Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Il cinismo di un agente di borsa privo di scrupoli e pieno di denaro, ispirato al libro autobiografico di Jordan
Belfort, del tutto lucido e 'onesto' nel raccontare senza alcun pentimento i dettagli di una vita di eccessi, sesso,
droga e lusso sfrenato, specchio di un momento – gli anno Ottanta – che ha visto molti giovani precipitare nella
corruzione contagiati da un delirio di avidità, con il miraggio dei soldi a palate prospettato dalle oscillazioni di
una borsa malata. Un film che non giudica, mostra.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musica:
scenografia:
costumi:
distribuzione:
180 MINUTI
USA
2013
MARTIN SCORSESE
JORDAN BELFORT
TERENCE WINTER
RODRIGO PRIETO
THELMA SCHOONMAKER
HOWARD SHORE
ELLEN CHRISTIANSEN
SANDY POWELL
01 DISTRIBUTION
interpreti:
LEONARDO DICAPRIO (Jordan Belfort), JONAH HILL (Donnie Azoff), MARGOT
ROBBIE (Naomi Lapaglia), MATTHEW MCCONAUGHEY (Mark Hanna), KYLE CHANDLER (Patrick Denham), ROB
REINER (Max Belfort), JON FAVREAU (Manny Riskin), JEAN DUJARDIN (Jean-Jacques Saurel), CRISTIN MILIOTI
(Teresa Petrillo), JON BERNTHAL (Brad), ETHAN SUPLEE (Toby Welch), SHEA WHIGHAM (Il capitano Ted
Beecham), SPIKE JONZE (Dwayne), BEN LEASURE (Brantley), MICHAEL JEFFERSON (Wolfpack), CHRIS RIGGI (Party
Broker), JOANNA LUMLEY (Aunt Emma).
premi e riconoscimenti:
Oscar 2014, nomination Miglior film, Miglior regia a Martin Scorsese, Miglior
attore a Leonardo DiCaprio, Miglior attore non protagonista a Jonah Hill,
Miglior sceneggiatura non originale.
Golden Globes 2014, nomination Miglior attore in un film brillante a Leonardo
DiCaprio, Miglior film brillante, Miglior attore in un film brillante a Leonardo
DiCaprio.
BAFTA - 2014, nomination Miglior regia a Martin Scorsese, Miglior attore a
Leonardo DiCaprio, Miglior sceneggiatura non originale.
Martin Scorsese
Martin Scorsese nacque nel 1942 nel Queens. I suoi nonni erano arrivati in America da Polizzi Generosa e da
Ciminna, in provincia di Palermo. Dopo qualche anno la famiglia deve tornare a Manhattan, nella Little Italy,
dove Scorsese vive una difficile adolescenza a causa della sua forte asma e della sua piccola statura. Costretto a
vivere chiuso in casa ed emarginato dai coetanei, si appassiona al cinema, in particolare quello neorealista e
western, rifugiandosi peraltro anche nella fede religiosa. Inizia a disegnare storyboard di film immaginari,
mostrando i disegni solamente al suo migliore amico. Verso il 1956 studia per diventare prete, ma cambia presto
idea e nel 1960 si iscrive al corso di cinematografia della New York University, dove dirige i suoi primi
cortometraggi in 16 mm, tra cui La grande rasatura, corto simbolo per un'intera generazione di cineasti della
New Hollywood.
Il suo primo lungometraggio ha una gestazione complicata. Dopo interruzioni e cambiamenti, il film esce nel
1969 con il titolo Who's That Knocking at My Door?, interpretato da Harvey Keitel e realizzato insieme alla
produttrice Barbara De Fina e la montatrice Thelma Schoonmaker, chemonterà tutti i film di Scorsese.
Nel 1970 partecipa alla realizzazione del film documentario Woodstock e dirige il documentario militante Scena
di strada 1970, riguardante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam.
Agli inizi degli anni settanta va a Hollywood a lavorare con Roger Corman e gira un film cui pensava da anni,
Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno, che racconta gli antieroi della Little Italy conosciuti fin da
ragazzino. Scorsese ricorre ad una fotografia cupa e claustrofobica, con un regia che fa largo uso di musica
popolare ed evidenzia contrasti e contraddizioni della vita dei gangster. Il film segnò l'inizio della prolifica
collaborazione di Scorsese con Robert De Niro, presentatogli da Brian De Palma. Nel 1974 esce Alice non abita
più qui (1974) con cui di saper mettere in scena anche un punto di vista femminile. Lo stesso anno gira il
documentario Italoamericani (1974), una lunga intervista ai suoi genitori.
Tornato a New York, Scorsese legge la sceneggiatura scritta da Paul Schrader dal titolo di Taxi Driver (1976),
un'immersione nella mente distorta di un reduce dal Vietnam che non riesce a reinserirsi nella società. Il film che
ne deriva è considerato un capolavoro e uno dei film cardine della New Hollywood. Il film, interpretato da uno
strepitoso De Niro, vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes del 1976.
Nel 1977 gira un musical, New York, New York (1977), con Robert De Niro, affiancato da Liza Minnelli. Il film è
però considerato un flop e provoca a Scorsese una grave depressione, da cui non si risolleva nemmeno girando
un documentario di grande successo sul gruppo musicale The Band, dal titolo L'ultimo Valzer (1978).
Dopo un ricovero e una lunga convalescenza si riprese grazie a De Niro che gli propose di girare Toro scatenato
(1980). Girato in bianco e nero, è considerato uno dei migliori film del cinema americano.
Nel 1985 Scorsese gira un piccolo film indipendente, Fuori Orario. Segnato da un grottesco humour nero è una
rappresentazione vicina all'incubo della vita notturna dei quartieri di New York. Il film vince la Palma d'oro per la
miglior regia al Festival di Cannes del 1986.
Dopo il grande successo derivato dal film 'su commissione' Il colore dei soldi, con Paul Newman e Tom Cruise, il
regista pensa a una trasposizione de L'ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, che riesce a realizzare nel
1988 con un budget modesto. Contestato da molti cristiani, il film è diventato con gli anni un cult, anche per la
celeberrima colonna sonora composta da Peter Gabriel.
Nel 1989 Scorsese partecipa al film collettivo New York Stories, con Francis Ford Coppola e Woody Allen. Nel
1990 gira Quei bravi ragazzi (Goodfellas), grandissimo successo di pubblico e di critica.
Nel 1991 accetta una produzione più commerciale, dirigendo Cape Fear - Il promontorio della paura.
Il successivo è L'età dell'innocenza (1993), opera in costume ambientata alla fine dell'ottocento nell'alta
borghesia newyorkese, connotato da una straordinaria ricchezza di dettagli visivi e da una profonda analisi dei
rapporti amorosi dell'epoca.
Nel 1995 realizza Casinò, basato su una storia vera, con protagonisti Sharon Stone, Robert De Niro e Joe Pesci,
epopea di quasi tre ore sulla nascita ed il declino delle bande criminali a Las Vegas.
Dopo Kundun, del 1997, dedicato alla vita e all'esilio del Dalai Lama, e Al di là della vita, del 1999, torna a un
grande successo con Gangs of New York (2002). Girato quasi interamente a Cinecittà, definito da Scorsese stesso
come uno degli ultimi grandi kolossal realizzabili in studio. Il film vede la sua prima collaborazione con DiCaprio,
che interpreta anche il successivo The Aviator, ad oggi il film più costoso di Scorsese, premiato con ben 5 Oscar.
Nel 2006 Scorsese realizza The Departed, sempre con DiCaprio, oltre che con Matt Damon. Il film procura a
Scorsese il suo primo Oscar come miglior regista. Nel 2010 esce nelle sale la quarta collaborazione con DiCaprio:
Shutter Island, un thriller psicologico.
Nel 2011 dirige Hugo Cabret, che celebra il cinema e la vita e il genio di Méliès.
Il sodalizio con Leonardo Di Caprio riprende nel 2013 con l'adattamento cinematografico di The Wolf of Wall
Street.
La parola ai protagonisti
Intervista a Martin Scorsese
Come mai ti sei avvicinato a un personaggio così estremo e negativo?
Volevo raccontare la storia di qualcuno che non avesse fatto nulla di particolarmente rilevante o interessante,
insomma non un genio tipo Michelangelo, non un santo e nemmeno un Mao o uno Stalin, e che al tempo stesso
fosse una persona poco nobile, non un esempio da seguire. E non perché sia una persona malvagia, che vuole far
del male a qualcuno, ma perché a sua volta non ha avuto buoni modelli da seguire. Sono sempre stato attratto da
questo tipo di personaggio, che ha assorbito dall'ambiente che lo circonda un influsso negativo, come il
personaggio interpretato da Joe Pesci in Quei bravi ragazzi. Sono persone da cui si tende a prendere le distanze, a
dire “io non sono così”, ma in realtà secondo me non sono diverse da noi. Sono solo nati e cresciuti in circostanze
diverse. Forse se fossimo stati al loro posto fin dall'inizio ci saremmo comportati esattamente nello stesso modo.
Quel che intendo dire non è che siamo tutti responsabili di quello che altri fanno, ma che dobbiamo confrontarci
con quella parte di noi che è in tutti, qualcosa che è comune all'intera umanità.
Quello che pare strano ad alcuni spettatori è l'assenza di giudizio
Questa persona in particolare ritiene di poter bypassare l'etica, di scambiarla con un mix di denaro e droghe, e
forse è ancora così, non lo so, alla fine la cosa che mi incuriosiva non era questo ma il suo modo di raccontare
tutto quello che fa. Io non lo farei mai, anche se mi comportassi come lui non lo racconterei in giro e questo
aspetto è quello che però te lo avvicina, lo rende curioso e perfino divertente. Lo guardi e pensi che sia uno
spasso e infatti è così, le persone che gli stavano intorno se la sono davvero spassata. E quello che ho cercato di
fare è stato evitare di dare giudizi, ma mostrare che sì era divertente, sempre più divertente, così divertente che
alla fine non lo era più affatto.
Il tuo personaggio sembra rappresentare un momento di decadenza culturale oltre che economica
Essendo una persona interessata alla storia, rimango meravigliato del fatto che accadano continuamente le
stesse cose. Ci sono periodi di boom economico, grande euforia, tutti pensano che diventeranno ricchi e ogni
cosa andrà bene. Poi avviene il crollo e si capisce che soltanto pochi si sono arricchiti e a spese degli altri. E’
accaduto nell’età dell’oro alla fine del XIX secolo. E’ avvenuto nel 1929. E’ capitato nel 1987, l’epoca in cui si
svolge il nostro film. E così è successo nel passaggio tra questo e lo scorso secolo, quando è esplosa la bolla delle
dot.com. Poi, è capitato nuovamente nel 2008. Magari accadrà ancora e presto.
Sei stato criticato per aver messo in scena tanti eccessi.
Dovevo avere una libertà totale di fare quello che serviva con il cast e la troupe, insomma dovevamo arrivare
all’estremo. E’ una storia profana che si oppone al sacro, l’osceno si contrappone all’onestà. Tuttavia, non è un
atto di denuncia. L’oscenità e lo scandalo sono presenti e ben evidenti, anche perché fanno parte della nostra
cultura. Tuttavia, ritengo che tutto questo faccia parte di uno stile di vita, lo ‘stile di vita dei ricchi e famosi’, come
direbbe una trasmissione televisiva, che ti porta a evitare te stesso e ad avere paura di restare solo con te stesso.
Ci sono un mucchio di scene di nudo, letteralmente dozzine di persone nude che corrono in giro. Hai diretto tu
queste scene o se ne occupava una seconda unità?
No, no, c'ero. ero lì. A un certo punto arrivi a 70 anni e ti limiti a dire: ok, nel film ci saranno scene di nudo e di
sesso. Giriamole, che volete farci? Giriamole e basta. Non vi preoccupate, poi al montaggio sistemerò tutto, non
spaventatevi. Detto questo, non ho idea da dove venissero tutte quelle persone. Onestamente non ne avevo
idea, non serviva che io lo sapessi, mi limitavo a dire: ok, loro vanno bene, metteteli lì. Poi avevo un grande
assistente regista, Adam Sumner, che solitamente lavora con Ridley Scott, aveva appena lavorato a Exodus, ma
anche a Lincoln e War Horse di Spielberg, quindi... era l'uomo giusto! Entra e fa: 'ok, la cinepresa la piazziamo qui
come vuole Scorsese. Piazziamo le cose sconce qui, qui e qui.' Poi è arrivato il coreografo e abbiamo ideato le
scene di sesso e le cose sconce...
Piccolo glossario del film
Blue Chip
azioni, normalmente di una grande azienda, note per i profitti importanti e affidabili in qualsiasi momento, quelle
che la Stratton Oakmont vende all’inizio per entrare nel campo dei grandi investitori.
IPO
Offerta pubblica iniziale, le prime azioni messe in vendita da una società, di solito una
giovane azienda pronta a espandersi, un’opportunità di ingannare il pubblico sulla
situazione economica della società e sul suo potenziale.
Lemmon
soprannome della più potente forma di methaqualone – più conosciuto come Quaalude – il sonnifero molto
utilizzato negli anni ottanta e noto per il suo effetto rilassante e ipnotico. Preso in grande quantità, può
provocare forme di delirio e convulsioni. La Lemmon Pharmaceuticals ha interrotto la produzione negli anni
ottanta e alla fine le scorte si sono esaurite.
Penny Stock
azioni dal basso prezzo e dai rischi alti, che sono sottoposte a una regolamentazione superficiale. Storicamente,
sono quelle più sensibili ai piani “pump and dump”.
Pump and Dump (“Pompa e sgonfia”)
Una tipica truffa finanziaria, in cui una società “pompa” delle azioni con false promesse e dati più accattivanti
rispetto al reale, fino a quando la domanda non si alza e fa aumentare il prezzo, per poi ‘sgonfiare’ le proprie
azioni e farne crollare il valore. Un modello molto utilizzato nell’attività di Jordan Belfort.
Pink Sheets (“Fogli rosa”)
I fogli rosa pubblicati ogni giorno e che indicano i prezzi delle penny stocks. Il termine viene utilizzato anche per
indicare una prostituta economica.
Talpa
Un prestanome utilizzato da investitori poco onesti, per acquistare azioni che non possono comprare
direttamente per motivi legali.
Recensioni
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
Si fa prima a dire cosa non è. Non è un racconto con morale sui danni che si combinano manovrando azioni e
promuovendo investimenti truffaldini. Non è un atto d’accusa contro la finanza e la Borsa, intese come forze del
male che distruggono il mondo. Non è un manifesto che gli attivisti di Occupy Wall Street possano sottoscrivere.
Non è un manuale per broker senza scrupoli che vogliano arricchirsi come Jordan Belfort. Non è un risarcimento
per le vittime cadute nella trappola. Non parla di redenzione o di pentimento (anche se il vero Jordan Belfort
dopo averlo visto ha parlato di “esperienza catartica”, già peraltro sperimentata mentre scriveva il libro, uscito da
Rizzoli con il titolo “Il lupo di Wall Street”: non è certo lui lo spettatore che Martin Scorsese aveva in mente). Son
tre ore in cui Leonardo DiCaprio dà il meglio di sé, sperimentando ogni stile di recitazione. Istrionico quando
arringa la sua truppa di venditori-telefonisti. Ingenuo quando per la prima volta viene invitato a pranzo in un
ristorante di lusso e mentre il suo mentore Matthew McConaughey sniffa lui non ordina neanche una birra.
Debosciato quando arruola prostitute di gran lusso a dozzine. Comico – anzi slapstick – nella scena in cui manda
giù pastiglie di Quaalude d’annata, che fanno il loro devastante effetto con ritardo: la risalita in macchina e il
ritorno a casa sono da antologia della depravazione (con un salvataggio in extremis che ricorda la puntura di
adrenalina in “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino). Parolacce a raffica: sono stati contati 500 “fuck” che però
nell’originale francamente non si notano, fusi come sono nei dialoghi. Sesso e ammucchiate, anche in pubblico.
Cocaina. Lancio di nani contro il bersaglio. Esportazione di capitali con la complicità dei banchieri svizzeri. Prime
mogli tradite e seconde mogli trofeo.
Leonardo DiCaprio si è divertito. Magari un po’ troppo, giacché era anche produttore: sul set improvvisavano
parecchio e la montatrice Thelma Schoonmaker avrebbe potuto tagliare qualcosa in più (comunque, meglio
questa generosità di certe storielle stiracchiate). (...) Dichiaratamente di parte: è lo stesso Belfort che racconta la
sua storia rivolto allo spettatore, interrompendosi quando sta per scivolare su materie tecniche (“inutile spiegare,
basterà sapere che non era legale”).
Mossa cinematograficamente astuta, che però offre il fianco alle polemiche. Rivolte al regista, all’attore, allo
sceneggiatore Terence Winter che aveva scritto “I Soprano” (boss mafiosi che sostengono di lavorare allo
smaltimento rifiuti) e “Boardwalk Empire” (gangster ad Atlantic City). Non proprio due storie edificanti, ma in
quel caso nessuno – a parte qualche italoamericano – ha avuto da ridire. Dev’essere Wall Street che infiamma gli
animi, e che impedisce di godersi “The Wolf of Wall Street” per quel che è: un film pieno di energia, scatenato,
travolgente, adrenalinico, sopra le righe, volgarissimo e vitale, su un truffatore che alla fine risulta molto più
fascinoso del Gordon Gekko di Oliver Stone.
Mauro Gervasini. FilmTV n. 3/2014
Jordan Belfort entra a Wall Street dalla porta principale, ma il giorno sbagliato. Il 19 ottobre 1987 è infatti il
famigerato “lunedì nero”, quando i mercati crollarono come non accadeva dal 1929. Non era che l’inizio,
verrebbe da dire pensando al “poi” della Lehman Bros., nel 2008, ma intanto il povero virgulto, con la prospettiva
di doversi riciclare chissà dove, sbarca nel New Jersey e dal niente, in perfetto stile “self made man”, s’inventa la
più stupefacente società di top rider della borsa americana.
Dove la parola chiave è “stupefacente”. Se l’incipit di un film corrisponde all’iniziazione del protagonista, e un po’
a quella dello spettatore, Martin Scorsese prende alla lettera l’assunto e ci scaraventa in una specie di prologo
dove Matthew McConaughey impartisce le due sole regole fondamentali per chi sogna di diventare Gordon
Gekko. La prima la scoprirete da soli vedendo il film (dove le parole chiave sono “da soli”); la seconda si chiama
cocaina. McConaughey, si parva licet, è il Méliès di The Wolf of Wall Street, una specie di mago che maneggia la
realtà e insegna come convertirla in illusione (e viceversa). Perché la finanza è fatta della stessa materia dei sogni.
Quelli di Jordan si realizzano tutti: ricco da far paura, strafatto oltre ogni possibilità umana, fino all’inevitabile
declino, all’accusa di frode e al carcere. Tutto vero: l’uomo, agitatore di borsa celeberrimo, ha scritto le sue
memorie dalle quali attingono Scorsese e lo sceneggiatore di Boardwalk Empire, Terence Winter. Il risultato è un
film rutilante, puro Scorsese al 100% come non capitava dai tempi di Casinò (1995), modello sì insuperabile ma al
quale si avvicina irresistibilmente perché questa cosa qui, montata in questo modo qui, la sa fare solo il regista di
Quei bravi ragazzi (...). Senza più l’alibi morale del crimine, la dipendenza del “lupo di Wall Street” finisce per
riguardarci tutti (per intenderci, siamo esattamente noi quelli un po’ ebeti che guardano DiCaprio nel finale più
bello e agghiacciante dell’anno) perché ricchezza e avidità creano un’assuefazione contagiosa e inebriante. Tra i
momenti di cinema assoluto, la lunga parte delle telefonate sotto allucinogeno, con la coca al posto degli spinaci.
Roberto Escobar. L'Espresso
Come si vende una penna? Non magnificandone le qualità, né il valore d'uso. Un accorto venditore sa che basta
far credere al compratore che gli serva. E un modo per farglielo credere si trova sempre. Questo, alla fine dei
rampanti anni Ottanta, capisce e mette in atto lo svelto ventenne Jordan Belfort, sia quello della cronaca
finanziaria e criminale, sia quello di "The Wolf of Wall Street" (Usa, 2013, 179'). Tratto dalle memorie dell'agente
di Borsa americano, il film di Martin Scorsese e dello sceneggiatore Terence Winter ne racconta l'ascesa veloce e
la veloce caduta, tra frodi, sesso e droghe d'ogni tipo. L'avventura inizia di fatto il 19 ottobre 1987, il lunedì nero
di Wall Street. Crollato il mercato finanziario ufficiale, il neo broker (Leonardo DiCaprio) ci riprova con quello
semiclandestino, vendendo azioni senza valore ai poveri. Poi capisce che può venderle con maggior profitto ai
ricchi, sempre in coerenza con la metafora della penna. (...) La sua particolarità, semmai, sta nella necessità di
recuperare alla svelta lo svantaggio rispetto ai concorrenti: quello di non essere guidata da figli e nipoti e
pronipoti di antichi lupi fondatori (...). Simili ai goodfellas mafiosi di "Quei bravi ragazzi" (1990), Jordan e i suoi
compagni amano l'eccesso, ed eccessivo, ma nel senso migliore, è il cinema di Scorsese. In un certo senso, gira il
suo film in corsa. I dialoghi, le situazioni, il montaggio, tutto è come fosse visto e raccontato direttamente dai
protagonisti. Non c'è, o non sembra esserci, una moralità esterna. È il trionfo indiscusso e indiscutibile
dell'avidità, e insieme quello di uno stile di vita. La Stratton Oakmont è l'America, dice Jordan. Ma si illude,
almeno in parte. E infatti a lui accade quello che agli altri lupi più blasonati, e più wasp, non accade. L'Fbi lo
indaga, lo incastra, lo costringe a collaborare, lo fa condannare e ne chiude la carriera. Tutto il resto non cambia.
E in fondo nemmeno lui. Abbandonata la Borsa, torna a far soldi tenendo corsi "motivazionali". Detto altrimenti:
insegnando a vendere penne sul mercato dei gonzi. Perso il pelo, il vizio resta.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
Impossibile parlare di The Wolf of Wall Street, candidato a svariati Oscar (fra cui miglior film, regia e miglior
attore), senza tener conto del dibattito che ha acceso negli Stati Uniti. Il cui nocciolo è il seguente: è moralmente
corretto portare sullo schermo, senza alcun (almeno apparente) filtro critico, le plateali gesta di un truffatore
tossicomane e sessuomane? Non si rischia di farne la celebrazione? Soprattutto se il film è firmato da un maestro
del cinema come Martin Scorsese e se il personaggio è impersonato da un divo con la faccia d’angelo come Leo
DiCaprio.
Dopo averci dato in pellicole come Quei bravi ragazzi e Casino uno spaccato indimenticabile del microcosmo
mafioso, il cineasta ci introduce ora nel mondo della finanza corrotta tramite un suo vero protagonista, Jordan
Belfort, autore del libro di memorie (edito da Bur) cui si ispira la sceneggiatura di Terence Winter (anch’essa
nominata). Dove il lupo del titolo, in realtà un affarista d’assalto mai entrato nel salotto buono di Wall Street,
racconta della sua ascesa e caduta sull’arco del decennio 1987/1997, confessando di sé con allegra impudicizia la
sete di potere, la brama di denaro, gli imbrogli e il dissoluto stile di vita fra orge, alcool, e droghe pesanti a
volontà.
La nostra impressione è che Scorsese sia rimasto colpito non tanto dal personaggio, quanto dal quadro d’insieme
che emerge dallo spaccato di vita. Una società dove un tipo del genere può crescere e prosperare, portandosi
come un debosciato nella sicurezza di restare impunito, è una società scoppiata, una società in piena fase di
decadenza; e, per rispecchiarla, il film non poteva che essere demenziale, grottesco, eccessivo. (…) Sniffando,
fornicando a volontà e fomentando in lunghe tirate i suoi accoliti, DiCaprio incarna il protagonista in chiave di
straripante vitalismo come se volasse su una montagna russa, restando un personaggio che si risolve tutto
nell’azione. Ma nel loro rutilante squallore, alcune scene di questo film sferzante seppur disuguale rimarranno
nella storia del cinema.
Paolo D'Agostini. La Repubblica
E’ stato Di Caprio a fissarsi nell’idea di portare sullo schermo la storia di un vero gangster-finanziere, vedendo
nella sua parabola la metafora della sfrenata corsa all’arricchimento degli anni 80-90. Ma non è un film
moralizzatore come Wall Street di Oliver Stone. È una full immersion nella pazza biografia di “un Caligola
moderno”. A suo modo candido e innocente, malgrado il non fermarsi di fronte a nessuna sfrenatezza, a nessun
eccesso, a nessuna bulimica manifestazione del più feroce reclamare tutto e subito, intransigente nell’applicare
un coerente vademecum di rapina, nella fedeltà a una sicura religione: prendere a tutti all’unico scopo di
arricchire se stesso fino a scoppiare. Rappresentazione della bolla finanziaria che del surplus energetico del
protagonista - da cartone animato, da comica finale - fa il proprio codice estetico. L’effetto è travolgente,
malgrado le tre ore di durata. Ma tanta sfrontatezza, e tanta comicità, non sembrano appartenere a Scorsese. (...)
Marzia Gandolfi. Mymovies.it
Jordan Belfort è un broker cocainomane e nevrotico nella New York degli anni Novanta. Assunto dalla L.F.
Rothschild il 19 ottobre del 1987 e iniziato alla 'masturbazione' finanziaria da Mark Hanna, yuppie di successo col
vizio della cocaina e dell'onanismo, è digerito e rigettato da Wall Street lo stesso giorno in seguito al collasso del
mercato. Ambizioso e famelico, risale la china e fonda la Stratton Oakmont, agenzia di brokeraggio che
rapidamente gli assicura fortuna, denaro, donne, amici, nemici e (tanta) droga. Separato dalla prima moglie,
troppo rigorista per reggere gli eccessi del consorte, Jordan corteggia e sposa in seconde nozze la bella Naomi,
che non tarda a regalare due eredi al suo regno poggiato sull'estorsione criminale dell'alta finanza e la ricerca
sfrenata del piacere. (...)
Alla fine di un film di Scorsese ci si convince ogni volta che non si possa andare più in là, che non ci sia più spazio
per un'altra inquadratura dopo l'immersione subacquea de Le royaume des fées (Hugo Cabret), che non ci sia un
altro sguardo ammissibile dopo gli occhi celesti di un orfano dietro agli orologi e aggrappati alle lancette che
scandiscono l'unico tempo che può vivere. Poi vedi The Wolf of Wall Street, commedia nera e stupefacente senza
redenzione, e ti accorgi che è possibile. Navy Seal del cinema, Martin Scorsese si spinge daccapo oltre e questa
volta negli angoli oscuri dove vivono le cose (molto) cattive e dove ingaggia una battaglia ad alto volume con gli
avvoltoi di Wall Street, immorali gangster ma socialmente più accettabili di un gangster.
Jordan Belfort, trader compulsivo impegnato a consumare (letteralmente) il mondo, è in fondo il fratello di quel
bravo ragazzo di Henry Hill (Ray Liotta in Goodfellas), che proprio come lui non è frutto dell'immaginazione ed è
materia prima su cui si edifica il film. Recitato in prima persona da Leonardo DiCaprio, imperiale nella
performance e imperioso nel film, The Wolf of Wall Street afferra in piena e frontale autarchia un personaggio
incontinente e talmente brillante che non smette di rilanciare e sperimentare i suoi limiti. Alla maniera del suo
'eroe' le immagini di Scorsese, brillanti e smaniose, sature e vuote, si rigenerano con la costanza di un moto
perpetuo, svolgendo l'oscenità bestiale del mondo della finanza e proseguendo la sua analisi antropologica
sull'avidità attraverso l'economia americana. Scrupoloso studioso di ambienti, di cui L'età dell'innocenza è il
vertice incomparabile, Scorsese introduce in un'ouverture rapida e vorticosa l'universo degli operatori finanziari,
un regno delirante e fuori controllo che fa fortuna a colpi di bluff e di transizioni più o meno legali, che pratica il
piacere e il cinismo dentro un programma quotidiano di feste decadenti popolate da spogliarelliste, puttane, nani
volanti e bestie da fiera. Un'orgia senza fine e senza altra ragione che perseverare nella perversione e nel vizio
del denaro e della droga, il primo serve per ottenere la seconda. Così per 'montare' il toro furioso di Wall Street
Jordan Belfort tira la cocaina, per restarci in equilibrio ingoia sedativi.
Se si vuole accedere nei luoghi di The Wolf of Wall Street è necessario seguire la 'striscia' bianca e mettere in
conto la tachicardia, un'accelerazione di ritmo e un aumento della frequenza delle immagini, in cui non si può
fare a meno di leggere l'esperienza psicotropa e autodistruttiva che ha segnato la vita del regista e lasciato
un'impronta indelebile nel suo cinema. Una conoscenza estrema e febbrile della 'materia' che ha forgiato il suo
stile, l'eccitabilità della macchina da presa, il montaggio vertiginoso e incalzante, le atmosfere paranoiche, quelle
ansiogene e quelle insonni. Gli abusi degli anni Settanta poi hanno prodotto un'identificazione primaria tra il
giovane Scorsese e Jordan Belfort, di cui l'autore coglie assai bene i comportamenti ossessivi e la grottesca
esuberanza, figurando un personaggio irrecuperabile, che cavalca ininterrottamente una cresta isterica e amorale
fino al punto di rottura, un'onda di trenta metri che lo inghiottirà senza inghiottirlo davvero mai. Perché Belfort,
in cima al suo yacht o sul palco(scenico) del suo ufficio, è un eruttante 're del mondo', di un serraglio di animali
selvaggi e predatori. Lupo, leone (il logo della sua azienda e della sua immagine pubblica), toro (l'emblema di
Wall Street), scimmie in stato di eccitazione permanente, ubriachi di potere e dipendenti da tutto. Scorsese non
fa sconti, figuriamoci lezioni morali, per quelle rimandiamo a Oliver Stone e Michael Moore, rinunciando a
qualsiasi forma di empatia col suo personaggio, escludendo la traccia sentimentale di Casinò, la storia di un 'asso'
che costruisce un impero per offrirlo a sua moglie, e mettendo in scena niente altro che la pura e semplice
ambizione di dilapidare il mondo senza scrupoli e senza rimpianti.
The Wolf of Wall Street è (anche) lo stand-up di un buffone, corruttibile e corrotto leader di una gang
disfunzionale, da cui emerge l'ambizione smisurata del trader di Jonah Hill, grande improvvisatore e habitué della
commedia 'per adulti' a cui Scorsese regala una delle sequenze più prodigiosamente oscene e fuori misura del
film. Maître in materia di cinismo e profitto personale resta nondimeno Jordan Belfort, che il regista riduce a un
verme paralizzato dall'abuso di una sostanza chimica, costretto a strisciare fino alla sua vettura, vittima di
un'umiliazione che ha contribuito a creare. Un uomo impossibile da redimere che quando infine cade non ha che
un'idea nella testa: ricominciare. Un imperatore moderno e wellesiano, che fallisce il successo ed è un fallito di
successo, senza 'Rosebud', traumi infantili o segreti da scoprire. Oscillante tra picchi e crisi, ansiolitici ipnotici e
droghe stimolanti, The Wolf of Wall Street agisce direttamente sulla chimica cerebrale dello spettatore, che
rimane con una penna in mano e la rivelazione di qualcosa di mostruoso e appassionante sulla natura umana.
Scorsese ripete la magia, questa volta nera e distruttiva.