La moda tossica nel mirino di Greenpeace

Transcript

La moda tossica nel mirino di Greenpeace
LA MODA TOSSICA NEL
MIRINO DI GREENPEACE
Due rapporti di Greenpeace International del 2012 mettono in rilievo la pericolosità,
per uomo e ambiente, di alcune pratiche di produzione dei grandi marchi.
Sotto accusa il fast fashion che ha prezzi bassi e alto impatto ambientale
C
di Lucia Aversano
hi non ha mai acquistato un prodotto Zara si faccia avanti. Non
tutti certo, ma un gran numero di
persone acquista, o ha acquistato, un vestito
o un accessorio della famosissima e globalissima Zara. Lo store spagnolo infatti offre
un ampia gamma di abiti per ogni tipo di
utenza: collezioni donna, uomo, bambino e
teen ager a prezzi popolari e sempre di tendenza. Non solo Zara ma numerosi sono i
brand che hanno abbracciato il “fast fashion”,
una moda alla portata di tutti e in repentino
aggiornamento. Ma dietro il low cost si cela
un prezzo molto alto da pagare in termini di
salute e impatto ambientale. Lo scorso novembre Greenpeace International ha pubblicato un rapporto dal titolo “Contaminati
dalla moda” nel quale viene evidenziato
come e quanto alcuni brand di vestiti utilizzino prodotti tossici e in alcuni casi cance-
rogeni, per produrre i propri abiti, e i risultati sono stati poco rassicuranti. “Le analisi
chimiche – si legge nel rapporto – eseguite
da Greenpeace su 141 articoli dei 20 principali brand di moda (Benetton, Jack & Jones,
Only, Vero Moda, Blažek, C & A, Diesel,
Esprit, Gap, Armani, H & M, Zara, Levi,
Victoria ‘s Secret, Mango, Marks & Spencer,
Metersbonwe, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Vancl) dimostrano il collegamento tra
gli impianti di produzione tessile – principali
responsabili dell’avvelenamento dei corsi
d’acqua – e la presenza di sostanze chimiche
pericolose nei prodotti finali. Per ogni
marca, uno o più articoli analizzati contengono NPE (composti nonilfenoloetossilati)
che possono rilasciare i corrispondenti nonilfenoli, pericolosi perché in grado di alterare il sistema ormonale dell’uomo. La più
alta concentrazione di NPE sono stati troStili di vita
47
La lavorazione dei tessuti in Cina, dove ci sono più di 9mila fabbriche tessili.
(Foto Greenpeace)
vati per i marchi ZARA, Metersbonwe, Levi’s, C & A, Mango, Calvin Klein, Jack &
Jones e Marks & Spencer (M & S). Per
ZARA, inoltre, quattro dei capi analizzati risultano contaminati da alti livelli di ftalati
tossici, e altri due presentano tracce di
un’ammina cancerogena derivante dai coloranti azoici”.
Come nasce la moda fast
Il rapporto spiega anche come, e perché,
siamo arrivati alla moda tossica rimarcando
gli albori dei vestiti “usa e getta”. Agli inizi
degli anni novanta, numerose case d’abbigliamento hanno cercato, e trovato, il modo
di incrementare i propri profitti incoraggiando i consumatori a comprare più vestiti
e più frequentemente. Come? Abbassando
48
Stili di vita
drasticamente i prezzi, e immettendo negli
scaffali nuove collezioni ogni mese. Lo sviluppo di mercati a basso costo ha spinto le
grandi marche della moda a spostare la loro
produzione nel sud del mondo. Zara, H&M,
Gap e Benetton, giusto per citarne alcuni, si
concentrano sull’accelerazione dei cicli della
moda in modo da presentare nuove collezioni anche in mezzo alla stagione. È ormai
la norma avere 6-8 stagioni della moda rispetto alle 2-4 classiche. Per avere così tante
collezioni è necessario però avere tempi di
consegna sempre più brevi e tutto ciò è possibile solo spostando la produzione in
estremo oriente, dove per rispettare scadenze sempre più ravvicinate si tagliano i
costi del lavoro e si attivano pratiche ambientali irresponsabili. Tornando alla famosa
catena di negozi spagnola, per esempio, essa
può mettere insieme una linea di abbigliamento, con tutti i passaggi dalla progettazione alla produzione, anche in trenta giorni.
Si stima che in tutto il mondo, ogni anno,
vengano prodotti circa 80 miliardi di capi di
abbigliamento, l’equivalente di poco più di
11 capi all’anno per ogni persona sul pianeta.
Ovviamente la distribuzione di questi abiti
non è omogenea tant’è che in alcuni paesi
europei le stime parlano di 70 capi d’abbigliamento a persona in un anno, capi che in
gran parte dei casi vengono indossati solo
una volta e poi gettati via andando così a
riempire discariche e inceneritori.
Queste quantità enorme e crescente di vestiti amplifica l’impatto ambientale di indumenti durante il loro ciclo di vita, a partire
dai grandi quantitativi di acqua e sostanze
chimiche (pesticidi) utilizzati per la produzione di fibre come il cotone.
La campagna detox di Greenpeace
Partita l’anno scorso, la campagna che
promuove l’eliminazione delle sostanze tossiche dalla linea di produzione, ha lanciato
la sfida ai grandi marchi d’abbigliamento.
Tra questi sono sei: Puma, Nike, Adidas, LiNing, H&M e C&A quelli che attualmente
stanno collaborando per l’attuazione e l’ulteriore sviluppo dei loro programmi individuali e collettivi per azzerare le emissioni di
sostanze chimiche pericolose. E ultimamente anche Zara ha aderito alla campagna.
L’ulteriore sfida che Greenpeace chiede ai
vari brand è quella di individuare, attraverso
una pressione e un controllo sui propri fornitori, le sostanze chimiche utilizzate per la
fabbricazione dei propri prodotti come
parte di un impegno globale di progressiva
eliminazione delle sostanze pericolose, al
fine di raggiungere la completa “disintossicazione“ di tutta la catena produttiva.
Un nuovo rapporto Greenpeace uscito lo
scorso dicembre ha infatti evidenziato la
presenza di una vasta gamma di sostanze
chimiche pericolose nelle acque di scarico di
due tra le principali zone industriali della
Cina note per la presenza di più di novemila
fabbriche tessili: Shaoxing e Linjiang, nella
provincia di Zhejiang.
La strada per la completa disintossicazione degli abiti è solo agli inizi ma una piccola luce in fondo al tunnel, grazie alla
campagna di sensibilizzazione di Greenpeace, già s’intravede. ■
La copertina del Rapporto
di Greenpeace 2012
Stili di vita
49