Untitled - Loic Wacquant

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Untitled - Loic Wacquant
Saggi
Loïc Wacquant
L’habitus come oggetto e come
strumento
Riflessioni sul divenire pugile professionista
Habitus as Topic and Tool. Reflections on Becoming a Prizefighter
This article recounts how I took up the ethnographic craft; stumbled upon the Chicago
boxing gym that is the central scene and character of my field study of prizefighting in
the black American ghetto; and designed the book Body and Soul so as to both deploy
methodologically and elaborate empirically Pierre Bourdieu’s signal concept of habitus.
Habitus is the topic of investigation: the book dissects the forging of the corporeal and
mental dispositions that make up the competent pugilistic in the crucible of the gym.
But it is also the tool of investigation: the practical acquisition of those dispositions by
the analyst serves as technical vehicle for better penetrating their social production and
assembly. The apprenticeship of the sociologist is a methodological mirror of the apprenticeship undergone by the empirical subjects of the study; the former is mined to dig deeper into the latter and unearth its inner logic and subterranean properties; and both in
turn test the robustness and fruitfulness of habitus as guide for probing the springs of
social conduct. Properly used, habitus not only illuminates the variegated logics of social
action; it also grounds the distinctive virtues of deep immersion in and carnal entanglement with the object of ethnographic inquiry.
Habitus, apprenticeship, ethnography, theory, social action, subjectivity, carnal sociology
In questo saggio racconto come ho iniziato la mia ricerca etnografica, come
mi sono imbattuto a Chicago nella palestra di pugilato che è sia scena sia
personaggio principale della mia ricerca sul pugilato nel ghetto nero, e
quindi come ho scritto Anima e corpo, il libro che riassume quella ricerca,
sviluppando metodologicamente ed empiricamente il fondamentale concetto
di habitus introdotto da Pierre Bourdieu (Wacquant, 2002c). Traccio inoltre
qualche connessione biografica, intellettuale e analitica tra questo progetto
di ricerca sull’abilità corporea, il quadro teorico in cui esso si inserisce e la
ricerca comparativa più ampia sulla marginalità urbana che in modo inatteso mi ha condotto a occuparmi di pugilato. Vorrei anche delineare come gli
aspetti pratici del lavoro di campo mi abbiano condotto dal ghetto come incarnazione della dominazione etnorazziale al fatto dell’incorporazione dell’habitus come problema e risorsa per la ricerca sociale. Con questa riflessione
sul divenire pugile professionista voglio mostrare che il lavoro di campo può
essere uno strumento per la teoria sociale e voglio sottolineare l’importanza
The English version of the article is available for downloading at the web page of the
publishing house: http://www.mulino.it/edizioni/riviste/index.php.
ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA - 1/2009
Loïc Wacquant
della conoscenza attraverso il corpo, l’imperativo della riflessività epistemica, insieme al bisogno di ampliare i generi e gli stili etnografici per meglio comprendere lo Sturm und Drang dell’azione sociale prodotta a vissuta.
Il concetto di habitus mi ha fornito al tempo stesso l’àncora e la bussola del viaggio etnografico che racconto in Anima e corpo. Esso è l’oggetto
della ricerca, in quanto il libro analizza dettagliatamente la formazione delle
disposizioni corporee e mentali che determinano la bravura del pugile su
quel banco di prova che è il ring; ma è anche lo strumento della ricerca, in
quanto l’acquisizione pratica delle disposizioni degli attori da parte del ricercatore può servire come mezzo tecnico per meglio comprendere la produzione
e gestione sociale di quelle. In altre parole, l’apprendistato del sociologo è uno
specchio metodologico dell’apprendistato a cui si sottopongono i soggetti stessi
del suo studio. Mentre il primo cerca di scavare nelle pratiche dei secondi per
portare alla luce la logica intima e le proprietà dell’azione, entrambi si trovano ad esperire la solidità e l’utilità concreta dell’habitus come guida per
saggiare i risultati dell’azione. Al contrario dell’idea comune prevalente, secondo cui l’habitus non sarebbe altro che una nozione vaga di riproduzione
meccanica della struttura sociale, che cancellerebbe la storia, sorta di black
box che svierebbe l’osservazione e confonderebbe la spiegazione (vedi Jenkins, 1991 per un repertorio standard di queste critiche), l’elaborazione sociologica di Bourdieu di questo concetto filosofico classico rappresenta un potente strumento per stimolare la ricerca sociale e delineare meccanismi sociali
effettivamente agenti. Utilizzato in modo adeguato, l’habitus ci permette non
solo di chiarire le diverse logiche dell’azione sociale, ma anche di dare un
fondamento all’immersione nel e al coinvolgimento con l’oggetto dell’indagine
etnografica.
1. Dal Pacifico del sud al South Side di Chicago
Poiché la nozione di habitus presuppone che gli attori umani siano animali
storici che portano nel proprio corpo delle sensibilità e delle categorie che
sono prodotti sedimentati delle loro esperienze sociali passate, può essere utile
cominciare a parlare di habitus raccontando un po’ come sono arrivato alla
ricerca etnografica e cosa mi sono portato nel South Side di Chicago quanto
a interessi e aspettative intellettuali. La mia iniziazione al lavoro di campo
è precedente alla mia entrata alla graduate school dell’Università di Chicago
nel 1985. In adempimento ai miei obblighi militari (cui tutti i cittadini francesi maschi erano tenuti a quel tempo), fui assegnato, per un colpo di fortuna,
al servizio civile nel Pacifico del sud come sociologo in un centro di ricerca
dell’ORSTOM, l’ex «ufficio delle ricerche coloniali» francese. Trascorsi così due
anni in Nuova Caledonia, un’isola francese a nordest della Nuova Zelanda, in
un piccolo gruppo di ricerca – in effetti, eravamo in tre – proprio nel periodo
della rivolta Kanak nel novembre del 1984 1. Ciò significa che ho vissuto e la1
Kanak è il nome che la popolazione nativa della Nuova Caledonia si diede per esprimere la propria richiesta di riconoscimento culturale e indipendenza politica (in opposizione
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L’habitus come oggetto e come strumento
vorato in una società coloniale arcaica e piuttosto brutale, dal momento che
negli anni Ottanta la Nuova Caledonia era ancora una colonia impostata su
modello ottocentesco, sopravvissuta praticamente intatta fino quasi alla fine del
ventesimo secolo (vedi Bensa, 1995). Si trattò di una straordinaria esperienza
per un apprendista sociologo, di poter studiare il sistema scolastico, l’urbanizzazione e il mutamento sociale nel contesto di un’insurrezione, in pieno stato
di emergenza, potendo osservare in tempo reale le lotte tra le forze coloniali
e quelle indipendentiste; mi sono trovato così a riflettere in modo concreto sul
ruolo civile delle scienze sociali. Ebbi ad esempio il privilegio di partecipare al
congresso del Fronte di Liberazione Nazionale Socialista Kanak che si tenne a
Canala nel momento culminante degli scontri e attraversai anche Grande Terre
(l’isola principale della Nuova Caledonia), e feci diversi soggiorni sull’isola di
Lifou a casa di amici che erano militanti Kanak di vecchia data, in un periodo
in cui praticamente nessun francese osava mettersi in viaggio.
L’esperienza della Nuova Caledonia mi sensibilizzò alla disuguaglianza etnorazziale e alla ripartizione spaziale come vettore di controllo sociale: i Kanak
infatti erano relegati in riserve rurali isolate e ipersegregati in alcuni quartieri
della capitale Nouméa. Mi resi conto del diversificato funzionamento delle rigide gerarchie di colore e onore nella vita quotidiana e del ruolo cruciale del
corpo come obiettivo, ricettacolo e fonte delle relazioni asimmetriche di potere. Quell’esperienza mi espose anche alle forme più grevi dell’immaginario
razziale: i nativi melanesiani erano tipicamente dipinti come «super-primitivi»
senza cultura né storia, persino nel momento in cui stavano cercando di afferrare il proprio destino storico (Bourdieu, Bensa, 1985). Tutto questo si sarebbe dimostrato immensamente utile più tardi, nel South Side di Chicago, in
cui si verificava un analogo trattamento degli afro-americani. In Nuova Caledonia lessi i classici dell’etnologia – Mauss, Mead, Malinowski, Radcliffe-Brown,
Bateson e così via (specialmente i loro lavori sul Pacifico meridionale, dato che
le isole Trobriand non sono lontane da dove mi trovavo) – e tenni i miei primi
diari etnografici. Il primo in assoluto fu scribacchiato nella tribù di Luecilla,
nella baia di Wé, durante il Natale del 1983, circa un anno prima della rivolta
indipendentista (vi descrivevo in particolare la caccia al pipistrello e la sua cottura alla griglia, che divenne poi la mia cena di quella sera). Quegli appunti
confluirono in seguito nel mio libro sulla disuguaglianza educativa, il conflitto
coloniale e la trasformazione delle comunità melanesiane sotto la pressione
dell’espansione capitalista e del governo francese.
Al termine del mio soggiorno in Caledonia vinsi una borsa di dottorato
quadriennale all’Università di Chicago, la culla della sociologia americana e
patria della principale tradizione di etnografia urbana. Arrivando nella città
di Upton Sinclair, la mia idea era di lavorare sulla storia e l’antropologia della
dominazione coloniale in Nuova Caledonia; ma presto venni completamente
dirottato verso il ventre scuro del ghetto americano. Da un lato, l’accesso alla
Nuova Caledonia mi venne bruscamente negato dopo che ebbi compilato una
a «Melanesiani», la denominazione ufficiale che aveva origine nell’era coloniale). Il termine
deriva dalla parola hawaiana «kanaka», che significa «uomo» [ndt].
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Loïc Wacquant
nota di denuncia contro il mediocre burocrate che era il supervisore della mia
ricerca a Nouméa e che voleva che il suo nome comparisse come quello di coautore della monografia sul sistema scolastico, una ricerca che avevo condotto
tutta da solo (Wacquant, 1985). I direttori dell’Istituto a Parigi decisero di coprire il loro uomo e di fatto mi chiusero i canali per tornare sull’isola. Dall’altro lato, mi trovai a confrontarmi giorno per giorno con la spiacevole realtà
del ghetto di Chicago, o di quel che ne rimaneva. Mi fu dato l’ultimo alloggio
per studenti disponibile nel campus, quello che nessun altro aveva voluto, e
così mi trasferii sulla sessantunesima strada, al margine del quartiere nero e
povero di Woodlawn. Era una fonte di costante inquietudine e perplessità trovarmi sotto la finestra quel paesaggio urbano quasi-lunare, fatto di incredibile
decadimento, miseria e violenza, organizzato intorno a una separazione completa tra il mondo dell’università, bianco, ricco e privilegiato, e i circostanti
quartieri afroamericani, completamente abbandonati a se stessi. Venendo
dall’Europa occidentale, dove simili livelli di decadimento urbano, di deprivazione materiale e segregazione etnica sono sconosciuti, questo fatto mi metteva ogni giorno profondamente in questione, intellettualmente e politicamente.
È a questo punto che ebbe luogo il secondo incontro decisivo per la mia vita
intellettuale, quello con William Julius Wilson (il primo era stato quello con
Pierre Bourdieu, cinque anni prima, quando decisi di passare dall’economia
alla sociologia dopo aver assistito a una sua lezione, come ho raccontato in
Wacquant, 2002a).
Wilson è il principale sociologo afroamericano della seconda metà del ventesimo secolo e uno tra i maggiori esperti sul rapporto tra razza e classe negli
Stati Uniti, al punto che la sua analisi su «I neri e le istituzioni americane», in
The Declining Significance of Race (Wilson, 1978), definì già verso la fine degli anni Settanta i parametri di questo sottocampo di ricerca sociale. Ad ogni
modo Wilson era uno dei professori che inizialmente mi avevano motivato ad
andare a Chicago e così, quando mi offrì la possibilità di collaborare con lui a
un grosso progetto di ricerca sulla povertà urbana che aveva appena iniziato
(si tratta grosso modo del filone di ricerca definito nel suo libro The Truly Disadvantaged, Wilson, 1987), colsi al volo l’occasione e divenni rapidamente un
suo stretto collaboratore e in seguito un suo coautore. Potei così andare dritto
al cuore della questione e esaminare da vicino come questo dibattito scientifico
e politico operava ai livelli più alti, specialmente nelle fondazioni filantropiche
e nei think tank che delineavano il ritorno della problematica dell’intreccio tra
razza, classe e povertà nella inner city. In questo modo iniziai le mie ricerche
– prima come seguace di Wilson, in seguito da solo – sulla trasformazione del
ghetto nero dopo le rivolte degli anni Sessanta, cercando di rompere con la visione patologizzante che pervadeva e distorceva la ricerca in questo campo.
Ho un enorme debito personale e intellettuale con Bill Wilson, che è stato
per me un mentore al tempo stesso esigente e generoso: mi ha spronato e sostenuto, dandomi la libertà di divergere dalle sue analisi, e persino, a volte,
di andare in una direzione completamente opposta alla sua. Il suo esempio mi ha insegnato cosa sia il coraggio intellettuale: non perdere di vista il
quadro generale, scavare a fondo nei dettagli, porre le domande più spinose
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L’habitus come oggetto e come strumento
persino quando ciò comporta perdere un po’ di penne sociali e accademiche
per strada. Ricordo che invitò Pierre Bourdieu a parlare al proprio gruppo di
ricerca in merito al suo studio sull’urbanizzazione e sulla proletarizzazione
dell’Algeria a partire dai primi anni Sessanta (Bourdieu et al., 1963). A quanto
pare, Bourdieu aveva anche cercato di far tradurre The Declining Significance
of Race in francese alcuni anni prima. Questo incontro e le discussioni che ne
seguirono consolidarono in me l’idea che potevo tracciare una connessione tra,
da un lato, le prime investigazioni antropologiche di Bourdieu sulle traiettorie
di vita dei sottoproletari algerini e, dall’altro, le difficoltà contemporanee dei
residenti del ghetto nero di Chicago di cui si occupava Wilson. Quel che non
sapevo ancora, però, era il come.
A questo riguardo l’etnografia giocò un ruolo cruciale di giuntura, per almeno due aspetti. Da un lato, seguii più corsi di antropologia che di sociologia,
poiché il dipartimento di sociologia si rivelò intellettualmente poco stimolante
e perché, sin dai tempi della mia formazione in Francia, ero profondamente
convinto dell’unità della scienza sociale nel suo complesso. I corsi, le opere e
gli incoraggiamenti di John e Jean Comaroff, Marshall Sahlins, Bernard Cohn e
Raymond Smith mi spinsero verso il lavoro sul campo. Dall’altro lato, cercavo
un luogo di osservazione diretto all’interno del ghetto, dato che la maggior
parte della letteratura esistente sull’argomento era il prodotto di uno sguardo
da lontano che mi sembrava fondamentalmente viziato se non accecato (Wacquant, 1997). Mi sembrava chiaro che la letteratura era dominata da un punto
di vista statistico, dall’alto, sviluppato da ricercatori che in molti casi non avevano alcuna conoscenza di prima mano, e a volte neppure di seconda mano,
della realtà ordinaria dei quartieri deprivati della Black Belt, e che colmavano
questa mancanza con stereotipi giornalistici o accademici di senso comune.
Volevo perciò ricostruire la questione del ghetto dal basso, basandomi su una
precisa osservazione delle attività quotidiane e delle relazioni dei residenti di
quella terra non grata e per questa ragione incognita (vedi Wacquant, 1998a
per un primo sforzo).
Mi sembrava epistemologicamente e moralmente impossibile far ricerca
sul ghetto senza acquisirne una seria conoscenza di prima mano, dato che
esso era letteralmente appena fuori dalla mia soglia di casa (nelle notti d’estate
si sentivano colpi di pistola giusto dall’altra parte della strada) e dato che i
lavori sin lì condotti mi sembravano pieni di nozioni accademicamente implausibili o perniciose, a cominciare dal mito della «underclass» che in quegli anni
era una vera e propria produzione industriale (vedi Katz, 1993 e Gans, 1995
per una ricostruzione critica e Wacquant, 1997 per una disamina concettuale).
Come maschio francese bianco, le mie esperienze formative sociali e intellettuali facevano di me un perfetto straniero a quell’ambiente e mi facevano venir
voglia di cercare di sviluppare una qualche concreta familiarità con esso. Dopo
qualche tentativo andato a vuoto, trovai per caso una palestra di boxe a Woodlawn, a non più di tre isolati dal mio appartamento, e mi iscrissi dicendo
che volevo imparare a boxare, molto semplicemente perché non c’era altro che
potessi fare lì dentro. In realtà non avevo alcuna curiosità o interesse per il
mondo del pugilato in sé (ma volevo fare un po’ di esercizio fisico). La pale-
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Loïc Wacquant
stra doveva essere per me solo una piattaforma di osservazione sul ghetto, un
luogo per incontrare potenziali informatori.
2. L’habitus va in palestra
Molto rapidamente, tuttavia, la palestra si rivelò non solo un’incredibile finestra sulla vita dei giovani maschi del quartiere, ma anche un complesso microcosmo con una sua storia, una cultura e una sua vita morale, sociale, estetica ed emotiva intensa e ricca. Nel giro di pochi mesi, sviluppai un legame
forte, corporeo con i frequentatori regolari del club e con il vecchio allenatore,
DeeDee Armour, che divenne una sorta di padre adottivo per me. Venni sempre più attratto dal magnetismo della «dolce scienza» 2 al punto che cominciai
a passare la maggior parte del mio tempo nella palestra. Dopo circa un anno,
mi venne l’idea di approfondire uno secondo oggetto di ricerca, la logica sociale dell’abilità corporea. Cosa attrae i pugili? Cosa li spinge a dedicarsi a
questo mestiere tra i più duri e fisicamente provanti? Come acquisiscono il
desiderio e la competenze necessarie per andare avanti? Qual è, in tutto questo, il ruolo della palestra, della strada, della violenza e del disprezzo razziale
che li circondano? Che proporzione hanno l’interesse e il piacere, e che valore
ha la credenza condivisa nel miglioramento personale? Come si crea una competenza sociale incarnata, trasmessa attraverso una pedagogia silenziosa dei
corpi in azione? In breve, come si costruisce e si utilizza l’habitus pugilistico?
Ecco come mi trovai a lavorare su due progetti contemporaneamente. Progetti
evidentemente diversi l’uno dall’altro ma di fatto intimamente connessi: una
microsociologia corporea dell’apprendistato nella boxe come competenza corporea sottoproletaria nel ghetto, che offre uno scorcio di quell’universo dal
basso e dall’interno (Wacquant, 2002c); e una macrosociologia storica e teoretica del ghetto come strumento di separazione razziale e di dominazione
sociale, che fornisce una prospettiva generalizzzante dall’alto e dall’esterno
(Wacquant, 2008).
Avevo iniziato a tenere un diario di campo dopo ogni sessione di allenamento a partire dal mio primo giorno in palestra, inizialmente per superare la
prepotente sensazione di essere da tutti i punti di vista fuori luogo sulla scena
pugilistica, non sapendo davvero a cosa mi sarebbero servite di preciso quelle
note. Passai poi a prendere note più sistematiche per esplorare i diversi aspetti
della «dolce scienza». La nozione di habitus mi si presentò subito come uno
strumento concettuale per dar senso alle mie esperienze personali di apprendista pugile e come struttura per organizzare la mia osservazione della pedagogia pugilistica. Avevo letto i lavori antropologici di Bourdieu durante i miei
anni in Caledonia. La sua elaborazione della nozione mi era perciò familiare,
così come il suo intento di superare l’antinomia tra un oggettivismo che riduce la pratica al precipitato meccanico di necessità strutturali e un soggettivismo che confonde la volontà personale dell’attore con la fonte della sua azione
«Sweet science» è un altro termine con cui è nota l’arte della boxe [ndt].
2
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L’habitus come oggetto e come strumento
(Bourdieu, 2005; vedi Wacquant, 2004b per una genealogia e un’esegesi della
nozione). L’autore di Per una teoria della pratica aveva ripreso il termine da
una lunga discendenza filosofica che va da Aristotele a San Tommaso a Husserl, sviluppando una teoria disposizionale dell’azione che riconosce che gli attori sociali non sono esseri passivi tirati e sospinti da forze esterne, ma creature dotate di capacità che costruiscono attivamente la realtà sociale attraverso
«categorie di percezione, valutazione e azione». Ma, a differenza della fenomenologia, Bourdieu insiste nel dire che, per quanto resistenti e condivise, queste categorie non sono universali (o trascendentali, nel linguaggio della filosofia
kantiana), e che la matrice generativa che esse compongono non è costante.
Piuttosto, come sedimenti di una storia individuale e collettiva, sono esse stesse
socialmente costruite.
Prodotto della storia, l’habitus produce pratiche, individuali e collettive, dunque storia, conformemente agli schemi generati dalla storia; esso assicura la
presenza attiva delle esperienze passate che, depositate in ogni organismo
sottoforma di schemi di percezione, di pensiero e di azione, tendono, in modo
più sicuro di tutte le regole formali e di tutte le norme esplicite, a garantire
la conformità delle pratiche e la loro costanza attraverso il tempo (Bourdieu,
2005, p. 86).
Quattro proprietà del concetto di habitus mi suggerivano la sua diretta rilevanza per svelare la formazione dei pugili professionisti. Primo, l’habitus è
un insieme di disposizioni acquisite, e nessuno nasce pugile (io meno di tutti!):
l’allenamento consiste precisamente in una costante prova fisica, in una regola
di vita ascetica (per quanto riguarda cibo, tempo, emozioni, e desiderio sessuale) e in un gioco sociale volto a instillare nuove capacità, categorie e desideri specifici al cosmo pugilistico (Wacquant, 1998b). Secondo, l’habitus pone
la capacità pratica a un livello al di sotto di quello cosciente e discorsivo, e
questo corrisponde perfettamente a un aspetto fondamentale dell’esperienza
dell’apprendimento pugilistico, in cui l’apprensione cognitiva è di poco aiuto (e
può persino essere di serio impedimento sul ring) se non si è fatta propria la
tecnica a livello corporeo (Wacquant, 1995a). Terzo, l’habitus indica che l’insieme di disposizioni varia a seconda della posizione e della traiettoria sociale: individui con esperienze di vita diverse hanno sviluppato modi di pensare, sentire e agire diversi; le loro disposizioni primarie potranno essere più
o meno distanti da quelle richieste dalla dolce scienza e, di conseguenza, essi
risulteranno più o meno capaci e adatti nell’acquisire l’abilità richiesta. Questo
punto rispondeva in particolare alla mia esperienza diretta e alla serie di annotazioni che presi nel corso del tempo sul comportamento dei miei colleghi,
mentre si barcamenavano tra le esigenze contrapposte della vita di strada e di
quella della palestra, accettavano l’autorità dell’allenatore e cercavano di costruirsi una persona che si accordasse alle esigenze del mestiere. Quarto, le
strutture volitive e cognitive socialmente costituite che formano l’habitus sono
malleabili e trasmissibili in quanto risultano da un lavoro pedagogico. In altri
termini, se vuoi davvero capire l’habitus devi studiare le pratiche organizzate
di inculcamento attraverso cui si sedimenta (Wacquant, 1995b).
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Loïc Wacquant
Il «momento magico» del lavoro di campo che cristallizzò questa passione teorica e trasformò quel che inizialmente era un progetto collaterale in
uno studio ad ampio raggio sulle logiche sociali dell’incorporazione fu in realtà piuttosto sfortunato: mi ruppi il naso durante un allenamento nel maggio
del 1989, dopo circa nove mesi dall’inizio del mio noviziato. Questo infortunio
mi costrinse a prendere una lunga pausa dal ring, durante la quale Bourdieu
mi incitò a scrivere una nota di campo sulla mia esperienza per un numero
tematico degli Actes de la recherche en sciences sociales dedicato a «Lo spazio dello sport». Il risultato fu un lungo articolo che mi mostrò come fosse sia
fattibile sia fruttuoso convertire la teoria dell’azione inscritta nella nozione di
habitus in un esperimento empirico sulla produzione pratica dei pugili della
palestra di Woodlawn (Wacquant, 1989; 2002a). Questo articolo fu presto accresciuto da un coinvolgimento più diretto dal punto di visto teoretico sulla
questione dell’habitus.
Mentre infatti stavo conducendo le mie ricerche sulla boxe e il ghetto, restavo in costante contatto con Pierre Bourdieu, che continuava a incoraggiarmi
e guidarmi. Avendo saputo che mi ero iscritto al Woodlawn Boys Club, mi
scrisse una nota in cui diceva essenzialmente: «Dagli dentro, imparerai di più
sul ghetto in questa palestra che da tutte le survey del mondo». (In seguito,
quando mi immersi completamente nella cosa, si spaventò e cercò di farmi desistere. Quando mi iscrissi al Chicago Golden Gloves minacciò di diseredarmi
perché temeva che mi sarei fatto del male, ma in seguito comprese che non
c’era da aver paura perché mi ero preparato seriamente a quel battesimo di
fuoco). Bourdieu venne a Chicago diverse volte, visitò con me la palestra e incontrò DeeDee e i miei amici pugili (io lo presentavo loro come il «Mike Tyson
della sociologia»). Durante una di queste visite, esaminò un mio progetto di un
libro che avrebbe dovuto spiegare il nucleo teorico del suo lavoro al pubblico
anglo-americano, dal momento che era soprattutto lì che la ricezione delle sue
teorie era più spesso oggetto di distorsioni e incomprensione. Dedicammo tre
anni alla scrittura di questo libro dalle due sponde dell’Atlantico (attraverso
fax, telefono, lettere e incontri ogni qualche mese), che alla fine divenne An Invitation to Reflexive Sociology (Bourdieu, Wacquant, 1992). In esso cercammo
di analizzare accuratamente il nesso tra habitus, capitale e campo. In quegli
anni condussi una specie di esistenza alla Dr-Jekyll-e-Mr-Hyde, praticando la
boxe di giorno e scrivendo di teoria sociale di notte. Il pomeriggio andavo in
palestra, mi allenavo, uscivo con i miei colleghi e facevo interminabili conversazioni con DeeDee prima di riaccompagnarlo a casa in auto. La sera, dopo
aver trascritto le mie note di campo, passavo al manoscritto di libro con Bourdieu. Era alternativamente rinvigorente ed estenuante. Ma le sessioni diurne
come apprendista pugile mi offrivano sia una pausa dalla teoria sia un potente
stimolo a pensare attraverso le astratte questioni trattate nel libro in termini
molto più mondani ed empirici. La sociologia del ghetto (che nel frattempo
decisi di estendere a una comparazione con la trasformazione postindustriale
della periferia urbana francese), l’etnografia carnale del corpo che si allena e il
lavoro teorico con Bourdieu furono tre filoni di ricerca elaborati nel medesimo
periodo, intrecciati assieme.
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L’habitus come oggetto e come strumento
Il progetto sulla boxe è un’etnografia in un senso molto classico del termine, una sorta di studio di comunità locale come quelli che conducevano gli
antropologi inglesi negli anni Quaranta, tranne che la mia comunità era costituita da una palestra e la mia tribù era quella dei pugili. Decisi di mantenere
questa unità strutturale e funzionale perché mi consentiva di includere i pugili
e di ritagliare l’orizzonte temporale, relazionale, mentale, emotivo ed estetico
che li separa dagli altri, che li spinge a eroicizzare il proprio mondo e che
di conseguenza lo solleva al di sopra del suo ambiente quotidiano (Wacquant,
1995c). Volevo innanzitutto analizzare la relazione spezzata di «opposizione
simbiotica» tra il ghetto e la palestra, la strada e il ring. In secondo luogo,
volevo mostrare come la struttura sociale e simbolica della palestra governa
la trasmissione delle tecniche di un’arte maschile e la produzione di una credenza collettiva nella illusio pugilistica. Infine, speravo di riuscire a penetrare
nella logica pratica di una pratica corporea che opera ai limiti della pratica
stessa attraverso un lungo apprendistato in «prima persona». Per tre anni, mi
fusi con l’ambiente locale e fui preso io stesso nel gioco. Imparai a tirare di
boxe e partecipai a tutte le fasi della preparazione del pugile, fino a combattere nel grande torneo amatoriale del Golden Gloves. Seguii i miei compagni
di palestra nelle loro peregrinazioni personali e professionali e trattai regolarmente con allenatori, manager, promotori, che stavano sempre più trasformando il pianeta del pugilato in uno «show-business insanguinato» (Wacquant,
1998c). Così facendo, fui risucchiato nella polpa fisica e morale del pugilato, al
punto che considerai persino seriamente di lasciar perdere la carriera accademica e di diventare un pugile professionista.
Ma, come la discussione precedente dovrebbe ormai aver reso chiaro,
l’oggetto e il metodo di questa ricerca non erano classici. Anima e corpo offre
in effetti una radicalizzazione empirica e metodologica della teoria dell’habitus
di Bourdieu. Da un lato, apro la «scatola nera» dell’abito pugilistico dischiudendo la produzione e riunione delle categorie cognitive, della abilità corporee
e dei desideri che nel loro complesso definiscono la competenza e l’appetenza
specifica del pugile. Dall’altro lato, utilizzo l’habitus come strumento metodologico, cioè mi metto io stesso nel vortice locale dell’azione per acquisire attraverso la pratica, in tempo reale, le disposizioni del pugile con lo scopo di
illuminare il magnetismo del cosmo pugilistico. Questo mi permette di mostrare
la potente fascinazione che deriva dalla combinazione di capacità, sensualità e
moralità che vincola il pugile al suo mestiere e gli imprime delle nozioni incorporate di rischio e redenzione che gli permettono di superare l’opaco senso di
sfruttamento che pesa su di lui (Wacquant, 2004a). Il metodo perciò mette alla
prova la teoria dell’azione che informa l’analisi secondo un progetto di ricerca
ricorsivo e riflessivo.
L’idea che mi ha guidato sin qui è stata di spingere la logica dell’osservazione partecipante al punto della sua inversione e rovesciamento in una partecipazione osservante. Nella tradizione anglo-americana, quando gli studenti
di antropologia vanno per la prima volta sul campo, vengono messi in guardia
dal «diventare nativi». Nella tradizione francese, l’immersione radicale invece
è ammissibile – penso a Les mots, la mort, les sorts di Jeanne Favret-Saada
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Loïc Wacquant
(1978) – ma solo a condizione che sia accompagnata da una epistemologia
soggettivista che ci fa perdere nelle profondità del soggetto-antropologo. La
mia posizione, al contrario, è di dire: «diventa nativo» ma «diventa nativo
armato», vale a dire attrezzato con strumenti teorici e metodologici, con l’insieme delle problematiche che hai ereditato dalla tua disciplina, con la tua capacità di analisi riflessiva, guidato da uno sforzo costante, una volta superata
la prova di iniziazione, di oggettivare questa esperienza e costruire l’oggetto,
invece di lasciarti ingenuamente costruire da esso. Vai avanti, diventa nativo,
ma torna da sociologo! Nel mio caso, il concetto di habitus è servito sia come
ponte per entrare nella fabbrica dal sapere pugilistico e dissezionare metodicamente la tessitura del funzionamento di quel mondo, sia come scudo contro
la tentazione del soggettivismo che trasforma l’analisi sociale in narrazione
pura e semplice.
3. Dalla carne al testo
Alcuni dei miei critici, scambiando la forma narrativa del mio libro per il suo
contenuto analitico e fraintendendo il mio lavoro come un’estensione degli «studi
delle professioni» nello stile della seconda scuola di Chicago (Hughes, 1994), non
hanno affatto notato il doppio ruolo che il concetto di habitus gioca nella mia
indagine e si sono lamentati dell’assenza di teoria nel libro (Wacquant, 2005b).
Di fatto, teoria e metodo sono a tal punto portati avanti insieme che si fondono
nell’oggetto empirico stesso che ha reso possibile la loro elaborazione.
Anima e corpo è una etnografia sperimentale nel senso originario del termine, in quanto il ricercatore è uno di quei corpi socializzati gettati nell’alambicco sociomorale e fisico della palestra, uno dei corpi-in-azione la cui trasmutazione può venire seguita per penetrare l’alchimia attraverso la quale vengono
forgiati i pugili. L’apprendistato è qui un mezzo per acquisire una padronanza
pratica, una conoscenza viscerale dell’universo osservato, un modo per spiegare la prasseologia degli agenti in esame, come peraltro raccomandato da Erving Goffman (1989) in una famosa lezione sul lavoro di campo – e non un
mezzo per entrare nella soggettività del ricercatore. Non è affatto una caduta
nel pozzo senza fondo del soggettivismo in cui si compiace l’auto-etnografia
(Reed-Danahay, 1997). Al contrario, si basa sulla più intima delle esperienze,
quella del corpo che desidera e soffre, per afferrare in vivo la produzione collettiva degli schemi di percezione, valutazione e azione che vengono condivisi
in vari gradi da tutti i pugili, qualunque sia la loro origine, la loro traiettoria e
il loro posizionamento nella gerarchia sportiva (Wacquant, 2005a). Il protagonista della storia non è perciò né «Busy» Louie, né questo o quel pugile, e neppure il vecchio allenatore DeeDee, nonostante la posizione centrale che occupa:
è la palestra come crogiuolo sociale e morale.
In sostanza con questo progetto sostengo di aver fatto in modo esplicito,
metodico e soprattutto estremo quel che fa ogni buon etnografo, vale a dire
dedicarsi ad afferrare in modo pratico, tattile, sensoriale la realtà prosaica che
sta studiando per gettare luce sulle categorie e le relazioni che organizzano
la condotta ordinaria e i sentimenti dei soggetti studiati. Eccetto che di solito
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L’habitus come oggetto e come strumento
tutto questo si fa senza parlarne o senza tematizzare il ruolo di «co-presenza»
con il fenomeno studiato, o facendo credere a se stessi e agli altri che si tratti
di un puro processo mentale, invece che di un apprendistato corporeo e sensoriale che procede a livello inconscio prima di venire mediato dal linguaggio.
Anima e corpo offre una dimostrazione in azione delle possibilità e delle virtù
di una sociologia carnale che rispecchia fedelmente il fatto che l’attore sociale
è un animale che soffre, un essere di carne e sangue, nervi e viscere, abitato da passioni e dotato di conoscenze e capacità incarnate – in opposizione
all’animal symbolicum della tradizione neokantiana, sia pure aggiornata, da un
lato, da Clifford Geertz (1988) e dai seguaci dell’antropologia interpretativa e,
dall’altro, da Herbert Blumer (2008) e dagli interazionisti simbolici – e questo
vale anche per il sociologo. Tutto ciò infatti implica che dobbiamo rimettere
in gioco il corpo del sociologo e trattare la sua presenza fisica non come un
ostacolo alla comprensione, come vorrebbe l’intellettualismo impregnato di una
concezione banale di pratica intellettuale, ma bensì come vettore della conoscenza del mondo sociale.
Anima e corpo non è un esercizio di antropologia riflessiva nel senso
inteso dall’antropologia «poststrutturalista» o «postmodernista», secondo la
quale il ritorno dello sguardo analitico è diretto o verso il soggetto conoscente
o verso il testo che tale soggetto alla fine redige percorrendo una serie di circuiti di potere-conoscenza che finiscono in un relativismo contraddittorio ed
auto-distruttivo (Hastrup, 1995; Marcus, 1998). Tali forme di riflessività, narcisistiche e discorsive, sono piuttosto superficiali; costituiscono certamente un
utile momento della ricerca perché aiutano a fare piazza pulita delle distorsioni più rozze (radicate nell’identità, nella traiettoria, negli affetti e nella retorica del ricercatore). Ma da un certo punto in poi finiscono per bloccare il
movimento della critica proprio dove esso ha più bisogno di avviarsi, ovvero
nella costante messa in questione delle categorie e delle tecniche dell’analisi
sociologica e della relazione con il mondo che esse presuppongono. È questo
ritorno agli strumenti di costruzione dell’oggetto, in quanto opposti al soggetto dell’oggettivazione, che è il vero segno distintivo di quella che si può
chiamare riflessività epistemica (Bourdieu, Wacquant, 1992, pp. 32-35; Bourdieu, 2002). Ed ecco un’altra differenza rispetto alla riflessività «egologica»
o testuale degli antropologi soggettivisti: la riflessività epistemica viene messa
in campo non alla fine del progetto, ex post, quando si tratta di stendere
il rapporto di ricerca finale, ma durante, ad ogni passo dell’investigazione.
Essa si indirizza alla totalità delle operazioni di ricerca più routinarie, dalla
selezione del campo e dal reclutamento degli informatori alla scelta delle domande da porre e da evitare, fino allo schema teorico generale, agli strumenti metodologici e alle tecniche rappresentative nel momento stesso in cui
vengono utilizzate.
Così, Anima e corpo è un libro riflessivo nel senso che il design stesso
della ricerca mi ha costantemente costretto a riflettere sull’adeguatezza dei
mezzi rispetto ai fini, sulla differenza tra controllo pratico e controllo teorico
di una pratica, sul divario tra infatuazione sensoriale e comprensione analitica, sullo iato tra il viscerale e il mentale, l’ethos e il logos tanto del pugi-
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Loïc Wacquant
lato quanto della sociologia. Allo stesso modo, Urban Outcasts (Wacquant,
2008), il libro macrosociologico che sviluppa una comparazione della struttura e dell’esperienza della segregazione urbana nel ghetto nero americano e
nella periferia francese, è un lavoro di sociologia urbana riflessiva in quanto
interroga incessantemente le categorie stesse che utilizza – «underclass», «inner city», «banlieue», iperghetto, anti-ghetto, precariato – al fine di pensare le
nuove configurazioni della marginalità urbana. Basarsi su una chiara demarcazione tra categorie «folk» e categorie analitiche è per me l’unico fondamento
possibile della riflessività.
La riflessività epistemica è tanto più urgente per gli etnografi in quanto
tutto cospira ad invitarli a sottostare alle precostruzioni di senso comune,
generiche o accademiche che siano. Il loro dovere metodologico è di restare
sensibili agli attori che essi studiano, prendendo sul serio il loro «punto di vista». Se fanno bene il loro lavoro, finiscono per essere anche legati a questi
attori da legami affettivi che incoraggiano tanto l’identificazione quanto il trasferimento (per un’accorta analisi dell’uso metodologico del trasferimento in
Anima e corpo, vedi Manning, 2005). Infine, l’immagine pubblica dell’etnografia – purtroppo anche da parte di alcuni scienziati sociali – viene accomunata
alla narrazione, alla scrittura diaristica, se non addirittura all’epica. L’antropologo o il sociologo che fanno lavoro di campo devono perciò raddoppiare la
dose di riflessività. Questo è quel che ho cercato di mostrare in «Scrutinizing
the Street», a proporsito delle tendenze e dei limiti dell’etnografia urbana negli Stati uniti (Wacquant, 2002b). L’obiettivo della mia critica non sono i tre
libri su razza e povertà urbana che ho sottoposto a una dissezione analitica (e
ancor meno i loro autori, che sono qui dei semplici punti in uno spazio accademico, o le loro posizioni politiche, che mi sono completamente indifferenti)
bensì un certo atteggiamento epistemologico di resa irriflessa alle concezioni
popolari, al moralismo ordinario, alle seduzioni del pensiero ufficiale e alle regole del decoro accademico. Questa postura è fonte di gravi errori scientifici,
in quanto si tratta di errori sistematici difficili da percepire perché hanno dalla
loro sia il senso comune ordinario sia quello accademico.
Consentire al lettore di esperire i brividi dell’apprendista pugile e rendergli palpabile sia la logica del lavoro di campo sia il suo prodotto finale ha richiesto di adottare una modalità di scrittura quasi teatrale. Come passare dai
pugni all’intelletto, dalla comprensione della carne alla conoscenza del testo?
Ecco un problema reale di epistemologia concreta su cui in generale non si
è riflettuto a sufficienza e che per lungo tempo mi è parso quasi irresolubile
(nonostante i diversi tentativi e le diverse discussioni sull’innovazione formale
e la costruzione poetica tra gli antropologi). Restituire la dimensione carnale
dell’esistenza ordinaria e l’ancoraggio corporeo della conoscenza pratica costitutiva del pugilato – ma anche di ogni pratica, persino quella in apparenza
meno «corporea», inclusa l’analisi sociologica – richiede un completo accantonamento del nostro modo di scrivere scienza sociale. Nel caso in questione,
ho dovuto trovare uno stile che rompesse con la scrittura monologica, monocromatica, lineare della descrizione classica da cui l’etnografo si è allontanato,
per elaborare una scrittura sfaccettata che mescolasse stili e generi, al fine di
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L’habitus come oggetto e come strumento
catturare e di restituire «il sapore e il dolore dell’azione» al lettore (Wacquant,
2002c, pp. 7-11).
Anima e corpo è scritto contro il soggettivismo, contro il narcisismo e l’irrazionalismo che sottende la teoria letteraria «postmodernista», ma far ciò non
significa necessariamente privarsi delle tecniche letterarie e degli strumenti
di esposizione drammatica che questa tradizione ci consegna. Ecco perché il
libro mescola tre tipi diversi di scrittura, amalgamati l’uno all’altro, ma ciascuno dei quali ha priorità in una delle tre parti che compongono il libro. In
tal modo il lettore può passare agevolmente dal concetto al percetto, dall’analisi all’esperienza. La prima parte si radica in uno stile sociologico analitico
classico, identificando sin dall’inizio le strutture e i meccanismi sociali, in
modo da fornire gli strumenti necessari alla spiegazione e alla comprensione
di quel che accade. Il tono della seconda parte è dato dalla scrittura etnografica in senso stretto, vale a dire da una rappresentazione densa dei modi d’essere, di pensare, sentire e agire propri dell’ambiente studiato, di modo che i
meccanismi introdotti nella prima parte vengano qui visti in azione attraverso
gli effetti che essi producono. Il momento propriamente esperienziale arriva
nella terza parte, nella forma di «novella sociologica» che determina l’azione
sentita, l’esperienza vissuta di un soggetto che nel caso specifico è il ricercatore stesso.
La combinazione bilanciata di queste tre modalità di scrittura – quella sociologica, quella etnografica e quella letteraria – in proporzioni che si invertono
durante il corso del libro, mira a consentire al lettore di sentire emotivamente
e comprendere razionalmente le fonti e le modulazioni dell’azione pugilistica.
Perciò il testo intreccia un’anima analitica, stralci di note di campo accuratamente editate, contrappunti composti da ritratti dei protagonisti cruciali ed
estratti di interviste, oltre a fotografie il cui ruolo è quello di facilitare una
comprensione sintetica del gioco dinamico dei fattori e delle forme inventariate
nell’analisi, per dare al lettore la possibilità di «toccare con i propri occhi» il
ritmo battente del pugilato. Qui di nuovo tutti gli elementi di cui si è parlato
si intrecciano: la teoria dell’habitus, l’uso dell’apprendistato come tecnica di
ricerca, la centralità del corpo senziente come vettore di conoscenza e infine
l’innovazione formale della scrittura. In realtà non ha senso proporre una sociologia corporea sostenuta dall’iniziazione pratica se quel che si cerca di rivelare circa il magnetismo sensomotorio dell’universo in questione finisce poi per
sparire nella scrittura, con il pretesto di dover aderire ai canoni testuali dettati
dal positivismo humeano o dal cognitivismo neokantiano.
*
Molti ricercatori ritengono che la teoria sia un insieme di nozioni astratte
che fluttuano alte nel cielo delle idee pure, sconnesse dalla conduzione pragmatica della ricerca, o che costituiscono delle risposte alle questioni empiriche che la ricerca solleva, da ritrovarsi nel mondo reale, come nella cosiddetta «grounded theory». In ogni caso, si tratta di un travisamento della
relazione tra teoria e ricerca e un travisamento del lavoro etnografico in
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Loïc Wacquant
particolare. Che il ricercatore ne sia consapevole o meno, la teoria guida da
sempre il campo d’indagine perché, come ci ha insegnato Gaston Bachelard
(1971), «il vettore della conoscenza va dal razionale al reale» e non viceversa. E tale conoscenza deve necessariamente confrontarsi con l’osservazione per convertirsi in proposizioni circa un’entità empirica realmente esistente. Ciò si applica perfettamente all’habitus, che, come ogni concetto, non
è una risposta a una questione di ricerca ma un modo organizzato di avanzare delle domande sul mondo sociale – nel caso qui descritto, un piano metodico per vivisezionare la formazione sociale del pugile e del suo ambiente
quotidiano.
(Traduzione di Andrea Mubi Brighenti)
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