La Campagna: una dispensa ricca di sapori (Fiammetta Fadda)

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La Campagna: una dispensa ricca di sapori (Fiammetta Fadda)
La campagna: una dispensa ricca di sapori
LA CAMPAGNA: UNA DISPENSA
RICCA DI SAPORI
FOCUS
di Fiammetta Fadda*
Perché gli italiani amano così tanto la cucina? Nel nostro Paese parlare di cibo significa parlare della gente, della storia, della
cultura, della terra dove un piatto o prodotto è stato portato a perfezione.
Ogni paesino, ogni comunità, ha la sua
specialità alimentare e il segreto della
buona cucina sta anche nell’utilizzo di
materie prime di eccezionale qualità.
Non a caso in Italia i migliori ristoranti
non si trovano nelle grandi città ma in
campagna.
Q
Why the Italian people are so fond of
cooking? In our country talking about food
means talking about people, history, culture and land where a recipe or a product has
been realized.
Every small village, every community, has
its own recipe and the secret of good
cooking resides also in the use of raw
materials of excellent quality.
Therefore it doesn’t surprize that in Italy
the best restaurants are located in rural
areas rather than in big towns.
* Giornalista e critica gastronomica
SILVÆ
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uando gli ingredienti, la loro qualità, la loro freschezza, la loro
provenienza sono diventati importanti nella cucina degli italiani?
Sempre, si potrebbe rispondere, perché la semplicità che è radicata nel nostro modo di cucinare mette la materia prima in primo piano. Ma
per secoli si è trattato di un fenomeno spontaneo, senza autentica consapevolezza. La campagna, l’aia, l’orto, il bosco, erano là, una vasta e
preziosa dispensa ricca di sapori che si succedevano con lo stesso ritmo
delle stagioni. Il cibo non viaggiava ancora nel tempo e nello spazio: per
conservare le uova si mettevano nella calce, le mele maturavano in soffitta
nella paglia accanto ai cachi, d’inverno la neve compressa finiva sottoterra
per creare i sorbetti dissetanti dell’estate. Mamme e nonne cucinavano, per
consumarlo subito, tutto ciò che era stato raccolto a maturazione perfetta.
Era anche una cucina a patchwork, a tessere piccolissime corrispondenti, in linguaggio gastronomico, a un paesaggio dove “a ogni
tratto di strada avrete una curva, un mutamento di rotta, e il paesaggio cambierà, così che non solo da regione a regione ma dall’interno
della stessa regione voi scoprirete sempre un paese diverso, con infi-
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nite gradazioni dalla montagna al mare, passando attraverso colline di
varia conformazione. Vi sono poche analogie tra le colline del
Piemonte e quelle delle Marche o della Toscana, talora basta attraversare da est a ovest o viceversa l’Appennino per avere l’impressione di
entrare in un altro paese”. Così Umberto Eco, che pure si dichiara un
non-buongustaio, presenta il libro di Elena Kostioukovitch “Perché
agli italiani piace parlare di cibo”, già un best-seller in Russia, dove
l’autrice, che da vent’anni vive in Italia, spiega perché da noi parlare di
cibo vuol dire parlare della gente, della storia, della cultura, della terra
dove un piatto o un prodotto è stato portato a perfezione. E quindi è
oggetto di continue osservazioni e appassionata conversazione.
D’altra parte benché si dica che il compendio delle oltre 700 ricette
raccolte lungo lo Stivale da Pellegrino Artusi all’inizio del Novecento,
abbia fatto per l’unità d’Italia più di Garibaldi, in realtà suona tuttora
sbagliato parlare di “cucina italiana” perché ogni paesino, ogni comunità
ha la sua “insegna commestibile”, che sia la bistecca alla fiorentina, il
risotto alla milanese, il radicchio trevisano o l’insalata caprese. Ma fino
agli anni ’50, quando Orio Vergani fondò l’Accademia Italiana della
Cucina perché in Francia aveva appreso l’orgoglio dei sapori radicati nel
territorio, l’Italia era divisa tra la blanda cucina generalista praticata nelle
case borghesi, quella ruspante delle case contadine e delle trattorie, e
quella di imitazione francese, servita nei ristoranti di pretesa.
Quest’ultima, ispirata ai grandi chef d’Oltralpe di fine Ottocento,
non sembrava tener conto degli enormi progressi tecnici intervenuti nel
frattempo a favore della freschezza della materia prima e continuava a
imbalsamarla con presentazioni arzigogolate, annegata sotto salse e
fondi. Il risultato erano piatti pesantissimi che favorivano il colesterolo
alto e la gotta. Solo pochi buongustai lungimiranti scommettevano sul
futuro della carbonara e della vaccinara, del pesto e della bagna caöda,
dell’olio contro il burro, del crudo contro il cotto. Poi sono arrivati gli
anni Settanta e dalla Francia è giunto un nuovo verbo gastronomico, la
Nouvelle Cuisine, che predicava l’orgoglio della freschezza, il menu
costruito con ciò che si trovava il giorno stesso al mercato, l’importanza di preparazioni più leggere, ricche di salute oltre che di sapore.
Però il trionfo dell’ingrediente in sé era ancora lontano.
Gualtiero Marchesi, il cuoco che ha sprovincializzato la cucina italiana dal suo ristorante in via Bonvesin della Riva a Milano, confessa di
non aver attribuito grande importanza alla qualità della materia prima
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per anni, folgorato com’era dalla tecnica gastronomica appresa in Francia e dalla novità della presentazione singola artisticamente composta
in cucina dallo chef. Solo in seguito, trasferendosi tra i vigneti della
Franciacorta, vicino al lago d’Iseo, ha scoperto la creatività che nasce
dalla ricerca dell’ingrediente locale. Tutto il contrario di Gianfranco
Vissani, altro grande, che ha una frequentazione pressoché carnale con
le materie prime: si porta i piselli all’orecchio per sentire se scrocchiano, manda i contadini nel bosco a cercare i funghi cardoncelli, sa dire
quale sale è adatto per condire a crudo e quale per insaporire a cotto,
usa gerani gelsomini e violette non per decorare la tavola ma per note
di sapore inedite nei suoi piatti.
Tutte preparazioni immediate che si basano sulla fragranza dei
sapori primari, lontani dalle logiche della grande distribuzione, delle
coltivazioni intensive, dell’allevamento in batteria: uova di galline ruspanti, pomodori essiccati in collane sotto il sole, agnelli che hanno brucato erbe profumate, formaggi di malga, lamponi di bosco. Alain
Ducasse, il genio contemporaneo dell’alta cucina ha riconosciuto umilmente che “è meglio una spigola senza genio che un genio senza spigola”, per dire che senza grandi prodotti non c’è tecnica che tenga. E ha
iniziato per primo, vent’anni fa, a trasformare contadini, artigiani e allevatori in altrettanti artefici della sua cucina non meno importanti dei
cuochi ai suoi fornelli, a citarne il nome e l’indirizzo nei menu, a farli
protagonisti dei suoi libri. Paul Bocuse, altro principe della gastronomia, oggi settantenne, disprezza addirittura i piatti dove gli ingredienti
non siano riconoscibili, dall’umile purè alle “espumas” e ai gelati all’azoto liquido dello spagnolo Ferran Adrià e dei suoi seguaci, che fanno
una cucina da laboratorio chimico-fisico dove l’aspetto, la consistenza,
il gusto dell’originaria materia lascia il posto a un gioco di prestigio che
poco ha a che fare con il piacere del palato.
Ma i giovani cuochi più intelligenti hanno capito che il successo del
nostro stile gastronomico sta nei sapori non omologati, nelle vecchie
ricette locali adattate al palato moderno, e battono le campagne stringendo alleanze con fittavoli e produttori. Non è un caso che i migliori
ristoranti siano in paesini spesso difficili da raggiungere anziché nelle
grandi città. Ma quello che distingue il salame del contadino degli anni
Cinquanta dal salame di Cinta Senese di oggi è un concetto differente
della vita rurale, o almeno di quella sua parte che ha rinunciato a produrre derrate di massa. Un concetto più solido, più umano, più vero. Il
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turning point è arrivato con il nuovo millennio e la globalizzazione che,
se da un lato ha fatto arrivare sulle nostre tavole il sale rosa dell’Himalaya e il pepe di Sechuan, dall’altro ha esaltato la coscienza e l’orgoglio delle nostre radici anche sotto le sembianze del sale di Trapani e
del peperoncino di Diamante.
Luigi Veronelli, ha lasciato come ultimo atto della sua lunga militanza a favore della tipicità, l’istituzione dei Deco, le denominazioni comunali che sanciscono l’origine dei prodotti nati all’ombra dei campanili
italiani. Se prima non c’è stata coltivazione tanto grande da essere rifiutata perché disumana, oggi non c’è borgo tanto piccolo da non inalberare una sua specialità e una sua sagra. Un agriturismo che è anche
dello spirito. Non più e non solo per necessità morale, ma anche perché è il modo migliore per evadere dall’anonimato metropolitano e
approdare al calore e ai sapori del villaggio. Questo ha permesso di
recuperare nel Parco Nazionale delle Cinque Terre 15 ettari di vigne di
Sciacchetrà abbandonate; di sottrarre all’estinzione la vacca rossa reggiana, il cui latte produce un pregiatissimo parmigiano; di salvare lo
zolfino, raro fagiolo prediletto dai toscani fin dal Cinquecento. E sono
oggi i prodotti agroalimentari italiani che possono fregiarsi di dop e igp.
Se fino a dieci anni fa era segno di lusso mangiare ciliegie e ananas
a Natale, oggi il lusso è azzerare il contachilometri del gusto e privilegiare quello che è stato raccolto, allevato o confezionato a pochi
chilometri di distanza. Come hanno fatto i locali che hanno sottoscritto con la Coldiretti Veneto il disciplinare dei “Ristoranti Km Zero” che
si impegnano ad acquistare le derrate direttamente dai produttori nell’arco del proprio comune e ad elaborare ogni giorno un menu “Km
Zero”. Alla cena offerta dal Comune di San Miniato per celebrare l’ultima edizione della mostra del tartufo del posto, alcuni piatti suonavano
così: “Zuppetta di fagioli piattella pisana con mollicata di pan di ramerino”, e “Consommé al pomodoro grinzoso sanminiatese”. Fino a quelle
radici, bacche, cicorie, erbe silvestri che diventeranno, secondo i grandi cuochi riunitisi qualche mese fa a Bilbao nel forum “Viva les Verduras”, i protagonisti principali della cucina del futuro. Sempre più
verde, sempre più sana, saporita, rispettosa dell’ambiente. Buona, bella
e vicina come la ragazza della porta accanto, a lungo ignorata e un
giorno felicemente scoperta.
SILVÆ