Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Più voice che loyalty

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Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Più voice che loyalty
163BELTEL
Poste Italiane-Spa Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n°46) art. 1 comma 1-DCB Milano
BUNDLING PEOPLE DAL 1995 | LʼAPPROFONDIMENTO INDIPENDENTE DELLʼINFORMATION COMMUNICATION MEDIA TECHNOLOGY | MARZO 2012 N.163
w w w . b e l t e l o n l i n e . c o m
Bye, bye, Italia!
Legge controesodo utile,
ma occorre fare di più
Alessandro Rosina
Più voice che loyalty
per invertire lʼuscita dei cervelli
Stefano da Empoli
Giovani, sveglia!
Avete opportunità incredibili
Riccardo Donadon
Innovazione digitale: boost for talent
© Luca Cattaneo
Massimiliano Magrini
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Le illustrazioni di questo numero sono state
realizzate dagli studenti del secondo anno del
corso di Illustrazione, scuola di Visual
Communication dello IED di Milano, coordinato da
Daniela Brambilla, con un lavoro didattico guidato
da Francesco Santosuosso, docente di Illustrazione
interpretativa
[email protected].
I ragazzi impegnati a produrre illustrazioni sui temi
proposti da Beltel: Lara Orrico [email protected]; Luca Cattaneo [email protected]; Valentina Cervasio [email protected]; Simone Calvi [email protected]; Maria Vittoria Romano [email protected]; Bice Marta Gadda
Conti - [email protected]; Laura
Manicardi - [email protected]; Alice Coppini [email protected] - Cristiana Messina [email protected]; Clara Leonardi [email protected];
In più hanno collaborato Maddalena Gerli
[email protected] e Teodora Filipova
[email protected]
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i
Dario Andriolo
Editoriale
Alessandro Rosina
Legge controesodo utile,
ma occorre fare di più
Stefano da Empoli
Più “voice” che “loyalty” per invertire
l’uscita dei cervelli
Riccardo Donadon
Giovani, sveglia! Avete opportunità incredibili
Massimiliano Magrini
Innovazione digitale: boost for talent
E. Amiotti, S. Fabris
La scuola italiana alle prese con
la rivoluzione digitale
Mario Rodriguez
Tecnologia diffusa e nuova classe manageriale:
è ora di muoversi!
Maria Luisa Balzano
Aiutiamo i giovani a diventare
cittadini del mondo
Mario Citelli
Crescita e formazione
Margherita Fabbri
Chiediamo più rispetto
(lettera aperta al ministro Cancellieri)
Mario Mancini
Applicazioni a go go…Il mucchio selvaggio
dell’app economy
Mario Mancini
Facebook, il vuoto d’aria della privacy
Redazione
Lanciare laptop dal cielo e vedere
l’effetto che fa
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Giovani,
figli di
un dio minore?
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Qua
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lche mese fa ho
rivisto il bel
documentario Italy,
Love it or Leave it
scritto, diretto e interpretato da Luca
Ragazzi e Gustav Hofer. Un viaggio
attraverso l’Italia a bordo di una Fiat 500
rosso fiammante, desiderosi di capire se
valga la pena lasciare questo paese oppure
no. Luca e Gustav sono una coppia di
ragazzi italiani che di recente hanno
assistito alla fuga di molti loro amici che
hanno lasciato il paese per mete come
Londra, Berlino o Barcellona. Gustav crede
che andarsene sia la scelta migliore da
fare, Luca invece vuole convincerlo che
l'Italia è ancora un paese vivo e ricco di
buoni motivi per restare. Prima di prendere
una decisione definitiva, decidono di darsi
sei mesi per capire se è ancora possibile
rimanere per tornare a ri-innamorarsi
dell'Italia. Durante il viaggio, su e giù per lo
stivale, scoprono storie e aneddoti
incredibili di un paese ancora pieno di
passioni, fucina di giovani coraggiosi che
non si piangono addosso e che
combattono per cercare di cambiare le
cose. “Un paese che – come affermano i
r
i
a
l
e
di Dario Andriolo
Direttore responsabile
due protagonisti – normalmente non viene
raccontato né al Tg1 né tantomeno nelle
fiction”. Il degrado sociale e culturale
causato da una classe dirigente miope e
inadeguata, sommato ad una grave crisi
economica di difficile soluzione, ha
costretto migliaia di nostri connazionali a
trasferirsi all’estero per vedersi riconoscere
merito e capacità professionali. D’altra
parte un paese che investe poco e male in
innovazione non è certo in grado di
bloccare questo esodo, anzi il problema
non diventa tanto la “fuga” quanto la
mancanza di capacità di “ri-attrarre”. Come
sostiene Alessandro Rosina (a pag. 3): “Noi
siamo uno dei paesi più avanzati che meno
investono in ricerca e sviluppo, che meno
hanno puntato in una politica industriale
che favorisse i settori più innovativi, quelli in
cui le idee dei giovani possono diventare
prodotti e servizi che creano occupazione e
allargano il mercato creando opportunità e
crescita”.. Opportunità dunque che
possono arrivare solo dall’innovazione, uno
dei cardini dello sviluppo economico
moderno in grado di generare crescita e
occupazione. Massimiliano Magrini, ex
Google Italia e ora AD di Annapurna
Ventures sottolinea nel suo intervento (vedi
a pag. 7) come occorre sviluppare
l’imprenditoria innovativa, sostenendo una
maggiore apertura ai talenti ed una cultura
capace di tollerare il rischio, attraverso
forme di innovazione finanziarie come ad
esempio il venture capital. “Secondo un
recente studio della Ewing Marion Kauffman
Foundation, in media le aziende ad alta
crescita, il top 1% del campione
statunitense, hanno creato il 40% dei nuovi
posti di lavoro. È un tipo di conclusione che
evidenzia l’importanza dell’imprenditorialità
innovativa e della creazione di nuove
aziende nei settori ad alta crescita”.
Dopotutto “ad alcuni dei giovani
multimilionari americani sono bastati un
garage, un pc e una buona idea!” dice
Riccardo Donadon nell’intervista a pag. 6.
“La crisi, il ricambio generazionale, Internet
stanno scardinando tantissimi status quo
[..] Viviamo un momento storico che
definirei quasi unico, i giovani hanno delle
opportunità incredibili, e alcuni lo stanno
capendo”. Senza una giusta mentalità,
un’idea geniale e un garage non bastano
generalmente per creare un’azienda di
successo. Come ha ricordato Carlo Alberto
Pratesi su Repubblica Affari&Finanza del
20 febbraio scorso in un articolo dal titolo
“Technion valley, la patria delle startup”: “L'
esperienza delle società di venture capital
insegna che su 10 startup finanziate, nel
giro di sette anni ne falliscono quattro; tre
vanno in pari (cioè recuperano solo i costi);
due generano un piccolo guadagno, e solo
una è un successo, cioè fa moltiplicare per
20 il capitale iniziale. Se si considera
oltretutto che le idee finanziate sono meno
dell' 1% di quelle presentate, è facile capire
che conquistare il mercato è un' eccezione
alla regola”. Ciò non vuol dire che non
occorre provarci anzi, sono migliaia i
ragazzi che spinti dall’esempio di Mark
Zuckerberg (Facebook) o di Jack Dorsey
(Twitter) tentano di farcela.
Anche qui da noi il fenomeno dei giovani
“startupper” sembra finalmente farsi largo
(anche se i media ancora ne parlano poco).
Giovani che grazie a Internet, un pizzico di
❱
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© Alice Coppini
ALESSANDRO ROSINA: “LEGGE CONTROESODO
UTILE, MA OCCORRE FARE DI PIÙ”
Intervista a cura di Dario Andriolo
“In un mondo
sempre più globale
e interconnesso si
può partecipare al
cambiamento
culturale e alla
crescita economica
dellʼItalia anche
vivendo altrove”.
I
gnorata per molto tempo, la “fuga dei
talenti” è diventato un problema socioeconomico, politico e culturale che
minaccia il futuro del nostro paese.
Investimenti insufficienti in ricerca e
sviluppo, scarsa attitudine verso
l’innovazione e continui ostacoli al
cambiamento hanno reso il paese poco
“attrattivo” per i giovani talenti italiani e
stranieri, costringendo i primi a “fare le
valigie” e trasferirsi all’estero per vedersi
riconosciuti merito e capacità.
Di questo tema si occupa da tempo
Alessandro Rosina, uno dei più attenti
conoscitori dei cambiamenti sociali in atto
nel nostro paese. Professore di Demografia
e Statistica sociale all’Università Cattolica di
Milano dove dirige anche il Laboratorio di
statistica applicata, fa parte del Consiglio
Direttivo della SIS-Società Italiana di
Statistica. Scrive per vari quotidiani
nazionali e riviste. Presiede l’associazione
ITalents che si occupa della promozione dei
giovani talenti italiani nel mondo.
Ha al suo attivo molte pubblicazioni
nazionali e internazionali su temi riguardanti
le nuove generazioni, la famiglia, il welfare,
il rapporto trasformazioni demografiche e
sviluppo. Tra i suoi libri più recenti Non è un
paese per giovani (Marsilio, 2009, scritto
con E. Ambrosi) e Goodbye Malthus. Il
futuro della popolazione: dalla crescita
della quantità alla qualità della crescita
(Rubbettino, 2011, con M.L. Tanturri).
D. Chi sono i “giovani talenti” in fuga? E
perché il problema è stato ignorato per così
tanti anni?
Il problema della “fuga dei talenti” è
diventato solo recentemente tema di
dibattito pubblico sia per una questione di
dati sia per la natura del fenomeno.
Abbiamo infatti una carenza di informazioni
su quanti sono quelli che se ne vanno e
sulle caratteristiche che hanno. A tali limiti
© Maria Vittoria Romano
follia e un’idea giusta si creano il “lavoro” in
grado di generare occupazione. Alcune
aziende italiane hanno iniziato a capirlo:
sono nate in questi ultimissimi anni alcune
importanti iniziative, da Mind The Bridge a
Working Capital di Telecom Italia, da
InnovAction Lab a Startup Iniziative di
Intesa San Paolo e altre ancora sono in
procinto di partire. Tutti progetti finalizzati a
sostenere i giovani dotati delle migliori idee
innovative (l’esecutivo sembra stia
discutendo l’idea di un superfondo sul
modello francese, partecipato dalla Cassa
Depositi e Prestiti e finalizzato alle startup).
Secondo stime ufficiose in Italia sono circa
25mila i giovani che hanno deciso di
“crearselo” un lavoro, a dispetto di tutti
coloro che parlano delle nuove generazioni
come di “bamboccioni” o “sfigati”, incapaci
di trovarsi un lavoro lontano da mamma e
papà. Un esercito di ragazze e ragazzi dai
venti ai trent’anni etichettati in questo modo
– forse perché non hanno genitori famosi e
non appartengono a nessuna “casta” –
come fossero tutti figli di nessuno.
Scuola, ricerca e innovazione sono assi
portanti su cui si regge un paese moderno,
punti essenziali su cui investire per tornare
ad essere “attrattivi” e colmare i ritardi
accumulati dall’Italia rispetto alle nazioni più
progredite. Curiosando tra le pieghe
dell’ultimo bilancio federale americano
(2012-2013) si scopre che
l’amministrazione Obama ha tagliato in
quasi tutti i settori ad eccezione di
istruzione, scienza e innovazione.
“La scienza e la tecnologia sono in grado di
fare la differenza, per il benessere di questa
nazione nel lungo periodo” ha affermato
Barack Obama. Già, ma quelli sono gli Stati
Uniti e noi, purtroppo, no.
Sono passati più di cento giorni
dall’insediamento del governo Monti e di
politiche orientate ai giovani, all’innovazione
e allo sviluppo digitale del paese si è
sentito molto ma visto poco.
Il paese va ricostruito partendo dai giovani,
considerandoli non più come “figli di un Dio
minore” ma come protagonisti del paese
che verrà.
■
ha cercato di rispondere l’AIRE (Anagrafe
degli Italiani Residenti all’Estero) che però
rileva solo coloro che formalizzano la loro
residenza all’estero e molti espatriati non lo
fanno. I dati quindi sono sottostimati ma
anche le caratteristiche rilevate su chi
risiede all’estero, utili per avere un profilo
preciso di chi se ne va, sono molto limitate.
Pur con questi limiti, quello che sappiamo è
che il fenomeno è cresciuto molto ed
interessa sempre più giovani con alti livelli
di qualificazione. Esiste poi una questione
legata alla natura del fenomeno. Se ci
confrontiamo con gli altri grandi paesi
l’anomalia italiana risulta soprattutto
evidente nel saldo netto tra “cervelli” che se
ne vanno e quanti tornano o riusciamo ad
attrarne dagli altri paesi. È soprattutto sotto
questa prospettiva che il problema diventa
particolarmente rilevante, e ci fa capire che
la questione non è tanto la “fuga” ma la
mancanza di capacità di ri-attrarre.
D. Un paese che investe poco in
innovazione è in grado di fermare questo
esodo?
La risposta è certamente no. Noi siamo uno
dei paesi più avanzati che meno investono
in Ricerca e sviluppo, che meno hanno
puntato in una politica industriale che
favorisse i settori più innovativi, quelli in cui
le idee dei giovani possono diventare
prodotti e servizi che creano occupazione
e allargano il mercato creando opportunità
e crescita. I giovani di talento vanno dove il
loro valore può essere maggiormente
riconosciuto e il loro capitale umano può
essere maggiormente valorizzato. Se non
creiamo le premesse perché ciò avvenga
anche in Italia, saremo destinati a rimanere
un paese di serie B che incentiva le sue
risorse migliori ad andarsene.
D. Secondo lei è ancora una élite ristretta
che fugge, oppure il fenomeno si sta
allargando anche ai giovani in generale
(meno istruiti)?
Se ne va chi ha maggiore propensione a
muoversi, chi vuole confrontarsi con
opportunità più ampie rispetto a quelle che
offre il paese di origine, chi desidera crearsi
una rete di relazioni internazionali. La
consapevolezza dell’importanza di fare
esperienze all’estero è maggiore tra chi ha
una famiglia di origine con status sociale
elevato. C’è poi chi invece se ne va per la
mancanza di adeguate opportunità in Italia.
Più che attratto dall’esperienza all’estero,
fugge per carenza di prospettive nel luogo
di nascita. Questa mancanza di prospettive
in Italia sta diventando sempre più grave
ed è il motivo per cui il fenomeno si sta
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allargando a tutte le fasce sociali. Una
realtà quindi sempre più variegata, che
interessa una platea sempre più vasta di
giovani.
D. Il problema del “ritorno in Italia” sembra
non sia risolvibile solo con degli incentivi di
natura economica. Cosa fare allora?
Le politiche devono mirare non tanto ad
impedire la “fuga”, ma ad incentivare la
circolazione dei talenti. Come abbiamo
detto, quello che a noi manca è la capacità
di ri-attrarre.
Un tentativo nella direzione giusta è la
legge “Controesodo” (n. 238/2010), entrata
in vigore ad inizio 2011, che prevede
incentivi fiscali ai lavoratori under 40 che
rientrano in Italia dopo un periodo di
occupazione di almeno due anni all’estero.
Il provvedimento approvato ha il pregio di
essere stato disegnato in modo non tanto
per frenare l’espatrio, ma incentivare
congiuntamente sia la scelta di fare
un’esperienza all’estero che il rientro. Si
tratta di una iniziativa utile e importante che
ci auguriamo abbia il maggior successo,
ma di per sé non basta, per due ordini di
motivi.
Il primo è che non sono sufficienti gli
incentivi fiscali, bisogna anche creare le
condizioni perché i giovani di talento
possano crescere e dare buoni frutti anche
nel nostro paese.
Serve quindi un ambiente meno
gerontocratico, meno nepotista, con
selezione più trasparente e basata su criteri
oggettivi legati al merito, ma che incentivi
anche l’intraprendenza dei giovani e li
renda una risorsa attiva nell’espansione dei
settori più innovativi e dinamici.
Il secondo motivo è che dovremmo puntare
a coinvolgere anche i talenti che decidono
comunque di non tornare. In un mondo
sempre più globale e interconnesso si può
partecipare al cambiamento culturale e alla
crescita economica dell’Italia anche
vivendo altrove. L’associazione ITalents
(www.italents.org), ad esempio, è nata con
l’obiettivo di realizzare un’idea di “Italia
diffusa”, fondata sulla rete e non sui confini,
in grado di mettere strutturalmente e
stabilmente in connessione attiva tutto il
meglio che gli italiani sanno essere e fare,
ovunque si trovino.
D. Parafrasando una celebre frase tratta dal
film La meglio gioventù, “chi sono oggi i
dinosauri da abbattere?”
I dinosauri da abbattere sono i mali storici
dell’Italia che frenano il cambiamento e la
crescita del paese. Sono quelle forze
economiche, sociali e politiche che
pensano soprattutto a mantenere le proprie
rendite di posizione.
Sono coloro che per la difesa degli interessi
del presente sacrificano l’investimento sul
futuro.
Sono i responsabili dell’enorme debito
pubblico, del ricambio generazionale
bloccato, i conniventi dell’evasione fiscale e
del lavoro nero, i paladini del
corporativismo.
Sono tutti coloro che impediscono alle forze
più fresche, dinamiche e innovative di
trovar spazio ed emergere.
È tempo di un nuovo rinascimento,
ma prima serve forse una dura era glaciale
che spazzi via una classe dirigente non
solo vecchia e compromessa con i mali
storici del passato, ma soprattutto
manifestamente inadeguata a raccogliere
le nuove sfide di questo secolo.
■
PIÙ “VOICE” CHE “LOYALTY”
PER INVERTIRE L’USCITA
DEI CERVELLI
di Stefano da Empoli
Presidente I-Com, Istituto per la Competitività
La fuga dei cervelli costa cara allʼItalia.
Quale soluzione?
È
possibile vedere nella fuga dei
cervelli sia una delle principali
cause che uno degli effetti più
evidenti della perdita di
competitività dell’Italia.
Difficile avere un’esatta quantificazione
del fenomeno ma l’osservazione congetturale di ciascuno di noi, che si trova ad
avere un numero crescente di parenti,
amici e conoscenti italiani residenti all’estero, è supportata dai dati ufficiali. Che
nel caso specifico sono in primo luogo
quelli dell’AIRE, l’Anagrafe Italiana per i
Residenti all’Estero. Tra il 1992 ed il 2000,
le nuove registrazioni annuali di cittadini
italiani residenti all’estero ammontavano in
media a 100.000 mentre nel decennio
successivo la media raddoppia a circa
200 mila. Tale variazione registrata dal
database dell’AIRE è in parte certamente
imputabile alla Legge Tremaglia del 2001,
che ha riconosciuto il diritto di voto agli
italiani all’estero, e alla crisi economica
che ha interessato l’America Latina, in
particolare l’Argentina, spingendo molti
discendenti di emigrati a richiedere la cittadinanza italiana.
Tuttavia, anche muovendosi attraverso
dati che come quelli AIRE sovrappongono
inevitabilmente fenomeni di emigrazione
di epoca diversa e del tutto eterogenei
per livello sociale e di istruzione, saltano
agli occhi alcuni fatti che fotografano
quanto avvenuto nell’ultimo decennio.
Come ad esempio l’aumento vertiginoso
dei residenti in nazioni o aree geografiche
che tradizionalmente non ospitano comunità italiane di passata emigrazione. I residenti italiani in Spagna dal 2005 al 2010
sono passati da 62.986 a 113.584 (con
Barcellona che ne ospita 54.113, per intenderci più di quattro volte il numero di
cinesi ufficialmente presenti a Roma).
Negli stessi 5 anni, quindi dopo l’applicazione della Legge Tremaglia, gli italiani
che fanno capo al consolato di Bruxelles
sono passati da 58.250 a 83.116, a quello
di Londra da 108.298 a 155.505, a quello
di Berlino da 12.740 a 17.356.
❱
-::-beltel-::-4
9.000.000
Popolazione
8.000.000
Immigrati
7.000.000
Emigrati
6.000.000
5.000.000
Immigrati
Emigrati
4.000.000
3.000.000
Reddito medio
netto annuo
(20-34 anni)
Reddito medio netto
annuo procapite
corretto (20-34 anni)
Totale reddito
mancato
migliaio
€
€
migliaia di €
101
120
15.954
15.954
15.795
15.765
3.900.219
4.646.858
Saldo
2.000.000
20
- 763.283
Tabella: Effetto annuale del saldo negativo Immigrati-Emigrati con titolo di laurea - Fonte: Elaborazioni
I-Com su dati OCSE 2005, ISFOL 2010, Eurostat 2005
1.000.000
0
Popolazione
laureata
(20-34 anni)
a
a
a
a
a
USA anad strali mani ranci pagn
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UK anda pone Italia anda lonia ssico
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Figura 1: Flusso annuale immigrati ed emigrati con un titolo di studio universitario - Fonte: Elaborazioni I-Com su dati OECD 2005
per scontato che molti fossero i non registrati).
Per capire i motivi che spingono quote
crescenti di giovani italiani a fare le valigie è estremamente interessante guardare a uno studio compiuto dall’Istat nel
2009 sull’intera popolazione dei dottori di
ricerca italiani che hanno conseguito il titolo nel 2004 e nel 2006.
Innanzitutto, a leggere con attenzione i
dati, si capisce che chi parte non è necessariamente chi sta peggio. A fare di
più le valigie sono stati infatti i dottori di ri-
© Lara Orrico
Gran parte delle nuove iscrizioni sono attribuibili a giovani con istruzione superiore
alla media che cercano altrove la fortuna
che non hanno (per ora) trovato in Italia.
Quelli citati sono peraltro numeri che sottostimano certamente il fenomeno, in
quanto un discreto numero di italiani non
residenti non si iscrive all’AIRE (fatto certificato anche dalla Legge sul controesodo
del 2010, che ha previsto che i benefici fiscali per chi rientrava si dovessero applicare a prescindere dall’iscrizione
all’anagrafe degli italiani all’estero, dando
cerca del Nord (in particolare del NordEst) e coloro che avevano i genitori con il
titolo di studio più elevato.
Un fattore critico è senz’altro lo stipendio.
I dottori di ricerca che avevano conseguito il titolo 3 anni prima guadagnavano
in media nel 2009 € 1.687, poco meglio
andava a coloro che avevano preso il dottorato 5 anni prima (con € 1.759 euro).
D’altronde basta guardare il Rapporto
OCSE “Education at a Glance” del 2011
per capire che, tra tutti i paesi più sviluppati, l’Italia è una delle nazioni con il minore gap salariale tra diversi titoli di
istruzione e con quello maggiore tra differenti classi anagrafiche e tra sessi (a parità di istruzione). Il fatto che in due anni
di lavoro (supponendo sostanzialmente
omogenea la qualità dei due pool di capitale umano) lo stipendio medio di un dottore di ricerca aumenti appena di 72 euro
netti conferma drammaticamente la drammaticità della situazione.
Tuttavia, ed è forse questo l’aspetto più interessante dell’indagine ISTAT, non è il
basso stipendio in cima alle preoccupazione dei giovani dottori di ricerca bensì le
prospettive di carriera, che nel 2009 soddisfacevano a fatica il 50% degli intervistati
(per l’esattezza il 52,5%, un dato molto
basso se consideriamo che stiamo parlando della più ristretta élite del talento).
Per completare il quadro, occorre dare
uno sguardo al saldo tra talento in entrata
e talento in uscita.
Nella figura 1, che mostra sempre dati
OCSE, risalenti al 2005, si evince che
l’Italia è l’unico paese avanzato (a parte
l’Irlanda, penalizzata paradossalmente
dall’appartenenza al club anglosassone)
che ha un saldo netto negativo tra emigrati ed immigrati con un titolo di studio
universitario. Al contrario, gli Usa, il Canada, l’Australia, la Germania e la Francia
emergono come i paesi che possiedono
una maggiore attrattività per i laureati, con
un saldo positivo significativo tra immigrati ed emigrati laureati. Discorso a parte
per il Regno Unito, che soffre di un brain
drain elevato verso gli Stati Uniti.
Partendo da questi dati e incrociandoli con i
dati Eurostat sulle fasce d’età dei migranti
laureati da e per l’Italia, I-Com, Istituto per la
Competitività, stima che il reddito mancato
dovuto alla perdita dei laureati italiani nella
fascia di età compresa tra 20 e 34 anni, al
netto degli immigrati nella stessa fascia di
età e con pari titolo di studio, sia pari a €
763 milioni all’anno (vedi tabella).
In termini di PIL, questo si traduce in una
perdita annualmente pari a circa € 1,2 miliardi (il che si traduce a sua volta in mancate entrate fiscali pari a € 524 milioni,
calcolate sui valori della pressione fiscale
del 2010).
Per dare un’idea della perdita di opportu-
-::-beltel-::-5
nità economica per il nostro Paese, secondo lo studio I-Com, qualora il saldo
immigrati-emigrati laureati fosse pari nella
fascia anagrafica descritta a quello tedesco, esso permetterebbe di generare un
aumento del PIL pari a € 20,7 miliardi e
un incremento delle entrate fiscali pari a
€ 9 miliardi.
Rispetto a una situazione che è andata
così incancrenendosi negli anni, non è facile proporre soluzioni efficaci. Lodevoli ma
probabilmente da soli poco incisivi i provvedimenti ad hoc che incoraggiano il ritorno degli italiani che si trovano all’estero
(siano essi docenti o ricercatori oppure lavoratori under 40). Problemi di tipo generale si possono risolvere difficilmente con
soluzioni specifiche e basate su incentivi fiscali di breve durata (3 anni al massimo nel
caso della Legge bipartisan n.238/2010 sul
contro-esodo, forse il provvedimento di
portata maggiore fin qui approvato).
Più importanti appaiono leggi che riguardino il sistema universitario e della ricerca
e il mercato del lavoro, laddove vengano
promossi criteri davvero meritocratici: ad
esempio, fondi concessi in base ai risultati della ricerca, non solo teorica ma
anche applicata (basati sul numero e
sulla rilevanza dei brevetti), oppure scatti
automatici di anzianità aboliti o quantomeno appiattiti (l’Italia è il solo tra i grandi
Paesi europei dove la curva salariale raggiunge il suo apice alla soglia dell’età
pensionabile, laddove è noto che la maggiore produttività viene raggiunta dal lavoratore medio tra i 40 e i 50 anni).
Quanto all’attrattività dell’Italia verso i talenti stranieri, alcuni interventi facili ci sarebbero: ad esempio, una corsia
preferenziale per il rilascio del permesso
di soggiorno. In più, tra i criteri di ottenimento dei fondi per le università e gli enti
di ricerca pubblici, si dovrebbe valorizzare la presenza di docenti, ricercatori e
studenti stranieri nonché, per le università, l’incidenza sull’offerta formativa di
corsi in lingua inglese.
In ogni caso, è chiaro che senza un salto
culturale che ci proietti finalmente tra i
protagonisti della globalizzazione (piuttosto che tra i suoi agenti passivi), difficilmente questi problemi saranno risolti.
Parafrasando il titolo di un celebre libro di
Albert O. Hirschman, ci si augura che una
voice sempre più forte permetta di ridurre
l’attuale fenomeno di exit. Quel che è da
escludere è la loyalty al Belpaese delle sue
classi migliori, in assenza di cambiamenti
strutturali, che non possono viaggiare solo
attraverso le strade secondarie delle leggi
simboliche, certamente importanti ma del
tutto insufficienti nella situazione attuale, ma
devono necessariamente imboccare le autostrade delle riforme strutturali che promuovano il merito a tutti i livelli.
■
RICCARDO DONADON: “GIOVANI, SVEGLIA!
AVETE OPPORTUNITÀ INCREDIBILI”
Intervista a cura di Dario Andriolo
“Non cʼè nessun motivo per cui non potrebbe nascere qui la
prossima startup che rivoluziona il mondo”.
“B
asta piangersi addosso,
c’è bisogno di energie e
voglia di riscrivere tutto”.
Donadon punta deciso a
spronare quei giovani che ancora non si
rendono conto dell’enorme potenziale che
il mondo delle startup può offrire loro.
Dopotutto “ad alcuni dei giovani
multimilionari americani sono bastati un
garage, un pc e una buona idea!”.
Riccardo Donadon, quarant’anni, è
Presidente e Amministratore Delegato di
H-Farm, azienda in cui si coltivano le
migliori idee imprenditoriali in ambito
Internet e New Media, favorendo lo
sviluppo di startup fondate su modelli
innovativi di business. Nata nel 2005
proprio da un’idea di Donadon, H-Farm è
un’esperienza forse più vicina a quella di
un acceleratore in stile americano
piuttosto che ad un incubatore. Immersa
nella campagna trevigiana H-Farm
coniuga in maniera armonica tecnologia,
natura e professionalità, assicurando un
luogo favorevole per la crescita di nuove
imprese e che oggi, nonostante la crisi,
sta continuando in maniera positiva la sua
avventura. In essa vi lavorano quasi 250
giovani e nel 2015 saranno 500. In sei
anni ha investito circa 11 milioni di euro,
che saliranno a 20 nei prossimi quattro
anni. Ospitano 32 startup, di cui 5 già
vendute e altre in attesa di esserlo.
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La
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© Laura Manicardi
D. Quali sono a tuo parere gli ostacoli
maggiori che impediscono ai giovani dotati
di talento, creatività e idee di affermarsi nel
nostro paese?
Io credo che questa cosa stia diventando
un po’ un luogo comune, certo ci sono dei
problemi, ma come sempre ad ogni
problema corrisponde un’ opportunità.
L’Europa, l’Italia sono vecchie, sedute,
arroccate su vecchi modelli, tanto che
perfino i nostri media non raccontano mai
a sufficienza le belle storie di chi ci prova.
È più facile elencare le cose che non
funzionano. Penso che piangersi addosso
non sia la soluzione. Il resto del mondo,
perché è su questa scala che bisogna
ragionare, non è un paese per vecchi; il
resto del mondo è giovane e vuole il suo
spazio. La crisi, il ricambio generazionale,
Internet stanno scardinando tantissimi
status quo. Modelli di business ritenuti
intoccabili e inossidabili stanno saltando.
C’è bisogno di idee nuove, energia e
voglia di riscrivere. Viviamo un momento
storico che definirei quasi unico, i giovani
hanno delle opportunità incredibili, e
alcuni lo stanno capendo. I media devono
raccontare le loro storie perché devono
scuotere quelli che si lasciano avvinghiare
da vecchi schemi sociali che sono
-::-beltel-::-6
propagandati dalle generazioni
precedenti solo per loro specifico
interesse, una voce a cui sarebbe molto
comodo credere e che rischia di
tramutarsi in un abbraccio mortale. Ad
alcuni dei giovani multimilionari americani
(Zuckerberg & C.) sono bastati un
garage, un pc e una buona idea!
Facebook ha generato mille milionari nella
Silicon Valley. Non c’è nessun motivo per
cui non debba nascere qui la prossima
startup che rivoluziona il mondo.
D. Di recente H-Farm ha abbracciato
anche il campo della formazione, cosa
state facendo a proposito? E con quali
obiettivi?
Oggi in Digital Accademia c’è grande
fermento, a Marzo partirà il primo
MasterLab in Digital Economics &
Entrepreneurship rivolto a tutti coloro che
vogliono fare la loro startup, ma anche a
coloro che vogliono crescere e lavorare
nel digitale. Per noi la formazione è
fondamentale: portarla vicinissimo a noi
assolve almeno diverse motivazioni. La
prima, la più forte, è che stiamo
crescendo tantissimo (oggi nella sede di
H-Farm nel portafoglio delle iniziative ci
sono oltre 200 giovani), nei prossimi
quattro anni raddoppieremo per cui noi
per primi siamo interessati al fatto che
siano formati bene. Con noi deve
crescere però anche il territorio, il
mercato, le imprese e Digital Accademia
è un luogo aperto con percorsi formativi
che vanno dai corsi estivi realizzati in
collaborazione con alcuni mentors Apple
e la scuola Internazionale di Brescia per i
bambini dai 6 ai 12 anni, ai workshop
tematici di 48 ore ogni 15 giorni, al
tagliando digitale per le aziende, agli
Innovations day, al MasterLab che citavo
prima, fino ai corsi per i genitori su come
comportarsi con i figli su Facebook, per
poi chiudere con i corsi per gli entusiastici
Silver Surfer, autentica rivelazione per
energia e voglia di fare.
In sintesi, il nostro obiettivo è far capire
quanto possa essere straordinariamente
utile per tutti, questa meravigliosa rete
tecnologica e come sfruttarla al meglio
per le proprie necessità.
D. L'attuale crisi globale può dischiudere
opportunità di cui, in periodi di crescita,
non si ha percezione. Quali sono oggi i
settori e le tendenze da approfondire per
sviluppare innovazione digitale?
Come dicevo prima le opportunità sono
straordinarie e abbracciano tutti i settori,
spesso anche quelli che sembravano off
limits. Banalmente il commercio
elettronico non ha ancora manifestato il
suo reale potenziale di crescita. Sarà
vertiginoso, specie ora che inizierà
l’acquisto in mobilità con la velocità del
LTE e le nuove tecnologie di pagamento.
L’healthcare, la manutenzione, la gestione
del nostro corpo, la prevenzione: uno
scenario enorme dove già si intravedono
le potenzialità con le prime applicazioni.
La gestione delle proprie finanze, la crisi
avrà l’effetto positivo che ci farà diventare
molto più attenti. Nasceranno strumenti. Il
telefonino sarà sempre di più il cuore di
tutto.
D. Come vedi il futuro dellʼIT in generale
tra cinque anni? E come cambieranno i
❱
D. Facebook, il principale social network al
mondo sarà presto quotato in Borsa: sarà
una grande opportunità oppure una
clamorosa bolla. Qual è la tua opinione?
Una grande opportunità. Sta diventando
un enorme sistema operativo. I prossimi
12 mesi saranno decisivi per la traiettoria,
ma io credo che non si possa parlare di
bolla. C’è già molto, ma il potenziale è
enorme.
INNOVAZIONE DIGITALE: BOOST FOR TALENT
di Massimiliano Magrini
Manager ed imprenditore, Founder di Annapurna Ventures
“Occorre moltiplicare le iniziative concrete a favore
dellʼimprenditoria innovativa driver principale per creare sviluppo,
occupazione e crescita”.
L’
innovazione è uno dei cardini
dello sviluppo economico
moderno ed è, come ha
evidenziato il grande teorico del
management Peter Drucker, lo “strumento
specifico dell’imprenditorialità”. Dalle prime
analisi di Schumpeter fino alle moderna
teoria economica è stato dimostrato come
imprese, regioni, stati dove si concentrano
innovazione tecnologica, ricerca
scientifica, investimento in capitale umano
e imprenditorialità presentino le migliori
prospettive per la creazione di ricchezza e
occupazione. Infatti, il potere trasformativo
delle idee sta aumentando
progressivamente: la miscela è costituita
dalla retroazione reciproca tra sviluppi in
ambito tecno-scientifico, innovazioni
finanziarie (sistema del venture capital),
politiche pubbliche adeguate (supporto
allo sviluppo del capitale umano, creazione
di research universities), apertura ai talenti
ed una cultura capace di tollerare il rischio.
Perché il venture capital è così importante?
Una maggiore incidenza di investimenti in
imprese innovative nelle loro prime fasi di
attività è correlato ad un incremento della
crescita economica e dell’occupazione. Ad
esempio, negli Stati Uniti le venture backed
companies producono una ricchezza pari
al 21% del PIL e danno lavoro all’11% degli
occupati nel settore privato. Inoltre, le
aziende sostenute dal venture capital sono
maggiormente performative ed ottengono
risultati superiori alle altre imprese sia in ter-
D. Nel 2012 i dispositivi mobili connessi al
web diventeranno più numerosi degli
abitanti della Terra. Quali sviluppi
dobbiamo ancora aspettarci dalla
tecnologia?
Le nostre cose non sono ancora collegate
alla rete. La città non è in rete. Tra quattro
anni ci saranno tanti oggetti che oggi
vengono ancora visti con curiosità che
saranno ritenuti assolutamente ordinari.
Penso ad un e-book con la sim annegata
al suo interno, penso ad un cancello che
si aprirà da solo quando rileverà che
stiamo per presentarci, penso ad un
allarme che si spegnerà, al riscaldamento
della casa che capirà che abbiamo
lasciato l’ufficio. Il focus principale di tutti
deve essere rendere invisibile tutto
questo. Siamo solo all’inizio…Mille
opportunità per chi vuole vivere queste
cose da protagonista.
■
mini di reddito prodotto sia in termini di
nuovi posti di lavoro generati. Questo è vero
in particolare per i fondi che operano nel
primo quartile, che agiscono con un approccio “hands on”, supportando gli imprenditori nello sviluppo del business e nel
networking commerciale e finanziario. Secondo un recente studio della Ewing Marion
Kauffman Foundation, in media le aziende
ad alta crescita, il top 1% del campione statunitense, hanno creato il 40% dei nuovi
posti di lavoro. È un tipo di conclusione che
evidenzia l’importanza dell’imprenditorialità
innovativa e della creazione di nuove
aziende nei settori ad alta crescita.
L’elemento principale dell’accelerazione
economica generata dagli investimenti è
costituito dalle startup: team imprenditoriali
che, con il supporto di finanziatori esterni o
con risorse autonome, immettono sul mer-
❱
© Simone Calvi
“modelli di business”?
L’IT dal 2008 con l’invenzione dell’APP
Store ha definitivamente cambiato le sue
prospettive. È cambiato tutto. Gli
Smartphone, i Tablet, domani la Tv e
soprattutto il cloud stanno facendo il
resto. Ci sarà una profonda riscrittura di
tutto con le nuove generazioni. Nuove
porte di ingresso ai servizi, accessibilità
ovunque, nuove interfacce,
semplificazione di tutto il processo interno
ed esterno. Credo si andrà
definitivamente verso una cultura che
vede il servizio e la sua qualità al centro.
Un tweet già oggi può mettere in crisi
un’azienda e domani più che mai, perché
la soglia delle aspettative dell’utenza è
sempre più alta.
Per saperne di più…
Annapurna Ventures è stata creata nel
2009 da Massimiliano Magrini, manager
ed imprenditore di lungo corso che in passato ha fatto la startup delle sezioni italiane di Google, Spray Network e
Altavista. Annapurna seleziona nuove imprese nella fase iniziale del loro ciclo di
vita, fornendo loro un supporto finanziario,
analitico e di affiancamento imprenditoriale. La società opera principalmente
nell’ambito dell’economia digitale, con un
focus specifico sui servizi web, il software
per imprese e la tecnologia mobile. Annapurna aiuta lo sviluppo delle società partecipate in modo proattivo, fornendo
mentorship, esperienza nel settore ed una
rete estesa di contatti.
LA SCUOLA ITALIANA
ALLE PRESE CON
LA RIVOLUZIONE DIGITALE
di Enrico Amiotti e Sergio Fabris
Rispettivamente, Fondazione Enrica Amiotti e Skillnet Consulting
Come sta mutando la concezione
di istruzione e formazione nellʼera
della connettività globale.
Ne
lla nuova società globale
l’Information
Communication
Technology (ICT) è
certamente uno dei maggiori determinanti
dello sviluppo economico e
dell’incremento della qualità della vita.
L’inarrestabile evoluzione tecnologica e la
sua pervasività in ogni settore di attività
hanno innestato nei paesi sviluppati un
circolo virtuoso di crescita che risulta
valido anche per le economie in via di
sviluppo. La rivoluzione digitale
rappresenta l’uso dell’ICT in tutti gli aspetti
della società, inclusi i processi operativi
delle organizzazioni aziendali, governative
e non profit, e nelle transazioni tra le
organizzazioni e tra individui che agiscono
come imprenditori, consumatori e cittadini.
L’ICT ha rivoluzionato il mondo delle
organizzazioni con nuovi modelli di
processi di lavoro, creando nuovi settori di
business, incrementando la produttività e
innovando i rapporti tra aziende e
consumatori in ogni settore: nelle aziende
agricole, industriali e finanziarie, nei servizi
e negli enti governativi. Questo processo
espansivo è ben lungi dall’esaurirsi perché
i suoi elementi di base, hardware, software
e servizi, continuano a migliorare in termini
di qualità, velocità, prezzi e facilità d’uso.
Da poco più di vent’anni l’ICT è entrata
anche nelle scuole principalmente per una
forzatura marketing dell’ “offerta” di
prodotti digitali, mentre è mancata,
soprattutto all’inizio, una specifica e
motivata “domanda” da soddisfare. E i
risultati sono tutt’altro che soddisfacenti.
Le motivazioni per l’introduzione dell’ICT
nelle scuole devono provenire dalla
consapevolezza degli operatori scolastici
di ottenere:
• un miglioramento della qualità
dell’insegnamento e dell’apprendimento;
• la creazione di competenze di base per
un utilizzo efficace e consapevole degli
strumenti e delle tecnologie
dell’informazione;
• il superamento delle barriere che
ostacolano l’accesso alla scuola dei
disabili e degli immigrati;
• un miglioramento della gestione della
scuola con riduzione dei costi a parità di
risultati.
La scuola italiana non è stata
opportunamente preparata all’introduzione
dell’ICT:
• sono state insufficienti (e a volte
contraddittorie) le specifiche politiche
governative di sviluppo e di investimento;
• i fondi stanziati sono sempre risultati
inadeguati alla dimensione e complessità
dei problemi da affrontare (infrastrutture
e dotazioni a livello aule, insegnanti,
alunni, ecc.);
• sono state inadeguate le iniziative di
formazione degli insegnanti;
• nei casi virtuosi, l’approccio è stato di
fatto limitato all’informatica tradizionale,
basata su pc, e non ha tenuto conto
della ricchezza di strumenti interattivi e di
contenuti multimediali offerti sulle nuove
piattaforme (tablet, wireless, connettività
Internet a larga banda) ed applicazioni;
• gli editori di testi scolastici sono stati
assai poco innovativi nella creazione e
promozione di nuovi contenuti
multimediali, anche a causa del limitato
parco hardware e di disponibilità di reti di
comunicazione nelle scuole;
• è mancata una adeguata riflessione e
progettazione del ruolo che le nuove
tecnologie dell’informazione possono e
devono avere sulla didattica nella scuola,
differenziando chiaramente tra diversi
livelli (scuola primaria, secondaria
inferiore e superiore, istituti professionali,
università), diverse discipline (es.:
matematica e scienze, lingue straniere,
discipline umanistiche) ed il lavoro in
classe e a casa da parte dei discenti.
Il risultato è che il settore scolastico nella
sua globalità risulta decisamente in ritardo
nell’utilizzo dell’ICT, sia per gli aspetti
organizzativi sia per i metodi didattici,
questo nonostante molte pregevoli
iniziative locali che testimoniano delle
possibilità di sviluppo che l’utilizzo delle
tecnologie digitali possono offrire.
In molti casi gli strumenti digitali introdotti
❱
© Maddalena Gerli
cato un prodotto affrontando un rischio calcolato. Per questo motivo la forma di finanziamento dell’innovazione che ha
maggiormente supportato le startup è stata
il venture capital: la messa in opera di capitali intelligenti capaci di sopportare rischi
elevati con, allo stesso tempo, un potenziale di rendimento consistente. Questa
forma di investimento è legata a progetti
fortemente scalabili, con mercati ampi e ad
alto potenziale di crescita. Per questa ragione i settori ad alta tecnologia e ad alta
crescita, come le biotecnologie, le nanotecnologie e Internet, sono stati il bacino di
selezione specifico dei fondi di venture capital alla ricerca di progetti promettenti.
In particolare, il settore delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si
è dimostrato uno dei comparti di maggiore
successo: da molti anni le tecnologie digitali aumentano la loro performance e vedono diminuire i loro costi, seguendo la
celebre legge di Moore, fornendo quindi i
fattori abilitanti per la costruzione di aziende
con costi di avvio sempre più bassi. Inoltre,
lo sviluppo di piattaforme come Facebook o
l’ecosistema Apple ha permesso di diffondere le innovazioni digitali ad un pubblico
sempre più ampio con costi contenuti.
Le opportunità sono quindi molte, ma ciò
non significa che si potranno cogliere passivamente. Il nuovo ambiente competitivo
sarà molto differente dagli anni passati, essendo segnato dal trauma della crisi economica mondiale, dal cambiamento
profondo della dinamica di alcuni settori
della finanza e dal cambiamento dell’equilibrio di potere globale, all’interno del quale i
paesi asiatici hanno un peso molto maggiore. In questo nuovo scenario, le imprese, i governi, le università e gli operatori
del venture capital sperimenteranno un
processo di adattamento che favorirà chi
sarà in grado di comprendere i mutamenti
in atto e sarà capace di tenere in vita il motore dell’innovazione. In questo senso alcune iniziative di interesse pubblico, come
il Digital Advisory Group, stanno oggi portando aventi delle proposte intelligenti per
l’agenda digitale in Italia, un tema verso il
quale il governo attuale sembra essere
sensibile. Inoltre, alcune organizzazioni,
come il Fondo Italiano di Investimento,
stanno mettendo a disposizione risorse importanti per i fondi di venture capital. Siamo
nella direzione giusta, ma c’è molto lavoro
da fare. È auspicabile che si moltiplichino le
iniziative concrete a favore dell’imprenditorialità innovativa, consapevoli del fatto che si
tratta della via principale per creare crescita, ricchezza e occupazione.
■
Progettare
la scuola di domani
L’utilizzo dell’ICT nella scuola si può
inquadrare nel più ampio problema della
modernizzazione e adeguamento dei
programmi alle esigenze formative del
Ventunesimo secolo. I programmi
scolastici devono tener conto di tutte le
modificazioni dell’ambiente economico
sociale che si sta determinando e
modificarsi di conseguenza per quanto
riguarda i “curricula”, i ritmi di
insegnamento con nuove didattiche che
dovranno essere definite anche in
funzione dell’ambiente tecnologico
scolastico ed extra-scolastico.
Alcune tendenze in particolare dovranno
influenzare la formulazione dei programmi
scolastici:
• Allungamento delle prospettive di vita
© Clara Leonardi
giacciono inutilizzati e impolverati dopo
aver destato un temporaneo interesse
iniziale. Inoltre, gli studenti “digital native”
sono in media molto più a loro agio con le
tecnologie dell’informazione rispetto ai loro
insegnanti (che sono in gran parte da
considerarsi “digital immigrant”), anche se
ne fanno spesso un uso superficiale e
colloquiale, e comunque con opportunità
molto diverse a seconda del livello sociale
e culturale delle famiglie di origine,
contribuendo così ad un ulteriore disparità
dei punti di partenza che la scuola – per
sua missione – sarebbe chiamata a
colmare.
Non mancano tuttavia esperienze di
eccellenza – e forse con maggior
evidenza nella scuola primaria,
tradizionalmente efficace in Italia – non
solo di utilizzo delle tecnologie
informatiche, ma anche di sviluppo di
contenuti digitali originali per la didattica
di classe, sviluppati dagli insegnanti
stessi, anche se non messi in rete e in
circolo nel sistema scolastico.
È opportuno osservare che una politica
scolastica focalizzata prioritariamente sulla
riduzione dei costi e degli investimenti in
formazione per gli insegnanti e in
strumenti didattici, ha verosimilmente
comportato, negli ultimi anni, una
riduzione sensibile della qualità “possibile”
dell’insegnamento, e comunque un
allargamento dei gap di competenze
acquisite dagli allievi rispetto ad altri paesi
europei. Secondo le rilevazioni
dell’indagine OCSE – PISA 2009, che
valuta le capacità dei giovani di 15 anni di
applicare quanto appreso a scuola, l’Italia
risulta significativamente al di sotto della
media dei paesi OCSE: in classifica siamo
al 25° posto per la lettura, al 29° per la
matematica e al 28° per le scienze.
L’incremento globale delle aspettative di
vita modificherà sostanzialmente i cicli
della vita delle persone che dovranno
rivedere i loro programmi per la
formazione, la vita famigliare e carriera
lavorativa. Questo significativo
cambiamento demografico comporterà :
- che l’età lavorativa andrà ben oltre i 65
anni, anche per provvedere adeguate
risorse per il pensionamento;
- i tradizionali percorsi di carriera nelle
organizzazioni dovranno essere
ripensati creando maggiori
articolazioni, flessibilità e programmi di
formazione continua per affrontare
cambiamenti di occupazione.
• Globalizzazione
La globalizzazione comporterà un
incremento degli scambi e
dell’integrazione tra paesi con la perdita
da parte del mondo occidentale del
monopolio della creazione di posti di
lavoro, dell’innovazione e della relativa
influenza politica, a favore dei paesi oggi
in via di sviluppo. Si avrà un incremento
dell’immigrazione ed una maggiore
competitività sull’accesso ai posti di
lavoro con incremento della mobilità dei
lavoratori.
• Nuova economia
Inoltre occorre essere consapevoli di una
moderna economia basata
sull’innovazione tecnologica ed
organizzativa. L’economia continuamente
distrugge e ricostruisce se stessa per
l’introduzione di nuove tecnologie
“disruptive”. Ne consegue che le
tradizionali logiche di gestione del
business e delle imprese vengono
fortemente modificate, i mercati devono
sempre più far fronte ad una domanda
personalizzata, cambiano i criteri di
EVOLUZIONE DELLE TECNOLOGIE DIGITALI PER LA FORMAZIONE
Piattaforme
Risorse
Attrezzature
ICT
Computer Assisted Instruction
Computer Mediated Communication
CD
Dischetti
Applicazioni KAI
e-Learning
Learning Management System
Desktop PC
PC
Wired Internet
Internet
Web
Contenuti eLearning
Ubiquitous Learning
Mobile
Learning Management System
eBook
TextBook digitali
Virtual reality Mobile contents
Augmented reality
Simulations
Notebook
Tablet
PDA
Wireless Internet
Interactive Whiteboard
Smart Learning
Flexible Learning Framework
Open Educational Resources
Learning Clouds
Intelligent Tutoring System
Social Networking Services
Smart Phones
Pads
Slate PC
eBook Reader
IPTV
creazione del valore: si tratta in effetti di
una mutazione del capitalismo.
L’ambiente che si sta generando è la
risultante delle varie spinte ideologiche e
politiche che stanno caratterizzando il
mondo attuale. La “new economy” è
iniziata con lo sviluppo di Internet e della
rivoluzione digitale, e si è caratterizzata
per il fatto che la conoscenza è diventata
uno dei fattori più importanti per la
determinazione dello standard di vita. È
un’economia dove il settore dei servizi
sta acquisendo sempre più importanza
rispetto al settore manifatturiero e dove i
servizi stanno diventando la componente
più rilevante dell’offerta dei prodotti.
L’ambiente economico è sempre più
velocemente influenzato da tendenze
culturali, mode e abitudini che
contribuiscono a generare nuove
articolazioni economiche: il successo
della rete ha portato alla “web economy”
o “net economy”, la diffusione dei social
media alla “relationship economy”, il
diffondersi della sensibilità ecologica ed
il problema delle energie rinnovabili alla
“green economy”. Tutte queste
dinamiche fanno sì che la natura del
lavoro sta cambiando. Se nel mondo
industriale il ciclo lavorativo di una
persona si esauriva in uno/due posti di
lavoro con una singola specializzazione,
la mobilità lavorativa nel ventunesimo
secolo comporta oltre alla variabilità dei
posti di lavoro anche la necessità di
diverse specializzazioni con conseguenti
necessità di formazione.
❱
-::-beltel-::-9
© Valentina Cervasio
• Connettività globale – new media
Nel nuovo ambiente socio-economico
che si sta delineando la conoscenza è
potere ed il trasferimento della
conoscenza è un fattore
fondamentale per creare valore.
L’accesso a Internet, il web, il
rapido sviluppo dei social
network, i blog, il mondo wiki,
rappresentano la possibilità
di bypassare le barriere
socio-economiche dei modi
tradizionali di trasmettere le
conoscenze: docente-studente,
dottore-paziente, avvocato-cliente, e
così via. Si sta formando una nuova
cultura collaborativa di “kwnoledge
sharing” che coinvolge un mondo di
relazioni, di comunità, che generano
ed a loro volta acccedono ad un
enorme “content” multimediale.
Tutte queste trasformazioni esercitano
un’enorme pressione sui sistemi
educativi che devono preparare i
giovani ad affrontare i cambiamenti della
sfera economico-sociale con strumenti
culturali adeguati. Contemporaneamente
si devono innovare i metodi pedagogici
per adeguarli alle nuove generazioni di
giovani “digital native” che vivono, sin dai
primi anni di vita, con un’alta esposizione
alle tecnologie digitali e forti stimoli sulle
loro capacità cognitive. In
effetti si tratta di giovani che
non hanno conosciuto il
mondo senza Internet, per i
quali gli strumenti digitali
hanno quasi sempre mediato
le loro esperienze con
l’ambiente sociale. Hanno
acquisito capacità distintive:
accesso a grandi quantità di
informazioni al di fuori della
scuola e abitudine a risposte
e decisioni rapide,
sorprendenti attitudini ad
operare in modo
multimediale, apprendono in
modo differente, le immagini
in movimento ed i suoni per
loro sono più importanti dei testi.
I giovani devono essere messi in grado di
affrontare il nuovo mondo del lavoro che
produce offerte di occupazione che si
rinnovano continuamente e che richiedono
un continuo adeguamento di gran parte
delle conoscenze e competenze. Le
istituzioni educative, primarie, secondarie
e post secondarie, dovranno provvedere a
rafforzare le attitudini degli allievi a:
• trattare grandi quantità di informazioni
affinando le capacità di analisi e sintesi,
riuscendo a selezionare quelle utili;
• comunicare con efficacia e lavorare in
team sforzandosi di capire i punti di vista
degli interlocutori;
• pensare criticamente ed essere
innovativi trasferendo la creatività in
azioni concrete;
• adattarsi ai cambiamenti continui
incentivando la versatilità accrescendo
costantemente l’apprendimento;
• avere familiarità con l’information
technology.
È l’informatica la risposta ai problemi della
scuola del ventunesimo secolo? La
questione è animatamente dibattuta nel
mondo della scuola. Un numero
importante di esperti sostiene che le
nuove tecnologie estendono i contorni
dell’apprendimento, incrementano la
motivazione degli studenti e
contribuiscono in modo determinante ad
acquisire le competenze essenziali nel
ventunesimo secolo. Un altrettanto
importante numero di specialisti insiste nel
dichiarare che non c’è sufficiente evidenza
che esista un impatto positivo delle
tecnologie digitali sulla qualità
dell’insegnamento.
Seymour Papert, pioniere dell’intelligenza
artificiale al MIT, creatore del linguaggio
Logo, nel 1998 affermava che una
rivoluzione dei sistemi scolastici era
inevitabile, perché l’avvento del computer
e delle nuove tecnologie, ha portato e
continuerà a portare un radicale
cambiamento didattico a livello mondiale:
“La gente che sta dibattendo se ci debba
essere realmente una rivoluzione nelle
scuole, sta perdendo il proprio tempo [….]
Dicono che è troppo costoso fare grossi
cambiamenti ora, ma, in realtà, stanno
sprecando i soldi, perché tutto quello che
spendono in questo momento verrà
buttato via; tra dieci o vent’anni nulla che
somigli anche vagamente alla scuola
come la conosciamo continuerà ad
esistere. I computer saranno ovunque e
gli studenti li avranno, apprenderanno in
Fondazione Enrica Amiotti
La Fondazione Enrica Amiotti è stata
costituita nel 1970 in memoria di una
maestra elementare attiva per 47 anni –
nella prima metà del Novecento – in
una scuola rurale della Provincia di
Pavia. La Fondazione opera per
premiare le eccellenze didattiche nella
Scuola Primaria Statale, contribuendo
ad identificare, sviluppare e trasferire
buone pratiche e progetti educativi. Dal
2006 si occupa del tema
dell’integrazione degli alunni stranieri
ed ha appena bandito un Concorso di
Idee del valore complessivo di oltre
50.000 Euro per l’utilizzo innovativo di
strumenti, contenuti e metodi didattici
digitali. Gli insegnanti vincitori
riceveranno premi in denaro mentre le
rispettive scuole, grazie al supporto
fornito dall’Associazione ProSpera e da
alcuni dei suoi associati e partner,
riceveranno strumenti informatici per
realizzare i progetti educativi
multimediali nell’Anno Scolastico 2012’13. Riferimenti su
www.fondazioneamiotti.org e
www.blogmaestraenrica.org.
modi diversi. La nostra scelta, quindi, non
consiste nell’essere favorevoli o contrari,
ma di essere disposti ad accettare che la
rivoluzione sta già succedendo e che
succederà in futuro. Ora dovremmo
sforzarci affinché ciò succeda in un
modo ordinato e pianificato, non
dovremmo aspettare finché ne
verremo sopraffatti.”
Il progredire delle tecnologie
informatiche ci consente, oggi,
di poter affermare che le
previsioni di Papert si stanno
verificando, almeno per quanto
riguarda l’ “offerta” di tecnologie
per la formazione. La tabella 1 ci
da l’idea di come siano evoluti i
prodotti hardware e software per
la formazione che possono essere
proficuamente sfruttati per
migliorare il processo di
insegnamento nelle scuole. Siamo
passati dall’avere il libro di testo, la
lavagna ed il quaderno come unici
strumenti di riferimento nella pratica
didattica con gli studenti, alla
possibilità di sfruttare personal
computer ed altri dispositivi digitali,
collegati in modalità wireless via
Internet con la possibilità di usare
lavagne interattive
multimediali (LIM) per
lo svolgimento delle
lezioni.
L’accesso a Internet, il
wireless e la
disponibilità di tablet,
smartphone e pc
consentono inoltre un
ambiente di
comunicazioni
interattive
estremamente
articolate tra scuolainsegnantialunni-famiglie ed altre
istituzioni. La
disponibilità di tablet
da parte degli allievi,
oltre a sgravarli con gli
e-book del fardello dei libri di testo,
consente la comunicazione interattiva con
gli insegnanti e/o tutor, anche negli orari
extra scolastici. La scuola può utilizzare
servizi “Cloud” per le applicazioni
amministrative e gestionali, evitando i
rilevanti investimenti necessari per la
costruzione delle infrastrutture. Ma non si
deve pensare che sia sufficiente distribuire
pc e tablet a tutti per ottenere benefici
significativi da questi investimenti. Studi
recenti hanno infatti osservato che si sono
ottenuti risultati di gran lunga superiori nei
casi in cui l’insegnamento è stato
caratterizzato da:
• determinate condizioni organizzative e
di formazione del personale insegnante;
• modifiche ai curriculum e alla didattica;
• lo sfruttamento delle possibilità offerte
dalle comunicazioni a distanza;
• l’adattamento degli ambienti di studio.
In queste condizioni, l’uso di strumenti
digitali per l’insegnamento in classe può
davvero generare un miglioramento
rispetto ai metodi tradizionali:
per gli studenti: un miglioramento della
motivazione e dell’impegno allo studio e
dell’apprendimento;
per gli insegnanti: un incremento della loro
motivazione, delle loro capacità
❱
-::-beltel-::-10
Le prospettive dellʼICT
nella scuola italiana
Per trasformare la scuola italiana e metterla
in grado di preparare gli studenti ad
affrontare le sfide del ventunesimo secolo è
necessario operare con una “vision” di
lungo periodo concordata da un ampio
spettro della rappresentanza politica che
non può essere soggetta ai cambiamenti
derivanti dalle alternanze al potere dei
partiti e che deve dare origine a piani di
implementazione con interventi strutturali
che devono essere spalmati su un periodo
di molti anni. Una condizione estremamente
difficile da realizzarsi in Italia. Basti pensare
che negli ultimi vent’anni la scuola italiana
ha vissuto un periodo di continue riforme ed
aggiustamenti: si sono alternati dieci diversi
ministri (espressione di otto diverse
formazioni politiche) responsabili della
Istruzione, si sono avute due pesanti riforme
del sistema scolastico nazionale (Berlinguer
e Moratti) che però non si sono mai
concluse, sono stati emessi innumerevoli
direttive, note di indirizzo, circolari e articoli
di legge, senza mai arrivare ad una
stabilizzazione. Il risultato è che, in molti
casi, direttive di riforma convivono con
vecchie norme, con sovrapposizioni e
contraddizioni che producono incertezza e
inefficienza nel sistema. All’interno della
scuola italiana continua ad esserci un forte
dibattito con conflitti politici, ideologici,
sindacali, che collidono con interessi
particolari e rendono impossibile azioni
strutturali di lungo respiro.
Nonostante questa situazione per l’ICT si
sono operati numerosi interventi: Piani
Nazionali, Programmi di sviluppo e
formazione di Istituti, Centri ed Agenzie
che hanno promosso l’introduzione delle
tecnologie digitali nel contesto educativo.
Sono interventi molto positivi che hanno
evidenziato che un utilizzo appropriato
delle tecnologie può produrre
trasformazioni significative sui processi di
apprendimento. Si tratta comunque di un
approccio “incrementale” che produrrà
sicuramente risultati di miglioramento ma
difficilmente consentirà di recuperare il
divario con i paesi più progrediti. Secondo
i dati OCSE, la percentuale del PIL
destinata all’istruzione in Italia è una delle
più basse di tutti i paesi OCSE. Nel 2008
l’Italia ha speso il 4,8% per l’istruzione,
l’1,3% in meno rispetto al totale OCSE del
6,1% (29° posto in classifica su 34 paesi).
Per colmare i ritardi già accumulati dall’Italia
rispetto alle nazioni più progredite è
necessario un approccio più radicale di
trasformazione, possibile solo con una
maturazione a livello politico,
dell’importanza fondamentale delle
tecnologie digitali come mezzo per ottenere,
in tempi utili, dei risultati appropriati nella
scuola, con ritorni di investimento in termini
di maggior competitività e crescita di tutto il
“sistema – paese”
■
TECNOLOGIA DIFFUSA E RICAMBIO
GENERAZIONALE: È ORA DI MUOVERSI!
di Mario Rodriguez
Consulente e docente a contratto, Università degli Studi di Milano
Nuove culture, pratiche manageriali innovative e diffusione di
ICT. La ricetta vincente per far ripartire il paese.
È
opinione diffusa che la crisi
economica e finanziaria in atto
cambierà molto se non tutto della
nostra vita, delle nostre abitudini.
Le economie della nostra parte di mondo
non riprenderanno a crescere in modo
significativo e saranno sempre più
esposte alla necessità di aumentare la
produttività. Le risorse a disposizione
degli Stati saranno decrescenti e se si
vorranno destinare risorse allo stimolo
della crescita, le pubbliche
amministrazioni dovranno costare di
meno. La sfida sarà: qualità dei servizi,
garanzia dei diritti, soddisfazione di
vecchi e nuovi bisogni, a costi
decrescenti.
Saranno cambiamenti più rapidi perché
accelerati dalla diffusione delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione
(ICT). All’orizzonte non ci sono rallentamenti del tasso di sviluppo tecnologico,
anzi: nel giro di dieci, quindici anni, capacità di archiviazione, capacità di elaborazione e velocità di trasmissione
permetteranno a molti, se non a tutti, di
accedere a moltissime, se non a tutte, le
informazioni a disposizione degli esseri
umani dal proprio smartphone. Almeno in
quelle società che definiamo industrializzate.
Questo modificherà profondamente il concetto stesso di conoscenza che si trasformerà sempre più in capacità di interrogare
archivi e collegare informazioni piuttosto
che acquisire e trattenere informazioni.
Questo significa che ci vogliono nuove
competenze all’insegna della capacità
adattativa e della costruzione di collegamenti capaci di costruire e attribuire nuovi
significati. Una sfida cruciale per le persone ma soprattutto per le istituzioni preposte alla formazione, all’insegnamento e
alla ricerca.
Si tratta di un processo di trasformazione
– non è esagerato parlare di una mutazione antropologica – che toccherà sia i
singoli, sia le organizzazioni più o meno
complesse. Parlare di mutazione antropologica significa che questi cambiamenti
avranno effetti visibili, concreti, sui comportamenti quotidiani, sulla vita di tutti i
giorni, sul modo in cui sarà organizzata la
vita sociale nei suoi dettagli. Uno degli
aspetti che sta già profondamente cambiando e che continuerà a cambiare è il
rapporto tra cittadini e istituzioni. La crisi
fiscale dello Stato (come fu definita già all’inizio degli anni ‘70) è stata esaltata dalle
trasformazioni dei mercati e dalla loro globalizzazione. Soprattutto nelle economie
caratterizzate da presenze storiche di welfare state, la crisi impone un forte ripensamento del ruolo del “pubblico” che,
soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, si era venuto espandendo su molti
ambiti della vita sociale. Ripensare il ruolo
del “pubblico” significa affrontare il rapporto tra cittadini e istituzioni sia in termini
culturali e valoriali sia in termini manageriali, cioè sul terreno dei comportamenti
pratici; sia come politics che come policy.
Ma anche oltre le policy, proprio sul terreno della trasformazione delle decisioni
in comportamenti concreti. Sono sotto tensione, e necessitano di ridefinizione, alcuni concetti che hanno caratterizzato il
secolo scorso: non solo il ruolo dello Stato
e del “pubblico”, ma anche diritti, bisogni,
responsabilità individuali. Per consolidare
il welfare si dovrà selezionare con attenzione ciò che rientra nella sfera dei diritti
da garantire e ciò che rientra invece nei
bisogni da soddisfare. E ambedue gli am-
© Clara Leonardi
pedagogiche e la possibilità di operare
valutazioni più sofisticate ed
individualizzate degli studenti con
possibilità di personalizzare i programmi
sui singoli studenti in relazione al grado
apprendimento;
per la scuola: un miglioramento degli
aspetti amministrativi e gestionali, una
maggior efficacia nell’insegnamento e nei
rapporti con le famiglie degli alunni, ma
anche un significativo aumento dei costi.
-::-beltel-::-11
AIESEC: “AIUTIAMO
I GIOVANI A DIVENTARE
CITTADINI DEL MONDO”
Intervista a cura della Redazione
Le opportunità offerte dai programmi
AIESEC, la più grande organizzazione
al mondo gestita da studenti universitari.
“Ta
lento, intraprendenza,
passione, valori e
voglia di mettersi in
gioco. Poche
possibilità per i giovani di dare voce alle
proprie idee e di trovare le occasioni giuste
per sfidarsi di più. E allora, si prova
all’estero”. Inizia così la nostra
chiacchierata con Maria Luisa Balzano,
Responsabile Relazioni Pubbliche AIESEC
Italia – la più grande organizzazione al
mondo gestita da studenti – sulle
opportunità offerte dai programmi AIESEC
ai giovani e sulla fuga dei talenti.
Nata nel 1948 in Belgio AIESEC è presente
in più di 110 paesi e conta al suo attivo
oltre 60.000 membri. Da 64 anni AIESEC
opera in 2.100 università del mondo (con
16 sedi fisiche in Italia) a favore della
mobilità internazionale dei giovani.
Attraverso il programma di stage all’estero
in progetti nel sociale e stage aziendali,
l’organizzazione dà la possibilità di vivere
all’estero dalle 6 settimane a oltre i 12
mesi, acquisendo quelle competenze che
vengono richieste oggi nel mondo del
lavoro. Nel solo 2011 sono 15.000 gli stage
organizzati da AIESEC in tutto il mondo di
cui circa 300 sono gli studenti italiani partiti
per l’estero e 350 gli studenti internazionali
che hanno deciso di intraprendere questa
esperienza in Italia.
D. Quali sono le opportunità offerte dai
programmi AIESEC ai giovani?
I programmi per gli studenti universitari e
neolaureati per vivere un’esperienza
formativa internazionale sono due, MOVE
impact e MOVE future, con molte
destinazioni diverse. Il primo programma,
MOVE impact, è adatto a tutti i giovani:
esso consiste in un progetto di 6-8
settimane presso una sede AIESEC
all’estero o una ONG per crescere
personalmente e avere un impatto positivo
sulla realtà ospitante. La maggior parte
dei progetti prevede vitto e alloggio
gratuiti e le tematiche che si possono
andare ad affrontare, sensibilizzando la
società e arricchendo il proprio bagaglio
personale e professionale, sono
principalmente quattro: educazione e
multiculturalismo, fundraising e gestione
delle ONG, sostenibilità e salute. Il
programma MOVE future, invece, è adatto
agli studenti o ai laureati con eccellente
padronanza dell’inglese ed esperienze
extra accademiche. Grazie a questa
esperienza lo studente potrà vivere
un’esperienza professionale ed
internazionale in un’impresa all’estero. Tutti
gli stage hanno una durata media di 6-12
mesi e prevedono un rimborso spese
mensile. Gli ambiti di lavoro maggiormente
richiesti sono management, marketing,
informatica, ingegneria, lingue e
insegnamento.
D. Quanti giovani avete coinvolto
in iniziative di internazionalizzazione qui
da noi?
Anche sul territorio nazionale AIESEC
sviluppa progetti sociali sotto l’iniziativa
nazionale che prende il nome di Youth
Change, riuscendo a mobilitare più di 300
ragazzi internazionali da tutto il mondo,
coinvolgendo 60 scuole e circa 150.000
studenti italiani di tutte le fasce d’età.
Workshop e metodi di apprendimento non
convenzionali portano nelle scuole il tema
importante dell’internazionalizzazione,
cercando di agire sull’educazione dei
giovani in modo da sensibilizzarli al rispetto
della diversità e delle altre culture.
Numerose aziende italiane sostengono
attivamente le iniziative e i progetti di CSR
promossi da AIESEC e collaborano con
l’organizzazione inserendo profili
internazionali di giovani studenti e
neolaureati con competenze economiche,
umanistiche e ingegneristiche. AIESEC si
rivolge quindi alle aziende che hanno la
capacità di cogliere, apprezzare e
valorizzare la diversità e che credono nella
futura generazione come canale di
innovazione. Per le aziende interessate,
❱
© Teodora Toshkova Filipova
biti dovranno vedere una modificazione
del ruolo dell’erogatore del servizio sempre più verso forme di coinvolgimento
degli individui nella soluzione dei problemi, quindi la responsabilità personale e
la sussidiarietà orizzontale. Il “pubblico”
dovrà sempre più concepirsi non come
autorizzatore o concessionario di possibilità di fare, ma come sollecitatore e organizzatore della capacità di trovare risposte
efficaci con il coinvolgimento diretto dei
singoli. E su questo terreno le opportunità
fornite dalle trasformazioni tecnologiche –
i social network, per intenderci – aprono
possibilità inesplorate.
Al centro quindi della nuova grande trasformazione che le società del vecchio
continente dovranno affrontare saranno,
soprattutto, quelle complesse organizzazioni che sono le “pubbliche amministrazioni”.
Saranno loro maggiormente esposte al
cambiamento perché la loro logica interna
è più conservativa che adattativa. Perché
la mancanza di competizione aperta le
spinge a riprodursi più che ad adattarsi.
Perché ridotti saranno gli inserimenti di
nuovo personale. E perché, in condizioni
di bassa crescita, sarà essenziale gestire
con maggiore efficacia le risorse economico finanziarie per mantenere gli alti (mediamente) livelli di welfare raggiunti.
Quindi, proprio quelle particolarissime organizzazioni che sono le “pubbliche amministrazioni” avranno maggiore bisogno
di nuove culture e nuove pratiche manageriali, cioè di risorse umane orientate al
cambiamento. Nessun cambiamento decisivo potrà essere raggiunto in Italia se non
si vivrà una profonda svolta nella governance non solo e non tanto nel government delle istituzioni pubbliche. Cioè non
solo e non tanto negli aspetti giuridico formali quanto nei concreti processi di decisione e di implementazione delle decisioni
di governo a tutti i livelli. Formare una generazione di nuovi manager delle organizzazioni della pubblica amministrazione
diventa quindi una sfida affascinante soprattutto in un ambiente come quello milanese dove la vicinanza con le culture
manageriali che maturano nelle imprese
private, nelle corporation multinazionali e
nel terziario evoluto, crea una condizione
di stimolo reciproco molto fertile.
Qualità dei servizi pubblici a costi minori,
capacità di rispondere ai bisogni in forma
economicamente valida, offrire a chi non
ha “uscita” la possibilità attraverso la
“voce” (come ci ha insegnato Hirshmann)
di accrescere qualità e efficacia, domare
la complessità delle organizzazioni delle
PA che è significativamente maggiore di
quella delle organizzazioni private. Questa
sfida è stata raccolta dal corso di studi in
Management Pubblico (MaP). Formare
una nuova generazione di manager della
PA nel contesto di quella che una volta era
la capitale economica del paese, e che
oggi mantiene certamente il primato della
città italiana più europea e più “global”
che ci sia. La PA ha bisogno di nuove risorse umane di qualità anche se la sua
capacità di assunzione di nuovi addetti
sarà limitata e, allora, MaP potrebbe essere anche l’opportunità per coloro che
sono già dentro la PA e hanno voglia di
mettersi alla prova per vivere da protagonisti il cambiamento che necessariamente
siamo chiamati ad affrontare.
■
D. Laurea ed esperienza allʼestero,
è ancora la ricetta giusta per trovare
un buon lavoro?
La laurea vale sicuramente molto. Al di là
della discussione nata recentemente
sull’ipotesi della miglior preparazione
fornita dagli atenei considerati prestigiosi,
la laurea è un importante biglietto da visita
per entrare nel mondo del lavoro, una
dimostrazione di un percorso di crescita e
di arricchimento di conoscenze in settori
di interesse per il proprio futuro lavorativo.
L’esperienza all’estero, poi, è ormai
fondamentale al giorno d’oggi: aver
viaggiato, conosciuto persone con culture
diverse, il confronto con posti nuovi,
essersi messi alla prova uscendo dalla
comfort zone, sono requisiti fondamentale
per adattarsi alla dinamicità del mondo del
lavoro e per non precludersi strade che
possono presentarsi. Apertura mentale
verso esperienze e persone, curiosità del
diverso, adattabilità al cambiamento, sono
competenze che non possono più
mancare ad un giovane d’oggi per
affrontare un mercato soggetto al
cambiamento e che ha bisogno di
innovazione.
Una buona laurea e un’esperienza
all’estero quindi sono conditio sine qua
non per entrare con una marcia in più nel
mercato del lavoro, senza trascurare
l’importanza di fare esperienze extra
accademiche, che danno la possibilità di
testare e migliorare le proprie capacità nel
confronto con gli altri, creando una rete di
relazioni interpersonali che contribuiscono
all’arricchimento e alla formazione
individuale.
D. Sempre più talenti fuggono allʼestero…
I ragazzi italiani vivono oggi in bilico, alla
ricerca della strada giusta per ottenere
una svolta lavorativa. Succede, così, che
cercano fortuna all’estero e i migliori
hanno successo. Mercato del lavoro
troppo rigido, corruzione, basso stipendio
in contrapposizione ad un alto costo della
vita, ricerca minuziosa di giovani qualificati
ma poco spazio per permettere agli stessi
di raggiungere i proprio obiettivi.
All’estero, i talenti, hanno invece maggiori
possibilità di carriera, guadagni più elevati
e il sistema è senz’altro più meritocratico.
L’università italiana è capace di fornire al
mercato del lavoro cervelli eccellenti, ma
manca, poi, un orientamento al lavoro; il
talento, inoltre, è percepito quasi come
una minaccia per un mercato con una
cultura aziendale ancora troppo basato su
equilibri familiari.
AIESEC crede che l’internazionalizzazione
delle imprese del territorio e la formazione
dei giovani possano essere due leve
competitive per il rilancio dell’economia del
nostro Paese. Youth Change vede i giovani
denunciare quello che non funziona,
rendendosi protagonisti nell’agire per
costruire il futuro che vorrebbero,
superando i limiti del sapere e cercando
nuove strade per una società più
consapevole.
■
Per ulteriori informazioni,
visitate il sito: www.aiesec.org/italy
oppure www.youthchange.it
APPUNTI&CONTRAPPUNTI
Mario Citelli, direttore editoriale
Crescita e formazione
Mi soffermo qualche volta a ricordare gli anni di scuola e di università,
riflettendo su cosa mi hanno lasciato, nel tempo, che ha contribuito
effettivamente alla mia crescita, avvenuta anche attraverso molti altri
fattori: famiglia, relazioni sociali, lavoro. Tuttavia penso che il periodo
così detto “di studi” abbia lasciato elementi essenziali e duraturi che
ancora partecipano efficacemente alla mia vita quotidiana,
professionale, politica e affettiva.
Al di là della dotazione strumentale: leggere, far di conto e le loro
evoluzioni nel tempo, letteratura, storia, fisica e analisi matematica;
questa base “strutturale”, per così dire, si è formata gradualmente e
inconsciamente, con vari pezzi del puzzle che si incastravano
successivamente in una struttura sempre più complessa.
Inconsciamente perché nessuno poteva conoscere il risultato e tanto
meno controllarlo: dove sono finite le tabelline e come si sono collegate
all’analisi funzionale e numerica? Penso ad una grande “cattedrale” di
pezzi della Lego, costruita a più mani da più “bambini” incontrati nel
corso della vita. Ma “consciamente” invece è avvenuta la progressiva
assunzione di “valori”: elementi fondamentali che costituivano il
collante di quella cattedrale e che venivano assorbiti con coscienza
nelle varie fasi della vita di studio.
Cominciamo alle “elementari”. Impariamo cosa è “buono” e cosa è
“cattivo”: la scuola elementare è probabilmente il più selvaggio dei
momenti di formazione, con ”individui-bambini” grezzi e quindi
fondamentalmente aggressivi che stabiliscono delle relazioni “fisiche”
di dominio, di alleanza o di avversità. Il mio naso è il risultato dell’unica
scazzottata mai fatta in vita mia, alle scuole elementari appunto. Buoni e
cattivi sono anche gli elementi fondamentali delle storie, dei libri, delle
notizie che vengono fornite.
Devo chiarire che queste considerazioni non hanno nessuna pretesa di
oggettività: sono il risultato dei miei ricordi più o meno distanti nel
tempo e delle mie riflessioni.
Alle “medie inferiori”, allora, ho imparato cosa può essere la cultura e
qual è il suo rapporto con la società e la sua organizzazione: la storia e
la geografia sopra tutto, con le prime valutazioni “politiche “ per capire
perché buoni e cattivi spesso si nascondevano dietro interessi,
individuali e collettivi, organizzando conquiste o difese territoriali, con
popoli che scomparivano e altri che emergevano. E poi la poesia: se a
qualcuno piace la poesia questo amore non può essere che cominciato
qui, sollecitato dalla sensibilità di alcuni insegnanti: è qui che iniziano le
letture delle poesie dei Negri d’America, di Bertolt Brecht e di Avevo un
fratello aviatore, di Antologia di Spoon River.
Alle “superiori” viviamo probabilmente una grande trasformazione,
passando a concentrare la nostra attenzione agli strumenti, alla loro
evoluzione, a prepararci a un mestiere, possibilmente immediato alla
fine di quel ciclo di studi o più “ricco” (in ogni senso nelle speranze
giovanili) e rimandato a dopo l’università.
Ma non si può essere esenti da continuare ad assorbire valori.
Personalmente ho frequentato un Istituto Tecnico Industriale, scuola
oggi rimpianta da molti, dove ho imparato ad acquisire “tenacia”. Era
quella necessaria, soprattutto nei primi due anni, a lavorare nelle
officine e nei laboratori: come non arrendersi nei tentativi di rendere un
pezzo di ferro “quasi perfetto” nei piani e negli angoli, con il solo uso
della lima, avendo gli strumenti di precisione pronti a verificare i tuoi
errori e a stimolare la tua tenacia. Un pezzo di ferro a trimestre, con
complicazioni crescenti. Una volta mi hanno raccontato che ai tempi dei
primi satelliti italiani lanciati dalla piattaforma San Marco in Kenya, un
lancio era stato salvato dal fallimento grazie all’intervento all’ultimo
momento di un tecnico italiano con una lima. Non so se è vero, ma è
suggestivo.
All’università quindi, luogo prevalentemente strumentale e dai valori
contradditori, articolati, formati e contrastanti nei profili degli studenti.
Penso sia stato lì che ho capito il “sincretismo”, la capacità di conciliare
elementi diversi in una cultura globale e tollerante: Chomsky che
studiava i linguaggi naturali come fossero elementi di geometria, Turing
fra calcolo e filosofia nei suoi “principi sui limiti della calcolabilità”,
l’informazione fra teoria dei retori e computer con il filosofo Leibniz,
predecessore del sistema binario come linguaggio universale.
Quel sincretismo che tiene in piedi definitivamente la mia cattedrale
Lego.
-::-beltel-::-13
© Laura Manicardi
AIESEC si occupa di tutte le pratiche
burocratiche e legali e del supporto che lo
stagista necessita durante la permanenza
in Italia.
CHIEDIAMO PIÙ RISPETTO
di Margherita Fabbri
29 anni, laureata in Economia dello sviluppo, fiorentina oggi negli Usa
“Ho vissuto in Belgio, in Perù, oggi sono
negli Usa e domani chissà…”
Lettera aperta al ministro Cancellieri
a proposito dei giovani
“attaccati alle gonne di mammà”.
Lettera aperta pubblicata sul sito online
de La Stampa l’ 8 febbraio 2012.
E
gregio Ministro Cancellieri, ho 29
anni, una laurea in Economia dello
Sviluppo nella mia città natale,
Firenze, conseguita a 24 ed almeno
6 anni di pellegrinaggi sulle spalle, per
costruirmi quell’esperienza che un giorno
credevo mi sarebbe servita per ottenere un
buon impiego nel mio paese, o fuori da
esso. In Italia ho lavorato per un anno e
mezzo: un contratto a progetto, 10-11 ore al
giorno, weekend inclusi, a 800 euro al
mese. Vivevo a Roma, e quei soldi per
campare non mi bastavano: dovevo
chiedere l’aiuto di mio padre.
Stanca di questa dipendenza, prima che la
storia dei “bamboccioni” incominciasse,
prima che i nostri cosiddetti rappresentanti
imparassero a puntare il dito contro un
nuovo capro espiatorio, lasciai l’Italia. Era il
2008 e da allora non ci sono più tornata. Ho
vissuto in Belgio, in Perù, oggi sono negli
Usa e domani chissà. Certo è che di
tornare non se ne parla, di posto fisso non
ne ho avuto mai nemmeno uno e la mia
famiglia la vedo due volte l’anno. Sia chiaro,
mi ritengo fortunata. Già, perché un numero
imprecisato di miei amici, rimanendo in
Italia, ha dovuto fronteggiare destini ben più
foschi. E le assicuro che non le farebbe
piacere parlare con nessuno di loro, le
farebbe male come ministro, come donna,
come italiana e forse anche come madre.
Per favore, smettiamola con queste solfe dei
giovani attaccati alle gonne di mammà.
Glielo dico da lontano, io che non cerco un
impiego in Italia e che quando provo a farlo
ricevo risposte assurde. Le chiedo di
smetterla di credere che i giovani italiani
siano un branco di decerebrati senza voglia
di fare. Di svogliati ce ne sono. Ma, mi creda,
là fuori esistono migliaia di giovani qualificati,
laboriosi, pieni di energia, desiderosi di
aiutare questo nostro paese a crescere e
migliorare ed ai quali da anni non viene
offerto non solo un briciolo di possibilità, ma
neanche un minimo di rispetto (e la sua
dichiarazione di ieri ne è la prova).
■
APPLICAZIONI A GO GO…
IL MUCCHIO SELVAGGIO
DELL’APP ECONOMY
di Mario Mancini,
goWare team, Polo Tecnologico di Navacchio
“The winner take it all / The loser
standing small / … No more ace to play”
cantavano gli Abba! Che diventi il nuovo
inno dellʼapp economy?
L’
11 dicembre 2011 il New York
Times ha annunciato la
pubblicazione della milionesima
applicazione per un dispositivo
mobile in questo modo: “Ogni settimana nel
mondo escono 100 film, 250 libri e ben
15.000 applicazioni per dispositivi mobili.
Ogni giorno vedono la luce 543
applicazioni per Android e 745 per Apple
iOS”. Durante la settimana di Natale 2011
sono state scaricate un miliardo e 200
milioni di applicazioni secondo Flurry, che
analizza le tendenze del mercato mobile. Il
grafico dei download di app durante la
settimana natalizia elaborato da Flurry è
una fonte capitale per comprendere la
dimensione del mercato delle app in
particolare negli Stati Unti che vale più di
metà del mercato mondiale (vedi figura 1).
Un dato diffuso sempre da Flurry è ancora
più importante delle brute metriche sui
download delle app: la gente trascorre più
tempo all’interno delle applicazioni che sul
web. Flurry stima in un’ora e mezzo al
giorno il tempo medio dedicato a consultare le applicazioni contro un’ora e 12 minuti
passato sul browser per navigare in Internet. In appena un anno si sono capovolti i
rapporti di forza tra il web e le applicazioni
sull’indicatore più pesante per misurare un
trend, quello del tempo dedicato. Anche relativamente al traffico dati sulla rete il mobile
è in fuga: il 55% viene generato proprio da
dispositivi mobili contro il 45% dei portatili e
dei computer da scrivania.
Una cornucopia di applicazioni, quindi. Nel
valutare questo sbalorditivo fenomeno, occorre considerare che prima del 10 luglio
2008, giorno di apertura dell’AppStore,
niente di questo neppure esisteva. Già
Palm con la versione Palm OS 5.2, nel lontano 2002, aveva reso possibile lo sviluppo
❱
FIGURA 1 - DOWNLOAD DI APP NEI PRINCIPALI 20 MERCATI
DURANTE LA SETTIMANA DI NATALE 2011 (MILIONI)
Stati Uniti
509
Cina
99
Regno Unito
81
© Cristiana Messina
Canada
41
Germania
40
Francia
40
Corea del Sud
34
Australia
28
Italia
25
Giappone
20
Spagna
20
Messico
17
Russia
15
Brasile
13
Paesi Bassi
13
Arabia Saudita
13
Taiwan
10
India
10
Svezia
10
Malesia
9
0
Fonte: Flurry Analytics 2011
-::-beltel-::-14
Paesi di lingua inglese
Europa
Asia
Americhe Latina
100
200
300
400
500
600
Tutto bene, allora?
No, affatto! La “crescita esplosiva
dell’app economy”, per usare le parole
degli esperti di PricewaterhouseCoopers,
non è scevra da altri giganteschi problemi
strutturali: il mercato delle applicazioni è
frammentato, gli store di app sono dei bazaar e l’assenza d’interoperabilità tra le
varie piattaforme costringe gli editori a produrre differenti versioni per ogni applicazione. Inoltre questo nuovo mercato
sussume e amplifica tutte le logiche negative degli altri mercati digitali come:
• La concorrenza accanita e brutale che
innalza enormemente le barriere
d’ingresso penalizzando le startup e gli
sviluppatori a vantaggio dei soggetti che
hanno maggiori risorse per proporre app
con un’accresciuta “user experience”:
tutto sta nel riuscire a farsi ascoltare sopra
un assordante rumore di fondo.
• La rapidissima migrazione degli utenti
verso nuovi gusti che accresce il tasso di
rotazione delle classifiche con
conseguente perdita di visibilità, declino
i
nt
Co
a
dd
Ga
ta
ar
M
Bi
ce
©
di applicazioni di terze parti sul proprio sistema, aprendo, come in molti altri casi, la
strada all’innovazione. TechNet, un’organizzazione di lobbying su temi tecnologici, ha
stimato in 500 mila posti di lavoro il contributo dell’economia delle app al mercato del
lavoro USA: succo di acero per l’amministrazione Obama, in crisi di risultati su questo fronte.
Alla luce di questa timeline è veramente
sbalorditivo quello che è accaduto nell’arco
di pochi anni anche per i connotati economici che ha già assunto. Nel 2015 la spesa
in applicazioni varrà 35 miliardi di dollari con
un CAGR 2011-2015 del 38%. Gartner alza
la stima a 58 miliardi nel 2014. Si può quindi
parlare a tutti gli effetti di economia delle
app e di un vero e proprio nuovo comparto
E&M. Questa evoluzione ha un’enorme importanza per l’industria dello spettacolo e
dei media perché grande parte delle applicazioni offre soluzioni per consumare prodotti di questo tipo come prova il grafico
sulla distribuzione delle app per categoria merceologica(vedi figura 2).
nei
download e riduzione delle aspettative di
vita delle app a quelle di un bruco.
• La tendenziale irrilevanza dei brand che
cede lo scettro alla nozione di “user
experience” nella reminiscenza degli
utenti.
• La diluizione dei contenuti di qualità con
quelli triviali, un fenomeno dalle
conseguenze profonde che potremmo
iscrivere in una deriva post-pop il cui Andy
Wahrol si deve ancora vedere.
• Le bande di detrattori professionisti e di
recensori prezzolati che alterano il
genuino giudizio del pubblico sul valore
delle app.
• Lo strapotere dell’utente che con un
segno del pollice può decidere la sorte
del prodotto come l’imperatore Commodo
quello dei gladiatori che combattevano
nell’arena sognando un nuovo Spartaco.
Per gli editori/gladiatori, e ce ne sono 135
mila solo negli USA secondo il sito
specializzato 148apps.biz, la vita è dura se
FIGURA 2 - DISTRIBUZIONE % APPLICAZIONI PER CATEGORIA
MERCEOLOGICA AL 1 DICEMBRE 2011
Intrattenimento
16,68
Giochi
13,36
Libri
10,21
Moda e tendenze
8,02
Utilità
7,13
Educazione
7,08
Viaggi
4,84
Affari e finanza
3,76
Riferimento
3,73
Musica
3,32
Salute e benessere
3,28
Produttività
3,09
Sport
2,92
Notizia
2,85
Social networks
2,71
0
Fonte: Mobilewalla, 1 dicembre 2011
non impossibile, ma c’è un vantaggio che
non deve sfuggirli nella frustrazione del
momento: possono decidere un prezzo per
i contenuti e, anche se devono spartirlo con
la piattaforma, gli è stata restituita la
speranza di fuggire dalla logica del “gratis
e basta” che vige sul web. Non si fanno
comunque dei grandissimi affari con le app
a pagamento. Su AppStore, che è la
piattaforma di gran lunga più redditizia, il
91% delle app costa meno di 5 dollari e per
fare un fatturato ragionevole occorre farle
scaricare decine di migliaia di volte.
Tante apps, pochi vincitori
“Con l’offerta mondiale di applicazioni in
crescita esponenziale, la parte acquistata o
scaricata da qualcun’altro che non sia lo
sviluppatore e i propri familiari può divenire
ancor più esigua. Anche restringendo le
analisi alle applicazioni prodotte da brand
famosi, solo il 20% sono scaricate più di
mille volte”. Questa è la sentenza piuttosto
dura degli esperti di Deloitte sull’economia
delle applicazioni per mobile contenuta in
un report dal titolo sconcertante So many
apps — so little to download, che segue un
rapporto precedente anch’esso piuttosto
avvilente Killer Apps? Appearance isn’t
everything.
Le app gratuite restano all’apice del gradimento degli utenti e nel 2011 hanno totalizzato il 96% dei download seconda una
indagine condotta da IHS iSuppli, una società di consulenza nel campo della comunicazione. Gartner valuta in 81% la quota
delle app gratuite sul totale di quelle scaricate.
Anche gli sviluppatori indipendenti e gli editori, che hanno abbracciato con ammirevole entusiasmo questo nuovo mercato, si
sono resi conto che il cammino è in salita
piuttosto che in discesa e che far scaricare
un’app, foss’anche gratuita per non parlare
di pagare, può essere uno sforzo di Sisifo.
Più il catalogo delle applicazioni cresce più
incolmabile diviene il distacco tra pochi
blockbuster in fuga e il gruppone dei gregari che insegue affannosamente. Malgrado questa situazione che colpisce i
produttori, paradossalmente, il numero di
applicazioni continuerà a crescere: nel
2012 saranno 2 milioni e nel 2013 il catalogo potrebbe raggiungere i 4 milioni. Questa crescita sarà trainata dalla domanda dei
nuovi utenti, dall’ingresso di nuovi player robusti, dai paesi emergenti e infine dalla necessità di alimentare di contenuti il mercato
degli smartphone da 100 dollari che andranno a sostituire i telefonini basici in uno
spazio brevissimo di tempo.
A questo proposito scrivono gli esperti di
Deloitte: “Per raggiungere il 90% degli
utenti, uno sviluppatore dovrà creare una
specifica versione dell’applicazione per
ognuno dei cinque sistemi operativi (più
HTML5), nelle cinque principali lingue, per
almeno tre distinte prestazioni del processore e per quattro diverse dimensioni dello
schermo. Detto altrimenti, saranno necessarie 360 varianti della stessa applicazione
per coprire dignitosamente il mercato globale. Ciascuna variante conterà come
un’applicazione a sé stante”. 360 varianti!
Non è uno scherzo!
Nei mercati maturi delle app i costi di produzione e di marketing (senza considerare i
diritti) di un’applicazione sono enormemente cresciuti nel 2011 e saliranno ulteriormente nel 2012 con punte che possono
arrivare a sfiorare le sette cifre, tanto il Wall
Street Journal ha valutato il costo dell’applicazione gratuita per iPad “Sting25” che celebra fastosamente i 25 anni di attività del
cantante con lo scopo di rilanciare il suo intero catalogo. I tempi eroici dello sviluppatore che scrive la propria app tra la
mezzanotte e le sei del mattino e questa finisce tra le prime 10 in classifica sono finiti,
come l’epico west è scomparso con la ferrovia. Il mercato è divenuto professionale e
sempre più dominato dalle organizzazioni
che controllano i contenuti e hanno capacità d’investimento per ottenere l’attenzione
dei consumatori.
Perché il 90%
delle app sono un flop?
La carestia di download distribuiti non significa che il modello di business delle appli-
FIGURA 3 - FATTORI CHE CONTRIBUISCONO AL SUCCESSO DI UN APP
Portabilità
81%
Accelerometro
77%
Touch screen avanzato
61%
Servizi di geolocalizzazione
61%
Videoacamera
59%
I valori percentuali indicano la quota di app scaricate (considerate nel panel Deloitte) in cui la
specifica funzionalità indicata era presente
5
10
15
20
Fonte: Flurry Analytics 2011
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❱
FACEBOOK, IL VUOTO D’ARIA DELLA PRIVACY
di Mario Mancini
goWare team, Polo Tecnologico
di Navacchio
© Laura Manicardi
cazioni è fallace o non sostenibile, significa
una cosa diversa. Non foss’altro che abbiamo già alcuni fortunati “millionaire” (per il
bi- occorre aspettare ancora un po’) dell’ecosistema apps e molti altri hanno già acquistato una Porsche Carrera nera a rate.
Significa piuttosto che il modello di business nei mercati maturi, come lo è anche
l’Italia, è quello di Hollywood o del poker, il
vincitore prende tutto il piatto delle banconote, gli altri spartiscono le monetine. Se il
prodotto non funziona nella prima settimana, ma si potrebbe dire nelle prime 48
ore, dall’uscita non ci sono più assi da giocare. “The winner take it all / The loser standing small / … No more ace to play” dice
una canzone degli Abba, reinterpretata da
Meryl Streep in Mamma Mia, che potrebbe
divenire l’inno dell’app economy.
È questa la natura dei mercati digitali dei
contenuti dalla musica, al video, ai film, ai
talk show. I consumatori vanno dove
vanno tutti spinti dai trend che rimbalzano
da un blog all’altro dai circoli degli amici e
dal porta a porta del chiacchiericcio globale: un conformismo atroce e fors’anche
inevitabile di fronte alla vastità dell’offerta.
In questo contesto perde senso anche
una teoria consolidata e rassicurante
come quella della coda lunga. In questi
mercati non c’è nessuna coda lunga:
l’80% dei brani musicali non ottiene neppure un download e la stessa cosa succede con le applicazioni, anche se non è
possibile ancora dimostrarlo con metriche
attendibili.
Perché tante app non riescono ad attrarre
alcuna attenzione? La qualità è la prima
ragione. Gli utenti si aspettano applicazioni che utilizzino appieno le capacità
tecnologiche e le specificità di un device
mobile come la gestualità, la voce, il GPS,
la videocamera, l’accelerometro, la bussola. Molto spesso vi trovano invece contenuti e modalità traslati dal web prive di
mediazioni e senza alcuna valida implementazione. Il fatto di disporre di un contenuto o di un servizio sempre con sé,
nella propria tasca, è un valore importante
ma da solo non è più sufficiente senza
una più evoluta “user experience”. Anche i
device mobili, come gli altri media, hanno
sviluppo un proprio linguaggio che si è affrancato dal web come il cinema delle origini si affrancò dal teatro grazie a Georges
Méliès. Gli esperti di Deloitte hanno rilevato che l’uso estensivo delle specificità di
questi dispositivi (vedi figura 3) può aumentare significativamente le possibilità di
successo di un’applicazione.
La seconda ragione, ci fa sapere Deloitte,
è che molte applicazioni mancano il target
per il semplice fatto che neppure si pongono il problema. Faccenda inconcepibile
il qualsiasi altro mercato. I dispositivi iOS
sono in mano a professionisti, colletti bianchi e, non foss’altro per il brainwashing, a
persone che pensano di essere un po’
speciali. Confezionare un’app che non
centra questo bersaglio, vuol dire disperderla nel mucchio, senz’altro selvaggio.
Ecco che cosa consigliano gli esperti di
Deloitte: “Bisogna trattare ogni piattaforma
come un differente canale, con differenti livelli di coinvolgimento e di demografia e
tenere l’orecchio sul terreno per cogliere
l’arrivo di novità tecnologiche”.
“Orecchio sul terreno” dunque per sentire
arrivare in tempo utile il mucchio selvaggio
come il capo indiano in Balla coi lupi.
■
Facebook entrerà a giorni nello stretto novero delle società con una
capitalizzazione superiore a 100 miliardi di dollari. Come dice
L’Economist varrà più di Boeing, il colosso che costruisce gli aerei che ci
portano in giro per il mondo e che dà lavoro a 165.000 persone contro le
3000 di Facebook.
La famiglia Zuckerberg, a cui il giovane Mark ha elargito azioni come
Napoleone regni, entrerà nello stretto novero delle dinastie più facoltose
della terra. Il papà di Mark, Edward, diventerà il dentista più ricco del
globo. Se comprendiamo bene dove sta il valore di Boeing, Apple,
Microsoft e anche Google (tutti vendono qualcosa), per Facebook è più
difficile. Forse sono gli 850 milioni di frequentatori a dargli un valore così
elevato? A dire il vero questi sono meri numeri, seppur pesanti: la grande
popolazione di una nazione non ne fa automaticamente una potenza
economica. È solo un potenziale.
Le persone che vanno su Facebook non acquistano niente, neanche un
drink, vengono, sporcano e se ne vanno senza lasciare un centesimo.
Mantenerli costa una fortuna. Il valore di Facebook consiste nei dati che
raccoglie sulle persone; informazioni private, comportamentali, hobby,
preferenze, allusioni, consigli e relazioni. Tutto ciò che determina la sfera
privata di una persona, la cosiddetta privacy, può essere conosciuto da
Facebook. Tutti sono concordi nel dire (e anche auspicare) che un certo
punto questi dati serviranno a qualcosa, probabilmente ai pubblicitari
per confezionare delle azioni di marketing mirato da rivolgere sulla
piattaforma Facebook agli utenti che soddisfano un certo profilo demografico o comportamentale. Per ora è il modo più facile di fare dei
soldi con questo grande ambaradan del social.
La decisione di quotarsi in borsa non lascia molta scelta a Facebook a meno di inventare, e senz’altro ci riuscirà, nuovi strumenti per
remunerare i propri azionisti. Facebook deve accelerare subito tutti gli aspetti della sua attività che producono denaro. Tale intento
spiega la messe di annunci, alla vigilia della quotazione in borsa, rivolti agli investitori e provenienti dagli investitori. Facebook sta
vivendo con una certa apprensione questa prova dei fatti economici e ha già messo le mani avanti; per esempio sta dicendo a chi sa
ascoltare: “stiamo preparando una soluzione per il mobile marketing, ma non sappiamo se funzionerà”. È come dire, attenti a dove
mettete i soldi! Ma in pochi sanno ascoltare. Invece tutti si aspettano qualcosa di eclatante e questo meccanismo all’insù renderà gli
executive di Facebook voraci, come lo sono diventati quelli di Google dopo aver distribuito la minestra alla mensa dei poveri.
La vicenda di Facebook non è però così grevemente economica e, come tutte le manifestazioni importanti dell’attività umana, ha la sua
dialettica interna. La squarciante modernità della lettera agli investitori di Mark Zuckerberg dal titolo “The Hacker way”
(http://www.wired.com/epicenter/2012/02/zuck-letter/), che riecheggia il Manifesto del futurismo di Marinetti pubblicato un secolo fa,
indubbiamente riflette lo “Spirito del tempo”. La contraddizione tra “cattivo” e “buono” di Facebook ha portato e porterà molti problemi.
Ammettiamo anche, come sottintende Facebook, che molti utenti non si curano troppo di permettere o impedire a un database di
tracciare i loro comportamenti e di strutturarli in un dossier personale – comprese le loro relazioni extramatrimoniali – purché possano
continuare a stare gratis sul social network. Ammettiamo anche che scoprirsi oggetto di attenzioni e interesse possa essere rassicurante
in un mondo di solitudine e d’indifferenza e ipotizziamo pure che ricevere suggerimenti non richiesti su qualcosa che ci sta a cuore sia
abbastanza tollerabile se si è dormito bene – anche se in altre circostanze può veramente infastidire. Ammettendo tutto ciò e anche
riconoscendo che la percezione del problema da parte di tanti utenti può essere debole di fronte al glamour di Facebook, la questione
della privacy è qualcosa di molto serio per l’opinione pubblica e i governi.
Contro la social intelligence di Facebook non combattono idealmente solo i militanti fattualisti
(http://archiviostorico.corriere.it/1992/luglio/24/Burroughs_tre_passi_nel_delirio_co_0_9207247115.shtml) delle fantasmagoriche teorie
sul Controllo di William S. Borroughs (http://www.treccani.it/enciclopedia/william-burroughs/). Combattono molti altri e assai di più
dimostrano una crescente ansietà. Uno studente di legge di Salisburgo (http://www.nytimes.com/2012/02/06/technology/06ihtrawdata06.html) ha chiesto a Facebook di riavere indietro il proprio dossier e si è visto recapitare un file di 1.222 pagine, dove ci sono
informazioni che neppure ricordava. Su questa scia altre 40mila persone, che si sono coordinate nel movimento “Europa contro
Facebook”, hanno chiesto la distruzione dei loro dati. Un professore di legge di Chicago ha scritto un libro dall’esplicito titolo I Know
Who You Are and I Saw What You Did: Social Network and the Death of Privacy che sta sulla scrivania dei commissari e dei regolatori
europei.
Tutto questo brusio costringerà Facebook a un piccolo-grande aggiustamento, suggerito costantemente dall’Economist: cambiare
l’opzione di default della Timeline sull’uso dei dati personali da “sì” a “no” (http://www.economist.com/node/21546012). Dovrà essere
l’utente ad autorizzare la raccolta e l’utilizzo dei propri dati, non l’automatismo della registrazione. E c’è da scommettere che agli utenti
verranno altri appetiti a seguito di questo piccolo clic su un “sì”, come quello, per esempio, di chiedere dei benefici per non ripensarci o
semplicemente per spostare una crocetta. L’effetto leva si trasferisce così dalle mani del social network a quello degli utenti.
Per Facebook significa scoperchiare il vaso di Pandora.
“Ottenere il permesso per forme più personali di marketing sarà cruciale se Facebook vuole evitare di far arrabbiare gli utenti” dice
Alexandre Mars di Publicis (la seconda agenzia pubblicitaria del mondo). “Sanno un sacco di cose su di voi. Come e quando
inizieranno ad usarle e se voi sarete contenti o irritati da ciò, è la loro vera sfida”.
Chiedere il permesso, da persone educate, è un piccolo passo che calmerebbe il brusio ma che potrebbe costare diversi punti in borsa
e, alla lunga, una ridefinizione del modello di business. Il che non è senz’altro male, perché allontana Facebook da un modello
monolitico seppur subdolamente redditizio dal quale neppure Google è riuscito a staccarsi e che ora comincia a stargli parecchio stretto
anche per colpa di Facebook, il nuovo Alessandro Magno, distruttore d’imperi.
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LANCIARE LAPTOP DAL CIELO
E VEDERE L’EFFETTO CHE FA
a cura della Redazione
Paracadutare migliaia di laptop ai bambini
dei villaggi sperduti per combattere
il digital divide e sperimentare una nuova
forma di autoapprendimento.
Genio o follia?
iniziative simili in tutto il mondo, soprattutto
in India e in Bangladesh dove molte
aziende private stanno realizzando pc e
tablet a costi contenuti. Ora, nel tentativo
di rilanciare il progetto, Negroponte
annuncia di voler “paracadutare” i piccoli
portatili sui villaggi rurali. Dotato di un
sistema di ricarica che sfrutta la luce
solare e caricatore a manovella, il tablet
disporrà inoltre di un modulo per
connessioni satellitari che gli consentirà di
accedere a Internet. Prevede di distribuire
in questo modo milioni di tablet entro la
fine del 2012. Il progetto OLPC è finanziato
dal produttore Marvel. Nella fase iniziale
del progetto 2,5 milioni di computer
portatili XO-1 sono stati venduti a circa 200
dollari dalla OLPC ai governi di quaranta
nazioni in via di sviluppo, che li hanno
distribuiti ai bambini delle scuole primarie.
Ora, con il nuovo tablet XO-3 da cento
dollari, l’obiettivo è raggiungere tutti coloro
era quella di scambiarsi le informazioni.
Una volta che un bambino scopriva una
cosa nuova, ad esempio ad ascoltare la
musica, ecco che subito trasferiva
l’informazione al compagno/a al suo
fianco e così via. Qualche tempo dopo
Mitra e il suo team decidono di alzare il
tiro e spingersi oltre: fornire ad un gruppo
di bambini un pc dotato di interfaccia
vocale e chiedere loro di parlare al
computer. “Ehi, non capisce nulla di ciò
che diciamo” si lamentavano i bambini,
mentre Mitra rispondeva loro: “Lo lascerò
qui due mesi, fatevi capire dal pc” e andò
via. Passati i due mesi il pedagogista
indiano ritorna in quel villaggio e si
accorge che l’accento inglese dei bambini
è diventato molto simile all’accento
inglese neutrale con cui aveva impostato il
sintetizzatore audio-testo del pc. I risultati
dell’esperimento vengono pubblicati
nell’Information Technology for
International Development Journal e le
idee di Mitra sull’autoapprendimento
iniziano a fare il giro del mondo. Perfino
Arthur C. Clarke, scrittore di fantascienza
famoso per il suo romanzo 2001: Odissea
nello spazio del 1968, incuriosito dai suoi
esperimenti dice: “Se un bambino è
interessato, allora l’istruzione ha luogo […]
Loro possono aiutare le persone, perché i
bambini imparano velocemente a
navigare e trovare le cose che li
interessano. E quando hai catturato
l’interesse, avviene anche l’istruzione”.
Ebbene, Sugata Mitra stava realizzando
proprio questo. Analizzando i dati raccolti,
Mitra ha stimato che attraverso il sistema
di apprendimento “condiviso”, senza
docenti, nel giro di cinque anni potrebbe
insegnare a utilizzare le funzioni base di
un computer a 500 milioni di bambini.
Basterebbero 10 milioni di computer
connessi alla rete e un investimento totale
di 2 miliardi di dollari. “Potremmo
cambiare tutto” afferma un sognante
Mitra. E magari di nascosto vedere l’effetto
che fa, come cantava Enzo Jannacci nella
celebre canzone “Vengo anch’io? No, tu
no!”.
■
© Cristiana Messina
No,
il titolo non è il
passaggio rivisitato di
una celebre canzone
di Jannacci, ma
l’ultima pensata di Nicholas Negroponte,
celebre informatico e fondatore del MIT
Media Lab che da anni si batte per ridurre
il digital divide nei paesi meno sviluppati.
L’idea, annunciata qualche tempo fa al
mobile summit di San Francisco
(http://www.openmobilesummit.com) è di
lanciare dagli elicotteri migliaia di tablet
destinati ai bambini che vivono nei paesi in
via di sviluppo. One Laptop Per Child
(OLPC) - il progetto umanitario di cui
Negroponte è il fondatore - si occupa della
distribuzione di sistemi informatici di base
alle popolazioni più svantaggiate che non
hanno ancora accesso ai benefici della
tecnologia e delle informazioni. Il progetto
OLPC (http://laptop.org/en/index.shtml) ha
il grande merito di aver fatto nascere
che la scuola non l’hanno vista manco con
il binocolo. Il focus dell’operazione è
dunque l’assenza di intervento umano: “I
tablet – spiega Negroponte – arriveranno
in zone dove non ci sono scuole né adulti
istruiti, e i bambini dovranno imparare a
usarli da soli”. Insieme alla
neuroscienziata Maryanne Wolf, alla
studiosa ed esperta di interazione tra
uomo e macchina Cynthia Breazel del Mit
e all’indiano esperto di tecnologia
dell’educazione Sugata Mitra, studieranno
per due anni l’efficacia dell’istruzione
auto-organizzata tramite tablet. Un’idea
innovativa, che – se avrà successo –
potrebbe rivoluzionare il metodo di
apprendimento fino ad ora conosciuto,
oltre a risolvere un problema enorme
come quello del divario tecnologico.
Funzionerà? E come reagiranno i bambini
alle prese con dei piccoli computer mai
visti prima? Se i bambini sapranno
utilizzare in maniera corretta il nuovo
strumento ancora non lo sappiamo, ma
Negroponte ci crede molto, affascinato
dagli studi sull’alfabetizzazione
informatica e di autoapprendimento
condotti dal pedagogista ed esperto di
tecnologia applicata all’educazione
Sugata Mitra. Esperimenti che Mitra ha
condotto dal 1999 al 2007 in India,
Cambogia, Sud Africa e perfino in Italia, a
Torino. Tutto iniziò nel lontano 1999
all’interno di uno slum a Nuova Delhi, Mitra
murò letteralmente un pc connesso a
Internet e lo lasciò alla mercé dei bambini
registrandone le reazioni. “I bambini a
malapena andavano a scuola, non
conoscevano una parola della lingua
inglese e non avevano mai visto prima di
allora un computer e non sapevano cosa
fosse Internet” afferma Mitra durante la
presentazione dei suoi esperimenti dal
titolo “Hole In The Wall”(http://www.hole-inthe-wall.com/) al TED del 2010.
Nonostante i bambini fossero privi
dell’aiuto degli adulti e di una formazione
adeguata, in breve tempo sono stati in
grado di capire come utilizzare il pc e di
navigare in rete, ma la cosa più rilevante
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PIANO
EDIT ORIAL E
BE LT E L
2 0 1 2
Il piano editoriale rappresenta una ipotesi di linea guida fortemente flessibile
e la cui reale implementazione dipende dalla evoluzione della cronaca e dai nuovi fatti
che caratterizzeranno il nostro prossimo futuro.
Aprile
Luglio/Agosto
programmi di crescita individuali e collettivi vanno impostati per ottenere un
social network fra persone a quello fra oggetti. L’esperienza etnico tecnologica al
Paese equilibrato? Un confronto con il rapporto fra tecnologia, condizioni di vita e
Festival au Désert.
organizzazioni sociali fra i Paesi del Nord Europa e quelli mediterranei.
Settembre
Con la cultura si mangia? Quali sono gli elementi che
determinano la crescita della “Felicità Interna Lorda” in un
Paese? Coscienza e conoscenza sono componenti del nostro benessere? Quali
Maggio
Augmented reality e diminuzione di identità e attenzione. La
vastità delle informazioni sollecitate e disponibili generano
Day life technologies. iPod, iPad, iTunes,
Social Network. Come cambia la vita di
ogni giorno, come ci si diverte e ci si informa, come si ascolta la musica. Dal
Caos. L’articolazione di strumenti e di connessioni
da un lato, la diminuzione di partecipazione
cosciente e l’aumento delle abilità speculative dall’altro, rendono possibile il
un sovraccarico di stress “inconscio” nei nostri comportamenti con il risultato di
collasso del vecchio sistema economico sociale. Che fare?
un aumento di distrazione e un abbattimento della partecipazione. Il lock-in
Ottobre
sociale come eventuale risultato delle inefficienze tecnologiche: i black out nelle
organizzazioni complesse.
Giugno
Nuovo welfare. Come i cambiamenti tecnologici, sia
nell’organizzazione del lavoro sia nella vita e nella sua
durata, cambiano le ipotesi di assistenza sociale. Una riflessione sull’impatto
Verso l’intelligenza artificiale; le applicazioni con interfaccia in
delle strutture cibernetica della Società su lavoro e fine del lavoro. Obsolescenza
linguaggio naturale presenti sull’iPhone 4S presentano
dell’espressione “andare in pensione”.
interessanti componenti di analisi semantica. Che succede della “singolarità”
umana se l’evoluzione dei prodotti di intelligenzaartificiale e della nanotecnologia,
generano un ecosistema con diverse gerarchie di valori?
Novembre/Dicembre
La tecnologia nella storia
ci insegna utilizzi e
integrazioni sociali; l’innovazione “anticipata” dai Maya all’arte dei retori.
ENERGETHICA TORINO 2012, NUOVA EDIZIONE... TANTE NOVITÀ!
L'8° edizione di Energethica® si ripropone a TORINO, sempre a
Lingotto Fiere, dal 24 al 26 Maggio come punto di riferimento per
la sostenibilità e per le soluzioni legate all’energia rinnovabile nel
Nord Ovest Italiano nonchè come partner b2b del festival
dedicato alla Smart City promosso da Città di Torino e da tutte le
parti sociali coinvolte. L’evento supporterà la candidatura del
capoluogo piemontese tra le “città intelligenti” d’Europa
attraverso mostre, concerti, incontri e altri appuntamenti di livello
®
nazionale e internazionale. In questo contesto, Energethica dimostra come le tecnologie volte all’efficienza energetica, all’utilizzo di
energie da fonti rinnovabili e alla sostenibilità nella produzione industriale possano integrarsi fra loro e offrire così maggiore efficienza e
possibilità di crescita economica duratura. I principali focus della mostra sono:
Smart City & Industry
Tutti oramai parlano di Smart City... Nel corso del 2011, Energethica® ha approfondito cosa significa con oltre 50 convegni tematiciscientifici, con aree demo espositive e con proposte attuative concrete degli espositori. Quest’anno il concetto SMART è stato visto anche
sotto il profilo industriale e produttivo, spina dorsale della salute economica della città sostenibile... anche a livello finanziario.
Telegestione
Vista la massiccia presenza di impianti di teleriscaldamento in Piemonte legati sia a combustibili fossili sia a fonti rinnovabili (solar district
heating, biomasse...), forte anche del successo ottenuto nella precedente edizione, l'8° Energethica Torino ospita telegestione, la sezione
espositiva dedicata al trasporto e alla gestione a distanza dell’energia in forma di elettricità o di calore/freddo.
Condominio Efficiente
E’ l’area tematica “Condominio Efficiente” a cura di Condominioitalia Editrice la grande novità di Energethica®.
Di fianco all’area espositiva tradizionale, la “Piazza delle Dimostrazioni” garantisce alle aziende l’opportunità di divulgare le proprie
tecnologie, strategie e innovazioni sul versante del risparmio energetico e della sostenibilità ambientale, attraverso una rappresentazione
concreta dei prodotti offerti.
Completano l’offerta i desk informativi, dove consulenti ed esperti super partes rispondono a quesiti, sciolgono dubbi e forniscono tutte le
informazioni necessarie ad effettuare una scelta d’acquisto oculata e ragionata, in base anche a quanto appreso nelle demo pratiche.
Novità! Bicishow
La bicicletta è diventata high tech, mezzo sofisticato di stile di vita, e permette, visto il limitato costo di gestione nel tempo, di spendere qualcosa di più nell’acquisto. Una scelta che va
quindi ponderata e necessita di spazi per il confronto tra marchi, prestazioni e tecnologie. Un mercato in piena crescita, dove l’industria meccanica italiana spicca nel mondo ed ha
qualcosa di significativo da dire. Condizioni ideali quindi per l’inserimento in un territorio fertile e sensibile della mostra mercato Bicishow, dove trovare la bici e i contatti professionali
giusti! Inoltre: expo market, test drive, spettacoli, premi e conferenze sul tema.
La partnership con il festival offre una grande occasione per mettere sotto i riflettori quello che Energethica® da anni sostiene e che coincide con il pensiero e gli obiettivi della Città di
Torino: il concetto di città intelligente del futuro e, quest'anno, anche il profilo industriale con la Smart Industry.