LETTERA DI UN PRIGIONIERO ALLA SUA
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LETTERA DI UN PRIGIONIERO ALLA SUA
LETTERA DI UN PRIGIONIERO ALLA SUA AMICA DEL CUORE Cara amica mia, sono molti mesi, ormai, che non ti vedo e non ti sento. Che non ascolto la tua voce (o i tuoi silenzi, che di solito sono ancora più forti delle parole che dici), che non vedo la tua figura delicata ed elegante, il tuo profilo nobile da dama rinascimentale. La vita, d’improvviso, ti ha portato altrove, ad assecondare la tua inquietudine, la tua voglia di sperimentare, a seguire il tuo percorso, il tuo destino. Come sei entrata di colpo, senza preavviso, nella mia vita, in un giorno ancora caldo di fine estate, così – sempre all’improvviso – ne sei uscita, in un giorno tiepido di inizio primavera. Ci siamo salutati la sera, e il mattino dopo non ti ho più vista: te ne eri andata via, forse per sempre. Ma io non scorderò mai i mesi che abbiamo passato insieme come compagni di viaggio. Non so se te l’ho mai detto, e se non l’ho fatto prima lo faccio adesso: tu sei la persona che più di ogni altra ha saputo gettare lo sguardo dentro il mio mondo, la mia anima, il mio essere. Hai guardato dove io stesso non ero mai riuscito ad arrivare, nei luoghi a me stesso segreti della mia mente. Mi hai fatto superare il sottile diaframma che separa l’Io cosciente, la mia parte razionale, dall’inconscio, dal serbatoio dove si agitano le emozioni più profonde, dove albergano i ricordi più ancestrali. E’ per questo che ti ho voluto così bene, e te ne voglio ancora. Ti ho sempre voluto, e ti voglio tuttora bene, senza aspettarmi nulla. Senza chiederti nulla. Senza pretendere nulla. Nemmeno che tu risponda a questo messaggio, che forse non ti arriverà mai. Cercando di darti il meglio di me stesso, però senza privare nessuno di niente, anzi trovando la forza per affrontare con più coraggio e con maggiore determinazione le prove che il destino ha disseminato lungo il mio cammino di vita. Ho solo sempre pensato, sin dal primo momento che ti ho conosciuto, che tu fossi una persona straordinaria: profonda, sensibile, intuitiva, misteriosa. Forte, e fragile nello stesso tempo. E comunque davvero unica e irripetibile. Così tu hai aperto subito la porta della mia anima. Anche perché non avevo mai avuto, prima di te, un’amica del cuore, nemmeno quand’ero un ragazzo: non avevo mai conosciuto questo sentimento bellissimo, puro e disinteressato: l’amicizia dal profondo del cuore. Tu me l’hai fatta conoscere, e te ne sarò per sempre grato. Mi hai fatto capire che avevano davvero ragione i greci, ad adoperare addirittura una dozzina di termini diversi per indicare quel sentimento molto ampio e intenso che noi oggi, genericamente, chiamiamo amicizia o amore, a seconda dei casi. Usavano la parola “eros” per indicare l’amore sensuale; il termine “philia” per significare l’affetto profondo fra amici; e il termine “agape” per indicare l’amore 1 incondizionato che lega per esempio i genitori ai figli. Tu mi hai fatto veramente comprendere che cosa volessero dire i greci con la parola “philia”. Mi hai insegnato che amare, in senso generale, non è altro che scegliere una persona a cui ti senti di voler bene non per bisogno né per utilità alcuna, ma per il sentimento di empatia che si prova verso di lei; che amare qualcuno significa volere per quella persona le cose che si ritengono buone, a motivo solo e soltanto di lei, e non per se stessi; ed essere pronti a cercare quelle cose, a perseguirle, a realizzarle, secondo le proprie possibilità. Mi hai anche insegnato che la via del cuore, se la si vuole seguire davvero, può comportare dei prezzi alti da pagare. Però è l’unica via che dà un vero significato alla vita. Questo tuo insegnamento, che ha cambiato il mio modo di vivere, io lo custodirò per sempre dentro la parte più profonda, e più preziosa, del mio essere. Ho deciso di scriverti queste pagine perché ho ancora delle cose per me importanti da dirti, ripensando a un nostro dialogo di tanto tempo fa ormai, quando eravamo andati assieme, in macchina, sulle colline, a un appuntamento che per me era di lavoro e che però, grazie a te, si è trasformato in un momento inaspettato, e illuminante, di conoscenza di me stesso. Quello che ti scrivo ha un carattere molto personale e riservato, come se stessi parlando alla mia confidente più cara (perché tu, in effetti, sei tuttora la mia confidente più cara, e credo che nessuno potrà mai svolgere questo ruolo come hai saputo fare tu). Volevo in particolare confermarti che le parole che mi hai detto nel nostro viaggio in collina, e le immagini che hai usato, hanno lavorato in profondità dentro di me. Ti avevo raccontato, qualche giorno prima, della mia vita, da quand’ero un bambino a Genova (dove sono nato) prima e a Messina (dove ho passato i dieci anni più importanti della mia vita) poi, agli studi liceali e universitari, all’ingresso nel mondo del lavoro, agli sforzi che ho dovuto fare per avviare la mia azienda, alle difficoltà che ho affrontato e superato negli ultimi anni. Ti avevo persino raccontato dell’emozione che provai, da ragazzo, quando potei per la prima volta vedere, in tutta la sua grandiosità, la Via Lattea, la galassia in cui si trova il nostro piccolo pianeta. Ero nel prato davanti al nostro albergo (quello in cui villeggiavo con papà, mamma e mio fratello), alla periferia di un piccolo paese dell’Alto Adige. Era dopo cena, e la notte era calata da poco. Mi allontanai di qualche decina di metri, andando verso un’abetaia che iniziava poco più avanti. Di colpo alzai gli occhi al cielo e vidi la Galassia: migliaia di stelle incastonate nel buio della notte, come una specie di ciclopica collana. Sembrava proprio come pensavano gli antichi, che credevano che il cielo notturno fosse come 2 una sorta di sfondo teatrale, impreziosito da tanti piccoli gioielli. L’emozione fu tale che, per qualche istante, mi venne a mancare il respiro, come se fossi caduto in mare e annaspassi in mezzo alle onde. Rimasi non so per quanto tempo a guardare quel grande mare scuro, quell’oceano silenzioso sopra di me, punteggiato di piccole e baluginanti luci argentate, quell’immenso drappo di velluto del colore della notte, sul quale sembrava che una mano gigantesca avesse gettato, con calcolato senso estetico, una miriade di diamanti. Mi sentivo irresistibilmente attratto da quella specie di fondo marino rarefatto sopra di me, e mi interrogavo sulla vera natura delle stelle, al di là di quello che la fisica ha scoperto su di esse. Perché esistono le stelle? Io ancora oggi continuo a portare con me, in qualche angolo del mio cuore, l’idea - che avevo da bambino, e che mi balzò in mente proprio la prima volta che vidi la Via Lattea - che le stelle rappresentino delle macchine meravigliose per realizzare i sogni e i desideri degli uomini (non è un caso che, quando si guardano le stelle cadenti, si pensi che, esprimendo un desiderio, esso verrà esaudito). Per questo mi piacciono così tanto: perché tengono viva in me la speranza che un giorno, per quanto lontano, i miei sogni si potranno realizzare. Così come quelli di tante altre persone come me. Il sogno di un mondo migliore. Il sogno di una vita in armonia con gli altri e con la natura, di una vita veramente autentica, senza maschere, senza infingimenti. Il sogno di un amore che riesca a rimanere intenso, puro e totale davvero per tutta la vita, nonostante le difficoltà della vita stessa. Le stelle sono dei simboli che ci aiutano a mantenere accesa la fiammella della speranza. La speranza, comune a tutti gli uomini, che il domani possa essere migliore del presente. Tutto questo ti avevo raccontato, amica mia, e molto altro. E tu eri rimasta in silenzio ad ascoltare. Poi, all’improvviso, ti è venuta in mente un’immagine molto vivida. Un’immagine, piena di simboli e di significati, che sembrava tratta da un film o da un romanzo. Se non ricordo male, la scena era più o meno questa. Una cittadina medioevale, probabilmente in Francia, sulle rive di un fiume, molto tempo fa, forse proprio nel Medio Evo. Da una barca scendono tre uomini: due sono vestiti di nero e incappucciati, e portano un prigioniero, il terzo uomo, vestito di bianco e incatenato. Lo conducono, con passo lento e silenzioso, verso il patibolo. A mano a mano che avanzano, la folla presente si ritrae, e si apre in due ali. Il prigioniero cammina rassegnato, a testa alta. Sa che sta andando a morire, ma non sembra voler reagire. Sul suo volto si legge non la paura, non il dolore, bensì una specie di dolce malinconia. In fondo la sua sofferenza stava per terminare. Alla fine il piccolo corteo 3 raggiunge il luogo dell’esecuzione: il prigioniero posa lentamente la testa sul ceppo di legno, mentre uno degli incappucciati alza verso il cielo la mannaia… Ricordo che, non appena tu mi dicesti queste cose, io scoppiai a piangere: avevi letto in profondità dentro il mio animo. Mi avevi riconnesso, dopo tanti anni, con il mio inconscio. Il punto è che, per quanto sembrino lontanissime dalla realtà della mia vita, quelle che tu hai evocato quel giorno sono parole e immagini assolutamente veritiere sul piano psicologico, per via delle quali finalmente ho capito alcune cose molto importanti di me stesso. Ciò che sto per raccontarti è doloroso, e persino drammatico, ma la vita - e quindi anche la psicologia, che della vita dell’uomo è una specie di rappresentazione filmica – è fatta anche di emozioni dolorose e di vicende che lasciano segni profondi. In questo caso, le emozioni dolorose che ho vissuto e i segni indelebili che esse hanno impresso nella mia mente. Tutto è iniziato, nella mia storia, molto tempo fa, quando mio padre (che, come tu ben sai, amavo moltissimo) mi è praticamente morto fra le braccia, dopo una lunga agonia, quando io ero poco più che un bambino. Morì per le complicanze intervenute dopo un banale intervento chirurgico, cui decise di sottoporsi. Io, nei giorni precedenti, avevo avuto un presentimento, però non ebbi la forza di dissuadere mio padre. Ero solo un ragazzino, e non potevo influenzare realmente le decisioni di un uomo maturo, e risoluto, com’era mio padre. Tuttavia, alla notizia della sua morte, un oscuro senso di colpa iniziò a diffondersi, come un veleno, dentro di me. E un terremoto emozionale scosse la mia mente. Il dolore, il senso di impotenza e quello (che all’epoca non avvertivo consapevolmente) di colpa furono così forti che io, inconsciamente, decisi che, da quel momento in poi, mi sarei messo alla ricerca di persone in pericolo, per salvarle, come non ero riuscito a fare con mio papà. O almeno, se non salvarle, dedicare le mie energie a loro. Attenuare le loro sofferenze. Aiutarle nella loro vita difficile. In effetti, in qualche modo, con altre persone ci sarei poi riuscito, lenendo il mio inconsapevole - ma oscuro e potente senso di colpa. Sbagliando, certo, e commettendo anche molti errori. E facendole qualche volta, involontariamente, soffrire. Ma comunque aiutandole, condividendo le loro sofferenze, sostenendole nei momenti difficili. Sotto questo profilo, a modo mio credo di essere riuscito a mantenere la promessa che avevo inconsciamente fatto a mio padre, il giorno terribile della sua morte. 4 La vita, però, non è un film, e non sempre possiamo aspettarci il lieto fine. Nella vita capitano delle cose che la ragione non può prevedere. Capitano cose che ci mettono duramente alla prova, tanto da apparirci ingiuste e incomprensibili. E così, come sai, come ti ho già raccontato, il destino ha voluto che i rapporti affettivi su cui avevo costruito la mia vita, nonostante i miei sforzi, nonostante le mie buone intenzioni, andassero perduti. Il caso, la fatalità, il destino appunto, sono stati più forti di me. Ho dovuto rinunciare a tutto quello che era importante per me. Senza che nessuno lo volesse, senza che nessuno ne avesse colpa. E’ andata semplicemente così. Però adesso mi rendo conto che l’effetto emotivo di queste vicende è stato fortissimo. Per una persona come me, che crede che la vita abbia senso solo nella misura in cui riusciamo ad amare e a essere riamati, la perdita dei rapporti affettivi su cui avevo costruito la mia vita sono stati dei traumi fortissimi. E ora so che, a causa di questi traumi, il mio cuore si è spezzato e io mi sono effettivamente trasformato in quel prigioniero incatenato e incapace di liberarsi, che viene portato al patibolo. L’immagine che tu hai visto, con la tua intuizione, con la tua sensibilità, è estremamente veritiera, pur essendo apparentemente soltanto una metafora. Descrive un incatenamento che è nato da specifiche situazioni, da specifici eventi, ma che poi, col tempo, è diventato più generale e più gravoso. E il rischio che io corro, restando nella metafora, non è quello della decapitazione, bensì quello dello spegnersi della vita nel mio cuore. Non riesco a liberarmi, a spezzare le catene, a scappare dal patibolo che incombe, perché in realtà una parte di me non vuole evitare il patibolo. Anzi in qualche modo lo cerca, perché una rapida decapitazione porrebbe almeno fine alla mia sofferenza. Ora ho coscienza che una parte di me, per smettere di soffrire, vorrebbe che io abbandonassi il campo di battaglia. Che riponessi la mia testa sul ceppo, col sorriso malinconico che tu hai visto sul volto di quel lontano prigioniero medioevale. E’ qui, amica mia, che sta la radice di quel rischio di auto-distruzione che tu giustamente, con grande intuizione, hai visto dentro di me. Grazie alle tue parole, rivivendo gli eventi cruciali della mia vita ho capito che nel mio animo, nella mia mente, si sta svolgendo, da moltissimi anni, una battaglia silenziosa e invisibile tra la parte del mio cuore che vuole ancora vivere e quella che, ferita e sanguinante, vorrebbe che chiudessi gli occhi e smettessi di lottare. Lo scontro è intenso e i segnali, a ben guardare, sono chiari. Il mio legame strettissimo, irrazionale, con gli animali del piccolo zoo che ospito in casa (un cane, un pesce rosso e un criceto) sono un tentativo di compensazione per la mancanza di amore intorno a me. Il mio 5 attivismo fisico e mentale è anche, se non soprattutto, un meccanismo di fuga. Faccio tante cose per non pensare, per tenere la mente occupata, per non soffrire. Sigmund Freud direbbe che è un modo per ingannare Thanatos, tenendo il più possibile vivo Bios. Dietro l’attivismo, la mia vita apparentemente piena è una compensazione rispetto alle conseguenze angosciose della perdita affettiva (è proprio vero, come dici tu, che la verità non è mai soltanto come appare). Se non mi oppongo con fermezza a situazioni che mi fanno sprecare preziosa energia vitale, questa è la spia, il segnale, che il rischio di autodistruzione c’è. Come il fatto che mangio sempre meno, dormo sempre meno, mi riposo sempre meno. Sinceramente non so, amica mia, quale sarà l’esito di questa battaglia. Potrei liberarmi delle mie catene ed evolvere verso un equilibrio migliore, oppure cedere e ritrovarmi sempre più prigioniero di quelle stesse catene, con sempre meno energie per combattere. L’esito dipenderà non tanto dalla mia mente cosciente, quanto dalle condizioni di quell’organo emozionale che è il mio cuore. Non voglio dire il cuore fisico, mi riferisco a quello psicologico. Quello che governa il cuore fisico, gli dà gli impulsi per battere. Una parte del mio cuore emotivo è ferita, forse distrutta per sempre. Ma un’altra parte è ancora viva. Non so quanto è grande, e non so se e come potrà evitare la cancrena che potrebbe sviluppare la parte ferita. Non so se la parte di cuore vivo che mi rimane è abbastanza vita da tenermi veramente in vita. Io lo spero e, per quel che riguarda la mia mente cosciente, cerco di resistere con tutte le mie forze. E le tue parole sono state per me un aiuto prezioso, che non dimenticherò mai. Se ce la farò, sarà stato per merito tuo. In questo senso, posso veramente dire che la mia vita ti appartiene. E’ per questo, amica mia, che quando ho immaginato un simbolo per te, ho pensato subito al fiore. Per me infatti tu simboleggi, e persino incarni, quella forza – allo stesso tempo delicata e potente – che nutre l’Universo (e di cui i fiori sono appunto un simbolo). Proprio come la rugiada che bagna i prati, proprio come la pioggia sottile che cade sulla foresta. Una forza, appunto, nel contempo delicata e potente. Tu simboleggi, e incarni, l’armonia che caratterizza la natura. La natura da cui proveniamo, quella delle nostre origini: la natura pura e primordiale. La natura cui apparteniamo nel profondo del nostro essere, la natura a cui dovremmo tornare. Quella che dovremmo sempre sentire viva dentro il nostro cuore. E di cui, invece, troppo spesso ci dimentichiamo. Tu simboleggi e incarni l’idea orientale della fioritura interiore, che è sempre il risultato di una preziosa alchimia dell’essere: il risultato dell’unione dell’essenza (il concetto cinese di Ching) e del soffio vitale 6 (Ch’i), dell’acqua e del fuoco. Del pieno e del vuoto. Di ciò che è in tempesta e di ciò che è tranquillo. Della forza e della grazia. Un’unione da cui scaturisce un’energia magica che rende il mondo un posto così bello in cui vivere. Un posto così unico nell’intero Universo. Tu rappresenti il ritorno al centro, all’unità, allo stato primordiale di serenità. Al nucleo pulsante del nostro essere. Alle ragioni, e alle forze misteriose, per cui vale veramente la pena di vivere. Ecco perché da mesi ormai, da quando ti ho vista per l’ultima volta, io tengo sulla mia scrivania un fiore di cristallo. E’ il mio modo per ricordarmi sempre di te, per sentire la tua presenza anche se non ci sei. Dunque grazie, amica mia, grazie davvero. E scusami se, senza volerlo, senza rendermene conto, ho fatto qualcosa che ti ha disturbato. Spero tanto che questo mio messaggio ti raggiunga, ovunque tu sia. Ma in ogni caso sono contento di avere scritto queste righe. Perché delle pagine scritte con sincerità e passione, che siano di un libro oppure di una semplice lettera, come sono queste, dovrebbero essere come una nave che riesce a rompere i mari ghiacciati dentro di noi. Per me è sempre stato così: non ricordo giorni della mia adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che ho creduto di trascorrere senza averli in realtà vissuti, quelli che ho passato in compagnia delle pagine più belle dei miei libri prediletti. Ancora oggi posso interrogare quelle pagine, e loro mi rispondono. Parlano e cantano per me. Alcune mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore. Altre mi insegnano a conoscere me stesso e mi ricordano che i giorni corrono veloci e che la vita fugge via. Le pagine dei libri che amiamo servono a capire e a capirsi, e a creare un universo comune anche in persone lontanissime. Sono l’umanità stampata. Sono specchi, e riflettono quello che abbiamo dentro. Non ti danno la felicità, però in segreto ti rinviano a te stesso. Nelle parole che contengono c’è tutto quello di cui abbiamo veramente bisogno: sole, stelle, luna. Ci illuminano, perché la luce che cercavamo vive in realtà dentro di noi, e la parola scritta la accende. Dopo averle lette, la saggezza o la passione che abbiamo cercato a lungo in biblioteca ora brilla al nostro interno. Quelle pagine sono un giardino che possiamo portare sempre con noi, e custodire persino nelle nostre tasche. E il tempo per leggerle, come il tempo per amare, dilata il tempo che abbiamo per vivere. Una pagina scritta è l’unico posto nel quale possiamo esaminare il più fragile dei pensieri senza romperlo, o esplorare un’idea esplosiva senza la paura che ci scoppi in faccia. E’ uno dei pochi paradisi dove la mente dell’uomo può trovare allo stesso tempo provocazione e privacy. Ci conduce nelle profondità della nostra anima e ci apre, di fronte a noi stessi, i nostri 7 segreti. Ma, soprattutto, una pagina scritta è come un faro eretto nel grande mare del tempo. Perché rende in qualche modo immortale quello che viene impresso su di essa. E ogni volta che si legge una pagina scritta tanto tempo fa avviene come una magia: quel mondo, il mondo che ha ispirato quella pagina, la sua storia, le sue idee, i suoi personaggi, i suoi protagonisti, prendono di colpo vita, a distanza di anni, di secoli, persino di millenni, e ci appaiono di fronte nella loro pienezza, nella loro essenza, nella loro verità. Ecco perché sono contento di avere scritto queste poche pagine. Perché raccontano gli effetti delle tue parole come io le ho capite, come io le ho interpretate, come io le ho vissute. E sono contento al pensiero che forse qualcuno, fra molti anni, leggendo queste righe potrà far rivivere la tua presenza. Sentirla dentro di sé, come io l’ho sentita dentro di me. Sentirla nella sua pienezza, nella sua essenza, nella sua verità, per quanto soggettiva. E, proprio per questo, ogni volta unica e irripetibile. Proprio come sei tu sei stata, e sempre sarai, per me. Con eterna amicizia (philia) Alessandro ALESSANDRO AMADORI 8