le bussole / 37 - Facoltà di Medicina e Psicologia

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le bussole / 37 - Facoltà di Medicina e Psicologia
LE BUSSOLE / 37
PSICOLOGIA
1a edizione, febbraio 2002
© copyright 2002 by Carocci editore S.p.A., Roma
Finito di stampare nel febbraio 2002
per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino
isbn 88-430-2114-1
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
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Gaetano De Leo
Patrizia Patrizi
Psicologia della devianza
Carocci editore
Il volume è stato pensato e progettato congiuntamente dai due autori. Materialmente, Gaetano De Leo ha redatto i parr. 1.3.2, 1.4, il
cap. 3 e i parr. 4.1-4.3, 4.4; Patrizia Patrizi ha redatto i parr.
1.1-1.3, 1.3.1, 1.3.3, 1.5, 4.3.1 e il cap. 2.
Indice
1.
Per capire
7
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
Devianza e criminalità 7
I primi tentativi di spiegazione 7
Il contributo della psicologia 8
L’azione deviante comunicativa 28
Percorsi di devianza e carriere 36
Per riassumere... 45
2.
Per conoscere, valutare e trattare 47
2.1. Le applicazioni dei modelli di analisi 47
2.2. Gli accertamenti valutativi 54
2.3. La costruzione dei programmi di intervento 64
Per riassumere... 81
3.
Per prevenire 83
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
Dall’individuazione dei rischi allo sviluppo di competenze 83
La promozione dei sistemi autoregolativi 88
I contesti della prevenzione 92
Analisi e valutazione dei progetti di prevenzione 99
Per riassumere... 102
4. Per investigare 103
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
La psicologia nelle indagini giudiziarie 103
L’analisi della scena del crimine 104
La psicologia investigativa 110
L’analisi vittimologica 117
Per riassumere... 120
Bibliografia
123
5
1. Per capire
1.1. Devianza e criminalità Al pari di altre condotte che richiamano l’interesse dello studioso, la devianza si caratterizza per la
problematicità che produce sul piano sociale. Si esprime attraverso
comportamenti il cui significato spesso sfugge ai tentativi di comprensione anche per le caratteristiche di apparente imprevedibilità
o, al contrario, di determinata pianificazione che li connotano. Ci
stiamo riferendo alla devianza di tipo criminale. È importante questa precisazione poiché il termine “devianza” contiene molteplici
significati accomunati dallo scostamento rispetto a norme stabilite
o a normalità statistiche. Ma diversi sono i possibili contesti che definiscono la norma e la normalità – biologici, sociali, culturali, di
interazione – e diverso il livello di tale definizione – formale o informale, codificata o delegata a una tradizione non scritta. Il contesto al quale colleghiamo il termine “devianza” in questo volume fa
riferimento al complesso di norme codificate (codice penale) che
stabilisce quali comportamenti debbano essere considerati delinquenziali o criminali. Pertanto, nel testo utilizzeremo alternativamente termini come devianza, delinquenza o criminalità, riferendoci a questa iniziale precisazione.
1.2. I primi tentativi di spiegazione Capire la devianza è
un’impresa scientifica che sembra spesso risolta da molte teorie, ma
che sempre continua a sfuggire, a riproporsi come sfida. Perché il
comportamento criminale è un tipico comportamento dell’uomo
sociale, complesso e, a suo modo, unico e irripetibile.
Le ipotesi esplicative, che nel tempo si sono avvicendate, non sempre hanno riconosciuto tale complessità, definita sia dall’estrema
differenziazione dei comportamenti, sia dalle caratteristiche situazionali e interattive che stanno alla base della singola condotta.
I primi studiosi si sono posti l’obiettivo di ricercare fattori “certi”, e
a qualche livello oggettivabili, di una presunta anormalità del delinquente. Ci riferiamo, in particolare, alle teorie costituzionaliste e
agli studi di stampo psichiatrico. Le prime, proposte da Lombroso
7
e dal positivismo criminologico, hanno postulato l’esistenza di una
stretta correlazione tra la condotta deviante e alcune caratteristiche
somatiche o particolari anomalie del corredo cromosomico. Allo
stesso filone appartiene l’ipotesi che la presenza di un deficit neurologico o ghiandolare possa essere considerata quale base costituzionale di azioni socialmente riprovevoli. Elemento principale di tali
teorie è la questione dell’ereditarietà nello sviluppo della delinquenza.
Se queste teorie hanno conferito credito scientifico al binomio
“brutto-cattivo”, retaggio di credenze popolari, un altro filone di
studi ha proposto di considerare l’atto criminale come la risultante
di specifiche condizioni psicopatologiche. Questi studi hanno potuto a lungo attrarre il pensiero scientifico sia per la “facilità” dell’osservazione, svolta prevalentemente sul piano clinico all’interno
delle strutture penitenziarie, sia per l’agevole corrispondenza con
l’idea di senso comune che la malattia mentale proponga contenuti
di pericolosità particolarmente vicini a quelli presenti nel comportamento criminale. Anche sulla base di un sostanziale errore metodologico commesso nella conduzione delle ricerche – studio del crimine noto (e non anche di quello sommerso, non scoperto) in assenza di un gruppo di controllo – è stata così avvalorata l’opinione
comune secondo la quale follia e criminalità rappresentano aspetti
combinati, quasi inscindibili, della medesima realtà. Studi successivi hanno tuttavia contribuito a smentire l’assolutezza di tale ipotesi,
suggerendo come la presenza di un quadro psicopatologico definito, nei termini di un disturbo di tipo psicotico o psicopatico, sia associata di frequente a condotte violente, non costituendo, tuttavia,
la determinante prevalente di quei comportamenti che, peraltro,
rappresentano solo un ambito estremamente circoscritto del fenomeno criminale (non tutti i comportamenti criminali sono caratterizzati da violenza e, anche in quest’ultimo caso, come interpretare
la “violenza per commissione”, ad esempio, del mandante di un
omicidio?).
1.3. Il contributo della psicologia Gli studi appena citati rappresentano il passato delle teorie sulla devianza; un passato che ancora produce interesse per l’esigenza di differenziare i comporta8
menti “normali” da quelli che si discostano dalle attese sociali, ma
che si rivela deludente nella sua stessa capacità di rendere conto di
quei comportamenti.
È a partire da questo sfondo che il contributo psicologico allo studio
della devianza si è sviluppato, producendo, dopo una prima fase di
tendenziale vicinanza alle impostazioni precedenti, una rottura di
grande rilievo concettuale: ricercare entro ambiti di normalità gli
ingredienti dell’agire deviante, interrogandosi su quali dimensioni
siano in grado di spiegare i complessi rapporti fra persona e comportamento. Proveremo, di seguito, a ripercorrere tali sviluppi.
Una prima area di elettivo interesse psicologico è stata l’esplorazione delle capacità cognitive e dei tratti di personalità del delinquente. L’ipotesi, suggerita agli inizi del Novecento, che la devianza fosse riconducibile a deficit intellettivi non ha trovato conferma negli
studi successivi, che invece hanno posto l’accento sulle difficoltà di
apprendimento spesso presenti nel giovane delinquente, frequentemente riconducibili a situazioni di deprivazione affettiva e di disadattamento sociale piuttosto che a deficit interni. Altrettanto dibattuto è stato il concetto di “personalità delinquenziale” considerata
come tipologia di personalità omogenea e invariabile rispetto a ogni
tipo di reato. Alla base di questo concetto vi era l’individuazione,
da parte di alcuni autori, di tratti specifici di personalità, come immaturità, mancanza di adattamento, inadeguatezza, indifferenza affettiva, debolezza dell’Io, che sembrarono poter essere collegati stabilmente con comportamenti devianti. Le più recenti acquisizioni
in campo psicologico hanno dimostrato la limitatezza di tale assunzione, in cui appare disconosciuto il carattere dinamico ed evolutivo del concetto di personalità e la sua matrice tipicamente interattiva (la personalità si sviluppa sempre all’interno di contesti e rapporti; Caprara, Gennaro, 1994).
Una teoria che in campo psicologico ha avuto una notevole importanza è quella della “frustrazione-aggressività”. Secondo tale teoria
la caratteristica principale dei delinquenti sarebbe la loro minore
capacità di tolleranza alle frustrazioni. Questi contributi sono andati incontro a non poche critiche, prevalentemente per l’impossibilità di individuare un rapporto meccanicistico, di causa ed effetto, tra
frustrazione e aggressività. L’aggressività, infatti, è solo una delle
9
numerose risposte possibili. Di fronte alla frustrazione l’individuo
può reagire in diversi modi, frutto delle mediazioni – attivate a livello cognitivo, emotivo, culturale – con cui l’evento frustrante viene soggettivamente considerato, anche e con particolare riferimento alla presenza di altri, alle possibili sanzioni, alle conseguenze anticipate (se, ad esempio, la macchinetta erogatrice nega il caffè senza restituire le monete, l’eventuale calcio è conseguenza della frustrazione o un tentativo di smuovere un meccanismo inceppato? Si
tratta quindi di un comportamento aggressivo o strumentale? Ancora, daremmo un calcio in presenza di altri? Di quali altri? Cosa
avviene se l’utente frustrato è uno studente e l’osservatore della scena il preside? Cambia qualcosa se ad osservare è un amico?). In riferimento al rapporto frustrazione-aggressività, va senz’altro ricordato il contributo di Thomas, il quale ha evidenziato quattro bisogni
che possono essere fonti potenziali di frustrazione perché, talvolta,
in conflitto fra loro: il bisogno di sicurezza, di fare nuove esperienze, di avere risposte da parte degli altri e di ottenere il loro riconoscimento. Secondo Thomas, la frustrazione di tali bisogni, quando
supera certi limiti, potrebbe favorire l’ingresso in comportamenti
antisociali, devianti, specie nei giovani.
Nell’approccio psicologico va collocato il contributo offerto dalla
psicoanalisi che, sia pure non applicata in maniera specifica allo studio del crimine, può considerarsi una delle prime teorie che si sia
posta l’obiettivo di fornire un modello interpretativo legato alla
struttura psicologica e ai meccanismi dinamici dell’uomo piuttosto
che alla diversità patologica. L’essere umano, secondo Freud, padre
della psicoanalisi, sarebbe per sua natura antisociale e si adeguerebbe solo per timore o convenienza. L’antisocialità, e con essa i comportamenti criminali, sarebbe quindi la condizione originaria comune, sempre pronta a manifestarsi in situazioni in cui le inibizioni
perdono di efficacia. Centrale, per comprendere tale ipotesi, la funzione svolta dalle istanze della personalità individuate da Freud:
l’Es, la parte pulsionale, legata agli istinti; il Super-io, quale istanza
di censura e controllo (una sorta di giudice interno), l’Io con un
ruolo di connessione fra le esigenze poste dalle prime due istanze e
la realtà esterna. Quando le pulsioni primarie di soddisfazione degli
istinti (Es) riescono ad avere la meglio sulle spinte opposte verso la
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conformità sociale (Super-io), si verificano i comportamenti criminali o asociali da parte dell’individuo. In tale ottica assume un ruolo centrale il processo di identificazione con le figure dei genitori,
fondamentale per la realizzazione di una struttura di personalità socialmente adattata.
Nella prospettiva di Alexander e Staub, il crimine è interpretabile
come riduzione di efficacia del controllo da parte del Super-io. Secondo questi due studiosi tale circostanza darebbe vita a varie forme di criminalità in base al livello di efficacia residuale del Superio. La “delinquenza occasionale” si verificherebbe in circostanze
particolari (ad esempio in caso di delitti passionali) quando si delineano situazioni favorevoli allo svincolo dall’istanza interna di controllo. Nella “delinquenza normale” il Super-io perde completamente la sua capacità di controllare le spinte pulsionali, ed è alla
mancanza del senso di colpa che può essere attribuita l’emergenza
del comportamento criminale. Ancora vanno ricordate: la “delinquenza fantasmatica”, coerente con un comportamento socialmente corretto perché agita sul piano della fantasia, come, ad esempio,
attraverso l’identificazione con il criminale protagonista di un film;
la “delinquenza colposa”, dove l’imprudenza, la negligenza o l’imperizia (le categorie indicate dal codice penale per definire i reati
colposi, ad esempio guidare la macchina senza averne la competenza o non mettendo in atto tutte le misure previste) agiscono come
atti mancati, che sfuggono, cioè, al controllo del Super-io.
L’interpretazione psicoanalitica del crimine prende in considerazione anche la maturazione e l’efficacia dell’Io, attribuendo a tale
istanza una responsabilità nel comportamento criminale, quando
diminuisce la sua capacità di dilazionare le pulsioni. Anche l’Es può
rappresentare un elemento significativo per lo sviluppo del crimine
nella misura in cui le spinte pulsionali da esso prodotte risultano
particolarmente incontenibili. E, d’altro canto, un Super-io estremamente rigido può diventare la causa di reazioni istintuali incontrollate: una sorta di fuga.
Quelli appena riportati sono esempi di come il contributo psicologico si sia mosso alla ricerca degli aspetti che possano spiegare l’agire deviante. Gli sviluppi successivi hanno proseguito per questa via,
prendendo progressivamente le distanze dall’ipotesi di nessi deter11
ministici fra personalità e comportamento e sostenendo l’impossibilità di differenziare il deviante dal resto della popolazione.
Per sintetizzare la fisionomia di tali sviluppi, utilizziamo un criterio
ordinativo recentemente proposto da Ferracuti e Newman (1987),
che individuano tre ampi filoni in base alla spiegazione prevalente
al loro interno: spiegazioni basate su fattori intrapersonali stabili,
caratteristiche dell’individuo tendenzialmente immutabili; fattori
intrapersonali mutevoli, quindi soggetti a cambiamento in funzione dello sviluppo individuale e dell’azione ambientale; fattori interpersonali, con una centratura sulle dimensioni interattive. Al primo
filone appartengono gli studi dotati, attualmente, di minore capacità esplicativa rispetto alla devianza; le ipotesi che intendono ricondurre l’agire trasgressivo a tipologie e tratti di personalità, o a fattori
innati, come quelli genetici o tipicamente istintuali. Il secondo filone rivolge l’attenzione agli aspetti maturativi dell’individuo, alle dinamiche intrapsichiche, ai conflitti interni che possono generarsi in
relazione alle richieste ambientali. Il terzo filone privilegia il terreno
delle relazioni all’interno delle quali l’individuo è inserito; rientrano in questo ambito le teorie sulle dinamiche familiari e sui processi
della socializzazione, sia primaria (quella che si realizza dalla nascita
e nella prima infanzia) che secondaria (l’acquisizione di ruoli e posizioni sociali che ha luogo a partire dall’adolescenza).
1.3.1. Chiavi di lettura L’uomo è un essere sociale e i piani da consi-
derare per comprendere i suoi comportamenti vanno oltre il livello
intrapsichico. Il sociale rappresenta un terreno di studio importante e, come molte teorie hanno dimostrato (De Leo, Patrizi, 1999a),
svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza del comportamento
criminale. È a partire da questa premessa che si sono mossi nuovi
itinerari scientifici ai quali hanno contribuito una serie di concetti,
alcuni tipicamente riferibili all’ambito psicologico, altri provenienti da diversi settori del sapere applicati al problema della criminalità, in particolare la sociologia e la sociologia della devianza. Illustriamo di seguito quei concetti che hanno rappresentato le sollecitazioni più attive rispetto alla definizione degli attuali ragionamenti teorici.
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Già alla fine dell’Ottocento, Durkheim aveva postulato la funzionalità del crimine considerandolo, al pari di altri fenomeni, come
“fatto sociale”, che assolve, cioè, a particolari esigenze della società:
rendere visibili i confini del possibile, permettendo a chi non devia
di sentirsi dalla giusta parte e anticipare la morale futura (fatti perseguiti come devianti in una particolare epoca storica evidenziano
discrasie, conflitti o incoerenze sociali che produrranno, in epoche
successive, nuove normazioni, per così dire, di sanatoria o adeguamento al mutare dei tempi). La funzionalità del crimine manterrà
nel tempo interesse teorico e le teorie marxiste ne sottolineeranno
l’utilità sociale (è la presenza del criminale a giustificare lavori socialmente apprezzati come quello del giudice, dei “carcerieri”, di
noi stessi studiosi; ma, ancora ad esempio, la creazione e l’installazione di sistemi d’allarme e tutto l’insieme della produttività associata a questi e ad altri lavori di contrasto della criminalità e di prevenzione delle sue conseguenze): la dannosità del crimine non annulla la sua utilità, la prima è costantemente evidenziata e consente
di sottacere la seconda.
Negli anni quaranta Sutherland scopre la criminalità dei “colletti
bianchi” (quella effettuata all’interno di coperture istituzionali che
proteggono gli autori della devianza dal rischio di essere scoperti);
successivamente, si parlerà di criminalità dei “colletti blu”, i tecnici
(chi può assicurare che la cifra pagata al meccanico sia corrispondente alla riparazione effettuata? l’incompetenza tecnica del cliente
gli impedisce di controllare l’operato, e il tecnico può farla franca).
La rilevanza di tali scoperte non sta solo nell’allargamento delle forme di devianza riconosciute, ma nella messa in crisi delle caratteristiche (povertà, degrado, abbandono, psicopatologia, deficit intellettivi) fino ad allora considerate tipiche del deviante, perché rilevate su quella fetta di criminalità ristretta in carcere. Più tardi, alla
fine degli anni sessanta, Dennis Chapman individua l’«immunità
differenziale», quel criterio di selettività che opera discriminando i
soggetti in base alla loro provenienza sociale e alle loro opportunità,
altrettanto differenziali, di trasgredire la norma (la commessa guarderà con occhio più attento la zingarella mentre, forse, la signora
cleptomane potrà agire indisturbata; ancora, sarà diverso il rifornimento di droghe e il rischio di essere presi a seconda dei luoghi di
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incontro con lo spacciatore: il vicolo di un quartiere degradato e
sotto controllo di polizia o il salotto di una villa al riparo da sguardi
indiscreti): il crimine noto rappresenta solo una parte del fenomeno
(studi successivi parleranno addirittura di una percentuale non superiore al 10%); le caratteristiche dei criminali conosciuti mostrano le
condizioni che rendono probabile l’arresto e le conseguenze della detenzione (si pensi a molti comportamenti appresi o perfezionati proprio in carcere) ma non spiegano le origini della devianza.
È sempre Sutherland a parlare di «associazioni differenziali», indicando le condizioni con cui si strutturerebbe un’adesione a gruppi
subculturali, attraverso la priorità, l’intensità, l’intimità di contatto
con altre persone che adottano valori non conformi e l’approvazione di conseguenti comportamenti da parte del gruppo assunto a riferimento. Una teoria che non ha saputo fornire spiegazioni sufficienti all’insorgenza della devianza, ma che ha abbozzato un concetto fra i più rilevanti: la devianza è un processo che si costruisce nel
tempo e all’interno di relazioni.
L’ottica della devianza come processo si fonda su una serie di contributi teorici, fra i quali assumono centralità gli studi sull’identità
negativa e quelli sui processi di etichettamento. L’identità negativa,
in particolare, è intesa come il risultato delle risposte svalutanti e
degli atteggiamenti di scarsa fiducia provenienti dagli adulti. Definito cattivo, incapace, diverso, l’adolescente si conformerebbe a tali
aspettative, identificandosi con l’immagine trasmessagli attraverso
le interazioni significative. Pensiamo a un ragazzo che, per difficoltà
socializzative temporanee, attui comportamenti disapprovabili. Gli
adulti possono interrogarsi su tali comportamenti rinviando al ragazzo il significato di negatività della sua azione o di lui come persona: è diverso dire “hai commesso un’azione cattiva” o “sei cattivo”. In quest’ultimo caso il messaggio rivolto alla persona può innescare un processo di ribellione che, di fatto, finisce per perpetuare
proprio quello stile di negatività che l’intervento dell’adulto vorrebbe modificare (Bandini, Gatti, 1987): è la profezia che si autoavvera.
Ma se l’ipotesi dell’identità negativa ha rivolto l’attenzione all’età
adolescenziale, altri studi hanno rilevato meccanismi che intervengono ad attivare processi di devianza indipendentemente dalla fase
di sviluppo. In questa prospettiva, vanno ricordati i concetti di “de14
vianza primaria” e “devianza secondaria” (è solo la seconda, che interviene successivamente alla reazione da parte degli altri e al riconoscimento pubblico della persona come deviante, a comportare
per il soggetto una riconsiderazione di sé e del proprio ruolo sociale, favorendo l’acquisizione di quello sanzionato) e l’ipotesi della
devianza come “evoluzione di percorsi rischiosi” (azioni al limite,
messe in atto nella convinzione di poterne controllare gli esiti, che
poi evolvono in direzioni non più invertibili; Lemert, 1981). Un filo
conduttore: le definizioni pubbliche sanciscono il significato di devianza e lo status di deviante; è il processo dell’etichettamento.
Ma il deviante non svolge un ruolo passivo all’interno del processo;
in ogni momento accoglie i significati che provengono dall’esterno
filtrandoli rispetto a quelli che soggettivamente attribuisce. Per
questo, per comprendere la devianza è necessario osservarne il processo “dal di dentro”, dal punto di vista di chi lo vive. Così si muove parte della sociologia della devianza americana negli anni sessanta. I principali rappresentanti sono David Matza (1976) e Howard
S. Becker (1987) che, nello studio della devianza, privilegiano il
punto di vista dei protagonisti (approfondiremo questa prospettiva
nei paragrafi successivi). In questa stessa direzione, agli inizi degli
anni ottanta è stata avanzata l’ipotesi della «deprivazione relativa»
(Lea, Young, 1984). In contrasto con le molte teorie che hanno inteso ricercare cause oggettive dell’insorgenza del crimine (la povertà, la malattia, le mancanze affettive, il contagio sociale), il concetto di deprivazione relativa impone di considerare il modo in cui le
persone interpretano e utilizzano le proprie condizioni di vita attraverso i confronti che continuamente effettuano con altre persone di riferimento, con i propri percorsi precedenti, con le attese rispetto alla prospettiva futura. Quando tale confronto risulta fallimentare per sé, la persona sperimenta malcontento e a tale vissuto
può essere ricondotta la scelta del comportamento deviante: le condizioni di vita assumono rilevanza causale alla luce dei significati
autoattribuiti.
Un’indicazione specificamente psicologica proviene dagli studi sulla comunicazione umana. L’impossibilità di non comunicare è acquisizione certa, e il comportamento rappresenta una potente forma comunicativa. In questo senso, come hanno affermato i teorici
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di stampo sistemico-relazionale, i comportamenti malati e non
conformi si rappresentano come sintomo di disagi altrimenti inespressi, per incapacità di chi li vive ad affrontarli, per le difficoltà di
gestione da parte dei sistemi di appartenenza (la famiglia, la scuola,
il gruppo degli amici, il contesto di lavoro): la devianza è una forma
di comunicazione.
Un contributo prezioso proviene dall’approccio strategico che considera i comportamenti problematici come “tentate soluzioni” a
realtà percepite come minacciose o ritenute altrimenti ingestibili.
La problematicità non sta nel comportamento agito, ma nella sua
ripetizione a fronte di insuccessi in termini di funzionalità della
scelta: comprendere la devianza comporta l’assunzione del punto di vista del suo autore. Analizzeremo più approfonditamente questo
aspetto quando parleremo di carriere.
Sulla base dei concetti appena illustrati e dello sviluppo antideterministico seguito dalla psicologia nel suo insieme, l’importante acquisizione degli studi più recenti consiste nella valorizzazione delle
dimensioni cognitive, interattive e di significato del comportamento umano, alla luce delle quali riconsiderare e delimitare le condizioni di causalità affermate dai primi studi sul crimine.
Tornando al criterio ordinativo, precedentemente introdotto, è
possibile individuare un quarto filone, quello che ha spostato l’interesse specificamente sul comportamento deviante: non più il piano
della psiche, dunque, e delle sue dinamiche interne, ma il piano sociale, dove queste e altre dimensioni appartenenti all’individuo –
sotto il profilo cognitivo, emozionale e degli stili di relazione appresi nel corso della socializzazione – interagiscono con le situazioni
che l’individuo incontra, con i significati sociali di quelle situazioni,
con la reazione degli altri, con la norma che preesiste al comportamento deviante definendolo come tale.
1.3.2. L’interazione sociale È all’interno di quest’ultima area che si
sono sviluppate le proposte teoriche rivelatesi più feconde rispetto
all’obiettivo di analizzare e comprendere l’agire deviante. Il primo
impulso, in questa direzione, viene offerto dall’interazionismo simbolico, che pone come centrale, ai fini della comprensione e dell’analisi sia del singolo comportamento che del fenomeno deviante, lo
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studio dell’interazione; un’interazione in primo luogo simbolica
perché caratterizzata dai significati che gli esseri umani attribuiscono alle loro azioni reciproche. Secondo tale approccio, le persone
non si comportano semplicemente sulla base della loro struttura di
personalità o di quanto appreso attraverso il loro ambiente, né, altrettanto semplicemente, reagiscono alle azioni degli altri, ma agiscono e rispondono in base al significato che attribuiscono a quelle
azioni. Per comprendere tale affermazione, può essere utile richiamare la teoria dello sviluppo della mente e dell’uomo, come essere
sociale, elaborata da George H. Mead (1966), padre di questo filone
di studi.
Mead definisce la mente come un insieme formato da tre strutture
che risultano interdipendenti tra loro: l’Io, il Me, il Sé. Il Me è il
prodotto di ciò che gli altri provano e sentono nei nostri confronti,
o meglio, di ciò che noi pensiamo che gli altri provino e sentano; è
quell’istanza che si trova a valutare le aspettative degli altri considerati come punti di riferimento. L’Io svolge una funzione organizzativa del rapporto fra gli stimoli provenienti dall’organismo (gli
istinti, le pressioni interne) e la realtà esterna. È dalla ininterrotta
“comunicazione” tra queste due strutture che si forma il Sé, fondamentale per l’autoriconoscimento e quindi per l’assunzione di identità. Secondo Mead, il Sé di ogni individuo rappresenta il risultato
dell’interazione fra il soggetto stesso e gli “altri significativi”, coloro
che costituiscono il suo ambiente di relazioni primarie (la madre, il
padre, progressivamente i vari adulti importanti). La condotta sociale rinvia al sistema di relazioni e di rapporti all’interno dei quali
la persona si confronta continuamente con la propria esperienza interiore e con l’appartenenza a un gruppo sociale. Per la nascita del
Sé sono necessarie due condizioni: la capacità di produrre simboli e
rispondere ad essi; la capacità di assumere gli atteggiamenti degli
altri.
Soltanto quando un individuo raggiunge la capacità di designare
con simboli gli oggetti dell’ambiente circostante, è in grado di definire il Sé come uno di questi oggetti. Il minimo requisito è il nome,
che è dato da altri e in seguito usato dall’individuo stesso; altro requisito è l’uso dei pronomi: io, me, il mio. Inoltre, quando il soggetto, grazie alle relazioni nelle quali si trova impegnato in forme
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progressivamente più allargate, riesce a interiorizzare nel medesimo
tempo gli atteggiamenti, le opinioni di tutti gli altri che sono coinvolti nello scambio relazionale, diviene capace di dialogare non solo
con altri “particolari”, cioè quelli a lui più vicini, ma con l’Altro generalizzato. Con questa nozione Mead si riferisce alla comunità o al
gruppo sociale organizzato. L’individuo così assume gli altri nella
propria mente e giunge alla sicurezza che, per tutti, il mondo ha lo
stesso significato. Esemplificativo, a questo proposito, appare il passaggio, nell’esperienza del bambino, dal play (il gioco puro e semplice) al game (gioco organizzato). Nel primo il bambino interpreta
ruoli e vive situazioni giocando, prevalentemente, dentro la cornice
del proprio mondo di fantasia, senza che sia necessaria la presenza
di altri (è facile pensare a scene in cui più bambini giocano, anche
contemporaneamente, senza interagire; l’interazione è fra se stesso e
il gioco cui si è data vita: la bimba che gioca a fare la mamma vestendo e accudendo una bambola o che fa la maestra con un’immaginaria scolaresca, qualche foglio di carta a mo’ di registro ed azioni
e reazioni ai comportamenti che lei stessa fa mettere in atto a ipotetici scolari). Nel gioco organizzato (una partita di calcio, ad esempio) il focus è sull’interazione; per giocare ciascuno deve muoversi
anticipando le mosse degli altri e ipotizzando gli scenari prodotti
dalle proprie mosse; stare nel gioco significa includere il punto di
vista di tutti gli altri partecipanti, saper ipotizzare le proprie mosse,
osservare quelle appena effettuate come importante fonte di informazione su ciò che potrà avvenire. Stiamo parlando delle due capacità tipicamente umane: la capacità di anticipazione e quella di autoriflessione. Attraverso quest’ultima, l’individuo diviene in grado di
farsi oggetto a se stesso: scriviamo queste pagine pensando, mentre,
contemporaneamente, oggettiviamo il nostro pensiero attraverso lo
scritto; nello stesso tempo, dialoghiamo mentalmente con quelli
che saranno i possibili lettori, provando ad assumere le loro esigenze conoscitive, gli interrogativi cui, in queste pagine, cerchiamo di
dare qualche risposta (anticipazione).
La caratterizzazione primaria del Sé è proprio la possibilità di essere, nel medesimo momento, soggetto e oggetto. L’essere umano,
trovandosi a condurre giorno per giorno la propria vita in un mondo che è caratterizzato dalla coesistenza con altri essere umani, ac18
quisisce esperienza di se stesso non in maniera diretta, ma solo in
modo indiretto, basandosi sugli atteggiamenti e sulle opinioni che
gli altri membri del gruppo nutrono nei suoi riguardi; proprio per
questo motivo il Sé è una struttura sociale che sorge nell’esperienza
sociale. L’interazione sociale permette al soggetto di sviluppare
quelle capacità che gli sono proprie e soprattutto quelle che sono
connesse con la possibilità di dare un’interpretazione ai propri gesti
e prevedere quali potranno essere le conseguenze di una specifica
azione; questo è reso possibile dalle caratteristiche riflessive, interpretative e anticipatorie proprie della mente umana.
A partire da tali presupposti, l’interazionismo simbolico non considera la devianza come problema sociale dato, del quale si devono ricostruire le cause nel legame tra fattori sociali, culturali, psicologici
e genetici, ma si pone l’obiettivo di comprendere i meccanismi attraverso i quali la devianza viene individualmente prodotta e socialmente definita. Questa prospettiva concepisce la devianza come il
risultato di un processo interattivo tra:
• il soggetto che compie delle azioni;
• le norme che definiscono tali azioni come illecite;
• la reazione sociale alle infrazioni di tali norme;
• il controllo sociale;
• la riconsiderazione di sé da parte del soggetto.
Si riscontra, in questo approccio, una visione dialettica della realtà.
L’interazionismo simbolico, infatti, va oltre la ricerca delle cause lineari e immediate della criminalità, non si limita a studiare le caratteristiche del soggetto che delinque o le condizioni sociali che possono portare alla delinquenza, ma allarga il campo di indagine all’interazione tra processi di definizione, discriminazione e comportamento non conforme, ai meccanismi della reazione sociale, ai
processi di etichettamento e di esclusione, fino a comprendere gli
organismi di controllo sociale.
Il grande merito della proposta interazionista è di aver messo in
luce l’azione di rinforzo e di amplificazione della devianza da parte
delle istituzioni preposte alla prevenzione, al trattamento e al controllo. L’istituzione, infatti, interagisce con l’individuo che infrange
le norme, con le modificazioni che avvengono nel suo Sé, nella sua
identità sociale (in seguito alle etichette, ad esempio, “è un delin19
quente”) e con le risposte comportamentali riconducibili a questi
meccanismi. Considerando la devianza e la criminalità come risultati di processi dinamici di interazione sociale, l’interazionismo
simbolico ha, da una parte, restituito complessità al fenomeno, dall’altra, dato impulso agli studi successivi sul concetto di “azione”;
studi che, come vedremo, si sono rivelati particolarmente utili a
spiegare la devianza.
Persona, ambiente, condotta Una prospettiva psicologica che si
muove entro criteri di tipo interazionista è rintracciabile nei recenti
sviluppi della teoria sociale cognitiva di Albert Bandura (1986), che
ha offerto un importante contribuito all’avanzamento degli studi
sulla devianza. Il nucleo centrale della teoria di Bandura ruota attorno alle nozioni di determinismo triadico reciproco, di human
agency (“agentività” umana), perceived self efficacy (autoefficacia
percepita) e moral disengagement (disimpegno morale).
Con la nozione di determinismo triadico reciproco Bandura intende affermare che le azioni messe in atto da un individuo sono sempre il risultato di un’interazione reciproca fra persona, ambiente e
condotta. Qualsiasi cosa una persona pensi o voglia può generare
un comportamento che inciderà sull’ambiente circostante; allo stesso modo, il luogo o la situazione fisica nella quale il soggetto si trova ne influenzeranno i pensieri, le aspettative, gli affetti e, di conseguenza, il suo comportamento; quest’ultimo imporrà, a sua volta,
modifiche sia sull’ambiente che sulla persona stessa. L’elemento di
assoluto interesse nel determinismo triadico reciproco sta proprio
nella funzione innovativa che Bandura assegna al comportamento.
Nell’attenzione delle scienze sociali, infatti, il comportamento è
stato prevalentemente considerato come un prodotto riferito, a seconda dell’impostazione, a determinanti provenienti dalla persona
o dal suo ambiente: è la classica disputa fra le concezioni innatiste e
quelle ambientaliste. La teoria sociale cognitiva afferma un’importante reimpostazione concettuale: il comportamento è un prodotto
della persona e dell’ambiente ma, contemporaneamente, è un loro
produttore, dal momento che le azioni individuali incidono sull’ambiente, modificandolo, e sulla persona che si ritrova a confron20
tarsi con quelle azioni come espressioni materializzate delle proprie
competenze e abilità.
All’interno di questa cornice assume centralità il significato che
Bandura attribuisce all’espressione human agency: una tipica proprietà della mente umana, per cui essa è in grado non solo di reagire
a stimoli esterni (ambiente) e psico-biologici (persona), ma anche
di agire attivamente nel mondo. Il termine “agentività” sta a indicare la capacità dell’individuo di intervenire in senso causale sulla
realtà. È questo il significato della mente “proattiva”, di un individuo che agisce sia sul proprio mondo interno che sull’ambiente,
trasformando entrambi; lo fa non solo a partire dalle sue precondizioni (la sua storia, le sue caratteristiche di personalità) ma, e soprattutto, in funzione delle sue anticipazioni. Le principali caratteristiche che compongono la proattività della mente possono essere
così identificate:
• la capacità di simbolizzare: l’individuo è in grado di trasformare
le esperienze in simboli, di tipo sia verbale che immaginativo; è in
questo modo che si formano i modelli interni che, applicati alle situazioni successive, consentono di dare significato e continuità al
rapporto tra l’individuo e le sue esperienze;
• la capacità di anticipazione: la persona si muove nella realtà di
cui è parte anticipando gli eventi futuri e le loro conseguenze;
• la capacità di apprendimento per imitazione: che permette di
aumentare il proprio bagaglio di competenze, e quindi di comportamenti possibili, senza dover sperimentare sulla propria persona
alcun tipo di azione, ma osservando quelle altrui;
• la capacità di autoriflessione: l’individuo costantemente osserva
e analizza se stesso, le proprie esperienze e i processi del proprio
pensiero;
• la capacità di autoregolazione: che consente di orientare il proprio comportamento in funzione di obiettivi e standard personali e
delle circostanze ambientali.
L’altra componente centrale, proposta da Bandura, è l’autoefficacia
percepita (Bandura, 1996). Diversa dall’autostima, che si riferisce a
un giudizio globale che la persona elabora su di sé, e dall’autocompetenza, riferita alla consapevolezza di abilità, l’autoefficacia indica
la convinzione che una persona ha di saper orchestrare con successo
21
un corso di azioni in vista del raggiungimento di un obiettivo. Il
concetto di autoefficacia, quindi, si definisce in riferimento al rapporto della persona con specifici corsi di eventi e situazioni. Inoltre
l’accento è posto sulla percezione che la persona ha della propria efficacia personale, sulle convinzioni che ha sviluppato, e che costantemente può accrescere, di essere in grado di fronteggiare determinati eventi sapendo monitorare l’equilibrio fra le proprie risorse interne ed esterne e le richieste dell’ambiente. Tali convinzioni incidono sull’esito del corso di eventi attivando nella persona impegni
realisticamente coerenti con le risorse su cui la persona stessa sa di
poter contare in rapporto alle opportunità che l’ambiente è in grado di offrire.
L’ultimo elemento da considerare è il disimpegno morale, studiato
da Bandura allo scopo di individuare quali strategie utilizzano gli
individui per svincolarsi dalle norme e dalle responsabilità (Caprara, Malagoli Togliatti, 1996). Il presupposto è che, nel corso del
processo socializzativo, gli individui sviluppano standard morali ai
quali riferiscono le proprie scelte comportamentali. Movendosi all’azione la persona deve, per certi versi, fare i conti con tali standard
e, quando essi contrastano con gli obiettivi che la persona stessa si
propone, è possibile una sorta di svincolo, una strategia di autoesonero che mette a tacere l’imperativo morale per consentire l’azione:
è questo il meccanismo del disimpegno. Si tratta di un processo cognitivo-sociale che non interviene in forma giustificatoria dopo l’azione, ma che ne precede la realizzazione, consentendola, ne accompagna il corso, la rilegge in modo favorevole al suo autore sganciandolo dalle responsabilità che l’azione implica. Un forte e costante utilizzo di questi meccanismi sembra correlato positivamente
a un probabile orientamento verso la devianza. In altri termini, l’esercizio di disimpegno ripetuto nel corso di più episodi di devianza
sembra intervenire nel mantenere attiva, nella percezione del soggetto e rispetto ai propri standard morali, la possibilità stessa della
trasgressione.
Prima di Bandura, David Matza aveva analizzato processi simili definendoli «tecniche di neutralizzazione della norma»; tali tecniche
consisterebbero in forme di razionalizzazione del comportamento
deviante – non giustificative, ma preesistenti e contemporanee al
22
comportamento stesso – tese a colmare la distanza socialmente definita fra questo e i valori condivisi. Fra queste tecniche ci sono: la
negazione della responsabilità (“non l’ho deciso io”; “c’erano anche
altri”; “lo fanno tutti”), la minimizzazione del danno prodotto (“ma
tanto sono ricchi”; “non sarà certo la mia evasione fiscale a mandare in rovina il paese”), la negazione della vittima (“non meritava di
meglio”; “era un poco di buono”), la condanna dei giudici (“sono
solo una vittima della società”; “si fanno ingiustizie ben più gravi di
quello che ho potuto fare io”; “ci fanno carriera con i miei problemi”), il richiamo a ideali più alti (“non potevo tirarmi indietro”;
“dovevo difendere la mia famiglia, il mio gruppo”).
Di seguito sono elencati i meccanismi di disimpegno individuati da
Bandura:
• la giustificazione morale, attraverso la quale il comportamento
deviante viene considerato accettabile attribuendone la causa a scopi socialmente e moralmente elevati (tipico meccanismo attivato
per le uccisioni in guerra, è frequente anche in quotidiani episodi di
devianza e criminalità: “non era giusto che la passassero liscia”;
“l’ho fatto per la mia famiglia”);
• l’etichettamento eufemistico, che, attraverso il linguaggio usato,
trasforma in accettabili azioni che non lo sono o riduce, verbalmente, la gravità di certi comportamenti (“abbiamo fatto un po’ di pulizia”, per indicare l’uccisione di gente indesiderata);
• il confronto vantaggioso, per cui un’azione viene resa meno riprovevole attraverso il confronto con comportamenti più gravi
(“che sarà mai se non ho pagato le tasse: hanno rubato tanto loro, i
politici!”; “io gli ho solo dato qualche pugno, l’hanno finito gli altri”);
• il dislocamento della responsabilità: la responsabilità delle proprie azioni viene subordinata alla volontà di una autorità superiore,
con il risultato di considerarsi non più responsabili (“è stato un ordine superiore, non potevo farci niente”; “io non conto niente nella
banda, è lui il capo”);
• la diffusione della responsabilità ad altri specifici o in senso generale (“eravamo tanti”; “c’era una gran confusione, stavamo tutti lì a
dare botte”);
23
• la non considerazione o distorsione delle conseguenze: ignorare o
distorcere gli effetti delle proprie azioni (particolarmente probabile
nel caso di crimini commissionati, dove il mandante non deve confrontarsi concretamente con le sofferenze della vittima; si pensi, ancora, al caso del lancio dei sassi o ad alcune delle tipiche negazioni
da parte dei pedofili, che interpretano come piacevoli, quando non
utili per lo sviluppo, gli effetti delle loro attenzioni sessuali verso il
bambino);
• l’attribuzione di colpa, ad esempio alla situazione o alla vittima
(“se l’è voluta”; e chi non ha sentito certi commenti, anche di senso
comune, a casi di stupro: “le ragazze non dovrebbero andare vestite
così, se la cercano”);
• la deumanizzazione della vittima, che viene privata delle sue
qualità umane per rendere accettabile il comportamento riprovevole agito nei suoi confronti (particolarmente frequente il riferimento
a categorie anziché alle persone: “era solo una prostituta”; “sono
tutti clandestini”).
Le forme persistenti di devianza, in particolare in adolescenza, risultano correlate significativamente, nei soggetti interessati, con un
basso livello di autoefficacia percepita, un alto livello di disimpegno
morale, nonché una bassa tendenza a mantenere attiva una funzione
di monitoraggio nelle relazioni e nelle comunicazioni con gli adulti significativi delle agenzie di socializzazione, come la famiglia e la
scuola (Barbaranelli, Regalia, Pastorelli, 1998).
Vedremo come tali dimensioni possano comporre e mantenere attivi percorsi strutturati in senso deviante.
1.3.3. L’azione come unità di analisi Nei paragrafi precedenti, abbia-
mo evidenziato l’importanza crescente degli approfondimenti che
hanno focalizzato il peso delle regole e delle norme nell’interazione
sociale, delle cornici (contesti) di significato che definiscono la devianza del comportamento e lo status di deviante del suo autore.
Scorrendo i concetti che hanno accompagnato gli sviluppi del pensiero teorico sul tema e, soprattutto, illustrando il filone interazionista, abbiamo sottolineato la rilevanza di alcune dimensioni: la natura simbolica della realtà all’interno della quale l’uomo si trova inserito; le interazioni (lo scambio diretto) e le relazioni (il legame
24
che esiste anche al di là dell’incontro) come sfondo del comportamento; l’anticipazione degli eventi come fonte di orientamento
comportamentale; la valenza comunicativa dell’azione; la possibilità che l’azione deviante si rappresenti come sintomo di disagio e
come tentata soluzione ad esso. Le teorizzazioni che ne sono derivate hanno adottato una concezione di uomo non rigidamente determinato nel suo comportamento da fattori interni o esterni, ma quale soggetto attivo inserito in un sistema di relazioni e di rapporti all’interno dei quali si confronta sia con la propria esperienza interiore, sia con l’appartenenza a gruppi sociali; un soggetto che agisce,
nel senso che elabora socialmente (secondo regole sociali) e cognitivamente (secondo mediazioni interne) i vari tipi di condizionamenti, trasformandoli e ricostruendoli continuamente.
In questo paragrafo ci occuperemo, specificamente, dell’azione deviante. Finora, abbiamo utilizzato in maniera indifferente termini
come comportamento e azione. In realtà tali parole indicano concetti diversi. L’azione non coincide con il comportamento; quest’ultimo è solo una parte dell’azione, la parte che cade sotto gli occhi dell’osservatore. Un passaggio importante dal comportamento
all’azione è costituito dall’atto sociale, cioè un movimento cui viene
attribuito significato in rapporto allo specifico contesto, alla situazione nella quale esso ha luogo. Per esemplificare, salutare una persona comporta: un gesto, ad esempio agitare la mano, che ha significato di saluto (atto sociale) e che può variare nelle sue forme in relazione alle diverse culture; un movimento fisico visibile a tutti; un
insieme di pensieri, emozioni, anticipazioni che riguardano l’intenzionalità dell’attore, in rapporto alla persona cui l’atto è rivolto e
alla situazione in cui esso viene prodotto (l’azione).
Un particolare approfondimento dell’azione proviene dagli studi di
Mario von Cranach, che ha postulato la goal directed action (gda:
“azione diretta allo scopo”). Proviamo ad illustrare tale definizione
attraverso la figura 1 proposta dallo stesso von Cranach (von Cranach, Harré, 1991, p. 61), che indica la distinzione fra comportamento, azione, atto sociale, e individua tre dimensioni, particolarmente utili per i nostri scopi: il comportamento manifesto, il significato sociale, la cognizione cosciente.
Così possiamo distinguere tra:
25
• il comportamento manifesto: le caratteristiche oggettivabili del-
l’azione, quelle parti accessibili all’osservatore in maniera diretta. Il
“corso manifesto dell’azione”, le sue tappe, le direzioni che può assumere, i suoi punti di partenza e di arrivo;
• la cognizione cosciente: i processi mentali messi in atto dal soggetto. I piani d’azione, gli scopi, le strategie, le intenzioni, i modi in
cui il soggetto prepara, accompagna e segue l’azione;
• il significato sociale: le definizioni semantiche attribuibili alla situazione, il controllo. I significati sociali comprendono le regole, le
norme, le conoscenze riferibili e riferite all’azione.
È importante sottolineare che quella dei significati sociali è una dimensione attributiva che chiarisce come i comportamenti osservabili e le cognizioni coscienti si incontrano con i contesti significativi, con le dimensioni culturali, con le regole, con il controllo sociale, inteso nel senso di attribuzioni di significato, di comportamento, di intenzioni, di responsabilità.
Secondo lo schema proposto da von Cranach, i significati sociali
esercitano il controllo delle cognizioni (pensiamo e anticipiamo ciò
che ci è consentito pensare e anticipare in relazione alla nostra ap-
nto
struttura
atto
azione
com
por
tam
e
te)
ien
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ion
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cog
ma
nif
est
o
figura 1
Il triangolo concettuale nella teoria della gda
significato sociale
Fonte: von Cranach, Harré, 1991, p. 61.
26
partenenza culturale e sociale; pensieri e anticipazioni dipendono
dal significato che attribuiamo alla situazione, da come la interpretiamo) che organizzano e orientano il comportamento (mettiamo
in atto comportamenti coerenti con i significati attribuiti e con le
cognizioni elaborate). Nel corso dell’azione, le tre dimensioni interagiscono circolarmente, nel senso di una continua reciproca influenza. Proviamo con un semplice esempio: bere un buon caffè
(questo è il livello basilare della nostra cognizione cosciente, il nostro obiettivo, lo scopo che guida l’azione). Sono i significati sociali
a consentirci di ipotizzare un luogo come il bar; tali significati comportano regole (portiamo con noi del danaro per pagare e, anche se
ci siamo appena alzati e desidereremmo immediatamente la bevanda, riteniamo opportuno togliere il pigiama, lavarci e vestirci). Ma
se a bere il caffè fosse un’anziana donna di una cultura contadina
del Sud di qualche decennio fa potrebbe anche ipotizzare che sia
sconveniente entrare da sola in un bar (i valori di riferimento). Ancora, se siamo particolarmente presi dai nostri pensieri possiamo
preferire bere il nostro mediocre caffè fatto in casa piuttosto che entrare nel bar vicino, dove potremmo essere costretti a intrattenere
qualche minima relazione sociale (il nostro scopo si riorganizza costantemente in funzione di altri pensieri ed esigenze).
Abbiamo parlato solo di bere un buon caffè. Pensiamo cosa può accadere nel corso di una rapina dove, ad esempio, l’anticipazione di
ottenere danaro senza essere arrestati si trova a doversi confrontare
con l’imprevisto possesso di un’arma da parte della vittima. Abbiamo volutamente citato il caso del caffè e quello della rapina – situazioni molto distanti – per precisare che, al di là del suo specifico
contenuto e significato, ogni azione presenta scopi e intenzioni;
vale a dire che chi agisce anticipa, a livello mentale, gli effetti delle
proprie azioni e le loro conseguenze per sé e sotto il profilo dei significati sociali. Nell’esempio del caffè prendere i soldi per pagare
significa non solo rispettare una regola nota, ma farlo anticipando,
sia pure in maniera quasi meccanica, le possibili conseguenze che
interverrebbero in caso contrario. Con riguardo alla rapina, sarà la
capacità anticipatoria del soggetto, relazionata alla dimensione sociale della situazione, a consentire al rapinatore di mettere in atto
27
tutte le necessarie misure “preventive”, ma, lo ribadiamo, tale dimensione anticipatoria è presente anche nelle azioni più semplici.
Da quanto finora illustrato è possibile comprendere che l’azione
implica due livelli: quello che possiamo definire sistemico, riferito
al sistema personale (quale insieme organizzato di pensieri, affetti,
emozioni), all’elaborazione interiore, ai criteri selettivi interni; e l’aspetto intersistemico, che indica i rapporti con gli altri, il significato
sociale. L’azione rappresenta una struttura unitaria, che rinvia al
rapporto fra l’individuo e il suo Sé, gli altri sistemi relazionali, il
contesto sociale.
1.4. L’azione deviante comunicativa Riflettiamo ancora sullo schema proposto. È possibile affermare che le tre dimensioni che
compongono il triangolo della figura 1 rappresentano tre ambiti diversamente privilegiati dai diversi approcci teorici. Il concetto di
azione ha consentito a chi scrive di riconsiderare tali dimensioni in
senso unitario, individuando nell’azione deviante comunicativa una
nuova unità di analisi nello studio della devianza (De Leo, 1998; De
Leo, Patrizi, 1999a). La dimensione del comportamento manifesto
ha attratto la maggior parte degli studi, che proprio a partire dal
comportamento, da ciò che si vede, hanno cercato di fornire spiegazioni riconducibili ad aspetti, altrettanto visibili e “obiettivabili”,
del suo autore (malattia, deprivazioni psicologiche, affettive o sociali, deprivazioni assolute di vario genere). La dimensione dei significati sociali si è riproposta successivamente, a partire dall’interazionismo simbolico, all’attenzione di studiosi che hanno inteso
considerare la persona e i suoi comportamenti come parti, non isolabili, di un insieme dotato di significati (la realtà simbolica in cui
l’uomo è inserito, l’interazione con gli altri e con il sociale più allargato). La dimensione delle cognizioni coscienti mette al centro
l’uomo e la sua capacità di agire in relazione ai propri scopi e intenzioni. Attraverso il concetto di azione queste tre dimensioni vengono considerate in forma unitaria e nelle loro interazioni. È necessario, però, un ulteriore passaggio in grado di considerare non solo le
cognizioni coscienti, ma anche quelle che, sia pure prodotte dall’autore di un’azione, ne guidano le scelte in maniera meno evidente sotto il profilo strettamente cognitivo. Torniamo agli esempi,
28
precedentemente usati, del bere un caffè e del fare una rapina. In
entrambi i casi, è facile evidenziare gli scopi dell’autore: bere un caffè; ottenere soldi. Abbiamo detto che si tratta di anticipazioni che
orientano all’azione. Chiameremo tali anticipazioni effetti strumentali: ciò che la persona anticipa di ottenere in senso concreto, tangibile, strumentale, appunto. Ma, persino in una semplice idea come
quella di bere un caffè, sono rintracciabili altri effetti, che chiameremo comunicativi o espressivi. Gli studi sulla comunicazione hanno
evidenziato che quest’ultima non avviene sempre in maniera esplicita e chiaramente intenzionale anche agli occhi del suo stesso autore (a tutti sarà capitato di essere traditi da un’espressione facciale,
da uno sguardo, da un gesto, nonostante l’attenzione posta a comunicare strumentalmente altro). Tali effetti, quindi, non sempre appartengono al livello cosciente della cognizione. La nostra ipotesi è
che le cognizioni dell’autore siano sia di tipo cosciente che latente,
intendendo con quest’ultimo termine ciò che l’autore conosce, ma
a un livello meno immediatamente disponibile, nascosto, che è
possibile far emergere solo in certe condizioni, ad esempio quando
qualcun altro ci invita a riflettere, ci chiede di spiegare, ci fa, in altri
termini, andare oltre ciò che avremmo dichiarato in un resoconto
asettico e neutrale delle nostre azioni. Pensiamo ancora all’anziana
signora che ritiene sconveniente entrare da sola in un bar. Non risponde solo a regole culturali. Scegliendo di non andare invia messaggi a se stessa e agli altri (“sono una donna che si comporta come
si deve”). Ipotizziamo un’altra semplice situazione di vita quotidiana. Acquistare un vestito alla moda. Strumentalmente significa acquistare un abito da indossare. Vi impiegheremmo ben poco tempo
se fosse solo così: basterebbe trovare la taglia giusta e, forse, il colore
e la forma che si adattano a noi. Volerlo alla moda richiama la dimensione dei significati sociali e la ricerca della griffe risponde alla
nostra rete simbolica di riferimento. Ma cosa significa ancora, sul
piano personale, un abito alla moda e firmato? L’adolescente potrà
guardarsi allo specchio sentendosi all’altezza degli altri (comunicazione a se stesso); potrà esibirlo davanti a coetanei e coetanee (comunicazione al proprio gruppo di riferimento); averlo comprato
con i propri soldi potrà rappresentare un messaggio ai genitori
(“sono in grado di essere autonomo”); averlo acquistato al prezzo
29
migliore significherà non solo aver risparmiato, ma non essersi fatti
fregare o, al contrario e a seconda delle possibilità economiche, non
aver badato alla spesa significherà poterselo permettere; indossarlo
per uscire col partner potrà voler dire: “mi sono fatto/a bello/a per
te”; “guarda con chi stai, sono migliore di lui/lei”. Sono solo alcuni
dei possibili effetti comunicativi, parziali evidentemente, sia per la
banalità dell’esempio riportato sia, soprattutto, perché tali effetti
sono di difficile interpretazione; essi variano in funzione del contesto di appartenenza e di riferimento dell’autore (diverso sarà il
gruppo amicale cui effettivamente la persona appartiene e quello
cui aspira, cui riferisce le proprie scelte, di cui cerca, anche solo
mentalmente, l’approvazione e teme il giudizio), del suo sistema di
valori, della sua storia personale, del suo stile comunicativo.
Pensiamo ora alla rapina. L’effetto strumentale è facilmente desumibile. Possibili effetti comunicativi: rivolti al Sé (riuscire nella rapina è un indicatore della propria competenza; l’acquisizione di danaro potenzia la propria immagine personale e, eventualmente, di
banda); agli altri (“siamo i più forti del quartiere, ogni colpo un
guadagno”); al controllo (“non ci prenderete, siamo più abili di
voi”); ipotizzati come sviluppo (“con il ricavato cambierà la mia
vita”, ad esempio, comporta altri messaggi per sé – “sarò un’altra
persona, posso uscire dalla mediocrità” –, rivolti agli altri – “la mia
famiglia non deve più temere” ecc.). Il lettore comprenderà che,
solo per motivi esplicativi, abbiamo fatto riferimento al livello più
semplice, immediatamente comprensibile, sia di effetti strumentali
che espressivi. Nei casi reali di devianza tale analisi risulta certamente più complessa.
1.4.1. Perché proprio la devianza? Quanto finora esposto ha inteso
evidenziare le possibili anticipazioni comunicative di un’azione sottolineando che la dimensione espressiva non è tipica dell’azione deviante ma appartiene a qualunque nostra azione. Resta l’interrogativo: perché proprio la scelta della devianza? che cos’è che orienta il
soggetto a ritenere la devianza come la migliore azione per sé? come
la più appetibile? in qualche caso, come l’unica possibile?
Un’affermazione già di David Matza (1976) e sostenuta dagli studi
sulla comunicazione è che la devianza possiede uno strutturale po30
tere di amplificare la comunicazione, di evidenziare messaggi, di attivare attenzioni. È un processo che apprendiamo nel corso dello
sviluppo: la trasgressione, con le sue conseguenze anticipate e temute, mobilita interesse, sollecita risposte. Il neonato che piange
disperatamente (consideriamo il pianto disperato come “deviante”
perché non rientra nel normale fluire della sua giornata) agisce, forse, per il suo mal di pancia o per il dentino che spunta. Il suo pianto
è una reazione al dolore, ma ben presto il neonato ne apprende
un’altra funzione. La mamma accorre, interviene coccolandolo e
mettendo in atto tutti quei comportamenti che possono placare la
sofferenza. Potremmo dire che l’effetto strumentale (che il dolore
abbia fine) è stato raggiunto, non certo consapevolmente dal neonato. La ripetizione di situazioni di questo genere consente al bambino non solo di imparare che qualcuno si prenderà cura di lui, ma
che il pianto è un forte richiamo per la sua figura di accudimento: il
pianto diviene forma comunicativa. Pensiamo ancora al caso dei
bambini istituzionalizzati. Numerosi studi hanno evidenziato che il
bambino privato della figura materna, dopo un primo periodo di
disperazione manifesta cui non fa seguito l’arrivo dell’oggetto desiderato, abbandona ogni tentativo di richiamo, isolandosi anche fisicamente: ha appreso che è inutile disperarsi, dovrà individuare forme di richiamo più eclatanti. Ancora, il bambino che crea problemi
all’interno di un gruppo classe richiama su di sé l’attenzione degli
altri, dei genitori, degli insegnanti, di quanti, a vario titolo, sono
preposti al controllo: la devianza dal comportamento atteso rappresenta un modo per attrarre su di sé l’attenzione di chi gestisce il
controllo. Abbiamo proposto questi rapidi accenni ad acquisizioni
provenienti dalla psicologia dello sviluppo per affermare che la devianza ha il vantaggio selettivo di amplificare la comunicazione;
essa rappresenta una modalità per rendere più “evidente” il messaggio dell’autore, per aumentare la probabilità di diffondere i significati. La devianza richiama inevitabilmente l’attenzione dei sistemi
cui è riferita, ma anche l’attenzione dei sistemi di controllo; il comportamento deviante ha la capacità di sollecitare la reazione sociale:
il soggetto manda determinati messaggi e riceve, a sua volta, da parte dei contesti di osservazione e di interazione, in particolare da parte del controllo informale e formale, dei messaggi che riguardano la
31
sua azione, quindi il significato sociale, messaggi che riguardano lui
e il significato sociale di se stesso.
Quanto abbiamo appena affermato è particolarmente evidente nei
casi di devianza in cui, nonostante una debole strumentalità, l’atto
viene ripetuto (pensiamo ad esempio alla tossicodipendenza) o
dove la scelta dell’azione appare incoerente a una prima analisi della
dimensione strumentale. Soffermiamoci su quest’ultimo caso. Pensiamo alle azioni violente, che la funzione strumentale non sempre
appare adeguata a spiegare e da cui emergono, spesso con evidenza,
messaggi che riconducono al rapporto autore-vittima in termini di
potere, di autorità, di definizione relazionale e, a volte, affettiva
come in molti crimini intrafamiliari. Nel parricidio, ad esempio, o
nell’uxoricidio, l’eliminazione fisica della vittima (funzione strumentale) appare un modo riduttivo di spiegazione, adeguato forse
per certi casi – dove l’acquisizione dell’eredità o l’incasso di un premio assicurativo possono rappresentare effetti strumentali anticipati dall’autore –, ma scarsamente esplicativo rispetto alla maggior
parte dei crimini di questo tipo. Si tratta di azioni fortemente caratterizzate in termini relazionali, dove è possibile cogliere effetti comunicativi che rinviano alla storia di quel rapporto, all’interno della quale l’azione delittuosa assume un senso talvolta anche evolutivo. Il parricidio commesso da adolescenti è forse l’esempio più evidente di violenza non strumentale. Una scelta d’azione che, non di
rado, sta a rappresentare un vissuto soggettivo che ha raggiunto picchi di minacciosità tali da non essere più tollerati sotto il profilo
psicologico. Situazioni familiari frequentemente impostate intorno
a relazioni violente (pensiamo ai molti casi di maltrattamenti e abusi ripetuti), dove l’esplosione della violenza in omicidio comunica
l’incapacità di uno dei membri a tollerare ma, contemporaneamente, un’attesa, sia pure inadeguata in termini di scelta d’azione, di ricostruzione di equilibri ritenuti possibili. Ancora, pensiamo all’uccisione del partner in quelle situazioni in cui l’autore del reato teme
di essere abbandonato dall’oggetto del suo amore. Una scelta evidentemente incoerente con gli obiettivi di chi la mette in atto: uccidere per non essere lasciati. Appare chiaro che il significato dell’azione non va cercato al livello strumentale, ma a un livello che –
sulla base di vissuti di impotenza, incastro, disperazione – esprime
32
un tentativo estremo di presidio della relazione. La dimensione comunicativa può essere del resto attiva e spesso prevalente su quella
strumentale anche in azioni in cui il rapporto autore-vittima è
meno diretto e immediato, come ad esempio in molti episodi di
criminalità organizzata.
Facciamo un solo caso: il racket delle tangenti. Omicidi, distruzioni
di locali, azioni punitive e di minaccia, in cui l’obiettivo del profitto
economico viene mantenuto attraverso la creazione di un clima relazionale teso a definire la distribuzione del potere e la capacità dell’organizzazione di controllare il territorio e il mercato. In questo
ambito non è certo semplice distinguere il piano dell’espressività da
quello della strumentalità. Più chiara può apparire la funzione
espressiva di singoli episodi attraverso cui l’organizzazione ribadisce
alla vittima il proprio potere, agendo peraltro una funzione “preventiva” rispetto ad altri, eventuali, tentativi di ribellione. D’altra
parte, la vittima, reale o potenziale non è il solo destinatario dei
messaggi comunicativi. Le azioni di forza rappresentano messaggi
per chi le attua, quelli che abbiamo definito come effetti rivolti al
Sé (“siamo noi i più forti, noi deteniamo il controllo del territorio”), per l’apparato di controllo (“noi siamo più forti dello Stato”), messaggi finalizzati a produrre o evitare cambiamenti, gli effetti di sviluppo (“vi impediremo di opporvi” o, al contrario, “tutto
sarà ristabilito”).
Abbiamo riportato alcune esemplificazioni di effetti espressivi. Ricordiamo che essi rappresentano quelle cognizioni che, pur configurandosi come anticipazioni del soggetto sugli effetti d’azione, si
collocano su un piano che definiamo di latenza, per intendere anticipazioni presenti nella mente dell’attore ma non immediatamente
disponibili nel corso dell’azione se non sollecitate da richieste esterne di resoconto. È proprio dall’analisi di resoconti raccolti nel corso
dell’attività clinica e di ricerca che abbiamo tratto le osservazioni
concettuali qui proposte.
Sintetizzando, è possibile individuare due ampie tipologie di effetti:
strumentali ed espressivi. Specifichiamo che tali effetti, da noi definiti in termini di anticipazioni del soggetto, contengono un altro
importante livello comunicativo. Essi ci dicono qualcosa sulla persona, sulla sua storia, sul suo stile comunicativo e d’azione. Le stra33
de che possiamo percorrere orientandoci all’azione, infatti, non
sono mai tutte quelle possibili, ma una selezione che riconduce alla
nostra esperienza di apprendimento sociale. È questa la dimensione
che, nella prospettiva di un uomo che si muove per obiettivi, reinclude il passato individuale. Un semplice esempio: ci vestiamo in
maniera coerente con il luogo sociale in cui stiamo andando (un
colloquio di lavoro, un esame, un incontro galante, una gita fra
amici, una convocazione a testimoniare). È questo il livello della
nostra anticipazione: la scelta dell’abito non dipende dal nostro
guardaroba (il passato), ma dal luogo in cui andremo (il futuro,
l’effetto anticipato). Ma il guardaroba non è irrilevante: contiene
solo una selezione del possibile, definita dalla nostra posizione economica e sociale, dai gusti prevalenti. Potremmo non avere l’abito
adeguato, dovendo scegliere a partire da un campo finito di possibilità. Ancora, però, l’anticipazione prevale su questo aspetto solo apparentemente restrittivo o diversamente restrittivo in funzione della percezione che ne abbiamo e delle soluzioni che siamo in grado
di ipotizzare. Potremmo chiedere un prestito o effettuare altre scelte in relazione alla rilevanza dell’obiettivo e alla nostra modalità di
percepire e utilizzare le possibilità presenti.
Tornando al nostro specifico, la scelta della devianza comunica
sempre qualcosa sulla storia dell’autore, sul suo stile, sul suo modo
di leggere e interpretare le proprie possibilità di utilizzare la storia
passata e il presente in funzione del futuro anticipato.
a Effetti strumentali. Anticipazioni legate ad obiettivi e vantaggi
di tipo pragmatico, per esempio “prendo l’ombrello perché piove”,
“rubo una macchina perché mi serve”; effetti anticipati in maniera
cosciente e consapevole dal soggetto e che, nella direzione della
strumentalità, orientano il corso d’azione, organizzandone le tappe.
La strumentalità consente di comprendere molte azioni; in quelle
di tipo deviante appare come dimensione prevalente, difficilmente
isolabile, però, da altre funzioni che richiamano le sfere soggettiva e
relazionale.
b Effetti espressivi. Collocati, prevalentemente, al livello cognitivo
che abbiamo definito di latenza, tali effetti consistono in anticipazioni espressive. Il soggetto utilizza l’azione per comunicare, per inviare messaggi a se stesso e agli altri, messaggi che vanno oltre i con34
fini di significato dell’azione perché assolvono a funzioni più ampie
connesse alla posizione soggettiva dell’autore rispetto ai contesti di
appartenenza o di riferimento.
Differenziando questi effetti espressivi abbiamo:
• effetti legati al sé: ogni azione comunica all’autore stesso e agli
altri, segni e significati relativi all’identità soggettiva, in termini sia
situazionali che di sviluppo;
• effetti relazionali: l’azione propone e contiene messaggi di relazione interpersonale che riguardano sia le persone direttamente interessate e coinvolte in quella azione, sia i loro gruppi di appartenenza (famiglia, istituzioni, amici) o di riferimento;
• effetti di sviluppo: abbiamo affermato una prospettiva che valorizza le capacità di anticipazione dell’uomo; ogni azione è in prospettiva di mantenimento e/o cambiamento di situazioni attive;
questa è una dimensione che riguarda la soggettività individuale, il
vissuto di chi mette in atto l’azione o del gruppo cui riferisce le sue
scelte. Alcune azioni devianti sembrano esprimere esigenze di cambiamento o, al contrario, di mantenimento dello status quo, sia in
relazione alla personalità dell’autore sia rispetto ai contesti in cui
l’azione si colloca;
• effetti normativi e di controllo: riguardano il rapporto con le sanzioni, con le regole non formalizzate e con quelle codificate; effetti
che rispondono a domande del tipo: “come reagiranno gli altri a
quello che sto facendo?”.
Quanto finora illustrato intende affermare che il soggetto, anche se
in condizioni particolari (ad esempio immaturità, difficoltà di sviluppo, patologie ecc.), in qualsiasi tipo di azione messa in atto, tiene conto di – e quindi anticipa, sempre e comunque, a livello mentale – quali saranno le conseguenze del suo agire. L’autore di un’azione deviante effettua un’anticipazione dei possibili esiti del suo
modo di agire; effetti che, se decide di attuare l’azione, egli ricerca.
Proprio il fatto che il soggetto deviante agisce perché “desidera” gli
effetti che ha mentalmente anticipato sostiene quanto verrà di seguito approfondito circa il fatto che la devianza non è il risultato di
determinate caratteristiche di personalità e/o ereditarie quanto il
punto di arrivo di un percorso attuato dal soggetto a diversi livelli
di consapevolezza, percorso che è costituito da diverse fasi (le vedre35
mo nei paragrafi che seguono), ognuna delle quali gode di una sua
autonomia motivazionale, e all’interno del quale il crimine è il risultato di una complessa interazione, di cui il comportamento può
essere considerato quale contenitore esterno e rilevabile di un rapporto ben più complesso fra soggetto, azione, altri e norma.
1.5. Percorsi di devianza e carriere
Molti commettono azioni devianti anche gravi ma che hanno caratteristiche occasionali e
transitorie; solo alcuni di questi lo fanno in modo persistente, tanto
da caratterizzarne l’intero percorso di vita.
Fra i concetti che hanno ispirato i nuovi pensieri teorici sulla devianza abbiamo precedentemente citato la processualità del divenire devianti. Nel presente paragrafo ci occuperemo, specificamente,
di carriere devianti. L’interesse rivolto dagli studiosi alle carriere e
l’introduzione di questo concetto nel panorama delle ricerche sulla
devianza traggono origine da alcune esigenze conoscitive, in particolare, dall’esigenza di definire la dinamicità dell’agire deviante, di
comprenderne i percorsi, di rispondere a quelle domande che cercano di capire perché e attraverso quali modalità un individuo finisca per fare della devianza uno stile di vita. Tali domande non riguardano, evidentemente, le devianze episodiche ma la loro trasformazione in comportamento reiterato.
Quello di carriera deviante è sicuramente un concetto utile, che è
riuscito a contrastare la logica di connessione deterministica fra
condizioni di partenza ed esiti di comportamento, per anni affermata dagli studi sul crimine, evidenziandone la povertà esplicativa
rispetto a un fenomeno processualmente complesso come quello
criminale.
Il termine carriera sta ad indicare il ruolo sociale che un individuo
progressivamente ricopre, la sistematizzazione di un comportamento a modello di vita, l’impegno del soggetto nello svolgimento di
sequenze di azione connotate in senso deviante.
L’aspetto centrale della carriera è quello evolutivo; la dimensione
processuale evidenzia una dinamicità che si manifesta mediante
una sequenza di azioni e reazioni che si rinforzano vicendevolmente, facendo sì che l’effetto (devianza) non sia più riconducibile a
una o più cause (povertà, degrado ecc.), ma a una progressione di
36
passaggi all’interno della quale l’individuo si trova impegnato in
rapporto a situazioni e interazioni pubbliche. Una devianza agita,
quindi, non subìta; personalità interpretabili in senso dinamico,
che si esprimono attraverso processi interpersonali e non sulla base
di patrimoni individuali originari e, pressoché, immodificabili.
Soggetti che si muovono nell’ambiente e non vittime dello stesso;
costruzioni di percorsi devianti mediante azioni soggettive e intersoggettive e non comportamenti dettati da istinti innati e incontrollati.
In questa prospettiva il processo che conduce alla devianza resta incomprensibile se non si assume il punto di vista del soggetto, nella
sua attività di conferire significato agli eventi che lo circondano: è
importante studiare la soggettività che interviene nella scelta di un
percorso deviante e il modo con cui le reazioni dell’individuo interpretano e utilizzano le risposte del sociale.
Il vantaggio principale che si può attribuire all’utilizzo del concetto
di carriera criminale sta nel superamento del limite principale delle
impostazioni tradizionali, ossia l’assenza di criteri in grado di ricostruire il percorso individuale che accompagna e organizza il passaggio dalla trasgressione all’assunzione di uno stile di vita deviante
di tipo criminale.
Partendo da questi presupposti, gli obiettivi degli studi sulle carriere devianti possono essere così identificati:
• individuare fattori predittivi del comportamento deviante, della sua insorgenza e della sua stabilizzazione;
• recuperare le dimensioni attinenti la soggettività umana, i percorsi individuali di iniziazione all’attività illecita, l’espressione del
Sé nel comportamento di tipo trasgressivo, l’assunzione del ruolo.
1.5.1. I fattori predittivi del comportamento Il primo obiettivo (l’indi-
viduazione dei fattori predittivi) è quello che ha suscitato maggiore
interesse di ricerca empirica, producendo riflessioni in merito agli
indicatori capaci di predire il comportamento criminale. Fra questi
ultimi: le caratteristiche individuali, familiari e sociali dei soggetti
esaminati, l’appartenenza razziale, l’irregolarità della condotta scolastica, l’età di inizio della carriera, l’episodicità/persistenza della
devianza giovanile quale criterio discriminante del passaggio alla
37
criminalità adulta. Farrington, sulla base di una serie consistente di
studi empirici (De Leo, Patrizi, 1999a), delinea la carriera criminale
quale esito di un percorso che si sviluppa a partire da comportamenti antisociali nell’infanzia (come ad esempio il bullismo) e, successivamente, nell’età adulta (ad esempio violenza sui bambini).
Dalle risultanze di ricerche longitudinali (che hanno seguito i soggetti in fasi diverse dello sviluppo, dall’infanzia fino all’età adulta)
condotte dall’autore, risulta che i delinquenti presentano, fin dai
primi anni della scuola, una serie di atteggiamenti antisociali quali:
la disonestà, l’aggressività, il bullismo, fino ad arrivare alla tarda
adolescenza con una varietà di comportamenti antisociali tra cui
l’uso di droga. Le carriere criminali inizierebbero, mediamente, all’età di diciassette anni. Un ruolo centrale rispetto all’eventualità di
prosecuzione della carriera verrebbe svolto dalla prima condanna,
che avrebbe una sorta di funzione peggiorativa del percorso delinquenziale. Alla base del movimento di ricerca, di cui Farrington
rappresenta uno dei maggiori esponenti, sta l’esigenza di cogliere le
fasi attraverso cui si snoda una carriera criminale, dalle premesse, in
termini di condizioni e comportamenti antecedenti, al primo atto
socialmente deviante, al consolidarsi di quello che diviene uno stile
di vita, fino alla conclusione della carriera.
La difficoltà principale, rilevata dallo stesso Farrington e da altri autori, riguarda la possibilità di distinguere tra cause, conseguenze e
indicatori di personalità antisociale.
A tale riguardo, gli studi attuali sulle carriere trattano i fattori predittivi non come condizioni-causa, ma come fattori di rischio di
uno sviluppo in senso deviante diversamente attivi in relazione a
fasi e momenti del rapporto, reciprocamente costruttivo, fra soggetto, azione e interazioni, e ruolo sociale.
1.5.2. Soggettività e percorsi di devianza Questa impostazione è par-
ticolarmente presente all’attenzione degli studi che hanno assunto,
come oggetto di lavoro, il secondo obiettivo delineato alla fine del
par. 1.5 (il recupero di dimensioni attinenti alla soggettività umana), cercando di individuare i diversi e progressivi gradi di coinvolgimento di un individuo in attività devianti. L’immagine trasversale a tali studi è quella di un’attività umana che si sviluppa lungo un
38
percorso costituito da diverse tappe. Pioniere di questo filone di
studi è H. S. Becker (1987), che introduce l’ipotesi della carriera deviante attingendo al significato di carriera nelle professioni, vale a
dire alla successione dei passaggi da una posizione all’altra compiuta da un individuo all’interno di un sistema occupazionale. Centrale, per l’oggetto di cui ci stiamo occupando, è la nozione di career
contingency, che indica la contingenza dei fattori causali in grado di
orientare il passaggio da una posizione all’altra della carriera. Tali
situazioni contingenti – provenienti dalla struttura organizzativa
(ad esempio, possibilità di avanzamento) o dall’individuo (cambiamento di motivazione, impegno, prospettiva) – non hanno in sé capacità di orientare il percorso della carriera. È, piuttosto, l’utilizzo
che il soggetto ne fa a trasformare una situazione fortuita, casuale,
in un evento causale, cui viene attribuito potere di modificare il
percorso che il soggetto stesso sta effettuando. Per fare un esempio
legato alla carriera lavorativa, la possibilità di partecipare a un corso
di qualificazione potrà essere diversamente utilizzata dall’individuo.
Ciò avverrà anche in funzione del suo interesse per il lavoro svolto e
potrà anche essere considerata, ad esempio, come occasione per intraprendere un’altra strada, acquisire nuove competenze spendibili
nell’organizzazione stessa o per reimmettersi sul mercato in vista di
collocazioni più vantaggiose.
Il modello di carriera proposto da Becker è di tipo sequenziale: un
percorso di devianza si costruisce per fasi, ognuna delle quali può
presentare specifiche cause, quindi richiedere specifiche spiegazioni, che, fondamentali per quella fase, non lo sono per le successive.
Si tratta, in altri termini, di tappe dotate di relativa autonomia. Ciò
richiede un adattamento dei criteri usati in funzione della loro capacità di cogliere la diversità delle tappe di cui il percorso si compone: dall’inizio del comportamento alla sua prosecuzione, al suo
consolidamento. Il filo conduttore, per uno studioso che intende
occuparsi di carriere, consiste nell’assumere un atteggiamento che
voglia comprendere il singolo percorso dall’interno del suo svolgersi, avvicinandosi ai significati soggettivamente attribuiti ed elaborati. In questo senso ricordiamo una nota affermazione di Becker, secondo cui non è una motivazione deviante a produrre comportamento deviante, ma è il comportamento deviante che produce mo39
tivazione: la prima azione è, prevalentemente, occasionale; effettuandola, il soggetto può scoprirne dei vantaggi (pensiamo a quanto precedentemente esposto sui significati comunicativi); gli altri rilevano l’azione e le attribuiscono significato; con quel significato il
soggetto si trova a doversi confrontare facendo continui bilanci,
psicologici e relazionali, fra il significato per sé dell’azione, gli obiettivi attesi e le conseguenze prodotte, i significati provenienti dall’esterno, vantaggi e svantaggi sul piano strumentale e su quello
espressivo. Tali bilanci si sviluppano, principalmente, su due livelli:
quello dei significati che il soggetto stesso attribuisce, individualmente o in gruppo, e quello dei significati prodotti da chi osserva e
rileva l’azione (la reazione sociale), che il soggetto utilizza come indicatori del ruolo che, attraverso il comportamento, egli assume nel
sociale.
1.5.3. La progressione nella carriera Proviamo, di seguito, a tracciare
“l’itinerario della carriera”. Utilizzeremo, come sfondo, il nostro
modello di progressione in un percorso di devianza (De Leo, 1992;
De Leo, Patrizi, 1999a), articolando i contenuti interni alle diverse
fasi con riferimento sia ai nostri studi empirici e clinici sia a quelli
di altri autori che hanno privilegiato tale dimensione esplicativa, in
particolare: Lemert (1981), Becker (1987), Bandini e Gatti (Bandini, Gatti, Marugo, Verde, 1991). Il percorso, che in figura 2 riproduciamo in forma schematica, orienta a considerare la devianza
come un processo, piuttosto che il prodotto di fattori e cause antecedenti. Tale processo presenta un carattere attivo e costruttivo, nel
senso che si sviluppa creando connessioni fra le dimensioni presenti
in ogni singola fase. Nella figura 2 proponiamo lo schema base inserendo, al suo interno, gli snodi di cui si compone il percorso della
carriera deviante. Ad essa il lettore potrà fare riferimento scorrendo
le varie tappe costitutive della carriera.
a Prima fase: gli antecedenti storici. È questa la fase più approfondita anche dagli studi precedenti. La denominazione “antecedenti
storici” si riferisce alle condizioni iniziali della storia soggettiva, alle
eventuali deprivazioni e a tutti i possibili problemi intervenuti, con
particolare riferimento agli aspetti di interazione attivi nei contesti
di socializzazione primaria. Prevalentemente, gli studi tradizionali
40
hanno considerato tali condizioni come possibili cause di devianza.
Nel nostro modello esse rappresentano le situazioni presenti nella
storia del soggetto; situazioni che non necessariamente portano alla
devianza. Appare più opportuno considerarle come situazioni aspecifiche, vale a dire condizioni che si possono associare al comportamento deviante come a qualunque altro tipo di comportamento.
Tali condizioni antecedenti possono, infatti, essere considerate degli “indicatori di rischio aspecifici” ossia, pur essendo presenti nella
maggior parte delle carriere devianti, non contengono linearmente
l’esito della devianza. Tale esito può svilupparsi in relazione al
modo con cui i sistemi socializzativi e i loro contesti di interazione
interpretano quelle condizioni di base come probabile causa di successivi eventi negativi. Per intenderci, la morte di uno dei due genitori costituisce certamente un problema nello sviluppo di un bambino, ma non è possibile considerarla come la causa di un suo comportamento problematico, ad esempio, a scuola. Tale esito, però,
sarà probabile se l’altro genitore non riesce ad affrontare le difficoltà
che il bambino incontra, cominciando a pensare che tutto sarebbe
stato più semplice con l’aiuto del partner, che da solo non può farcela, che un bambino senza uno dei genitori è senz’altro deprivato.
figura 2
Uno schema per l’analisi della carriera deviante
A. Antecedenti storici
(rischi aspecifici
metarischi)
B. CRISI
(rischi e metarischi specifici)
Azione1
B1.
Inizio
Azione2
Azionen
B2.
Prosecuzione
C. Stabilizzazione
(rischi e metarischi
specifici)
C1.
Consolidamento
41
Ancora, la probabilità di un esito negativo viene favorita se lo stesso
genitore o gli insegnanti al minimo comportamento problematico
associano le difficoltà di sviluppo dovute a quella morte, costruendo un nesso che gli studi di psicologia sociale (Chapman, Chapman, 1969) definiscono «correlazione illusoria» (esso consiste, posto un evento nel presente, nella ricerca del passato, di aspetti che
possano spiegarlo, considerandoli come cause dell’evento stesso: se
l’evento è negativo si cercheranno pezzi di storia negativi; se è positivo avverrà il contrario; Salvini, 1995). È questo il livello dei “metarischi”, che indica la tendenza, una volta individuata la causa, ad
anticipare un comportamento negativo orientando, in tal modo, la
probabilità che esso si verifichi.
b Seconda fase: la crisi. Tale fase si svolge in un tempo tendenzialmente breve che chiameremo di “crisi”. Essa comprende episodi
agiti e sentiti come devianti.
Collocata, generalmente, in adolescenza, la crisi sta ad indicare il
rapporto fra esigenze individuali di sviluppo, condizioni esterne di
sfida e competenze soggettive, familiari, sociali di far fronte ai cambiamenti che tali esigenze e condizioni richiedono. Le difficoltà di
trovare equilibrio a tale livello possono configurarsi come terreno
su cui strategie di fronteggiamento inadeguate, dello stesso adolescente e dei suoi adulti di riferimento, orientano nel soggetto azioni, talora apparentemente disorganizzate, che possono assumere la
forma della devianza.
Tale fase può collocarsi anche in periodi successivi della vita. Periodi caratterizzati da difficoltà per l’individuo di trovare equilibri soddisfacenti fra condizioni, interne o esterne, di difficile gestione e le
risorse che l’individuo sente di avere a sua disposizione per farvi
fronte.
È questa la fase più rischiosa dell’intero processo, poiché proprio
in questo momento i rischi aspecifici della prima fase (vale a
dire le situazioni che la persona vive, le sue condizioni materiali,
sociali, psicologiche, relazionali) possono acquisire una loro specificità diretta verso esiti devianti. La crisi rende maggiore la disponibilità del soggetto e degli altri che con lui interagiscono ad
applicare quelle correlazioni illusorie che facilitano una lettura
dei comportamenti di tipo deviante in termini di inevitabilità
42
(metarischi specifici). Restano, comunque, ancora aperte al soggetto strade diverse in funzione del modo in cui la famiglia, i
vari contesti di appartenenza, le istituzioni interpretano il comportamento.
b1 L’inizio: la prima devianza agita. La prima azione che infrange una norma non necessariamente è intenzionale. Si tratta,
piuttosto, di un agire che deriva dall’incontro fra situazioni che
si rendono disponibili e disponibilità dell’attore sociale ad accoglierle. Le prime stanno a indicare sia gli eventi di vita della persona che le diverse possibilità di farvi fronte. Un individuo potrà
trovarsi in difficoltà, per debiti contratti, in periodi per altri versi positivi o negativi della propria vita, e potrà avere varie alternative a disposizione. Non tutte le alternative gli appariranno
perseguibili e utilizzabili, sulla base anche del modo in cui percepisce la difficoltà del problema cui far fronte, le forme di sostegno realizzabili, le proprie personali capacità di gestione (disponibilità dell’autore). La situazionalità dell’atto (lo spazio fisico e
sociale in cui l’azione si verifica) e l’occasionalità del comportamento non configurano ancora l’evoluzione verso un ruolo sociale negativo. La prima azione deviante può essere compresa alla
luce di quanto abbiamo precedentemente esposto: la dimensione
comunicativa, costituita da messaggi che l’autore rivolge a se
stesso, ad altri presenti sulla scena d’azione, agli altri significativi,
al sistema delle regole, alla prospettiva di cambiamento anticipata.
b2 La prosecuzione: l’esercizio nella devianza. Proseguire nella
devianza comporta il confronto del soggetto con altri due aspetti
che possono intervenire in modo significativo nell’orientare il
percorso che seguirà. Il primo riguarda la possibilità che la persona scopra, proprio nella devianza, un ambito, contemporaneamente, di gestione delle proprie difficoltà e di esperienza di autoefficacia. Può, in altri termini, sperimentare abilità e competenze utili a comporre un’immagine di sé come capace, in grado
di portare a termine con successo i corsi d’azione anticipati. Il
secondo aspetto è relativo all’esercizio del disimpegno con cui
l’individuo si permette di trasgredire, attraverso forme mirate di
autoesonero: la ripetizione del disimpegno può costituire un po43
tente strumento, cognitivo, affettivo e motivazionale per favorire
scelte d’azione altrimenti censurabili.
Un passaggio fondamentale, evidenziato dai primi studi sulla
carriera, è quello dell’esperienza dell’arresto o, comunque, del riconoscimento pubblico di sé come deviante. L’individuo deve
confrontarsi con un cambiamento della sua identità pubblica per
aver disatteso le aspettative sociali. È importante sottolineare l’effetto facilitatore della reazione sociale. Al confronto con i significati di disapprovazione, quelli comunicativi, che l’azione deviante contiene, perdono peso, mentre la necessità del disimpegno (a
questo punto in forma anche giustificatoria) diventa progressivamente più forte.
È in questa fase che inizia a costruirsi la catena degli incastri
nella devianza. La persona impegnata a confrontarsi, da un lato,
con le conseguenze pubbliche della devianza (quindi, con un’immagine di sé come deviante), dall’altro, con le opportunità di
affermazione di sé che quest’ultima sembra offrire può, contemporaneamente, iniziare a percepire come meno probabili, per sé,
possibilità d’azione diverse.
c Terza fase: la stabilizzazione. Quest’ultima fase del processo
indica la probabilità che il comportamento deviante divenga uno
stile. A differenza della crisi, tale fase può essere anche molto
lunga. Essa si caratterizza per come il soggetto e i suoi interlocutori interpretano la devianza, attribuendole valori e significati
che, progressivamente, allargano il loro raggio d’azione fino a diventare criteri interpretativi della persona e delle sue possibili
scelte d’azione. Tali attribuzioni possono irrigidire il processo
precludendo altre strade percorribili.
c1 Il consolidamento: riconoscersi devianti. Le aspettative degli
altri tendono a orientarsi in una sola direzione (da quella persona ci si aspetta, prevalentemente, un certo tipo di comportamento): le richieste e le proposte di azione si orientano a valorizzare
la competenza acquisita nella devianza, la persona stessa la riconosce e la utilizza nell’agire trasgressivo, mentre sente e teme di
non saper fare altro. L’individuo sperimenta con successo la trasgressione, dove il confronto fra le attese degli altri, le sfide pro44
poste e le proprie capacità di gestione appare più immediato. Il
vantaggio è il riconoscimento di sé in assenza, percepita, di alternative. Il soggetto accetta la nuova situazione e attua una riorganizzazione del Sé e delle proprie caratteristiche psicosociali intorno al ruolo di deviante. Si verifica l’adeguamento dell’identità al
comportamento: il ruolo di deviante si orienta in senso stabile
attraverso un’adesione all’identità negativa proposta. Un ruolo
importante, in questa fase, svolgono i tentativi di spiegazione, le
risposte ai “perché” del singolo caso di devianza: tentativi che,
andando alla ricerca delle cause (come spiegare il presente alla
luce del passato) perdono progressivamente di vista le ragioni (in
che direzione si sta muovendo la persona, con quali obiettivi). È
ricercando le cause che gli innumerevoli aspetti presenti nel periodo definito “antecedenti storici” finiscono per essere ridotti a
poche ma rilevanti condizioni: tutto ciò che non ha funzionato.
Considerata come frutto di quel passato, la persona e i suoi osservatori cooperano per costruire una storia dotata di senso: il
senso della devianza.
Per riassumere...
• Le principali acquisizioni della psicologia e di altre discipline che si
sono occupate del comportamento deviante, in particolare la sociologia,
consentono di affermare che la devianza non rappresenta l’esito di determinate cause; essa è, piuttosto, il risultato di un processo che si costruisce nel tempo attraverso l’interazione fra l’individuo e i suoi comportamenti, i contesti di relazione all’interno dei quali l’individuo è inserito, la dimensione dei significati sociali.
• La devianza non va studiata soltanto con riguardo ai vantaggi strumentali che la persona può ottenere attraverso il comportamento deviante. È necessario considerare anche effetti meno visibili, ma fondamentali per comprendere come l’individuo si orienti all’azione: si tratta
degli effetti comunicativi.
• Il processo del divenire devianti si compone di diverse fasi. La prima devianza si colloca, generalmente, in un periodo critico per la persona. La probabilità che il comportamento si ripeta, strutturando uno
stile di vita deviante, dipende da una serie di aspetti, fra i quali assu45
mono rilevanza: i vantaggi strumentali ed espressivi che il soggetto ne
ricava; le modalità con cui, progressivamente, si disimpegna dalle norme; la tendenza con cui la persona stessa e i suoi sistemi d’interazione,
nel tentativo di spiegare il comportamento, perdono di vista le ragioni
(in che direzione si sta muovendo; cosa vuole ottenere) per privilegiare
le cause (che cosa lo ha portato alla devianza).
46
Bibliografia
Letture consigliate
Capitolo 1
Gli sviluppi storici del pensiero scientifico in tema di devianza e criminalità
possono essere approfonditi nei seguenti volumi: de leo, patrizi (1999a),
dove il lettore potrà trovare anche i riferimenti bibliografici alle opere degli
autori citati nel capitolo; bandini, gatti, marugo, verde (1991). Con specifico riguardo alle devianze giovanili, segnaliamo: bandini, gatti (1987) e
de leo (1998). Fra le principali teorie trattate nel capitolo, suggeriamo i seguenti approfondimenti. Per la teoria sociale cognitiva: g. v. caprara (a
cura di), Bandura, Angeli, Milano 1987; a. bandura, Autoefficacia, Erickson,
Trento 2001. Per l’analisi dell’azione: von cranach, harré (1991) e, con
specifico riferimento all’azione deviante comunicativa, de leo (1998), cap. 8,
e de leo, patrizi (1999a), capp. 3 e 6. Sulla carriera deviante il lettore potrà
trovare interessanti sollecitazioni nei seguenti volumi, che raccolgono i principali sviluppi teorici sul tema e propongono modelli di analisi originali: bandini, gatti, marugo, verde (1991), cap. 5; de leo, patrizi (1999a), cap.
4. La tradizione del concetto di carriera può essere approfondita in becker
(1987) e matza (1976).
Capitolo 2
Sulla presenza della psicologia e delle altre scienze sociali nei contesti della
giustizia, con riguardo sia alle cornici normative che ai diversi ambiti dell’intervento, il lettore potrà trovare una trattazione completa in a. quadrio, g.
de leo (a cura di), Manuale di psicologia giuridica, led, Milano 1995; gulotta (2000). L’evoluzione dei modelli di giustizia è affrontata in de leo
(1996), che propone anche un articolato esame del concetto di responsabilità
sotto il profilo psicologico e psicogiuridico. Per un’analisi delle questioni attinenti la giustizia minorile e i metodi di intervento, cfr. de leo, patrizi
(1999b). Tale lettura può essere completata con l’approfondimento della normativa in palomba (1991) e di nuovo, grasso (1999). Per l’intervento nel
settore degli adulti segnaliamo l’importante commentario dell’ordinamento
penitenziario di di gennaro, breda, la greca (1997). Riflessioni sulle re-
123
centi prospettive del sistema penitenziario sono contenute in m. palma (a
cura di), Il vaso di Pandora, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1997;
gulotta, zettin (1999), cap. 3; quadrio de leo (1995), cap. 4. Sulla mediazione penale, nei suoi principi teorici e nei metodi applicativi, consigliamo, oltre ai testi citati nel capitolo, il recente lavoro, curato da f. scaparro,
Il coraggio della mediazione, Guerini, Milano 2000, che affronta il tema con
riferimento ai vari contesti di applicazione oltre il penale. Sulla formazione
dei professionisti che lavorano nei contesti della giustizia, può essere consultato g. de leo, p. patrizi (a cura di), La formazione psicosociale per gli operatori della giustizia, Giuffrè, Milano 1995.
Capitolo 3
Il tema della prevenzione e i passaggi concettuali verso l’ottica promozionale
potranno essere approfonditi nei testi seguenti: m. rutter (ed.), Psychosocial
Disturbances in Young People: Challenges for Prevention, Cambridge University Press, Cambridge 1995; l. regoliosi, La prevenzione del disagio giovanile,
Carocci, Roma 1994. Con particolare riguardo alla prevenzione del crimine
consigliamo la lettura di a. rutherford, Growing Out of Crime: The New
Era, Waterside Press, Winchester 1992 e del cap. 10 di bandini, gatti, marugo, verde (1991). Un’approfondita esplorazione dei rischi di sviluppo deviante in adolescenza e delle prospettive di intervento è contenuta in caprara, fonzi (2000).
Capitolo 4
Per approfondire la psicologia investigativa consigliamo canter, alison
(2000). I metodi della psicologia sociale applicati all’investigazione vengono
esaminati nel cap. 6 di g. gulotta, La scienza della vita quotidiana, Giuffrè,
Milano 1995. Le principali questioni psicologiche e giuridiche connesse all’analisi testimoniale del minore vittima di abuso vengono affrontate in dèttore, fuligni (1999); g. de leo, i. petruccelli (a cura di), L’abuso sessuale
infantile e la pedofilia: l’intervento sulla vittima, Angeli, Milano 2000; de cataldo neuburger (2000), cap. 3.
Riferimenti bibliografici
bandini t., gatti u. (1987), Delinquenza giovanile, Giuffrè, Milano.
bandini t., gatti u., marugo m. i., verde a. (1991), Criminologia, Giuffrè, Milano.
124
bandura a. (1986), Social Foundations of Thought and Action: A Social Cognitive Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs (nj).
id. (a cura di) (1996), Il senso di autoefficacia, Erickson, Trento (ed. or.
1995).
barbaranelli c., regalia c., pastorelli c. (1998), Fattori protettivi dal
rischio psicosociale in adolescenza: il ruolo dell’autoefficacia regolativa ed
emotiva e della comunicazione con i genitori, in “Età evolutiva”, 60, pp.
93-100.
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