ISLAMIC BANKING Bulls, bears, camels... …what else??
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ISLAMIC BANKING Bulls, bears, camels... …what else??
Pubblicazione bimestrale - Anno 13 - Numero 49 - Giugno 2010 - Iniziativa finanziata con i contributi dell’Università Bocconi ISLAMIC BANKING Bulls, bears, camels... …what else?? Viaggio in carcere La vita in 16 metri quadri PAG. 7 [traileoni] 2 EDITORIALE di Margherita Caccetta TEMPI MODERNI Il ‘900, si sa, è un secolo in cui tutto è stato rimesso in discussione, primi fra tutti l’etica e i valori su cui si è costruita la nostra storia. Oggi al posto delle “solite” domande esistenziali del tipo chi siamo, dove andiamo, mi viene da chiedere in che mondo viviamo? Mi auguro che il nostro periodo storico sia solo un momento di passaggio tra due ere in cui l’essere umano abbia bisogno di orientarsi. Vorrei poter assistere metaforicamente ad una nuova rivoluzione copernicana in cui l’uomo si renda conto e capisca dopo un lungo tempo di ignoranza che non è la luna ma il sole al centro del sistema. È anche vero che durante la storia i periodi di transizione, solitamente bui, sono stati la culla di personaggi illustri le cui gesta e parole vengono ricordate e studiate ancora adesso. Non per essere pessimista, ma dubito che potrebbe nascere un modello positivo dalla nostra società se il modello di riferimento è quello di tronista o di velina. Con ciò non voglio togliere loro niente, per carità. Ma non vorrei che oscurino e mascherino i tanti modelli positivi che ci sono. Negli ultimi tempi sembrano venute meno le strutture portanti del nostro vivere. Il nostro è un mondo in cui la fretta è padrona, ma se ci fermiamo a riflettere anche solo per poco ci accorgiamo che da un giorno all’altro siamo stati catapultati in un mondo che è totalmente diverso da quello a cui eravamo abituati. Se ci fermiamo a pensare ci accorgiamo che il detto homo faber fortunae suae si addice a questo stravolgimento ed anzi ne è la causa vera. Ebbene si. Siamo stati noi, forse inconsciamente, a “creare” la società in cui viviamo, in cui sembra che i vizi si siano tramutati in virtù e in cui l’egoismo e l’opportunismo siano diventati i valori a cui aspirare. Si assiste all’arroganza dei pochi che mirano ad affermare se stessi senza considerare i sogni e i desideri degli altri. I valori di solidarietà hanno cessato di ispirare e guidare l’azione dei singoli e delle comunità, piegati come sono all’esigenza di allinearsi ai parametri economici, sia a livello individuale che collettivo. I valori genuini sembrano essere surclassati da un qualcosa che non possiamo defini- re tale. Sono concetti forse intrisi di un qualcosa che è frutto della società consumistica in cui viviamo. Siamo coscienti di vivere in una società “sbagliata” ma non facciamo niente per migliorarla. Perfino la natura stessa sembra avvertirci dello stato delle cose, tant’è che comincio quasi a pensare che le profezie maya potrebbero essere vere! Uragani, terremoti, tsunami che si abbattono senza pietà uno dietro l’altro. Gli antichi greci e latini li avrebbero interpretati come segni divini, per punire l’uomo per il male che commette. E noi in quest’ottica divina che male stiamo commettendo? Forse un male che non è quantificabile o qualificabile in modo preciso ma che probabilmente va rapportato con un qualcosa di universale. Con il mondo stesso probabilmente. Stiamo facendo soffrire anche il nostro pianeta. E perché? E’ semplice. Perché siamo concentrati solo su noi, non vediamo nient’altro che noi. E non riusciamo a capire che anche se in un ottica di breve periodo questo potrebbe avvantaggiarci alla fine nel lungo periodo ne saremmo svantaggiati poiché la nostra concentrazione su noi stessi si scopre essere un danno e un costo per la società. Infatti se tutti non pensiamo a cosa ci circonda è la stessa natura che si ribella. Mi chiedo se è forse bello vivere in una siffatta società, basata sull’imperativo hobbesiano dell’homo homini lupus? Credo che si debba fare di tutto per cercare una soluzione. Ma come? Anche volgendo uno sguardo al passato vediamo che l’uomo è poco incline al cambiamento, tuttavia vi si adatta facilmente quando vi è costretto. Siamo un po’ restii a cambiare la strada vecchia per una nuova e sconosciuta ma talvolta il cambiamento può essere portatore di positività. Ed infatti è proprio su questo che si deve lavorare, bisogna cercare di cambiare per migliorarci. Poiché se cambia il sostrato in cui viviamo quotidianamente anche noi saremo persone diverse. Diversità da intendere in senso positivo ovviamente. È vero non è facile ma lo si deve fare per il nostro mondo e per noi stessi affinché si possa vivere in una società più sana. Forse sembra utopia ora come ora ma non ci possiamo permettere di adottare una politica lassista. Ormai è troppo tardi anche per quella credo. Erich Fromm diceva: “credo nella reale possibilità di un mondo in cui l’uomo può essere molto anche se ha poco; un mondo nel quale la motivazione dominante dell’esistenza non è il consumo; un mondo in cui l’uomo è il fine primo ed ultimo” Ecco, ci voglio credere anch’io. VIENI AVANTI ECONOMISTA di Filippo Maria D’Arcangelo Il cielo sopra Berlino Se la Grecia è in buona compagnia dei restanti PIGS europei, ovvero di quei paesi il cui equilibrio fiscale è traballante, anche la Germania sente addosso tutto il peso dell’instabilità finanziaria della Zona Euro. Sul paso doble ballato dalla Merkel e Papandreou (in realtà un ménage a trois con anche la partecipazione del premier francese) ha pesato l’opinione pubblica tedesca, che ha sventolato la minaccia delle elezioni per richiamare al rigore la prima ministra. Seppure gli altri stati in tensione finanziaria, ovvero Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda, si siano affrettati a garantire della relativa solidità dei propri conti pubblici, un diniego ex ante di aiuti da parte dell’Eurozona porterebbe gli speculatori a scommettere al Perché questo dovrebbe riguardare la Germania? Perché i Tedeschi non dovrebbero lasciare che il mercato faccia il proprio corso, sotterrando i paesi più libertini? Innanzitutto perché abbiamo una moneta unica che la Germania ha tutto l’interesse di difendere. Se i debiti pubblici esplodessero, l’unica soluzione per i PIGS sarebbe quella di staccarsi dall’Euro e svalutare la propria moneta: con’un inflazione sostenuta i debiti contratti si assottiglierebbero nel tempo, rendendo più facile la restituzione. Ma i Tedeschi patirebbero su due fronti: avrebbero perso le ghiotte possibilità di esportazioni vantaggiose verso quei paesi e avrebbero in cassa una moneta dalla credibilità ormai stracciata. Se si svalutasse l’Euro allora? Nell’ambito dell’unione monetaria la svalutazione è impossibile proprio per l’impronta tedescofila della BCE: il patto di stabilità prevede un obiettivo assai stringente di inflazione e questo è dovuto soprattutto all’eredità rigorista della Bundesbank che è confluita nella Banca Centrale Europea. Inoltre, la Germania ha un’economia trainata dalle esportazioni e, con l’aumento dei prezzi delle attività produttive, chi si comprerà una nuova e più costosa Wolkswagen se, nell’area Euro, e quindi con la stessa moneta, gli operai polacchi possono produrre alla metà del prezzo delle efficientissime Dacia? Per questo la Merkel, memore dell’inflazione che ha colpito la Germania alla caduta del Muro, ringhia e sbuffa e chiede a gran voce un nuovo patto di stabilità ancora più stringente. Che non risolverebbe comunque le cose visto che segnerebbe obiettivi utopistici e irrealizzabili, quando già i paesi dell’Euro fanno fatica ad applicare questo. La macchina della moneta unica sembra essersi ingolfata proprio in concomitanza della crisi economica e finanziaria. C’era da aspettarselo. In fondo si è discusso a lungo sulle vere opportunità della moneta unica, che discendono dal grado di integrazione tra i vari paesi. Il Fondo Monetario Europeo è una buona occasione per aumentare la corresponsabilità dei membri e uno strumento per completare l’osteggiato percorso di integrazione politica che passa da più autorevoli poteri a Bruxelles. Ma che si fa se la Germania si è rotta di pagare Ponti sullo Stretto dei paesi altrui? [traileoni] 3 Appena scavallate le elezioni federali di Maggio, è arrivata repentina la notizia dell’istituzione di una specie di fondo monetario europeo da 740 miliardi; peccato che i Tedeschi avessero subodorato l’avallo della Merkel, e hanno bastonato il partito di governo (CDU) che è crollato di 10 punti. Il ricatto politico dell’elettorato teutonico ha tenuto in scacco tutta l’Europa, ma la Grecia in particolare: la soffertissima concessione di 22 miliardi per il recupero dei conti ellenici, che comunque torneranno nelle tasche dei Tedeschi, è arrivata intempestiva. Si dice che i Rigorosissimi d’oltralpe abbiano voluto punire gli sconsiderati giochi di prestigio greci, fatti nel tentativo di nascondere un buco strutturale enorme (il disavanzo primario, ovvero la perdita annuale al netto delle spese per il pagamento degli interessi sul debito, è intorno all’8,5% del PIL). I Tedeschi hanno voluto punire l’azzardo morale greco stringendo i cordoni delle loro borse. Ma l’elettore berlinese medio, se pure percepisce gli effetti negativi della congiuntura in una minore qualità dei servizi erogati dallo stato, difficilmente potrebbe prevedere gli effetti del terremoto scatenato dal contagio dell’insolvenza agli altri paesi dell’area Euro. ribasso: in questo caso il crescere di aspettative autoverificantesi di tracollo sistemico getterebbero tutta l’Europa in un pantano. Se dunque è apprezzabile la decisione della Germania di “punirne uno per educarne quattro”, si tratta comunque di un giochino pericoloso in cui a perdere saranno anche gli stessi Tedeschi. Per adesso non c’è dubbio che i debiti verranno ripagati, anche in virtù di spread paese (ovvero gli interessi pagati dagli stati sul proprio rischio di insolvenza) da tempo allineati con i Bund germanici. Ma se gli investitori dovessero smettere di credere che la Germania in qualche modo garantisca anche per i paesi meno virtuosi i tassi schizzerebbero alle stelle rendendo impossibile ripagare il debito. L’ULTIMO SPARTITO di Emilio Lo Giudice Quando Luca riprese i sensi aveva un forte mal di testa e ricordava solo che fuori l’albergo gli era venuto incontro l’omino della biblioteca. Lo aveva visto mentre rubava lo spartito e ora reclamava una parte. Si erano messi a discutere animatamente quando fu colpito alla testa con qualcosa. Il sangue rappreso gli prudeva la guancia. Provò a grattarsi ma si rese conto di essere legato e imbavagliato. Aprì gli occhi, infastidito da una feroce luce bianca e realizzò di essere appeso a un cavo, in mezzo a una cava di gesso. Accanto, anche lui appeso, imbavagliato e legato, stava il bibliotecario ciccione. Una voce con forte accento palermitano, sotto di lui, attirò la sua attenzione. Solo allora si rese conto che entrambi penzolavano sopra una vasca di calce viva. C’erano quattro persone e il palermitano che parlava si rivolgeva direttamente al ciccione. …che t’avevo detto io? Ah, m’o dici? Io sugnu buono e caro e invece ma'a fari fari sancu amaro. Cche ti dissi? Restituiscimi i soldi che mi devi. E che minchia ci voleva? E tu cchi facisti? T’appresentasti con nu pezz‘i carta. E per di più con nu tizio imbavagliato. Ma che minchia c’hai intra a’testa? Segatura? Ma tu o’sapevi che saremmo finiti accah! Ogni promessa è debito. A mia spiace, ma adesso io devo ammazzare a tutti e due. Se non l’avete capito adesso vi facimmo fa nu bagno!…sai Peppe, l’idea l’ho presa da nu film romantico. Se poi, come dici, tu sto pezzi ‘i carta vale qualche cosa, allora ti chiedo scusa e ti ciuro che ti farò fare u cchiù beddo funerale da'a vita tua. Coi cavalli, i pennacchi, ‘na bara buona e tutto il resto. Contento? Picchì ogni promessa di Ciccio ‘u macellaio è debito. Luca sotto choc, incapace di accettare quanto stava accadendo, si era estraniato completamente: si raffigurava mentre aspettava il taxi che lo avrebbe portato in aeroporto. Arrivato a casa a Cremona avrebbe chiamato la sua ragazza, Chiara. Prima di partire avevano litigato e si erano lasciati ma si sarebbero rivisti e avrebbero fatto all’amore. Il cavo di Luca venne sganciato, precipitandolo nella vasca di calce. In quell’attimo esatto, sotto il grande cielo afoso e immobile di Palermo, dal sapore di una nostalgia limpida e ineffabile, ebbe l’accecante definizione della sua morte. Lontano splendeva l’azzurro orizzonte del mare, indifferente e immobile come la perfetta linea della schiena di un dio addormentato. FINE DEL RACCONTO DES E CAOS DETERMINISTICO Chi fa il Des, per capire che fa. Chi vuol farlo, di analisi spintissima. Guadagnerà meno degli per capire che fare. Chi l’ha fatto, per pensarci. altri. Ahimè, sono uno di loro. Minuzioso. Beccatevi questo bestiario di tipi da Des. In sei Lo sviluppista. È il fricchettone di cui parla anni, li ho incrociati tutti. Nonciclopedia se cerchi Des. Si sbrana il cervelIl neoclassico. Sempre più raro, studia micro lo per capire come si fa a dare l’acqua ai bambini teorica alla vecchia maniera. Per fare il neoclas- dell’Angola senza che loro la sprechino in gavetsico ci vuole fegato, e resistenza di stomaco. Un toni. Dei dottorati hard-core non gliene frega po’ di ironia non guasta. Spesso finisce a fare il niente, ma visto che per entrare nelle IGO cicdottorato in Europa, perché agli americani que- cione un PhD ci vuole, lo fa breve e tematico, sta micro non basta più. Niente problemi di spesso in Europa. La parola competizione gli fa media, se riesce ad evitare gli esami di macro schifo. Ammirevole. spinta. Razionale. Lo storico. Ebbene sì, c’è anche lui. Non c’è Il neokeynesiano. Fa macro con modelli di- dubbio: ha sbagliato corso. Ma alla fine qualcosa namici e time series. Sogna l’MIT. In bagno ne viene fuori, e magari viene fuori meglio che legge Blanchard. Non riesce a trattenersi dal da una facoltà di storia. L’ultima volta l’ho visto guardare il pianeta e tentare di infilarcelo nei in biblioteca con dieci tomoni verdi che leggeva suoi modelli. Pronuncia la parola “dataset” cin- meticolosamente. Erano le raccolte quanta volte al giorno. Stage all’IGIER e alla dell’Economist del 1890. Saggio. fine, se gli va bene, va in America. Propositivo. Il tesoriere. È quello che ha capito che basta Il theorist. Matematica e teoria economica turarsi il naso e con il Des fai più soldi che con sono una cosa sola. Non parlategli di applicazio- Finance. Se volete fare soldi, non fate il Des, ma ni economiche, quello che non è provato con un se lo capite troppo tardi non disperate. Un desk teorema non è vero. Non esiste. Non vale la di mercati asiatici nella City c’è anche per voi. pena dirlo. Aggira lo stage con corsi addizionali Capitan Uncino. di Ruben Gaetani Il Boeri-Boy. E’ liberale ma di sinistra. Da non confondersi con lo sviluppista: la competizione la evita ma non gli fa schifo. Legge i giornali, guarda Ballarò, segue la politica e si mangia una cotoletta con patate a pranzo (vero!). Meglio Gioventù. Il Public. Fa macro alla britannica. Spesso è liberale, a volte statalista. Studia le imposte. Lo riconosci da quante volte dice “redistribuzione” in una frase. Molta tecnica e molti dati. Pragmatico. Il bestiario è più o meno completo. Una nota: se fai il Des prima o poi finisci in una di queste classi e ci resti forse per tutta la vita. L’assegnazione è ineludibile: impossibile farsi gli affaracci propri. Il problema: è casuale. Venendo dalla triennale Des, ci sono entrato da neokeysiano e ne sono uscito da theorist. Il motivo è che ho mezzocannato un esame e ne ho fatto bene un altro. La classificazione è talmente ineludibile e casuale che penso sia giusto renderla palese. A quel “col Des fai quel che vuoi” aggiungerei un “e noi ti aiutiamo a capire cosa vuoi”. Nella convinzione che, comunque vada, tutti troveremo la nostra strada. A caccia di un boccone di Gabriele Marzorati Quell’Odissea di un pranzo in Università chi è un po’ depresso questo non è il luogo più adatto per tirarsi su: quel colore verdognolo grigiastro delle pareti non mette certo allegria... Se poi, come non capita quasi mai a Milano, il tempo è nuvoloso e fuori piove, l’atmosfera si fa ancora più bigia, nonostante le Per essere un pranzo che si rispetti, se si è in un gruppo di colleghi, luminose luci al neon è necessario che ognuno voglia mangiare in un posto diverso, giusto della mensa rasserenino Ore 12.45: rampollo del CLEF per complicare una decisione all’apparenza semplice. Sì, perché in chiunque vi entri. pronto per la caccia università e nella zona circostante ci sono diverse alternative tra cui si può scegliere. Così qualcuno vorrà andare al celebre Taxi blues, Insomma, tornando al gruppo di ragazzi alla ricerca di un locale in qualcun altro preferirà una piadina, alcuni proporranno la mensa cui andare a pranzo, chi prova a proporre la mensa può essere messo della Bocconi e altri invoglieranno tutti organizzando una “gita” facilmente in minoranza. Ci sarà allora chi sceglierà il Taxi blues, il all’immancabile McDonald’s di Porta Romana. Da qui inizieranno le bar ristorante più “in” della zona. Il bocconiano DOC lo ritiene un discussioni, si analizzeranno uno per uno i pro e i contro dei vari luogo centrale per la sua vita universitaria. Tutto ruota intorno al locali proposti. L’obiettivo non dichiarato di ciascun ragazzo del Taxi: a colazione, a pranzo, a merenda, fino all’happy hour della gruppo è cercare di mettere d’accordo tutti, convincendo gli altri sera. Ogni momento è buono per andarci, anche nelle ore vuote tra le lezioni per un caffè, servito nelle tipiche tazze gialle. Certo, podella bontà della propria preferenza. trebbe obiettare qualcuno in disaccordo, va bene seguire la moda, Ad esempio, chi preferisce la mensa universitaria per prima cosa ma perché andarsi a infilare in un posto buio con la musica a tutto dovrà specificare quale delle due del nostro campus predilige: quella volume? Mangiando in compagnia di altre persone, sarebbe interessotto l’edificio di via Sarfatti, meglio conosciuta come “mensa dei sante almeno intravederle e possibilmente riuscire a sentirle quando ricchi”, o quella sotto il pensionato, volgarmente detta “mensa dei parlano. Anche il fan del Taxi blues verrà quindi ridotto al silenzio, poveri”? Qualunque sia la risposta, per il ragazzo in questione sostecolpito nell’orgoglio più profondo. nere la sua proposta non sarà cosa semplice di fronte alle obiezioni Il cerchio delle possibili mete si restringe sempre più. Resta la piadiche gli pioveranno addosso. neria in via Bligny, altro locale che, nonostante le limitate dimensioLa “mensa dei ricchi” è riconoscibile da lontano per il disordine e la ni, i proprietari riescono sempre a riempire di decine studenti, confusione: essendo abbastanza piccola, tante persone in poco spazio stretti uno accanto all’altro, grazie a una buona fantasia nello spostasi accalcano facilmente. Non solo, andare a pranzare lì senza armarsi re al posto giusto tavoli e sgabelli (che almeno qua ci sono). Dato di pazienza è una mossa sbagliata. Se si arriva dopo l’una, come capiche il posto non è tra i più comodi, alcuni ragazzi del gruppo pota alla maggioranza degli studenti, ci si deve mettere il cuore in pace trebbero non apprezzare. e prepararsi a una bella coda alle casse. E così, mentre il tempo della preziosissima pausa pranzo scorre inesorabile, finalmente si riesce a A questo punto, tentando di sbloccare la situazione di stallo, interordinare. E’ in questo preciso momento, quello del pagamento, che verrà chi, divorato dalla fame, non ne potrà più di stare ad aspettare si capisce perché sia stata in maniera ufficiosa indicata tra gli studenti e lancerà nel mucchio la proposta di un McDonald’s. La pigrizia, pecome “mensa dei ricchi”: mangiare là ha il suo prezzo. Ma non è rò, si impadronirà degli altri: andare fino a Porta Romana con un finita, perchè con il sudato piatto in mano comincia la missione più tram stracolmo di gente o addirittura a piedi se, come spesso succedifficile: andare alla ricerca di un posto a sedere, che puntualmente de, il mezzo non passa nemmeno, non è una soluzione minimamennon si trova neanche per scherzo. Le possibilità sono due: o ci si te considerabile. mette davanti a un tavolo dove sono seduti altri ragazzi e, stazionanMettere d’accordo l’intero gruppo è un’impresa difficile e non ci si do intorno, gli si mette fretta, oppure, siccome il cibo si raffredda e muoverà, restando fermi nell’indecisione generale, fino a che qualdopo tutto quello che si è penato mangiarlo freddo non è il caso, si cuno non prenderà l’iniziativa. Siccome separarsi è un peccato, gli pranza comodamente in piedi, appoggiandosi a tavoli e banconi mesamici lo seguiranno, sperando in cuor loro che non si stia dirigendo si lì, supponiamo, proprio per questo, non essendo corredati di sgadove non vogliono. Ma alla fine meglio così: se tutto fosse perfetto, belli. non ci sarebbe quell’atmosfera che rende il pranzo in compagnia un E la “mensa dei poveri”? Il motivo del nome è evidente: i prezzi momento di svago e distrazione. E quella breve pausa libera perdesembrerebbero essere a portata di studente. L’unica cosa è che per rebbe il fascino di una piccola avventura universitaria. Anche se non suona la campanella come accadeva a scuola, il senso di liberazione è più o meno lo stesso. Eh già, pensate a uno studente che dalle 8.45, dopo aver trascorso tutta la mattina in aula tra grafici e numeri, arriva alle agognate 13.00, il fatidico orario della fine delle lezioni. La felicità e la soddisfazione di essere sopravvissuto alle quattro ore e passa di spiegazione non mancano. Certo, se il nostro studente è particolarmente sfortunato, la gioia durerà per poco, perché più tardi, già alle 14.30, si ritroverà un altro corso da seguire. Nonostante questo, però, niente potrà impedirgli di godersi un bel pranzo in compagnia dei suoi amici universitari, anche perché la fame a un certo punto si fa sentire. [traileoni] 5 Riflessioni sull’identità del giurista: chi è e come sarà Quest’anno, per la prima volta, si è deciso di dedicare un’intera giornata “del giurista” agli studenti del corso di laurea in giurisprudenza dell’Università: una ricorrenza celebrativa ed un’occasione di riflessione su di un tema centrale per tutti i partecipanti, ovvero “il ruolo del giurista”. L’intento, supportato dal ricco contributo di ospiti diversi era quello di affrontare, necessariamente in modo non esaustivo ma profondo, il tema dell’identità del giurista, tanto in senso storico-descrittivo (chi è il giurista oggi e chi era) quanto in senso normativo (chi o come dovrebbe essere). Tema certamente complicato sotto entrambi i profili, ma parimenti importante per quanti si dedicano all’approfondimento delle discipline giuridiche: esso esula, in tutto o in parte, dalle problematiche legate alle professioni) che costituiscono l’esito più probabile alla carriera universitaria dello studente di giurisprudenza. Come ricordato nella cerimonia di inaugurazione scopo principale della facoltà è quello, attraverso gli apporti delle singole discipline di studio, di formare il giurista nel modo più completo di Pietro Fazzini possibile sotto il profilo didattico, ma che sia anche consapevole del suo ruolo all’interno della società. Questa consapevolezza si radica nella conoscenza del dato storico, delle origini di questa figura professionale e sociale e allo stesso tempo nell’analisi della contemporaneità, dove essa si deve adattare alle esigenze della società in divenire, conservando il proprio profilo identitario. Dalla lezione della storia traiamo un importante insegnamento: il giurista nasce come studioso di diritto ma con il tempo definisce il proprio ruolo anche come intermediario sociale, come interprete della volontà potere sovrano, coniugando nello studio e nell’interpretazione rigore formale ed esigenze di giustizia. Platone permettendo potremmo dire che sono loro i “custodi dei custodi”. Con il successo e la progressiva diffusione della forma politica della liberal-democrazia fin dall’inizio del Settecento e la successiva formalizzazione dei principi generali di libertà e uguaglianza nelle carte costituzionali novecentesche, il ruolo del giurista come interprete del dettato normativo e come esperto di diritto è più che mai centrale, in quanto complemento all’applicazione delle leggi conforme ai principi ispiratori. Veniamo ora al secondo profilo sollevato dal problema dell’identità, quello che potremmo chiamare “deontologico”. La crisi attuale impone un ripensamento di parte importante della società, dei suoi modi di vivere e di produrre. Alla stessa stregua anche il giurista deve adeguarsi al cambiamento in atto, scrollarsi di dosso la veste tradizionale che lo vedeva impegnato unicamente nell’esercizio delle professioni legali “classiche”. Fondamentale è il dialogo con gli operatori economici ed in generale con tutte le scienze sociali, sia a livello accademico (e in questo la Bocconi è un passo avanti a tutte le altre) sia a livello professionale. Tuttavia, proprio ora che questo cambiamento prende atto, l’identità del giurista deve essere forte e consapevole affinché il contatto, la comunicazione e l’interdisciplinarietà di ambiti di studio diversi e complementari non porti ad una fatale commistione dei ruoli. Questa, credo, è anche la mission e la sfida del nostro corso di giurisprudenza, che sta crescendo nella modernità. L’ANALISI Giovani giuristi in cerca di un approdo Presso l’Università Bocconi si radica l’esperienza di un Corso di Laurea in Giurisprudenza. Dopo l’esperienza del tre più due viene ora offerto un Corso di Laurea magistrale in Giurisprudenza, il CLMG, caratterizzato da una durata continuativa quinquennale e da una maggiore organicità dell’offerta formativa, i cui primi iscritti si sono immatricolati quattro anni fa. Sicuramente il CLMG costituisce la conseguenza della lungimirante intuizione di fornire un corso che fosse completo in relazione alle materie giuridiche tradizionali, in primo luogo quelle relative alle discipline codicistiche, ma che al contempo permettesse ai futuri giuristi di accedere a nozioni inerenti alle discipline aziendalistiche e di bilancio, che risultano fondamentali per comprendere i fenomeni economico-giuridici del giorno d’oggi, soprattutto in riferimento alla realtà d’impresa, e che informano sempre di più le professioni legali, anche quelle più istituzionali come la magistratura ed il notariato. Il corso vede la propria origine all’interno di un alveo accademico lungamente fecondo e prolifico per gli studi economici e dalla prestigiosa rinomanza a livello nazionale ed internazionale. Da questo ricchissimo patrimonio, il CLMG eredita delle caratteristiche che possono essere individuate nell’organizzazione efficiente dei corsi, nella cospicua offerta di materiali per lo studio e di risorse extradidattiche, nella valorizzazione della conoscenza delle lingue straniere, nelle notevoli opportunità di esperienze all’estero e nell’offerta di gratificanti occasioni professionali prima e dopo la laurea, nell’ambito di un costante confronto con il mer- cato del lavoro. di Carlo De Stefano Detto ciò, è necessario però introdurre quale sia la differenza tra un giurista ed un economista. L’economista descrive come opera il mondo possibilmente con una capacità ed un approfondimento tali da poter desumere in qualche modo come il mondo opererebbe se le condizioni mutassero in un certo grado. Il giurista, invece, applica modelli etici e di giustizia e valuta gli obblighi reciproci disciplinati dalla legge, allo scopo di prendere o raccomandare una decisione, essendo necessariamente fornito di una scala di valori. Essere e dover essere, se mi si permette il mutuo dalla terminologia filosofica. Questa è forse la prospettazione più efficace per mezzo della quale risolvere il problema che, ai più alti livelli, è stato indicato con l’espressione “esser figli di un dio minore” e che in altri termini può essere descritto come una sensazione di spaesamento rispetto alla più duratura tradizione di quest’Università (“sentirsi ospiti perenni”, come è stato scritto in questo stesso giornale). Immedesimandosi nel singolo studente di legge, è comprensibile una percezione di tale genere, anche per il solo fatto che un corso così giovane deve ancora affermarsi compiutamente nel panorama delle scuole italiane di diritto e sicuramente perché al nome della Bocconi sono immediatamente associate le scienze economiche e non quelle giuridiche. Tuttavia, è proprio la differenza tra le relative formae mentis, poc’anzi illustrata, che deve guidare il giurista bocconiano nello sviluppo dei suoi studi e renderlo consapevole della propria peculiarità. Peculiarità che senz’altro – ben è vero – meriterebbe di ricevere una consacrazione formale tramite l’istituzione di una facoltà vera e propria. MQ 16 LE NOSTRE PRIGIONI Studenti e detenuti: due realtà a confronto fisso e chi nel Corano. E’ in questi luoghi, dove convivono uomini con passati intensi, spesso ritenuti egoisti e strafottenti, che la tolleranza e la capacità di far spazio all’altro rappresentano condicio sine qua non per la sopravvivenza. La visita si è conclusa con un confronto diretto con alcuni detenuti che, inizialmente spinti dal desiderio di occupare un po’ del loro tempo, si sono aperti a noi mostrandoci quel lato vulnerabile del loro io che e’ spesso da noi ignorato e da loro custodito gelosamente. Sono uomini. Uomini come tutti, con le loro paure e le loro speranze. Il giudizio degli altri, il futuro, gli amori e il lavoro sono preoccupazioni costanti con le quali, un giorno o l’altro, dovranno fare i conti. Hanno commesso degli errori, consci delle possibili conseguenze delle loro azioni, ma non spetta a noi compatirli o biasimarli. Le carceri sono sovraffollate e abituarsi a una vita scandita da orari imposti anche per quelle attività le più naturali come fare una doccia non e’ semplice. Come ha sottolineato la direttrice, il carcere puo’ abbrutire e, paradossalmente, al contrario dai fini del legislatore, incentivare la criminalità. Questi non sono pero’ motivi sufficienti ad assumere atteggiamenti che giustifichino le loro azioni: abbiamo sempre più alternative fra le quali scegliere, spetta a noi agire consapevolmente. La collettività, che spesso, volontariamente, ignora tali problematiche, ha però l’obbligo morale di offrire, a coloro che hanno maturato, a conclusione della permanenza carceraria, una coscienza di sé tale da fornire la voglia e la forza necessaria per cambiare, una autentica occasione di riscatto. Perché se non si affronta il tema del reinserimento, tutte le condanne avranno un fine pena mai. [traileoni] 7 legge disponibile a risolvere, ove e quanto possibile, le problematiche di ognuno si pone come figura di vertice autoreCi è stato insegnato che prima di parlare bivole ma visibilmente sogna conoscere, ma non sempre ciò accade. attenta e sensibile. Quindi, è con disponibilità d’animo e cuore e desiderio di comprendere che abbiamo colto Giunti a Lodi, ci siamo l’opportunità’ offertaci dalla Professoressa diretti verso la casa cirMelissa Miedico, accorta conoscitrice e ap- condariale dove, dopo passionata professionista, in collaborazione aver consegnato il docucon la Dottoressa Stefania Mussio, direttrice mento d’identità, ci siamo addentrati in un della Casa Circondariale di Lodi. mondo a noi sconosciuSin da Settembre la Professoressa Miedico, to e ignoto dove i confidocente di diritto penale presso la nostra ni della realtà non risulUniversità, ha mostrato e trasmesso la sua tano ben definiti. Come passione per la materia e l’entusiasmo nel mosche bianche, abbiaconoscere e rendere nota la dura realtà carcemo percorso corridoi e raria. Il corso, affascinante per i temi attuali visitato uffici, sale colloqui, cucina, palestra e trattati, lo è stato ancor di più per il percorso cortile, unico spazio, quest’ultimo, in grado di crescita personale al quale, all’inizio forse di offrire uno spicchio d’azzurro sopra la teun po’ ignari, siamo stati introdotti. Momensta che consente di ricordare che al di là di ti fondamentali di tale crescita sono stati quelle invalicabili e sorvegliate mura ci sia la l’incontro, presso la nostra Università, con la quotidianità del mondo altro. Dottoressa Mussio, intraprendente e sensibile esperta delle carceri italiane che, accettan- Il primo momento in cui ci siamo scontrati do l’invito della Professoressa, ci ha presenta- con la durezza della realtà carceraria è stato to un’immagine di quell’universo con il quale l’ingresso in una cella. Come dei vicini di e’ quotidianamente a contatto, e la nostra casa ospitali, sei detenuti hanno acconsentito visita alla casa circondariale consentitaci gra- a che degli estranei scrutassero nella loro zie alla disponibilità sua e dei suoi collabora- intimità. Tra il profumo di caffè, poster di idoli e foto di una vita “fuori” abbiamo percetori. pito come una riproduzione, seppur in miniaDalle parole della Dott.essa Mussio si è pertura, del calore di casa, sia in grado di mitigacepito immediatamente quanto sincera sia la re il distacco e la nostalgia. In 16 mq di consua voglia di realizzare quella funzione rieduvivenza forzata, abitudini differenti entrano cativa che, a norma della Costituzione, dospesso in contrasto. Problemi che, nella vita vrebbe essere tipica e centrale in un percorso fuori, sono solitamente inesistenti, possono detentivo. Avendo tastato con mano realtà diventare causa di aspri litigi e situazioni difficarcerarie differenti per concentrazione di cilmente sostenibili. Mondi diversi si incondetenuti, tipologia di reati commessi dagli trano e scontrano: chi ama leggere fino a stessi e collocazione geografica, sta tentando tardi e chi andare a letto presto, chi preferifaticosamente di offrire, ai detenuti del carsce il silenzio all’assordante rumore di una cere di Lodi, un modus vivendi più idoneo radio, chi trova consolazione in una sigaretta allo scopo prefissatosi. Nella realtà di Lodi, e chi invece quell’odore non l’ha mai potuto che ospita un centinaio di detenuti, questa sopportare, chi si lava e chi non si lava altretoperazione e’ facilitata dalla possibilità per la tanto spesso, chi ha un odore di sudore acre e Direttrice di essere materialmente presente penetrante e chi profuma di dopobarba, chi per tutti, diversamente che altrove, in altre piange stringendo fra le mani la foto di una realtà, dove un colloquio con il direttore piccola bimba sorridente e chi una figlia non puo’ avvenire anche a distanza di mesi dalla l’ha mai avuta, chi trova conforto nel crocipresentazione della richiesta. Braccio della Cicatrice sul viso, vistoso tatuaggio sul braccio e sguardo bieco. Questa la foto che di solito l’immaginario collettivo associa al carcerato. Ma è sempre questa la realtà? di Giulia Cagnazzo e Fiammetta Piazza Marinetti, invece, no “Dopo cent’anni Milano si è ricordata del futurismo: le celebrazioni dell’anno scorso e il Museo del Novecento di imminente apertura, con la sua nutrita sezione di opere futuriste. Certo, i musei non erano per nulla simpatici ai futuristi, ma ormai non sono più quei luoghi d’élite che dicevano di voler distruggere: “Sputare sull’altare dell’arte” per dare a tutti “la possibilità di pensare, creare, svegliare, innovare”. Marinetti però, il fondatore del movimento, dirà: “Il futurismo non è che l'elogio, o se si vuole, l'esaltazione dell'originalità e della personalità. Noi non bruceremo nessuna biblioteca, né inonderemo i musei”. E il futurismo era proprio quello, un’accesa provocazione che voleva risvegliare l’Italia dal suo amore per l’arte languida e romantica, una sfida dell’uomo alla morale assennata, per riappropriarsi delle sue potenzialità e combattere “l’orrore del nuovo, il disprezzo della gioventù”, rifiutando la serietà, il romanticismo e la nostalgia, considerate come deformazioni della realtà, limiti all’esplosione del suo genio creatore. Dissero, provocatoriamente, di voler esaltare “il disprezzo per la donna”, intesa come simbolo dell’amore tradizionale, molle e romantico: questo, infatti, stereotipa la donna in una condizione di inferiorità e le impedisce di abbracciare il mondo moderno, nel quale volevano introdurre il diritto di voto e la parità assoluta fra i sessi. Un movimento rivoluzionario e democratico che ha dato inizio a tutta l’arte moderna, ma che per tanto tempo ha avuto su di sé una lunga ombra: solo dopo cent’anni, infatti, Milano si è ricordata di esserne stata il cuore pulsante. Ciò per la diffusa difficoltà di afferrare il senso delle provocazioni futuriste e soprattutto per colpa della vicinanza di Marinetti a Mussolini. Tanti uomini di cultura sono stati fascisti e poi sono stati riabilitati; Marinetti, invece, no. Siamo STANLEY KUBRICK di Maurizio Chisu un paese strano, non c’è dubbio: abbiamo avuto un Fanfani che firmò le leggi razziali e neanche dieci anni dopo fu autore del primo articolo della costituzione, dove si dice che siamo una democrazia, però definiamo mussoliniano un Marinetti che, seppur fascista di vecchia data, contro quelle leggi razziali fece una campagna su radio e giornali. Se per quella campagna fosse stato ucciso, oggi sarebbe un martire dell’antifascismo e il futurismo avrebbe un ruolo di rilievo nei nostri programmi scolastici. Ma Marinetti era simpatico a Mussolini, e non gli fu fatto niente. Ciò che gli mancò, dopo vent’anni di regime e davanti all’imminente rovina dell’Italia, fu la volontà di rinnegare tutto e di condannare il duce per come aveva ridotto il Paese: seguì infatti Mussolini fino a Salò, dove fu uno dei pochi confidenti rimastogli. Anche alla fine ebbe sfortuna: se fosse sopravvissuto al 25 aprile avrebbe potuto redimersi come tanti altri, invece morì 5 mesi prima, e per tutti rimase solo un fascista, con tutte le conseguenze che ciò ha implicato per il suo movimento. Oggi ormai il futurismo è riabilitato, ma sono ancora tanti quello che lo vedono di cattivo occhio: è il nostro vizio di giudicare tutti secondo la parte politica a cui appartengono. Eppure Marinetti ha speso la sua vita per far sì che chiunque potesse liberarsi dalle convenzioni e dalle gerarchie, ha imposto il gioco spensierato contro la pedanteria accademica, ha esaltato la violenza distruttiva come punto di partenza per costruire un nuovo modo di pensare all’arte, che non deve più immortalare la realtà, ma eternarne il movimento che noi le imprimiamo, e ha agito per far sì che ogni giovane potesse essere libero di progettare il suo proprio modo di agire nel mondo: se poi è stato anche fascista, a chi importa? Dall’obbiettivo fotografico allo scatto al cinema Pochi sanno che il talento di Stanley Kubrick ha preso le mosse dall’obiettivo di una macchina fotografica, il suo primo amore. La mostra in corso al Palazzo della Ragione di Milano, curata dal critico d’arte Rainer F. Crone, per la prima volta getta luce su questo aspetto del celebre cineasta, attraverso una retrospettiva di oltre 200 fotografie, scattate da Kubrick con la macchina fotografica regalatagli dal padre per il suo sedicesimo compleanno. Il giovane è già promettente, al punto da essere ingaggiato appena un anno dopo dalla rivista “Look”. Le sue foto sono dei “veri e propri racconti fotografici, altrettanto affascinanti come quelli che avrebbe realizzato più tardi con le immagini in movimento”, per dirla con il curatore Crone. Paradigmatiche in tal senso sono la photo story del 1949 sul Paddy Wagon (considerato ilo veicolo più sicuro per trasportare i prigionieri) e la “favola del lustrascarpe” (1947), ossia il dodicenne Mickey, costretto a svolgere il mestiere dopo la scuola per aiutare la famiglia a sostentarsi: entrambe le raccolte sembrano sequenze di un cortometraggio. L’attenzione alla fotografia emergerà in seguito nei film di Kubrick, mediante l’attenzione alla luce, ai contrasti e alla prospettiva (si pensi in particolare ai lunghi corridoi rossi di “Shining” e di “Eyes wide shut”). Attenzione e riflessione erano già presenti in nuce nel Kubrick fotografo: è ancora Crone a notare che le sue foto costruite dimostrano una riflessione prima della realizzazione, superando così il limite del punto di vista offerto dell’unico punto di vista e obiettivo del fotografo. Ciò non deve essere confuso però con il mero estetismo e con la ricerca della perfezione formale: in una delle sue rare interviste, il cineasta ha confessato che a suo parere “un’ambiguità credibile costituisce la migliore forma di espressione”, giacché “nessuno sa veramente cosa sia reale e cosa stia davvero accadendo”. Lo studio delle inquadrature e delle pose è evidente in ogni foto di Kubrick, in particolare in quelle dedicate alla debuttante Betsy von Furstemberg, ballerina prodigio a 7 anni e attrice a soli 18. La concentrazione e la riflessione del fotografo paiono conformarsi ai precetti del mostro sacro della fotografia H. Cartier-Bresson, il quale afferma che “per dare significato al mondo, bisogna farsi coinvolgere dalla scena, mantenere concentrazione, disciplina e sensibilità”. Attributi delle foto scattate dal giovane Kubrick nel 1948 a Nazare, antico villaggio portoghese di pescatori, da cui si evincono chiaramente: in primis l’attaccamento quasi simbiotico della di Valentina Magri comunità locale al mare, luogo di lavoro, riposo in compagnia o semplicemente di soliloquio; in secondo luogo le tradizioni e i riti della passeggiata in centro e del caffè in piazza. Lo stesso coinvolgimento nella scena denota la serie di fotografie dedicate al circo, da sempre topos che ha affascinato numerosi artisti (da Seurat a Picasso, da Ungaretti a Fellini, giusto per citare i più noti). Kubrick coinvolge lo spettatore nelle scene del circo solitamente nascoste: il dietro le quinte, nei quali la macchina circense seguita a dare spettacolo con gli allenamenti degli acrobati e l’addestramento degli animali. Coinvolgimento nella scena e pose studiate sono infine la cifra della serie di fotografie in prestigiosi atenei americani, quali l’Università del Michigan e la Columbia University, dove pure sono rappresentate le attività quotidiane dell’ambiente universitario: esperimenti, teatro, momenti di studio in biblioteca, incontri tra sportivi e tra studenti (che per gli universitari di oggi sarà divertente confrontare con la loro esperienza negli Atenei odierni). Alla luce di ciò, chi potrebbe stupirsi ora di una carriera di Stanley Kubrick partita da un obiettivo fotografico per concludersi con uno scatto nel mondo del cinema? Indubbiamente lo scatto più lungo che la storia della fotografia ricordi. Il processo nella realtà cinematografica Che giustizia è questa? Il mondo giuridico nella sua variante processuale è stato da sempre oggetto di interesse per il mondo del cinema. Mi viene subito in mente il capolavoro cinematografico di Orson Welles: il “Processo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Kafka. La trama è molto semplice: Joseph K, un impiegato che conduce una vita tranquilla, una mattina viene svegliato da degli agenti di polizia che gli proclamano lo stato di arresto. Fino a qui sembra tutto normale, nulla di strano sennonché gli agenti oltre a non avere un mandato, non riferiscono neanche i motivi dell’arresto; si limitano solo a prendere appunti su un taccuino, fraintendendo in una maniera quasi esilarante, ciò che dice J K, il quale tra l’altro non viene neanche arrestato: gli viene detto che può continuare tranquillamente a condurre la sua vita, ma che deve presentarsi davanti alla corte suprema, la cui sede è sconosciuta come la data e l’ora in cui deve presentarsi. Dopo varie peripezie, il nostro protagonista riesce a raggiungere la corte, dove salendo su un tavolo pronuncia un discorso nel quale accusa tutti i giudici di ordire un complotto contro le persone comuni, arrestate casualmente senza nessuna prova. La fantomatica corte è piena di persone che sembrano essere senza volto, il registra ce le mostra tutte insieme, in un’immagine che ricorda vagamente il purgatorio dantesco, dove si è in attesa di procedere verso uno stadio successivo. Si tratta di persone stanche, in attesa da anni di sentenza. Esse sembrano rassegnate al decorso interminabile del loro processo, anche a causa di una realtà corrotta. L’unico modo per procedere sembra quello di avere delle conoscenze particolari ai gradi superiori. Alla fine il protagonista viene condotto in una brughiera da due funzionari che hanno il compito di giustiziarlo con della dinamite; tuttavia K riesce a prendere la bomba e a lanciarla contro di loro; ma Welles non ci fa capire di preciso chi muore. Personalmente, credo che il fungo di fumo scaturito dall’esplosione stia proprio a rappresentare la morte della giustizia, fra l’altro rappresentata in un modo inquietante. Non si sa chi sono i giudici, che ruolo ricoprono. Le uniche persone che sembrano conoscerli o meglio riconoscerli fisicamente, sono un pittore pazzo e scellerato che è costretto, per assecondare la loro brama di potere, a dipingerli in una maniera che si discosta dal vero e delle donne che dovrebbero essere delle collaboratrici, ma in realtà sono usate per assecondare i loro piaceri sessuali. Il codice con il quale si viene giudicati, quello che dovrebbe essere l’emblema della giustizia, è sudicio pieno di polvere con all’interno delle immagini osé, quasi a rappresentare il fatto che è un mezzo inutile. Altro film emblematico è “La parola ai giurati”. Si apre con un giudice che riassume il caso e dà le ultime istruzioni a 12 giurati, i quali dovranno riunirsi per decidere sulla colpevolezza o meno di un giovane ragazzo ispanico accusato di parricidio, il quale in caso di verdetto unanime di colpevolezza verrà condannato alla sedia elettrica. I 12 riuniti effettuano una prima votazione a dir poco frettolosa. La maggior parte di loro erano interessati a tutto tranne che alla causa. Solo uno, il giurato numero 8 vota NOT GUILTY, ma non perché sia convinto dell’innocenza del ragazzo, ma per stimolare una discussione più accurata essendosi accorto della superficialità con cui gli altri giurati avevano deciso di gestire la di Giada Giardiello causa. In un primo momento gli altri giurati sono infastiditi dal non raggiungimento dell’unanimità, visto che avevano tutti fretta di risolvere il caso per andare a casa o per vedere una partita, e così inziano ad innervosirsi, tant’è vero che il titolo originale del film non è “La parola ai giurati” ma bensì “Twelve angry men”. Man mano che le votazioni procedono, emergono anche aspetti sociali dei giurati; e si scopre inoltre che l’avvocato d’ufficio, al quale era stata affidata la causa, ha gestito la difesa in maniera superficiale, tralasciando particolari che, analizzati in una maniera più dettagliata, avrebbero dimostrato l’innocenza del ragazzo. Ad esempio l’arma del delitto, un coltello che era facilmente acquistabile in un negozio di periferia, si scopre che non sarebbe mai potuto essere stato usato dal ragazzo contro l’uomo, a causa dell’altezza della ferita. Altro elemento riguarda i testimoni oculari che sono: un vecchio che zoppica e una donna miope, quindi uno non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere dalla sua stanza la casa dell’uomo con una velocità tale da vedere l’assassino e l’altra non avrebbe mai potuto vedere dal suo balcone in piena notte il volto dell’assassino. Alla 6 ed ultima votazione tutti i giurati votano NOT GUILTY e lasciano la stanza. In entrambi i film è possibile riscontrare che tutti i principi a tutela dell’imputato che vengono enunciati dalle costituzioni moderne dalla rivoluzione francese in poi e, che dopo la seconda guerra mondiale verranno proclamati dalle carte internazionali (come la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e la CEDU), vengono totalmente disattesi facendo così prevalere una realtà giuridica che non dovrebbe corrispondere alla realtà dei fatti. Si dovrebbe essere valutati secondo un equo e giusto processo, conoscendo i motivi di accusa, le prove a proprio carico e discarico, con l’eventuale possibilità di essere assistiti, in caso di indigenza, da un avvocato d’ufficio che non dovrebbe svolgere il suo compito con superficialità. Ovviamente la giustizia può commettere degli errori, visto che viene esercitata da esseri umani e come tale non infallibili. L’altro elemento emergente è riferito alla pena di morte: ma si può in un ordinamento democratico come quello degli USA affidare ad un gruppo di giurati, la condanna a morte di un imputato? Non si rischia di arrivare ad un giudizio sommario e parziale, dove ogni giurato introduce valutazioni e pensieri personali al limite del pregiudizi come razzismo, conflitto generazionale, superficialità e indifferenza? Vi presento Mr. I. di Giorgia Rauso Vita, morte e miracoli… nonché interessi... [traileoni] 10 Nummus nummum parere non potest, il denaro non può generare denaro: traduzione latina della massima Aristotelica del IVsecolo a.C. Niente da contestare, a meno che non vi abbiano recentemente reclutato ad Hogwarts o che possiate vantare, tra i vostri amici su Facebook, Mago Merlino o il Gatto e la Volpe. Anche in quest’ultimo caso è però doveroso svelarvi un segreto: i soldi non sono (mai) cresciuti sugli alberi!! Rinnovando l’invito a diffidare di chiunque calzi un appuntito cappello, let us introduce Mr. I. Dato che con le postille abbiamo già iniziato a prenderci la mano potremmo notare come oggi usura ed interesse in realtà differiscano per ragioni meramente quantitative. Nel gioco delle differenze dovremmo tuttavia muovere ulteriori contestazioni in forza del fatto che all’operazione sia sottesa o meno un’attività di produzionetrasformazione di beni in grado di dare luogo, indipendentemente, ad interessi. Dalla necessità di sottendere un’attività reale si assistette, nel corso del XV secolo, alla nascita dei cosiddetti “Monti di Pietà”: istituti di credito al consumo formalmente volti a tutelare gli strati più deboli della società ed a permettere a chiunque di disporre di moneta in maniera etica e legittima dietro pegno. Gli interessi richiesti per lo scambio valore-liquidità erano facilmente imputati ai cosi di L'Interesse è la somma dovuta come compenso per ottenere la disponibilità di un capitale, solitamente sotto forma di denaro, per un certo periodo: un modo per moltiplicare i soldi alternativo alla rapina in banca o all’aprire una stamperia in proprio. La logica è ferrea [da Castagnoli-CigolaPeccati]: rinuncio oggi ad un dato ammontare dietro il pagamento, domani, del medesimo maggiorato di un tot - l’Interesse che vada a ricompensare congruamente la rinuncia temporanea allo gestione del monte stesso. stesso, il suo costo-opportunità ed il rischio di eventuale insolvenza Al di là di tutte le proibizioni civili il prestito a interesse divenne del debitore. sempre più un elemento insostituibile della vita economica; prova ne Ma la logica è una scienza, indi non pensiate che sia stata così semsono le grandi società di capitali fiorentine, genovesi e senesi che prepre e ovunque! Mr. I vanta numerosi nemici, anche ai piani alti: tra starono fondi in cambio di interessi o appalti alle neo-nate compagnie questi ricordiamo Platone, Aristotele, Catone, Cicerone, Plutarco, mercantili, oltre che alle corone di mezza Europa. Il concetto di utiliSan Tommaso d’Aquino e Karl Marx. Anche nell’antica Grecia, ove tà sociale della mercatura unito all’idea di equa remunerazione del la società aveva tradizionalmente ben accettato fenomeni quali la proprestito in un’ottica di giusto prezzo, cambio e sconto contribuirono prietà privata, il commercio e l’uso della moneta, Aristotele, con sua a togliere dal banco degli imputati il nostro Mr. I.; alla sua riabilitaEtica Nicomachea, si trovava ad argomentare come la ricchezza possa zione sociale pensarono il divenire delle cose, sotto forma di scismi e e debba nascere unicamente dal lavoro umano e dal suo intelletto. E rivoluzioni, e soprattutto il passare del tempo. notare come questo sia solo il giudizio di un uomo. Non sono mancati tentativi, anche contemporanei, di realizzare Le tre grandi religioni del Libro trattano la disciplina dell’interesse, banche che possano sopravvivere pur senza fare uso di interessi sui identificato con l’usura, nel Deuteronomio, ove si vieta espressamenprestiti e sui depositi, per motivazioni di natura etico-religiosa ma te di ottenere tramite l’attività di prestito remunerato un qualunque non solo.Un modello finanziario laico, e comunque interest-free, è tipo di tornaconto dai propri Fratelli. Da questo precetto nasce uno quello proposto da una banca cooperativa svedese, “JAK”, nella lingua dei cardini della fratellanza di sangue tipica ebraica: viene istituita la locale acronimo di “Terra, Lavoro e Capitale”; questo istituto mira a solidarietà tra i membri del clan e l’esclusione del nokri (lo straniero) ridimensionare il concetto di interesse speculativo riagganciandosi ai dai privilegi e dagli obblighi della comunità. E' proibito dunque di principi base dell’economia reale ed andando a creare un microfatto all’ebreo ottenere qualunque neshek (interesse) dal proprio framercato dei soci estraneo alle logiche usuali del Mercato vero e protello, ma egli è assolutamente libero di portare a termine l’affare nei prio.Una sorta di “club del baratto” con 3.500 partecipanti, e dove si confronti del nokri. scambiano non figurine ma centoni. Cosa non ci si inventa quando la Anche la Chiesa Cattolica si premurò, nel secondo Concilio di Lio- siccità arriva a colpire anche la ricca flora del Campo dei Miracoli?! ne (1274), di rinnovare la sua condanna verso chiunque riscuotesse Con buona pace dei vostri amici/consulenti citati all’inizio. interessi su prestiti: non era di fatto accettata dai teologi dell’epoca la Prescindendo da logiche opportunistiche naturalmente insite nel giustificazione di tale pratica come “vendita di denaro con pagamento patrimonio genetico di quella graziosa scimmietta munita di pollice differito” essendo la risorsa tempo un dono di Dio, indi un bene coopponibile e detta Uomo, non è giusto (né, diciamocelo francamenmune dal quale nessuno aveva il potere di trarre particolari benefici. te, possibile) criminalizzare il denaro. La moneta è una merce come Risultato? Un biglietto di sola andata per il girone dei violenti contro un’altra, non puzza, non più di petrolio, tabacco o del grasso di panDio e contro natura ed una breve constatazione di carattere microcetta fritto: proprio in quanto tale il verdone ha un prezzo al quale è economico: se il mercato è sufficientemente grande perchè chiunque stato dato il folkloristico nome di interesse. voglia e sia in grado di comprare possa incontrare chi è ben disposto a vendere, posta la clausola di mancata stretta parentela, il gioco è fat- Non da poco, Mr. I! to!! ORSI E TORI? MEGLIO I CAMMELLI lla e d LO O G N l’ A A Z N A FIN Excursus semiserio sulla finanza islamica di Kim Salvadori Immaginate di dover percorrere (in auto, moto, bici) il tragitto dal punto A al punto B; sapete che esiste una strada, ma l’accesso è vietato. Che fate? Se vi stanno a cuore i punti sulla patente, cercate un percorso alternativo, anche più tortuoso, che riesca comunque a portarvi alla meta.Ebbene, questo è il problema che cerca di risolvere la finanza halal, o finanza islamica: nient’altro che pensiero laterale applicato all’ingegneria finanziaria. La finanza islamica nasce, in sordina, nel 1963, con la Mit Ghamr Savings Bank, fondata dall’economista Ahmadal-Najjar; il risalto mediatico si avrà solo nel 1975, quando, per iniziativa dei Ministri delle Finanze di alcuni paesi arabi, riuniti nell’Organization of the Islamic Conference, viene fondata l’Islamic Development Bank. Questa alternativa alla finanza tradizionale si basa sull’interpretazione dei precetti del Corano per stabilire quali operazioni sono “halal” (permesse) e quali “haram” (proibite). Investimenti “haram” sono quelli che hanno a che fare con aziende la cui attività va contro i princìpi coranici, quali gioco d’azzardo e produzione di tabacco, armi, alcool o carne suina. Scordatevi Campari e Philip Morris, insomma: Bacco, Tabacco e Venere rimangono nemici dell’Islam anche sul piano finanziario. I pilastri della finanza islamica sono pochi ma potenti: insieme smontano gran parte del meccanismo su cui ruota la finanza occidentale, a partire dal divieto di chiedere interessi (riba) sui prestiti. I giureconsulti islamici considerano infatti “riba” non solo la pratica dell’usura, ma ogni applicazione di tassi d’interesse fissi e predeterminati su depositi, investimenti e prestiti. Il passaggio di denaro da una mano all’altra non può generare ritorni, ma creditore e debitore devono condividere utili e perdite. Sono inoltre proibite tutte le operazioni finanziarie caratterizzate da “gharar”, incertezza (perché le accomunerebbe a scommesse, cioè a gioco d’azzardo, vietato dalla Shari’a), e “maysir”, speculazione. Infine vige l’obbligo di appoggiare tutte le transazioni finanziarie su un attivo reale. Guai a chi non rispetta queste norme: ogni banca è dotata del proprio “Shari’a board”, un organo composto da esperti di legge islamica, che vigilano sulle attività dell’istituzione e necertificano la conformità ai princìpi del Corano. E per la raccolta fondi? Le opzioni sono due: conti correnti senza remunerazione (wadiah), o conti d’investimento, in cui il depositante non ha protezione sul valore nominale del deposito (leggasi: “sai per certo quanti soldi metti, ma non quanti ne recuperi”), ma riceve un’eventuale remunerazione, partecipando ai guadagni della banca e ai progetti che essa seleziona. In questo senso, il depositante è più simile ad un investitore in un fondo comune: non ha diritto di voto e rischia in prima persona il capitale prestato. Le banche islamiche richiedono quindi una maggiore cura nella gestione, rispetto alle “colleghe” tradizionali. In primo luogo, il divieto di corrispondere e richiedere interessi le taglia sostanzialmente fuori dal circuito dei prestiti interbancari, e ciò causa non pochi problemi di liquidità. Inoltre, la bassa leva operativa e l’assenza di “titoli tossici” è controbilanciata da una forte esposizione al rischio immobiliare, come ha evidenziato la crisi della Dubai World Investment Company, nel novembre scorso, che ha colpito le banche islamiche più del fallimento di Lehman Brothers. Poiché esse privilegiano investimenti in attività produttive concrete, devono saper valutare bene i rischi connessi agli specifici progetti e mantenere adeguate riserve di moneta per quelli ad alto rischio. Qui qualche “addetto ai lavori” potrebbe rammaricarsi del fatto che la Shari’a vieti le transazioni finanziarie non basate su un attivo reale, dato che i derivati sono noti per essere ottimi strumenti di copertura del rischio. Se solo non fossero “haram”… …e invece qualcosa, nel mondo islamico, si sta muovendo verso un’evoluzione del sistema finanziario. L’International Swaps and Derivatives Association (ISDA), associazione attiva nella standardizzazione dei contratti sul mercato dei derivati, ha recentemente approvato un accordo per la standardizzazione di strumenti in linea coi precetti della Shari’a (l’ingegneria finanziaria permette di partire da contratti “halal”, come i wa’ad, una sorta di promessa unilaterale, e i muràbaha, e poi usarli –un po’ come dei mattoncini Lego – per strutturare strumenti più complessi). Il mercato della finanza islamica, secondo Il Sole 24 Ore, è stimato attorno ai 900 milioni di dollari, e ha tassi di crescita tali da poter rappresentare in futuro una sfida per la finanza tradizionale. Alì Babà meets Gordon Gekko, insomma. Speriamo solo di non dover avere a che fare anche coi quaranta ladroni. K. S. [traileoni] 11 A qualsiasi banchiere “tradizionale” sarebbe già preso un colpo. Se le banche funzionano indebitandosi a breve e prestando a lungo, come è possibile che non chiedano interessi? Un’istituzione che presta denaro gratis fallirebbe in men che non si dica. La risposta è semplice, basta inventare strumenti alternativi per arrivare allo stesso risultato, come il muràbaha. Prendiamo un mutuo immobiliare: nella situazione tradizionale la banca presta una somma di denaro al richiedente, e periodicamente egli versa un importo che comprende una quota di rimborso del capitale e una di interessi. Nel muràbaha, invece, la banca compra l’immobile e lo rivende all’acquirente con un sovrapprezzo stabilito. Questi rimborsa la banca dell’acquisto mediante pagamenti rateali, usufruendo intanto del bene. Al termine dei pagamenti egli diventa proprietario dell’immobile. Una pratica meno utilizzata è quella del mudhàrabah, fondata sulla condivisione di una quota di profitti e perdite tra debitore e creditore, in una sorta di venture capital ante litteram: la banca si assume il rischio di perdite se il progetto va male, il richiedente rischia di lavorare senza guadagni, ma non di affogare tra i debiti. Edito da: “Università Commerciale Luigi Bocconi” Registrazione n. 428 del 10.07.2001 del Tribunale di Milano Direttore Responsabile Barbara Orlando Direttore Editoriale Alessandro Ancora Vice Direttore Editoriale Filippo Maria D’Arcangelo La Redazione Margherita Caccetta, Giulia Cagnazzo, Maurizio Chisu, Carlo De Stefano, Andrea Di Miceli, Gabriele Erba, Pietro Fazzini, Giacomo Ficari, Livia Fraccalvieri, Ludovica Gazzè, Giada Giardiello, Valentina Magri, Gabriele Marzorati, Fiammetta Piazza, Giorgia Rauso, Kim Salvadori, Roberto Sormani. E mail [email protected] Vignette Emilio Lo Giudice Stampa Ruben Gaetani “Manifesto della Destra Divina” di Camillo Langone 31 Non l’ho letto, non leggetelo, sognate. L’ha scritto uno che ha veramente capito tutto. O patetica triste destra moderna! Ad Augusto Romano (tra gli altri) il Premio Puglia dedicato a Francesco Attanasi. È il number one salentino della Meltin’ Pot. Qualche anno fa lo intervistammo proprio noi. Tipo simpatico. Fantastico il Niki Vendola che parte per la tangente sul rapporto cibo cultura. Plaude l’aula magna. EMMEC2