«Qualcosa di ufficiale?»
«No, ispettore. Di ufficioso. E se vuoi che io te ne metta al corrente sappi che rischi...»
Il sigaro gli vibra.
«Me lo dica» taglia corto Lonigro.
«Ho chiesto a Radeschi di fare qualche ricerca sul nostro avvocato.»
«Cosa?»
«Lo so, lo so. Solo raccogliere qualche informazione
che possa esserci utile per approfondire. Non abbiamo
niente, no?»
«Ha scoperto qualcosa?»
«Direi di sì: Visconti ha una moglie, due figli, un tatuaggio sulla spalla destra e adora il sesso sadomaso, stando alla cronologia dei siti che visita sul suo computer.»
295
Lonigro è sbalordito.
«Non mi dirà che Radeschi...»
«Non te lo dico. Meno dettagli sai meglio è.»
«Ottimo. E cos’altro non dovrei sapere? Queste informazioni non mi paiono vitali.»
«Nella lista dei clienti assistiti da Visconti figurano anche, anzi meglio, figuravano, il dottor Fabbris, Guglielmo
Branca e Luciano Müller.»
«Aspetti, mi sta dicendo che l’avvocato è il trait d’union
fra il cardiologo morto, il banchiere morto, il pilota finto
suicida e forse, perfino, la Mantide?»
«Non solo: ti sto dicendo che questa faccenda si intreccia anche con quella dell’avvocato Sommese – di cui Visconti difende l’assassino – e del misterioso simbolo che
aveva tracciato col sangue. Lo stesso sull’anello di Müller»
«Incredibile ma non abbiamo nulla per provarlo. Si
tratta di coincidenze.»
«Lo so. Da sole non provano niente se non che Manfredi Visconti è un avvocato molto noto con una lista di clienti importanti... Però non è finita qui.»
«Che altro?»
«Il buon Manfredi studiava giurisprudenza all’ateneo di
Padova proprio negli anni del delitto di Mattia Schiavon.»
«L’ennesima coincidenza?»
*
Ripercorrere a piedi, con lo stesso stupore di allora, il
chiostro dell’università Statale mi fa tornare indietro nel
tempo. Così come ritrovarmi davanti la sagoma imponente e rotondeggiante del professor Alberto Ferraro, seduto
come un Budda dietro la sua scrivania. Un romano godereccio fino al midollo. Sia a tavola che a letto, possibilmen-
296
te con giovani studentesse. Per questo forse non è mai approdato in tv o a studi importanti, gli basta coltivare il suo
orticello.
Come prevedevo non c’è anima viva al suo orario di ricevimento. Le studentesse sanno che gli piace allungare le
mani e stanno alla larga. Quanto ai maschi, be’, provo sulla mia pelle la ruvida accoglienza del professore.
«Non te basta de vedermi a lezione? Pure qua me devi
scoccià?»
Irritante come il flit negli occhi.
Lo osservo: sembrerebbe anche un bonaccione simpatico se non parlasse così. Originario di Ariccia, seppur trapiantato a Milano ormai da tempo immemore, non ha perso un grammo della sua cadenza né del suo peso. Ventre
prominente, riccioli neri e occhi azzurri che forse gli permettono di mettere a segno qualche colpo con le fanciulle
più inesperte.
«Non sono un suo studente. Lo sono stato anni fa ma
ora faccio il giornalista.»
«Sì? E allora fuori dai cojoni: questo è l’orario di ricevimento dedicato agli studenti, non alla stampa.»
Non c’è molto da discutere con questo panzone scontroso così passo ai fatti: estraggo dalla tasca della giacca
una stampata col disegno del famoso simbolo e lo faccio
scivolare sulla scrivania. Ferraro fa per alzarsi e cacciarmi
a pedate, poi il suo sguardo si posa sul foglio e la sua
espressione si fa meno arcigna.
«Questo cos’è?»
«Non ne ho idea. Per questo sono qui. Quello che posso dirle è che qualcuno ha hackerato il mio blog per eliminare questo simbolo dalla rete.»
«Affrontiamo un problema alla volta» taglia corto lui.
«Questo disegno l’hai fatto te?»
297
«Sì»
Il professore torna a sedersi e studia l’immagine con
attenzione.
«Dove hai visto l’originale?»
«Non potrei dirglielo.»
«Come hai detto che te chiami?»
«Enrico Radeschi.»
«Bene, Enrico, se vuoi il mio aiuto mò devi dì.»
Mi fissa dritto negli occhi.
«D’accordo. L’ha disegnato un uomo in punto di morte. Col proprio sangue.» Ferraro sospira anche se la notizia non sembra sconvolgerlo più di tanto.
«Perché sei venuto a mostralo proprio a me?»
«Su Internet quel simbolo non si trova. L’ho cercato in
tutti i modi. Dappertutto. Bisognerebbe fare alla vecchia
maniera, cercarlo sui libri in biblioteca, ma dovrei avere
qualche informazione in più altrimenti sarebbe come cercare un ago in un pagliaio. Oppure...»
«Oppure chiedere a un professore di Semiotica. Ho capito. Siediti.»
Eseguo mentre lui studia con attenzione il mio disegno.
«Non vedo questo simbolo da anni.»
«Cosa rappresenta?»
298
«Una disciplina.»
«Prego?»
«Na sorta de frusta. Vedi, è formata da tre cordicelle munite di nodi e palline di legno, a volte di inserti metallici.»
«E a cosa serve?»
«Oh bella, ma a flagellarsi, no? Con questo aggeggio si
percuotevano il petto, la schiena, gli arti, fino a farsi sanguinare. Non hai mai seguito un mio corso manco pe’ sbaglio, vero?»
«Veramente, no. Però la stimo.»
«Ruffiano.»
«Può darmi qualche informazione in più, tipo chi erano
questi che si frustavano?»
«Quelli che la usavano se facevano chiamà i Disciplinati. Una confraternita che si dedicava al culto dei morti e
all’espiazione dei peccati da raggiungersi attraverso l’autoflagellazione e la mortificazione della carne. Gente con
quarche rotella fuori posto, secondo me. Anzi bisognerebbe scrivecce ’n libro. Un thriller magari.»
«Magari qualcuno ci penserà prima o poi. Ora possiamo tornare a noi?»
«D’accordo. I Disciplinati erano un movimento laico
nato nel XII secolo. Rifacendosi alla prima comunità apostolica erano costituiti da un consiglio di dodici persone
ed erano noti per portare un abito lungo di lana, un cappuccio chiuso con solo due fessure per gli occhi e, in vita,
un cordone da cui pendeva un teschio. Come ti ho detto,
si dedicavano al culto dei morti e all’espiazione dei peccati tramite la disciplina, che qui vediamo stilizzata.»
«Esistono ancora?»
Ferraro scuote la testa.
«Che io sappia si sono estinti da secoli»
«Ne è sicuro?»
299
«Senti, ragazzo: perfino le stronzate, a forza de ripettelle e col passare del tempo, si tramutano in perle de saggezza. Quindi se tu vuoi che esistano, be’, credilo pure. Non
mi sconvolge. Ora però fammi il piacere: vattene, magari
ce sta quarche pischella che...»
«Non c’è nessuno; il corridoio è deserto.»
Il professore sbuffa.
«Te la farò breve. I Disciplinati facevano parte di un movimento, quello dei Flagellanti. Come sai, o come dovresti
sapere se tu avessi studiato, nel 1347 l’Europa venne colpita
dalla peste, chiamata anche Morte Nera, che ne decimò la
popolazione di oltre un terzo nell’arco di soli due anni. Siccome poi le sfortune non vengono mai sole, in quegli stessi
anni anche tremendi terremoti colpirono Italia, Francia ed
Europa Orientale al punto che molti pensarono che fosse
imminente la parusìa, vale a dire il secondo ritorno di Cristo
sulla terra. Fu allora che per purificarsi apparvero le compagnie di Flagellanti, fra cui appunto quella dei Disciplinati. Si
frustavano cantando le laudi. Si calcola fossero almeno cinquantamila. Il movimento si diffuse in Italia, Ungheria,
Svizzera, Olanda, Boemia, Polonia e Danimarca. La cosa
non era vista di buon occhio dalla Chiesa tanto che papa
Clemente VI dapprima permise alcune processioni, poi reagì a queste spinte eretiche condannando il movimento in
una lettera inviata nel 1349 ai vescovi di Francia, Germania,
Polonia, Svezia e Inghilterra. La repressione colpì così i Flagellanti e continuò per tutto il XIV e XV secolo con processi seguiti dagli immancabili roghi per decine, e a volte centinaia, di loro che vennero condannati a morte. Eccoci così
giunti all’estinzione de’ nostri amici Disciplinati. E anche
alla fine del colloquio nostro.»
Saluto il professore con una stretta di mano e mi avvio
nuovamente lungo il chiostro in direzione dell’uscita.
300
Questa scoperta cambia tutto: i Disciplinati. Da dove
sono saltati fuori? È possibile che siano ancora in circolazione dopo tutto questo tempo?
Se un simbolo come quello viene tramandato e custodito anche a costo di uccidere io propenderei per il sì.
Devo riferirlo a Sebastiani.
Allaccio il casco e spingo sul pedale del Giallone. Al
terzo tentativo finalmente il motore si mette in moto e io
m’immetto nel traffico di via Larga.
Il Duomo è vicinissimo e quando alzo lo sguardo scorgo la Madonnina vegliare da lassù.
Appena abbasso gli occhi, però, piombo nell’incubo:
un SUV nero, comparso dal nulla, punta dritto verso di me
a folle velocità.
Tento di sterzare, scartando su un lato per togliermi
dalla traiettoria ma il bolide mi è addosso.
E tutto diventa nero.
301
22.
Dolce. Umido. Al sapore di menta.
Se questa è la morte non è tanto male.
Apro gli occhi e mi rendo conto che due labbra morbide stanno sfiorando le mie: Margot!
«Sono in paradiso?»
Lei ride mentre la voce che mi riporta sulla terra è quella di Fabio.
«Come no» interviene comparendo alle spalle della ragazza. «Uno come te ci finirà di sicuro!»
«Allora dove?»
«All’ospedale Niguarda. E tranquillo, neanche stavolta
morirai. Solo non farci l’abitudine: prima ti fai sparare al
culo e poi investire da un pirata della strada...»
Avverto un fitta tremenda al torace.
«Non era un pirata: quello voleva proprio uccidermi.
Mi ha puntato.»
«Questo lo dirai ai tuoi amici sbirri. C’è quel vicequestore proprio qui fuori che attendeva che tu riprendessi
conoscenza. Che faccio, gli dico di entrare?»
«No, aspetta, ho bisogno ancora di quella cura di
Margot.»
Lei sorride e si piega nuovamente per baciarmi. Stavolta un bacio vero, lungo, profondo.
302
«Se lo sapevo che mi aspettava questo mi schiantavo
prima...»
«Meno male che non sei finito contro un muro» sospira Margot.
«No?» chiedo.
«No, genio» ribatte Fabio «altrimenti non saresti qui a
raccontarlo. L’urto ti ha sbalzato via e per tua fortuna sei
atterrato sui fiori del giardino di una chiesa.»
«Cos’era, un cimitero?»
«Ma no! Uno spicchio di verde con tulipani, garofani,
crisantemi. Hai distrutto tutto il giardinetto della chiesa di
San Bernardino alle Ossa ma almeno sei qui per raccontarlo. Hai solo qualche costola fratturata... Fortuna che avevi
quel casco da maresciallo prussiano! Ti toccherà però
mettere mano al portafoglio per risarcire la diocesi!»
«Non è quello che mi preoccupa.»
«Cosa allora?»
«La Vespa.»
«Il Giallone non è stato fortunato quanto te. Si è schiantato contro un muretto di cemento e, mentre tu volavi come un passero, lui si accartocciava. Il carro attrezzi se l’è
portato via.»
Rimango un attimo in silenzio. Un minuto di raccoglimento per rimuginare sull’accaduto.
«Buk?» domando ricordandomi improvvisamente del
mio cucciolo.
«Tranquillo, è a casa con Tatiana» risponde Margot carezzandomi una mano.
«Allora è meglio che torniate subito. Quella lo fa arrosto se il piccolo piscia ancora in giro.»
Margot ride, mi regala un altro bacio e poi esce.
Fabio si trattiene ancora un secondo.
«Dico allo sbirro di entrare?»
303
«Sì, però ho bisogno che tu mi faccia un favore.»
«Non si nega l’ultimo desiderio a un moribondo. Considerando poi che mi sto perdendo la tappa di Vervier, per
essere qui immagina quanto tenga a te, vecchio scarpone!»
«Dov’è Vervier?»
«In Belgio, credo. Cosa volevi dirmi?»
«Zugzwang.»
«Prego?»
«Hai capito benissimo. È venuto il momento di giocarci le nostre carte: attiva il trojan e scopri il nome di chi mi
ha attaccato. Sono certo che quelli che hanno tentato di
uccidermi sono gli stessi che non volevano che pubblicassi
quel simbolo.»
Il calabrese annuisce ed esce con l’espressione più seria
del mondo disegnata sul volto.
*
«Anche stavolta l’hai scampata.»
«Così pare, Loris. Grazie per essere venuto a sincerartene.»
«Sono qui in veste ufficiale.»
«Ah sì?» chiedo sistemandomi il cuscino dietro la schiena.
«Sappiamo che a investirti è stato un SUV nero che poi
se l’è filata senza fermarsi. Ricordi qualcosa che ci può essere d’aiuto per trovarlo?»
«Quello voleva ammazzarmi.»
«Addirittura?»
«Tu cosa pensi? Un Hummer lanciato a cento al­l’ora in
pieno centro non è una cosa normale. E so anche perché
volevano togliermi dalle spese. Dovete scoprire chi è!»
«Sono qui apposta.»
«Prima dimmi che ore sono.»
304
«Quasi le otto di sera: perché?»
«Ho una fame terribile.»
«Non ti agitare: fra poco ti porteranno il brodino e la
mela cotta. Ora dimmi di....»
«No, Loris» lo interrompo. «Ho bisogno di cibo vero.
Sei venuto in auto?»
Mi tiro su e mi manca il respiro per il dolore. Le mie
costole sembrano infilzate da mille chiodi roventi.
«Non puoi alzarti.»
«Oh, invece sì. Adesso firmerò per uscire e tu mi accompagnerai a cena in un posto come si deve. Ho rischiato di lasciarci la pelle, sai?»
«Tu non firmerai.»
«Stai a vedere! Dormire in ospedale è una di quelle cose che ho ripromesso a me stesso di non fare mai. Magari
mentre t’assopisci il tuo vicino di letto crepa e tu dormi
per ore accanto a un cadavere. Non è salutare. Meglio stare alla larga da certi posti finché si riesce a camminare con
le proprie gambe. Avanti, aiutami.»
«Non se ne parla.»
«Ti ricordi cosa ti ho detto una volta riguardo ai serial
killer?»
«No.»
«Che si tratta per la maggioranza di medici e infermieri.
E tu avevi ribattuto che è per questo che stai lontano dagli
ospedali...»
Alla fine Sebastiani si convince e mi dà una mano a vestirmi.
«Il ristorante però lo decido io» annuncia mentre zoppico verso l’ascensore al suo fianco. E su questo non ho
nulla da obiettare.
La scelta dello sbirro si rivela ottima: un locale argentino in porta Venezia, El Paso de los Toros: una vera scoper-
305
ta per uno della Bassa che la carne alla griglia ce l’ha nel
dna. Ordiniamo una parillada con aggiunta di salsicce, il
tutto annaffiato da un Malbec argentino. Se morirò stanotte, morirò felice.
Sebastiani mangia lentamente e in silenzio. Io mi godo
tutti i tagli – il lomo, il bife de chorizo, la bistecca d’aguja e
così via – e quasi mi scordo delle costole rotte anche se a
ogni movimento è come se mille schegge di vetro mi si
conficcassero nel costato.
Alla fine rimangono un paio di pezzetti di carne che il
padrone del locale si offre di incartarci.
«Buk ne sarà felice» dico.
«Il tuo inquilino? Tuo fratello?»
«Il mio cane.»
«Oh, ne sono sicuro.»
Quando ci servono i caffè e il rum, finalmente, Loris si
decide a rivestire i panni dello sbirro.
«Non sei morto e hai lo stomaco pieno: adesso non ti
resta che raccontarmi quello che hai scoperto e chi, a tuo
dire, ti vuole ammazzare.»
Mi schiarisco la voce e riferisco a Sebastiani tutta la
conversazione che ho avuto con il professor Ferraro riguardo al simbolo misterioso e ai Disciplinati.
«Quindi Sommese e Müller facevano parte di una confraternita?»
«Così sembrerebbe.»
Il toscanello che si è appena infilato fra le labbra inizia
a fluttuare da un’estremità all’altra.
«Quello che dici è coerente con le ferite rivenute sulla
schiena di Sommese: si fustigava per punirsi. Ma perché
questi dovrebbero prendersi la briga di uccidere te?»
«Ah non lo so... Però ti assicuro che quel SUV non ha
sbandato: il conducente voleva investirmi. Forse non han-
306
no apprezzato il fatto che io abbia ripubblicato il simbolo
dopo che la prima volta avevano fatto in modo che scomparisse...»
«Forse» risponde meditabondo il poliziotto. «Però
perché in via Larga? Voglio dire, a due passi c’è il comando della polizia municipale, in piazza Fontana. Farlo lì ha
rappresentato il massimo del rischio.»
«Magari c’è una simbologia anche in questo. Come
quella d’ammazzare Sommese sotto la scrofa lanuta...»
«Chissà» sospira mentre finisce il suo bicchiere. Poi si
alza in piedi.
«Avanti, Enrico. Ti accompagno a casa, così ti riposi.
Domattina però ci rivediamo in questura per il verbale,
intesi? E telefona a questo tuo amico professore. Ci servirà
la sua consulenza.»
«Non credo che Ferraro sarà felice di venire.»
Sebastiani sorride beffardo.
«Oh, di questo non ti preoccupare. Digli che se non si
presenta da solo mando una volante a prelevarlo all’università. Davanti a tutti. Vedrai che si convince.»
*
«Sono stati commessi troppi errori finora, troppi! E
non possiamo permettercene altri perché presto toccherà
a noi.»
Il Maestro non è mai stato così diretto prima d’ora e
tutti i confratelli annuiscono abbassando la testa.
Fratello Ottaviano suda copiosamente sotto al cappuccio. Forse è per via della tensione a cui è stato sottoposto
negli ultimi giorni che il suo corpo ha quella reazione. La
cripta è fresca come sempre, quasi fredda, ma lui continua
a traspirare. Anche lui ha commesso degli errori. Gravi
307
errori, per colpa del vizio, della carne. Si sarebbe fustigato
a dovere più tardi, avrebbe chiesto perdono per le sue
manchevolezze...
Otto incappucciati stanno in piedi nel centro della cripta, in cerchio. Erano dodici fino a poco tempo fa, i prescelti
che facevano parte del consiglio come i dodici apostoli; tuttavia, dopo l’uccisione di Sommese, Müller e degli altri due
confratelli sono rimasti solo loro. «I migliori» come li definisce il Maestro, che ora li sprona a non mollare.
«Dovete avere fiducia e stringere i denti: presto la Peste Nera arriverà e ristabilirà il giusto equilibro nell’umanità. Abbiate fede perché solo chi ha una fede salda sopravvivrà.»
Tutti annuiscono. Anche l’unico uomo seduto su uno
dei troni di pietra, in disparte: il Sublime.
«Ora avvicinatevi cari fratelli, voglio salutarvi uno a
uno.»
Il primo è fratello Gaspare. S’inginocchia ai piedi del
Maestro chinando il capo.
«Stupido.»
Gli altri confratelli sollevano appena lo sguardo da terra.
«Sei stato uno stupido» ripete il Maestro e questa volta
accompagna la frase con un gesto secco: una siringa che
conficca dritta nella giugulare del confratello.
L’uomo crolla a terra agonizzante e in pochi secondi
muore.
Fratello Ottaviano sa cosa l’ha ucciso: cloruro di potassio. Un’iniezione e vai dritto al creatore senza che nessuno
s’insospettisca. Un infarto, ecco quello che sembra se non
si sottopone il cadavere a un esame autoptico accurato.
Ma non sarebbe stato quello il caso perché il corpo, come
già molti prima di lui, non sarebbe mai stato ritrovato.
Fratello Ottaviano deglutisce: nel corso degli anni – e
308
sono ormai quasi dieci che sta nella confraternita – ha visto morire molti uomini. Il Maestro la definisce selezione
naturale: non tutti possono essere degli eletti. Un darwinismo sociale che male si sposa con la religione ma benissimo con la confraternita. Negli ultimi mesi, poi, la situazione era degenerata: mai così tanti omicidi in un anno solo!
Poteva diventare preoccupante, insospettire qualcuno.
«Il prossimo.»
Fratello Ottaviano si inginocchia ai piedi del Maestro.
Trema.
Come se potesse leggere i suoi pensieri l’altro gli posa
una mano sulla spalla destra.
«Cosa ti affligge, fratello?»
«Ho paura di avere peccato, Maestro.»
«Ti sei pentito per questo?»
«Sì.»
«Hai fatto penitenza con la disciplina?»
«Sì, Maestro. Fin quasi a svenire.»
«Allora non hai nulla da temere. Vedi, noi abbiamo
sempre qualcuno che controlla quello che fanno i confratelli. Per questo fratello Gaspare è caduto. La polizia stava
per arrivare a lui.»
«Controllate anche me?»
Il Maestro ride.
«Naturalmente, fratello. Ma sei ancora con noi, in buona salute. Quindi non hai nulla da temere. Anche se...»
«Se?»
«La polizia ha chiesto di te. Devi stare in guardia. Proteggi le persone sbagliate e il tuo vizio sta diventando incontrollabile.»
Per una frazione di secondo fratello Ottaviano alza la
testa e i suoi occhi s’incrociano con quelli del Maestro.
Occhi profondi che gli sembra di aver già visto altrove.
309
Abbassa nuovamente la testa in segno di contrizione e
il Maestro passa al confratello successivo. Quando finisce
di parlare con tutti, qualcuno indica il cadavere sul gelido
pavimento di pietra.
«Di lui cosa ne facciamo?»
«Liberatevene nello stesso modo degli altri.»
«Come desidera, Maestro.»
Due confratelli sollevano per le braccia il morto e lo
trascinano nell’antro segreto.
«Ora rallegratevi, fratelli» annuncia il Maestro gettando sul pavimento una borsa da palestra. Dentro ci sono
otto sacchetti. Uno a testa.
Fratello Ottaviano apre il suo e, a un prima occhiata
quasi non ci crede.
«Se ve lo state chiedendo, cari fratelli: sono centomila
euro in biglietti da cinquecento.»
Tutti cedono all’entusiasmo.
È allora che il Sublime si alza in piedi.
«Questo è solo l’inizio» annuncia con voce ferma.
«Quando il disegno finalmente sarà realizzato ci saranno
fiumi di denaro per tutti. E gli infedeli saranno scomparsi
per sempre dalla faccia della terra.»
310
23.
«Attento ai gradini.»
Sorrido a Margot che mi sorregge come fossi un invalido. Non sono mai entrato in questura scortato da una
donna e anche se potrei benissimo camminare da solo, lei
ha insistito per accompagnarmi. Non mi dispiace più di
tanto; tuttavia questa faccenda che sono malconcio, alla
fine, mi si è ritorta contro. Ieri sera dopo l’abbuffata con
Sebastiani ero tornato tutto arzillo – per quanto le mie costole friggessero – ma non c’era stato verso.
«Sei convalescente, meglio aspettare» era stato il responso.
Quindi fra noi ancora non è successo. Baci, sì. Ma non
è voluta andare oltre. E oggi, eccoci qui, insieme nell’ufficio del vicequestore come due fidanzatini.
Il poliziotto ci fa segno di accomodarci e solleva un sopracciglio alla vista di Margot. La conosce dai tempi
dell’indagine sull’omicidio del fratello.
«Mi ha accompagnato: sai, nelle mie condizioni...»
«Mentali?»
«Anche» conferma lei sorridendo.
«Mi spiace, signorina, per il disturbo.»
«Nessuno disturbo.»
«Radeschi è disturbante, si fidi.»
311
La scenetta potrebbe continuare a oltranza se non fosse
per il professor Ferraro che, rosso in viso, appare sulla soglia dell’ufficio, schiumante di rabbia.
«Se pò sapé che volete? Trascinamme qui è stato un
sopruso!»
Alle sue spalle compare la sagoma massiccia dell’ispettore Mascaranti che, sicuramente, non c’è andato per il
sottile per “convincere” il docente a seguirlo. Io gli avevo
telefonato ma quello non ne aveva voluto sapere, così la
polizia era dovuta passare al piano B.
Quando Sebastiani lo fissa dritto negli occhi tutta la vis
polemica del semiologo si smorza fino a zittirsi completamente al cospetto del sigaro inquisitore.
«Grazie per averci dedicato un po’ del suo tempo» lo
accoglie, falso come Giuda. Non gli ricorda affatto il professore di Semiotica che aveva incontrato quando studiava
a Bologna...
L’altro borbotta qualcosa che non comprendo e si accomoda sull’unica sedia rimasta libera.
«Posso sapere perché m’avete fatto venì?» chiede poi,
lanciando un’occhiata torva verso di me.
Ha capito che sono io la causa della sua convocazione
coatta. Però vedendo la ragazza al mio fianco sembra addolcirsi. Anzi, sono quasi sicuro che le abbia fatto l’occhiolino.
«L’abbiamo convocata perché ci servono ulteriori informazioni riguardo ai Disciplinati.»
«Ancora con ’sta storia?» sbotta. «Ma ho già ribadito a
’sto pischello che se so’ estinti! Quante vorte vo devo dì?»
Sebastiani sposta lentamente il sigaro da una parte
all’altra della bocca.
«E se così non fosse, professore? Vede, noi abbiamo
motivo di credere che qualcuno – forse per imitazione o
312
vai a sapere perché – abbia nuovamente indossato il cappuccio di quell’antica confraternita.»
«Cosa vi fa credere che siano ancora in giro?»
Stavolta rispondo io, di getto.
«Il fatto che ieri, subito dopo che sono uscito dal suo
studio, abbiano cercato di ammazzarmi.» Ferraro stavolta
cambia espressione. Sembra realmente stupito.
«Me spiace» sussurra.
«Ora vuole darci una mano?» lo esorta Sebastiani.
«Certo, certo.»
«Ci può dire chi sono i prescelti – o come si chiamano –
che aderiscono a questa setta?»
«Non è una setta, ma ’na confraternita. Quanto all’identikit del perfetto fedele posso dire che il decreto riguardante i Disciplinati, emanato dal Secondo Concilio
Provinciale Milanese, è un gioiello di saggezza e perfezione. Esso indica le persone che possono essere ricevute; il
modo di accogliere i neofiti; gli abiti da indossare; le preghiere, gli esercizi spirituali, l’obbligo dei Sacramenti, le
penitenze e le opere pie da praticare. Alla fine, elenca le
cariche necessarie per il corretto funzionamento delle comunità...»
«Ci faccia un riassunto» lo interrompe il vicequestore.
«Ma ve perdete er mejo!»
«Ce ne faremo una ragione.»
«D’accordo» sospira Ferraro. «Dovete sapere che nella
loro struttura è forte il richiamo ai dodici apostoli, la simbologia è molto importante per i Disciplinati: ogni gesto,
ogni atto è anche un simbolo che può essere letto a più livelli e...»
«Venga al punto.»
«Al vertice ce sta er Sublime che rappresenta una carica
più onorifica che altro. Una sorta di padre nobile, dicia-
313
mo. Si tratta del più anziano e del più influente. Sotto di
lui c’è il Maestro, che tiene le redini della confraternita.»
«Dovessimo fare un paragone, seppur improprio, sarebbero il presidente e l’amministratore delegato di un’azienda?»
«Qualcosa del genere.»
«Erano diffusi anche qui a Milano?»
«Scherza? Qui c’era una delle confraternite più importanti, grazie a san Carlo Borromeo.»
«Dice sul serio?»
«E che me metto a cojonà gli sbiri? Carlo Borromeo, da
vescovo metropolita di Milano dal 1565, ebbe un ruolo
fondamentale nella storia dei Disciplinati. Quando morì,
all’età di quarantasei anni, quelli che lo spogliarono per
prepararlo alle esequie scoprirono l’entità e la durezza delle penitenze cui si era sottoposto in vita: le sue spalle apparivano solcate dalle cicatrici della disciplina, i suoi fianchi
lacerati dalle punte del cilicio.»
«Quindi era uno di loro?»
«Certo! Però non dovete pensare che fosse scandaloso,
anzi. Era da buoni cristiani timorati di Dio fare penitenza.
Borromeo fece anche di più: prima di morire designò un
erede, perché la confraternita dei Disciplinati milanesi
non scomparisse. A quanto ne sappiamo, però, il suo erede non fu all’altezza del compito assegnatogli e la confraternita si estinse di lì a poco quando la Chiesa cominciò a
perseguire i Flagellanti.»
Il computer sulla scrivania emette un suono, tipo uno
scampanellio.
Sebastiani mi guarda confuso.
«Che diavolo è stato?»
Io mi alzo a fatica, lottando con le fitte di dolore, e mi
avvicino alla tastiera.
314
«È il Decripx! Il software di decrittaggio che abbiamo
lanciato giorni fa: finalmente ha trovato la chiave d’accesso alla cartella di Müller.»
Loris si piega sullo schermo.
«Allora, cosa c’è dentro?»
«Un solo documento. Eccolo.»
«Il titolo fa già paura.»
«Cioè?»
«Peste Nera. Quanto al contenuto, sembra...»
«Una specie di formula chimica.»
Il sigaro del vicequestore ruota veloce.
«Mi pare coerente» ragiona. «Müller si occupava anche
di brevetti internazionali per conto di aziende farmaceutiche.»
«Vero. Da questa descrizione in inglese che accompagna la formula mi sembra di capire che si tratti di un vaccino.»
«Prego?»
«Sì, una specie d’antidoto. Ma per cosa?»
«Manderò la formula al mio collega svizzero Rochat
perché ci dia un parere: sai, lui è membro di un’unità antibatteriologica o come diavolo si chiama... Cos’ha, professore, non si sente bene?» Ferraro è improvvisamente impallidito.
«No è che... C’ho un teribbile presentimento.»
«Sulla formula?»
«Sui Disciplinati. Vedete, loro, come tutte le altre confraternite dei Flagellanti, erano nati per chiedere perdono
al Signore che, per punire l’umanità dei propri peccati,
aveva mandato la Peste Nera.»
«Quindi lei pensa che...»
«Che ’sti pazzi vojono diffondere una nuova peste!»
«Sciocchezze! Come le viene in mente un’idea simile?»
315
Il professore però non ha l’aria di uno che voglia scherzare.
«Mi sono ricordato di aver letto da qualche parte che
una leggenda narra che san Carlo Borromeo sia stato “sepolto col suo segreto”. Nessuno ha mai saputo di cosa
esattamente si trattasse. Si presupponeva fosse una missiva
detta “lettera dell’angelo”, ’na sorta de preghiera. Alla luce di queste scoperte, tuttavia, adesso mi sentirei d’azzardare un’ipotesi diversa.»
«Cioè la “ricetta” della Peste Nera?»
«Davvero questi folli vogliono fare gli untori?» chiede
Margot sconvolta.
«E questa formula che abbiamo trovato potrebbe essere il vaccino.»
Nella stanza scende un silenzio carico di cattivi presagi.
«Si tratta solo di supposizioni» taglia corto Sebastiani.
«Non c’è nessuna prova reale a sostegno di questa tesi.»
«Allora dobbiamo trovalla!» annuncia Ferraro alzandosi in piedi.
«Prego?»
«Ce resta solo ’na cosa da fà per levacce il dubbio.»
«Vale a dire?»
Il professore, però, è già uscito dalla porta e tutti noi ci
alziamo in fretta per seguirlo.
*
Il Duomo di Milano è un luogo magico e imponente.
Costruito nel corso di vari secoli non ha eguali al mondo
ed è dedicato a santa Maria Nascente. Quando ti ci trovi
davanti vieni colpito dalla sua facciata magnificente, tutta
guglie e gargoyle, gotica, alta più di cento metri, in marmo
di Candoglia bianco e rosa, alla cui realizzazione hanno
316
lavorato, fra gli altri, architetti del calibro di Leonardo da
Vinci e Bramante.
Ai miei tre accompagnatori, tuttavia, tutta questa meraviglia non pare interessare.
Sebastiani procede a testa bassa mordicchiando il suo
sigaro, Margot mi cammina al fianco preoccupandosi più
che non inciampi che delle maestose colonne di marmo,
quanto al professore Ferraro, be’, è lui che ci ha trascinato
qui e che adesso, con passo marziale, ci sta tirando la volata come i ciclisti del Giro d’Italia.
«Che ci facciamo qui?» sbotta Sebastiani quando ci fermiamo all’imbocco della cripta.
«Stt! Parli piano» lo ammonisce Ferraro. «Stamo in
chiesa!»
«Questo lo so. Mi dica, cosa siamo venuti a fare? A
pregare che i Disciplinati si arrendano?»
«A cercà le prove della loro esistenza, semmai.»
Il sigaro compie un’evoluzione completa.
«Si spieghi meglio.»
«Carlo Borromeo è sepolto qui. Proprio sotto i nostri
piedi. Lui è stato quello che più di tutti ha aiutato i Disciplinati ed è lo stesso “sepolto col suo segreto”, ricorda?»
Sebastiani sbuffa.
«Quindi intende violare il sarcofago per frugarci dentro?»
«Non è un sarcofago.»
Queste sono le ultime parole che Ferraro concede al
poliziotto prima di scendere i gradini che portano nel sottosuolo.
Lo seguiamo senza parlare. La curiosità, in effetti, è
tanta, specialmente quando sbuchiamo in una specie di
cappella di forma ottagonale. Nel centro svetta una sorta
di altare dorato su cui è poggiata un’urna di cristallo.
317
«Ecco, questo è lo scurolo di San Carlo» spiega Ferraro. «Si trova esattamente sotto l’altare maggiore. L’urna
che vedete contiene i resti di san Carlo Borromeo.»
«Oh, fantastico» sbotta Sebastiani, ormai esasperato da
quella che gli pare una colossale perdita di tempo. «E questo perché dovrebbe aiutarci?»
«Quando si dice che Borromeo è stato sepolto col suo
segreto non si intende in senso letterale, naturalmente.»
«Ah no?»
«Niente è mai come sembra. E ogni atto...»
«Questo l’ha già detto! Ogni atto ha anche un simbolo...»
«Aspettate: quello cos’è?»
Il professore si avvicina e sospira.
«Se penso che sono stato qui decine di volte e nun l’ho
mai notato...»
«Perché non lo stava cercando.»
«Già, ora invece eccolo lì.»
L’indice grassoccio del professore indica un punto sotto l’urna.
C’è una lunga scritta in latino ornata da un simbolo,
quello dei Disciplinati.
Lo riconosciamo tutti e rimaniamo a bocca aperta.
«Non ci posso credere» sospira Sebastiani.
«Cosa c’è scritto accanto?» chiede Margot improvvisamente interessata.
«Sembrano dei numeri o forse una sigla?»
«266, IV. Chissà, potrebbe significare molte cose.»
«Tipo?»
Il professore si stringe nelle spalle.
«Delle coordinate di qualche tipo?» suggerisco.
«La pagina di un libro!» interviene Margot.
Ci voltiamo tutti a guardarla.
318
«Pensate alla Bibbia. Tutti sanno che non si tratta di un
testo unico, ma che è composta da molti libri, che sono
diversi fra loro per quanto riguarda tema e tipo di letteratura. Alcuni sono libri di storia, di profezia, altri di precetti o dottrina.»
Tutti la guardiamo stupiti.
«Che c’è? Non ho mica sempre studiato economia, sapete? Sono andata a scuola dalle Orsoline per tredici anni!»
«Questa storia dei libri la sappiamo» interviene Ferraro. «Almeno i più eruditi de noantri. Dove vuoi arrivare?»
«Be’, questa scritta potrebbe indicare la pagina 266 del
libro quarto, no?» Ferraro corruga la fronte.
«Potrebbe essere ma nun me convince. Avrebbero scritto IV, 266 nel caso e non l’inverso.»
«E se fosse invece la pagina 266 di un certo libro e la
sezione IV o il paragrafo quattro o simile?» suggerisco.
«Forse, però di quale libro?»
Il semiologo scuote il capoccione.
«Potrebbe trattarsi di qualunque...»
«I Disciplinati non hanno un testo sacro o qualcosa di
simile?» lo interrompe Sebastiani. «Oltre alla Bibbia, intendo?»
«Forse qualcosa c’è. Sto pensando alla Lettera pastorale
sull’orazione scritta da san Carlo Borromeo e pubblicata
integralmente la prima volta negli Acta Ecclesiae Mediolanensis nel 1582 in un’edizione curata nei contenuti e nella
stampa dallo stesso Borromeo, all’epoca arcivescovo di
Milano.»
«Questo Acta come si chiama dove lo troviamo?»
«Ne dovrebbe esistere una copia originale nella biblioteca...»
Il professore s’interrompe come se fosse in preda a
un’illuminazione.
319
«Dove?»
Per tutta risposta Ferraro si rimette a correre e noi dietro a inseguirlo.
«Oh no, ecco che ricomincia!» sospira Sebastiani rassegnato.
*
«Il vicequestore è rientrato?» domanda Lonigro al
piantone.
«Ancora no.»
L’ispettore ha visto Sebastiani andarsene dalla questura
stamattina presto e da allora aspetta.
Nel frattempo ha riflettuto parecchio su quello che Radeschi è riuscito a scoprire sul conto dell’avvocato Visconti e gli è venuta un’idea. Non memorabile, forse, ma di
quelle percorribili.
Vorrebbe condividerla col superiore, chiedergli un parere, ma lui nemmeno risponde al telefono.
Raggiunge l’ufficio di Mascaranti, che sta ascoltando la
radiocronaca del Giro d’Italia.
«Pantani arranca» lo accoglie.
«Sì?»
«Già, mi sa che questo non è il suo anno...»
Lonigro annuisce.
«Puoi lasciare un messaggio per il vicequestore?»
«Certo.»
«Digli che oggi probabilmente starò fuori tutto il giorno per delle ricerche.»
«D’accordo. Dove ti può trovare nel caso avesse bisogno?»
«In via Saint Bon».
L’altro strabuzza gli occhi.
320
«All’ospedale militare?»
«Sì, al distretto. Anche tu hai fatto lì i tre giorni?»
«Come tutti.»
«Come forse anche uno dei nostri sospetti.»
*
La Biblioteca del Capitolo Metropolitano, situata all’interno dei Palazzo dei Canonici, si trova proprio accanto al
Duomo. È la più antica fra le biblioteche di Milano oggi
aperte al pubblico. Tutto questo lo scopro grazie al professore, ovviamente, così come vengo a sapere che dentro ci
sono conservati circa cinquecento manoscritti e oltre quarantacinquemila volumi a stampa.
Ci arriviamo correndo, con Ferraro che quasi schiatta
per la fatica. Con quella mole trovo incredibile che sia ancora così agile.
«Qui troveremo quel libro?» chiede Sebastiani tormentando il solito toscanello.
«Me lo auguro vivamente» risponde il docente con il
fiatone. «Se non l’hanno qui non saprei proprio dove cercarlo. Vedete, attualmente il settore che maggiormente caratterizza questa biblioteca è proprio quello liturgico, con
particolare interesse per il rito ambrosiano.»
«Va bene, va bene. Mettiamoci a cercare.»
«Dobbiamo chiedere al...»
«Useremo questo!» decreta Sebastiani sventolando il
tesserino da sbirro e iniziando a urlare: «Fate attenzione
tutti: questa è un’indagine ufficiale di polizia. Abbiamo
bisogno immediatamente che ci venga fornito per la consultazione un certo libro antico.»
«Mi fai impazzire quando ti atteggi a Clint Eastwood»
gli dico prima di venire fulminato da una sua occhiataccia.
321
I pochi presenti nella stanza sollevano svogliatamente
lo sguardo, finché un chierico ci viene incontro facendo
segno di abbassare la voce.
«Benvenuti» saluta. Poi, rivolgendosi al vicequestore:
«Stia tranquillo: non occorrerà tirare fuori la pistola per
visionare uno dei nostri libri. Basta un documento d’identità e il titolo del testo che desiderate. Prego, accomodatevi in quella stanza.»
Dieci minuti più tardi, circondato da un silenzio ecclesiastico come impone il luogo e il momento, il professor
Ferraro con indosso un paio di guanti di seta e un’espressione di estasi in viso, gira molto lentamente le pagine di
un’edizione del milleottocento dell’Acta Ecclesiae Mediolanensis.
Sfogliare più di duecento e sessanta pagine a quel modo non è un’operazione veloce ma l’attesa non ci scoraggia, tranne Sebastiani che ringhia come un cane idrofobo
per l’impazienza mentre mastica il tabacco del toscanello
che ha appena frantumato.
Margot ne approfitta per porre la domanda che ci stiamo facendo tutti.
«Cosa si aspetta di trovare, professore? Davvero pensa
che ci sia la “ricetta” della peste?» Ferraro, vedendosi oggetto d’interesse da parte di una bella ragazza prende la
palla al balzo per ostentare la propria erudizione.
«Non credo si tratti de ’na ricetta come la carbonara,
gioia mia. La Peste Nera era una pandemia giunta in Europa da una sperduta regione dell’Asia centrale. La causa
scatenante parrebbe esser stata la moria di roditori, in
quelle regioni, dovuta alla scarsità di cibo conseguente al­
l’ir­ri­gi­di­men­to delle condizioni climatiche. In assenza di
roditori, le pulci, vettori del bacillo della peste, affamate,
attaccarono anche l’uomo e gli altri mammiferi. Il resto lo
322
fece l’efficiente sistema di comunicazioni dell’impero mongolo che propagò il contagio in poco tempo da un capo
all’altro del continente asiatico, fino a noi.»
«Abbiamo capito» taglia corto Sebastiani. «La peste è
arrivata dall’Asia.» Ferraro non gli bada, sfoglia ancora
qualche pagina poi esclama: «Ecco, ci siamo, pagina 266.»
Ci facciamo più vicini.
«Il IV sta per il paragrafo e... Incredibile.»
«S’intitola Pestis» commenta Margot.
«Già, e la descrizione consta di sole due parole.»
«Pestis è il nome latino della Peste Nera» conferma
Ferraro. «E le due parole che seguono mi suonano famigliari: Yersinia pestis.»
«Vale a dire?»
«Vede Sebastiani, come cercavo de spiegavve prima, la
peste è una malattia infettiva di origine batterica tuttora
diffusa in molte parti del mondo. Oggi, grazie alla scienza,
sappiamo che è causata da un certo batterio che, normalmente, ha come ospite le pulci parassiti dei roditori. Occasionalmente, un’epidemia può uccidere grandi quantità di
roditori e le pulci, in cerca di nuovi ospiti, si trasmettono
anche agli esseri umani, diffondendo la malattia.»
«E come si chiama questo batterio?»
«Yersinia pestis.»
«Quindi san Carlo Borromeo sapeva che era responsabile della pandemia?» chiede Margot.
«Oh, non credo proprio! I batteri sono stati scoperti
dalla scienza solo nel 1685, quindi poco più di cento anni
dopo la morte del santo. Perciò è impossibile che l’abbia
inserito in questo libro.»
«Non capisco. Allora com’è che vi compare questa informazione?» Ferraro sorride. Adesso gode della nostra
incondizionata attenzione, anche di quella di Sebastiani.
323
«Mi sembra ovvio, no? È stata inserita successivamente. Da qualcuno.»
«Lei sta dicendo che i Disciplinati hanno voluto tramandare questo segreto...»
«Lasciandolo bene in vista, esatto. Un altro dei loro
simboli. Vedete, quella che stiamo consultando è un’edizione ottocentesca del libro, quanto all’incisione con tanto
di simbolo che abbiamo trovato nello scurolo in Duomo,
possiamo dire che lo stesso è stato realizzato nel Seicento,
pertanto azzarderei l’ipotesi che i Disciplinati, a partire
dalla metà di quel secolo si siano preoccupati di inserire
nelle successive edizioni del libro l’informazione relative
alla peste.»
«A quale scopo?»
«Per riutilizzarla in casi estremi, presumo.»
«Cioè trasformarsi in untori?» domanda incredulo Sebastiani. «Per far scoppiare una nuova pandemia?»
«Forse» conferma il professore. «Ma queste non sono
che delle ipotesi. Nun c’è niente che possa esse provato.»
«Che c’è Enrico, non sei convinto?» mi chiede Margot.
«Be’, non sono un medico ma mi sembra che questo
batterio andasse bene per l’epoca in cui è stato manomesso questo libro. Voglio dire, allora bastava procurarsi una
pulce di topo e si poteva annientare una popolazione ma
oggi la medicina ha fatto passi da gigante. Dubito funzionerebbe ancora. Per esserne certi, comunque, avremmo
bisogno dell’opinione di un esperto.»
«Ce l’abbiamo. Sempre il mio amico svizzero Rochat»
annuncia Sebastiani cercando il cellulare nella tasca.
«Chiederò ancora a lui. Dopodiché mi toccherà fargli un
regalo per sdebitarmi.»
324
24.
Quando mi ha dato l’indirizzo non ci volevo credere.
«Ma è ancora in città?»
«Milan l’è un gran Milan!»
Eccolo lì, il milanese imbruttito che parla per frasi fatte.
Sarà pure una grande Milano ma per me l’officina dove
hanno portato il Giallone a far riparare si trova più o meno
sulla luna tanto è distante.
Le costole vanno meglio, così decido di andare solo e di
affidare Buk alle amorevoli cure di Margot con cui ieri
notte, finalmente, è successo. E siccome durante non mi
sono certo lamentato degli acciacchi, oggi niente badante.
Nella vita bisogna scegliere. Così come Fabio, che non
molla il divano per seguire il Giro. Anche se oggi è triste
perché Pantani si è ritirato.
Così sono salito in carrozza da solo. Per uno nato e cresciuto nella Bassa, che il treno lo ha sempre preso per fare
viaggi, fa davvero impressione prendere il passante. Si
chiama così una sorta di metropolitana sotterranea ma anche esterna che si collega con la metropolitana vera. I treni
sono autentici, di quelli che partono per Erba, Como o
Varese. Tu sali in una stazione della città e, dopo due o tre
fermate, quando scendi sei ancora nella stessa città. La
metropoli è tentacolare, come direbbe Yoan.
325
Come il caporedattore del Corriere, Calzolari, che mi sta
addosso perché gli scriva un pezzo su «quelli della setta del
simbolo», come li definisce lui. Ho nicchiato, dicendo che
hanno cercato d’ammazzarmi e che per qualche giorno sarei rimasto a riposo. Ha fatto finta di credermi però mi ha
anche velatamente minacciato: «Se non mi dai presto qualcosa» cito, «puoi tornare a scrivere per quei poveracci con
le pezze al culo di Milano (e hinterland) Oggi.»
Per ora non mi ci incaponisco. Ho ancora nella testa le
evoluzioni della notte scorsa, il corpo liscio di Margot, il suo
neo vicino all’ombelico, il piccolo tatuaggio sulla schiena...
Quello non è il mio solo pensiero fisso: da quando mi
sono svegliato non riesco a togliermi dalla testa una canzonetta che passava la radiosveglia. Mi ha martellato così
tanto che ho finito per scaricarla con Napster e metterla
sull’iPod per potermela ascoltare anche adesso, durante
questo viaggio della speranza.
Tutto quello che capisco è che sono ragazze che la cantano in spagnolo:
Aserejé ja de jé de jebe
tu de jebere sebiunouva
majabi an de bugui
an de buididipí
La canzone s’intitola Aserejé che boh, sarà un modo di
dire o una parola inventata. E loro, le cantanti, hanno un
nome da condimento piccante: Las Ketchup.
Ecco, ce ne sarebbe abbastanza per mollare, togliersi gli
auricolari e piantarla lì ma questa canzone è una droga, ha
ritmo, ha vitalità, ti fa venire voglia di muoverti e di ballare. Ci scommetto che diventerà il tormentone del­l’esta­te.
E mentre lo penso mi sento un cretino perché, invece del-
326
le canzonette, dovrei preoccuparmi di ben altro! Abbiamo
scoperto che il mondo da qui a poco, forse, andrà a incontro a una catastrofe immane, una nuova tremenda pestilenza. E io ascolto questa filastrocca senza senso. Forza
della musica. Ti fa scordare anche le cose peggiori. Almeno per qualche attimo. Poi i brutti pensieri ritornano persino più neri di prima.
Tipo il conto che il meccanico di Villapizzone mi presenta per la riparazione del Giallone. Ottocento euro. Otto volte quello che l’ho pagato.
«L’ho rimesso a nuovo» spiega. «Tutti pezzi originali.
Ora è una vera bomba!»
Tipo napalm per le mie finanze sgangherate. Però non
posso abbandonare la mia Vespa, ormai ci sono affezionato
e poi, in fondo, la riparazione la pagano gli studenti arrapati delle videocassette, anche se ora siamo passati ai dvd.
Faccio un assegno a questo bandito di meccanico e salto in sella. Il bolide redivivo si accende al primo colpo e il
rumore del motore mi conforta: ran-tan-tan-tan-tan.
Chi sale su una Vespa una volta, poi non vuole più scendere. Penso abbia a che fare con le vibrazioni, che hanno
un non so che di sessuale. Chissà.
Il viaggio di ritorno è un piacere. L’aria è calda ma non si
suda, il clima ideale per lo scooter, non fosse per ancora un
leggero fastidio alle costole nel tenere il manubrio ben saldo.
Quando metto piede in casa, oltre a Buk, che mi salta
addosso per leccarmi la faccia, mi attende Fabio con una
copia del Corriere in mano.
«Questo l’hai letto?»
Indica un trafiletto seppellito nelle pagine di cronaca
milanese.
“Ingegnere scomparso” recita il titolo. Calzolari non si è
sprecato granché.
327
«Qualcuno che conosciamo?»
Lui annuisce.
Leggo e scopro che il tizio, Roberto Diamanti, cinquantadue anni, lavorava in un’azienda informatica con sede in
porta Garibaldi e da qualche giorno nessuno ha più notizie di lui. La moglie è disperata.
«Vuoi dire che è il nostro spione? Quello che aveva bucato Milanonera?»
«In persona. Come sai, avevo attivato il trojan mentre
tu eri ricoverato e oggi, finalmente, sono riuscito a entrare
nella sua casella di posta elettronica. Non ci sono dubbi: è
lui. Il problema, però, è che forse con questa mossa l’abbiamo condannato.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che appena ho attivato il virus, il Minotauro ha scoperto che lo stavamo spiando e ha cercato di neutralizzare
il nostro attacco. Ma ha fallito.»
«Quindi pensi che i Disciplinati potrebbero averlo ucciso per proteggersi? Perché non risalissimo a loro?»
«Tutto è possibile.»
«Devo avvertire Sebastiani.»
Compongo il numero e subito il vecchio Motorola si
spegne.
«Quando ti deciderai a cambiarlo?»
Scuoto la testa, attacco il telefonino alla corrente e rifaccio il numero dello sbirro.
«Non ho tempo» sbotta Sebastiani.
Me lo immagino con l’espressione crucciata e il sigaro
ballerino.
«Aspetta. Hai presente quell’ingegnere scomparso?»
«No.»
Sospiro.
«L’ho letto sul giornale di oggi. Chiedi ai tuoi colleghi
328
in questura. Da qualche giorno risulta scomparso un certo
Roberto Diamanti.»
«Perché dovrebbe interessarmi?»
«Perché è uno dei Disciplinati. Io e Fabio abbiamo scoperto che è stato lui ad aver bucato il mio sito.»
«Ne sei sicuro?»
«Certo! Siccome, però, è la seconda volta io e Fabio ci
siamo fatti furbi: quando ci ha riprovato abbiamo respinto
il suo attacco. A quel punto le identità dei giocatori però
non erano più nascoste. E sospettiamo che loro l’abbiano
tolto dalle spese per questa ragione.»
«Mi sembra fantasiosa come spiegazione.»
«Forse. Ma secondo me era uno della confraternita col
compito di assicurarsi che il simbolo non venisse divulgato
in rete. Una volta che c’è finito, come adesso, ci rimarrà
per sempre. La rete non dimentica. E lui non poteva sfuggire al suo destino.»
«Niente di quello che tu e il tuo amichetto calabrese
avete fatto è legale, vero?»
«Esatto.»
«Perfetto. Allora ti saluto.»
«Aspetta: cosa dice del batterio Pestis il nostro esperto
svizzero?»
«Che ora lo curiamo come fosse raffreddore.»
«E riguardo la formula di Müller?»
«Conferma che si tratta del vaccino.»
«Per cosa?»
«Per un ignoto virus letale.»
*
«Ho saputo che siete andati a caccia nella cripta del
Duomo.»
329
Lonigro cerca di apparire spiritoso ma il superiore non
è dell’umore adatto. Sta rintanato nel suo ufficio dalle prime ore del mattino sommerso di carte, che sfoglia in maniera frenetica.
L’ispettore capisce l’aria che tira e gira sui tacchi ma
Sebastiani lo richiama.
«Che ci sei andato a fare al distretto militare?»
«Le notizie corrono.»
«Così pare. Allora?»
«Ho fatto qualche ricerca sul nostro avvocato. Ufficiosa, ovviamente, perché nessuno s’insospettisca.»
«Cosa hai scoperto?»
«Visconti ha fatto i tre giorni a Milano e a diciott’anni il
militare ad Aviano in Aeronautica.»
«Prima dell’università?»
«Sì. Quando poi si è congedato si è iscritto a Legge al­
l’ate­neo di Padova.»
«Ma che senso ha? Perché non qui a Milano?»
«Me lo sono domandato anch’io e la risposta l’ho trovata nell’archivio della procura militare.»
«Spiegati meglio.»
«Ho scovato una denuncia per molestie. Senza seguito.»
«Vuoi dire che l’hanno insabbiata?»
«Non credo. Penso che l’abbiano semplicemente derubricata a bravata, atti di nonnismo.»
«Va bene, e cosa c’era d’interessante?»
«Il nome dell’aguzzino, un ragazzo di un anno più vecchio di Visconti che aveva, a suo dire, abusato sessualmente di lui. Ma l’accusa non è mai stata provata.»
«Chi era?»
«Mattia Schiavon.»
Il sigaro traballa.
«La nostra prima vittima?»
330
«Lui. Visconti, dato che la procura militare l’aveva ignorato, forse ha deciso di farsi giustizia da solo.»
«Così si iscrive a Legge, nello stesso corso del suo aguzzino, e alla prima occasione favorevole lo ammazza. Un
sangue freddo notevole.»
«Chiediamo un mandato?»
«Su quali basi? Non possiamo provare nulla.»
«La denuncia?»
«Vecchia di sedici anni? Di quando faceva il militare?
Non reggerà. Abbiamo bisogno di collegamenti. Di qualcosa di solido.»
«Ma...»
«Niente ma» sbotta Sebastiani abbandonando le sue
carte. «Da questa montagna di documenti ho ricavato
una sensazione. E per provarla devi accompagnarmi in un
posto.»
«Altre chiese?»
«No ispettore, sempre roba antica ma ancora in vita.
Visto che mi ha risposto al telefono poco fa.»
*
«Lei è un parente?»
«No signora, gliel’ho già detto la volta scorsa: mi chiamo Radeschi, senza la k. Sono di Capo di Ponte Emilia,
non austriaco.»
«Va bene, ma non si scaldi!»
«Mi scusi. Ora per cortesia può vedere se monsignore è
disponibile?»
Al solito la perpetua sbatte la cornetta sul mobile e la
sento ciabattare via.
«Enrico, hai chiamato per una ragione specifica?»
La voce di don Lino è nervosa.
331
«Ha fretta?»
«Devo dire messa fra poco.»
«Mi scusi, sarà...»
«Non ti scuso: l’ultima volta non mi hai ascoltato e ti
sei beccato una pallottola!»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo: ne porto ancora i
segni. Brucia da morire quando cambia il tempo. E pochi
giorni fa hanno pure cercato di uccidermi investendomi
con un SUV!»
La notizia non sconvolge più di tanto il prevosto. Deve
averlo letto sul giornale. Per questo non commenta né
chiede i dettagli.
«Cosa mi volevi chiedere?»
«Perdono. Non per quello che ho fatto ma per quello
che farò.»
«Pensi di ammazzare qualcuno, Enrico?»
«Oh, questo no!»
«Allora non può essere nulla che, dopo, non si possa
confessare e perdonare con una bella scarica di Ave Maria
e Pater Noster.»
«Sono tutti così accomodanti i preti?»
«Non lo dici come doppio senso per farmi poi una squallida battuta su quanto i preti siano accomodanti coi chierichetti, vero?»
«Certo che no! Per chi mi prende?»
«Per quello che sei. Ricordati che le tue confessioni sono segrete ma non è che me le scordo appena esci, sai?»
«Quindi sono assolto?»
«No. Hai solo il premesso per andare a fare le stupidaggini che credi per poi venire a confessarmele, intesi?»
«Amen!»
*
332
«Ferma qui ispettore, siamo arrivati.»
Lonigro arresta la vettura e i due scendono. Si trovano
in una delle zone più esclusive della città, via Mozart, proprio accanto a una villa che ospita nei propri giardini dei
fenicotteri rosa.
«Milano è una scoperta continua» commenta Sebastiani osservando gli uccelli.
«Siamo qui per loro?» chiede con una punta di sarcasmo Lonigro. Non gli piace essere tenuto all’oscuro di
quello che succede e si vendica come può.
Il vicequestore scuote la testa.
«No, siamo venuti per far visita a una vedova.»
«Niente meno?»
«Quando sei arrivato nel mio ufficio, stavo sfogliando i
fascicoli riguardanti i morti che potremmo ricollegare ai
Disciplinati. Quindi l’avvocato Sommese, Müller ma anche quei due deceduti in circostanze sospette mesi fa e per
i quali la procura non ci permetterà mai la riesumazione
senza delle prove solide. Per questo ho deciso di adottare
un’altra strategia.»
«Si riferisce a Denis Fabbris e Guglielmo Branca?»
«Proprio loro. Sono impazzito cercando un collegamento, un filo logico.»
«E a che conclusioni è arrivato?»
«Oh, ispettore dovresti saperlo che nel nostro mestiere
ogni conclusione è un azzardo. Diciamo che ho formulato
un’ipotesi sulla base di un’unica coincidenza che accomuna tutti e quattro.»
«E sarebbe?»
«Sono tutti coetanei. Nati nel 1936.»
«E siccome in un’indagine per omicidio non esistono le
coincidenze...»
«Hai capito perfettamente, ispettore. Adesso ci troviamo sotto la casa di Denis Fabbris. La vedova Branca, in
333
questo periodo, è in Liguria, dove possiedono una casa. E
poi visto che suo marito è crepato fra le cosce di una squillo non mi pareva il caso...
La Fabbris, invece, ci sta aspettando. Le ho telefonato
prima che uscissimo.»
«Cosa vuole chiederle? Se suo marito faceva parte di
una setta?»
«No, non voglio turbarla. E poi difficilmente lei ne sarebbe al corrente. Voglio solo mostrarle questa.»
Il sigaro traballa e dalla tasca del vicequestore compare
la fotografia recuperata a casa dei Müller. Sei ragazzi giovani ritratti davanti al Castello Sforzesco.
«Pensa che si conoscessero?»
«Lo ipotizzo. Erano coetanei. Müller ha studiato a Milano e, secondo la moglie, aveva un gruppo storico di amici qui. Se non ne viene fuori niente avremo perso una
mezz’ora. Vale la pena tentare.»
«Oh, ma certo che li riconosco!»
La vedova di Denis Fabbris è una donnina grassottella
e dal viso simpatico. Indossa due occhialoni da miope a
cui avvicina la fotografia come se dovesse mangiarsela.
«Chi riconosce?» chiede Sebastiani.
Sono seduti in un luminoso salotto che affaccia su un
cortile interno pieno di alberi rigogliosi e un’edera che ricopre tutta la facciata del palazzo di fronte.
«Be’, ovviamente mio marito, il terzo da sinistra, e poi
questo è il suo amico di sempre, Guglielmo.»
«Vuole dire Guglielmo Branca, il cardiologo?»
«Sì, poveretto. Sono mancati a pochi mesi di distanza
l’uno dall’altro. Si conoscevano da una vita, sa?»
«Mi spiace. Gli altri nella foto li riconosce? Quello al
centro si chiama Luciano Müller.»
334
«Ma certo che so chi sono! Sono vecchia ma con la testa ci sto ancora, sa?»
«Non ne dubito, signora.»
«Dunque, mi faccia ricordare i loro nomi. Be’, certo,
quello è Luciano, veniva sempre a pranzo da noi una volta
al mese... Poi Denis è mancato e a lui è successa quella
brutta cosa al grattacielo Pirelli.»
Il vicequestore attende un minuto che la donna si ricomponga, poi indica un volto.
«Questo sa come si chiama?»
«Oh, ma è il cavalier Bressan.»
Il sigaro di Sebastiani traballa.
«Riccardo Bressan, intende? Quello dell’azienda farmaceutica?»
«Proprio lui.»
I due sbirri si scambiano un’occhiata.
«Riconosce anche gli altri?»
La signora ridacchia.
«Avete detto che siete della polizia, giusto?»
«Certo, perché?»
Gli occhi della donna sembrano ridere sotto le lenti
spesse.
«Perché mi meraviglia che non riconosciate il vostro
capo: quello sorridente con questo ciuffo da tirabaci è l’attuale questore di Milano, Lamberto Duca.»
Se lo avessero preso a randellate, Sebastiani ci sarebbe
rimasto meno male. Il toscanello gli scappa dalla bocca e
gli cade sul tavolo. Il vicequestore farfuglia delle scuse
mentre lo recupera e domanda: «Ma ne è sicura?»
«Certo! Lamberto è venuto a cena da noi per anni. E io
sono molto amica di sua moglie Rosanna.»
«D’accordo» sospira il vicequestore ormai nel pallone.
«E l’ultimo chi è?»
335
La signora corruga la fronte, poi scuote la testa.
«Purtroppo il nome non me lo ricordo ma voi dovreste
conoscerlo. Lavora con Duca, mi pare. E forse anche con
voi.»
Sebastiani, terreo in viso, ringrazia la donna e si avvia
con passo deciso giù per le scale.
Solo quando salgono in auto Lonigro ha il coraggio di
porre la sua domanda: «Scusi dottore, ma non ho capito:
chi è il sesto uomo?»
«Ancora non ne sono sicuro» farfuglia l’altro masticando il sigaro. «Però un sospetto ce l’ho.»
336
25.
Ossa alle pareti, appese ai muri, a decorazione degli altari. Teschi che si affacciano dagli stipiti della porta. Spoglie umane praticamente ovunque.
«Questo posto mi mette i brividi» sospira Margot aggrappandosi al mio braccio.
Non siamo sul set di un film o in un cimitero ma nella
cappella della chiesa di San Bernardino alle Ossa. Hanno
cercato di uccidermi proprio qui davanti e io mi sono messo in testa che debba esserci una simbologia connessa a
questo luogo.
Con noi, come un moderno Virgilio, c’è il professor
Ferraro che, vedendo la paura negli occhi di Margot, rincara sadicamente la dose.
«Nun mettete piede qui dentro il 2 novembre. La leggenda vuole che, proprio nel giorno dei Morti, i resti di
una bambina conservati alla sinistra dell’altare tornino a
vivere e si trascinino dietro tutti gli altri scheletri in una
specie di danza macabra. I rumori si sentono anche fuori
dalle mura tanto sono forti!»
«Professore, così mi spaventa!»
«Ma nun dillo nemmeno pe’ scherzo! Se cerchi conforto non hai che da venì qua che t’abbraccio!»
«Non siamo qui per questo!» taglio corto.
337
Non prendo a pugni il panzone solo perché sono stato
io a insistere che ci accompagnasse. Siamo andati ad aspettarlo all’uscita di una sua lezione. Avrei potuto andare solo, visto quello che avevo in mente, ma sapevo che Ferraro, senza una buona ragione non mi avrebbe mai accompagnato. Aveva superato da un pezzo la motivazione etica,
la sete di sapere, il gusto della scoperta. Ora si era convertito a piaceri più terreni. E la vista delle gambe lunghe di
Margot, messe in evidenza dalla minigonna, avevano ottenuto l’effetto desiderato.
«Ci racconti un po’ di questa chiesa, professore.»
«Come sapete – visto che avete insistito come pazzi perché vi accompagnassi – nel corso del quindicesimo secolo
l’edificio fu utilizzato per le riunioni dalla confraternita
dei Disciplinati, che si dedicava al culto dei morti e al­l’e­
spia­zio­ne dei peccati da raggiungersi attraverso l’autoflagellazione e la mortificazione della carne. Tutto succedeva
nella cripta che si trova sotto i nostri piedi.»
«Quindi i miei sospetti erano fondati: hanno provato
ad ammazzarmi proprio dove si riuniscono?»
«Devi capì che dietro ogni loro gesto ce sta un’allegoria.
Così come il fatto di assassinare Sommese ai piedi della
scrofa lanuta deve avere per loro un significato simbolico.»
«Sono pazzi.»
«Niente affatto. Ogni loro mossa è ponderata, studiata.
Ora posso continuà con la spiegazione? La signorina me
sembrava interessata.»
«Prego.»
«Dunque, oggi la chiesa è famosa per questa cappella in
cui ci troviamo, alquanto macabra, ne convengo: le pareti
sono ricoperte interamente di ossa umane, disposte secondo un disegno ornamentale.»
«Da dove arrivano?»
338
«Dai cimiteri di zona soppressi nel corso dei secoli.»
Osserviamo i macabri trofei che ricoprono le pareti della piccola chiesa. Sembra un luogo fuori dal mondo, così
lontano dalla Milano del quadrilatero e della moda che
pure sta a poche centinaia di metri in linea d’aria da qui.
«Mi parli della cripta.»
Il professore ci fa segno di seguirlo e lasciamo la cappella.
«Ecco, vedete quella botola con le scritte in latino posta
al centro della chiesa? Bene, da lì si accede alla cripta. Dieci scalini.»
Ci avviciniamo e, quasi immediatamente, noto il simbolo. Anche Margot e il professore lo vedono.
«Ora lo troviamo ovunque.»
«Così pare.»
«Dopo i dieci scalini che succede?» lo incalzo. «Si apre
la porta dell’inferno?»
«No. Ma nun sarà comunque un bello spettacolo. Al­
l’epo­ca ci mettevano i corpi dei confratelli passati a miglior vita, affinché si realizzasse il disfacimento delle carni,
secondo un sistema molto in uso in quegli anni nel Sud
Italia.»
Margot si allontana di qualche passo, disgustata. Anch’io
non sono molto interessato a indagare ulteriormente su
quel raccapricciante rituale, così cerco di cambiare argomento.
«Tutto molto interessante, professore. Ora, però, troviamo
un posto per nasconderci, visto che stanno per chiudere.»
I miei compagni mi osservano stupiti.
«Ma che vuoi fà?»
«Voglio entrare in quella cripta, mi sembra ovvio, no?»
«Tu sei fuori de capoccia.»
«Può darsi, ma non è ansioso anche lei di scoprire se i
339
Disciplinati si riuniscono ancora qui sotto?» Ferraro combatte con la propria curiosità. E con la propria codardia.
«Dove vorresti nasconderti? Non c’è spazio qui.»
«Eccetto quello.»
Indico il confessionale in legno.
«Non vorrai...»
«Andiamo. Se ci stringiamo ci entriamo tutti e tre.»
«Speriamo che nun venga ’na vecchia beghina a confessasse» sospira il professore. «Signorina, lei stia pure in
braccio a me.»
Margot lo fulmina con lo sguardo.
«Non ci penso nemmeno!»
«Rimarremo tutti e tre in piedi» sibilo. «E ora silenzio,
sta arrivando il sagrestano.»
«Ehi! Giù le mani, professore!»
Mi frappongo tra loro e sospiro. Sarà una lunga attesa.
*
La prima cosa che Loris Sebastiani ha fatto rientrando
in ufficio è stata appendere una copia della foto di Müller
coi suoi amici allo scaffale di metallo, accanto a quelle delle vittime della Mantide.
Sotto alla faccia di ciascuno dei ragazzi ha scritto con la
penna i loro nomi così come glieli aveva indicati la vedova
Fabbris.
Quando l’ispettore Lonigro entra trova il superiore che
fissa assorto quella foto.
«Quando lo dirà al questore?»
Il sigaro scivola lentamente da un lato all’altro della
bocca.
«Ancora non so. Tu hai novità?»
«Forse ho trovato un collegamento.»
340
Sebastiani fa segno al collega di sedersi.
«Spiegati meglio.»
«Fra la Mantide e Visconti.»
«Oltre al fatto che lui è il suo avvocato, intendi?»
«Esatto. Anzi, proprio di questo ha abusato; vengo ora
dal tribunale, dove mi sono mangiato mezza tonnellata di
polvere riesumando vecchi faldoni: Visconti è anche l’avvocato di Pasquale Esposito, il napoletano a cui è intestata
la casa di piazzale Gabrio Rosa.»
«Quindi sospetti che Visconti avesse le chiavi di quella
casa di Esposito e che l’abbia messa a disposizione della
Méndez?»
«Direi che basta per un mandato, no?»
«No. Anche questa è solo un’ipotesi, ma non possiamo
provare che Visconti abbia dato le chiavi alla Méndez. Magari lei ed Esposito si conoscevano e lui, in cambio di
qualche carineria, diciamo così, le presta la casa quando
esce per i permessi premio.»
Lonigro sospira.
«Cosa facciamo?»
«Adesso? Nulla, ispettore, è tardi, sono quasi le otto.
La giornata è già stata abbastanza lunga. Va’ a casa da tua
moglie e dai tuoi bambini. Ne hai due, vero?»
«Sì, due pesti.»
Sebastiani sorride.
«Vai, penseremo domani a salvare il mondo.»
*
Il regno degli inferi è proprio come mi aspettavo.
«Qua sotto non c’è per nulla un buon odore!»
«E cosa ti aspettavi, Enrico: profumo di rose? Siamo in
una cripta dove liquefacevano i cadaveri!»
341
L’unica luce di cui disponiamo è quella delle candele
che abbiamo preso in chiesa prima di scendere i famosi
dieci gradini che portano agli inferi. Ho comunque lasciato un’offerta di un paio di euro per ogni candela per mettermi la coscienza a posto.
Io e il professore avevamo poi sollevato la botola e la
nostra scampagnata nel sottosuolo aveva avuto inizio.
Margot si copre la bocca con le mani.
«Questo posto è incredibile.»
«Pensate che si tratta di un raro esempio, per quel che
riguarda l’Italia settentrionale, perlomeno, di colatoio a
seduta o, se preferite un termine latino che però rende bene l’idea, putridarium.»
«Ma questa puzza non dovrebbe essere svanita, ormai?» Ferraro annuisce brevemente, poi muovendosi con
molta attenzione si avvicina a una delle pareti di pietra.
«Vedete quelle?»
«Sembrano delle panchine...»
«Una specie» conferma il professore. «Questa cripta
presenta alcune particolarità. Innanzi tutto quelle quattro
poltrone scolpite nella roccia, riservate agli eletti. E poi,
lungo le pareti, una serie di ben ventuno nicchie provviste
di sedili in muratura, ciascuno dotato di un foro centrale.»
«Non certo per...»
«Eh no, Radeschi! Che te vai a pensà? Questo era un
putridarium! Il cadavere del defunto veniva collocato in
posizione seduta in modo da far confluire i liquami prodotti dalla putrefazione direttamente all’interno del foro,
collegato a un canale di scolo.»
«Bleah!»
«Affascinante. E quando questo delizioso processo era
concluso cosa accadeva?»
«Be’, quando la decomposizione aveva fatto il proprio
342
corso risparmiando solo le ossa, i resti scheletrici venivano
spostati nell’ossario dove stavamo prima, mentre il cranio,
simbolo dell’individualità del defunto, veniva posizionato
su un’apposita mensola.»
Margot è pallida e deve inginocchiarsi un attimo per
riprendere fiato.
«Io salgo su» annuncia avviandosi verso le scale.
«Certo, arriviamo subito.» Ferraro studia la piccola
stanza con grande attenzione. Si sofferma sui dettagli, passa la mano sulla roccia. Non credo sia mai stato quaggiù
prima.
«Pensa che si ritrovino ancora qui i confratelli?»
«Non con questo fetore orribile.»
«Credo provenga da quella fessura laggiù.»
Sul lato opposto rispetto a dove ci troviamo si apre una
specie di piccola feritoia nel muro, uno spazio di non più
di trenta centimetri, dove un uomo di media corporatura
ci si potrebbe infilare. Non certo il professore che col suo
panzone rischierebbe di rimanerci incastrato.
Ci avviciniamo e l’odore diventa insopportabile.
«Cosa c’è di là?» chiedo.
«Non lo so esattamente. Nelle carte dei Disciplinati, a
volte, si faceva riferimento a una seconda cripta segreta
fatta edificare dal Borromeo in persona ma la cui esistenza
nun è mai stata verificata.»
«Verifico io adesso.»
Senza indugio m’infilo nella fessura coprendomi naso e
bocca con il fazzoletto perché l’aria è davvero irrespirabile. Sotto i piedi noto dei calcinacci, segno che il muro è
stato abbattuto di recente. Questa seconda stanza deve
essere rimasta chiusa per molto tempo.
La luce tremula della candela rischiara un ambiente
molto simile al precedente, una sorta di cripta gemella.
343
Vuota come la prima, se non fosse per qualcosa che noto
proprio nella nicchia più lontana.
«Se pò sapé che c’è?» chiede il professore.
Non posso rispondere con la bocca coperta e gli occhi
che quasi lacrimano. Il tanfo è insopportabile e ora ne capisco la ragione: davanti a me c’è un cadavere in decomposizione!
Estraggo la macchina fotografica digitale che ho ereditato da Molinari e scatto una decina d’immagini che poi
studierò. In questo momento il fetore mi annebbia il cervello.
Il flash che illumina la scena mostra uno spettacolo orribile, come se quel poveretto fosse fatto di cera e si stesse
letteralmente sciogliendo...
Mi allontano in fretta e invito il professore a seguirmi
su per le scale.
«Che hai trovato?» domanda.
Finalmente riprendo a respirare. Faccio segno a Margot di seguirci nella sagrestia dove, durante il sopralluogo
che ho fatto quando il custode ci aveva chiusi dentro, avevo notato una porticina in cima a una scalinata laterale.
Usciamo proprio da lì, in fila indiana, e ci ritroviamo in un
vicolo sul retro della chiesa.
Quando siamo abbastanza lontani, il professore torna
alla carica.
«Me voj dì: che hai visto?»
«Aveva ragione: c’è una cripta segreta.»
«Com’è?»
«Identica alla prima. Solo che questa i Disciplinati la
utilizzano ancora.»
«Vuoi dire che quell’odore...»
«Sì, lì sotto c’è un cadavere che si sta squagliando. Il
putridarium è ancora in attività.»
344
26.
La ragazza si rigira fra le lenzuola. I suoi vestiti sono sul
pavimento, i capelli sparsi sul cuscino. Apre pigramente
gli occhi e arriccia le labbra.
«Ma chi è a quest’ora?»
Sebastiani controlla il numero sullo schermo del cellulare: Radeschi. Poi guarda l’orologio, che non si toglie nemmeno a letto: le nove di sabato mattina.
«Dormi. È lavoro» taglia corto uscendo dalla stanza per
rispondere.
A dire la verità non gli dispiace che si sia svegliata: non
ama la compagnia dopo.
Cerca di ricordare come si chiami la sua amante. Lory,
forse. Che dovrebbe stare per Loretta, ammesso che questo nome al giorno d’oggi abbia ancora un senso. La professione però non l’ha scordata: fa l’hostess e presto volerà
via. Almeno se lo augura.
La sera precedente gli pareva una buona idea invitarla da
lui. Dopo la cena e le chiacchiere di rito. Per i primi venti
minuti si era rivelata davvero una mossa azzeccata. Ora, però, a vederla ancora lì – otto ore dopo – con il trucco sbavato e l’espressione crucciata avrebbe preferito altrimenti.
«Cosa vuoi, Radeschi?»
«Buongiorno, sbirro.»
345
«Oggi è sabato e non sono nemmeno di turno, quindi
se non è...»
«I Disciplinati sono ancora attivi. Ho le prove.»
«Frena, quali prove?»
«Ti ho mandato delle fotografie via mail. Lo so che non
ti piace usare la posta elettronica ma stavolta sforzati. Ti
avverto che non sono un bello spettacolo...»
«Mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?»
«La chiesa di San Bernardino alle Ossa: quella che sta
tra piazza Santo Stefano e il Verziere. Hai presente?»
«Allora?»
«Sotto c’è una cripta segreta che la nostra setta utilizza ancora oggi. E indovina? Dovrai farti firmare un mandato per sequestrare tutte le ossa che ci sono nella cappella e spedirle alla scientifica. La loro antica attività di
far liquefare i morti non è mai stata sospesa. E sospetto
che le ossa dei loro morti finiscano ancora appese a quelle pareti!»
«Ma sei fuori di testa? Vuoi che faccia sequestrare e
analizzare tutte le spoglie dell’ossario della chiesa di San
Bernardino? Nessuno avvallerà mai questa follia!»
«Allora non scoprirete mai se lì ci sono i resti dei confratelli diventati scomodi. Sai quante persone scompaiono
ogni anno?»
«Non ammorbarmi con le tue statistiche, ti prego!»
«Non lo faccio. Tu però guarda le foto che ti ho mandato. Ti convincerai all’istante.»
«Dimmi quello che devo sapere adesso!»
«Nella seconda cripta, che sta dietro un muro semidiroccato, c’è un cadavere. Ed è in pessime condizioni. Se ci
mettete troppo non so quello che troverete.»
«Tu come lo sai?»
«Meglio che non te lo dica. Dammi retta: in quella cripta
346
c’è un morto proprio dove da sempre si riunisce la confraternita dei Disciplinati. Cos’altro ti serve per convincerti?»
Sebastiani rientra in camera e getta il telefono sul letto,
quindi s’infila fra le labbra il primo sigaro della giornata,
insieme alle mutande.
«Devi andartene» annuncia secco.
Lory apre appena gli occhioni da cerbiatta.
«Cosa?»
«Alzati e rivestiti.»
Il tono non è di quelli accomodanti o a cui si possa replicare. Lo sguardo del poliziotto è severo e la ragazza decide di non fare scenate. Scivola fuori dalle coperte e si
chiude in bagno con i vestiti sotto braccio.
Venti minuti più tardi il vicequestore mette piede nel
suo ufficio. Il sigaro già masticato e la fanciulla depositata
senza tanti complimenti alla prima fermata dei taxi. Non è
tanto sicuro che la rivedrà ma, come scriverebbero certi
settimanali che Lory sicuramente adora, «tra loro non era
destino perché non era scattata la scintilla».
La prima attività che lo sbirro si impone è quella di
controllare la mail. Quel maledetto sistema che odia ma
con cui deve convivere. Controllare se Radeschi gli ha rifilato un bidone oppure prepararsi a scomodare qualcuno
in procura per farsi firmare un mandato.
«Buongiorno, che ci fa qui di sabato?»
Sebastiani alza la testa di scatto e si ritrova davanti la
faccia tonda e riposata del questore Lamberto Duca.
«Potrei farle la stessa domanda, dottore.»
«Oh, io mi sono scordato gli occhiali. Ieri sera ho rotto
quelli di scorta così se non voglio passare il weekend senza
vedere un tubo...»
Si ammutolisce di colpo quando il suo sguardo si posa
sulla foto appesa all’armadio di ferro; quella dei sei ragazzi.
347
«Questa da dove salta fuori?» chiede in tono brusco.
«Ce l’ha data la moglie, pardon la vedova, di Müller.»
«I nomi qui sotto, li ha scritti lei?»
«Sì. Dopo aver fatto visita a un’altra vedova. La signora
Fabbris. Mi ha detto che lei e sua moglie siete loro cari amici.»
Sul volto di Duca passa un’ombra scura, prima che
l’uomo si lasci cadere su una sedia. Agli occhi di Sebastiani sembra invecchiato di colpo.
«Ci conosciamo da sempre. Anche con gli altri. Siamo
tutti stati studenti al liceo Parini.»
Sebastiani fa segno di comprendere. Non può torchiare
il suo superiore ma desidera una spiegazione. La sua inquietudine, al solito, è espressa dal toscanello che scivola
da una parte all’altra della bocca, senza sosta.
«Quando pensava di dirmelo?» chiede il questore.
«Probabilmente lunedì. Non volevo guastarle il weekend,
ma da come si sono messe le cose...»
«Ha scoperto qualcosa che devo sapere?»
I due uomini si fissano negli occhi.
«Sì, prima però finisca di raccontarmi in che rapporti
era con le persone nella foto. Mi ricordo che quando sono
morti Branca e Fabbris lei ha insistito perché si archiviasse
e non si eseguisse l’autopsia. Decisione legittima, per carità, ma non ortodossa. Quando Sommese è stato ucciso,
poi, ha telefonato addirittura da Buenos Aires per avere
notizie. Il che mi è parso insolito. Solo dopo aver visto
quella foto, tuttavia, ho capito che c’era una persona che,
come lei, ha potuto sapere di queste tre indagini e, sempre
d’accordo con lei, indirizzarle.»
«Mi sta accusando di qualcosa, Sebastiani?»
Il tono del questore è pieno di rabbia adesso.
«No, dottore. Sto solo cercando di ricostruire come si
siano effettivamente svolti i fatti.»
348
«D’accordo» sospira Duca. «Prima però mi dica: sospetta che Branca e Fabbris siano stati assassinati e non deceduti di morte naturale?»
«Sì.»
La voce del questore torna piatta, priva di emozioni.
«Le ho chiesto di archiviare per dare pace alle due vedove ed evitargli la pena di un’autopsia. Niente lasciava
presupporre che si trattasse di omicidio.»
«In entrambi i casi si è consultato con uno degli uomini
ritratti in quella foto, vero?»
Stupito, il questore solleva la testa.
«Come fa a saperlo?»
«Ci arrivo subito. Mi tolga un’ultima curiosità: è stato
sempre quell’uomo ad avvisarla della morte dell’avvocato
Sommese mentre si trovava dall’altra parte del mondo?»
«Questo però non significa... Aspetti: lei sospetta del
sostituto procuratore Antonio Testori?»
Il sigaro di Sebastiani si sposta leggermente verso il
basso.
«Finalmente l’ha capito...»
Il questore è pallido e i suoi occhi vagano nella stanza.
Sta pensando, cercando di rimettere insieme i pezzi.
«Ora che ci penso anche dopo le due disgrazie, prima
quella di Branca e poi quella di Fabbris, il primo a telefonarmi è stato Testori: diamo una degna e veloce sepoltura
ai nostri vecchi amici, mi aveva detto. Così come per Sommese e anche quando...»
«Anche quando l’aereo si è schiantato contro il Pirellone, è stato lui a chiamarla per primo, non è vero?»
Il questore adesso si guarda la punta delle scarpe. Ha
capito e non gli piace.
«Secondo me, è venuto il momento di parlare con Testori. Solo che...»
349
«Non può andarci da solo, Sebastiani. È questo che voleva dire, vero?»
«Sì.»
«D’accordo la accompagnerò io. Un incontro informale.»
«Non chiedo di meglio.»
«Ci andremo domani. Domenica mattina. So che dopo
la messa, Antonio passa sempre un’oretta in procura per
sbrigare le sue faccende.»
«Dove va a messa?»
«Nella chiesa di San Bernardino alle Ossa. Sa, è vicinissima al tribunale.»
«Non credo sia solo per questo...»
«Prego?»
«Volevo parlarle proprio di quella chiesa e di un’antica
confraternita.»
Duca solleva un sopracciglio e scuote la testa.
«Vede, avrei bisogno di un mandato per perquisire la
cripta: proprio stamattina una fonte confidenziale ci ha informato che lì sotto c’è un cadavere.»
«Quanto è attendibile questa fonte?»
«Affidabilissima. Mi ha perfino mandato qualche foto
via mail. Ecco, guardi lei stesso.»
*
Sebastiani non ha perso tempo.
Quando arrivo sul sagrato della chiesa di San Bernardino trovo una selva di curiosi. Nella piazza ci sono auto
della polizia e tre furgoni della scientifica. Dalla Galleria e
dal Duomo sono convenuti in tanti per assistere all’insolito spettacolo. Un sabato pomeriggio davvero diverso per i
milanesi.
350
Manca solo l’elicottero e sarebbe una scena degna di un
film americano.
Mi faccio largo a spintoni fino al nastro bianco e rosso,
dove mi attende il solito Mascaranti.
«Alla larga» mi ringhia.
«Sei monotono. Voglio solo parlare un attimo col vicequestore.»
«Adesso non è possibile. Sparisci.»
Per rendere la minaccia più efficace fa un passo verso
di me e io arretro d’istinto. Lui sorride perfido.
«Va bene, va bene. Lo chiamo sul cellulare e gli dico
che sono qui.»
«Ecco bravo. Nel frattempo stai lontano.»
Intorno ci sono una decina di giornalisti incuriositi da
quel dispiegamento di forze. C’è anche una troupe di Telecity Milano, con Guarneri che mi saluta e fa per avvicinarsi.
Mi sposto di qualche passo per non doverci parlare. Ora
siamo su sponde diverse e poi se si sente di nuovo male non
voglio essere io a fargli ancora la respirazione bocca a bocca.
Calzolari sarà felice di sapere che noi avremo le foto
esclusive del cadavere. Prima però devo avere conferma
da Sebastiani dell’identità del morto, anche se un’idea io
ce l’ho già.
Compongo il suo numero.
«Ciao Loris, sono qui fuori...»
Non posso aggiungere altro. Il Motorola si spegne miseramente. Batteria scarica.
Impreco, sperando che lo sbirro abbia capito.
Sebastiani non mi delude. Cinque minuti più tardi lo
vedo comparire dal portone della chiesa e venire nella mia
direzione.
«Ho provato a richiamarti.»
«Mi è morto il telefono.»
351
La sua risposta è un’impercettibile movimento del sigaro.
«L’avete trovato?»
«Era difficile mancarlo: quella cripta puzzava come le
fogne di Calcutta.»
«Pure peggio.»
I convenevoli sono finiti. Lo intuisco dalla rotazione veloce del toscanello.
«Cosa vuoi?»
«L’identità del morto: io scommetto sull’ingegnere
scomparso che mi aveva oscurato il sito.»
«Non puoi scriverlo.»
«D’accordo. È lui?»
«Sì, Roberto Diamanti. L’abbiamo riconosciuto dalla
fede nuziale che portava al dito.»
«Avanti Loris, dimmi di più. Stiamo lavorando insieme
sui Disciplinati. Terrò queste informazioni per me fino a
quando non mi dirai che potrò scriverle.»
«Anche le foto che mi hai mandato?»
«Anche quelle.»
«Togliamoci di qui.»
Mi fa passare oltre il nastro, sotto agli occhi irritati di
Mascaranti e invidiosi degli altri cronisti.
Ci mettiamo dietro un furgone della scientifica, al riparo dai curiosi.
Sebastiani inizia a parlare sottovoce.
«Secondo Gaetani della scientifica stavano facendo
squagliare quel poveraccio con una certa sostanza chimica
di cui ora mi sfugge il nome. Un accelerante della putrefazione. In un paio di settimane sarebbero rimaste solo le
ossa che poi come dici tu, magari avrebbero messo insieme a tutte le altre e tanti saluti.»
«Certo non potevano aspettare il disfacimento naturale
come avveniva una volta. Ci sarebbe voluto troppo tempo.»
352
«Si sono modernizzati»
«Che altro?»
«Credo che siamo arrivati in fondo a questa faccenda:
mettendo un morto a putrefarsi nella loro cripta si sono
preclusi di fatto la possibilità d’incontrarsi lì. Con quella
puzza il luogo risulterà inagibile per lungo tempo.»
«Quindi cosa pensi?»
Il sigaro scivola veloce verso il lato destro della bocca.
«Sta per succedere qualcosa»
«Ti riferisci al vaccino, alla Peste Nera...»
«Soprattutto al virus sconosciuto.»
Si fruga in tasca ed estrae la foto dei sei ragazzi.
«Ricordi questa foto?»
«Certo.»
«Li ho identificati» annuncia. «Questi due sono Guglielmo Branca e Denis Fabbris, il cardiologo e il banchiere ufficialmente deceduti per cause naturali. Almeno, questo è quello che credevamo fino a oggi.»
«Perché hai cambiato idea?»
«Analizzando il corpo dell’ingegnere hanno trovato
una specie di profonda puntura sul collo. Troppo profonda per essere stata causata da un insetto.»
«Quindi gli hanno iniettato qualcosa nel sangue per ucciderlo?»
«Esatto. E sono sicuro che hanno agito nella stessa
maniera con gli altri due. Solo che non avendo fatto l’autopsia...»
«Non si può dimostrare. Ho capito. Chi sono gli altri
tre?»
Sebastiani adesso è visibilmente a disagio.
«Avanti, Loris.»
«Uno è il questore, Lamberto Duca.»
«Cosa?»
353
«Hai capito bene.»
«Pensi che...»
«No, l’ho affrontato stamattina. È venuto fuori che tutti e sei hanno frequentato il liceo Parini. Coetanei e compagni di classe, insomma.»
«E Disciplinati.»
«Non il questore.»
Lo guardo dubbioso ma non infierisco.
«Gli ultimi due?»
«Uno è il cavalier Riccardo Bressan, quello della ditta
farmaceutica. L’altro il sostituto procuratore Antonio Testori.»
«Niente meno.»
«Già.»
«Uno di loro potrebbe essere il capo della nostra confraternita delle ossa?»
«Domani incontro Testori.»
«Punti su di lui?»
Il poliziotto si stringe nelle spalle.
«Staremo a vedere.»
Annuisco.
«Me ne vado. Un’ultima cosa: analizzerete davvero tutte le ossa che si trovano in quella chiesa? Voglio dire appese alle pareti, sulle porte. Praticamente ovunque... Saranno centinaia, forse migliaia di persone...»
Per tutta risposta ottengo un veloce movimento del sigaro che non so come interpretare.
*
«Dove sei stato fino a quest’ora? Ti stai perdendo il
meglio di questa penultima tappa!»
Come da quasi un mese a questa parte, la tv è sintoniz-
354
zata sulla telecronaca del Giro d’Italia. Personalmente le
corse in bicicletta mi conciliano il sonno. Non a Fabio che
le segue con una rara attenzione. E pensare che all’università avevo pure dato un esame di storia contemporanea su
un corso monografico intitolato L’Italia del Giro d’Italia.
Le curiosità erano parecchie, tipo che all’epoca della rivalità fra Coppi e Bartali i bimbi che nascevano statisticamente venivano battezzati con più frequenza con i nomi dei
due campioni, Gino e Fausto, anziché altri. La mia passione per questo sport, però si era esaurita con quel trenta
scritto dal professore sul libretto.
«Ho fatto un sopralluogo» annuncio.
«Lo sai, vero, che ormai parli come uno scassinatore?»
«Uno sbirro, semmai.»
«Come ti pare. E cosa, di grazia, sei andato a spiare?»
«Un’azienda farmaceutica.»
«Vuoi rubare una scorta di Xanax per mantenerti sempre tranquillo?»
«D’accordo, Fabio. Te la faccio semplice, così anche un
tecnico ottuso come te può capire.»
«Quanto è buona sua maestà.»
«Te lo ricordi, vero, che hanno cercato di ammazzarmi
pochi giorni fa?»
«Come potrei dimenticarmene? È ancora vivida nella
mia memoria l’immagine di te supino col culo all’aria che...
Ah, no, mi confondo con la volta che ti hanno sparato!»
«Va bene, piantala. Un Hummer mi ha investito di proposito.»
«Comincio ad annoiarmi.»
«Be’, quando dicevo di ricordare solo la marca dell’auto mentivo. Ricordo anche parte della targa e, sai com’è...»
«Visto che il database della motorizzazione non è certo
così all’avanguardia da fermare un hacker come te...»
355
«Ora sì che mi stupisci; Fabio.»
«Ricordati che ti ho condotto io nel lato oscuro. Prima
di conoscermi pensavi che il computer fosse una specie di
forno a microonde.»
«Merito tuo, se sono riuscito a risalire all’auto che mi
ha investito.»
«A chi appartiene?»
«Ai Disciplinati.»
«Enrico!»
«Tecnicamente è intestata all’azienda farmaceutica di
cui sopra, la Bressan.»
«Quindi è per questo che sei andato a fare quel sopralluogo?»
«In parte. La verità è che ci sono parecchi indizi in tutta questa faccenda che mi portano a sospettare di loro.»
«Non vorrei chiedertelo ma so che devo: e quali sarebbero?»
«Numero uno: la formula chimica ritrovata nella cartella criptata di Müller. Se si tratta davvero di un vaccino, chi
può produrlo se non un’azienda farmaceutica? Numero
due: il povero ingegnere, il Minotauro che voleva cancellare il simbolo, è stato ucciso con una siringa: gli hanno iniettato una qualche sostanza omicida.»
«Questo chi lo dice?»
«Ho parlato oggi con Sebastiani.»
«Non state un po’ troppo fantasticando con questa storia della confraternita e della congiura? Va bene bucare un
sito Internet ma ammazzare uno perché noi due avevamo
scoperto la sua identità non ti pare esagerato?»
«Per niente.»
«Avanti, Enrico, nemmeno la massoneria ammazza i
suoi adepti.»
«Tu che ne sai? Comunque, lasciami finire la lista. Nu-
356
mero tre: dopo averlo ammazzato hanno cosparso il Minotauro con un accelerante per farlo squagliare in fretta.
Quindi c’entra ancora la chimica. E se non bastasse...»
«Hanno provato ad ammazzarti con un’auto aziendale
di quella stessa ditta. Lo so, l’hai già detto.»
«Quello che ancora non sai è che uno degli uomini – ancora vivo e vegeto, tra l’altro – nella famosa fotografia di
Muller, altri non è che il cavalier Bressan, patron dell’azienda farmaceutica più importante del Nord Italia. Come
ti suona adesso?»
«Mi suona che stai davanti allo schermo e mi sto perdendo Savoldelli in maglia rosa.»
«Davvero sei così pigro? Non ti interessa scoprire la
verità?»
«In questo momento no.»
«Ma potremmo morire tutti! Se questi pazzi vogliono
davvero fare gli untori e dare il via a una nuova pandemia
noi abbiamo il dovere morale di fermarli!»
Fabio mi guarda sgranando gli occhi.
«Dovere morale? Da quando sei diventato uno che si
preoccupa per il prossimo, dell’umanità, degli altri?»
«Moriremo, Fabio. Io, te, Margot, Buk. Non ti basta
questo per alzare il culo da quel divano?»
«No, oggi mi guardo il Giro.»
Stavolta non resisto e spengo il televisore staccando la
spina.
«Hey, ma che ti prende?»
«Dobbiamo introdurci alla Bressan. I loro computer sono collegati a una rete interna che non comunica con l’esterno, ergo non si può bucare. Io, però, devo guardarci dentro.
Scoprire se esiste davvero un virus letale che può ucciderci
tutti o se, invece, si tratta solo di una suggestione.»
«Quindi per soddisfare questa tua morbosa curiosità,
357
probabilmente frutto della tua pazzia, dobbiamo commettere un’effrazione?»
«Hanno cercato di ammazzarmi investendomi con quel
bestione di Hummer! Mi sembra sufficiente per entrare in
casa loro e fargli il culo, no?»
«Io non entro a Fort Knox.»
«Oh, avanti, non è così difficile come potrebbe sembrare. Ti ho già detto che ci sono stato! Ho sbirciato nella hall
e ho visto che c’è una guardia dietro ai monitor e per entrare si passa un tornello. Ci lavorano più di cinquecento
persone lì. Non credo che il piantone notturno le conosca
tutte.»
«Quindi vuoi dire che ci basterà un sorriso?»
«Un sorriso e un badge.»
«Ecco dove ti volevo! È per questo che hai bisogno del
mio aiuto!»
«Non mi avevi parlato di quell’aggeggio che stavate
progettando con i tuoi amichetti intelligenti?»
«Ti riferisci al rilevatore universale di bande magnetiche?»
«Esatto: quel coso che replica qualsiasi badge. Lo strisci e lui prova un trilione di combinazioni per far girare il
tornello.»
«È ancora in fase di test.»
«Un test dal vivo non può mancare.»
«E se non dovesse funzionare?»
«Oh be’, i gorilla di quell’azienda hanno già cercato di
uccidermi. Male che vada si limiteranno a finire il lavoro.»
«Molto rassicurante. Tu sì che sai rincuorare un indeciso.»
«Ora alzati e preparati.»
«Non sembrerà strano entrare di sera in quel posto?»
«Scherzi? Quelli sono come gli scienziati pazzi di quel
film, hai presente? Hanno degli esperimenti in corso, en-
358
trano ed escono a tutte le ore per vedere se sui loro vetrini
è spuntata una nuova muffa.»
«Quel film a cui ti riferisci era uno dei porno che duplichiamo. E gli esperimenti erano per...»
«Va bene! Mi sono confuso. Comunque, per entrare
basta che indossi una di quelle tue giacche assurde, la cravatta te la presto io.»
«Vorrai dire che me la presta Paolo.»
Mentre usciamo agghindati come due testimoni di nozze c’imbattiamo in Margot.
«Dove state andando vestiti così?»
«In missione per conto di Dio. E pure dello Spirito
Santo. Dovessimo ritardare o, ehm, non tornare pensa tu a
Buk.»
Mentre lo dico accarezzo il muso del cagnolino, che mi
lecca le mani.
Lei ci guarda come una mamma apprensiva al cospetto
dei figli scavezzacollo.
«State per fare una cazzata, ragazzi?»
«Una enorme cazzata» conferma Fabio.
«Ed è indispensabile?»
«Assolutamente» confermo.
Lei sospira, mi bacia sulle labbra e mi sussurra: «Allora
mi raccomando. Ho già seppellito un fratello quest’anno.»
«Stai tranquilla.»
Fabio apre la porta scuotendo la testa.
«Sarà un sabato sera indimenticabile.»
359
27.
2 giugno 2002
Il sostituto procuratore Antonio Testori, capelli bianchi
e occhi scuri, non si stupisce di vedere spuntare sulla soglia del suo ufficio il questore di Milano, Lamberto Duca.
Sono amici dai tempi del liceo e, anche se è domenica, non
è così insolito che entrambi lavorino. La comparsa del vicequestore Loris Sebastiani, al fianco di Duca, tuttavia,
cambia completamente la prospettiva.
Testori sorride. Ha trascorso tutta la vita a fare equilibrismi, prima come magistrato e poi come giudice, niente
ormai lo stupisce più.
«Pensavo di essere rimasto solo io a lavorare la domenica»
li accoglie. «Prego, accomodatevi. Con questo sole credevo
che i milanesi sarebbero scappati tutti al mare, invece...»
Sebastiani fa scena muta mentre Duca si limita a qualche parola di circostanza.
Così è il loro ospite ad arrivare al punto.
«Oggi sono dovuto andare a messa nella chiesa di Santo Stefano perché quella di San Bernardino era ancora
chiusa per i vostri rilievi... Cosa è successo di preciso?»
«Secondo me lei lo sa bene.»
Sebastiani parte subito a testa bassa. Dritto al punto. Il
sigaro a un lato della bocca come certi cowboy prima del
duello finale.
360
«Prego?»
«Le dice niente la confraternita dei Disciplinati?»
Testori scuote la testa infastidito.
«Dimmi, Lamberto, siete venuti qui per accusarmi di
qualcosa?»
Il questore ha un’espressione impassibile. Estrae dalla
tasca della giacca una riproduzione della foto di Müller e
la fa scivolare sulla scrivania.
«Guarda quelli presenti in questa fotografia, Antonio:
tre sono morti ammazzati; quanto agli altri, be’, siamo noi
e Bressan.»
«Morti ammazzati? Non mi risulta. Quanto a Müller,
be’, quello è stato un incidente...»
«Vedo che si è preparato, come se si aspettasse queste
domande» incalza Sebastiani.
«Ripeto: siete qui per accusarmi di qualcosa?»
«No, Antonio, solo per fare quattro chiacchiere informali» precisa Duca. «Ti spiace?»
Testori sorride infido. Un sostituto procuratore come
lui, un giudice con trent’anni d’esperienza, ne ha viste
molte, troppe per concedere al proprio avversario il più
piccolo vantaggio.
«Chiedete pure.»
«Bene. Vedi, ragionando con il vicequestore Sebastiani
mi sono reso conto che, ogni volta che uno dei nostri vecchi compagni di scuola moriva, immancabilmente mi arrivava la tua telefonata per esortarmi a chiudere in fretta la
faccenda in questura mentre tu avresti fatto altrettanto qui
in procura. Lo è stato per l’infarto di Branca e ricordo
anche la tua amara considerazione: “Un infarto a un cardiologo, che sorte beffarda!”; è successo con Fabbris, spirato fra le cosce di una entraîneuse in un motel. Posso dire
che il cadavere fosse ancora caldo quando tu mi chiamasti
361
per constatare che “in fondo certi vizietti si pagano”. Da
ultimo poi la telefonata intercontinentale che mi hai fatto
mentre mi trovavo a Buenos Aires per informarmi che un
pazzo aveva accoltellato a morte l’avvocato Sommese.»
«Erano tre nostri amici Lamberto, normale che mi preoccupassi di avvertirti.»
«Certo, ma erano soprattutto tuoi amici. Aderenti alla
confraternita dei Disciplinati.»
«Oh, sciocchezze! Io non so nemmeno cosa sia questa
confraternita di cui cianciate.»
«Va bene» interviene Sebastiani. «Allora giochiamo a
carte scoperte.»
«Non chiedo altro.»
«Lei, alla fine dell’anno scorso, ha effettuato due prelievi di denaro a distanza ravvicinata, per la precisione il
giorno prima della morte di Sommese e il giorno dell’omicidio stesso. Dieci milioni di lire ogni volta, in contanti.
Una somma adeguata da pagare a Guido Bellantuono per
l’omicidio dell’avvocato. Siete anche stati tanto avveduti
da infilare, in una delle buste col compenso, una banconota da cento franchi con l’impronta del pollice di Müller
per incastrarlo. Una tutela ulteriore visto che nemmeno
voi credevate troppo alla storia che Bellantuono ci aveva
propinato...»
«Coincidenze fantasiose.»
«Dice? Così com’è fantasiosa l’ipotesi che l’avvocato
Manfredi Visconti sia un omicida che lei ha usato in tutti
questi anni per i suoi scopi?»
«Come osa? Sa con chi sta parlando?»
«Lo sa» interviene Duca. «Ha modi bruschi, il vicequestore, ma un fiuto infallibile. E poi sono certo che tu sapessi che Sommese aveva chiesto di vedermi. E forse è
stato ucciso proprio perché non mi parlasse.»
362
«Ora farnetichi, Duca!»
«Vuole sapere come so di Visconti?» chiede Sebastiani.
«Avanti.»
«Qualche giorno fa, un mio ispettore è andato a fare
dei controlli su di lui: ha spulciato negli archivi del distretto militare e pensi un po’ la coincidenza: c’era una denuncia di molestie insabbiata e l’ultimo che aveva richiesto quell’incartamento, la bellezza di dodici anni fa, era
stato lei.»
«Un’altra coincidenza.»
«Cominciano a essere un po’ troppe...»
«Troppe? Voi non avete nulla, nulla! Non posso telefonare a un vecchio compagno di scuola per dirgli di avere
un occhio di riguardo per gli amici defunti? Ed è forse
reato prelevare dei soldi in contanti prima di andare in
vacanza? Ed è altrettanto strano che un sostituto procuratore della repubblica faccia delle verifiche su un avvocato
con cui si troverà ad avere a che fare in tribunale? La risposta in tutti e tre i casi è no. Vedete, signori, che ogni
mia azione ha una spiegazione logica. Le vostre sono solo
fantasie. Quanto alla confraternita dei Disciplinati, be’,
quella è la più pazzesca di tutte.»
«Davvero?»
«Davvero, Duca.»
«Allora dimostracelo. Non ti dispiacerà mostrarci la
schiena. Se non hai nessun segno vuol dire che non ti punisci con la frusta e che quindi non sei uno di loro. In questo caso saremo lieti di crederti e ce ne andremo porgendoti le nostre scuse.»
«La schiena? Cosa volete, che mi spogli qui? Voi siete
pazzi! E tu, Lamberto, mi meraviglio di te...»
«Siamo tra uomini, che motivo c’è di vergognarsi? Devi
solo levarti la giacca e la camicia.»
363
«Non lo farò mai! E ora andatevene.»
«Mi piacerebbe accontentarti Antonio, ma non possiamo. Vedi, ho un mandato firmato dal procuratore in persona che ti intima di mostrarci la schiena. Anche a lui tutte
queste coincidenze sono apparse sospette. Lo stesso mandato ci permette di perquisire questo ufficio e la tua casa:
non vorrei mai che trovassimo una tunica di lana grezza,
un cappuccio con due buchi per gli occhi e una disciplina
in qualche armadio...»
Tutto succede in un istante. Testori scatta in piedi stringendo una pistola automatica nella mano destra. Deve sempre averla tenuta poggiata sulle gambe. Duca s’immobilizza, non Sebastiani che, pronto, estrae la propria Beretta e
gliela punta contro a sua volta.
«Direi che siamo in una situazione di stallo, Sebastiani.»
Il sigaro del vicequestore rotola all’estremità destra della bocca.
«Direi piuttosto che la sua è una chiara ammissione di
colpevolezza.»
Gli occhi del sostituto procuratore si fanno piccoli e la
sua voce è beffarda.
«Sono colpevole, contenti? Tanto, giunti a questo punto
non potete più fare nulla. Ci avete provato, ve ne devo dare
atto, ma avete fallito. Presto tutti verrete spazzati via.»
«Ora mi pare che tu stia delirando, Antonio.»
«Oh, Lamberto. Sei sempre stato troppo lento tu. Per
questo del nostro gruppo sei l’unico che non abbiamo mai
cooptato nella confraternita. Troppo riflessivo, troppo posato...»
«Troppo onesto.»
«Ah, l’onestà! Alla fine anche Branca e Fabbris si appellavano all’onestà, sai? Volevano impedirci di portare a
termine il nostro progetto, quello per cui lavoriamo da an-
364
ni. E per cosa? Per timore, per senso di giustizia! Perfino
quello stupido svizzero alla fine si è tirato indietro!»
«Così avete inscenato quell’incidente aereo.»
«Non doveva andare così. Colpa del mio pupillo, fratello Ottaviano. Eccesso di zelo. Ha esagerato ma ha ottenuto lo scopo desiderato.»
«Tu hai fatto ammazzare i nostri amici...»
«Si erano rammolliti con l’età! Non capivano più il senso del nostro grandioso progetto.»
«Quale progetto?»
Il giudice scoppia a ridere.
«Oh, lo vedrete cari miei. Molto presto.»
«Si riferisce alla Peste Nera?» chiede Sebastiani sempre
tenendolo sotto tiro.
L’uomo sembra esitare.
«Cosa c’è, ho svelato il vostro piano?»
«Illuso! Il nostro piano è il medesimo da secoli. C’è
scritto nei libri sacri: arriverà una nuova peste che flagellerà la popolazione e solo gli eletti sopravviveranno.»
«Gli eletti e quelli vaccinati. Dico bene?»
Testori mostra i denti.
«Lei, Sebastiani, non è che uno stupido infedele! Crede
di sapere, ma non sa nulla! Ha solo qualche piccolo indizio. Qualche brandello di verità che ora getta sul piatto
perché io abbocchi ma non succederà, glielo assicuro.
Non sono diventato Maestro della confraternita per niente, sa?»
«Maestro, eh? Quindi è lei che tira le fila...»
«Continuate a non capire... il nostro progetto va avanti
da anni! Anzi, secoli! La gente ha perso la fede e perché la
riconquisti deve avere paura, soffrire. Morire. Per anni ci
siamo spesi per trovare qualcosa per poterli sottomettere e
ora il momento è finalmente arrivato.»
365
«Solo che qualcuno non se l’è sentita di andare fino in
fondo.»
«Esatto. Come Sommese. Non voleva più, voleva denunciarci, pensate un po’! Ecco perché aveva chiesto di
vederti, Duca. All’improvviso si era riscoperto puro.»
«E così l’avete fatto uccidere: avete pescato un disperato accedendo agli schedari della polizia e gli avete fatto
accoltellare l’avvocato sotto la scrofa lanuta.»
«Il tizio che l’ha accoltellato è stata una decisione d’emergenza: un pregiudicato sacrificabile. Avevamo pochissimo tempo per chiudere la questione, non potevamo fare
come gli altri casi in cui avevamo avuto tempo di pianificare l’operazione per mesi. Qui abbiamo dovuto improvvisare e affidarci a un balordo... Quanto ai simboli: quelli
sono importanti. Creano ordine e rappresentano un monito per chi sa interpretarli.»
«Per gli altri confratelli, dico bene? Un esempio chiaro di cosa succede a chi non si allinea al volere dei Disciplinati!»
«Le sue sono solo parole vuote. Di coloro che non ci
comprendono non ci preoccupiamo. Morirete presto.
Non abbiamo bisogno degli stupidi in questo mondo.»
«Come il mio amico giornalista, Radeschi, che avete
fatto investire proprio davanti alla vostra chiesa.»
«L’avevamo avvertito e non ha voluto capire.»
«Così come avete dovuto uccidere l’ingegnere vostro
confratello che doveva impedirgli di diffondere il vostro
simbolo in rete.»
Testori trema.
«Ora basta parlare! Fra poco le vostre stupide vite
avranno fine!»
Sebastiani studia l’uomo che ha di fronte. Legge nel
suo sguardo che non abbasserà l’arma, che non si arrende-
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rà. Non c’è nulla di peggio di un esaltato, di qualcuno votato al martirio pur d’inseguire i propri folli piani.
Così decide di cambiare strategia.
Abbassa la pistola sotto allo sguardo interrogativo di
Duca e del giudice.
«Ha ragione. Per noi è finita. E sa cos’è la cosa più buffa? Che pensavamo di fermarvi, di battervi sul vostro stesso campo. Abbiamo cercato il vostro veleno. Prima nella
tomba di san Carlo Borromeo e poi in un libro sacro. Solo
che quel batterio, il batterio della peste, oggi è diventato
innocuo. Mi ci sono arrovellato, sa? Mi sono detto che
erano solo vecchie leggende, credulonerie. Come si fa a
pensare di sterminare delle persone con una pestilenza
vecchia di centinaia di anni? Non si può, non può funzionare. A meno che non si modernizzi anche quel batterio.
Non lo si renda adatto ai tempi. Ma come? Be’, con la
chimica, con gli studi. Con i soldi e le tecnologie messe a
disposizione dal vostro sesto amico, l’unico di quella foto
ancora vivo, il cavalier Bressan. Ecco, ho pensato: la sua
ditta farmaceutica è la chiave. Può sviluppare un virus che
stermini gran parte della popolazione ma, al tempo stesso,
preparare un vaccino – e brevettarlo in Svizzera tramite
Müller – per salvare quelli che potranno permetterselo.
Pagandolo a caro prezzo e finanziando al contempo la vostra causa. Magari lo fornirete anche a coloro che reputate
degni in quanto bravi cristiani tipo, che ne so, il papa, i
vescovi e i vostri adorati confratelli. Vado bene sin qui?»
La mano del giudice che impugna la pistola trema.
«Cosa farete, Maestro? Spargerete il vostro virus nell’aria? Una qualche terribile pandemia che magari avrete già
testato in Africa. Un’Ebola fatto su misura per ammazzare
gli infedeli.»
«Basta! Lei non capisce! Voi non capite! Ma ormai è
367
troppo tardi. Peccato soltanto che io non potrò essere lì a
godermi il trionfo.»
Il movimento è repentino. Spiazzante.
«No!»
Testori si infila la canna della pistola in bocca e preme
il grilletto.
*
Essere inopportuni è un’arte. Di più, una capacità innata, e Radeschi sicuramente la possiede.
Questo pensa Sebastiani mentre, per la quarta volta, rifiuta la chiamata in arrivo sul cellulare. Di fronte a lui c’è
una marea di sangue e materia cerebrale schizzata sul muro: la testa esplosa del sostituto procuratore Testori, alias il
Maestro dei Disciplinati. Dopo aver tentato di soccorrerlo
gli ha aperto la camicia per controllargli la schiena. Non ci
sono più dubbi: piaghe profonde da flagellazione...
Duca è sconvolto e ha dovuto sedersi mentre lo studio
si è riempito di poliziotti. È arrivata anche un’ambulanza
ma per l’uomo non c’era più nulla da fare.
Il cellulare del vicequestore, nel frattempo, non la smetteva un solo istante di squillare. Sempre lo stesso numero:
quello del giornalista.
«Ascoltami, Loris: so quando spargeranno il virus.»
Sebastiani si appoggia con la schiena al muro. Intorno
a lui è pieno di gente. Agenti, magistrati, paramedici. Ma
lo sbirro è come se non vedesse nessuno. Focalizza solo il
suono della voce di Radeschi, arrotondato dal suo accento
della Bassa.
«Come l’hai scoperto?»
«Non importa.»
«Senti, bamboccio, importa a me: un sostituto procura-
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tore della repubblica si è appena fatto saltare le cervella di
fronte a me pur di non rivelarmi nulla.»
Dall’altra parte c’è un attimo di silenzio.
«È Bressan che comanda.»
«No, Radeschi. Il capo è Testori: mi ha confessato di
essere il Maestro.»
«Allora forse abbiamo ragione entrambi. Testori era il
Maestro e Bressan è quello che nella loro gerarchia viene
indicato come il Sublime.»
Sebastiani non ha tempo né voglia di ascoltare quelle
chiacchiere. Vuole sapere della pestilenza.
«Dimmi quando accadrà.»
«Oggi, qui a Milano, ma non so dove né a che ora.
Sull’agenda di Bressan la data è cerchiata di rosso con una
parola sola: Pestis.»
Il sigaro nella bocca dello sbirro viene frantumato in un
morso.
«Quindi non sai nulla!»
«So più di te, sbirro. E poi non è una gara...»
Radeschi non riesce a terminare la frase.
«Che c’è? Cosa ti prende?»
«Forse ho appena capito dove spargeranno il virus.»
«Non farti pregare.»
«Oggi la città è blindata. Piena di gente perché...»
«C’è l’ultima tappa del Giro d’Italia! Ma certo! I corridori attraverseranno Milano con arrivo in corso Sempione. Abbiamo lavorato per giorni con i vigili urbani per
cambiare la viabilità.»
«Dobbiamo andare là.»
«Dove?»
«Al traguardo all’arco della Pace, in fondo a corso Sempione.»
«Per fare cosa?»
369
«Non lo so. Ma dobbiamo provarci. Tu dove ti trovi?»
«In procura.»
«Scendi in strada. Fra cinque minuti sarò lì con la Vespa. Nel frattempo pensa a come sventare un attacco batteriologico di proporzioni colossali.»
*
Sebastiani cammina avanti e indietro sul marciapiede
di fronte al tribunale. È al telefono e sta impartendo degli
ordini: «Vai ad arrestare il cavalier Bressan, è lui il capo
supremo della confraternita. Quello che chiamano il Sublime. Non mi interessa, Vincenzo: prendi tutti gli uomini
che ti servono. È un’emergenza!»
Quando mi vede riattacca e scuote la testa.
«Io su quel rottame non ci salgo.»
«Non fare il bambino: la città è bloccata per la corsa e la
Vespa è l’unico modo per muoversi e arrivare in tempo.»
Sebastiani scuote la testa e sale sul Giallone.
«Il casco non lo metti?»
«No.»
Fa segno a un agente di passargli la sua paletta.
«Con questa ci faremo largo. Ora vai. Vediamo se questo residuato bellico cammina.»
«Tieniti forte.»
Un centinaio di metri e veniamo risucchiati dal gruppone dei ciclisti.
Io mi faccio largo fra i corridori a colpi di clacson e
Sebastiani allontana tutti brandendo la paletta e urlando
«Polizia! Polizia! Fate passare».
Quando sbuchiamo in una via secondaria senza traffico
finalmente trovo il coraggio per parlargli.
«Ti ho mentito.»
370
«Tanto per cambiare.»
«No, sul serio: quando ti ho detto che non ricordavo
nulla se non il modello del SUV che mi ha investito.»
«Allora?»
«Ricordavo anche una parte della targa e da lì sono risalito al proprietario.»
«Vieni al punto, che il tempo stringe.»
«L’auto appartiene all’azienda farmaceutica di Bressan.
Non chiedermi come, ma sono anche riuscito a scoprire il
nome del tizio a cui è assegnato quell’Hummer, tal Calogero Macrì. Si tratta della guardia del corpo di Bressan. Fossi in voi lo farei arrestare per tentato omicidio.»
«Lo segno nella lista delle cose da fare. Ora, però, Enrico, non dirmi che ti sei intrufolato illegalmente nella sede della Bressan...»
«D’accordo, non te lo dico.»
«E non dirmi nemmeno – perché non lo voglio proprio
sapere – che sei riuscito a trovare la formula di quel dannato
virus che fra poco ci spazzerà via dalla faccia della terra.»
«Non ci sto capendo più nulla, Loris: vuoi che te lo dica o no? Comunque non si tratta di una formula ma di una
classificazione, quella di un virus chiamato Namtar.»
«Quindi ce l’hai?»
«Sì e anche tu. Te l’ho spedita via posta elettronica. E
anche a Rochat.»
«Perché a Rochat?»
«Per il batterio Pestis avevi fatto così. Avevi detto che
era il nostro esperto...»
«È un mio amico, non un nostro esperto! Qui poi si
tratta di sicurezza nazionale... Oh, lascia perdere, non c’è
tempo per seguire i protocolli di sicurezza e le vie tradizionali. Hai fatto bene; lui è membro di un’unità di crisi antibatteriologica, te l’ho detto?»
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«Lo sospettavo.»
«Gli svizzeri sono preparati per tutte le catastrofi. Lo
sai che le loro gallerie sono minate in modo che in caso di
pericolo le possono far saltare e isolarsi?»
«Allora sarebbe il caso che lo facessero subito perché se
non riusciamo a fermare i Disciplinati prima di sera il virus
sarà arrivato anche in canton Ticino!»
*
Il motore del Giallone romba e divora la strada.
In uno slancio d’entusiasmo annuncio: «Dobbiamo arrivare prima del primo!»
Non vedo in faccia Sebastiani ma sono sicuro che la sua
espressione sia di puro biasimo. Non importa: forse questi
sono gli ultimi istanti in cui sono vivo, tanto vale non prendersi troppo sul serio.
«Accosta.»
«Come?»
«Ti devi fermare, Radeschi.»
Ubbidisco, tenendo però il motore su di giri.
«Ma cosa ti salta in mente? Dobbiamo correre là.»
«Per fare cosa, genio?»
«Be’, qualcosa c’inventeremo, non lo so...»
Il vicequestore ha estratto il telefonino e se l’è portato
all’orecchio.
«Chiediamolo a chi lo sa, allora.»
«Pierre Rochat?»
«Affermativo: lo sto chiamando ora.»
«Non mi hai mai detto perché vi conoscete.»
Il sigaro nella bocca di Sebastiani scivola da un lato della bocca.
«Abbiamo collaborato a un’operazione congiunta della
372
polizia italiana ed elvetica per sgominare una banda italiana di trafficanti che operava in Svizzera. Anni fa, ormai.»
«E com’è che siete rimasti così amici?»
«Gli ho salvato la vita spingendolo a terra ed evitandogli di beccarsi una pallottola.»
«Ah, ecco il favore che ti doveva! Un po’ come ho fatto
io con te, no?»
Lo sbirro mi guarda come se volesse incenerirmi; per
mia fortuna Rochat risponde al telefono.
«Siete pazzi in Italia» esordisce. Lo sento perché Sebastiani ha messo il viva-voce.
«Lo so, Pierre. Ne potremmo dibattere a lungo ma qui
la situazione è drammatica. Hai dato un’occhiata a quello
che ti ha mandato Radeschi?»
«Un virus dal nome sconosciuto. Nel file c’è la sua classificazione completa: classe, ordine, famiglia...»
«Va bene. E così a prima vista cosa mi puoi dire?»
«Letale per l’uomo.»
Non ci gira certo attorno lo svizzero.
«Quanto letale? Voglio dire, oggi qui a Milano c’è l’arrivo del Giro d’Italia. I corridori faranno dodici giri del
tracciato cittadino e poi ci sarà la volata finale in corso
Sempione. Se lo spargessero in quel momento davanti a
migliaia di persone cosa accadrebbe?»
Dall’altra parte c’è un silenzio imbarazzato.
«Pierre?»
«Vuoi che sia sincero?»
«Devi.»
«Se quel virus contagerà Milano non si fermerà lì. Invaderà l’Europa e il mondo... Prova a immaginare; lì ci
sono giornalisti, corridori, squadre, team, delegazioni varie, tifosi di tutti i Paesi che torneranno a casa loro e diffonderanno il contagio. L’incubazione dura ventiquattro
373
ore, quindi è uno scenario plausibile. Rimanendo cauto
potrei dire che solo un terzo della popolazione mondiale
sopravviverà oltre, naturalmente, a quelli che si saranno
vaccinati.»
«Una catastrofe di dimensioni inenarrabili.»
«Il lato positivo è che anche Osama Bin Laden tirerà le
cuoia. E con lui tutti i terroristi, i dittatori, i miscredenti,
gli infedeli!»
«Abbiamo afferrato il concetto, Enrico.»
«La Peste Nera nell’epoca della globalizzazione sarà
davvero terribile se non riusciremo a impedire che quei
folli rilascino il virus.»
«Dove potrebbe trovarsi?»
«Avranno creato un composto gassoso da spruzzare.
Quindi cercatela in qualcosa tipo bombola o palloncini...»
«E se non dovessimo riuscire a impedirne la fuoriuscita?» chiede Sebastiani.
«Se la classificazione che mi avete mandato è esatta»
spiega Rochat, «questo virus prolifera nell’aria, perciò
una volta rilasciato, se non circoscritto, può finire ovunque.»
«Quindi non abbiamo speranza. Avanti, Pierre, dacci
qualcosa...»
«Forse una possibilità ci sarebbe, ma si tratterebbe di
un azzardo. Qui in Svizzera non prenderemmo mai in considerazione un’ipotesi che non abbia alte probabilità di
riuscita...»
«Noi sì. Avanti, parla!»
«Be’, vedete alcuni virus non... No, non è realistico.»
«Non?»
«L’acqua, Loris. Proliferano nell’aria ma muoiono a
contatto con l’acqua. Però è solo un’ipotesi.»
«Dammi una percentuale di successo.»
374
«Cosa?»
«Quante probabilità abbiamo che funzioni?»
«Be’, direi un trenta per cento. Forse meno.»
Sebastiani chiude la comunicazione senza nemmeno salutare.
«Allora?» chiedo.
«Be’, se vivessimo nel mondo sommerso di Atlantide
potremmo anche scamparla.»
«Cosa facciamo?»
«Ci proviamo comunque. E se ci dice bene ci salviamo.»
«Altrimenti?»
«Oh, inutile pensarci, pischello, perché a quel punto
saranno finiti tutti i nostri problemi. E ora fai correre questo ferro vecchio!»
*
Il Giallone l’ho mollato vicino all’Arena civica e da lì ci
siamo fatti largo a piedi con la paletta e il distintivo di Sebastiani per arrivare al traguardo della corsa, in fondo a
corso Sempione.
Ci vogliono cinque minuti buoni per raggiungere il
punto dove sono assiepate migliaia di persone. Famiglie
coi bambini, curiosi, sportivi, forze dell’ordine, giornalisti.
«Sarà un olocausto se non li fermiamo» sussurra Sebastiani.
«Sì, ma dove cerchiamo?»
«Non lo so.»
Intorno a noi centinaia di persone accalcate e col naso
all’insù rivolto verso i maxischermi che trasmettono in diretta la telecronaca della corsa.
«Quello come ti sembra?»
Mi volto nella direzione indicata dallo sbirro. Un’enor-
375
me lattina di bibita energetica gonfiata ad aria. E forse a
virus. Ci avviciniamo con circospezione ma non c’è nessuno a presidiarla, anzi, c’è una transenna tutta intorno perché la gente non vi si avvicini.
«Che ne dici?»
«Che non è quello che stiamo cercando. Ci vuole qualcuno che provveda a rilasciare il gas che vi è contenuto e
qui non vedo nessuno. Dobbiamo cercare ancora.»
Ci facciamo largo fra la folla, avvicinandoci sempre di
più al traguardo. All’improvviso, in uno spazietto laterale
Sebastiani nota qualcosa.
«Forse ci siamo.»
Seguo il suo sguardo e inquadro una grande bombola
con accanto un uomo con un berretto da baseball calato
sul viso.
«Potrebbe essere» confermo
«Avviciniamoci separatamente, non vogliamo che il tizio si spaventi e perda la testa, ok?»
Annuisco.
«Tu vai da questa parte, io gli arriverò alle spalle.»
Il tizio si guarda intorno con aria incerta. In mano tiene
qualcosa che, per via della calca, non riesco a riconoscere.
Compio qualche passo nella sua direzione mentre Loris è
già sparito chissà dove. Mi faccio largo a spallate perché
all’improvviso non vedo più il berretto. La bombola è ancora lì ma il tizio è scomparso nel nulla.
«Oh cazzo, l’ha aperta ed è scappato!»
Accelero il passo, spingendo coi gomiti e ricevendo occhiatacce e rimproveri, ma non ci bado. Se quel pazzo ha
rilasciato il gas fra poche ore saremo tutti dal Creatore.
La folla si agita, salgono delle urla.
«Ma cosa fa? È impazzito?»
«Si fermi!»
376
Finalmente la visuale si libera e scorgo Sebastiani avvinghiato al tizio col berretto da baseball. L’ha immobilizzato a terra e gli tiene un braccio piegato dietro la schiena.
Accanto a loro due bambini con dei palloncini in mano
piangono a dirotto.
Un padre afferra Sebastiani per le spalle.
«Lasci quest’uomo!»
Loris si alza e mostra il tesserino: «Polizia!»
Nessuno gli bada.
«Perché se la prende con questo ragazzo?» interviene
una donna. «Sta gonfiando i palloncini dei nostri figli!»
Ecco perché era sparito dalla mia visuale: s’inchinava per
porgere i palloncini gonfiati con l’elio della bombola ai
bambini. Raggiungo Sebastiani e lo afferro per un braccio.
«Si è trattato solo di un malinteso. Scusateci. Questo
ragazzo somiglia a un noto ricercato.»
Loris balbetta qualche scusa. Il tizio col berretto ci
guarda con occhi sbarrati. Avrà vent’anni e sta morendo di
paura: non è certo uno dei Disciplinati.
Ci allontaniamo fra le urla e le proteste dei presenti,
diretti nuovamente verso il traguardo.
«Bella figura abbiamo fatto!» ringhia lo sbirro.
«Dovevamo tentare. Comunque nulla è ancora perduto. Ci resta solo da trovare un’altra bombola. O dei palloncini. O un pallone aerostatico. O l’Hindenburg... Aspetta
Loris, guarda lì.»
«Hai visto un dirigibile?»
«No, ma ho visto quello!»
Indico la struttura gonfiata sopra il traguardo. Una specie di arco di trionfo morbido tipo quelle case giganti dove
saltano i ragazzini nei parchi giochi.
«Ne sei sicuro?»
«Sembra l’unica cosa che possa contenere del gas, no?
377
Poi, pensaci, è situata nel punto dove ci sarà più calca al
momento dell’arrivo dei corridori. Basterà bucarla o sabotare una valvola, e il gas verrà sprigionato nell’aria e quindi
sul pubblico. Da lì partirà il contagio.»
«Avviciniamoci.»
«Aspetta, ora sono davvero sicuro che quello sia il serbatoio che contiene il virus.»
Indico un uomo.
«Guarda chi c’è vestito in tuta sportiva come un tifoso
qualsiasi proprio a ridosso del gonfiabile.»
«Ma è l’avvocato Visconti! Sarà lui l’esecutore materiale dell’attentato!»
«Esatto, probabilmente ha assunto il vaccino ed è pronto a fare l’untore. Sembra che abbia qualcosa in mano,
però da qui non si distingue.»
«Potrebbe essere un cacciavite o un punteruolo. Oppure un semplice coltellino svizzero per manomettere una
delle valvole.»
«Adesso sappiamo dove e quando. Resta da capire come fermarlo. Se quello ci vede passa subito all’azione e
tanti saluti a tutti.»
«Dobbiamo giocare d’astuzia. E trovare tipo un lago da
riversare sopra a tutta questa gente.»
«Un lago no, ma una tempesta tropicale forse sì.»
«Eh?»
«Ho un’idea ma serve il tuo distintivo e tutta la tua forza di persuasione, Loris.»
«Cos’hai in mente?»
*
La folla scalpita, urla. Si agita. Gli altoparlanti danno la
sveglia al pubblico.
378
«Ultime battute di questo emozionante Giro con Mario
Cipollini che scatta e prende la testa della corsa...»
«Cinquecento metri all’arrivo.»
«Tenetevi pronti.»
«Quattrocento.»
«Adesso!»
Al cenno di Sebastiani gli uomini davanti all’APS, l’auto pompa serbatoio dei vigili del fuoco, si aprono come il
Mar Rosso con Mosè sgomberando completamente la visuale e rivelando, solo allora, la nostra presenza a Visconti.
Ma è già troppo tardi.
Il getto d’acqua ad alta pressione lo investe in pieno
petto e se lo porta via come fosse un fuscello, impedendogli qualsiasi tipo di reazione.
La folla, sconcertata, urla ancora più forte anche se non
ha compreso quello che sta succedendo.
Il getto si spegne giusto un secondo prima dell’arrivo
dei corridori in volata.
Lo speaker si sgola: «Il primo a tagliare il traguardo è
Mario Cipollini, che si aggiudica in volata la tappa: sei vittorie quest’anno, che lo proiettano a un solo successo dal record mitico di Alfredo Binda.
Il vincitore del Giro invece è Paolo Savoldelli, che ha
convinto tutti: tifosi, colleghi ciclisti, giornalisti e tecnici.
Una volta usciti di scena per doping Simoni e Garzelli,
l’espulsione per scorrettezze di Casagrande, il tramonto di
Pantani, il crollo sulle Dolomiti dell’australiano Evans, il
bergamasco ventinovenne è la maglia rosa più autorevole
che la corsa a tappe potesse trovare...»
Un gruppo di pompieri, con i loro maniglioni attaccati
alle colonnine dell’acqua presenti sul ciglio della strada,
irrorano tutti i presenti come se stesse diluviando.
379
«Fregatevene se si lamentano» ordina Sebastiani. «Gli
stiamo salvando la pelle, possono bagnarsi! E poi grazie
alla rete idrica comunale abbiamo una riserva illimitata
d’acqua. Avanti!»
Due agenti, nel frattempo, hanno preso in custodia Visconti e lo stanno portando via in manette.
Il comandate dei vigili del fuoco si avvicina a Sebastiani
scuotendo la testa.
«Era davvero necessario?»
«Oh, non può nemmeno immaginare quanto. Continuate a gettare acqua su quelle valvole. E mi raccomando:
non smettete finché non arrivano i vostri esperti. Come ha
detto che si chiamano?»
«Nucleo Nbcr: nucleare, batteriologico, chimico e radiologico.»
«Proprio loro. Ci siamo intesi?»
«Sissignore. Se la prende lei la responsabilità di tutto
questo casino, vero?»
«Non si preoccupi.»
Il sigaro del mio amico sta ruotando come una trottola
quando si rivolge a me.
«Ottima idea quella degli idranti.»
«Nel pezzo che farò per il Corriere scriverò che è stata
della polizia.»
«Credi che abbia funzionato?»
«Lo spero. Il gonfiabile è integro. Quanto alla diffusione del virus ne avremo la certezza solo domani.»
Il suo toscanello adesso è immobile.
«E se fosse stato tutto inutile?»
«Noi abbiamo comunque fatto del nostro meglio, Loris. E poi per me ne sarà valsa comunque la pena, non
fosse altro per il fatto di aver corso col Giallone a fianco
dei ciclisti. Non sai da quanto tempo sognavo di farlo!»
380
Sebastiani ha la faccia scura mentre legge un sms sul
telefonino. Dalla sua espressione capisco che non è ancora
finita.
«Non cantare vittoria» sbotta infilandosi in tasca il cellulare. «Mi ha appena scritto Lonigro che aveva l’incarico
di andare ad arrestare Bressan o, se preferisci il termine
della confraternita, il Sublime...»
«È scappato?»
«Diciamo che è sulla via di fuga: ha appena fatto preparare il suo jet. Il piano di volo prevede l’atterraggio ad Antananarivo, capitale del Madagascar, e come tu ben sai...»
«In quel paese non c’è estrazione!»
«Esatto. Scommetto che stava davanti alla tv per godersi il suo trionfo ma quando ha capito quello che è successo
ha deciso di fuggire. Mascaranti è già qui con una volante.
Speriamo solo di fare in tempo ad arrivare a Linate.»
*
L’ispettore guida come un folle ma Sebastiani non ci
bada. Rosicchia il suo sigaro e fissa la strada davanti a sé.
Io rimango aggrappato ai sedili posteriori, nel posto dove
normalmente sbattono quelli in arresto. Non è una sensazione piacevole, devo confessare.
La sirena urla mentre percorriamo a folle velocità viale
Forlanini: l’aeroporto di Linate è in fondo a questa strada.
«Faremo in tempo?» chiedo.
Loris scuote la testa.
«Lonigro ha l’ordine tassativo di bloccare l’aereo di
Bressan. E sono sicuro che ci riuscirà, a costo di mettere la
sua volante di traverso sulla pista.»
Quando finalmente arriviamo all’aeroporto troviamo già
una decina di auto della polizia, tutte con i lampeggianti e le
381
sirene accesi. Sembra uno di quei film americani alla Blues
Brothers. Sfrecciamo veloci attraverso un cancello tenuto
aperto da due agenti e c’immettiamo direttamente sulla pista,
quella secondaria di seicento metri, riservata agli aerei privati.
Qui troviamo Lonigro che ci aspetta insieme a uno
stuolo di poliziotti.
Scendendo dalla volante noto che hanno bloccato un
Hummer – quell’Hummer che ha cercato di spedirmi al
creatore! – ai bordi della pista. L’autista, il caro Macrì – lo
stesso che lo guidava quando mi ha investito – è in manette. Lo tengono fermo in due mentre il suo capo, il cavalier
Bressan, è arrampicato sulla scaletta del suo aereo, un Falcon da dieci posti. La mia giornata sta davvero migliorando: nell’arco di un’ora abbiamo salvato il mondo e il tizio
che ha cercato d’investirmi è in stato d’arresto!
Forse, però, non comprendo bene la scena a cui sto
assistendo. Il pericolo estinzione non l’abbiamo ancora
scampato.
Attraverso il vetro scorgo in cabina il pilota del velivolo. Ha l’espressione tesa e la faccia bianca come un cencio.
Il Sublime, barba bianca curatissima e occhi spiritati
dietro agli occhiali dalla montatura leggera, viene tenuto
sotto tiro da una decina di fucili e pistole come Rambo
all’inizio del film.
«Siamo in una situazione di stallo» annuncia Lonigro.
«Ma non mi dire, ispettore...»
Il sigaro nella bocca di Sebastiani compie un’intera rotazione.
«Perché non l’avete ancora arrestato?»
«Guardi cosa tiene in mano.»
Fra pollice e indice di Bressan c’è una provetta di vetro
chiusa con un tappo rosso.
«Quello che ha in mano è...?»
382
Sebastiani scuote la testa.
«Esatto. Il virus.»
Il Sublime sorride tronfio. Ci tiene in pugno.
Sebastiani fa segno a tutti di fare silenzio e di spegnere
le sirene. Vuole sentire cosa ha da dire il cavaliere.
Sulla pista cala un silenzio irreale.
«Fateci decollare e non succederà nulla» annuncia Bressan. «Avete sessanta secondi per decidere. Scaduti i quali
aprirò questa fiala e tanti saluti a voi e a chi vi sta accanto.
Forse non basterà per scatenare un’epidemia ma vi assicuro che qui intorno vi ammalerete di sicuro.»
Un brusio si alza alle nostre spalle. I poliziotti si guardano in faccia sbigottiti e increduli.
«Dirà sul serio?» sussurra Lonigro.
Il sigaro del vicequestore è immobile.
«Cinquanta secondi!»
«Se non gli diamo il permesso per il decollo finisce male» riprende l’ispettore. «In questo momento in aeroporto
ci saranno migliaia di persone e se lui gioca a fare l’untore
il virus contagerà i passeggeri.»
«Chi ci dice che in quella provetta ci sia il virus?»
«Quaranta secondi!»
Lonigro scuote la testa.
«E se fosse un bluff?»
«E se fosse vero, invece? Qui ci giochiamo la vita!»
Molti dei poliziotti iniziamo a confabulare fra loro. Avvertono la tensione e hanno paura.
«Lo lasci andare!»
«Fallo partire.»
Il sigaro di Sebastiani si sposta lentissimamente da un
lato all’altro della bocca.
«Trenta secondi. Allora, vi decidete? Io sono vaccinato,
non rischio nulla. Voi invece...»
383
Bressan ci guarda con aria di sfida. Ha lui il coltello
dalla parte del manico.
Loris mi fa segno con una mano di andargli dietro. Ci
avviciniamo cautamente all’aereo.
«Che fate? Fermatevi.»
Lancio un’occhiata al mio amico sbirro ma lui ha lo
sguardo impassibile e continua a camminare.
«Fermi, ho detto!»
Ormai siamo a qualche metro dalla scaletta. Loris alza
una mano e si ferma. Lo imito.
«Venti secondi. Allora, mi lasciate partire?»
«Corrigli incontro» mi sussurra Sebastiani.
«Cosa?»
Alle nostre spalle si alza un boato. Molti poliziotti si
allontanano di corsa, altri si gettano a terra cercando di
ripararsi.
«Dieci secondi.»
«Muovi il culo e vagli addosso!» ringhia il mio amico
sbirro.
Non capisco ma, ormai, non ho più nulla da perdere.
Se rimango immobile verrò infettato comunque, quindi
tanto vale dargli retta. Scatto più veloce che posso verso la
scaletta. Il cavaliere mi fissa con gli occhi sbarrati. Non si
aspettava una mossa del genere. Credeva che avremmo ceduto. E lo credevo anch’io.
«Fermati! Fermati, pazzo!» mi sbraita agitando pericolosamente la fiala.
Io però non lo ascolto più, sono ai piedi dell’aereo.
«Se lo spargo nell’aria voi verrete infettati di sicuro. Io
sono vaccinato, non rischio nient...»
Il proiettile lo centra in mezzo alla fronte. Un foro tondo, rosso di sangue.
Io scatto. La provetta rotea nell’aria mentre Bressan
384
scivola giù dalle scale. Lo evito per un soffio mentre con lo
sguardo non perdo nemmeno per un istante la boccetta
col virus. Due secondi interminabili. I più lunghi della mia
vita.
Ho un’occasione sola. Intorno c’è un silenzio irreale.
Mi allungo e... un attimo prima che la provetta vada in
frantumi sulla pista riesco ad afferrarla. Intatta.
Rimango a terra, in posizione fetale. Terrorizzato, impaurito. E temo anche di essermela fatta sotto per la paura. Non so quanto tempo passa. Un minuto, due, dieci.
Finché nel mio campo visivo entrano le scarpe di pelle lucida di Sebastiani.
«Come ricevitore hai un futuro, Radeschi.»
Sollevo appena lo sguardo.
Tiene ancora la Beretta stretta nella mano destra. Stavolta non ha esitato come con la Mantide.
«Lo so Loris, ma ho sempre detestato il baseball. Tu,
invece, hai un futuro come cecchino.»
*
«Sono due giorni che mi sembra di vivere con un fantasma! Sei rimasto quasi sempre a scrivere pezzi al PC chiuso in camera tua. Un vero zombie.»
Mi volto a guardare Margot. Sorride dolce. Siamo seduti con le gambe a penzoloni sul ponte di ferro che collega le due sponde del Naviglio pavese. Oggi è uno di quei
giorni in cui l’acqua c’è. L’aria è calda e la mia ragazza
profuma di buono.
«Scusami. Ho solo dovuto sventare l’estinzione della
razza umana, per ben due volte! E poi scrivere come ci
sono riuscito, per filo e per segno, sul giornale!»
«Stupido!»
385
Buk è appisolato accanto a me. Tiene il muso sulla mia
coscia e io gli gratto dietro un orecchio. È già cresciuto di
qualche chilo da quando l’ho adottato. Diventerà un cagnolone.
«Scherzi a parte, sono stati giorni frenetici ma ora è finita.»
Le mostro la prima pagina del Corriere, di cui vado
molto fiero.
Il titolo principale recita: “Sventato complotto della confraternita della ossa”. La scelta delle parole è di Calzolari
ma trovo che in questa occasione siano piuttosto efficaci.
Di spalla c’è una lunga intervista, sempre realizzata dal
sottoscritto, al professor Ferraro in cui si racconta la storia
dei Disciplinati. Della nuova Peste Nera si parla in termini
vaghi: l’opinione pubblica si sarebbe scatenata e in molti si
sarebbero fatti prendere dal panico. Esattamente ciò che
avrebbero voluto i Disciplinati: creare lo sconforto, il terrore, il caos. Oltre alla pandemia, ben inteso.
«Che c’è, Enrico? Non riesci a dedicarmi più di trenta
secondi della tua attenzione?»
«Scusa. Ti prometto che oggi lascerò tutto da parte. Penseremo solo a noi due. Ecco, spengo anche il cellulare.»
«Eh no, così è troppo facile.»
«Come?»
«Voglio sapere tutto. Non quello che hai scritto sul
giornale: sei tu il primo a sostenere che quella che riportate non è mai la verità ma la versione socialmente accettabile dei fatti.»
«Dico davvero così?»
«Sempre.»
«Cosa vuoi sapere?»
«Comincia dal Maestro, il sostituto procuratore che si è
ammazzato nel suo studio...»
386
«Testori ha portato con sé parecchi segreti anche se in
una nicchia nascosta nella cantina di casa sua è saltato fuori una sorta di registro, il libro nero della setta con l’elenco
completo degli affiliati. Tutti finiti in manette: i rimanenti
sei del consiglio più una trentina di adepti. Persone con
ottime posizioni sociali, benestanti. Degli insospettabili.
Proprio come il Sublime, ovvero il cavalier Bressan. Lui e
Testori erano le menti della confraternita e anche i soli che
conoscessero la vera identità dei confratelli. Tutti gli altri
non si vedevano mai in viso. Nemmeno quando facevano
quelle specie di orge iniziatiche.»
«Orge?»
«Sì, servivano soprattutto per attirare nuovi adepti. In
questo senso è stata da manuale l’affiliazione di Manfredi
Visconti. Testori aveva scoperto che quando era sotto le
armi l’avvocato era stato violentato da Mattia Schiavon,
un ragazzo poi ucciso in circostanze, sinora, mai chiarite.
Il giudice aveva intuito le potenzialità di Visconti, cioè la
possibilità di farne un confratello fedele e pronto a tutto.
Per questo gli permetteva di coltivare le sue perversioni
con la Méndez, la famosa Mantide di Corvetto.»
«Mai chiarite?»
«Ora il caso è risolto. Visconti, per alleggerire la sua
posizione, ha confessato l’omicidio di Schiavon. L’aveva
ucciso per vendetta dopo mesi di umiliazioni e violenze
sessuali durante la naja. L’ha fatto adescare a una festa studentesca da una prostituta molto appariscente, quindi l’ha
stuprato e assassinato.»
Margot abbassa la sguardo, pallida.
«E il Maestro ha voluto con sé un uomo così?»
Testori era uno che conosceva a fondo l’animo umano,
la malvagità. Sapeva che per controllare Visconti doveva
permettergli di violentare e uccidere giovani molto somi-
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glianti a Schiavon. La sua lunga e infinita vendetta. Era il
rovescio della medaglia. Al tempo stesso lo utilizzava per i
compiti più biechi come, per esempio, assoldare l’assassino di Sommese o pagare qualcuno perché sabotasse l’aereo di Müller, sempre attraverso il suo pupillo. Lui non si
sporcava mai le mani.»
«Come l’aveva avvicinato?»
«Da quello che abbiamo ricostruito, tutto è successo almeno una decina d’anni fa. Testori aveva visto con quale spregiudicatezza questo giovane avvocato si muoveva in aula e si era
deciso a cooptarlo facendogli recapitare una busta con dentro il santino di Borromeo e un indirizzo con una parola d’ordine: Pestis. Visconti non aveva resistito e si era così ritrovato
proiettato in una specie di baccanale alla Eyes Wide Shut con
un saio di lana addosso e due buchi per vedere. “I tempi
sono cambiati ma non le confraternite” pare gli abbia detto
il Mae­stro durante quel loro primo incontro. “I Disciplinati
però sono diversi. Si sono evoluti: resterà il flagello ma per
noi ci sarà la salvezza e un tornaconto.” Manfredi Visconti
non ci aveva pensato un attimo e si era trasformato in fratello Ottaviano. Avrà modo di rifletterci in carcere, adesso.»
«E di quello che chiamavano il Sublime?»
«Un uomo previdente, il cavaliere: per un pelo non ci è
sfuggito col suo aereo privato. Sarebbe volato in Madagascar, dove non c’è estradizione. La sua ditta farmaceutica
ha una sede laggiù dove pensiamo abbiano testato il virus
e il vaccino sulla popolazione locale.»
«Ma è terribile!»
«Lo è. Hanno isolato un simil Ebola solo per trarre profitto dal vaccino. Gli avevano persino dato un nome sinistro: Namtar, che significa “porta via presto”, l’antico demone associato alla peste. Per fortuna dopo un’accurata
perquisizione della ditta farmaceutica hanno trovato, oltre
388
al virus, anche la formula del vaccino, che ora verrà messo
preventivamente in produzione anche se nessuno risulta
contagiato dal Namtar. Visconti non ha fatto in tempo a
fare l’untore e nemmeno Bressan con la sua provetta...»
Finisco di parlare e rimaniamo a osservare in silenzio le
acque increspate del Naviglio.
Abbraccio Margot da dietro e la bacio sul collo.
«Milano è splendida quando non vogliono annientarci
con qualche virus micidiale, vero?»
«Già.»
«Vorrei presentarti i miei. Il prossimo weekend giù nella Bassa. Cibo ipercalorico, zanzare, umidità...»
«Sembra fantastico.»
«In un certo senso lo è. Poi ti farò conoscere anche don
Lino, la mia guida spirituale...»
«Non sapevo fossi così religioso.»
«Nemmeno io. Ma gliel’ho promesso.»
Margot mi carezza una guancia.
«Sei sicuro di volermi con te? Ricordi, vero, che fra pochi giorni devo ripartire per Londra?»
«Sicuro. Serve a mia madre per pensare che tu sia la
mia ragazza e io uno con la testa sulle spalle.»
«Quindi vuoi rendermi complice di un raggiro?»
«Esatto.»
«Mi mancherai, Enrico.»
«Anche tu. E pure a Buk.»
Lei sorride.
«Sai che non era la cosa migliore da dire in questo momento, vero?»
«Sì. Mi succede sempre.»
Milano, 11 novembre 2015 - 9 aprile 2016
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Nota dell’autore
Si torna sempre sul luogo del delitto e siccome, dopo
così tanto tempo, un romanzo con protagonista Enrico
Radeschi mancava a tutti – lettori, amici, sottoscritto –
non ho potuto esimermi dallo scriverlo. Ma c’è anche
un’altra ragione, un anniversario: sono trascorsi dieci anni
esatti da quando è stato pubblicato il primo romanzo di
Radeschi. Se poi amate la cabala sappiate che quello che
avete fra le mani è anche il mio decimo romanzo. Insomma, due volte dieci, una doppia ricorrenza che andava festeggiata.
L’ultima avventura del giornalista hacker (intesa come
romanzo, perché di racconti ne sono stati pubblicati diversi anche in tempi recenti) risale al 2009 e da allora silenzio. Oggi Radeschi è diventato grande, è cambiato, è invecchiato. Ed è scappato dall’Italia. Ritornerà? Prevedo di
sì, tuttavia prima di raccontarne il ritorno volevo cimentarmi con le origini del personaggio. Una storia va raccontata dal principio, no? Così ho voluto immaginare Enrico
agli inizi: prima che diventasse un hacker, quando arrivò a
Milano sperando di campare come giornalista. Gliel’ho
fatto raccontare in presa diretta e, per la prima volta, in
prima persona.
L’ho catapultato in un’epoca non certo remota ma in
391
cui Milano e l’Italia erano parecchio diverse. Il mondo intero lo era: c’erano ancora le cabine telefoniche e la gente
si smarriva imprecando contro le cartine stradali perché
non esisteva Google Maps; per comprare i biglietti del treno facevi la coda in biglietteria anziché acquistarli con
un’app o al PC; c’erano i rullini per le macchine fotografiche con cui certo non ti mettevi a fotografare ogni pietanza che ti trovavi nel piatto. Di Star Wars avevano girato
solo i tre classici film (gli episodi IV, V e VI) e li si andava
a noleggiare da Blockbuster (Netflix non era nemmeno
concepibile), da cui si tornava con le videocassette, il
popcorn, la pizza e il gelato. In tv passavano programmi di
grande successo popolare, diventati cult, come Sarabanda
e il Maurizio Costanzo Show, oltre ai video musicali su Mtv
(YouTube sarebbe arrivato solo nel 2005); la gente li ascoltava, visto che l’mp3 era agli albori e, se proprio desideravi un brano, lo potevi scaricare su Napster. Il primo iPod
è stato lanciato nell’ottobre del 2001 e prima si andava a
spasso col walkman.
Google stava facendosi largo ma il motore di ricerca
per antonomasia si chiamava Altavista; Twitter e Face­
book non esistevano, le connessioni Internet erano lentissime, non c’era traccia degli smartphone, men che meno
del­l’iPhone, che arrivò in Italia solo nel luglio del 2008.
In metropolitana i telefonini non prendevano e la gente
leggeva ancora i libri di carta, dato che l’epub doveva ancora essere inventato. I siti Internet sembravano pagine di
word: semplici, pacchiani e ci mettevano una vita a caricarsi. Aprire un blog era roba da pionieri: niente Wordpress
o Blogo o Tumblr. Il massimo della vita era Splinder che,
però, dopo qualche anno chiuse ma che per l’epoca fu rivoluzionario: mise la rete a disposizione di tutti, a servizio
di chi avesse qualcosa da scrivere. Forse anche troppo.
392
Ebbene, tornare indietro di così tanti anni per raccontare Radeschi è stata una sfida e un’emozione.
Ora se state scorrendo questa nota prima di leggere il
romanzo (molti lo fanno) smettete perché adesso rivelerò
qualche retroscena della trama e non vorrei sciuparvi il
piacere della lettura. Vi ho avvertito.
Forse vi chiederete cosa c’è di reale o meno in questo
romanzo. Se non ve lo state chiedendo saltate pure a pié
pari anche questa parte e correte alle ultime righe coi ringraziamenti.
La Mantide è un mio vecchio pallino. Un episodio di
cui ho sempre accennato in quasi tutti i romanzi e mai
raccontato compiutamente. Vi dirò di più: all’origine questo romanzo doveva parlare esclusivamente della Mantide
e, per un certo periodo durante la stesura, il titolo di lavoro è stato La Mantide di Corvetto. Questo fino a quando i
Disciplinati hanno offuscato prepotentemente la sua figura tanto da prendere il sopravvento...
Ora dovete sapere che i Disciplinati sono davvero esistiti e san Carlo Borromeo ne faceva parte. La chiesa di
San Bernardino alle Ossa è proprio come la descrivo (ed è
un luogo incredibile, andate a visitarla!), così come la cripta
e le sedute per sciogliere i cadaveri, anche se la cripta “gemella” me la sono inventata. Il libro di san Carlo Borromeo esiste davvero così come lo scurolo con l’urna che ne
contiene i resti. Sono reali anche i dati sulle Peste Nera e
sul numero di persone che ogni anno scompaiono in Italia.
Anche nomi e fatti del Giro d’Italia sono autentici.
Vale la pena pure visitare la piazza dei Mercanti e scoprire la scrofa lanuta simbolo autentico della città e provare lo strano fenomeno dell’eco da una parte all’altra del
porticato. Vi stupirà! Come anche i fenicotteri rosa: vivono davvero in un giardino di Milano!
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Ciò che, invece, è inventato è che la setta dei Disciplinati esista ancora oggi; quanto all’episodio dell’aereo che
si schianta contro il Pirellone è ispirato a un fatto realmente accaduto: quello che ho raccontato tuttavia è solo una
rielaborazione personale dell’incidente che niente ha a che
fare con gli avvenimenti reali.
Tutti i locali citati – tranne il Fenicottero che, però, in
qualche modo esiste pure lui e qualcuno sono sicuro lo
riconoscerà – sono reali e vi consiglio di farci un salto.
L’Atlantique, dove si andava a fare il brunch nelle tazze
della Nescafè rosse, invece ha chiuso e hanno smantellato
la carlinga d’aereo che sovrastava il locale. Anche quella
c’era davvero!
Quanto al Giallone è una Vespa 50 che possiedo da
circa vent’anni ma che a Milano è difficile usare.
Infine, tranquillizzatevi: le imprese di Radeschi e Fabio
col computer sono tutte realizzabili, almeno in teoria, ma
io non sono in grado di metterle in atto.
Per chiudere permettetemi di ringraziare alcune persone
senza le quali questo romanzo non avrebbe visto la luce.
Innanzi tutto mia moglie Eleonora, perché c’è sempre,
legge, mi sprona, mi aiuta, mi sopporta ma, soprattutto,
mi sostiene; quindi Luca e Jacopo De Michelis per la fiducia, Chiara Tiveron e Fabio Ferlin per il supporto e la professionalità, il mio agente Piergiorgio Nicolazzini che i
romanzi li fa volare in tutto il mondo e, poi, naturalmente,
voi lettori che siete la cosa più importante per chi fa questo mestiere: GRAZIE.
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Stampato da
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«Farfalle Marsilio»
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