Poesie Premio Carducci 2015
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Poesie Premio Carducci 2015
TESTI PREMIATI ( SEZIONE GENERALE) PRIMO PREMIO Meriterebbe di più la Marcella di Ivan Fedeli Meriterebbe di più la Marcella di una radio accesa e del pranzo pronto in attesa dei figli, le camicie a zonzo nella stanza bella. Forse un marito dalla giacca stirata, quel profumo di dopobarba tutto di mattina, quando va di corsa il tempo e non si arriva mai. Eppure sorride alle bollette e all’ascensore lento di un quinto piano troppo alto per lei. Si fa il trucco allora insistendo un po’ sulle labbra perchè non si sa mai si dice sulle scale mentre chiude a chiave e pensa alle cose da giovani, poi arrossisce perchè non si può più. Così scende immaginando i rumori oltre le porte, le parole dette di fretta all’uscita, quasi la vita si arrendesse dopo un buongiorno. Credono sorrida ancora a uno sguardo furtivo se scivola sulla schiena e le rende giustizia. Piace saperla in quell’attimo che riscatta il mondo, finchè s’allontana dopo il cancello zoppo, il suo cigolare sempre in attesa di una mano buona. In linea con tanta parte di poesia contemporanea, o almeno di quella poesia che si è imposta nel panorama nazionale di questi ultimi anni, il testo Meriterebbe di più la Marcella è emerso con nitore e preziosità dalle scelte della Giuria per il linguaggio piano eppure a effetto, pulito e chiaro, preciso ed essenziale nella descrizione di un quadretto umano pur senza sconvolgimenti o squilibri. Il soggetto, Marcella, dice la capacità dell’autore di penetrare la quotidianità e di raccontarla senza sbalzi, anzi carpendone dalle inevitabili pieghe, dai soliloqui, dagli arrossamenti e dai cigolii un qualcosa di più alto che l’autore, in questo riconoscibilmente poeta, chiama vita. Piace saperla in quell’attimo / che riscatta il mondo recita uno dei versi, che non ignorano la forza evocativa delle figure retoriche, nello specifico l’allitterazione. Una ripetizione cioè di suoni che da Meriterebbe di più la Marcella conduce acosì scende immaginando i rumori per concludere in un verso più che mai aperto ad abbracciare non solamente il suo soggetto, il cancello zoppo, ma Marcella stessa e la sua umanità, la sua età, la sua vita: sempre in attesa di una mano buona. SECONDO PREMIO Nnunnata di Rino Cavasino Nnunnata ‘Unn avi, comu l’acqua, a lingua ossa, ma l’ossa ciacca e cui cci l’avi passa u mari, stu sururi dâ terra assuppa, agghiutti sta sputazzata, iò mi capuzzài di nicu, ma ‘unn u passài. Cchiù cosi vitti ddassutta spirtu chi supra corpu, morsi campài cchiossài natannu senz’ossa ne lingua ddagghiusu, cuvannu l’ova chini di l’occhi, nta ll’acqua di l’occhi nnunnata, mai nasciuti, anniati nta ll’ova puddicini, nta ll’occhi lustri vavareddi, ntâ salamureci dû mari. Latterini dal siciliano di Trapani Non ha, come l’acqua, la lingua ossa, ma le ossa spacca e chi ce l’ha passa il mare, questo sudore della terra asciuga, inghiotte questo sputacchio, io mi tuffai da piccolo, ma non lo passai. Più cose ho visto spirito là sotto che sopra corpo, sono morto sono campato di più nuotando senz’ossa né lingua laggiù, covando le uova piene degli occhi, nell’acqua degli occhi latterini, mai nati, annegati nelle uova pulcini, negli occhi lucide pupille, nella salamoia del mare. Salamureci: zuppa fredda d’acqua sale olio aglio pomodoro basilico e pane raffermo, imparentata col salmorejo ed il gazpacho andalusi. La consistente presenza di testi dialettali nel Premio è stata per la Giuria motivo di conferma di una direzione fertile e significativa che la poesia italiana sta percorrendo. Un nobilitare cioè le peculiarità linguistiche delle parlate minoritarie assumendo nel dialetto forme e modi della poesia in lingua, riscrivendo canoni e ritracciando percorsi. Nnunnata, in questo testo scritto nel siciliano di Trapani, è capace di una musicalità sincopata con l’uso frequentissimo dell’assonanza inevitabilmente facilitata dal dialetto stesso, che in questo si presenta come lingua privilegiata. La Giuria è stata particolarmente colpita dalla capacità dell’autore, al di là della maestria formale, di creare un climax crescente di significato e immagini che da un tono dialogico sa tendere ad accostamenti arditi e densi di significato che non scadono mai nel peregrino. Ne è di chiara e bella evidenza l’ultimo verso, nella salamoia del mare, che attinge a un termine (salamureci, tradotto con salamoia) che fa riferimento a una zuppa fredda. Una rara capacità di creare relazioni e sguardi inusuali, in una lingua sensuale e ancestrale, dalle grandissime potenzialità espressive. TERZO PREMIO Detto memorabile di Alberto Trentin Detto memorabile Tu mi accusi di esornare il tempo. Di fare scontamento dei miei anni sui tuoi denti bianchi, ritta madreperla che puntella l’anima che parla. Di tanti anni in pasto ai complici ora alle voci allora dei nostri cari antenati riduco tutto a esedra di memorie che paiono vacillare imbrunite oppure stare, e stare senza stupore alcuno Di noi soltanto accomunati dal pasto presto della paura. Una poesia preziosa nel suo utilizzo del linguaggio, a tratti ardita, pur nel rischio, evitato, di un inceppamento del linguaggio stesso in un eccessivo formalismo. Ma è l’autore in prima persona a dichiarare il terreno impervio che ha scelto di percorrere: tu mi accusi di esornare / il tempo. Un utilizzo consapevole che diviene esedra di memorie e dove la ripetizione forte di oppure stare, stare sa comunicare il fulcro fondante del testo che si scopre essere senza stupore alcuno. Ed è la mancanza di stupore, il senso di accettazione, che convince la Giuria nel suo non essere una privata inflessione dell’autore ma un di noi soltanto accomunati. Uno scorcio poetico esornato, esso stesso, in linea colpasto presto della paura che è implicito giudizio dell’autore sulla vita stessa. La chair est triste Le voci sono opache oltre i muri del bagno ultima Tebaide conosci te stesso la carne pallida allo specchio lascia sfumare gli odori rifletti per sei minuti sulla vecchiaia fa’ agire il colluttorio per trenta secondi cancella mentalmente le conclusioni. ( Sergio Pasquandrea, finalista. Da Oltre il margine, Fara Ed.) E’ finito il tempo di dedicarsi a questioni condominiali. Le case dei vicini sono piene di cose inutili e medicine. E l’ora che una società di traslochi aerospaziale si porti via i piedi e le gambe degli esseri umani. Li vorrei seduti, mansueti, a contemplare i temporali a brucare erbe aromatiche per migliorare il fiato. E con le bocche piene di prato modulare i suoni. Nelle penne, arrotolate, ci sono le parole che verranno stanno li amalgamate nel brodo primordiale dello scritto. E’ facile odiare gli uomini e i loro pensieri, ma ancora più facile è versare del niente in un bicchiere vuoto. Il muso della farfalla è mostruoso, divide il naso a proboscide con l’elefante ma non il peso. ( Paolo Agrati, finalista) Ti racconto la mia malinconia. È l’entrare in un negozio sapendo che ci sarai stata a braccetto con lui, o mano nella mano, o in una qualunque altra forma affettuosa che ti ha legata a un altro uomo. È l’ascoltare una donna che mi vuole curare la tristezza con un’ora – forse due – nel letto, quasi madonna dolorosa in un atto di pietà. È ricordare il sorriso del tuo volto sapendo che lui lo bacia. È questo sapere che ti ho amata per tre anni sette mesi e quindici giorni e qualche movimento della terra intorno al sole. ( Alessandro Canzian, presidente Premio Carducci in Carnia – Sez. generale -. Da “Il colore dell’acqua” ) TESTI PREMIATI ( SEZIONE CARNIA) GIURIA SEZIONE IN CARNIA: Guido Della Schiava Enzo Santese Risultati della Sezione In Carnia PRIMO PREMIO Il posto di Livia di Maria Cecchinato Contro il muro di pietra, sorridente, i capelli bianchi spettinati al vento, china tra salvia e lupini sfiorava boccioli, mai sazia di primavera, o raccoglieva fagioli in mezzo all’orto. Appoggiata al bancone restava trepidante in attesa di qualcuno a cui donare un’ora della sera del suo giorno, granelli di saggezza e odor di rosmarino che l’età addolciva di conforto. Aroma di caffè nell’oro del mattino mentre il sole già si avviava al Pic di Mesdì. Cielo terso e pace. Riposava così la stanchezza degli anni e respirando silenzio e aria pulita sentiva alleviarsi ansie e affanni e gli inevitabili dolori della vita. Si appisolava beata al fuoco del camino se sapeva di avere i suoi nipoti intorno. Quando arrivò la grande ombra, colse la Livia tra le rose del giardino e lei si addormentò in faccia ai monti sul cuscino vellutato del suo prato, persa tra ciò che aveva accarezzato. E le portò il vento il profumo del bosco sapendo quanto aveva lei voluto, per l’ultimo respiro, proprio quel posto. Il prelievo memoriale corre su una frequenza sentimentale capace di animare gli elementi della natura (salvia, lupini, rosmarino, monti, prato, vento e sole) e farli convergere verso la protagonista (Livia) che, all’arrivo della morte, si addormenta tra le “rose del giardino” respirando l’ultimo alito di vento della sua terra. La poesia, libera dal rischio della retorica, si sviluppa con un ritmo che fa svaporare il tono elegiaco in un tenue ricordo, delineato con contorni nitidi ed efficace semplicità espressiva. SECONDO PREMIO Cjargnel tu pari di Luigi Gonano Cjargnel tu pari Tantes, masse peraules a son za stades fates rodolâ come taes ju par un mortôr a sbarniciâ, rompi a fâ saltâ pa l’arie e pas maseries ce ch’a reste di te picjât da pruf dai voi. Poucjes tun dropaves tu pari, la to bocje a erin i braz e la to lenghe las mans. “Dami ca! Fai ben! Bisugne tegnî da cont la roube.” A erin cjacares di un om di une volte e jo no capivi ce savôr ch’a an i claps la tjere e l’arie dopo strac, no capivi il to scugnî fâ par fuarce e a ducj i costs, no capivi il to scugnî dreçiâ i clauts vecjos par no doprâ chei gnûfs, il to scugnî, ogni dì, preâ chel rosari tramandât, il to scugnî tirâ fûr par ducj un tai, ogni volte ch’a entravin, no capivi il to scugnî jessi fuart e dûr e bon davant da vite, simpri! Grazie a Diu tu pari tu mi âs simpri insegnât a dî blanc o neri a cui ch’al meréte e grazie cuant ch’al covente, cussì cumò no ai nue di ce roseami nome tantes roubes incjimò di lâ indavant a fâ. Padre carnico Tante, troppe parole sono già state fatte rotolare come tronchi in una risina a sparigliare, rompere e far saltare in aria e sui muretti ciò che resta di te appeso addosso agli occhi. Poche ne usavi tu padre, la tua bocca erano le braccia e la tua lingua le mani. “Dai qua! Fai bene! Bisogna aver cura delle cose.” Erano discorsi di un uomo di una volta e io non capivo che sapore hanno i sassi la terra e l’aria quando si è stanchi, non capivo il tuo dover fare per forza e a tutti i costi, non capivo il tuo dover raddrizzare i chiodi vecchi per non usare quelli nuovi, il tuo dover, ogni giorno, pregare quel rosario tramandato, il tuo dover offrire a tutti un bicchiere di vino, ogni volta che entravano, non capivo il tuo dover essere forte e duro e buono di fronte alla vita, sempre! Grazie a Dio tu padre mi hai sempre insegnato a bire bianco o nero a chi se lo merita e grazie quando serve, così adesso non ho niente per cui tormentarmi solo tante cose ancora da continuare a fare. Il ricordo del padre ritrae una fisionomia tipica del carattere carnico, di cui i versi fanno emergere due elementi essenziali: una sobrietà di costumi lontana dai pericoli dello spreco, l’attitudine a dire poche parole per esprimere convinzioni e verità personali. In un’alternanza di brevi periodi sintetici e indugi vicini alla prosa, le tre strofe illuminano i contorni di una figura d’uomo che appare “forte / e duro e buono di fronte alla vita”. La variante carnica della lingua friulana dà alla composizione un tocco ulteriore di autenticità del sentire e il calore di un’adesione piena al valore degli insegnamenti paterni. TERZO PREMIO Cjargna di Fernando Gerometta Cjargna Nuviça sarena dal tormênt, sui gravârs il štraulìn dal vêl, tai rius cença lagrimas cjar e siç, cûr, ven su e conta las zornadas soteradas, ducj i geis fraidîts las šchenas rebaltadas simpri prinsint il non di Diu su la lenga marsa a fâ di cuintripeis Sants, il santùt di brišcula, un clap špiçat pecjât, pinitinça chel subìt devant tal freit il flât russìt in ta bunora tornât a tirâ dentri par rišpièt al cîl e a fadìa furçons, regolts come c’a fossin Oštia doi fasùi, maglâts un tic cùfui, gjavâts dal rîs par un rosari sempiterno e Gloria il clip dal ûf ta man, dolçura, coma incjimò ta cova cuatri olmas di šcarpét ta neif, po dôs, il colp dal cloštri tredisesim bot di miegegnot, saluštri di anzoi, i šcûrs dabàs a gnot prometùt il neri dai vôi, il flât liseir, cinisa lisera e sot, borešt minût di lignas, vivas ros fuart sul ros lisêr da musa Carnia Sposa serena del tormento, sui ghiaioni lo strascico del velo, nei rivi senza lacrime carne e agra, cuore, vieni su e conta le giornate sotterrate, tutte le gerle marcite le schiene rovesciate sempre presente il nome di Dio sulla lingua riarsa a fare da contrappeso Santi, il santino di briscola, un sasso aguzzo peccato, penitenza quello subito davanti nel freddo l’alito viola di mattina reinspirato per rispetto al cielo e alla fatica briciole, raccolte come fossero Ostia due fagioli, macchiati appena bozzoli, tolti dal riso per un eterno rosario e Gloria il tiepido dell’uovo nella mano, dolcezza, come ancora nella cova quattro orme di scarpette nella neve, poi due, il colpo del catenaccio tredicesimo rintocco della mezzanotte, lucore d’angeli, gli scuri dabbasso alla notte promesso il nero degli occhi, l’alito leggero, cenere leggera e sotto, il burare minuto di perle, vive rosso forte sul rosso leggero del volto Il testo affida alla lingua friulana il compito di entrare nella carne viva del tema, umanizzando la terra d’origine della quale con efficaci rilievi metaforici allude a credenze e abitudini. I versi si strutturano in modo che il ritmo si inarca in un crescendo dove i riflessi del mito e gli effetti della realtà si combinano in un climax ascendente. Nei molteplici elementi citati la poesia consente di leggere un reticolo di connessioni tra la gran parte del mondo fisico carnico e i minimi accenni al metafisico. Come i rami s’intrecciano come sanno i fiumi i fulmini i capelli i tuoi pensieri d’un altro orizzonte e sogno le dita che sgranchiscono l’ognigiorno arruffato in cui il dirti è dire no a me stesso ( Sandro Pecchaiari, giurato Premio Carducci in Carnia. Da Le svelte radici, Samuele Ed.)