Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Più voice che loyalty
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Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Più voice che loyalty
163BELTEL Poste Italiane-Spa Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n°46) art. 1 comma 1-DCB Milano BUNDLING PEOPLE DAL 1995 | LʼAPPROFONDIMENTO INDIPENDENTE DELLʼINFORMATION COMMUNICATION MEDIA TECHNOLOGY | MARZO 2012 N.163 w w w . b e l t e l o n l i n e . c o m Bye, bye, Italia! Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Alessandro Rosina Più voice che loyalty per invertire lʼuscita dei cervelli Stefano da Empoli Giovani, sveglia! Avete opportunità incredibili Riccardo Donadon Innovazione digitale: boost for talent © Luca Cattaneo Massimiliano Magrini DIRETTORE EDITORIALE Mario Citelli [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Dario Andriolo [email protected] COMITATO DI REDAZIONE Gildo Campesato, Elena Comelli, Enrico Grazzini, Andrea Lawendel, Chiara Sottocorona REDAZIONE E SEDE BELTEL SRL P.zza Duse, 3 - 20122 Milano tel. 0258325500 www.beltelonline.com [email protected] EDITORE Mediavalue srl via Domenichino, 19 - 20149 Milano tel. 0289459725 | fax 0289459753 www.mediavalue.it [email protected] PROGETTO Mediavalue srl [email protected] PUBBLICITÀ [email protected] Mediavalue srl STAMPATORE Novara Italgrafica Registrazione Tribunale di Milano n. 936 12/12/2005 Il Direttore responsabile e l’Editore declinano ogni responsabilità in merito agli articoli, per i quali rispondono i singoli Autori. Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB-Milano L’Iva è a carico dell’editore. Finito di stampare nel mese di marzo 2012. Tutti i diritti di riproduzione degli articoli e/o delle foto sono riservati. Ai sensi del D.lgs 196/2003 l’Editore garantisce la riservatezza nell’utilizzo della propria banca dati con finalità di invio del presente periodico e/o di comunicazioni promozionali. Ai sensi dell’art. 7 ai suddetti destinatari è stata data facoltà di esercitare il diritto di cancellazione o rettifica dei dati a essi riferiti. Le illustrazioni di questo numero sono state realizzate dagli studenti del secondo anno del corso di Illustrazione, scuola di Visual Communication dello IED di Milano, coordinato da Daniela Brambilla, con un lavoro didattico guidato da Francesco Santosuosso, docente di Illustrazione interpretativa [email protected]. I ragazzi impegnati a produrre illustrazioni sui temi proposti da Beltel: Lara Orrico [email protected]; Luca Cattaneo [email protected]; Valentina Cervasio [email protected]; Simone Calvi [email protected]; Maria Vittoria Romano [email protected]; Bice Marta Gadda Conti - [email protected]; Laura Manicardi - [email protected]; Alice Coppini [email protected] - Cristiana Messina [email protected]; Clara Leonardi [email protected]; In più hanno collaborato Maddalena Gerli [email protected] e Teodora Filipova [email protected] s o m m a r i Dario Andriolo Editoriale Alessandro Rosina Legge controesodo utile, ma occorre fare di più Stefano da Empoli Più “voice” che “loyalty” per invertire l’uscita dei cervelli Riccardo Donadon Giovani, sveglia! Avete opportunità incredibili Massimiliano Magrini Innovazione digitale: boost for talent E. Amiotti, S. Fabris La scuola italiana alle prese con la rivoluzione digitale Mario Rodriguez Tecnologia diffusa e nuova classe manageriale: è ora di muoversi! Maria Luisa Balzano Aiutiamo i giovani a diventare cittadini del mondo Mario Citelli Crescita e formazione Margherita Fabbri Chiediamo più rispetto (lettera aperta al ministro Cancellieri) Mario Mancini Applicazioni a go go…Il mucchio selvaggio dell’app economy Mario Mancini Facebook, il vuoto d’aria della privacy Redazione Lanciare laptop dal cielo e vedere l’effetto che fa o 2 Giovani, figli di un dio minore? e d i Qua t o lche mese fa ho rivisto il bel documentario Italy, Love it or Leave it scritto, diretto e interpretato da Luca Ragazzi e Gustav Hofer. Un viaggio attraverso l’Italia a bordo di una Fiat 500 rosso fiammante, desiderosi di capire se valga la pena lasciare questo paese oppure no. Luca e Gustav sono una coppia di ragazzi italiani che di recente hanno assistito alla fuga di molti loro amici che hanno lasciato il paese per mete come Londra, Berlino o Barcellona. Gustav crede che andarsene sia la scelta migliore da fare, Luca invece vuole convincerlo che l'Italia è ancora un paese vivo e ricco di buoni motivi per restare. Prima di prendere una decisione definitiva, decidono di darsi sei mesi per capire se è ancora possibile rimanere per tornare a ri-innamorarsi dell'Italia. Durante il viaggio, su e giù per lo stivale, scoprono storie e aneddoti incredibili di un paese ancora pieno di passioni, fucina di giovani coraggiosi che non si piangono addosso e che combattono per cercare di cambiare le cose. “Un paese che – come affermano i r i a l e di Dario Andriolo Direttore responsabile due protagonisti – normalmente non viene raccontato né al Tg1 né tantomeno nelle fiction”. Il degrado sociale e culturale causato da una classe dirigente miope e inadeguata, sommato ad una grave crisi economica di difficile soluzione, ha costretto migliaia di nostri connazionali a trasferirsi all’estero per vedersi riconoscere merito e capacità professionali. D’altra parte un paese che investe poco e male in innovazione non è certo in grado di bloccare questo esodo, anzi il problema non diventa tanto la “fuga” quanto la mancanza di capacità di “ri-attrarre”. Come sostiene Alessandro Rosina (a pag. 3): “Noi siamo uno dei paesi più avanzati che meno investono in ricerca e sviluppo, che meno hanno puntato in una politica industriale che favorisse i settori più innovativi, quelli in cui le idee dei giovani possono diventare prodotti e servizi che creano occupazione e allargano il mercato creando opportunità e crescita”.. Opportunità dunque che possono arrivare solo dall’innovazione, uno dei cardini dello sviluppo economico moderno in grado di generare crescita e occupazione. Massimiliano Magrini, ex Google Italia e ora AD di Annapurna Ventures sottolinea nel suo intervento (vedi a pag. 7) come occorre sviluppare l’imprenditoria innovativa, sostenendo una maggiore apertura ai talenti ed una cultura capace di tollerare il rischio, attraverso forme di innovazione finanziarie come ad esempio il venture capital. “Secondo un recente studio della Ewing Marion Kauffman Foundation, in media le aziende ad alta crescita, il top 1% del campione statunitense, hanno creato il 40% dei nuovi posti di lavoro. È un tipo di conclusione che evidenzia l’importanza dell’imprenditorialità innovativa e della creazione di nuove aziende nei settori ad alta crescita”. Dopotutto “ad alcuni dei giovani multimilionari americani sono bastati un garage, un pc e una buona idea!” dice Riccardo Donadon nell’intervista a pag. 6. “La crisi, il ricambio generazionale, Internet stanno scardinando tantissimi status quo [..] Viviamo un momento storico che definirei quasi unico, i giovani hanno delle opportunità incredibili, e alcuni lo stanno capendo”. Senza una giusta mentalità, un’idea geniale e un garage non bastano generalmente per creare un’azienda di successo. Come ha ricordato Carlo Alberto Pratesi su Repubblica Affari&Finanza del 20 febbraio scorso in un articolo dal titolo “Technion valley, la patria delle startup”: “L' esperienza delle società di venture capital insegna che su 10 startup finanziate, nel giro di sette anni ne falliscono quattro; tre vanno in pari (cioè recuperano solo i costi); due generano un piccolo guadagno, e solo una è un successo, cioè fa moltiplicare per 20 il capitale iniziale. Se si considera oltretutto che le idee finanziate sono meno dell' 1% di quelle presentate, è facile capire che conquistare il mercato è un' eccezione alla regola”. Ciò non vuol dire che non occorre provarci anzi, sono migliaia i ragazzi che spinti dall’esempio di Mark Zuckerberg (Facebook) o di Jack Dorsey (Twitter) tentano di farcela. Anche qui da noi il fenomeno dei giovani “startupper” sembra finalmente farsi largo (anche se i media ancora ne parlano poco). Giovani che grazie a Internet, un pizzico di ❱ 3 4 6 7 8 11 12 13 14 14 16 18 -::-beltel-::-2 © Alice Coppini ALESSANDRO ROSINA: “LEGGE CONTROESODO UTILE, MA OCCORRE FARE DI PIÙ” Intervista a cura di Dario Andriolo “In un mondo sempre più globale e interconnesso si può partecipare al cambiamento culturale e alla crescita economica dellʼItalia anche vivendo altrove”. I gnorata per molto tempo, la “fuga dei talenti” è diventato un problema socioeconomico, politico e culturale che minaccia il futuro del nostro paese. Investimenti insufficienti in ricerca e sviluppo, scarsa attitudine verso l’innovazione e continui ostacoli al cambiamento hanno reso il paese poco “attrattivo” per i giovani talenti italiani e stranieri, costringendo i primi a “fare le valigie” e trasferirsi all’estero per vedersi riconosciuti merito e capacità. Di questo tema si occupa da tempo Alessandro Rosina, uno dei più attenti conoscitori dei cambiamenti sociali in atto nel nostro paese. Professore di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano dove dirige anche il Laboratorio di statistica applicata, fa parte del Consiglio Direttivo della SIS-Società Italiana di Statistica. Scrive per vari quotidiani nazionali e riviste. Presiede l’associazione ITalents che si occupa della promozione dei giovani talenti italiani nel mondo. Ha al suo attivo molte pubblicazioni nazionali e internazionali su temi riguardanti le nuove generazioni, la famiglia, il welfare, il rapporto trasformazioni demografiche e sviluppo. Tra i suoi libri più recenti Non è un paese per giovani (Marsilio, 2009, scritto con E. Ambrosi) e Goodbye Malthus. Il futuro della popolazione: dalla crescita della quantità alla qualità della crescita (Rubbettino, 2011, con M.L. Tanturri). D. Chi sono i “giovani talenti” in fuga? E perché il problema è stato ignorato per così tanti anni? Il problema della “fuga dei talenti” è diventato solo recentemente tema di dibattito pubblico sia per una questione di dati sia per la natura del fenomeno. Abbiamo infatti una carenza di informazioni su quanti sono quelli che se ne vanno e sulle caratteristiche che hanno. A tali limiti © Maria Vittoria Romano follia e un’idea giusta si creano il “lavoro” in grado di generare occupazione. Alcune aziende italiane hanno iniziato a capirlo: sono nate in questi ultimissimi anni alcune importanti iniziative, da Mind The Bridge a Working Capital di Telecom Italia, da InnovAction Lab a Startup Iniziative di Intesa San Paolo e altre ancora sono in procinto di partire. Tutti progetti finalizzati a sostenere i giovani dotati delle migliori idee innovative (l’esecutivo sembra stia discutendo l’idea di un superfondo sul modello francese, partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti e finalizzato alle startup). Secondo stime ufficiose in Italia sono circa 25mila i giovani che hanno deciso di “crearselo” un lavoro, a dispetto di tutti coloro che parlano delle nuove generazioni come di “bamboccioni” o “sfigati”, incapaci di trovarsi un lavoro lontano da mamma e papà. Un esercito di ragazze e ragazzi dai venti ai trent’anni etichettati in questo modo – forse perché non hanno genitori famosi e non appartengono a nessuna “casta” – come fossero tutti figli di nessuno. Scuola, ricerca e innovazione sono assi portanti su cui si regge un paese moderno, punti essenziali su cui investire per tornare ad essere “attrattivi” e colmare i ritardi accumulati dall’Italia rispetto alle nazioni più progredite. Curiosando tra le pieghe dell’ultimo bilancio federale americano (2012-2013) si scopre che l’amministrazione Obama ha tagliato in quasi tutti i settori ad eccezione di istruzione, scienza e innovazione. “La scienza e la tecnologia sono in grado di fare la differenza, per il benessere di questa nazione nel lungo periodo” ha affermato Barack Obama. Già, ma quelli sono gli Stati Uniti e noi, purtroppo, no. Sono passati più di cento giorni dall’insediamento del governo Monti e di politiche orientate ai giovani, all’innovazione e allo sviluppo digitale del paese si è sentito molto ma visto poco. Il paese va ricostruito partendo dai giovani, considerandoli non più come “figli di un Dio minore” ma come protagonisti del paese che verrà. ■ ha cercato di rispondere l’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) che però rileva solo coloro che formalizzano la loro residenza all’estero e molti espatriati non lo fanno. I dati quindi sono sottostimati ma anche le caratteristiche rilevate su chi risiede all’estero, utili per avere un profilo preciso di chi se ne va, sono molto limitate. Pur con questi limiti, quello che sappiamo è che il fenomeno è cresciuto molto ed interessa sempre più giovani con alti livelli di qualificazione. Esiste poi una questione legata alla natura del fenomeno. Se ci confrontiamo con gli altri grandi paesi l’anomalia italiana risulta soprattutto evidente nel saldo netto tra “cervelli” che se ne vanno e quanti tornano o riusciamo ad attrarne dagli altri paesi. È soprattutto sotto questa prospettiva che il problema diventa particolarmente rilevante, e ci fa capire che la questione non è tanto la “fuga” ma la mancanza di capacità di ri-attrarre. D. Un paese che investe poco in innovazione è in grado di fermare questo esodo? La risposta è certamente no. Noi siamo uno dei paesi più avanzati che meno investono in Ricerca e sviluppo, che meno hanno puntato in una politica industriale che favorisse i settori più innovativi, quelli in cui le idee dei giovani possono diventare prodotti e servizi che creano occupazione e allargano il mercato creando opportunità e crescita. I giovani di talento vanno dove il loro valore può essere maggiormente riconosciuto e il loro capitale umano può essere maggiormente valorizzato. Se non creiamo le premesse perché ciò avvenga anche in Italia, saremo destinati a rimanere un paese di serie B che incentiva le sue risorse migliori ad andarsene. D. Secondo lei è ancora una élite ristretta che fugge, oppure il fenomeno si sta allargando anche ai giovani in generale (meno istruiti)? Se ne va chi ha maggiore propensione a muoversi, chi vuole confrontarsi con opportunità più ampie rispetto a quelle che offre il paese di origine, chi desidera crearsi una rete di relazioni internazionali. La consapevolezza dell’importanza di fare esperienze all’estero è maggiore tra chi ha una famiglia di origine con status sociale elevato. C’è poi chi invece se ne va per la mancanza di adeguate opportunità in Italia. Più che attratto dall’esperienza all’estero, fugge per carenza di prospettive nel luogo di nascita. Questa mancanza di prospettive in Italia sta diventando sempre più grave ed è il motivo per cui il fenomeno si sta ❱ -::-beltel-::-3 allargando a tutte le fasce sociali. Una realtà quindi sempre più variegata, che interessa una platea sempre più vasta di giovani. D. Il problema del “ritorno in Italia” sembra non sia risolvibile solo con degli incentivi di natura economica. Cosa fare allora? Le politiche devono mirare non tanto ad impedire la “fuga”, ma ad incentivare la circolazione dei talenti. Come abbiamo detto, quello che a noi manca è la capacità di ri-attrarre. Un tentativo nella direzione giusta è la legge “Controesodo” (n. 238/2010), entrata in vigore ad inizio 2011, che prevede incentivi fiscali ai lavoratori under 40 che rientrano in Italia dopo un periodo di occupazione di almeno due anni all’estero. Il provvedimento approvato ha il pregio di essere stato disegnato in modo non tanto per frenare l’espatrio, ma incentivare congiuntamente sia la scelta di fare un’esperienza all’estero che il rientro. Si tratta di una iniziativa utile e importante che ci auguriamo abbia il maggior successo, ma di per sé non basta, per due ordini di motivi. Il primo è che non sono sufficienti gli incentivi fiscali, bisogna anche creare le condizioni perché i giovani di talento possano crescere e dare buoni frutti anche nel nostro paese. Serve quindi un ambiente meno gerontocratico, meno nepotista, con selezione più trasparente e basata su criteri oggettivi legati al merito, ma che incentivi anche l’intraprendenza dei giovani e li renda una risorsa attiva nell’espansione dei settori più innovativi e dinamici. Il secondo motivo è che dovremmo puntare a coinvolgere anche i talenti che decidono comunque di non tornare. In un mondo sempre più globale e interconnesso si può partecipare al cambiamento culturale e alla crescita economica dell’Italia anche vivendo altrove. L’associazione ITalents (www.italents.org), ad esempio, è nata con l’obiettivo di realizzare un’idea di “Italia diffusa”, fondata sulla rete e non sui confini, in grado di mettere strutturalmente e stabilmente in connessione attiva tutto il meglio che gli italiani sanno essere e fare, ovunque si trovino. D. Parafrasando una celebre frase tratta dal film La meglio gioventù, “chi sono oggi i dinosauri da abbattere?” I dinosauri da abbattere sono i mali storici dell’Italia che frenano il cambiamento e la crescita del paese. Sono quelle forze economiche, sociali e politiche che pensano soprattutto a mantenere le proprie rendite di posizione. Sono coloro che per la difesa degli interessi del presente sacrificano l’investimento sul futuro. Sono i responsabili dell’enorme debito pubblico, del ricambio generazionale bloccato, i conniventi dell’evasione fiscale e del lavoro nero, i paladini del corporativismo. Sono tutti coloro che impediscono alle forze più fresche, dinamiche e innovative di trovar spazio ed emergere. È tempo di un nuovo rinascimento, ma prima serve forse una dura era glaciale che spazzi via una classe dirigente non solo vecchia e compromessa con i mali storici del passato, ma soprattutto manifestamente inadeguata a raccogliere le nuove sfide di questo secolo. ■ PIÙ “VOICE” CHE “LOYALTY” PER INVERTIRE L’USCITA DEI CERVELLI di Stefano da Empoli Presidente I-Com, Istituto per la Competitività La fuga dei cervelli costa cara allʼItalia. Quale soluzione? È possibile vedere nella fuga dei cervelli sia una delle principali cause che uno degli effetti più evidenti della perdita di competitività dell’Italia. Difficile avere un’esatta quantificazione del fenomeno ma l’osservazione congetturale di ciascuno di noi, che si trova ad avere un numero crescente di parenti, amici e conoscenti italiani residenti all’estero, è supportata dai dati ufficiali. Che nel caso specifico sono in primo luogo quelli dell’AIRE, l’Anagrafe Italiana per i Residenti all’Estero. Tra il 1992 ed il 2000, le nuove registrazioni annuali di cittadini italiani residenti all’estero ammontavano in media a 100.000 mentre nel decennio successivo la media raddoppia a circa 200 mila. Tale variazione registrata dal database dell’AIRE è in parte certamente imputabile alla Legge Tremaglia del 2001, che ha riconosciuto il diritto di voto agli italiani all’estero, e alla crisi economica che ha interessato l’America Latina, in particolare l’Argentina, spingendo molti discendenti di emigrati a richiedere la cittadinanza italiana. Tuttavia, anche muovendosi attraverso dati che come quelli AIRE sovrappongono inevitabilmente fenomeni di emigrazione di epoca diversa e del tutto eterogenei per livello sociale e di istruzione, saltano agli occhi alcuni fatti che fotografano quanto avvenuto nell’ultimo decennio. Come ad esempio l’aumento vertiginoso dei residenti in nazioni o aree geografiche che tradizionalmente non ospitano comunità italiane di passata emigrazione. I residenti italiani in Spagna dal 2005 al 2010 sono passati da 62.986 a 113.584 (con Barcellona che ne ospita 54.113, per intenderci più di quattro volte il numero di cinesi ufficialmente presenti a Roma). Negli stessi 5 anni, quindi dopo l’applicazione della Legge Tremaglia, gli italiani che fanno capo al consolato di Bruxelles sono passati da 58.250 a 83.116, a quello di Londra da 108.298 a 155.505, a quello di Berlino da 12.740 a 17.356. ❱ -::-beltel-::-4 9.000.000 Popolazione 8.000.000 Immigrati 7.000.000 Emigrati 6.000.000 5.000.000 Immigrati Emigrati 4.000.000 3.000.000 Reddito medio netto annuo (20-34 anni) Reddito medio netto annuo procapite corretto (20-34 anni) Totale reddito mancato migliaio € € migliaia di € 101 120 15.954 15.954 15.795 15.765 3.900.219 4.646.858 Saldo 2.000.000 20 - 763.283 Tabella: Effetto annuale del saldo negativo Immigrati-Emigrati con titolo di laurea - Fonte: Elaborazioni I-Com su dati OCSE 2005, ISFOL 2010, Eurostat 2005 1.000.000 0 Popolazione laureata (20-34 anni) a a a a a USA anad strali mani ranci pagn F S C Au Ger UK anda pone Italia anda lonia ssico Ol Giap Irl Po Me Figura 1: Flusso annuale immigrati ed emigrati con un titolo di studio universitario - Fonte: Elaborazioni I-Com su dati OECD 2005 per scontato che molti fossero i non registrati). Per capire i motivi che spingono quote crescenti di giovani italiani a fare le valigie è estremamente interessante guardare a uno studio compiuto dall’Istat nel 2009 sull’intera popolazione dei dottori di ricerca italiani che hanno conseguito il titolo nel 2004 e nel 2006. Innanzitutto, a leggere con attenzione i dati, si capisce che chi parte non è necessariamente chi sta peggio. A fare di più le valigie sono stati infatti i dottori di ri- © Lara Orrico Gran parte delle nuove iscrizioni sono attribuibili a giovani con istruzione superiore alla media che cercano altrove la fortuna che non hanno (per ora) trovato in Italia. Quelli citati sono peraltro numeri che sottostimano certamente il fenomeno, in quanto un discreto numero di italiani non residenti non si iscrive all’AIRE (fatto certificato anche dalla Legge sul controesodo del 2010, che ha previsto che i benefici fiscali per chi rientrava si dovessero applicare a prescindere dall’iscrizione all’anagrafe degli italiani all’estero, dando cerca del Nord (in particolare del NordEst) e coloro che avevano i genitori con il titolo di studio più elevato. Un fattore critico è senz’altro lo stipendio. I dottori di ricerca che avevano conseguito il titolo 3 anni prima guadagnavano in media nel 2009 € 1.687, poco meglio andava a coloro che avevano preso il dottorato 5 anni prima (con € 1.759 euro). D’altronde basta guardare il Rapporto OCSE “Education at a Glance” del 2011 per capire che, tra tutti i paesi più sviluppati, l’Italia è una delle nazioni con il minore gap salariale tra diversi titoli di istruzione e con quello maggiore tra differenti classi anagrafiche e tra sessi (a parità di istruzione). Il fatto che in due anni di lavoro (supponendo sostanzialmente omogenea la qualità dei due pool di capitale umano) lo stipendio medio di un dottore di ricerca aumenti appena di 72 euro netti conferma drammaticamente la drammaticità della situazione. Tuttavia, ed è forse questo l’aspetto più interessante dell’indagine ISTAT, non è il basso stipendio in cima alle preoccupazione dei giovani dottori di ricerca bensì le prospettive di carriera, che nel 2009 soddisfacevano a fatica il 50% degli intervistati (per l’esattezza il 52,5%, un dato molto basso se consideriamo che stiamo parlando della più ristretta élite del talento). Per completare il quadro, occorre dare uno sguardo al saldo tra talento in entrata e talento in uscita. Nella figura 1, che mostra sempre dati OCSE, risalenti al 2005, si evince che l’Italia è l’unico paese avanzato (a parte l’Irlanda, penalizzata paradossalmente dall’appartenenza al club anglosassone) che ha un saldo netto negativo tra emigrati ed immigrati con un titolo di studio universitario. Al contrario, gli Usa, il Canada, l’Australia, la Germania e la Francia emergono come i paesi che possiedono una maggiore attrattività per i laureati, con un saldo positivo significativo tra immigrati ed emigrati laureati. Discorso a parte per il Regno Unito, che soffre di un brain drain elevato verso gli Stati Uniti. Partendo da questi dati e incrociandoli con i dati Eurostat sulle fasce d’età dei migranti laureati da e per l’Italia, I-Com, Istituto per la Competitività, stima che il reddito mancato dovuto alla perdita dei laureati italiani nella fascia di età compresa tra 20 e 34 anni, al netto degli immigrati nella stessa fascia di età e con pari titolo di studio, sia pari a € 763 milioni all’anno (vedi tabella). In termini di PIL, questo si traduce in una perdita annualmente pari a circa € 1,2 miliardi (il che si traduce a sua volta in mancate entrate fiscali pari a € 524 milioni, calcolate sui valori della pressione fiscale del 2010). Per dare un’idea della perdita di opportu- -::-beltel-::-5 nità economica per il nostro Paese, secondo lo studio I-Com, qualora il saldo immigrati-emigrati laureati fosse pari nella fascia anagrafica descritta a quello tedesco, esso permetterebbe di generare un aumento del PIL pari a € 20,7 miliardi e un incremento delle entrate fiscali pari a € 9 miliardi. Rispetto a una situazione che è andata così incancrenendosi negli anni, non è facile proporre soluzioni efficaci. Lodevoli ma probabilmente da soli poco incisivi i provvedimenti ad hoc che incoraggiano il ritorno degli italiani che si trovano all’estero (siano essi docenti o ricercatori oppure lavoratori under 40). Problemi di tipo generale si possono risolvere difficilmente con soluzioni specifiche e basate su incentivi fiscali di breve durata (3 anni al massimo nel caso della Legge bipartisan n.238/2010 sul contro-esodo, forse il provvedimento di portata maggiore fin qui approvato). Più importanti appaiono leggi che riguardino il sistema universitario e della ricerca e il mercato del lavoro, laddove vengano promossi criteri davvero meritocratici: ad esempio, fondi concessi in base ai risultati della ricerca, non solo teorica ma anche applicata (basati sul numero e sulla rilevanza dei brevetti), oppure scatti automatici di anzianità aboliti o quantomeno appiattiti (l’Italia è il solo tra i grandi Paesi europei dove la curva salariale raggiunge il suo apice alla soglia dell’età pensionabile, laddove è noto che la maggiore produttività viene raggiunta dal lavoratore medio tra i 40 e i 50 anni). Quanto all’attrattività dell’Italia verso i talenti stranieri, alcuni interventi facili ci sarebbero: ad esempio, una corsia preferenziale per il rilascio del permesso di soggiorno. In più, tra i criteri di ottenimento dei fondi per le università e gli enti di ricerca pubblici, si dovrebbe valorizzare la presenza di docenti, ricercatori e studenti stranieri nonché, per le università, l’incidenza sull’offerta formativa di corsi in lingua inglese. In ogni caso, è chiaro che senza un salto culturale che ci proietti finalmente tra i protagonisti della globalizzazione (piuttosto che tra i suoi agenti passivi), difficilmente questi problemi saranno risolti. Parafrasando il titolo di un celebre libro di Albert O. Hirschman, ci si augura che una voice sempre più forte permetta di ridurre l’attuale fenomeno di exit. Quel che è da escludere è la loyalty al Belpaese delle sue classi migliori, in assenza di cambiamenti strutturali, che non possono viaggiare solo attraverso le strade secondarie delle leggi simboliche, certamente importanti ma del tutto insufficienti nella situazione attuale, ma devono necessariamente imboccare le autostrade delle riforme strutturali che promuovano il merito a tutti i livelli. ■ RICCARDO DONADON: “GIOVANI, SVEGLIA! AVETE OPPORTUNITÀ INCREDIBILI” Intervista a cura di Dario Andriolo “Non cʼè nessun motivo per cui non potrebbe nascere qui la prossima startup che rivoluziona il mondo”. “B asta piangersi addosso, c’è bisogno di energie e voglia di riscrivere tutto”. Donadon punta deciso a spronare quei giovani che ancora non si rendono conto dell’enorme potenziale che il mondo delle startup può offrire loro. Dopotutto “ad alcuni dei giovani multimilionari americani sono bastati un garage, un pc e una buona idea!”. Riccardo Donadon, quarant’anni, è Presidente e Amministratore Delegato di H-Farm, azienda in cui si coltivano le migliori idee imprenditoriali in ambito Internet e New Media, favorendo lo sviluppo di startup fondate su modelli innovativi di business. Nata nel 2005 proprio da un’idea di Donadon, H-Farm è un’esperienza forse più vicina a quella di un acceleratore in stile americano piuttosto che ad un incubatore. Immersa nella campagna trevigiana H-Farm coniuga in maniera armonica tecnologia, natura e professionalità, assicurando un luogo favorevole per la crescita di nuove imprese e che oggi, nonostante la crisi, sta continuando in maniera positiva la sua avventura. In essa vi lavorano quasi 250 giovani e nel 2015 saranno 500. In sei anni ha investito circa 11 milioni di euro, che saliranno a 20 nei prossimi quattro anni. Ospitano 32 startup, di cui 5 già vendute e altre in attesa di esserlo. © La ur a M an ica rd i © Laura Manicardi D. Quali sono a tuo parere gli ostacoli maggiori che impediscono ai giovani dotati di talento, creatività e idee di affermarsi nel nostro paese? Io credo che questa cosa stia diventando un po’ un luogo comune, certo ci sono dei problemi, ma come sempre ad ogni problema corrisponde un’ opportunità. L’Europa, l’Italia sono vecchie, sedute, arroccate su vecchi modelli, tanto che perfino i nostri media non raccontano mai a sufficienza le belle storie di chi ci prova. È più facile elencare le cose che non funzionano. Penso che piangersi addosso non sia la soluzione. Il resto del mondo, perché è su questa scala che bisogna ragionare, non è un paese per vecchi; il resto del mondo è giovane e vuole il suo spazio. La crisi, il ricambio generazionale, Internet stanno scardinando tantissimi status quo. Modelli di business ritenuti intoccabili e inossidabili stanno saltando. C’è bisogno di idee nuove, energia e voglia di riscrivere. Viviamo un momento storico che definirei quasi unico, i giovani hanno delle opportunità incredibili, e alcuni lo stanno capendo. I media devono raccontare le loro storie perché devono scuotere quelli che si lasciano avvinghiare da vecchi schemi sociali che sono -::-beltel-::-6 propagandati dalle generazioni precedenti solo per loro specifico interesse, una voce a cui sarebbe molto comodo credere e che rischia di tramutarsi in un abbraccio mortale. Ad alcuni dei giovani multimilionari americani (Zuckerberg & C.) sono bastati un garage, un pc e una buona idea! Facebook ha generato mille milionari nella Silicon Valley. Non c’è nessun motivo per cui non debba nascere qui la prossima startup che rivoluziona il mondo. D. Di recente H-Farm ha abbracciato anche il campo della formazione, cosa state facendo a proposito? E con quali obiettivi? Oggi in Digital Accademia c’è grande fermento, a Marzo partirà il primo MasterLab in Digital Economics & Entrepreneurship rivolto a tutti coloro che vogliono fare la loro startup, ma anche a coloro che vogliono crescere e lavorare nel digitale. Per noi la formazione è fondamentale: portarla vicinissimo a noi assolve almeno diverse motivazioni. La prima, la più forte, è che stiamo crescendo tantissimo (oggi nella sede di H-Farm nel portafoglio delle iniziative ci sono oltre 200 giovani), nei prossimi quattro anni raddoppieremo per cui noi per primi siamo interessati al fatto che siano formati bene. Con noi deve crescere però anche il territorio, il mercato, le imprese e Digital Accademia è un luogo aperto con percorsi formativi che vanno dai corsi estivi realizzati in collaborazione con alcuni mentors Apple e la scuola Internazionale di Brescia per i bambini dai 6 ai 12 anni, ai workshop tematici di 48 ore ogni 15 giorni, al tagliando digitale per le aziende, agli Innovations day, al MasterLab che citavo prima, fino ai corsi per i genitori su come comportarsi con i figli su Facebook, per poi chiudere con i corsi per gli entusiastici Silver Surfer, autentica rivelazione per energia e voglia di fare. In sintesi, il nostro obiettivo è far capire quanto possa essere straordinariamente utile per tutti, questa meravigliosa rete tecnologica e come sfruttarla al meglio per le proprie necessità. D. L'attuale crisi globale può dischiudere opportunità di cui, in periodi di crescita, non si ha percezione. Quali sono oggi i settori e le tendenze da approfondire per sviluppare innovazione digitale? Come dicevo prima le opportunità sono straordinarie e abbracciano tutti i settori, spesso anche quelli che sembravano off limits. Banalmente il commercio elettronico non ha ancora manifestato il suo reale potenziale di crescita. Sarà vertiginoso, specie ora che inizierà l’acquisto in mobilità con la velocità del LTE e le nuove tecnologie di pagamento. L’healthcare, la manutenzione, la gestione del nostro corpo, la prevenzione: uno scenario enorme dove già si intravedono le potenzialità con le prime applicazioni. La gestione delle proprie finanze, la crisi avrà l’effetto positivo che ci farà diventare molto più attenti. Nasceranno strumenti. Il telefonino sarà sempre di più il cuore di tutto. D. Come vedi il futuro dellʼIT in generale tra cinque anni? E come cambieranno i ❱ D. Facebook, il principale social network al mondo sarà presto quotato in Borsa: sarà una grande opportunità oppure una clamorosa bolla. Qual è la tua opinione? Una grande opportunità. Sta diventando un enorme sistema operativo. I prossimi 12 mesi saranno decisivi per la traiettoria, ma io credo che non si possa parlare di bolla. C’è già molto, ma il potenziale è enorme. INNOVAZIONE DIGITALE: BOOST FOR TALENT di Massimiliano Magrini Manager ed imprenditore, Founder di Annapurna Ventures “Occorre moltiplicare le iniziative concrete a favore dellʼimprenditoria innovativa driver principale per creare sviluppo, occupazione e crescita”. L’ innovazione è uno dei cardini dello sviluppo economico moderno ed è, come ha evidenziato il grande teorico del management Peter Drucker, lo “strumento specifico dell’imprenditorialità”. Dalle prime analisi di Schumpeter fino alle moderna teoria economica è stato dimostrato come imprese, regioni, stati dove si concentrano innovazione tecnologica, ricerca scientifica, investimento in capitale umano e imprenditorialità presentino le migliori prospettive per la creazione di ricchezza e occupazione. Infatti, il potere trasformativo delle idee sta aumentando progressivamente: la miscela è costituita dalla retroazione reciproca tra sviluppi in ambito tecno-scientifico, innovazioni finanziarie (sistema del venture capital), politiche pubbliche adeguate (supporto allo sviluppo del capitale umano, creazione di research universities), apertura ai talenti ed una cultura capace di tollerare il rischio. Perché il venture capital è così importante? Una maggiore incidenza di investimenti in imprese innovative nelle loro prime fasi di attività è correlato ad un incremento della crescita economica e dell’occupazione. Ad esempio, negli Stati Uniti le venture backed companies producono una ricchezza pari al 21% del PIL e danno lavoro all’11% degli occupati nel settore privato. Inoltre, le aziende sostenute dal venture capital sono maggiormente performative ed ottengono risultati superiori alle altre imprese sia in ter- D. Nel 2012 i dispositivi mobili connessi al web diventeranno più numerosi degli abitanti della Terra. Quali sviluppi dobbiamo ancora aspettarci dalla tecnologia? Le nostre cose non sono ancora collegate alla rete. La città non è in rete. Tra quattro anni ci saranno tanti oggetti che oggi vengono ancora visti con curiosità che saranno ritenuti assolutamente ordinari. Penso ad un e-book con la sim annegata al suo interno, penso ad un cancello che si aprirà da solo quando rileverà che stiamo per presentarci, penso ad un allarme che si spegnerà, al riscaldamento della casa che capirà che abbiamo lasciato l’ufficio. Il focus principale di tutti deve essere rendere invisibile tutto questo. Siamo solo all’inizio…Mille opportunità per chi vuole vivere queste cose da protagonista. ■ mini di reddito prodotto sia in termini di nuovi posti di lavoro generati. Questo è vero in particolare per i fondi che operano nel primo quartile, che agiscono con un approccio “hands on”, supportando gli imprenditori nello sviluppo del business e nel networking commerciale e finanziario. Secondo un recente studio della Ewing Marion Kauffman Foundation, in media le aziende ad alta crescita, il top 1% del campione statunitense, hanno creato il 40% dei nuovi posti di lavoro. È un tipo di conclusione che evidenzia l’importanza dell’imprenditorialità innovativa e della creazione di nuove aziende nei settori ad alta crescita. L’elemento principale dell’accelerazione economica generata dagli investimenti è costituito dalle startup: team imprenditoriali che, con il supporto di finanziatori esterni o con risorse autonome, immettono sul mer- ❱ © Simone Calvi “modelli di business”? L’IT dal 2008 con l’invenzione dell’APP Store ha definitivamente cambiato le sue prospettive. È cambiato tutto. Gli Smartphone, i Tablet, domani la Tv e soprattutto il cloud stanno facendo il resto. Ci sarà una profonda riscrittura di tutto con le nuove generazioni. Nuove porte di ingresso ai servizi, accessibilità ovunque, nuove interfacce, semplificazione di tutto il processo interno ed esterno. Credo si andrà definitivamente verso una cultura che vede il servizio e la sua qualità al centro. Un tweet già oggi può mettere in crisi un’azienda e domani più che mai, perché la soglia delle aspettative dell’utenza è sempre più alta. Per saperne di più… Annapurna Ventures è stata creata nel 2009 da Massimiliano Magrini, manager ed imprenditore di lungo corso che in passato ha fatto la startup delle sezioni italiane di Google, Spray Network e Altavista. Annapurna seleziona nuove imprese nella fase iniziale del loro ciclo di vita, fornendo loro un supporto finanziario, analitico e di affiancamento imprenditoriale. La società opera principalmente nell’ambito dell’economia digitale, con un focus specifico sui servizi web, il software per imprese e la tecnologia mobile. Annapurna aiuta lo sviluppo delle società partecipate in modo proattivo, fornendo mentorship, esperienza nel settore ed una rete estesa di contatti. LA SCUOLA ITALIANA ALLE PRESE CON LA RIVOLUZIONE DIGITALE di Enrico Amiotti e Sergio Fabris Rispettivamente, Fondazione Enrica Amiotti e Skillnet Consulting Come sta mutando la concezione di istruzione e formazione nellʼera della connettività globale. Ne lla nuova società globale l’Information Communication Technology (ICT) è certamente uno dei maggiori determinanti dello sviluppo economico e dell’incremento della qualità della vita. L’inarrestabile evoluzione tecnologica e la sua pervasività in ogni settore di attività hanno innestato nei paesi sviluppati un circolo virtuoso di crescita che risulta valido anche per le economie in via di sviluppo. La rivoluzione digitale rappresenta l’uso dell’ICT in tutti gli aspetti della società, inclusi i processi operativi delle organizzazioni aziendali, governative e non profit, e nelle transazioni tra le organizzazioni e tra individui che agiscono come imprenditori, consumatori e cittadini. L’ICT ha rivoluzionato il mondo delle organizzazioni con nuovi modelli di processi di lavoro, creando nuovi settori di business, incrementando la produttività e innovando i rapporti tra aziende e consumatori in ogni settore: nelle aziende agricole, industriali e finanziarie, nei servizi e negli enti governativi. Questo processo espansivo è ben lungi dall’esaurirsi perché i suoi elementi di base, hardware, software e servizi, continuano a migliorare in termini di qualità, velocità, prezzi e facilità d’uso. Da poco più di vent’anni l’ICT è entrata anche nelle scuole principalmente per una forzatura marketing dell’ “offerta” di prodotti digitali, mentre è mancata, soprattutto all’inizio, una specifica e motivata “domanda” da soddisfare. E i risultati sono tutt’altro che soddisfacenti. Le motivazioni per l’introduzione dell’ICT nelle scuole devono provenire dalla consapevolezza degli operatori scolastici di ottenere: • un miglioramento della qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento; • la creazione di competenze di base per un utilizzo efficace e consapevole degli strumenti e delle tecnologie dell’informazione; • il superamento delle barriere che ostacolano l’accesso alla scuola dei disabili e degli immigrati; • un miglioramento della gestione della scuola con riduzione dei costi a parità di risultati. La scuola italiana non è stata opportunamente preparata all’introduzione dell’ICT: • sono state insufficienti (e a volte contraddittorie) le specifiche politiche governative di sviluppo e di investimento; • i fondi stanziati sono sempre risultati inadeguati alla dimensione e complessità dei problemi da affrontare (infrastrutture e dotazioni a livello aule, insegnanti, alunni, ecc.); • sono state inadeguate le iniziative di formazione degli insegnanti; • nei casi virtuosi, l’approccio è stato di fatto limitato all’informatica tradizionale, basata su pc, e non ha tenuto conto della ricchezza di strumenti interattivi e di contenuti multimediali offerti sulle nuove piattaforme (tablet, wireless, connettività Internet a larga banda) ed applicazioni; • gli editori di testi scolastici sono stati assai poco innovativi nella creazione e promozione di nuovi contenuti multimediali, anche a causa del limitato parco hardware e di disponibilità di reti di comunicazione nelle scuole; • è mancata una adeguata riflessione e progettazione del ruolo che le nuove tecnologie dell’informazione possono e devono avere sulla didattica nella scuola, differenziando chiaramente tra diversi livelli (scuola primaria, secondaria inferiore e superiore, istituti professionali, università), diverse discipline (es.: matematica e scienze, lingue straniere, discipline umanistiche) ed il lavoro in classe e a casa da parte dei discenti. Il risultato è che il settore scolastico nella sua globalità risulta decisamente in ritardo nell’utilizzo dell’ICT, sia per gli aspetti organizzativi sia per i metodi didattici, questo nonostante molte pregevoli iniziative locali che testimoniano delle possibilità di sviluppo che l’utilizzo delle tecnologie digitali possono offrire. In molti casi gli strumenti digitali introdotti ❱ © Maddalena Gerli cato un prodotto affrontando un rischio calcolato. Per questo motivo la forma di finanziamento dell’innovazione che ha maggiormente supportato le startup è stata il venture capital: la messa in opera di capitali intelligenti capaci di sopportare rischi elevati con, allo stesso tempo, un potenziale di rendimento consistente. Questa forma di investimento è legata a progetti fortemente scalabili, con mercati ampi e ad alto potenziale di crescita. Per questa ragione i settori ad alta tecnologia e ad alta crescita, come le biotecnologie, le nanotecnologie e Internet, sono stati il bacino di selezione specifico dei fondi di venture capital alla ricerca di progetti promettenti. In particolare, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione si è dimostrato uno dei comparti di maggiore successo: da molti anni le tecnologie digitali aumentano la loro performance e vedono diminuire i loro costi, seguendo la celebre legge di Moore, fornendo quindi i fattori abilitanti per la costruzione di aziende con costi di avvio sempre più bassi. Inoltre, lo sviluppo di piattaforme come Facebook o l’ecosistema Apple ha permesso di diffondere le innovazioni digitali ad un pubblico sempre più ampio con costi contenuti. Le opportunità sono quindi molte, ma ciò non significa che si potranno cogliere passivamente. Il nuovo ambiente competitivo sarà molto differente dagli anni passati, essendo segnato dal trauma della crisi economica mondiale, dal cambiamento profondo della dinamica di alcuni settori della finanza e dal cambiamento dell’equilibrio di potere globale, all’interno del quale i paesi asiatici hanno un peso molto maggiore. In questo nuovo scenario, le imprese, i governi, le università e gli operatori del venture capital sperimenteranno un processo di adattamento che favorirà chi sarà in grado di comprendere i mutamenti in atto e sarà capace di tenere in vita il motore dell’innovazione. In questo senso alcune iniziative di interesse pubblico, come il Digital Advisory Group, stanno oggi portando aventi delle proposte intelligenti per l’agenda digitale in Italia, un tema verso il quale il governo attuale sembra essere sensibile. Inoltre, alcune organizzazioni, come il Fondo Italiano di Investimento, stanno mettendo a disposizione risorse importanti per i fondi di venture capital. Siamo nella direzione giusta, ma c’è molto lavoro da fare. È auspicabile che si moltiplichino le iniziative concrete a favore dell’imprenditorialità innovativa, consapevoli del fatto che si tratta della via principale per creare crescita, ricchezza e occupazione. ■ Progettare la scuola di domani L’utilizzo dell’ICT nella scuola si può inquadrare nel più ampio problema della modernizzazione e adeguamento dei programmi alle esigenze formative del Ventunesimo secolo. I programmi scolastici devono tener conto di tutte le modificazioni dell’ambiente economico sociale che si sta determinando e modificarsi di conseguenza per quanto riguarda i “curricula”, i ritmi di insegnamento con nuove didattiche che dovranno essere definite anche in funzione dell’ambiente tecnologico scolastico ed extra-scolastico. Alcune tendenze in particolare dovranno influenzare la formulazione dei programmi scolastici: • Allungamento delle prospettive di vita © Clara Leonardi giacciono inutilizzati e impolverati dopo aver destato un temporaneo interesse iniziale. Inoltre, gli studenti “digital native” sono in media molto più a loro agio con le tecnologie dell’informazione rispetto ai loro insegnanti (che sono in gran parte da considerarsi “digital immigrant”), anche se ne fanno spesso un uso superficiale e colloquiale, e comunque con opportunità molto diverse a seconda del livello sociale e culturale delle famiglie di origine, contribuendo così ad un ulteriore disparità dei punti di partenza che la scuola – per sua missione – sarebbe chiamata a colmare. Non mancano tuttavia esperienze di eccellenza – e forse con maggior evidenza nella scuola primaria, tradizionalmente efficace in Italia – non solo di utilizzo delle tecnologie informatiche, ma anche di sviluppo di contenuti digitali originali per la didattica di classe, sviluppati dagli insegnanti stessi, anche se non messi in rete e in circolo nel sistema scolastico. È opportuno osservare che una politica scolastica focalizzata prioritariamente sulla riduzione dei costi e degli investimenti in formazione per gli insegnanti e in strumenti didattici, ha verosimilmente comportato, negli ultimi anni, una riduzione sensibile della qualità “possibile” dell’insegnamento, e comunque un allargamento dei gap di competenze acquisite dagli allievi rispetto ad altri paesi europei. Secondo le rilevazioni dell’indagine OCSE – PISA 2009, che valuta le capacità dei giovani di 15 anni di applicare quanto appreso a scuola, l’Italia risulta significativamente al di sotto della media dei paesi OCSE: in classifica siamo al 25° posto per la lettura, al 29° per la matematica e al 28° per le scienze. L’incremento globale delle aspettative di vita modificherà sostanzialmente i cicli della vita delle persone che dovranno rivedere i loro programmi per la formazione, la vita famigliare e carriera lavorativa. Questo significativo cambiamento demografico comporterà : - che l’età lavorativa andrà ben oltre i 65 anni, anche per provvedere adeguate risorse per il pensionamento; - i tradizionali percorsi di carriera nelle organizzazioni dovranno essere ripensati creando maggiori articolazioni, flessibilità e programmi di formazione continua per affrontare cambiamenti di occupazione. • Globalizzazione La globalizzazione comporterà un incremento degli scambi e dell’integrazione tra paesi con la perdita da parte del mondo occidentale del monopolio della creazione di posti di lavoro, dell’innovazione e della relativa influenza politica, a favore dei paesi oggi in via di sviluppo. Si avrà un incremento dell’immigrazione ed una maggiore competitività sull’accesso ai posti di lavoro con incremento della mobilità dei lavoratori. • Nuova economia Inoltre occorre essere consapevoli di una moderna economia basata sull’innovazione tecnologica ed organizzativa. L’economia continuamente distrugge e ricostruisce se stessa per l’introduzione di nuove tecnologie “disruptive”. Ne consegue che le tradizionali logiche di gestione del business e delle imprese vengono fortemente modificate, i mercati devono sempre più far fronte ad una domanda personalizzata, cambiano i criteri di EVOLUZIONE DELLE TECNOLOGIE DIGITALI PER LA FORMAZIONE Piattaforme Risorse Attrezzature ICT Computer Assisted Instruction Computer Mediated Communication CD Dischetti Applicazioni KAI e-Learning Learning Management System Desktop PC PC Wired Internet Internet Web Contenuti eLearning Ubiquitous Learning Mobile Learning Management System eBook TextBook digitali Virtual reality Mobile contents Augmented reality Simulations Notebook Tablet PDA Wireless Internet Interactive Whiteboard Smart Learning Flexible Learning Framework Open Educational Resources Learning Clouds Intelligent Tutoring System Social Networking Services Smart Phones Pads Slate PC eBook Reader IPTV creazione del valore: si tratta in effetti di una mutazione del capitalismo. L’ambiente che si sta generando è la risultante delle varie spinte ideologiche e politiche che stanno caratterizzando il mondo attuale. La “new economy” è iniziata con lo sviluppo di Internet e della rivoluzione digitale, e si è caratterizzata per il fatto che la conoscenza è diventata uno dei fattori più importanti per la determinazione dello standard di vita. È un’economia dove il settore dei servizi sta acquisendo sempre più importanza rispetto al settore manifatturiero e dove i servizi stanno diventando la componente più rilevante dell’offerta dei prodotti. L’ambiente economico è sempre più velocemente influenzato da tendenze culturali, mode e abitudini che contribuiscono a generare nuove articolazioni economiche: il successo della rete ha portato alla “web economy” o “net economy”, la diffusione dei social media alla “relationship economy”, il diffondersi della sensibilità ecologica ed il problema delle energie rinnovabili alla “green economy”. Tutte queste dinamiche fanno sì che la natura del lavoro sta cambiando. Se nel mondo industriale il ciclo lavorativo di una persona si esauriva in uno/due posti di lavoro con una singola specializzazione, la mobilità lavorativa nel ventunesimo secolo comporta oltre alla variabilità dei posti di lavoro anche la necessità di diverse specializzazioni con conseguenti necessità di formazione. ❱ -::-beltel-::-9 © Valentina Cervasio • Connettività globale – new media Nel nuovo ambiente socio-economico che si sta delineando la conoscenza è potere ed il trasferimento della conoscenza è un fattore fondamentale per creare valore. L’accesso a Internet, il web, il rapido sviluppo dei social network, i blog, il mondo wiki, rappresentano la possibilità di bypassare le barriere socio-economiche dei modi tradizionali di trasmettere le conoscenze: docente-studente, dottore-paziente, avvocato-cliente, e così via. Si sta formando una nuova cultura collaborativa di “kwnoledge sharing” che coinvolge un mondo di relazioni, di comunità, che generano ed a loro volta acccedono ad un enorme “content” multimediale. Tutte queste trasformazioni esercitano un’enorme pressione sui sistemi educativi che devono preparare i giovani ad affrontare i cambiamenti della sfera economico-sociale con strumenti culturali adeguati. Contemporaneamente si devono innovare i metodi pedagogici per adeguarli alle nuove generazioni di giovani “digital native” che vivono, sin dai primi anni di vita, con un’alta esposizione alle tecnologie digitali e forti stimoli sulle loro capacità cognitive. In effetti si tratta di giovani che non hanno conosciuto il mondo senza Internet, per i quali gli strumenti digitali hanno quasi sempre mediato le loro esperienze con l’ambiente sociale. Hanno acquisito capacità distintive: accesso a grandi quantità di informazioni al di fuori della scuola e abitudine a risposte e decisioni rapide, sorprendenti attitudini ad operare in modo multimediale, apprendono in modo differente, le immagini in movimento ed i suoni per loro sono più importanti dei testi. I giovani devono essere messi in grado di affrontare il nuovo mondo del lavoro che produce offerte di occupazione che si rinnovano continuamente e che richiedono un continuo adeguamento di gran parte delle conoscenze e competenze. Le istituzioni educative, primarie, secondarie e post secondarie, dovranno provvedere a rafforzare le attitudini degli allievi a: • trattare grandi quantità di informazioni affinando le capacità di analisi e sintesi, riuscendo a selezionare quelle utili; • comunicare con efficacia e lavorare in team sforzandosi di capire i punti di vista degli interlocutori; • pensare criticamente ed essere innovativi trasferendo la creatività in azioni concrete; • adattarsi ai cambiamenti continui incentivando la versatilità accrescendo costantemente l’apprendimento; • avere familiarità con l’information technology. È l’informatica la risposta ai problemi della scuola del ventunesimo secolo? La questione è animatamente dibattuta nel mondo della scuola. Un numero importante di esperti sostiene che le nuove tecnologie estendono i contorni dell’apprendimento, incrementano la motivazione degli studenti e contribuiscono in modo determinante ad acquisire le competenze essenziali nel ventunesimo secolo. Un altrettanto importante numero di specialisti insiste nel dichiarare che non c’è sufficiente evidenza che esista un impatto positivo delle tecnologie digitali sulla qualità dell’insegnamento. Seymour Papert, pioniere dell’intelligenza artificiale al MIT, creatore del linguaggio Logo, nel 1998 affermava che una rivoluzione dei sistemi scolastici era inevitabile, perché l’avvento del computer e delle nuove tecnologie, ha portato e continuerà a portare un radicale cambiamento didattico a livello mondiale: “La gente che sta dibattendo se ci debba essere realmente una rivoluzione nelle scuole, sta perdendo il proprio tempo [….] Dicono che è troppo costoso fare grossi cambiamenti ora, ma, in realtà, stanno sprecando i soldi, perché tutto quello che spendono in questo momento verrà buttato via; tra dieci o vent’anni nulla che somigli anche vagamente alla scuola come la conosciamo continuerà ad esistere. I computer saranno ovunque e gli studenti li avranno, apprenderanno in Fondazione Enrica Amiotti La Fondazione Enrica Amiotti è stata costituita nel 1970 in memoria di una maestra elementare attiva per 47 anni – nella prima metà del Novecento – in una scuola rurale della Provincia di Pavia. La Fondazione opera per premiare le eccellenze didattiche nella Scuola Primaria Statale, contribuendo ad identificare, sviluppare e trasferire buone pratiche e progetti educativi. Dal 2006 si occupa del tema dell’integrazione degli alunni stranieri ed ha appena bandito un Concorso di Idee del valore complessivo di oltre 50.000 Euro per l’utilizzo innovativo di strumenti, contenuti e metodi didattici digitali. Gli insegnanti vincitori riceveranno premi in denaro mentre le rispettive scuole, grazie al supporto fornito dall’Associazione ProSpera e da alcuni dei suoi associati e partner, riceveranno strumenti informatici per realizzare i progetti educativi multimediali nell’Anno Scolastico 2012’13. Riferimenti su www.fondazioneamiotti.org e www.blogmaestraenrica.org. modi diversi. La nostra scelta, quindi, non consiste nell’essere favorevoli o contrari, ma di essere disposti ad accettare che la rivoluzione sta già succedendo e che succederà in futuro. Ora dovremmo sforzarci affinché ciò succeda in un modo ordinato e pianificato, non dovremmo aspettare finché ne verremo sopraffatti.” Il progredire delle tecnologie informatiche ci consente, oggi, di poter affermare che le previsioni di Papert si stanno verificando, almeno per quanto riguarda l’ “offerta” di tecnologie per la formazione. La tabella 1 ci da l’idea di come siano evoluti i prodotti hardware e software per la formazione che possono essere proficuamente sfruttati per migliorare il processo di insegnamento nelle scuole. Siamo passati dall’avere il libro di testo, la lavagna ed il quaderno come unici strumenti di riferimento nella pratica didattica con gli studenti, alla possibilità di sfruttare personal computer ed altri dispositivi digitali, collegati in modalità wireless via Internet con la possibilità di usare lavagne interattive multimediali (LIM) per lo svolgimento delle lezioni. L’accesso a Internet, il wireless e la disponibilità di tablet, smartphone e pc consentono inoltre un ambiente di comunicazioni interattive estremamente articolate tra scuolainsegnantialunni-famiglie ed altre istituzioni. La disponibilità di tablet da parte degli allievi, oltre a sgravarli con gli e-book del fardello dei libri di testo, consente la comunicazione interattiva con gli insegnanti e/o tutor, anche negli orari extra scolastici. La scuola può utilizzare servizi “Cloud” per le applicazioni amministrative e gestionali, evitando i rilevanti investimenti necessari per la costruzione delle infrastrutture. Ma non si deve pensare che sia sufficiente distribuire pc e tablet a tutti per ottenere benefici significativi da questi investimenti. Studi recenti hanno infatti osservato che si sono ottenuti risultati di gran lunga superiori nei casi in cui l’insegnamento è stato caratterizzato da: • determinate condizioni organizzative e di formazione del personale insegnante; • modifiche ai curriculum e alla didattica; • lo sfruttamento delle possibilità offerte dalle comunicazioni a distanza; • l’adattamento degli ambienti di studio. In queste condizioni, l’uso di strumenti digitali per l’insegnamento in classe può davvero generare un miglioramento rispetto ai metodi tradizionali: per gli studenti: un miglioramento della motivazione e dell’impegno allo studio e dell’apprendimento; per gli insegnanti: un incremento della loro motivazione, delle loro capacità ❱ -::-beltel-::-10 Le prospettive dellʼICT nella scuola italiana Per trasformare la scuola italiana e metterla in grado di preparare gli studenti ad affrontare le sfide del ventunesimo secolo è necessario operare con una “vision” di lungo periodo concordata da un ampio spettro della rappresentanza politica che non può essere soggetta ai cambiamenti derivanti dalle alternanze al potere dei partiti e che deve dare origine a piani di implementazione con interventi strutturali che devono essere spalmati su un periodo di molti anni. Una condizione estremamente difficile da realizzarsi in Italia. Basti pensare che negli ultimi vent’anni la scuola italiana ha vissuto un periodo di continue riforme ed aggiustamenti: si sono alternati dieci diversi ministri (espressione di otto diverse formazioni politiche) responsabili della Istruzione, si sono avute due pesanti riforme del sistema scolastico nazionale (Berlinguer e Moratti) che però non si sono mai concluse, sono stati emessi innumerevoli direttive, note di indirizzo, circolari e articoli di legge, senza mai arrivare ad una stabilizzazione. Il risultato è che, in molti casi, direttive di riforma convivono con vecchie norme, con sovrapposizioni e contraddizioni che producono incertezza e inefficienza nel sistema. All’interno della scuola italiana continua ad esserci un forte dibattito con conflitti politici, ideologici, sindacali, che collidono con interessi particolari e rendono impossibile azioni strutturali di lungo respiro. Nonostante questa situazione per l’ICT si sono operati numerosi interventi: Piani Nazionali, Programmi di sviluppo e formazione di Istituti, Centri ed Agenzie che hanno promosso l’introduzione delle tecnologie digitali nel contesto educativo. Sono interventi molto positivi che hanno evidenziato che un utilizzo appropriato delle tecnologie può produrre trasformazioni significative sui processi di apprendimento. Si tratta comunque di un approccio “incrementale” che produrrà sicuramente risultati di miglioramento ma difficilmente consentirà di recuperare il divario con i paesi più progrediti. Secondo i dati OCSE, la percentuale del PIL destinata all’istruzione in Italia è una delle più basse di tutti i paesi OCSE. Nel 2008 l’Italia ha speso il 4,8% per l’istruzione, l’1,3% in meno rispetto al totale OCSE del 6,1% (29° posto in classifica su 34 paesi). Per colmare i ritardi già accumulati dall’Italia rispetto alle nazioni più progredite è necessario un approccio più radicale di trasformazione, possibile solo con una maturazione a livello politico, dell’importanza fondamentale delle tecnologie digitali come mezzo per ottenere, in tempi utili, dei risultati appropriati nella scuola, con ritorni di investimento in termini di maggior competitività e crescita di tutto il “sistema – paese” ■ TECNOLOGIA DIFFUSA E RICAMBIO GENERAZIONALE: È ORA DI MUOVERSI! di Mario Rodriguez Consulente e docente a contratto, Università degli Studi di Milano Nuove culture, pratiche manageriali innovative e diffusione di ICT. La ricetta vincente per far ripartire il paese. È opinione diffusa che la crisi economica e finanziaria in atto cambierà molto se non tutto della nostra vita, delle nostre abitudini. Le economie della nostra parte di mondo non riprenderanno a crescere in modo significativo e saranno sempre più esposte alla necessità di aumentare la produttività. Le risorse a disposizione degli Stati saranno decrescenti e se si vorranno destinare risorse allo stimolo della crescita, le pubbliche amministrazioni dovranno costare di meno. La sfida sarà: qualità dei servizi, garanzia dei diritti, soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni, a costi decrescenti. Saranno cambiamenti più rapidi perché accelerati dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). All’orizzonte non ci sono rallentamenti del tasso di sviluppo tecnologico, anzi: nel giro di dieci, quindici anni, capacità di archiviazione, capacità di elaborazione e velocità di trasmissione permetteranno a molti, se non a tutti, di accedere a moltissime, se non a tutte, le informazioni a disposizione degli esseri umani dal proprio smartphone. Almeno in quelle società che definiamo industrializzate. Questo modificherà profondamente il concetto stesso di conoscenza che si trasformerà sempre più in capacità di interrogare archivi e collegare informazioni piuttosto che acquisire e trattenere informazioni. Questo significa che ci vogliono nuove competenze all’insegna della capacità adattativa e della costruzione di collegamenti capaci di costruire e attribuire nuovi significati. Una sfida cruciale per le persone ma soprattutto per le istituzioni preposte alla formazione, all’insegnamento e alla ricerca. Si tratta di un processo di trasformazione – non è esagerato parlare di una mutazione antropologica – che toccherà sia i singoli, sia le organizzazioni più o meno complesse. Parlare di mutazione antropologica significa che questi cambiamenti avranno effetti visibili, concreti, sui comportamenti quotidiani, sulla vita di tutti i giorni, sul modo in cui sarà organizzata la vita sociale nei suoi dettagli. Uno degli aspetti che sta già profondamente cambiando e che continuerà a cambiare è il rapporto tra cittadini e istituzioni. La crisi fiscale dello Stato (come fu definita già all’inizio degli anni ‘70) è stata esaltata dalle trasformazioni dei mercati e dalla loro globalizzazione. Soprattutto nelle economie caratterizzate da presenze storiche di welfare state, la crisi impone un forte ripensamento del ruolo del “pubblico” che, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, si era venuto espandendo su molti ambiti della vita sociale. Ripensare il ruolo del “pubblico” significa affrontare il rapporto tra cittadini e istituzioni sia in termini culturali e valoriali sia in termini manageriali, cioè sul terreno dei comportamenti pratici; sia come politics che come policy. Ma anche oltre le policy, proprio sul terreno della trasformazione delle decisioni in comportamenti concreti. Sono sotto tensione, e necessitano di ridefinizione, alcuni concetti che hanno caratterizzato il secolo scorso: non solo il ruolo dello Stato e del “pubblico”, ma anche diritti, bisogni, responsabilità individuali. Per consolidare il welfare si dovrà selezionare con attenzione ciò che rientra nella sfera dei diritti da garantire e ciò che rientra invece nei bisogni da soddisfare. E ambedue gli am- © Clara Leonardi pedagogiche e la possibilità di operare valutazioni più sofisticate ed individualizzate degli studenti con possibilità di personalizzare i programmi sui singoli studenti in relazione al grado apprendimento; per la scuola: un miglioramento degli aspetti amministrativi e gestionali, una maggior efficacia nell’insegnamento e nei rapporti con le famiglie degli alunni, ma anche un significativo aumento dei costi. -::-beltel-::-11 AIESEC: “AIUTIAMO I GIOVANI A DIVENTARE CITTADINI DEL MONDO” Intervista a cura della Redazione Le opportunità offerte dai programmi AIESEC, la più grande organizzazione al mondo gestita da studenti universitari. “Ta lento, intraprendenza, passione, valori e voglia di mettersi in gioco. Poche possibilità per i giovani di dare voce alle proprie idee e di trovare le occasioni giuste per sfidarsi di più. E allora, si prova all’estero”. Inizia così la nostra chiacchierata con Maria Luisa Balzano, Responsabile Relazioni Pubbliche AIESEC Italia – la più grande organizzazione al mondo gestita da studenti – sulle opportunità offerte dai programmi AIESEC ai giovani e sulla fuga dei talenti. Nata nel 1948 in Belgio AIESEC è presente in più di 110 paesi e conta al suo attivo oltre 60.000 membri. Da 64 anni AIESEC opera in 2.100 università del mondo (con 16 sedi fisiche in Italia) a favore della mobilità internazionale dei giovani. Attraverso il programma di stage all’estero in progetti nel sociale e stage aziendali, l’organizzazione dà la possibilità di vivere all’estero dalle 6 settimane a oltre i 12 mesi, acquisendo quelle competenze che vengono richieste oggi nel mondo del lavoro. Nel solo 2011 sono 15.000 gli stage organizzati da AIESEC in tutto il mondo di cui circa 300 sono gli studenti italiani partiti per l’estero e 350 gli studenti internazionali che hanno deciso di intraprendere questa esperienza in Italia. D. Quali sono le opportunità offerte dai programmi AIESEC ai giovani? I programmi per gli studenti universitari e neolaureati per vivere un’esperienza formativa internazionale sono due, MOVE impact e MOVE future, con molte destinazioni diverse. Il primo programma, MOVE impact, è adatto a tutti i giovani: esso consiste in un progetto di 6-8 settimane presso una sede AIESEC all’estero o una ONG per crescere personalmente e avere un impatto positivo sulla realtà ospitante. La maggior parte dei progetti prevede vitto e alloggio gratuiti e le tematiche che si possono andare ad affrontare, sensibilizzando la società e arricchendo il proprio bagaglio personale e professionale, sono principalmente quattro: educazione e multiculturalismo, fundraising e gestione delle ONG, sostenibilità e salute. Il programma MOVE future, invece, è adatto agli studenti o ai laureati con eccellente padronanza dell’inglese ed esperienze extra accademiche. Grazie a questa esperienza lo studente potrà vivere un’esperienza professionale ed internazionale in un’impresa all’estero. Tutti gli stage hanno una durata media di 6-12 mesi e prevedono un rimborso spese mensile. Gli ambiti di lavoro maggiormente richiesti sono management, marketing, informatica, ingegneria, lingue e insegnamento. D. Quanti giovani avete coinvolto in iniziative di internazionalizzazione qui da noi? Anche sul territorio nazionale AIESEC sviluppa progetti sociali sotto l’iniziativa nazionale che prende il nome di Youth Change, riuscendo a mobilitare più di 300 ragazzi internazionali da tutto il mondo, coinvolgendo 60 scuole e circa 150.000 studenti italiani di tutte le fasce d’età. Workshop e metodi di apprendimento non convenzionali portano nelle scuole il tema importante dell’internazionalizzazione, cercando di agire sull’educazione dei giovani in modo da sensibilizzarli al rispetto della diversità e delle altre culture. Numerose aziende italiane sostengono attivamente le iniziative e i progetti di CSR promossi da AIESEC e collaborano con l’organizzazione inserendo profili internazionali di giovani studenti e neolaureati con competenze economiche, umanistiche e ingegneristiche. AIESEC si rivolge quindi alle aziende che hanno la capacità di cogliere, apprezzare e valorizzare la diversità e che credono nella futura generazione come canale di innovazione. Per le aziende interessate, ❱ © Teodora Toshkova Filipova biti dovranno vedere una modificazione del ruolo dell’erogatore del servizio sempre più verso forme di coinvolgimento degli individui nella soluzione dei problemi, quindi la responsabilità personale e la sussidiarietà orizzontale. Il “pubblico” dovrà sempre più concepirsi non come autorizzatore o concessionario di possibilità di fare, ma come sollecitatore e organizzatore della capacità di trovare risposte efficaci con il coinvolgimento diretto dei singoli. E su questo terreno le opportunità fornite dalle trasformazioni tecnologiche – i social network, per intenderci – aprono possibilità inesplorate. Al centro quindi della nuova grande trasformazione che le società del vecchio continente dovranno affrontare saranno, soprattutto, quelle complesse organizzazioni che sono le “pubbliche amministrazioni”. Saranno loro maggiormente esposte al cambiamento perché la loro logica interna è più conservativa che adattativa. Perché la mancanza di competizione aperta le spinge a riprodursi più che ad adattarsi. Perché ridotti saranno gli inserimenti di nuovo personale. E perché, in condizioni di bassa crescita, sarà essenziale gestire con maggiore efficacia le risorse economico finanziarie per mantenere gli alti (mediamente) livelli di welfare raggiunti. Quindi, proprio quelle particolarissime organizzazioni che sono le “pubbliche amministrazioni” avranno maggiore bisogno di nuove culture e nuove pratiche manageriali, cioè di risorse umane orientate al cambiamento. Nessun cambiamento decisivo potrà essere raggiunto in Italia se non si vivrà una profonda svolta nella governance non solo e non tanto nel government delle istituzioni pubbliche. Cioè non solo e non tanto negli aspetti giuridico formali quanto nei concreti processi di decisione e di implementazione delle decisioni di governo a tutti i livelli. Formare una generazione di nuovi manager delle organizzazioni della pubblica amministrazione diventa quindi una sfida affascinante soprattutto in un ambiente come quello milanese dove la vicinanza con le culture manageriali che maturano nelle imprese private, nelle corporation multinazionali e nel terziario evoluto, crea una condizione di stimolo reciproco molto fertile. Qualità dei servizi pubblici a costi minori, capacità di rispondere ai bisogni in forma economicamente valida, offrire a chi non ha “uscita” la possibilità attraverso la “voce” (come ci ha insegnato Hirshmann) di accrescere qualità e efficacia, domare la complessità delle organizzazioni delle PA che è significativamente maggiore di quella delle organizzazioni private. Questa sfida è stata raccolta dal corso di studi in Management Pubblico (MaP). Formare una nuova generazione di manager della PA nel contesto di quella che una volta era la capitale economica del paese, e che oggi mantiene certamente il primato della città italiana più europea e più “global” che ci sia. La PA ha bisogno di nuove risorse umane di qualità anche se la sua capacità di assunzione di nuovi addetti sarà limitata e, allora, MaP potrebbe essere anche l’opportunità per coloro che sono già dentro la PA e hanno voglia di mettersi alla prova per vivere da protagonisti il cambiamento che necessariamente siamo chiamati ad affrontare. ■ D. Laurea ed esperienza allʼestero, è ancora la ricetta giusta per trovare un buon lavoro? La laurea vale sicuramente molto. Al di là della discussione nata recentemente sull’ipotesi della miglior preparazione fornita dagli atenei considerati prestigiosi, la laurea è un importante biglietto da visita per entrare nel mondo del lavoro, una dimostrazione di un percorso di crescita e di arricchimento di conoscenze in settori di interesse per il proprio futuro lavorativo. L’esperienza all’estero, poi, è ormai fondamentale al giorno d’oggi: aver viaggiato, conosciuto persone con culture diverse, il confronto con posti nuovi, essersi messi alla prova uscendo dalla comfort zone, sono requisiti fondamentale per adattarsi alla dinamicità del mondo del lavoro e per non precludersi strade che possono presentarsi. Apertura mentale verso esperienze e persone, curiosità del diverso, adattabilità al cambiamento, sono competenze che non possono più mancare ad un giovane d’oggi per affrontare un mercato soggetto al cambiamento e che ha bisogno di innovazione. Una buona laurea e un’esperienza all’estero quindi sono conditio sine qua non per entrare con una marcia in più nel mercato del lavoro, senza trascurare l’importanza di fare esperienze extra accademiche, che danno la possibilità di testare e migliorare le proprie capacità nel confronto con gli altri, creando una rete di relazioni interpersonali che contribuiscono all’arricchimento e alla formazione individuale. D. Sempre più talenti fuggono allʼestero… I ragazzi italiani vivono oggi in bilico, alla ricerca della strada giusta per ottenere una svolta lavorativa. Succede, così, che cercano fortuna all’estero e i migliori hanno successo. Mercato del lavoro troppo rigido, corruzione, basso stipendio in contrapposizione ad un alto costo della vita, ricerca minuziosa di giovani qualificati ma poco spazio per permettere agli stessi di raggiungere i proprio obiettivi. All’estero, i talenti, hanno invece maggiori possibilità di carriera, guadagni più elevati e il sistema è senz’altro più meritocratico. L’università italiana è capace di fornire al mercato del lavoro cervelli eccellenti, ma manca, poi, un orientamento al lavoro; il talento, inoltre, è percepito quasi come una minaccia per un mercato con una cultura aziendale ancora troppo basato su equilibri familiari. AIESEC crede che l’internazionalizzazione delle imprese del territorio e la formazione dei giovani possano essere due leve competitive per il rilancio dell’economia del nostro Paese. Youth Change vede i giovani denunciare quello che non funziona, rendendosi protagonisti nell’agire per costruire il futuro che vorrebbero, superando i limiti del sapere e cercando nuove strade per una società più consapevole. ■ Per ulteriori informazioni, visitate il sito: www.aiesec.org/italy oppure www.youthchange.it APPUNTI&CONTRAPPUNTI Mario Citelli, direttore editoriale Crescita e formazione Mi soffermo qualche volta a ricordare gli anni di scuola e di università, riflettendo su cosa mi hanno lasciato, nel tempo, che ha contribuito effettivamente alla mia crescita, avvenuta anche attraverso molti altri fattori: famiglia, relazioni sociali, lavoro. Tuttavia penso che il periodo così detto “di studi” abbia lasciato elementi essenziali e duraturi che ancora partecipano efficacemente alla mia vita quotidiana, professionale, politica e affettiva. Al di là della dotazione strumentale: leggere, far di conto e le loro evoluzioni nel tempo, letteratura, storia, fisica e analisi matematica; questa base “strutturale”, per così dire, si è formata gradualmente e inconsciamente, con vari pezzi del puzzle che si incastravano successivamente in una struttura sempre più complessa. Inconsciamente perché nessuno poteva conoscere il risultato e tanto meno controllarlo: dove sono finite le tabelline e come si sono collegate all’analisi funzionale e numerica? Penso ad una grande “cattedrale” di pezzi della Lego, costruita a più mani da più “bambini” incontrati nel corso della vita. Ma “consciamente” invece è avvenuta la progressiva assunzione di “valori”: elementi fondamentali che costituivano il collante di quella cattedrale e che venivano assorbiti con coscienza nelle varie fasi della vita di studio. Cominciamo alle “elementari”. Impariamo cosa è “buono” e cosa è “cattivo”: la scuola elementare è probabilmente il più selvaggio dei momenti di formazione, con ”individui-bambini” grezzi e quindi fondamentalmente aggressivi che stabiliscono delle relazioni “fisiche” di dominio, di alleanza o di avversità. Il mio naso è il risultato dell’unica scazzottata mai fatta in vita mia, alle scuole elementari appunto. Buoni e cattivi sono anche gli elementi fondamentali delle storie, dei libri, delle notizie che vengono fornite. Devo chiarire che queste considerazioni non hanno nessuna pretesa di oggettività: sono il risultato dei miei ricordi più o meno distanti nel tempo e delle mie riflessioni. Alle “medie inferiori”, allora, ho imparato cosa può essere la cultura e qual è il suo rapporto con la società e la sua organizzazione: la storia e la geografia sopra tutto, con le prime valutazioni “politiche “ per capire perché buoni e cattivi spesso si nascondevano dietro interessi, individuali e collettivi, organizzando conquiste o difese territoriali, con popoli che scomparivano e altri che emergevano. E poi la poesia: se a qualcuno piace la poesia questo amore non può essere che cominciato qui, sollecitato dalla sensibilità di alcuni insegnanti: è qui che iniziano le letture delle poesie dei Negri d’America, di Bertolt Brecht e di Avevo un fratello aviatore, di Antologia di Spoon River. Alle “superiori” viviamo probabilmente una grande trasformazione, passando a concentrare la nostra attenzione agli strumenti, alla loro evoluzione, a prepararci a un mestiere, possibilmente immediato alla fine di quel ciclo di studi o più “ricco” (in ogni senso nelle speranze giovanili) e rimandato a dopo l’università. Ma non si può essere esenti da continuare ad assorbire valori. Personalmente ho frequentato un Istituto Tecnico Industriale, scuola oggi rimpianta da molti, dove ho imparato ad acquisire “tenacia”. Era quella necessaria, soprattutto nei primi due anni, a lavorare nelle officine e nei laboratori: come non arrendersi nei tentativi di rendere un pezzo di ferro “quasi perfetto” nei piani e negli angoli, con il solo uso della lima, avendo gli strumenti di precisione pronti a verificare i tuoi errori e a stimolare la tua tenacia. Un pezzo di ferro a trimestre, con complicazioni crescenti. Una volta mi hanno raccontato che ai tempi dei primi satelliti italiani lanciati dalla piattaforma San Marco in Kenya, un lancio era stato salvato dal fallimento grazie all’intervento all’ultimo momento di un tecnico italiano con una lima. Non so se è vero, ma è suggestivo. All’università quindi, luogo prevalentemente strumentale e dai valori contradditori, articolati, formati e contrastanti nei profili degli studenti. Penso sia stato lì che ho capito il “sincretismo”, la capacità di conciliare elementi diversi in una cultura globale e tollerante: Chomsky che studiava i linguaggi naturali come fossero elementi di geometria, Turing fra calcolo e filosofia nei suoi “principi sui limiti della calcolabilità”, l’informazione fra teoria dei retori e computer con il filosofo Leibniz, predecessore del sistema binario come linguaggio universale. Quel sincretismo che tiene in piedi definitivamente la mia cattedrale Lego. -::-beltel-::-13 © Laura Manicardi AIESEC si occupa di tutte le pratiche burocratiche e legali e del supporto che lo stagista necessita durante la permanenza in Italia. CHIEDIAMO PIÙ RISPETTO di Margherita Fabbri 29 anni, laureata in Economia dello sviluppo, fiorentina oggi negli Usa “Ho vissuto in Belgio, in Perù, oggi sono negli Usa e domani chissà…” Lettera aperta al ministro Cancellieri a proposito dei giovani “attaccati alle gonne di mammà”. Lettera aperta pubblicata sul sito online de La Stampa l’ 8 febbraio 2012. E gregio Ministro Cancellieri, ho 29 anni, una laurea in Economia dello Sviluppo nella mia città natale, Firenze, conseguita a 24 ed almeno 6 anni di pellegrinaggi sulle spalle, per costruirmi quell’esperienza che un giorno credevo mi sarebbe servita per ottenere un buon impiego nel mio paese, o fuori da esso. In Italia ho lavorato per un anno e mezzo: un contratto a progetto, 10-11 ore al giorno, weekend inclusi, a 800 euro al mese. Vivevo a Roma, e quei soldi per campare non mi bastavano: dovevo chiedere l’aiuto di mio padre. Stanca di questa dipendenza, prima che la storia dei “bamboccioni” incominciasse, prima che i nostri cosiddetti rappresentanti imparassero a puntare il dito contro un nuovo capro espiatorio, lasciai l’Italia. Era il 2008 e da allora non ci sono più tornata. Ho vissuto in Belgio, in Perù, oggi sono negli Usa e domani chissà. Certo è che di tornare non se ne parla, di posto fisso non ne ho avuto mai nemmeno uno e la mia famiglia la vedo due volte l’anno. Sia chiaro, mi ritengo fortunata. Già, perché un numero imprecisato di miei amici, rimanendo in Italia, ha dovuto fronteggiare destini ben più foschi. E le assicuro che non le farebbe piacere parlare con nessuno di loro, le farebbe male come ministro, come donna, come italiana e forse anche come madre. Per favore, smettiamola con queste solfe dei giovani attaccati alle gonne di mammà. Glielo dico da lontano, io che non cerco un impiego in Italia e che quando provo a farlo ricevo risposte assurde. Le chiedo di smetterla di credere che i giovani italiani siano un branco di decerebrati senza voglia di fare. Di svogliati ce ne sono. Ma, mi creda, là fuori esistono migliaia di giovani qualificati, laboriosi, pieni di energia, desiderosi di aiutare questo nostro paese a crescere e migliorare ed ai quali da anni non viene offerto non solo un briciolo di possibilità, ma neanche un minimo di rispetto (e la sua dichiarazione di ieri ne è la prova). ■ APPLICAZIONI A GO GO… IL MUCCHIO SELVAGGIO DELL’APP ECONOMY di Mario Mancini, goWare team, Polo Tecnologico di Navacchio “The winner take it all / The loser standing small / … No more ace to play” cantavano gli Abba! Che diventi il nuovo inno dellʼapp economy? L’ 11 dicembre 2011 il New York Times ha annunciato la pubblicazione della milionesima applicazione per un dispositivo mobile in questo modo: “Ogni settimana nel mondo escono 100 film, 250 libri e ben 15.000 applicazioni per dispositivi mobili. Ogni giorno vedono la luce 543 applicazioni per Android e 745 per Apple iOS”. Durante la settimana di Natale 2011 sono state scaricate un miliardo e 200 milioni di applicazioni secondo Flurry, che analizza le tendenze del mercato mobile. Il grafico dei download di app durante la settimana natalizia elaborato da Flurry è una fonte capitale per comprendere la dimensione del mercato delle app in particolare negli Stati Unti che vale più di metà del mercato mondiale (vedi figura 1). Un dato diffuso sempre da Flurry è ancora più importante delle brute metriche sui download delle app: la gente trascorre più tempo all’interno delle applicazioni che sul web. Flurry stima in un’ora e mezzo al giorno il tempo medio dedicato a consultare le applicazioni contro un’ora e 12 minuti passato sul browser per navigare in Internet. In appena un anno si sono capovolti i rapporti di forza tra il web e le applicazioni sull’indicatore più pesante per misurare un trend, quello del tempo dedicato. Anche relativamente al traffico dati sulla rete il mobile è in fuga: il 55% viene generato proprio da dispositivi mobili contro il 45% dei portatili e dei computer da scrivania. Una cornucopia di applicazioni, quindi. Nel valutare questo sbalorditivo fenomeno, occorre considerare che prima del 10 luglio 2008, giorno di apertura dell’AppStore, niente di questo neppure esisteva. Già Palm con la versione Palm OS 5.2, nel lontano 2002, aveva reso possibile lo sviluppo ❱ FIGURA 1 - DOWNLOAD DI APP NEI PRINCIPALI 20 MERCATI DURANTE LA SETTIMANA DI NATALE 2011 (MILIONI) Stati Uniti 509 Cina 99 Regno Unito 81 © Cristiana Messina Canada 41 Germania 40 Francia 40 Corea del Sud 34 Australia 28 Italia 25 Giappone 20 Spagna 20 Messico 17 Russia 15 Brasile 13 Paesi Bassi 13 Arabia Saudita 13 Taiwan 10 India 10 Svezia 10 Malesia 9 0 Fonte: Flurry Analytics 2011 -::-beltel-::-14 Paesi di lingua inglese Europa Asia Americhe Latina 100 200 300 400 500 600 Tutto bene, allora? No, affatto! La “crescita esplosiva dell’app economy”, per usare le parole degli esperti di PricewaterhouseCoopers, non è scevra da altri giganteschi problemi strutturali: il mercato delle applicazioni è frammentato, gli store di app sono dei bazaar e l’assenza d’interoperabilità tra le varie piattaforme costringe gli editori a produrre differenti versioni per ogni applicazione. Inoltre questo nuovo mercato sussume e amplifica tutte le logiche negative degli altri mercati digitali come: • La concorrenza accanita e brutale che innalza enormemente le barriere d’ingresso penalizzando le startup e gli sviluppatori a vantaggio dei soggetti che hanno maggiori risorse per proporre app con un’accresciuta “user experience”: tutto sta nel riuscire a farsi ascoltare sopra un assordante rumore di fondo. • La rapidissima migrazione degli utenti verso nuovi gusti che accresce il tasso di rotazione delle classifiche con conseguente perdita di visibilità, declino i nt Co a dd Ga ta ar M Bi ce © di applicazioni di terze parti sul proprio sistema, aprendo, come in molti altri casi, la strada all’innovazione. TechNet, un’organizzazione di lobbying su temi tecnologici, ha stimato in 500 mila posti di lavoro il contributo dell’economia delle app al mercato del lavoro USA: succo di acero per l’amministrazione Obama, in crisi di risultati su questo fronte. Alla luce di questa timeline è veramente sbalorditivo quello che è accaduto nell’arco di pochi anni anche per i connotati economici che ha già assunto. Nel 2015 la spesa in applicazioni varrà 35 miliardi di dollari con un CAGR 2011-2015 del 38%. Gartner alza la stima a 58 miliardi nel 2014. Si può quindi parlare a tutti gli effetti di economia delle app e di un vero e proprio nuovo comparto E&M. Questa evoluzione ha un’enorme importanza per l’industria dello spettacolo e dei media perché grande parte delle applicazioni offre soluzioni per consumare prodotti di questo tipo come prova il grafico sulla distribuzione delle app per categoria merceologica(vedi figura 2). nei download e riduzione delle aspettative di vita delle app a quelle di un bruco. • La tendenziale irrilevanza dei brand che cede lo scettro alla nozione di “user experience” nella reminiscenza degli utenti. • La diluizione dei contenuti di qualità con quelli triviali, un fenomeno dalle conseguenze profonde che potremmo iscrivere in una deriva post-pop il cui Andy Wahrol si deve ancora vedere. • Le bande di detrattori professionisti e di recensori prezzolati che alterano il genuino giudizio del pubblico sul valore delle app. • Lo strapotere dell’utente che con un segno del pollice può decidere la sorte del prodotto come l’imperatore Commodo quello dei gladiatori che combattevano nell’arena sognando un nuovo Spartaco. Per gli editori/gladiatori, e ce ne sono 135 mila solo negli USA secondo il sito specializzato 148apps.biz, la vita è dura se FIGURA 2 - DISTRIBUZIONE % APPLICAZIONI PER CATEGORIA MERCEOLOGICA AL 1 DICEMBRE 2011 Intrattenimento 16,68 Giochi 13,36 Libri 10,21 Moda e tendenze 8,02 Utilità 7,13 Educazione 7,08 Viaggi 4,84 Affari e finanza 3,76 Riferimento 3,73 Musica 3,32 Salute e benessere 3,28 Produttività 3,09 Sport 2,92 Notizia 2,85 Social networks 2,71 0 Fonte: Mobilewalla, 1 dicembre 2011 non impossibile, ma c’è un vantaggio che non deve sfuggirli nella frustrazione del momento: possono decidere un prezzo per i contenuti e, anche se devono spartirlo con la piattaforma, gli è stata restituita la speranza di fuggire dalla logica del “gratis e basta” che vige sul web. Non si fanno comunque dei grandissimi affari con le app a pagamento. Su AppStore, che è la piattaforma di gran lunga più redditizia, il 91% delle app costa meno di 5 dollari e per fare un fatturato ragionevole occorre farle scaricare decine di migliaia di volte. Tante apps, pochi vincitori “Con l’offerta mondiale di applicazioni in crescita esponenziale, la parte acquistata o scaricata da qualcun’altro che non sia lo sviluppatore e i propri familiari può divenire ancor più esigua. Anche restringendo le analisi alle applicazioni prodotte da brand famosi, solo il 20% sono scaricate più di mille volte”. Questa è la sentenza piuttosto dura degli esperti di Deloitte sull’economia delle applicazioni per mobile contenuta in un report dal titolo sconcertante So many apps — so little to download, che segue un rapporto precedente anch’esso piuttosto avvilente Killer Apps? Appearance isn’t everything. Le app gratuite restano all’apice del gradimento degli utenti e nel 2011 hanno totalizzato il 96% dei download seconda una indagine condotta da IHS iSuppli, una società di consulenza nel campo della comunicazione. Gartner valuta in 81% la quota delle app gratuite sul totale di quelle scaricate. Anche gli sviluppatori indipendenti e gli editori, che hanno abbracciato con ammirevole entusiasmo questo nuovo mercato, si sono resi conto che il cammino è in salita piuttosto che in discesa e che far scaricare un’app, foss’anche gratuita per non parlare di pagare, può essere uno sforzo di Sisifo. Più il catalogo delle applicazioni cresce più incolmabile diviene il distacco tra pochi blockbuster in fuga e il gruppone dei gregari che insegue affannosamente. Malgrado questa situazione che colpisce i produttori, paradossalmente, il numero di applicazioni continuerà a crescere: nel 2012 saranno 2 milioni e nel 2013 il catalogo potrebbe raggiungere i 4 milioni. Questa crescita sarà trainata dalla domanda dei nuovi utenti, dall’ingresso di nuovi player robusti, dai paesi emergenti e infine dalla necessità di alimentare di contenuti il mercato degli smartphone da 100 dollari che andranno a sostituire i telefonini basici in uno spazio brevissimo di tempo. A questo proposito scrivono gli esperti di Deloitte: “Per raggiungere il 90% degli utenti, uno sviluppatore dovrà creare una specifica versione dell’applicazione per ognuno dei cinque sistemi operativi (più HTML5), nelle cinque principali lingue, per almeno tre distinte prestazioni del processore e per quattro diverse dimensioni dello schermo. Detto altrimenti, saranno necessarie 360 varianti della stessa applicazione per coprire dignitosamente il mercato globale. Ciascuna variante conterà come un’applicazione a sé stante”. 360 varianti! Non è uno scherzo! Nei mercati maturi delle app i costi di produzione e di marketing (senza considerare i diritti) di un’applicazione sono enormemente cresciuti nel 2011 e saliranno ulteriormente nel 2012 con punte che possono arrivare a sfiorare le sette cifre, tanto il Wall Street Journal ha valutato il costo dell’applicazione gratuita per iPad “Sting25” che celebra fastosamente i 25 anni di attività del cantante con lo scopo di rilanciare il suo intero catalogo. I tempi eroici dello sviluppatore che scrive la propria app tra la mezzanotte e le sei del mattino e questa finisce tra le prime 10 in classifica sono finiti, come l’epico west è scomparso con la ferrovia. Il mercato è divenuto professionale e sempre più dominato dalle organizzazioni che controllano i contenuti e hanno capacità d’investimento per ottenere l’attenzione dei consumatori. Perché il 90% delle app sono un flop? La carestia di download distribuiti non significa che il modello di business delle appli- FIGURA 3 - FATTORI CHE CONTRIBUISCONO AL SUCCESSO DI UN APP Portabilità 81% Accelerometro 77% Touch screen avanzato 61% Servizi di geolocalizzazione 61% Videoacamera 59% I valori percentuali indicano la quota di app scaricate (considerate nel panel Deloitte) in cui la specifica funzionalità indicata era presente 5 10 15 20 Fonte: Flurry Analytics 2011 -::-beltel-::-15 ❱ FACEBOOK, IL VUOTO D’ARIA DELLA PRIVACY di Mario Mancini goWare team, Polo Tecnologico di Navacchio © Laura Manicardi cazioni è fallace o non sostenibile, significa una cosa diversa. Non foss’altro che abbiamo già alcuni fortunati “millionaire” (per il bi- occorre aspettare ancora un po’) dell’ecosistema apps e molti altri hanno già acquistato una Porsche Carrera nera a rate. Significa piuttosto che il modello di business nei mercati maturi, come lo è anche l’Italia, è quello di Hollywood o del poker, il vincitore prende tutto il piatto delle banconote, gli altri spartiscono le monetine. Se il prodotto non funziona nella prima settimana, ma si potrebbe dire nelle prime 48 ore, dall’uscita non ci sono più assi da giocare. “The winner take it all / The loser standing small / … No more ace to play” dice una canzone degli Abba, reinterpretata da Meryl Streep in Mamma Mia, che potrebbe divenire l’inno dell’app economy. È questa la natura dei mercati digitali dei contenuti dalla musica, al video, ai film, ai talk show. I consumatori vanno dove vanno tutti spinti dai trend che rimbalzano da un blog all’altro dai circoli degli amici e dal porta a porta del chiacchiericcio globale: un conformismo atroce e fors’anche inevitabile di fronte alla vastità dell’offerta. In questo contesto perde senso anche una teoria consolidata e rassicurante come quella della coda lunga. In questi mercati non c’è nessuna coda lunga: l’80% dei brani musicali non ottiene neppure un download e la stessa cosa succede con le applicazioni, anche se non è possibile ancora dimostrarlo con metriche attendibili. Perché tante app non riescono ad attrarre alcuna attenzione? La qualità è la prima ragione. Gli utenti si aspettano applicazioni che utilizzino appieno le capacità tecnologiche e le specificità di un device mobile come la gestualità, la voce, il GPS, la videocamera, l’accelerometro, la bussola. Molto spesso vi trovano invece contenuti e modalità traslati dal web prive di mediazioni e senza alcuna valida implementazione. Il fatto di disporre di un contenuto o di un servizio sempre con sé, nella propria tasca, è un valore importante ma da solo non è più sufficiente senza una più evoluta “user experience”. Anche i device mobili, come gli altri media, hanno sviluppo un proprio linguaggio che si è affrancato dal web come il cinema delle origini si affrancò dal teatro grazie a Georges Méliès. Gli esperti di Deloitte hanno rilevato che l’uso estensivo delle specificità di questi dispositivi (vedi figura 3) può aumentare significativamente le possibilità di successo di un’applicazione. La seconda ragione, ci fa sapere Deloitte, è che molte applicazioni mancano il target per il semplice fatto che neppure si pongono il problema. Faccenda inconcepibile il qualsiasi altro mercato. I dispositivi iOS sono in mano a professionisti, colletti bianchi e, non foss’altro per il brainwashing, a persone che pensano di essere un po’ speciali. Confezionare un’app che non centra questo bersaglio, vuol dire disperderla nel mucchio, senz’altro selvaggio. Ecco che cosa consigliano gli esperti di Deloitte: “Bisogna trattare ogni piattaforma come un differente canale, con differenti livelli di coinvolgimento e di demografia e tenere l’orecchio sul terreno per cogliere l’arrivo di novità tecnologiche”. “Orecchio sul terreno” dunque per sentire arrivare in tempo utile il mucchio selvaggio come il capo indiano in Balla coi lupi. ■ Facebook entrerà a giorni nello stretto novero delle società con una capitalizzazione superiore a 100 miliardi di dollari. Come dice L’Economist varrà più di Boeing, il colosso che costruisce gli aerei che ci portano in giro per il mondo e che dà lavoro a 165.000 persone contro le 3000 di Facebook. La famiglia Zuckerberg, a cui il giovane Mark ha elargito azioni come Napoleone regni, entrerà nello stretto novero delle dinastie più facoltose della terra. Il papà di Mark, Edward, diventerà il dentista più ricco del globo. Se comprendiamo bene dove sta il valore di Boeing, Apple, Microsoft e anche Google (tutti vendono qualcosa), per Facebook è più difficile. Forse sono gli 850 milioni di frequentatori a dargli un valore così elevato? A dire il vero questi sono meri numeri, seppur pesanti: la grande popolazione di una nazione non ne fa automaticamente una potenza economica. È solo un potenziale. Le persone che vanno su Facebook non acquistano niente, neanche un drink, vengono, sporcano e se ne vanno senza lasciare un centesimo. Mantenerli costa una fortuna. Il valore di Facebook consiste nei dati che raccoglie sulle persone; informazioni private, comportamentali, hobby, preferenze, allusioni, consigli e relazioni. Tutto ciò che determina la sfera privata di una persona, la cosiddetta privacy, può essere conosciuto da Facebook. Tutti sono concordi nel dire (e anche auspicare) che un certo punto questi dati serviranno a qualcosa, probabilmente ai pubblicitari per confezionare delle azioni di marketing mirato da rivolgere sulla piattaforma Facebook agli utenti che soddisfano un certo profilo demografico o comportamentale. Per ora è il modo più facile di fare dei soldi con questo grande ambaradan del social. La decisione di quotarsi in borsa non lascia molta scelta a Facebook a meno di inventare, e senz’altro ci riuscirà, nuovi strumenti per remunerare i propri azionisti. Facebook deve accelerare subito tutti gli aspetti della sua attività che producono denaro. Tale intento spiega la messe di annunci, alla vigilia della quotazione in borsa, rivolti agli investitori e provenienti dagli investitori. Facebook sta vivendo con una certa apprensione questa prova dei fatti economici e ha già messo le mani avanti; per esempio sta dicendo a chi sa ascoltare: “stiamo preparando una soluzione per il mobile marketing, ma non sappiamo se funzionerà”. È come dire, attenti a dove mettete i soldi! Ma in pochi sanno ascoltare. Invece tutti si aspettano qualcosa di eclatante e questo meccanismo all’insù renderà gli executive di Facebook voraci, come lo sono diventati quelli di Google dopo aver distribuito la minestra alla mensa dei poveri. La vicenda di Facebook non è però così grevemente economica e, come tutte le manifestazioni importanti dell’attività umana, ha la sua dialettica interna. La squarciante modernità della lettera agli investitori di Mark Zuckerberg dal titolo “The Hacker way” (http://www.wired.com/epicenter/2012/02/zuck-letter/), che riecheggia il Manifesto del futurismo di Marinetti pubblicato un secolo fa, indubbiamente riflette lo “Spirito del tempo”. La contraddizione tra “cattivo” e “buono” di Facebook ha portato e porterà molti problemi. Ammettiamo anche, come sottintende Facebook, che molti utenti non si curano troppo di permettere o impedire a un database di tracciare i loro comportamenti e di strutturarli in un dossier personale – comprese le loro relazioni extramatrimoniali – purché possano continuare a stare gratis sul social network. Ammettiamo anche che scoprirsi oggetto di attenzioni e interesse possa essere rassicurante in un mondo di solitudine e d’indifferenza e ipotizziamo pure che ricevere suggerimenti non richiesti su qualcosa che ci sta a cuore sia abbastanza tollerabile se si è dormito bene – anche se in altre circostanze può veramente infastidire. Ammettendo tutto ciò e anche riconoscendo che la percezione del problema da parte di tanti utenti può essere debole di fronte al glamour di Facebook, la questione della privacy è qualcosa di molto serio per l’opinione pubblica e i governi. Contro la social intelligence di Facebook non combattono idealmente solo i militanti fattualisti (http://archiviostorico.corriere.it/1992/luglio/24/Burroughs_tre_passi_nel_delirio_co_0_9207247115.shtml) delle fantasmagoriche teorie sul Controllo di William S. Borroughs (http://www.treccani.it/enciclopedia/william-burroughs/). Combattono molti altri e assai di più dimostrano una crescente ansietà. Uno studente di legge di Salisburgo (http://www.nytimes.com/2012/02/06/technology/06ihtrawdata06.html) ha chiesto a Facebook di riavere indietro il proprio dossier e si è visto recapitare un file di 1.222 pagine, dove ci sono informazioni che neppure ricordava. Su questa scia altre 40mila persone, che si sono coordinate nel movimento “Europa contro Facebook”, hanno chiesto la distruzione dei loro dati. Un professore di legge di Chicago ha scritto un libro dall’esplicito titolo I Know Who You Are and I Saw What You Did: Social Network and the Death of Privacy che sta sulla scrivania dei commissari e dei regolatori europei. Tutto questo brusio costringerà Facebook a un piccolo-grande aggiustamento, suggerito costantemente dall’Economist: cambiare l’opzione di default della Timeline sull’uso dei dati personali da “sì” a “no” (http://www.economist.com/node/21546012). Dovrà essere l’utente ad autorizzare la raccolta e l’utilizzo dei propri dati, non l’automatismo della registrazione. E c’è da scommettere che agli utenti verranno altri appetiti a seguito di questo piccolo clic su un “sì”, come quello, per esempio, di chiedere dei benefici per non ripensarci o semplicemente per spostare una crocetta. L’effetto leva si trasferisce così dalle mani del social network a quello degli utenti. Per Facebook significa scoperchiare il vaso di Pandora. “Ottenere il permesso per forme più personali di marketing sarà cruciale se Facebook vuole evitare di far arrabbiare gli utenti” dice Alexandre Mars di Publicis (la seconda agenzia pubblicitaria del mondo). “Sanno un sacco di cose su di voi. Come e quando inizieranno ad usarle e se voi sarete contenti o irritati da ciò, è la loro vera sfida”. Chiedere il permesso, da persone educate, è un piccolo passo che calmerebbe il brusio ma che potrebbe costare diversi punti in borsa e, alla lunga, una ridefinizione del modello di business. Il che non è senz’altro male, perché allontana Facebook da un modello monolitico seppur subdolamente redditizio dal quale neppure Google è riuscito a staccarsi e che ora comincia a stargli parecchio stretto anche per colpa di Facebook, il nuovo Alessandro Magno, distruttore d’imperi. -::-beltel-::-16 LANCIARE LAPTOP DAL CIELO E VEDERE L’EFFETTO CHE FA a cura della Redazione Paracadutare migliaia di laptop ai bambini dei villaggi sperduti per combattere il digital divide e sperimentare una nuova forma di autoapprendimento. Genio o follia? iniziative simili in tutto il mondo, soprattutto in India e in Bangladesh dove molte aziende private stanno realizzando pc e tablet a costi contenuti. Ora, nel tentativo di rilanciare il progetto, Negroponte annuncia di voler “paracadutare” i piccoli portatili sui villaggi rurali. Dotato di un sistema di ricarica che sfrutta la luce solare e caricatore a manovella, il tablet disporrà inoltre di un modulo per connessioni satellitari che gli consentirà di accedere a Internet. Prevede di distribuire in questo modo milioni di tablet entro la fine del 2012. Il progetto OLPC è finanziato dal produttore Marvel. Nella fase iniziale del progetto 2,5 milioni di computer portatili XO-1 sono stati venduti a circa 200 dollari dalla OLPC ai governi di quaranta nazioni in via di sviluppo, che li hanno distribuiti ai bambini delle scuole primarie. Ora, con il nuovo tablet XO-3 da cento dollari, l’obiettivo è raggiungere tutti coloro era quella di scambiarsi le informazioni. Una volta che un bambino scopriva una cosa nuova, ad esempio ad ascoltare la musica, ecco che subito trasferiva l’informazione al compagno/a al suo fianco e così via. Qualche tempo dopo Mitra e il suo team decidono di alzare il tiro e spingersi oltre: fornire ad un gruppo di bambini un pc dotato di interfaccia vocale e chiedere loro di parlare al computer. “Ehi, non capisce nulla di ciò che diciamo” si lamentavano i bambini, mentre Mitra rispondeva loro: “Lo lascerò qui due mesi, fatevi capire dal pc” e andò via. Passati i due mesi il pedagogista indiano ritorna in quel villaggio e si accorge che l’accento inglese dei bambini è diventato molto simile all’accento inglese neutrale con cui aveva impostato il sintetizzatore audio-testo del pc. I risultati dell’esperimento vengono pubblicati nell’Information Technology for International Development Journal e le idee di Mitra sull’autoapprendimento iniziano a fare il giro del mondo. Perfino Arthur C. Clarke, scrittore di fantascienza famoso per il suo romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, incuriosito dai suoi esperimenti dice: “Se un bambino è interessato, allora l’istruzione ha luogo […] Loro possono aiutare le persone, perché i bambini imparano velocemente a navigare e trovare le cose che li interessano. E quando hai catturato l’interesse, avviene anche l’istruzione”. Ebbene, Sugata Mitra stava realizzando proprio questo. Analizzando i dati raccolti, Mitra ha stimato che attraverso il sistema di apprendimento “condiviso”, senza docenti, nel giro di cinque anni potrebbe insegnare a utilizzare le funzioni base di un computer a 500 milioni di bambini. Basterebbero 10 milioni di computer connessi alla rete e un investimento totale di 2 miliardi di dollari. “Potremmo cambiare tutto” afferma un sognante Mitra. E magari di nascosto vedere l’effetto che fa, come cantava Enzo Jannacci nella celebre canzone “Vengo anch’io? No, tu no!”. ■ © Cristiana Messina No, il titolo non è il passaggio rivisitato di una celebre canzone di Jannacci, ma l’ultima pensata di Nicholas Negroponte, celebre informatico e fondatore del MIT Media Lab che da anni si batte per ridurre il digital divide nei paesi meno sviluppati. L’idea, annunciata qualche tempo fa al mobile summit di San Francisco (http://www.openmobilesummit.com) è di lanciare dagli elicotteri migliaia di tablet destinati ai bambini che vivono nei paesi in via di sviluppo. One Laptop Per Child (OLPC) - il progetto umanitario di cui Negroponte è il fondatore - si occupa della distribuzione di sistemi informatici di base alle popolazioni più svantaggiate che non hanno ancora accesso ai benefici della tecnologia e delle informazioni. Il progetto OLPC (http://laptop.org/en/index.shtml) ha il grande merito di aver fatto nascere che la scuola non l’hanno vista manco con il binocolo. Il focus dell’operazione è dunque l’assenza di intervento umano: “I tablet – spiega Negroponte – arriveranno in zone dove non ci sono scuole né adulti istruiti, e i bambini dovranno imparare a usarli da soli”. Insieme alla neuroscienziata Maryanne Wolf, alla studiosa ed esperta di interazione tra uomo e macchina Cynthia Breazel del Mit e all’indiano esperto di tecnologia dell’educazione Sugata Mitra, studieranno per due anni l’efficacia dell’istruzione auto-organizzata tramite tablet. Un’idea innovativa, che – se avrà successo – potrebbe rivoluzionare il metodo di apprendimento fino ad ora conosciuto, oltre a risolvere un problema enorme come quello del divario tecnologico. Funzionerà? E come reagiranno i bambini alle prese con dei piccoli computer mai visti prima? Se i bambini sapranno utilizzare in maniera corretta il nuovo strumento ancora non lo sappiamo, ma Negroponte ci crede molto, affascinato dagli studi sull’alfabetizzazione informatica e di autoapprendimento condotti dal pedagogista ed esperto di tecnologia applicata all’educazione Sugata Mitra. Esperimenti che Mitra ha condotto dal 1999 al 2007 in India, Cambogia, Sud Africa e perfino in Italia, a Torino. Tutto iniziò nel lontano 1999 all’interno di uno slum a Nuova Delhi, Mitra murò letteralmente un pc connesso a Internet e lo lasciò alla mercé dei bambini registrandone le reazioni. “I bambini a malapena andavano a scuola, non conoscevano una parola della lingua inglese e non avevano mai visto prima di allora un computer e non sapevano cosa fosse Internet” afferma Mitra durante la presentazione dei suoi esperimenti dal titolo “Hole In The Wall”(http://www.hole-inthe-wall.com/) al TED del 2010. Nonostante i bambini fossero privi dell’aiuto degli adulti e di una formazione adeguata, in breve tempo sono stati in grado di capire come utilizzare il pc e di navigare in rete, ma la cosa più rilevante -::-beltel-::-18 PIANO EDIT ORIAL E BE LT E L 2 0 1 2 Il piano editoriale rappresenta una ipotesi di linea guida fortemente flessibile e la cui reale implementazione dipende dalla evoluzione della cronaca e dai nuovi fatti che caratterizzeranno il nostro prossimo futuro. Aprile Luglio/Agosto programmi di crescita individuali e collettivi vanno impostati per ottenere un social network fra persone a quello fra oggetti. L’esperienza etnico tecnologica al Paese equilibrato? Un confronto con il rapporto fra tecnologia, condizioni di vita e Festival au Désert. organizzazioni sociali fra i Paesi del Nord Europa e quelli mediterranei. Settembre Con la cultura si mangia? Quali sono gli elementi che determinano la crescita della “Felicità Interna Lorda” in un Paese? Coscienza e conoscenza sono componenti del nostro benessere? Quali Maggio Augmented reality e diminuzione di identità e attenzione. La vastità delle informazioni sollecitate e disponibili generano Day life technologies. iPod, iPad, iTunes, Social Network. Come cambia la vita di ogni giorno, come ci si diverte e ci si informa, come si ascolta la musica. Dal Caos. L’articolazione di strumenti e di connessioni da un lato, la diminuzione di partecipazione cosciente e l’aumento delle abilità speculative dall’altro, rendono possibile il un sovraccarico di stress “inconscio” nei nostri comportamenti con il risultato di collasso del vecchio sistema economico sociale. Che fare? un aumento di distrazione e un abbattimento della partecipazione. Il lock-in Ottobre sociale come eventuale risultato delle inefficienze tecnologiche: i black out nelle organizzazioni complesse. Giugno Nuovo welfare. Come i cambiamenti tecnologici, sia nell’organizzazione del lavoro sia nella vita e nella sua durata, cambiano le ipotesi di assistenza sociale. Una riflessione sull’impatto Verso l’intelligenza artificiale; le applicazioni con interfaccia in delle strutture cibernetica della Società su lavoro e fine del lavoro. Obsolescenza linguaggio naturale presenti sull’iPhone 4S presentano dell’espressione “andare in pensione”. interessanti componenti di analisi semantica. Che succede della “singolarità” umana se l’evoluzione dei prodotti di intelligenzaartificiale e della nanotecnologia, generano un ecosistema con diverse gerarchie di valori? Novembre/Dicembre La tecnologia nella storia ci insegna utilizzi e integrazioni sociali; l’innovazione “anticipata” dai Maya all’arte dei retori. ENERGETHICA TORINO 2012, NUOVA EDIZIONE... TANTE NOVITÀ! L'8° edizione di Energethica® si ripropone a TORINO, sempre a Lingotto Fiere, dal 24 al 26 Maggio come punto di riferimento per la sostenibilità e per le soluzioni legate all’energia rinnovabile nel Nord Ovest Italiano nonchè come partner b2b del festival dedicato alla Smart City promosso da Città di Torino e da tutte le parti sociali coinvolte. L’evento supporterà la candidatura del capoluogo piemontese tra le “città intelligenti” d’Europa attraverso mostre, concerti, incontri e altri appuntamenti di livello ® nazionale e internazionale. In questo contesto, Energethica dimostra come le tecnologie volte all’efficienza energetica, all’utilizzo di energie da fonti rinnovabili e alla sostenibilità nella produzione industriale possano integrarsi fra loro e offrire così maggiore efficienza e possibilità di crescita economica duratura. I principali focus della mostra sono: Smart City & Industry Tutti oramai parlano di Smart City... Nel corso del 2011, Energethica® ha approfondito cosa significa con oltre 50 convegni tematiciscientifici, con aree demo espositive e con proposte attuative concrete degli espositori. Quest’anno il concetto SMART è stato visto anche sotto il profilo industriale e produttivo, spina dorsale della salute economica della città sostenibile... anche a livello finanziario. Telegestione Vista la massiccia presenza di impianti di teleriscaldamento in Piemonte legati sia a combustibili fossili sia a fonti rinnovabili (solar district heating, biomasse...), forte anche del successo ottenuto nella precedente edizione, l'8° Energethica Torino ospita telegestione, la sezione espositiva dedicata al trasporto e alla gestione a distanza dell’energia in forma di elettricità o di calore/freddo. Condominio Efficiente E’ l’area tematica “Condominio Efficiente” a cura di Condominioitalia Editrice la grande novità di Energethica®. Di fianco all’area espositiva tradizionale, la “Piazza delle Dimostrazioni” garantisce alle aziende l’opportunità di divulgare le proprie tecnologie, strategie e innovazioni sul versante del risparmio energetico e della sostenibilità ambientale, attraverso una rappresentazione concreta dei prodotti offerti. Completano l’offerta i desk informativi, dove consulenti ed esperti super partes rispondono a quesiti, sciolgono dubbi e forniscono tutte le informazioni necessarie ad effettuare una scelta d’acquisto oculata e ragionata, in base anche a quanto appreso nelle demo pratiche. Novità! Bicishow La bicicletta è diventata high tech, mezzo sofisticato di stile di vita, e permette, visto il limitato costo di gestione nel tempo, di spendere qualcosa di più nell’acquisto. Una scelta che va quindi ponderata e necessita di spazi per il confronto tra marchi, prestazioni e tecnologie. Un mercato in piena crescita, dove l’industria meccanica italiana spicca nel mondo ed ha qualcosa di significativo da dire. Condizioni ideali quindi per l’inserimento in un territorio fertile e sensibile della mostra mercato Bicishow, dove trovare la bici e i contatti professionali giusti! Inoltre: expo market, test drive, spettacoli, premi e conferenze sul tema. La partnership con il festival offre una grande occasione per mettere sotto i riflettori quello che Energethica® da anni sostiene e che coincide con il pensiero e gli obiettivi della Città di Torino: il concetto di città intelligente del futuro e, quest'anno, anche il profilo industriale con la Smart Industry.