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BORGES E LA CABBALA
VIAGGIO INTORNO A LE ROVINE CIRCOLARI
Premessa...............................................................................................3
PARTE PRIMA........................................................................................5
I) Borges e la cultura ebraica ...............................................................6
1) Le fonti di conoscenza dell’ebraismo espressamente dichiarate da J.L.
Borges.................................................................................................. 6
2) Linee e prospettive......................................................................... 12
3) Testi considerati............................................................................ 18
II) I temi della mistica ebraica trattati nei “saggi” di Borges............
23
1) Premessa......................................................................................
23
2) La conferenza di Borges al Teatro Coliseum..................................
26
3) “Una rivendicazione della cabala”................................................
33
4) La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki .......
55
III) Il golem.....................................................................................
64
1) La leggenda .................................................................................. 64
2) Un altro modo di sognare.............................................................. 70
PARTE SECONDA ............................................................................... 85
IV) La creazione nella letteratura fantastica di Borges:
Le rovine circolari............................................................................. . 86
1) L’epigrafe...................................................................................... 86
2) L’incipit......................................................................................... 92
3) Lo scenario mistico...................................................................... 104
4) Lo scacco e il nuovo modo di sognare.......................................... 122
5) La creazione................................................................................. 149
6) La fine del sogno.......................................................................... 164
6.1) Premessa.................................................................................. 164
6.2)La circolarità............................................................................. 166
6.3) Dio e l’uomo.............................................................................. 174
1
6.4) Come un’ombra.........................................................................184
V) Considerazioni conclusive............................................................189
1) L’eternità in una passeggiata e in una madeleine........................ 189
2) Una delle conclusioni possibili..................................................... 197
3) Il percorso compiuto............................. ......................................212
BIBLIOGRAFIA................................................................................. 231
2
PREMESSA
Il lavoro, diviso in due parti, si apre con una sezione introduttiva, che tratta nelle linee
generali alcuni temi condivisi dalla mistica ebraica e da Borges.
Seguono il racconto di alcuni “saggi”1 borgesiani e un cenno a relazioni interviste conferenze,
in cui è la Cabbala al proscenio.
L’apparato informativo, che non ambisce alla completezza ed è frequentemente relegato in
nota, è corredato in questa fase da una ricerca su possibili punti d’intersezione, ma
soprattutto di rottura, fra l’opera dello scrittore argentino e il pensiero di Scholem conosciuto ma forse frainteso da Borges. Non si omette il contributo di Idel, utilizzato in
chiave ermeneutica. Neppure si trascura l’influenza di fonti estranee alla mistica; un capitolo
è dedicato al romanzo di Meyrink, Il golem, singolare ricamo di tradizionali temi ebraici
lavorato in un tessuto narrativo onirico.
Molto spazio (il quarto capitolo della seconda sezione) è riservato alla “contaminazione”, di
cui Borges è responsabile, tra mondo sefirotico, così intimamente legato al manifestarsi della
divinità creatrice e alla relazione tra microcosmo e macrocosmo nella Cabbala teoretica, e
funzione cosmogonica del sogno, tema prevalentemente debitore di altre influenze culturali:
proprio il gioco onirico di Dio, non diverso dal sonno che produce i mondi immaginari degli
uomini, causa l’involontaria emanazione delle Sephiròt.
Questa peculiare, e per certi aspetti arbitraria, impostazione del problema delle origini e della
creazione da parte di Borges, ha stimolato, nel secondo capitolo della terza sezione, un’ampia
divagazione, che non aspira all’approfondimento, sull’ambiguità del sogno, sulle sue funzioni
nella produzione letteraria, sui suoi rapporti con la cosiddetta realtà della veglia; non si è
persa di vista peraltro la dimensione mistica che connota il canale onirico nella Cabbala.
Digressione solo apparente, tuttavia, perché la seconda, più ampia parte del lavoro,
preparata dalla prima, sviluppa l’analisi testuale del racconto borgesiano Le rovine circolari.
In uno scenario onirico, che nel finale sprofonda in una circolarità abissale, la narrazione
sviluppa, lasciando aperto l’interrogativo sull’Origine, il tema della creazione dell’uomo,
dissimulato da ripetuti richiami alla leggenda del golem.
1
L’allusione a generi letterari con riferimento a Borges è sempre un arbitrario azzardo, ovviamente.
3
L’interpretazione, dilatando la vicenda in peripezia, asseconda soprattutto il processo di
trasformazione e mitizzazione del personaggio, e anche sul piano della forma allude alla
reiterazione delle esperienze del protagonista, cifra simbolica universale di uno sforzo
perennemente frustrato, al quale forse non può sottrarsi neppure la divinità, infelicemente
emulata.
La sezione conclusiva raccoglie gli spunti di volta in volta emersi, per ricondurre a unità, se
possibile, l’itinerario percorso.
In particolare, è compiuto il tentativo di cogliere, aldilà degli ovvi influssi culturali, l’esistenza
di una possibile, e forse mai indagata, dimensione mistica nel rapporto fra Borges ed
ebraismo.
Essa in effetti potrebbe profilarsi su due piani.
Nel racconto, il comune angoscioso destino del creatore e della creatura, che consistono della
stessa stoffa onirica, se si attribuisce natura divina alla figura del protagonista interpretazione forse possibile - sembra accorciare le distanze tra uomo e Divinità,
favorendone un rapporto più intenso, percepibile anche alla luce dell’opposta prospettiva
ermeneutica fondata sull’indebolimento dell’onnipotenza del Demiurgo.
Altri testi borgesiani, inoltre, misurandosi con una possibile rappresentazione immaginaria
dell’Eternità, ispirata dall’evocazione di oggetti essenziali, alludono a momenti estatici, in cui
l’esperienza mistica, pur fugace, sembra in definitiva capace di dissolvere l’inquietudine
temporale con l’atto della produzione letteraria. L’obiettivo pare tuttavia raggiungibile solo
rinunciando al racconto dell’origine o della creazione, riservato alla Torah, per ripiegare su
esiti forse meno ambiziosi, ma radicati in una quotidianità più feconda.
Si conclude quindi senza rinnegare il contesto onirico nel quale il racconto si snoda, ma
rivalutandone, per così dire il senso: liberandolo, cioè, dal terrore che può associarsi a
un’illusorietà umiliante, per esaltarne invece il contenuto di esperienza condivisa attraverso il
mito e la creazione letteraria, in modo da allontanare, di tanto in tanto, il pesante sospetto di
una solitudine altrimenti insostenibile.
4
Parte Prima
5
BORGES E LA CULTURA EBRAICA
1)
Le fonti di conoscenza dell’ebraismo espressamente dichiarate da J.L.
Borges
Anche una tesi è un racconto e pretende un incipit.
Ciò obbliga a una scelta fra tutti gli inizi possibili, da sacrificare al vincitore.
I più soccombono a loro insaputa; neppure entrano in gioco e probabilmente sono i migliori.
Fiumi carsici smarriti nell’ipogeo dell’inconscio, forse meritevoli di sorte più felice.
Purtroppo nel mio caso si è formata di getto una frase poco attraente, che in seguito non si
è mai modificata:
“L’opera di Jorge Luis Borges prodiga sia estrema varietà, sia, all’opposto, insistite
reiterazioni animate da affabulazioni labirintiche e speculari 2”.
E’ un inizio imbarazzato e pretenzioso, che, nell’aspirare alla sintesi, suona paradossalmente
ridondante.
Come ogni rilettura mi suggerisce, in un lontano passato–futuro questo massiccio incipit era
e sarà diverso.
Rimpiango di non avere scritto, per esempio:
“L’opera di Borges è varietà e ripetizione. Favoleggia di specchi labirinti spade e del luogo
che li contiene tutti quanti, l’accecante Aleph.”
2
In realtà l’orrore dei labirintici abissi ipotattici non accenna ad avere fine. Al di qua di questo lavoro, prima che ne
immaginassi l’origine, si era formato un periodo addirittura devastante, che voglio rammentare per espiarlo e per dar
conto dei successivi modesti progressi: “L’opera di J.L. Borges, che prodiga sia estrema varietà, sia, inversamente,
insistite reiterazioni animate da affubalazioni speculari e combinatorie, si apre a innumerevoli chiavi interpretative,
vertiginosamente complicate dalla stessa ironica propensione dell’autore a spiegare ed eludere i suoi testi,
alternando, con propositi talvolta ludici, ancorché mascherati da nitido rigore, affermazioni seriamente fondate e
menzogne letterarie, create con il gioco paradossale delle false citazioni che lo ha reso celebre”. Il testo, che si presta
ad un’analisi del periodo davvero impervia, potrebbe destare il convinto interesse di studiosi di grammatica
generativa...
Sulle perdute opportunità di scrivere, o solo cominciare, in modo diverso questo lavoro, richiamo ovviamente Borges
(Things that might have been, in Storia della notte, da Tutte le opere, Vol. 2, Milano, 1985, 1083): “Penso alle cose
che potevano essere e non furono. / Il trattato di mitologia sassone che Beda non scrisse. / L’opera inconcepibile che
a Dante fu dato forse di intravvedere, / ormai corretto l’ultimo verso della Commedia. / La storia senza la sera della
Croce e la sera della Cicuta. / La storia senza il volto di Elena. / L’uomo senza gli occhi, che ci hanno donato la
luna. / Nelle tre giornate di Gettysburg la vittoria del Sud. / L’amore che non abbiamo condiviso. / Il dilatato impero
che i Vichinghi non vollero fondare / L’uccello favoloso d’Irlanda, che sta in due luoghi a un tempo. / Il figlio che non
ebbi”.
6
Fatico a immaginare esordio più disinvolto.
Tuttavia mi piacerebbe confermare l’altra, più laboriosa proposizione, assai contestabile, ma
ostinatamente incancellabile; forse mi è fedele perché, così si è soliti illudersi, la goffaggine
pare talvolta penetrata da un senso più profondo.
E’, infatti, come si è detto, una “sintesi ridondante”. L’inconcepibile ossimoro confessa una
contraddizione.
Ma è proprio “sotto la specie” del paradosso, peculiare all’opera di Borges e alla mistica
ebraica, che i due ambiti della mia indagine familiarizzano e s’incrociano.
Se la scrittura può valere non solo come mezzo di espressione e comunicazione, ma anche
come strumento di rappresentazione e come “figura” di un movimento di pensiero,
incidendo e scolpendo uno spazio della pietra-mondo3, allora attraverso il segno e lo stile mi
riprometto di “mimare”, in modo approssimativo e maldestro, le innumerevoli digressioni,
ramificazioni, parentesi, gerarchie, stratificazioni, che connotano la produzione letteraria di
Borges e alcuni aspetti della Cabbala.
Dunque, tornando all’incipit, l’opera del nostro autore prodiga varietà e ripetizione.
Innumerevoli sono le chiavi di interpretazione, vertiginosamente complicate dall’ironica
tendenza dello scrittore argentino a spiegare ed eludere i suoi testi, alternando, con
propositi talvolta ludici, benché mascherati da nitido rigore, affermazioni seriamente fondate
e menzogne letterarie, create con il gioco paradossale delle false citazioni che lo ha reso
celebre4.
3
E’ nota l’espressione foglio-mondo alla quale “ricorreva Peirce nella ricerca di una nuova scrittura che fosse
capace di mostrare, non i prodotti dell’inferenza logica, ma l’abito stesso che quei prodotti produceva. Nel mio senso
foglio-mondo sarebbe allora quel luogo di scrittura in cui il gesto filosofico non si cancella dietro i segni
dell’alfabeto, ma anzi si esibisce e si mostra, si manifesta e si rappresenta. (C. Sini, Filosofia e scrittura, Roma-Bari
1994, 121).
In questo lavoro le digressioni saranno forse colpevolmente numerose. Peraltro tale modo di procedere può essere
giustificato non solo dalle mie personali carenze, ma anche dalle considerazioni teoretiche, condivisibili,
sull’organizzazione del pensiero sistemico che tende a concepire il mondo come totalità organica includendo il
processo di conoscenza all’interno della descrizione fenomenica. Ciò può svelare l’illusorietà della linearità e
progressività del testo, propria del pensiero analitico, rideterminando la scrittura in modo più aderente alla organicità
non sempre sequenziale che intende rappresentare, in modo analogo all’ipertesto della rete web. (Cfr P. D’Alessandro,
Critica della ragione telematica, Milano 2002, 223).
4
Labirinti e specchi, con la complessa cifra simbolica che li connota, sono, come è risaputo sino al tedio, tra i luoghi
più ricorrenti del favoloso armamentario dell’opera borgesiana. Sono, d’altra parte, simboli pertinenti anche a uno
studio sulle interferenze tra i due ambiti, letterario e “mistico” (nella più vasta accezione che sarà precisata). Le
7
L’ebraismo5, non solo inteso come arsenale della sua officina letteraria, ma soprattutto, in
senso più profondo, come movimento di pensiero 6, asseconda questa tendenza di fondo.
Peraltro, nel valutare i rapporti fra la produzione di Borges e le correnti mistiche, è bene
essere consapevoli dell’accezione, ambigua e sfuggente, e del senso, spesso beffardo, che
connotano il lemma “fonte”7, quando lo si riferisce al nostro autore.
Lo scrittore argentino chiarisce, e anzi quasi ostenta, le scaturigini dei temi schiettamente
ebraici trattati nella sua opera, non nascondendo antica dimestichezza con la Bibbia 8 e
caratteristiche sommariamente qui evocate dello scrittore argentino, eccettuati ovviamente il taglio ironico e l’abito
scettico che talvolta animano i suoi lavori, sono peraltro già indicative di talune immediate analogie tra l’attività
letteraria del nostro autore e la Cabbala ebraica.
5
Termine volutamente generico, utilizzato per non entrare nel merito, almeno per ora, della complessa delimitazione
delle aree riservate alle correnti mistiche in senso stretto e alla esegesi squisitamente rabbinica. D’altra parte se
Cabbala è ricezione, tradizione, il commento esoterico della Bibbia che – secondo gli aderenti a tale dottrina –
sarebbe stato trasmesso da Dio a Mosè sul monte Sinai (cfr. Piccolo dizionario dell’ebraismo, a cura di P. Sola, con
presentazione di G. Laras e E. Bianchi, Milano, 1999, 30), non sembra arbitrario estenderne smisuratamente l’ambito,
senza preoccuparsi eccessivamente di “storicizzare” e contestualizzare concetti e nozioni che, come è noto, hanno
avuto lunghissima sedimentazione. Alleato nell’elaborare una definizione generica della Cabbala è anche C. Mopsik
(Cabala e i cabalisti, Roma, 2000, p.9): “Il termine “”cabala”” (dall’ebraico Qabbalah) indica, correntemente, il
complesso delle dottrine esoteriche del giudaismo o anche il misticismo giudaico nel suo insieme.”
6
Mi riferisco a tendenze, per così dire, strutturali, che avvicinano il pensiero di Borges alla mistica ebraica, non
appena si scenda in profondità abbandonando la superficie, talvolta sin troppo tersa e levigata, del divertimento
intellettuale.
7
La pseudoepigrafia, come è noto, è una delle varianti alle quali più frequentemente ricorre Borges: non per attribuire
il crisma del prestigio, dell’autenticità e dell’autorevolezza ai suoi scritti, come talvolta avviene tra i Cabbalisti
medievali, ma per creare un gioco di rimandi e di rifrazioni all’interno del tessuto narrativo, amplificandone gli effetti
fantastici e stranianti, nonché per attuare, a mio avviso, la smitizzazione del dogma della paternità dell’opera
letteraria, come si vedrà infra.
8
La nonna paterna di Borges, Fanny Haslam, di origine inglese, era solita leggere brani della Bibbia al piccolo Jorge.
Intervistato da Jaime Alazraki sulle origini della sua attrazione per la mistica ebraica, lo scrittore sottolinea, da una
parte, la dimestichezza con la Sacra Scrittura, praticata sin dall’infanzia e consolidata dalle frequenti citazioni bibliche
della nonna, e dall’altra il fascino esercitato dall’idea di un “vast and impersonal God, the
En Soph. of the
Kabbalah” , che più tardi avrebbe ritrovato in Spinoza, nel panteismo in genere, in Schopenhauer, in Butler, in G.B.
8
notevole interesse per la Cabbala, la cui conoscenza è in gran parte espressamente
attribuita alla mediazione di Gershom Scholem 9.
Le opere di questo eminente studioso, in particolare Le grandi correnti della mistica
ebraica10 e La Kabbalah e il suo simbolismo 11, non costituiscono però i soli punti di
riferimento “confessati”. Nella conversazione, citata in nota, con J. Alazraki, lo scrittore
argentino ricorda anche un volume forse non imprescindibile sulle superstizioni ebraiche 12 e
aggiunge, senza precisare altro, di avere letto tutti i libri sulla Cabbala reperiti.
Shaw e anche nell’èlan vital di Bergson. (cfr. Alazraky, Borges and the Kabbalah, Cambridge USA, 1988, 6). In
un’altra conversazione lo scrittore argentino considera le Scritture il libro “più importante del mondo, al quale segue
subito dopo La Divina Commedia...(Quest’ultimo) è il libro che ho letto di più dopo la Bibbia” (Costantini, Jorge
Luis Borges. Colloqui esclusivi con il grande scrittore argentino, Roma, 2003, 60-61). Borges mostra particolare
predilezione per il Libro di Giobbe (M. E. Vazquez, Borges, sus dias y su tiempo, Madrid, 2000, 192-193), nonché per
l’Ecclesiaste e per i Vangeli (Cfr. F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges, Milano, 1999, 205).
9
Borges incontrò Scholem in un suo viaggio a Gerusalemme nel 1969. L’incontro è attestato in tutte le più autorevoli
biografie dello scrittore argentino (cfr. p.e. E.R. Monegal, Borges, una biografia letteraria, Milano, 1982, 134,
Savater, Borges, Roma-Bari, 2003, 75) ed è solennizzato anche dal nostro autore nel suo Abbozzo di autobiografia, in
L’elogio dell’ombra, Torino, 1971, 147. Con lo studioso berlinese Borges discusse di mistica e in particolare della
leggenda del golem, un mito che già conosceva in virtù della lettura giovanile dell’omonimo romanzo di Meyrink (a
tale proposito, C. Vian, Invito alla lettura di Borges, Milano 1980, 138). In un’intervista concessa a Ronald Christ
(Intervista con Jorge Luis Borges, a cura di Raul Montanari e con introduzione di Mario Vargas Llosa, Roma, 1999,
96-97) viene (nuovamente) chiesto a Borges come nacque il suo interesse per la Cabbala. Lo scrittore argentino (non
si cerchi coerenza assoluta nelle sue affermazioni, non sarebbe Borges altrimenti, n.d.r.) risponde: “Penso sia stato
attraverso De Quincey, attraverso la sua idea che l’intero mondo fosse un insieme di simboli, o che ogni cosa
significasse qualcos’altro. Quando poi ho vissuto a Ginevra, avevo due grandi amici, Maurice Abramowicz e
Seymour Jachlinski..I loro nomi valgono come una carta d’identità genealogica: erano ebrei polacchi”. A una
successiva domanda sulle fonti delle sue conoscenze cabalistiche, Borges cita Le grandi correnti della mistica
ebraica e precisa (op. ult. cit., 97-98) di avere letto “tutti i libri sulla cabala che ho trovato, tutte le voci delle
enciclopedie, e così via .. In me non c’è niente di ebraico peraltro. Potrei forse avere degli antenati ebrei, ma non
saprei dirlo….Mi sarebbe piaciuto avere qualche progenitore ebreo”. Lo scrittore in altre occasioni aveva ipotizzato
ascendenze ebraiche, deducendole dal cognome materno Acevedo, di origine ebreo portoghese. Io, un ebreo è
l’emblematico titolo di un articolo di Borges apparso nell’aprile 1934 sulla rivista Megafono (3, num. 12, aprile 1934,
60) in un momento storico in cui il nazionalismo fascista in argentina cresceva. Provocatoriamente lo scrittore si
dispiacque, in quella pubblicazione, di non essere certo di poter vantare origini ebraiche (questo episodio è ricordato,
fra gli altri, da Evelyn Fishburn, nel suo studio Borges Cabbala and “creative misreading”. On line. J.L. Borges
Center for Studies Documentation. Internet 20/07/01, http://www.hum.au.dk/romansk/borges/bsol/evit1.htm). Il
9
Borges non nasconde poi una particolare predilezione giovanile per l’opera narrativa di
Meyrink, Il golem13, repertorio di leggende sul mito eponimo del romanzo. Questo tema
ricorre con insistenza sia nella prosa sia nella poesia borgesiana.
Ma lo scrittore argentino, come è noto, ha spesso tratto spunto dalle enciclopedie,
reperendo dalle voci le tracce delle sue affascinanti affabulazioni. Benché non entri nei
dettagli, è certo che altre informazioni sull’ebraismo provengono da queste fonti 14.
filosemitismo di Borges si legge anche nella sua produzione poetica: “Chi potrà dirmi se sei nel perduto/Labirinto di
fiumi secolari/Del mio sangue, Israele?” (A Israele, da l’ Elogio dell’ombra, in J.L. Borges, Tutte le opere, a cura di
Domenico Porzio, Milano, 1984, Vol. 2, 309). L’interesse di Borges per l’ebraismo è dunque in parte originato da
simpatie o affinità culturali e da letture, e in parte da vicende biografiche, come l’amicizia ginevrina con gli ebrei
polacchi ricordati, rimasti in contatto per tutta la vita con lo scrittore. Molto ha giocato anche l’influenza di uno dei
suoi maestri letterari, Rafael Cansinos Assèns, “qui, ayant trouvé son nome dans les archives de l’Inquisition, avait
décidé qu’il était juif” (J.F. Gérault, Borges, Parigi, 2003, 83).
10
G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, 1993.
11
G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, 1980.
12
Si tratta di Jewish magic and superstition. A Study in Folk Religion, New York, 1939 di Trachtenberg. In una
relazione sulla Cabbala inserita da Alazraki nella sua opera citata, e su cui torneremo, Borges cita anche un “thick
volume” di Henry H. Serouya, La Kaballe, 1947, pubblicato anche in Italia (La Cabala, Milano, 1997). Quest’ultimo
testo, benché scientificamente meno rigoroso e, a mio avviso, di pregio assai minore delle opere di Scholem, potrebbe
tuttavia avere esercitato qualche influenza sull’impatto tra Borges e l’ebraismo. Ciò si deve alla particolare
impostazione “comparatistica” del volume, che dedica alcuni capitoli ai rapporti tra Cabbala e dottrine straniere. In
particolare, alla luce del vivo interesse da sempre manifestato dallo scrittore argentino per le filosofie idealistiche, è
assai verosimile che il nostro autore possa essere rimasto colpito da quanto scritto da Serouya sulle analogie tra
mistica ebraica e pensiero platonico, evidenziate a pag. 59, dove, tra l’altro, è scritto che “ l’intelligenza divina (o il
verbo) forma l’universo secondo tipi contenuti in essa prima dell’apparizione delle cose.” Un ulteriore punto di
convergenza può scorgersi nella parte del volume dedicato al vero o presunto influsso delle religioni della Caldea e
della Persia sulla Cabbala, spiegabile, secondo Serouya, con i settant’anni di cattività di Israele a Babilonia (Questa
influenza capitale è probabilmente dovuta soprattutto alla religione di Zoroastro. Molti elementi della Cabala,
evidentemente non tutti, si ritrovano nello Zend Avesta e nei suoi commentari religiosi in una forma più o meno
simile”; op. ult. cit. 76). Orientamento non isolato, in quanto sostenuto anche da Adolphe Frank nell’opera La
Kabbale ou la philosophie religieuse des hebreux, pubblicata a Parigi nel 1843 e citata da Moshe Idel, in Cabbalà
Nuove Prospettive, Firenze, 1996, 25 “Le concezioni cabalistiche più importanti, secondo Frank, erano derivate da
10
Quanto a opere di mistica in senso stretto, il nostro autore, che ignorava l’ebraico, afferma
di conoscere traduzioni del Sefer Yetsirà e dello Zohar, senza precisare quali15.
Tuttavia, circoscrivere lo studio dei rapporti fra l’opera dell’argentino e la mistica ebraica
all’influenza diretta di alcuni testi certi, significherebbe probabilmente svilire e forse
mistificare il senso più autentico di una relazione che sembra molto più complessa e
articolata di quanto possa suggerire il primo esame.
fonti caldee e persiane, cioè zoroastriane”. Prescindendo dalla fondatezza di tale teoria, è possibile che Borges abbia
fatta propria la presunta “contaminazione” tra mistica ebraica e zoroastrismo nella redazione del racconto, su cui mi
intratterrò a lungo, Le rovine circolari, ricco di elementi sincretici, alcuni dei quali di possibile derivazione iranica
(come la centralità assegnata al simbolismo del fuoco). Altro testo cabbalistico citato da Borges è The Holy Kabbalah
di A.E. Waite (N.Y. University Books, 1960).
13
14
Meyrink, Il golem, Milano, 1991, su cui mi soffermerò sub sez. III.
Borges afferma di avere letto “several” voci enciclopediche su temi ebraici (cfr. la citata conversazione con
Alazraky, in op. ult. cit., 14) ma non fornisce maggiori ragguagli, salvo citare espressamente, come fonte di
conoscenza sulla Cabbala, la Encyclopedia Britannica (op. ult. cit., 5). Lo scrittore si riferisce alle edizioni più
vecchie dell’enciclopedia: “But the old Encyclopedia Britannica was far superior to the more recent edition. It used
to be a reading work, and now it has been turned into a reference book”. Possiedo l’edizione 1960 della Britannica.
La voce Kabbalah (vol. 13, 233) occupa complessivamente tre colonne e fornisce un’informazione abbastanza neutra
ed “ortodossa”. La bibliografia rimanda, fra l’altro, a una vasta monografia di C.D. Ginzburg, ampliamento
dell’articolo sulla Cabbala contenuto nell’undicesima edizione della stessa Enciclopedia. Probabilmente questo testo
fu letto da Borges. A tale proposito si rammenta che Ginzburg nella monografia The Kabbalah, volume edito a Londra
nel 1865 (e base dell’articolo enciclopedico ricordato) accentua i rapporti fra la mistica ebraica e il neoplatonismo.
Nel trattare il controverso tema sulle origini del termine En Soph, scrive: “Qualsiasi dubbio su questo argomento
(derivazione della nozione dal neoplatonismo, n.d.r.) deve essere abbondonato quando i due sistemi vengano messi a
confronto. La stessa espressione En-sof che la Kabbalà usa per indicare l’incomprensibile, è di origine straniera, ed
è evidentemente una imitazione del greco Apeiros. Le opinioni che En-sof sia superiore al reale essere, pensare
conoscere, sono indubbiamente neoplatoniche”. Tesi questa criticata da Scholem in Le origini della Kabbalà,
Bologna, 1980, 328. Si avrà occasione di notare anche una certa conoscenza, da parte dello scrittore argentino, della
mistica chassidica, probabilmente attribuibile alla mediazione di Martin Buber, anche se non è possibile individuare la
fonte certa (probabilmente, peraltro, si tratta dei Racconti dei Chassidim, Milano, 1979).
15
Cfr., fra le altre testimonianze, Alazraki, op. ult.cit., 54.
11
2)
Linee e prospettive
Occorre infatti distinguere tra piani diversi e intersecantisi, per quanto sviluppati su
differenti livelli.
Nel tessuto più superficiale sarà possibile, in un primo tempo, individuare il materiale
utilizzato in modo consapevole dallo scrittore, operazione immediatamente verificabile.
Scendendo più in profondità, affiorerà il più articolato profilo della libera elaborazione
concettuale di alcuni tòpoi della mistica, da legare soprattutto alle riflessioni teurgiche sul
Nome, alla sacralità della Torah e delle lettere dell’alfabeto concepite come opera diretta
della Divinità, alla creazione attraverso la parola di Dio e dell’uomo 16, al panteismo e alla
specularità tra macrocosmo e microcosmo 17, fino alla dottrina della trasmigrazione, temi
tratti
dal
Sefer
Yetsirà,
dalla
Cabbala
dello
Zohar,
dall’interpretazione
luriana
e
dall’ermeneutica sconfinata che ne è derivata.
Proseguendo - e qui forse meglio dell’immagine del piano può soccorrere quella della
circolarità della sfera che avvolge l’universo dello scrittore, la sua “indefinita, o forse infinita”
Biblioteca - si può scorgere il luogo più riposto e ineffabile, l’Aleph accessibile solo nello
scantinato18, quel movimento di pensiero acceso e costante che anima e vivifica l’opera di
Borges conferendole il senso più duraturo.
16
Nei termini che cercherò di chiarire nei capitoli successivi.
17
Ecco, a questo proposito, un bellissimo brano in prosa di Borges ( Epilogo, in L’artefice, Tutte le opere cit., 1267):
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di
province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di
persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
18
Nel notissimo racconto, da cui prende il nome la raccolta (L’Aleph, in J.L. Borges, Tutte le opere, cit. 886 ss.), il
protagonista, io narrante in prima persona, è un uomo, chiamato Borges, che scopre nello scantinato della casa di un
amico l’Aleph, “il luogo in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra” (op.ult.cit., 894).
12
Il sogno di creatività, magia, onnipotenza, materializzato attraverso la scrittura e la
lettura19, il tributo di universale appartenenza a una comunità di autori 20 e destinatari di
testi che condividono la produzione letteraria, esemplificati dallo Shakespeare borgesiano,
che è nessuno e tutti gli uomini21, la misreading creativity, teorizzata da H. Bloom sul piano
ermeneutico22, sono il “rumore cosmico di fondo” che pervade tutta l’opera dell’autore
argentino.
Proprio quando percorre gli abissi dell’infinito spazio-temporale, la scrittura di Borges
indugia e si arresta in eterno presente, abbandonando il prezioso gioco intellettuale per
cercare accenti più intimi. Essa, in quei momenti, richiama la grande filosofia di Maimonide.
19
“Menino vanto altri delle pagine che hanno scritto /il mio orgoglio sta in quelle che ho lette.” (J.L. Borges, Un
lettore, da L’elogio dell’ombra cit., 359). “Suppongo che le parole essenziali/Che mi esprimono stanno in quelle
pagine/Che mi ignorano, non in ciò che ho scritto”. J.L.Borges, I miei libri, da La rosa profonda, in Tutte le opere
cit., Vol.2, 731.
20
“Tutti gli autori sono un solo autore” scrive Borges ne Il fiore di Coleridge, da Altre inquisizioni, in Tutte le opere
cit., Vol.. I, 917. Il medesimo concetto affiora anche ne I quattro cicli, da L’oro delle tigri, in op. ult. cit., Vol.2, 535:
“Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate”. Scrive Genette in
Figure I, Torino, 1988, 114: “Ma il gusto degli accostamenti e dei parallelismi risponde in Borges a un’idea più
profonda, le cui conseguenze sono molto importanti per noi. Un’idea di cui troviamo una formulazione aggressiva nel
racconto Tlon Uqbar Orbis Tertius (da Finzioni, qui citato da Genette nell’edizione Torino 1967, 18-19, n.d.r.): “S’è
stabilito che tutte le opere sono opere di un solo autore, atemporale e anonimo.” Si tratta di una visione della
letteratura come uno spazio omogeneo e reversibile in cui le caratteristiche individuali e le presenze cronologiche non
hanno corso (Genette, op. ult. cit. 115). Cfr. anche A. Compagnon, Il demone della teoria, Torino, 2000, in particolare
il capitolo sull’intenzione dell’autore (pp. 44-99).
21
Cfr. J.L. Borges, Da qualcuno a nessuno, in Altre inquisizioni (Tutte le opere cit., 1043): “Shakespeare somigliava
a tutti gli uomini, tranne in ciò, che somigliava a tutti gli uomini. Intimamente non era nulla, ma era tutto ciò che sono
gli altri, o ciò che possono essere... Essere una cosa è, inesorabilmente, non essere tutte le altre cose; l’intuizione
confusa di questa verità ha indotto gli uomini a immaginare che non essere sia più che essere qualcosa e che, in certo
modo, sia essere tutto.” (Op. ult.cit., 1045).
22
Cfr. H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia. Milano, 1986. La tradizione letteraria è agone
per la supremazia. Per evitare l’influenza dei suoi predecessori, ogni scrittore li deve fraintendere, ossia sottoporre ad
una sistematica misinterpretazione. Il successo di un autore si misurerà nella sua capacità di evitare l’influenza dei
grandi che l’hanno preceduto. Si tratta di una delle tante sfaccettature delle teorie della decostruzione del testo. (cfr.
anche Casadei, la critica letteraria del Novecento, Bologna, 2001, 145-149).
13
Ed ecco allora affiorare l’immedesimazione fra il pensiero di colui che pensa e il pensato, tra
l’Intelletto Agente e l’Intelletto Acquisito, che, grazie alle idee immortali concepite, si eterna
a sua volta23.
Ebbene, questo movimento di pensiero, che mi pare immediatamente percepibile, evoca una
sorta di “ebraismo perenne”, da dissociare dalla specificità di temi e materiali del repertorio
tradizionale e da individuare piuttosto nel senso riposto di un certo modo di pensare e
praticare la scrittura, strettamente connesso a un’incessante riflessione sul momento della
creazione.
Il tratto “profondo” comune ai due versanti del nostro studio è quello che, riferendosi a
Borges, o meglio, al filone “borgesiano” della letteratura, H. Bloom definisce avidità di ciò
che sta oltre la presunta realtà24.
Pretesa di questo lavoro è quindi anche, se non soprattutto, verificare tale ultima ipotesi,
evidentemente più indirizzata verso la ricerca di punti di riferimento, sfumature, analogie,
che non al reperimento di fonti qualificabili scientificamente come tali, senza rinunciare,
peraltro, per non incorrere in generalizzazioni ingiustificabili, al tentativo di identificare i
testi pertinenti ai due campi di studio, nei quali echi, rimandi e vibrazioni si avvertono con
maggiore intensità.
Infine, benché non mi risulti che questo aspetto sia mai stato focalizzato – e dunque una
certa arbitrarietà inevitabilmente inficia la mia riflessione – l’insistenza tragica e ossessiva di
Borges nel trattare il tradimento, la codardia, l’abominio e la miseria morale di certi suoi
personaggi (soprattutto di ambiente gaucho) sembra evocare suggestioni, anche alla luce di
un celebre saggio di natura “gnostica” 25 del nostro autore, legate alla mistica, di derivazione
luriana, della restaurazione e della redenzione cosmica, da perseguire anche in virtù
23
Cfr. Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Torino, 2003, 238 ss. e G. Laras, Immortalità e
resurrezione nel pensiero ebraico medievale, a cura di P. Pozzi, Milano, 2001, 5.
24
H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), Milano, 2000, 78. Accennando forse un po’ arbitrariamente a un
“ebraismo perenne”, intendo riferirmi a un movimento di pensiero descrivibile sul piano fenomenologico meglio che
dal versante storico. Un pensiero depurato, per quanto sia possibile, da aspetti contingenti e colto nelle sue dinamiche
strutturali.
25
Cfr. Tre versioni di Giuda, in Finzioni (Tutte le opere cit., vol. 1, 747 ss.). Spesso Borges, come si potrà constatare,
manifesta simpatia per gli gnostici, “uomini disperati e ammirevoli.” Cfr. Una rivendicazione del falso Basilide, da
Discussione ( Tutte le opere cit., vol. I, 335).
14
dell’abiezione; un paradosso, quasi un ossimoro etico, che trova il proprio fondamento,
secondo la lettura proposta da Scholem, in taluni aspetti del messianismo sabbatiano 26.
Si potrebbe obiettare, in mancanza di prove certe di una sua conoscenza delle fonti, che
presumibilmente la competenza di Borges su temi così particolari e specifici della mistica
ebraica non era tanto dettagliata da consentirgli di utilizzare consapevolmente quel
materiale nella sua produzione letteraria.
A tale fondatissima eccezione è lecito opporre la sostanziale irrilevanza dell’argomento.
Da una parte la profondità abissale del misticismo, la forte tensione metafisica, che
comunque pervade il tema della restaurazione cosmica e della giustificazione del male,
possono giocare un ruolo essenziale in quel movimento di pensiero onnipervasivo che
caratterizza l’ebraismo e, in tesi, l’opera borgesiana, tanto da sminuire il rilievo
dell’individuazione e del reperimento di fonti univoche, compito in ogni caso impervio per la
indubbia poligenesi di alcuni sotterranei filoni che, pur mantenendo forse distinta la propria
identità, prestano tratti comuni al neoplatonismo, alla gnosi e alla Cabbala (senza
trascurare, almeno in un certo periodo storico e nella regione provenzale, possibili
contaminazioni anche con la dottrina catara) 27.
26
Il “paradosso del santo peccatore”, nella lettura dell’operato di Shabbetay Sevi da parte di Nathan di Gaza, è trattato
da G. Scholem in Le grandi correnti cit., p. 304. Cfr. naturalmente la monumentale monografia dello stesso autore
(presumibilmente non letta da Borges) sul tema evocato, Sabbetay Sevi, il messia mistico, Torino, 2001. Sulla
“categoria del paradosso” che caratterizza la vicenda biografica di Sevi, cfr. anche G. Laras, La mistica ebraica e il
pensiero cabbalistico dello Zòhar, Milano, 2004, 254. E’ doveroso sottolineare come Idel ritenga invece che la
Cabbala luriana non sia l’antecedente necessario del movimento messianico sabbatiano: lo stesso Sevi non era a
conoscenza, o, in ogni caso non praticava la mistica del maestro di Safed (Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 239),
preferendo la Cabbala estatica o derivata dallo Zohar. Pare inevitabile l’accostamento di tale categoria all’opera di
Borges e plausibile la simpatia dello scrittore argentino per una dottrina tale, per singolarità e profondità, da
stimolarne la curiosità intellettuale. Questo tema, peraltro, richiederebbe studi approfonditi e potrebbe essere oggetto
di autonoma e specifica trattazione. Qui basti il cenno.
27
Sul complesso problema delle origini della Cabbala ovviamente di nuovo ci si richiama a G. Scholem, e in
particolare a Le origini della Kabbalà cit. Vedremo nel prosieguo punti in comune e, soprattutto, difformità tra
l’interpretazione della Cabbala proposta da Borges, fortemente accentuata in senso gnostico e antinomico, e la più
equilibrata ricostruzione del movimento da parte dello studioso berlinese, tale, tuttavia, da alimentare forse gli
equivoci o le estremizzazioni dello scrittore argentino.
15
Dall’altra parte, significherebbe forse fare torto sia all’autore argentino, sia all’ebraismo,
considerato soprattutto nel versante più squisitamente “ermeneutico” 28 del rapporto fra
tradizione e rivelazione, negare all’interprete, che contribuisce incessantemente al fervore
del laboratorio letterario attraverso la sua lettura “creativa” o feconda del testo (o del Testo
Sacro per eccellenza), il privilegio di tentare di percorrere una delle tante vie, di optare per
una delle innumerevoli biforcazioni per il cui intricato tramite la Parola vive la sua originaria
identità - anche linguistica nell’ebraico biblico - con la Cosa 29.
28
Sui rapporti e sulla paradossale coesistenza fra l’aspetto conservatore e quello innovativo o addirittura
rivoluzionario della mistica in generale, cfr. il primo capitolo della citata La Kabbalah e il suo simbolismo di G.
Scholem (pp.7-42). Il tema è affrontato dallo stesso autore in Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova, 1986:
“Da una parte le condizioni storiche sempre nuove richiedono che la comunicazione, riconosciuta come autoritativa,
si applichi a circostanze sempre mutevoli. D’altra parte, però, l’elemento spontaneo della produttività umana si
impadronisce di tale comunicazione ampliando sempre più il suo orizzonte originario (79). In sostanza
l’interpretazione della Torah non costituisce altro che lo sviluppo di quanto nella scrittura stessa è già implicite dato
(op. ult. cit., 84) e la rivelazione “includerebbe già in sé il commento come tradizione sacra circa il suo stesso senso”
(op. ult. cit. 85). Il mistico “utilizza vecchi simboli e conferisce loro un senso nuovo; può persino usare nuovi simboli
e attribuire loro un vecchio significato – in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un processo dialettico in cui gli
aspetti conservatori del misticismo e quelli nuovi, produttivi rivelano la loro interdipendenza.” (G. Scholem, La
Kabbalah e il suo simbolismo cit., 31). Sempre nell’ultima opera citata (p.62) Scholem sottolinea bene l’aspetto
paradossale della tradizione: “Secondo la tradizione rabbinica Mosè ha ricevuto sul monte Sinai la Torah orale
insieme con quella scritta e qualsiasi risultato possano trarre legittimamente gli studiosi della Scrittura più tardi,
dalle loro ricerche sulla Torah, era già compreso in questa comunicazione orale a Mosè”.
La scrittura di Borges, come vedremo, esemplifica al meglio questa circolarità fra tradizione e rivelazione. L’uso
frequente della pseudoepigrafia, comune a molti Cabbalisti, la rilettura e reintepretazione, sia pure ricodificata,
dell’eredità letteraria più datata e del patrimonio classico, l’ironico scetticismo sulla originalità in senso assoluto
dell’autore e dell’opera in quanto prodotto individuale, la cooperazione decisiva del lettore nell’attribuzione di senso e
significato al testo, la scrittura e lettura intese come decriptazione di un inesauribile corpo simbolico, sono solo alcuni
dei caratteri comuni allo scrittore argentino e alla mistica ebraica. Anche Genette, in Palinsesti (Torino, 1997, 306)
descrive l’attività letteraria di Borges come ipertestualità fittizia. Il nostro autore, attribuendo ad altri l’invenzione dei
suoi racconti, presenta, travestendola, la propria scrittura come lettura.
29
Dabar in ebraico può valere “parola” o “cosa”. Nel Sefer ha-Bahir (in Mistica ebraica, a cura di Giulio Busi e di
Elena Lowenthal, Torino, 1995, par.80, p.172) si legge: “Noi sappiamo che tutto quello che il Santo, sia Egli
benedetto, ha introdotto nel proprio mondo trae il nome dalla propria essenza, come è scritto: Qualunque nome infatti
avesse posto l’uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome (Genesi, 2,19), vale a dire sarà esso stesso. E
donde sappiamo che il nome è la cosa stessa? Dal versetto: La memoria del giusto è in benedizione, invece il nome
16
Le ripetizioni e le variazioni tematiche prodigate da Borges, l’invenzione di mondi alternativi
e dell’infinita Biblioteca che, in essa risolvendoli, tutti li pare compendiare, sembrano
evocare i ventisei tentativi divini30 di creare l’universo prima di dare vita alla Bereshith
definitiva che, se così si può dire, appaga Dio perché “molto buona”. Anche se l’opera di
Borges, per sua natura, rifugge da qualsiasi parvenza di perfezione (nel senso etimologico
del termine): lo scrittore argentino non è il “guru”, al quale accenna Scholem, che determina
in modo univoco e autoritario l’interpretazione dell’esperienza mistica prima ancora che essa
si realizzi31.
In questo senso il lavoro proposto non può che avere uno sviluppo aperto e dialettico.
In definitiva, quindi, il progetto è l’esplorazione di questi mondi con gli strumenti offerti dal
pensiero ebraico, e in particolare dalla mistica, con la ricerca sia dell’influsso dell’ebraismo
sull’opera di Borges, sia del significato e del senso di una parte di tale produzione letteraria
alla luce di questi poderosi mezzi esegetici.
Il proposito è approfondire temi e oggetti dell’opera dello scrittore argentino ascendendo
gradatamente dagli aspetti più particolari e specifici reperibili nell’arsenale della cultura
ebraica e provenienti da fonti facilmente accertabili, a quelli più generali, da riferire a ciò
che, con qualche arbitrarietà, si è definito “ebraismo perenne”.
Poiché tuttavia i diversi piani di influenza del pensiero ebraico si intersecano, anche per la
natura spesso “circolare” e reiterata della scrittura di Borges, al quale, come è noto, ripugna
l’idea di definitiva compiutezza della propria (e di qualsiasi) produzione letteraria 32, il
degli empi marcisce (Proverbi, 10,7). E’ forse il nome che marcisce? E’ piuttosto egli stesso. Allo stesso modo, il
nome è la cosa stessa.”
30
“Secondo il Midrash, non una ma ventisei creazioni avrebbero avuto luogo: ventisei tentativi falliti di Dio
avrebbero preceduto il mondo in cui viviamo. Di fronte all’ultima creazione Dio ha detto:””Halwaj she-ja ‘amoà””,
speriamo che stia in piedi.” S. Levi della Torre, Zone di turbolenza, Milano, 2003, 100. Con riferimento alle origini
della dottrina delle Shemittoth, sviluppata nel Sefer Temunah, Scholem cita il dotto R. Abbahù: “Dio ha creato e
distrutto dei mondi prima di creare questo; ha detto: questi mi piacciono, quelli non mi piacciono.” G. Scholem, Le
origini della Kabbalà cit., 576.
31
G. Scholem, La Kabbala e il suo simbolismo cit., 25. Chi ritiene di possedere l’unica interpretazione vera della
Parola di Dio sconfina nell’idolatria e nel fondamentalismo. (Cfr. Levi Della Torre, op. cit., 34).
Siamo
evidentemente lontanissimi dalla poetica di Borges.
32
“Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza” (J.L. Borges, Le versioni
omeriche, da Discussione, in Tutte le opere cit, Vol. 1, 372). E’ inutile sottolineare che la portata di tale affermazione è
17
preannunciato frazionamento degli argomenti costituisce una mera traccia, una labile
“ipotesi di lavoro” destinata a smarrirsi nell’ineludibile labirinto che l’autore argentino
continua a tramare.
3)
Testi considerati
L’enormità dei campi esplorati pone ovvie esigenze selettive.
Il primo limite è quello della bibliografia, che, in astratto, è sconfinata.
Da un lato, solo l’opera completa di J.L. Borges raccolta nell’edizione italiana curata da
Domenico Porzio33 comprende venticinque titoli (e non vi è inclusa la produzione, spesso
significativa, da attribuire all’argentino in collaborazione con scrittori amici).
Dall’altro, biografie letterarie, conversazioni e interviste, libri e articoli su temi specifici
dell’attività letteraria borgesiana, benché tradotti in italiano solo in minima parte, sono tanti,
in assoluto, da riempire intere biblioteche.
Quanto al pensiero ebraico, o anche, più in particolare, alla mistica, è persino superfluo
sottolineare l’assoluta impossibilità di controllare tutta la letteratura sul tema.
Fortunatamente soccorrono due argomenti.
Intanto l’intersezione tra le due vastissime aree copre una superficie ampia, ma ovviamente
assai più contenuta dell’estensione globale dei due soggetti trattati 34.
diversa, ove riferita alla religione ebraica. D’altra parte mi pare che Borges, come si vedrà, ne sia altrettanto
consapevole.
33
J.L. Borges, Tutte le opere cit., Milano, 1984. Questi volumi, editi da Mondadori e apparsi nella collezione dei
Meridiani, sono il mio principale punto di riferimento per quanto riguarda la produzione letteraria di Borges (mi
riferisco alle opere attribuibili esclusivamente allo scrittore argentino). Peraltro ho anche utilizzato l’edizione
Feltrinelli de L’Aleph (traduzione di Tentori Montalto, prima edizione 1959, trentunesima e ultima, 2003) e l’edizione
Einaudi di Finzioni (traduzione di Lucentini, prima edizione del 1955 ed edizione di cui dispongo risalente al 1995).
34
Sul nostro tema specifico nulla è stato scritto o tradotto in Italia, per quanto mi risulta. Non mancano invece
contributi importanti dall’estero. Oltre al già citato lavoro di Alazraki (Borges and the Kabbalah and other essays on
his fiction and poetry) del quale sono faticosamente entrato in possesso e che dedica al rapporto tra lo scrittore e la
mistica ebraica solo la prima parte (ossia le prime 62 pagine), altre monografie in parte votate allo stesso argomento
sono quelle di E. Aizenberg, El tejedor del Aleph, Biblia cabala y judaismo en Borges, Madrid, 1986 e di S.
Sosnowski, Borges y la Cabala; la busqueda del verbo, Buenos Aires, 1976. Anche queste sono state lette con
interesse. La prima è in parte una biografia letteraria che tratta soprattutto i rapporti tra Borges e il mondo ebraico,
sottolineando le numerose prese di posizione dello scrittore contro l’antisemitismo dilagante soprattutto dopo
18
Inoltre, se il progetto è l’esame dei rapporti fra una parte dell’opera di Borges e la mistica
ebraica, lo spoglio delle fonti al quale si è rigorosamente tenuti dovrebbe esaurirsi ai soli (e
pochi) testi espressamente citati dallo scrittore argentino: ciò, tuttavia, limiterebbe assai il
respiro di questo studio. Tra l’altro gli scritti di Scholem sono pur sempre qualificabili
(anche) come fonti storiche. Essi certo non negano la diretta evocazione di brani mistici, né
l’esegesi, ma in genere costituiscono un punto di partenza che impone, almeno allo
studioso, verifiche più dirette, nel tentativo di comprendere anche “il non detto” nell’opera
borgesiana.
L’indagine sul versante ebraico, pur non prescindendo affatto da Scholem, prenderà dunque
in considerazione anche altri testi.
Tanto premesso, è opportuna anche un’altra precisazione metodologica.
Sia la circolarità della scrittura di Borges, sia lo spessore complesso e abissale della mistica
ebraica, sia la sintesi, talvolta fulminante, che frequentemente caratterizza, in un certo
senso assimilandoli, i prodotti “letterari” delle due aree del nostro studio, consentono, senza
sacrificare nulla all’auspicata profondità dell’indagine, di concepirla più in modo “intensivo”
che “estensivo”.
In
altre
parole,
il
fine
perseguito
potrebbe
essere
avvicinato
anche
limitando
l’approfondimento dell’analisi testuale a un racconto “esemplare” del nostro autore,
spaziando poi all’interno dell’opera borgesiana, là dove i temi accennati sono sviluppati o
richiamati.
Un solo testo, anche breve, può condensare in sé molti motivi e permettere tutte le
divagazioni: necessarie, opportune, magari arbitrarie e persino superflue.
l’avvento di Peron (interessante la riflessione sull’identificazione psicologica del nostro autore con i perseguitati
ebrei, quando, con alcuni suoi familiari, egli stesso subì angherie e restrizioni da parte del dittatore). La parte più
squisitamente letteraria tratta le influenze della Cabbala sulla produzione borgesiana, esaltando soprattutto le affinità
tra la concezione di letteratura intesa come palinsesto, propria del nostro autore, e quella della Bibbia, considerata,
quanto alla sua materiale redazione, come testo “impersonale”. Inoltre si evidenziano le affinità tra ermeneutica
biblica, fondata sui noti quattro livelli di lettura, e produzione narrativa di Borges, a sua volta caratterizzata da soglie
(e difficoltà) distinte. Individuato inoltre l’analogo uso della pseudoepigrafia da parte dei Cabbalisti e dello scritttore
argentino, l’autore riscontra alcuni schemi archetipi del racconto biblico (come la vicenda di Caino e Abele) in alcuni
testi di Borges. Il libro di Sonowski è una breve monografia, di carattere più spiccatamente letterario, ricca di
osservazioni puntuali, che saranno a tempo debito richiamate nel testo. Non mancano naturalmente, sul mio tema,
articoli e contributi on line, che ho letto e per tale ragione ho ritenuto opportuno obliare. Per ovvi e comprensibili
motivi, il livello di approfondimento non è elevato, mentre il confronto tra le fonti e l’interpretazione borgesiana è, se
così si può dire, inesistente.
19
Se questo è l’obiettivo, introdotto l’argomento in questa prima breve sezione, la prossima
scorrerà sul “piano di superficie”, in cui Borges esplicita direttamente la propria concezione
della mistica ebraica. Saranno perciò esaminati gli scritti del nostro autore, sul tema della
Cabbala, di taglio colloquiale o “saggistico”: qualificazione di genere, quest’ultima, da
utilizzare in modo molto cauto, sia in assoluto, sia soprattutto quando sia evocata, come nel
caso nostro, per descrivere l’attività letteraria borgesiana 35.
Questa parte del lavoro dovrà consistere quindi in un repertorio commentato dei temi mistici
entrati, per così dire, testualmente, nell’orizzonte dello scrittore argentino. Ciò non mi
esenterà dall’abbozzare qualche riflessione, resa inevitabile dallo iato tra le dottrine
cabbalistiche e la loro recezione da parte del nostro autore 36.
35
Non rientra nei fini di questo lavoro qualificare la produzione letteraria di Borges, quanto mai sfuggente per natura,
peraltro, a qualsiasi volontà tassonomica. Decostruzionismo, intertestualità, pseudoepigrafia sono categorie che
spesso la critica ha invocato nell’alludere all’opera dello scrittore argentino. E’ quasi superfluo sottolineare che
identiche evocazioni possono ben giustificarsi anche con riferimento alla mistica ebraica, i cui metodi di scioglimento
dei legami semantici tra le lettere, poi ricomposte in nuove strutture, presuppongono forme radicali di decostruzione
del testo, addirittura incentrata sulle più piccola unità significativa possibile, i segni dell’alfabeto. (Cfr. anche G. Busi,
La Qabbalah, Roma-Bari 1998, 24. Sulla pratica decostruttiva della lingua e del pensiero nella mistica del
chassidismo, cfr. Ouaknin, La lettura infinita, Genova, 1998, 83). Scrive Idel (in Cabbalà Nuove Prospettive cit.,
216): “Quando un uomo ricerca un’esperienza mistica totale, deve comunque spezzare la struttura del linguaggio,
dal momento che dovrà spazzar via le forme iscritte nella sua mente per creare lo spazio destinato all’inabitazione di
entità superiori. Questa pratica, così come altre tecniche cabalistiche, richiama alla mente uno dei metodi di
creazione artistica dei surrealisti moderni; il cabalista estatico si esprimerebbe come André Breton: “”Il linguaggio
è stato dato all’uomo perché i surrealisti lo possano utilizzare.”” La disintegrazione del linguaggio sociale in unità
prive di significato è il metodo, secondo Abulafia, per trasformare il linguaggio umano in nomi divini”. D’altra parte
l’impossibilità, o l’arbitrarietà di una “classificazione” per generi dell’opera di Borges, che addirittura diventa spunto
efficace di una rilettura e reinterpretazione delle forme codificate della cultura, trova in M. Foucault una
testimonianza importante: ”Questo libro (Le parole e le cose, n.d.r.) nasce da un testo di Borges, dal riso che la sua
lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro cioè, di quello che ha la nostra età e la
nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli
esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro”. (M.
Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1988, 5). In conclusione quando, per ovvie comodità di esposizione, si
qualificherà in modo “tradizionale” un testo di Borges, la classificazione dovrà intendersi, per così dire, sempre “tra
virgolette”.
36
In realtà sarebbe forse più corretto parlare di recezione da parte di Borges dei testi mistici come percepiti e
riproposti da Scholem. Inevitabilmente si tratta sempre di interpretazione di altre interpretazioni. D’altra parte,
fortunatamente, il nostro ambito di studio consente, più di altri, di considerare fisiologico e non pregiudizievole tale
20
Si tratta di tappa ineludibile, anche perché consente di cogliere i fraintendimenti,
consapevoli o involontari, di Borges nel percepire e interpretare la tradizione. Peraltro non si
deve dimenticare che queste valutazioni non concernono, né possono riguardare, uno
studioso, un filosofo o un mistico, ma sono orientate su un poeta o un “letterato” in senso
lato: o meglio proprio su quell’autore, che, più di ogni altro, ha attenuato, complicandole
tuttavia, le distinzioni di genere.
Ne consegue che contaminazioni, “errori” storici, indebite forzature, specie nel caso dello
scrittore argentino, da un lato possono addirittura aggiungere valore estetico al prodotto
letterario, e dall’altro spingono a approfondire quale sia, aldilà di quanto espresso senza
veli, il reale rapporto (o uno dei tanti possibili “reali” rapporti) fra il testo borgesiano e la
mistica, convincendoci ad abbandonare la superficie per tentare arditamente un’immersione
“abissale”.
Compito, questo, quanto mai compatibile con la Cabbala.
La fase centrale e, in astratto, più interessante del lavoro dovrebbe quindi essere
l’”auscultazione” approfondita di un racconto di Borges, incentrato sul tema “apparente e
svelato” del golem, ma aperto, naturalmente, a diverse esplorazioni. Questa opzione
imporrà anche una breve introduzione del mito evocato e dei temi onirici connessi. Ciò sarà
oggetto della terza sezione.
Dopo l’accennata lettura “teoretica” dell’opera scelta - il racconto Le rovine circolari, che in
chiave integrativa reclama un cenno anche alla poesia Il golem37,
pur non negando altri
espliciti riferimenti testuali - si cercherà infine di approdare a qualche modesta conclusione,
ovviamente nel segno del pluralismo e della precarietà.
La speranza è che alcuni, almeno, degli spunti di riflessione offerti possano essere
debitamente approfonditi, confutati e discussi da studiosi in possesso di strumenti assai più
appropriati e penetranti di quelli a mia disposizione.
“Suppongo che le pagine essenziali
Che mi esprimono stanno in quelle pagine
modo di operare.
37
La scelta delle letture è evidentemente arbitraria. Mi hanno guidato un personale e ineludibile orientamento estetico,
peraltro condiviso dalla critica, che annovera queste tra le opere più riuscite di Borges, e la convinzione che i motivi
in esse contenuti siano vari, profondi e tali da consentire un’analisi ricca e trasversale dei temi mistici coinvolti e
sviluppati anche in altri scritti del nostro autore: questi peraltro, almeno in parte, non saranno ignorati.
21
Che mi ignorano, non in ciò che ho scritto”. 38
II) I TEMI DELLA MISTICA EBRAICA TRATTATI NEI “SAGGI” DI BORGES
1)
38
Premessa
J.L. Borges, I miei libri cit., da La rosa profonda, in Tutte le opere cit., vol. 2, 731.
22
E’ giunto il momento di affrontare i temi della mistica ebraica 39 espressamente evocati dallo
scrittore argentino, prima di svilupparli e approfondirli quando saranno trattati testi di taglio
narrativo o di finzione, qualificabili come tali, con opportuna cautela, assecondando i più
tradizionali criteri tassonomici 40.
Mi soffermerò su alcuni scritti di Borges non particolarmente significativi sul piano letterario;
“isolati” dalla produzione più importante essi sono utili, nei loro propositi dichiaratamente
modesti, per valutare quale mistica si sia rappresentata il nostro autore e in che senso sia
stata percepita.
39
Questa espressione, nella sua indubbia genericità, consente di accostare a Borges svariati temi che caratterizzano
“una serie di sistemi o semisistemi estremamente diversi” anche accreditabili a cenacoli mistici di periodi molto
diversi, non esistendo d’altra parte “la dottrina dei cabalisti” (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit.,
114). La precisazione non elimina peraltro il problema, ben diverso, della recezione o percezione della mistica da
parte di Borges, che, come si vedrà, non prestando dichiaratamente attenzione alle questioni di ordine storico o
filologico e tradendo l’avvertimento di Scholem, tende proprio a considerare unitaria la dottrina, generalizzandola
inevitabilmente.
40
Ovviamente non ci si riferisce solo alla fiction dei racconti fantastici “tradizionali”, o a opere poetiche di taglio
“narrativo”, ma anche a saggi o poesie di argomento teologico o metafisico. Per espressa affermazione di Borges,
teologia e metafisica costituiscono rami della letteratura fantastica. Scrive il nostro autore: “Io ho compilato una volta
un’antologia della letteratura fantastica. Ammetto che quell’opera è fra le pochissime che un secondo Noè dovrebbe
salvare da un secondo diluvio, ma denuncio la colpevole omissione degli insospettati e massimi maestri di quel
genere: Parmenide, Platone, Giovanni Scoto Eriugena, Alberto Magno, Spinoza, Leibniz, Kant, Francis Breadley.”(J.
L. Borges, Note critiche, da Discussione in Tutte le opere cit., vol..1, 429-430) Tale convinzione è ribadita anche
nell’opera narrativa dello scrittore argentino. In uno dei suoi più celebri racconti, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, da
Finzioni, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 631, si legge: “I metafisici di Tlon non cercano la verità, e neppure la
verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica.” D’altra parte, come è
noto, una drastica separazione tra genere “letterario” e genere “filosofico” può essere arbitraria anche se applicata a
scrittori meno singolari e “consapevoli”del nostro autore. La questione, non strettamente pertinente al nostro studio, è
ardua e coinvolge ovviamente la stessa delimitazione dell’ambito letterario in quanto tale (la celebre domanda “che
cosa è letterario?”). E’ indubbio peraltro il livellamento di differenza di genere, sottolineata fra gli altri da Habermas,
tra filosofia e scienza, da un lato, e letteratura dall’altro (J. Habermas, Il pensiero post metafisico, Roma-Bari 1991,
237 ss.). Ed è innegabile che la filosofia possa, a pieno titolo, essere considerata “anche un genere letterario”.
(Cfr.Gentili, La filosofia come genere letterario, Bologna, 2003, 9). Cfr. anche C. Di Girolamo, Critica della
letterarietà, Milano, 1978. D’altra parte anche la mistica ebraica solleva lo stesso interrogativo. Non per nulla
Scholem, ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit., a pag. 111, la definisce una filosofia narrativa.
23
Restiamo quindi in una fase, per così dire, strumentale: vediamo con quali mezzi ha
lavorato Borges sui suoi testi.
Prima di esaminarli occorre fare un piccolo passo indietro.
Al di là delle considerazioni filologiche sulle origini della Cabbala, non pertinenti al mio
studio, se non entro i limiti, assai ristretti, che consentono di “smascherare” talune
“misinterpretazioni” del nostro autore, non si può prescindere, per cercare di comprendere
l’impatto di questo materiale sulla produzione letteraria di Borges, da qualche precisazione
ulteriore sulla mediazione di G. Scholem, sua principale fonte di informazione.
La lettura di un libro come Le origini della Kabbalà impressiona, fra l’altro, per l’estrema,
inevitabile, cautela con cui il grande studioso berlinese tratta il difficile e in parte oscuro
problema della genesi delle correnti mistiche in Provenza.
Scholem si guarda bene dal pervenire a conclusioni certe e, pur prospettando reciproche
influenze, in periodi diversi, tra gnosi antica, gnostica di matrice ebraica, neoplatonismo,
neopitagorismo e catarismo, localmente assai rilevante 41, resta assai lontano da qualsiasi
tentazione di sovrapposizione o identificazione tra questi distinti filoni, cercando anzi di
enuclearne e salvaguardarne le rispettive peculiarità 42.
41
Nella sua ricostruzione delle origini del movimento in Provenza, verso la fine del XII secolo, Scholem accenna
all’influenza esercitata anche dai perfecti catari e al forte ascendente neomanicheista, attribuibile ai bogomili. (G.
Scholem, Le origini della Kabbalah, cit,. 287).
42
“Quando Scholem azzarda qualche conclusione, lo fa in modo piuttosto generico: “La Kabbalà provenzale ha
avuto, come funzione, di unire la vecchia tradizione gnostica, che aveva le sue origini in Oriente e vi proseguiva
un’esistenza sotterranea, al neoplatonismo medievale.” (Scholem, op. ult. cit., 450). Si sottolinea sin d’ora che lo
studioso berlinese, come si vedrà anche infra, non pare necessariamente attribuire al termine “gnosi” quell’accezione
“eversiva” o antinomica che, viceversa, Borges privilegia. L’uso spesso generico e non qualificato, da parte di
Scholem, di questa etichetta, risponde, mi pare, alla sua deliberata intenzione di non qualificare la gnosi sotto il
profilo contenutistico o fenomenologico, ma solo di evocarla sul piano storico, comprendendovi, in sostanza e alla
lettera, tutti i movimenti religiosi della tarda antichità orientati a raggiungere una “conoscenza perfetta e superiore del
divino” (Cortelazzo e Zolli, Il nuovo etimologico, voce Gnosi, 674). In definitiva, come si vedrà tra poco, quando
Scholem intende riferirsi alla gnosi “dualistica” o antinomica, che caratterizza soprattutto alcuni sviluppi della
Cabbala luriana, lo scrive espressamente. Sulla “genericità” con cui Scholem tratta il tema gnostico trovo conforto
nell’opinione di Moshe Idel: “Nell’opera di Scholem non troviamo altro che fuggevoli osservazioni a proposito delle
fonti gnostiche, catare o cristiane. Per quanto egli abbia più volte osservato l’influenza dello gnosticismo sulla
Cabbalà, un’analisi estensiva dell’interrelazione di questi due sistemi speculativi non compare in nessuna delle sue
opere.” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 38).
24
Lo studioso, dopo avere delineato, agli albori della Cabbala provenzale, la dialettica,
patrimonio del pensiero ebraico, tra l’inconoscibile e trascendente Causa Prima (la Causa
delle Cause), e Jotzèr Bereshith, il Creatore, che opera come manifestazione del Dio
nascosto, pone la massima attenzione nel distinguere tra questo demiurgo mistico e l’entità,
pur preposta alle medesime funzioni, ma inferiore, decaduta e di valore minore nella
gerarchia dell’essere, propria del dualismo gnostico 43.
Ora, se è vero che Scholem non nega affatto l’influenza esercitata sulla Cabbala provenzale
dalla gnosi44, termine peraltro assai generico utilizzato per definire movimenti spesso molto
diversi fra loro45, e se pure è vero che lo stesso autore rileva la tendenza della mistica
ebraica ad alimentarsi di una dialettica fra innovazione e conservazione, modificando
dall’interno la tradizione e poi cristallizzandola, anche per farla accettare come tale alla
comunità46, sarebbe però arbitrario - e altresì indebito attribuire tale conclusione allo
studioso berlinese - affermare l’equazione tra gnosi, Cabbala e ortodossia, soprattutto là
43
G. Scholem, Le origini della Kabbalah, cit., 260. Sottolineo che la figura demiurgica di Jotzèr Bereshit appare nello
Shi’ur Qomà, il cui autore, peraltro, proclama l’assoluta unità tra il Creatore, manifestazione visibile della Divinità, e
il Santo, che dimora nascosto e che possiamo solo lodare (R. Goetschel, La Cabbalà, Firenze, 1995, 31).
44
E anzi altri studiosi criticano l’insistenza con cui Scholem vi si riferisce: “Il limite forse maggiore del suo
approccio teorico consiste nel far derivare molti aspetti del pensiero mistico giudaico dallo gnosticismo, così da
spiegare le dottrine cabalistiche alla luce di una categoria storica e concettuale a esse in gran parte estranea”. (Cfr.
G. Busi, La Qabbalah cit., 124-125). Forse meno drasticamente, ma in direzione sostanzialmente analoga si muove
anche Idel (cfr. Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 44-46).
45
Questo termine, nel complesso - lo si è accennato - scarsamente denotativo, raggruppa diversi sistemi o correnti
religiose sorte nel tempo, soprattutto nei primi cinque secoli dell’era cristiana in Egitto, Medio e Vicino Oriente, a
contatto o ai margini del cristianesimo, come, ma non solo, manifestazioni considerate devianti ed eretiche (in tal caso
si parla più frequentemente di “Gnosticismo”). Accanto però alle sette sviluppatesi in ambito giudeo cristiano altre se
ne sono aggiunte: l’ofitismo, il sethismo, le dottrine dei c.d. “grandi gnostici” (Basilide, Carpocrate, Valentino e altri),
le “eresie” denunciate da Ireneo, le c.d. “gnosi pagane” (ermetismo, esoterismo degli alchimisti, teosofia degli Oracoli
Caldei, sabeismo, mandeismo e soprattutto manicheismo). Un panorama vastissimo, in cui gli aspetti comuni delle
correnti sono spesso ardui da riscontrare, eccettuati forse la particolare sensibilità per il problema del male e, per
alcune, l’accentuato dualismo. Cfr. H.C. Puech, Sulle tracce della gnosi, Milano, 1985, 14. Scholem (in La Kabbalah
e il suo simbolismo cit., 124-125) avanza con cautela l’ipotesi che dopotutto lo gnosticismo – almeno in alcuni dei
suoi motivi più fondamentali – forse era nato, in parte, nello stesso popolo ebraico, era una rivolta contro
l’avversione dell’ebraismo per il mito, un’esplosione di forze mitiche tarde e già rivestite di una forma concettuale ed
argomentativa, ma tanto più intense.
25
dove questa identità minasse, introducendo un oscuro dualismo nel tentativo di spiegare la
presenza del male nel mondo, uno dei principi cardine dell’ebraismo, quello dell’unicità e
dell’unità di Dio.
Ebbene,
ed
eccoci
ritornati
al
nostro
tema,
questo
è
un
primo
”errore” 47
(o
“misinterpretazione”) di Borges.
2)
La conferenza di Borges al Teatro Coliseum
Lo scrittore argentino solo in apparenza fa propria - in realtà semplificandola all’eccesso con
abusive e fuorvianti generalizzazioni, che la radicalizzano e, per così dire, in senso teologico
la “demonizzano” - l’interpretazione di Scholem sui rapporti tra gnosi, Cabbala ed ortodossia
ebraica.
In un suo testo espressamente dedicato all’argomento, Borges sospetta infatti che “il modus
operandi dei cabalisti fosse dovuto al desiderio di inglobare pensieri gnostici nella mistica
ebraica, per giustificarsi con la Scrittura e per serbare l’ortodossia” 48.
Il citato scritto sulla Cabbala appartiene a un genere che ricorre più frequentemente nella
produzione letteraria tarda di Borges.
E’ un breve saggio discorsivo predisposto per una platea più vasta del solito.
Lo scrittore argentino, come talvolta gli accade nelle vesti di conferenziere, pur non
rinunciando al proprio inconfondibile stile, non disdegna il ruolo di divulgatore, giocando con
il tono sfumato dell’amabile conversatore. Si tratta, per così dire, di un inventario di
argomenti, quasi di un invito alla lettura e all’approfondimento, che dichiaratamente non
vanta pretese di attendibilità scientifica, cadendo, come vedremo, in fraintendimenti anche
piuttosto vistosi, pur se, a mio avviso, forse non sostanziali.
46
G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit, 6-42. Nel primo paragrafo del capitolo I delle Massime dei Padri
(Pirké Avòt), Milano, 1988, 17, sta scritto: “Moshé ricevette la Torà sul Sinày e la trasmise a Yehoshùa; Yehoshùa la
trasmise agli Anziani e gli Anziani ai Profeti; e i Profeti la trasmisero ai membri della Grande Assemblea.”
47
Sia pure in parte indotto da Scholem (cfr. nota 43), per l’accentuazione, da parte dello studioso berlinese, del
contributo gnostico sulle origini della Cabbala. Peraltro, si ribadisce, tali marcature sono arbitrariamente moltiplicate
da Borges.
48
J.L. Borges, La cabala, in Sette notti, Milano, 1983, 108. Si tratta di una conferenza su questo tema, tenuta da
Borges al Teatro Coliseum di Buenos Aires nel 1977 e raccolta, con altre sei relazioni su argomenti diversi, nell’opera
testé citata.
26
Lo scritto è comunque utile per comprendere in che modo, e attraverso quali conoscenze ed
equivoci, il pensiero ebraico è stato assimilato ed interpretato dal nostro autore.
Il primo concetto trattato è quello della sacralità del testo e delle lettere che lo
compongono.
Il
secondo
tema
è
straordinariamente
borgesiano:
se
una
Divina
Intelligenza
ha
materialmente redatto le Scritture, nulla può esservi di casuale in un’opera per definizione
soprannaturale49.
E’ un motivo assai fecondo; sarà approfondito tra poco.
Altri argomenti, connessi al primo, sono la creatività della parola pronunciata50, l’anteriorità,
rispetto a essa, delle lettere dell’alfabeto ebraico e l’attendibilità di qualsiasi crittografia e
decifrazione del testo sacro, convalidata dall’Intelligenza Suprema che la garantisce, e fonte,
in ultima istanza, della dottrina mistica.
Quindi Borges espone una versione della teoria dell’En Soph
emanano una dall’altra
dissociato
51
antagonismo
e delle dieci Sephirot, che
e giocano, secondo la prospettiva del nostro autore, un ruolo di
rispetto
all’Infinito
Primordiale,
giustificando
una
creazione
52
altrimenti logicamente impossibile .
Tale antinomia, che avvalora, esaltandolo all’eccesso, il sostrato gnostico dualistico e il
versante neoplatonico “antimaterialistico” della dottrina, trova due soluzioni diversamente
49
“La Scrittura è un testo assoluto…In un testo assoluto niente può essere opera del caso” (Borges, op. ult. cit 111).
50
“Di qui la conclusione che il mondo fu creato dalla parola luce o dall’intonazione con cui Dio pronunciò la parola
luce. Se avesse detto un’altra parola e con un’altra intonazione, il risultato non sarebbe stato luce, sarebbe stato
diverso”. Borges, op. ult. cit., 109.
51
Borges, op. ult. cit. 112.
52
“E che altra cosa potrebbe creare (’En Soph, n.d.r.) se non un altro essere infinito che si confonderebbe con lui?”
(Borges, op. ult. cit., 112).
27
orientate: da una parte le Sephirot formano l’Uomo Archetipo: “Tutti sono inclusi
nell’Adamo Kadmon53, che comprende l’uomo e il suo microcosmo; tutte le cose” 54.
Dall’altra, come avviene, secondo Borges, nella gnosi di Ireneo 55 con l’ultima emanazione
del pleroma, quella la cui parte divina si è tanto indebolita da non potere altro - limitata
dalla sua propria estenuazione - che dar vita a un mondo imperfetto doloroso ed erroneo, lo
stesso meccanismo di corruzione opera nelle Sephirot della Cabbala, che perdono forza a
mano a mano che si allontanano dall’En Soph, deludendo nell’esito creativo finale 56.
Non occorre essere profondi studiosi di mistica ebraica per cogliere l’unilateralità arbitraria
di questa interpretazione, che, per cercare di spiegare l’universale presenza del male e
dell’infelicità, non distingue, in sostanza, tra una certa gnosi e Cabbala, e attribuisce
erroneamente, almeno se tale concezione deve intendersi quella ortodossa e condivisa, una
scansione discriminante e gerarchica alle Sephirot, disconoscendo così i notevoli e sottili
contributi offerti dall’ebraismo per tentare di affrontare in modo originale e meno
sconfortante l’angoscioso problema della teodicea 57.
Tuttavia, senza volere evocare il tema del creative misreading, peraltro tanto opportuno per
giudicare correttamente l’apporto e l’esegesi delle fonti (e quindi anche di quelle di nostro
interesse) nell’opera di Borges, si sottolinea che l’indagine condotta non dovrebbe
presupporre una coerente, corretta e sistematica assimilazione del pensiero mistico ebraico
53
Secondo Scholem questa espressione ricorre per la prima volta nella letteratura cabbalistica del cenacolo di Iyyùn
nel Mistero della Scienza e della Realtà, prima d giungere ai mistici di Castiglia e allo Zohar, (Scholem, op.ult.cit.
419). Scrive Mopsik, in Cabala e i cabalisti cit., 45, che a David ben Judah he-Hassid (autore del XIV secolo
spagnolo) si deve una concezione dell’Adam Kadmon o Uomo Primordiale “che fa di lui la figura antropomorfica
dell’Infinito (En Soph), concezione che sarà ampiamente sviluppata nel XVI secolo a Safed”.
54
Borges, op. ult. cit., 112-113.
55
Intende probabilmente dire Borges, la c.d. falsa gnosi confutata da Ireneo nella sua celebre opera conosciuta con il
titolo improprio Adversus haereses (la traduzione letterale dal greco recita “Smascheramento e confutazione della
falsa gnosi”). Cfr. Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, 1949, Vol. XIX, voce Ireneo, 540.
56
Borges, op. ult. cit., 113
57
Come scrive in modo molto chiaro Georges Vajda (in Introduction à la pensée juive du moyen age, Parigi, 1947,
205), i Cabbalisti si sforzano disperatamente di evitare che la dualità tra le Sephirot Misericordia e Rigore possa
trasformarsi in dualismo gnostico. Cfr., sul tema della teodicea, anche le dispense del corso del Prof. G. Laras, Il
problema della giustizia divina nella tradizione biblica, talmudica e medievale, Milano, 1998.
28
da parte dello scrittore argentino, dato di fatto inesistente, ma piuttosto sarebbe da
orientare verso la ricerca dell’influenza di taluni elementi del pensiero ebraico sulla sua
produzione letteraria, aldilà dell’”interpretazione autentica” che l’autore direttamente
suggerisce in questo suo scritto, a mio avviso, da non sopravvalutare.
Si potrà cogliere qualcosa di più importante e più profondo nel “non detto”, nel “non
dichiarato”.
In tal senso Borges, benché autore in genere lucido, e consapevole critico di sé, non
eccepisce, almeno in questo caso, alla diffusa e fondata opinione secondo cui un’opera può
essere più proficuamente studiata alla luce dell’esito creativo di un processo, spesso
inconscio, di elaborazione del materiale letterario, filosofico o mistico utilizzato, senza tenere
conto, se non per la ricostruzione storica e filologica del testo esaminato, delle opinioni,
spesso fuorvianti o deludenti, espresse direttamente dallo scrittore sulle fonti utilizzate:
specie se questi punti di vista sono manifestati con disinvoltura e nonchalance in una
affollata conferenza che Borges, sapientemente, non ha incluso, insieme alle altre sei che
compongono il volume Sette notti, nella propria opera omnia canonica.
D’altra parte in un racconto compreso in una delle sue più note raccolte, I teologi58, il nostro
autore mi dà ragione, elaborando in modo sensibilmente diverso il suo “materiale
enciclopedico”: le Sephirot non sono più, o non sono solo, le emanazioni gnostiche
strutturate in una gerarchia degenerativa dell’Ente, ma piuttosto paiono evocare i mondi del
neoplatonismo, dei quali l’universo inferiore è un riflesso. In altri termini, l’accento viene
posto, in tal caso, sulla specularità tra macrocosmo e microcosmo. Questa dottrina, che
probabilmente si deve a una più approfondita meditazione di taluni spunti offerti dallo
Zohar, gli consente di elaborare un’ingegnosa variante narrativa pseudoepigrafica sul tema,
a lui caro, del “doppio” 59.
58
Da L’Aleph, Tutte le opere cit., Vol. 1, 795-803.
59
Scrive Borges nel racconto citato (p.799): “Nei libri ermetici è scritto che quel che sta in basso è uguale a quel che
sta in alto, e quel che sta in alto uguale a quel che sta in basso; nello Zohar, che il mondo inferiore è un riflesso di
quello superiore”. Negli scritti cabalistici del cenacolo Iyyùn, in cui fa irruzione il neoplatonismo, le Sephirot hanno
funzione di specchi, che raccolgono la luce di Dio proveniente dall’alto, riflettendola verso il basso. Scrive Scholem
(Le origini della Kabbalà cit., 408): “Esse (le Sephirot, n.d.r.) sono pure “”specchi luminosi”” della Divinità, dai quali
la sua luce si riflette su tutto il reale”. Inutile sottolineare la fecondità di questa idea sull’opera di Borges, che fa del
tema dello specchio (e del doppio) uno dei simboli più noti e ricorrenti della sua poetica. Così pure si deve
sottolineare che il neoplatonismo, movimento di pensiero notoriamente implicato nelle speculazioni medievali della
mistica ebraica, fornisce allo scrittore argentino spunti formidabili alle sue “riflessioni narrative” sull’idealismo (si
pensi al già citato, notissimo, Tlon, Uqbar cit., 623 ss.). Quanto al tema del doppio, che ricorre frequentemente
29
Tuttavia, tornando a noi, l’assai meno memorabile saggio sulla Cabbala non può essere
trascurato, perché offre altri importanti spunti di riflessione.
Il tema della teodicea colpisce profondamente il nostro autore.
In sostanza Borges attribuisce a “questa” mistica, così fortemente e soggettivamente
orientata verso la gnosi dualistica 60, il merito di una riflessione sull’innegabile esistenza del
male più matura e consapevole di quella divulgata dalla comune opinione della teologia
cristiana61, impegnata nell’imbarazzato tentativo di negarne lo statuto ontologico, riducendo
il problema in termini di assenza di bene.
nell’opera di Borges, si ricorda che nei menzionati Colloqui con Costantini (op. cit., 16) lo scrittore, riferendosi al
racconto fantastico L’altro, dice: “Per gli ebrei l’apparizione del doppio non era il presagio di una prossima morte.
Era la certezza di avere raggiunto lo stato profetico, come spiega Gershom Scholem. Una tradizione raccolta nel
Talmud racconta di un uomo che cercando Dio, incontra se stesso.” Con riferimento al mito della creazione, cfr.
anche El’azar di Worms, Il segreto dell’opera della creazione, Genova, 2002, 38: “Iddio creò due esseri per ogni
cosa”.
60
Nel variegato paesaggio dei sistemi gnostici, la corrente che postula il Dio trascendente infinitamente buono del
Nuovo Testamento, opposto a un demiurgo identificato con la divinità dell’Antico Testamento, è quella caratterizzata,
come si è detto, dal più spiccato antisemitismo metafisico o teologico (cfr. Goetschel, La Cabbalà, cit., 31), fondata
come è su una netta cesura, che spezza l’unità della Bibbia cristiana, annichilendo la figura di Dio nel Vecchio Patto
(“Lo gnosticismo, una delle ultime grandi manifestazioni del mito all’interno del pensiero religioso, concepito almeno
in parte nella lotta contro gli ebrei,.che lo avevano superato, ha fornito ai mistici ebrei il loro linguaggio” G.
Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., 125). Pare d’altra parte più saggio, anche perché non è possibile ora
approfondire il complesso tema in modo appagante, attribuire valenza gnostica in seno all’ebraismo alle correnti
mistiche che hanno, per così dire, “riqualificato” elementi già presenti, per esempio, nella mistica del Trono,
concependoli “come ingredienti di un dramma cosmico” (cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabalistico
cit., 37). In questo modo non si nega affatto né, ovviamente, l’influenza o la presenza di elementi gnostici nella
Cabbala, né il loro significato, se così si può dire, per certi aspetti “eversivo” (come se qualcosa, nella fase iniziale del
processo cosmico o cosmogonico “non avesse funzionato”) e legato infine alla teodicea (si pensi alla Cabbala luriana,
in cui il dramma trova il suo scenario più ampio). Ciò che si vuole sottolineare, piuttosto, è la preoccupazione della
mistica ebraica di salvaguardare il principio dell’Unità e, conseguentemente, la tendenza, in ogni fase di sviluppo, a
riequilibrare e a far “rientrare” ogni possibile devianza (sempre avvertita come tale) verso un dualismo mai accettato.
Se il male nasce da un’incrinatura nell’unità di Dio, il mistico farà ogni sforzo per saldare la frattura, per restaurare
l’equilibrio fra Rigore e Misericordia, evitando che il dualismo si imponga e si radicalizzi,.
61
Essenzialmente di matrice agostiniana.
30
Il nostro autore ritiene più convincente e realistico giustificare la presenza della sofferenza
assecondando più ardite concezioni. Esse vengono legate, direi in modo antitetico, alla
incommensurabilità e, per così dire, alla irrazionale 62 indecifrabilità della imperscrutabile e
“mostruosa” Divinità quale letteralmente si dispiega nel libro di Giobbe 63, ovvero,
all’opposto, al suo venir meno e “tendere a zero”, secondo la soluzione cabbalistica (di
borgesiana lettura), là dove Dio deve impastare questo mondo con materiale ostile 64.
Un eccesso e un deficit di potenza divina, così mi pare, determinano paradossalmente il
medesimo effetto: la sofferenza.
Il repertorio tematico si chiude con un cenno alla leggenda del golem, argomento che in
questo lavoro sarà ampiamente trattato in seguito.
62
Borges esprime in modo esteticamente più appagante la natura “irrazionale” e “mostruosa” della divinità, evocando
Leviatano e Behemot, nel racconto Tigri azzurre, da Tre racconti, in Tutte le opere cit., Vol. II, 1140 (“..Le pietre che
erano anche Behemoth o Leviatano, gli animali che significano nella scrittura che il Signore è irrazionale”). Va citata
anche la voce Behemot nel Manuale di zoologia fantastica, scritto da Borges in collaborazione con M. Guerriero,
Torino 1998, 32.
63
Si tornerà anche in seguito sul tema della rappresentazione della Divinità da parte di Borges. Si sottolinea in ogni
caso, per quanto riguarda questo particolare profilo, la notevole influenza esercitata sul nostro autore dalla lettura del
libro di Giobbe, opera, come si è detto, considerata eccelsa dallo scrittore argentino. In tale prospettiva è forse
opportuno rilevare, facendo nostre le osservazioni dello storico francese Minois (in Storia del riso e della derisione,
Bari, 2004, pp. 130-132), che qualcuno ha voluto scorgere, in quella singolare, spettacolare fenomenologia del divino
evocata dal testo biblico citato, una delle prime manifestazioni dell’”umorismo ebraico” che tanto farà scrivere in
seguito. Certo, per quanto discutibile sia questa interpretazione, è possibile che essa possa sposarsi con il pensiero di
Borges, notoriamente non sprovvisto di ironia e sicuramente incuriosito e attratto da teorie bizzarre e immagini
inconsuete. Secondo E. Aizenberg (in Borges, el tejedor de l’Aleph cit., 77), lo spiccato interesse di Borges per gli
ultimi capitoli del libro troverebbe invece una ragione proprio nella spettacolare epifania di una Divinità enigmatica,
fantastica e per certi aspetti mostruosa. Tale raffigurazione sarebbe coerente con l’unica tonalità cromatica o stilistica
adeguata a rappresentare l’insondabile, e altrettanto enigmatico, mostruoso, fantastico, etc., Universo: “Lo insondable
(lo problematico) descrito mediante lo insondable (lo fantastico): èstos son el tema y la técnica que Borges adivina
en el Libro de Job.” (op.ult.cit., 76). L’arsenale fantastico del mondo letterario dello scrittore argentino proverrebbe
quindi, almeno in parte, dalla Bibbia e in particolare dal Libro di Giobbe. Tesi sicuramente condivisibile nella parte in
cui spiega l’interesse di Borges per questo testo, ma forse, per quanto acuta, un po’ troppo unilaterale nel dare conto
da sola della complessità dell’universo fantastico dello scrittore, sicuramente debitore di innumerevoli ed eterogenee
“influenze” (tra le quali innegabilmente quella biblica ha un posto di notevole rilievo).
64
J.L. Borges, op. ult. cit.116.
31
Nella relazione borgesiana l’evocazione del mito si ramifica nei temi ai quali esso allude:
quello teoretico della creazione e della funzione della parola divina nell’atto demiurgico, e
quello dell’aspetto pratico o “magico” della conoscenza e della pronuncia del Tetragràmaton.
Borges, che narra qui alcune delle versioni della leggenda 65, ne trae spunto per accennare,
alla conclusione del saggio, l’insegnamento, per così dire, definitivo, della dottrina mistica:
“In ognuno di noi c’è una particella di divinità. Il mondo non può essere, evidentemente,
l’opera di un Dio onnipotente e giusto, ma dipende da noi” 66.
Questa enunciazione, tanto netta quanto, almeno in parte, discutibile, è rivelatrice della
concezione della mistica ebraica che Borges si è formata.
E’ tra i miei propositi cercare di distinguere in tale affermazione quanto pare corretto e in
armonia
con
il
pensiero
teosofico,
da
ciò
che,
al
contrario,
sembra
frutto
di
un’interpretazione unilaterale e accentuatamente antinomica, se non decisamente “eretica”,
della Cabbala.
In ogni caso, la conclusione alla quale lo scrittore perviene consente già di individuare un
movimento di pensiero comune ai due ambiti di studio: la stretta, intima correlazione tra
l’uomo e la divinità.
La “misinterpetazione” borgesiana in questa fase non è dunque, a mio avviso, radicale.
Tuttavia i termini del rapporto tra uomo e Dio devono essere, se possibile, precisamente
definiti.
Come spero di poter chiarire nel prossimo capitolo, questo legame si manifesta in modo
molto più esplicito, complesso e consapevole nella mistica ebraica interpretata da Scholem e
Idel.
Quanto a Borges, la qualità, l’intensità e la drammaticità della relazione tra l’umano e il
divino non sempre traspaiono in modo profondo nella produzione “saggistica”; si potranno
forse leggere meglio nella trasfigurazione letteraria del mito del golem.
3)
“Una rivendicazione della Cabala”
65
Espressamente tratte da Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., pp. 201-257.
66
Borges, op. ult. cit. 118. Che la creazione e la permanenza del mondo dipendano (anche) dall’uomo, come cercherò
di evidenziare tra poco, è un punto nodale del pensiero mistico ebraico. Lo scrittore argentino e ciò sarà, spero,
chiarito nel prossimo capitolo, non sembra credere tuttavia nella cooperazione tra Dio e l’uomo: ora, come in questo
caso, cancella Dio, ora, come vedremo infra, detronizza Adamo.
32
Parzialmente diverso è l’approccio di Borges al tema della Cabbala in un breve scritto
inserito in una raccolta di “saggi” fra le più datate della sua produzione (1932), ma
contemplata nel suo canone, per così dire, definitivo 67.
Seguire la cronologia delle opere dello scrittore argentino avrebbe senso solo se il nostro
fosse un autore lineare e progressivo. Non lo è, e questo consente di assecondarne la
circolarità, disattendendo, quando non servono, le scansioni temporali, a favore di una
dimensione, direi, se il termine non fosse troppo promettente, fenomenologica.
Mentre nella più recente relazione, descritta nel precedente capitolo, Borges enuclea alcuni
temi della mistica, profilando quindi un approccio contenutistico, in questo più ambizioso
testo lo scrittore argentino si sofferma prevalentemente sull’aspetto metodologico: “Non
voglio rivendicare la dottrina, bensì i procedimenti ermeneutici o crittografici che ad essa
conducono”68.
La Bibbia, come è ritenuto dalle fedi cristiana ed ebraica, è opera dello Spirito e “ tale
concetto fa di evangelisti e profeti altrettanti segretari di Dio, i quali scrivono sotto dettato ”.
Dopo un’ampia digressione sul dogma trinitario, un caso di teratologia intellettuale..un vano
cerbero teologico..69, Borges chiude il breve scritto celebrando uno dei suoi temi prediletti:
le conseguenze che si possono trarre dall’esistenza, dalla materiale ed effettiva disponibilità,
per così dire, di un testo redatto da un’infinita intelligenza. Nessuna alea può viziare le
Scritture, che formano un testo assoluto, in cui la collaborazione del caso è computabile
zero70.
E’ prodigioso che un testo dalle caratteristiche siffatte esista. Tale è la premessa.
Quest’altra è la vertiginosa conclusione dello scrittore argentino: ”Un libro impenetrabile alla
contingenza, un meccanismo dagli scopi infiniti, di variazioni infallibili, di rivelazioni in
67
Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334.
68
J.L. Borges, op. ult. cit., 330. Continua l’autore: “Questi procedimenti, come si sa, sono la lettura verticale dei testi
sacri; la lettura chiamata bustrofèdica (da destra a sinistra, una riga, da sinistra a destra la seguente), la metodica
sostituzione di certe lettere dell’alfabeto con altre; la somma del valore numerico delle lettere, eccetera.”
69
J.L. Borges, op. ult, cit., 331. Il tema, estraneo a questo lavoro, è ottimamente approfondito da S. Fresko, in Quel
“vano cerbero teologico”. L’idea di Dio in Jorge Luis Borges, tesi di laurea, Milano, 2002, pubblicata nel sito Borges
Center, all’indirizzo http://www.hum.au.dk/romansk/borges/lastnews.htm
70
J.L. Borges, op. ult. cit., 334.
33
agguato, di luci sovrapposte, come si può non interrogarlo fino all’assurdo, fino alla
prolissità numerica, come fece la cabala?” 71.
La riflessione, la più risalente fra le meditazioni di Borges sulla mistica ebraica, è anche la
più ribadita e frequente; forse è la più profondamente radicata. Essa, a mio avviso, svela la
ragione prevalente dell’interesse e della curiosità intellettuale del nostro autore per la
Cabbala72.
La rilevanza – e l’enfasi - di quell’affermazione impongono qualche approfondimento.
Come si è già sottolineato, l’argentino, tra i più recenti scrittori di fama mondiale, è quello
che forse meno ha idealizzato l’apporto individuale “originale” o creativo dell’”Autore”,
preferendo giocare – non senza civetteria - il ruolo meno appariscente di sodale di una
comunità letteraria che ha prodotto, paradossalmente, un unico libro, con un numero
illimitato di pagine 73 o formato, all’opposto, da una sola parola infinitamente significativa 74.
71
J.L. Borges, op. ult. cit., 334.
72
Un’altra possibile ragione dell’interesse di Borges per la Cabbala (e qui mi riferisco in particolare alla corrente
“estatica-devozionale” identificata anche come “Dottrina dei nomi”, e alle innumerevoli varianti, anche di indole
teurgica, legate all’esegesi del Tetragràmaton) è verosimilmente individuabile nella sua curiosità intellettuale per
l’ars combinatoria delle lettere, elaborata, fra gli altri, da Lullo, Giordano Bruno, Leibnitz. In un suo “saggio”, tratto
dalla raccolta Altre inquisizioni (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 1004), il nostro
autore scrive di un idioma universale inventato dal (probabilmente) immaginario John Wilkins. E’ un linguaggio in
cui “ogni parola definisce se stessa” e “ciascuna delle lettere che compongono (le parole) è significativa, come lo
furono quelle della Sacra Scrittura per i cabalisti.”
73
J.L. Borges, Il libro di sabbia, dall’omonima raccolta, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 648.
74
“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano
l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le
opere cit., Vol. 2, 369). Va ricordato anche il racconto Lo specchio e la maschera, da Il libro di sabbia cit., in Tutte le
opere cit. Vol.2, 617, in cui il nostro autore narra di un poeta che recita un poema di una sola riga, nella quale, in
qualche modo, sono racchiuse tutte le meraviglie dell’universo. Ma Borges, con un’operazione le cui analogie col
pensiero ebraico paiono immediate, è solito trasferire l’infinita polisemia della parola, o l’implicazione di una sola
parola nelle trame dell’universo, al piano diverso, eppure identico, della cosa. Esemplare in questo senso è la poesia
The unending rose, da La rosa profonda., in Tutte le opere cit. , Vol. 2, 745:“ Sono cieco e ignorante, ma intuisco/Che
sono molte le strade. Ogni cosa/E’ infinità di cose. Sei musica,/Firmamenti, palazzi, fiumi, angeli,/Rosa profonda,
illimitata, intima,/Che Dio indicherà ai miei occhi morti”. D’altra parte nell’opera di Borges questa alternanza tra
l’infinitamente piccolo (per esempio l’Aleph, che contiene tutti i punti dello spazio) e l’infinitamente grande (la
Biblioteca di Babele, ossia l’universo che altri chiama la biblioteca, cfr. La biblioteca di Babele, da Finzioni, Tutte le
34
L’opportunità, storicamente fondata, sia pure attraverso un atto di fede (ma una religione
rivelata è un fatto storico e la storia è la “madre della verità”, come scrive il nostro citando
Cervantes in un suo noto racconto75), di disporre di un testo sacro ispirato o “dettato” dalla
Divinità offre a Borges spunti assai fecondi.
Alcune idee le esprime direttamente; altre, forse anche arbitrarie e non necessitate,
possono scaturire dalla riflessione principale, e saranno ora cautamente prospettate, per
essere poi verificate con l’analisi testuale del racconto Le rovine circolari.
Non può sfuggire in ogni caso l’analogia tra la Bibbia, palinsesto per eccellenza, sul quale si
iscrivono le infinite, incessanti varianti della Tradizione ebraica, e qualsiasi altro testo, privo
delle stesse garanzie di sacralità, soggetto a sua volta a innumerevoli interpretazioni (e
creative “misinterpretazioni”) da parte della tradizione letteraria.
Una comunità di mistici assicura, adempiendo al senso etimologico della Kabbalà, la
ricezione76 e trasmissione della Torah orale.
Una comunità letteraria provvede, in modo analogo, a perpetuare la tradizione dei classici
rileggendoli, rinnovandoli, riscrivendoli.
Anche il letterato come il mistico ricorre a una parola più ricca di significato, o ricca di più
significati77.
In questo senso non è forse arbitrario assegnare alla Cabbala, geneticamente ed
etimologicamente intesa, la funzione di grande metafora della letteratura, almeno così come
essa è vissuta e interpretata da Borges e da una parte della critica contemporanea 78.
opere cit., Vol. 1, 680), riassorbita nella nozione comune di inesauribilità, ricorre frequentemente, ponendo in
evidenza, secondo la lettura che ne dà Quaglia (Una lettura filosofica dei racconti di Borges, Roma, 2000, pp. 7-18) il
rapporto tra lo scrittore argentino e l’Assoluto, alluso attraverso il linguaggio simbolico.
75
“La verità la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia
del presente, avviso dell’avvenire.” J.L. Borges, Pierre Menard, autore del ”Chisciotte”, da Finzioni in Tutte le opere
cit., Vol.1, 656.
76
La traduzione con il termine italiano ricezione è proposta anche da G. Busi, in Simboli del pensiero ebraico, Torino,
1999, 675.
77
G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 9. Secondo il citato Vian (op.cit., 139) in Borges
l’esperienza poetica diventa dunque una specie di succedaneo di quella mistica.
78
Alazraki, op.cit., 31: “Like the Cabbalist Borges creates a new myth out of the old one”. Va oltre H. Bloom, il quale,
nell’approfondire questa grande metafora, si addentra nel corpus symbolicum delle Sephirot, le quali, in termini di
35
Ma questa può essere una conclusione quasi ovvia, immediatamente percepibile e in ogni
caso non nuova, tanto prepotentemente emerge dal movimento di pensiero” borgesiano.
Anche se un punto essenziale da chiarire e sviluppare, in questa prospettiva, mi pare sia
non tanto l’intuitiva “essenza ermeneutica” comune alla Cabbala e all’idea di letteratura in
Borges, analogia che inconfutabilmente si coglie su un piano generale e più superficiale di
discussione, quanto, piuttosto l’effettiva relazione tra la cifra del corpus symbolicum e ciò
cui esso rimanda.
In altre parole, il testo mistico tramandato deve essere decriptato con una decodificazione
che ne esalti il valore allegorico, e quindi attraverso un’operazione ermeneutica, per così
dire, prevalentemente “rigida e razionale”79? L’interpretazione deve dunque essere orientata
verso un sistema chiuso di significati verosimilmente ortodossi, in biunivoca corrispondenza
con quelli letterali che li evocano? O piuttosto le elaborazioni dei Cabbalisti, o almeno alcune
di esse, lungi dal creare una geografia di meri simboli o metafore, vogliono immediatamente
e
letteralmente
significare
un
mondo
reale?
Esemplificando,
le
Sephirot
sono
ontologicamente fondate, sono reali e concrete, o rimandano simbolicamente (o meglio,
critica letteraria, si possono qualificare come “The gnostic formulation that all reading, and all writing, constitute a
kind of defensive warfare, that reading is mis-writing and writing is misreading”. (H. Bloom, Kabbalah and
Criticism, New York, 1975, 64).
79
Intendo, in un senso vicino a quello proposto da Goethe, che l’allegoria trasforma il fenomeno in un concetto, il
concetto in un’immagine, ma in modo che il concetto nell’immagine sia da considerare sempre circoscritto e
completo nell’immagine e debba essere dato ed esprimersi attraverso di essa (J.W. Goethe, Massime e riflessioni,
Roma, 1983, massima 1112). Sul punto anche M. Mazzacut-Mis, Estetica, Milano, 1996, 196 ss. Sul senso del
“simbolo” nella mistica ebraica, scrive Scholem (Le grandi correnti della mistica ebraica cit., 37): “Il simbolo non
significa e non comunica nulla, ma piuttosto fa diventare visibile qualcosa che sta al di là di ogni significato”. In
ogni caso Scholem attribuisce a allegoria e simbolo valenze profondamente diverse; anzi, nel proporre gli esiti dei
suoi studi sui primi movimenti mistici a Gerona (in Le origini della Kabbalà cit., 506), fa di tale distinzione, in un
certo senso, una chiave di lettura importante per dividere il campo nell’ambito della polemica antirazionalistica
condotta all’epoca dai Cabbalisti contro i “maimonidei”: “Tutto considerato, il simbolo è nato dal ricordo di momenti
estatici di inesprimibile contenuto. Ha qualcosa di straziante, di sconvolgente. I kabbalisti tentano di contenere il
simbolo nella contemplazione, senza lasciarlo diventare pura allegoria” (della quale fanno ampio uso i filosofi
razionalisti, n.d.r.). Idel dedica ampio spazio al tema del simbolismo in Cabbalà Nuove Prospettive cit. (pp. 187 ss.).
Questo studioso, delineata una netta distinzione tra Cabbala estatica, meno propensa a simbolizzare il mondo divino, e
Cabbala teosofica, al contrario più votata a una esegesi dei testi sacri sviluppata su diversi piani, sottolinea come per
la prima corrente “i simboli possono facilmente trasformarsi in ostacoli per il mistico che brama solo il contatto con
Dio (op.ult.cit. 189), negando l’unio mystica e il panteismo.
36
allegoricamente80) al dispiegarsi della Divinità? Sono altrettanti aspetti del manifestarsi di
Dio nel mondo (o della relazione tra le due entità), oppure alludono “solo” a qualità o
attributi
antropomorficamente
adeguati
a
un
discorso,
altrimenti
impossibile,
sull’Inconoscibile o En Soph81?
Evidentemente si tratta di interrogativi che eccedono ampiamente i confini di questo lavoro.
Tuttavia non è forse irrilevante porseli, nel tentativo di valutare i rapporti fra la mistica
ebraica e la produzione di Borges, che crea mondi fantastici, ma, a mio avviso, non simbolici
o allegorici, se non nei limiti, di ordine intrinsecamente “letterario”, in cui la figura retorica,
80
Non stiamo procedendo su un versante estetico, in cui la distinzione tra allegoria e simbolo potrebbe essere fondata
sul maggior “dinamismo” di quest’ultimo: ciò che, ossequiando la distinzione posta da Goethe, potrebbe sancire la
vittoriosa supremazia “poetica” del simbolo sulla troppo rigida allegoria. Stiamo trattando di passaggio questo tema
solo sul piano semantico, attribuendo al termine “simbolo” il significato più aderente a quello etimologico di “segno
di riconoscimento”. Simbolo vale dunque “elemento materiale, oggetto, figura, animale, persona e sim., considerato
rappresentativo di un’entità astratta”. Cfr. Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di Cortelazzo e Zolli,
Vol. V. voce Simbolo, 1204. Idel cita, ritenendola adeguata alla mistica, la definizione di simbolo di E. Goodenough:
“Un oggetto o un modello che, per qualsiasi motivo, agisce sugli uomini, causando determinati effetti in loro, e che
trascende il mero riconoscimento di ciò che viene presentato letteralmente nella forma data”. (Idel, Cabbalà Nuove
Prosp. cit., 215). Belle pagine, impregnate di scetticismo sull’opportunità di discriminare rigidamente fra queste due
nozioni, specie se utilizzate nell’interpretazione di testi sacri, sono state scritte da G. Contini, in Un’idea di Dante,
Torino, 1976, pp. 36-37.
81
Trattando la dottrina delle Sephirot nello Zohar, Elio e Ariel Toaff, nell’introduzione a Il libro dello splendore
(Pordenone, 1994, XV), scrivono: “In quanto tali gli attributi mistici di Dio non sono concetti o metafore umane,
inadeguatamente imprestati alla realtà divina. Sono invece la realtà prima, dalla quale trae valore e significato la
stessa realtà umana. L’espressione “”corona di Dio” non rappresenta per lo Zòhar una metafora che trasferisce alla
divinità un prezioso ornamento umano. E’ proprio la corona di Dio che giustifica e garantisce la realtà della corona
dell’uomo”. La stessa opinione professa Charles Mopsik, in Les grands textes de la cabale, Verdier, 1993, 567-568.
Questo studioso, nel commentare lo Zohar, rileva come curieusement, la formule d’atténuation habituelle, le “si l’on
peut dire” de circonstance, est suivie de l’expression antithétique, elle aussi stéréotypée, le «mamach », qui signifie
« réellement », « vraiment », « concrètement », et qui envoie un signal selon lequel ce qui est déclaré n’est pas
d’ordre métaphorique ni rhétorique » . Anche Moshè Cordovero, in Or Ne’erav, a cura di Yheuda Z. Brandwein, 6,1
(42a-b, 43a-45a), citato (fonte non verificata) nell’antologia di testi curata da D.C. Matt (L’essenza della Cabala,
Roma, 1999, 41) esprime lo stesso concetto : « Non è che i nomi siano semplicemente attribuiti alle sefirot. Dio non
voglia; piuttosto, i nomi sono le sefirot.» Ciò non esclude che l’interpretazione della Torah debba essere condotta con
criteri in parte analoghi a quelli puntualizzati dalla tradizione esegetica dell’ermeneutica occidentale (i cui passaggi
secondo la scolastica erano legati all’esegesi letterale-storica, allegorica, tropologica e anagogica), ma l’immersione
estrema nel senso mistico resta pur sempre qualitativamente diversa. Si legge nel commento al libro dei Proverbi del
37
specie la metafora, opera all’interno del tessuto narrativo come bagaglio
tecnico
strumentale all’efficacia e all’estetica del racconto 82.
Se, come tenderei a ritenere, con il conforto del “realismo” dei mistici 83 o di alcuni di loro,
anche la Cabbala, ove collocata, per esigenze di omogeneità di confronto, in una dimensione
estetico-letteraria, prospetta, non diversamente dal nostro autore, mondi “possibili”,
attraverso narrazioni eterocosmiche ma non utopiche84, allora il dialogo e l’interazione tra i
due universi presi in considerazione avviene, per così dire, sullo stesso piano.
Gaòn di Vilna, 4, 20-22, p. 14 e 2,9 p.7, nella antologia di Alexandre Safran, Tradizione esoterica ebraica, Firenze,
1999, 11 : « L’ebreo deve esplorare nel PaRDeS, nel « « Paradiso » » dell’esplorazione della Scrittura, quattro vie di
interpretazione dei testi biblici : il peshàt, il senso letterale del testo, il remez, il senso allegorico, il derùsh, il senso
omiletico, il sod, il senso mistico. Il saggio ebreo deve « « salire » » dal senso letterale al senso mistico, segreto della
Torà, ma deve anche « « scendere » » dal senso mistico al senso letterale ». In sostanza il sod sovrintende una sfera di
senso, diversa dagli altri piani ermeneutici; l’interpretazione mistica può tuttavia rideterminare, magari
trasformandolo, lo stesso significato letterale del testo, attraverso un’apertura, per così dire, “totale”, della parola
negata agli altri più rigidi criteri. In questo senso si legge in Bnè Issachar, II, p. 25a, nella citata antologia di A.
Safran (p.16): “ La Torà è al di sopra della ragione; non deve essere assimilata ad altri metodi di ricerca speculativa
che l’uomo utilizza”. Sul complesso tema della natura delle Sephirot, cfr., fra l’altro, n. 136.
82
Evidentemente ciò non vuol dire affatto che i suoi racconti non si prestino a letture su svariati piani o non rimandino
ad altri significati. Al contrario, il nostro autore spesso stimola il lettore a prestare un’attenzione molto viva
all’intreccio narrativo. D’altra parte i riferimenti “colti” nell’opera di Borges sono così assidui che sarebbe arduo
astrarre dai complessi mondi evocati limitandosi a una lettura disincantata e aderente al testo (se mai una tale lettura
fosse possibile). Peraltro, mi pare, siamo lontani da qualsiasi forma di simbolismo o allegoria intesa come forma
strutturale dell’opera letteraria, e cioè come costante consapevole allusione dell’autore a qualcosa che nel testo non è
espresso, come avviene di regola nella letteratura del medio evo; basti pensare all’analisi figurale proposta da Erich
Auerbach (cfr. Studi su Dante, Milano, 1986, 190 ss., con l’avvertenza che la figura è qualche cosa di reale e storico
che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica). Lo stesso Borges (cfr. il citato Prologo al
Manoscritto di Brodie, in Tutte le opere cit. Vol. 2, 369) manifesta – certo non senza civetteria anche in questo caso il proprio intento di distrarre o commuovere il lettore, e non di persuaderlo.
83
Cfr. n. 78.
84
Secondo la teoria della finzionalità, proposta da Baumgarten, i mondi del possibile, i mondi meravigliosi, sono
legittime creazioni poetiche purché siano quanto meno eterocosmiche, ossia impossibili solo nell’attualità, a
differenza delle finzioni utopiche, impossibili in tutti i mondi possibili. (Cfr. L. Dolézel,, Poetica occidentale, Torino
38
Più sconcertanti e meno studiate, rispetto al comune sostrato metodologico legato ai
procedimenti ermeneutici, mi paiono le altre implicazioni, davvero notevoli, derivanti dalla
dichiarata sacralità e perfezione del testo redatto da un’infinita intelligenza, che, in quanto
tale, nulla lascia al caso.
L’analisi di questi aspetti conduce dal piano procedurale a quello sostanziale, ossia a una più
serrata valutazione dei contenuti comuni alle due aree di studio, coinvolgendo temi
vastissimi, persino di ordine “metafisico”.
Sin d’ora si rileva che la concezione del “testo perfetto” pare in un primo tempo professata
dallo scrittore argentino quasi per accondiscendere a un gioco intellettuale, diretto a portare
a conseguenze estreme ciò che viene presentato come un godibile paradosso, uno dei tanti
saporosi frutti offerti da quel fecondo ramo della letteratura fantastica che è la teologia.
Borges pare sorprendersi e compiacersi del significato e delle possibili conseguenze di una
dottrina siffatta.
Tuttavia in un momento successivo, come, spero, avrò modo di accertare quando si
verificherà, con l’analisi testuale, l’assimilazione della mistica ebraica nella produzione
maggiore del nostro autore, l’atteggiamento dell’elegante affabulatore lascerà il posto a un
più coinvolto e partecipe approfondimento degli elementi enucleati, che, ovviamente,
appariranno in parte velati o trasfigurati dal filtro dell’immaginazione letteraria.
Alcuni dei temi connessi a tale concezione ricorrono spesso nell’opera di Borges, e non
possono quindi legarsi all’episodica infatuazione del nostro autore per l’interessante
“singolarità” di una curiosa corrente mistica.
1990, 58-59).
39
Ora, tornando alla “rivendicazione”, l’idea di sopprimere, nel Testo sacro, la collaborazione
del caso85 è evidentemente, nella sua pregnante e univoca formulazione, una tesi da
attribuire in misura prevalente a Borges, piuttosto che alla tradizione ebraica.
Lo scrittore argentino è ossessionato e affascinato da una concezione della storia sulla quale
aleggia il determinismo più rigoroso86, che lo induce a supporre infinite sottili connessioni fra
tutti gli eventi del reale.
La sua produzione letteraria illustra in modo eloquente questa credenza. 87
85
86
J.L. Borges, Una rivendicazione della cabala cit., 334.
Borges propone spesso questa lettura della realtà, ovviamente accentuandone i risvolti “fantastici”. Sul piano
teorico, si sottolinea, anche per la prossimità al tema del quale mi sto occupando, un passaggio in un saggiorecensione sul Sartor resartus di Thomas Carlyle, inserito nella raccolta Prologhi, là dove lo scrittore argentino evoca
la dottrina “secondo la quale la storia è una Scrittura Sacra che noi decifriamo e scriviamo continuamente e nella
quale veniamo anche scritti”, aggiungendo poi, nel successivo scritto sempre su Carlyle e su Emerson, che “Leon
Bloy sviluppò questa congettura nel senso della cabala”. (J.L. Borges, Thomas Carlyle: Sartor resartus, da Prologhi,
in Tutte le opere cit. Vol. 2, 780 e Th. Carlyle: Degli eroi. R.W. Emerson: Uomini rappresentativi, op. ult. cit., Vol. 2,
781). Come si vedrà infra nel trattare i limiti e il senso della nozione di “determinismo” nella mistica ebraica, anche
con riguardo all’opera di Borges è opportuno non attribuire a tale concetto un senso tecnicamente preciso. Lo scrittore
argentino in effetti si riferisce, più dei Cabbalisti, alla “causalità”, ma spesso questa nozione viene trasfigurata
dall’elaborazione letteraria, mescolandosi con altre più vaghe concezioni, in cui l’attenzione è posta, più che sugli
antecedenti, sugli effetti sorprendenti e curiosi di un certo stato di fatto. In altre parole, secondo Borges tutti gli eventi
sono connessi, ma l’autore non indaga sulle ragioni di tali legami.
87
I riferimenti sono costanti. Mi limito a qualche citazione significativa:
“Forse ogni formica che calpestiamo/è unica davanti a Dio che ne ha bisogno/per l’esecuzione delle puntuali leggi
che governano il suo strano mondo./Se così non fosse l’universo intero/sarebbe un errore ed un oneroso caos.”
(Poesia della quantità da L’oro delle tigri cit.,in Tutte le opere cit., Vol.2, 495) ..”Ogni goccia d’acqua nella
clessidra./Le aquile, gli sfarzi, le legioni/Cesare nel mattino di Farsaglia/L’ombra delle croci sopra la
terra/L’algebra e la scacchiera del persiano/Le tracce delle lunghe migrazioni/La conquista dei regni con la
spada/La bussola incessante. Il mare aperto/L’eco dell’orologio nel ricordo/Il re giustiziato con la mannaia./La
polvere infinita che fu esercito/La voce dell’usignolo in Danimarca/Lo scrupoloso tratto del calligrafo/Il volto del
suicida nello specchio/La carta di chi bara. L’oro avido./Le forme della nube nel deserto./Ogni arabesco del
caleidoscopio/Ogni rimorso ed anche una lacrima./Tutte queste cose abbisognarono/Perché le nostre mani si
incontrassero” (Le cause, da Storia della notte, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 1105). Sui vincoli che legano gli aspetti
più “microscopici” del reale, cfr. anche Il bastone di lacca, da La cifra, in op. ult. cit. Vol.2, 1235. A conferma
dell’invincibile e intramontabile attrazione di Borges per questa idea, cito uno dei suoi ultimi scritti, raccolto in
40
Ebbene, la Torah è quasi l’archetipo di tale prospettazione, la forma vivente e organica,
l’idea platonica88, peraltro realmente e storicamente manifestatasi in una struttura letteraria
concreta, effetto, quest’ultimo, che complica e amplifica l’analogia sovracaricandola di
senso.
L’assenza della collaborazione del caso nella sua redazione, per definizione consente di
assegnare al Testo Sacro tutti gli attributi della perfezione, con la conseguenza, questa mi
pare una prima riflessione indotta dalla tesi borgesiana, che è perfetto solo ciò che non è
casuale. Naturalmente questo effetto può riverberare, in primo luogo, sulla produzione
letteraria in quanto tale, che idealmente potrebbe assurgere a vertici massimi solo qualora
fosse spogliata da ogni aspetto contingente e non necessario.
Ma, mi pare, si va oltre. Il tema brilla anche di luce metafisica, sconfinando dall’ambito
meramente “libresco”.
Attributo della Divinità, e dell’opera letteraria che la compendia, e anzi ne costituisce, se
l’espressione mi è concessa, un favoloso “specchio parlante”, è il ripudio del caso, che,
secondo la concezione di Borges, è evidentemente indegno di Dio 89, il quale, come tutti
sanno – si tratta di un vecchio luogo comune - “non gioca a dadi”.
Concezione forse plausibile, ma niente affatto necessitata dalla mistica ebraica, a quanto
pare. Da una parte, infatti, attribuire un’intelligenza infinita alla Divinità, senza precisare
Atlante (Il deserto,in op.ult.cit., Vol. 2, 1411): “A circa trecento o quattrocento metri dalla Piramide, mi inchinai,
presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce: sto modificando il
Sahara. Il fatto era minimo, ma le non ingegnose parole erano esatte e pensai che era stata necessaria tutta la mia
vita perché io le potessi dire. Il ricordo di quel momento è uno dei più significativi della mia permanenza in Egitto.”
Infine il tema della causalità è spesso legato dallo scrittore argentino a quello della magia. Scrive il nostro autore:”La
magia è la coronazione o l’incubo della causalità, non la sua contraddizione. Il miracolo è tanto estraneo a
quell’universo quanto a quello degli astronomi. Tutte le leggi naturali vi imperano, e altre immaginarie.” (L’arte
narrativa e la magia, da Discussione cit.,in op.ult.cit., Vol. 1, 360).
88
La Torah primordiale (tema su cui si tornerà infra) “conteneva in potenza tutto ciò che poteva essere rivelato
tramite la Torah da dare sulla terra. In effetti, si trattava di una versione cabalistica del mondo delle idee platonico”
(G. Scholem, La cabala, Roma 1992, 137).
89
In uno scritto collocato nella raccolta Altre inquisizioni (Lo specchio degli enigmi, in op. ult. cit., Vol. 1, 1023-1024)
Borges ribadisce il concetto, a lui caro, della Scrittura come testo assoluto, impenetrabile alla contingenza, irriducibile
al caso, ritenendolo “quello che meglio conviene alla dignità del Dio intellettuale dei teologi”
41
significato e limiti di tale concezione90, risponde a una scelta rappresentativa o descrittiva
pur sempre
antropomorfica. Ancora più lo è pretendere di connotare l’intelligenza divina
degradandola, ciò che accade proprio con l’elevarla all’apice della ragione “umana”: una
ragione che sovrintende a ogni evento ed è in grado di prevedere tutti gli sviluppi futuri in
virtù dell’eccezionale, ma – di nuovo - inesorabilmente antropomorfica, capacità di
rappresentarsi la totalità delle condizioni del reale in ogni istante.
Peraltro, è innegabile, esiste nel mondo, nella storia, qualcosa - a questo punto non più
emarginabile a mero gioco letterario - che conferma una supposizione di verità e di
assoluto: l’impensabile singolarità, il quid imprevedibile è la Bibbia, che non è opera
“umana”, perciò inadeguata ed esposta agli incerti umori del contingente, agli apparenti
capricci di una sorte, che ci si ostina a definire tale solo per l’insufficienza e la limitatezza di
chi dovrebbe svelarne le arcane geometrie.
Per quanto arbitrario, o fortemente influenzato dalla teologia cristiana del medio evo, sia qui
il pensiero di Borges nel gravare la Divinità di un onere di matematico e deterministico
rigore, o nell’attribuire alla Perfezione l’esautorazione del Caso, il che è lo stesso, un esito
sembra innegabile: lo scrittore argentino avverte prepotentemente, e ciò è assolutamente in
linea con la mistica teoretica, la presenza di Dio nel Testo Sacro 91 e la concezione della
Torah come organismo polisemico e onnicomprensivo 92.
90
E’ noto che la mistica ebraica delle origini offre spazio a concezioni antropomorfiche (si pensi alla Misura del
corpo, lo Shi’ ùr Qomà) caratterizzate dall’attribuzione di misure straordinarie e incommensurabili alla Divinità, tanto
è vero che queste descrizioni sono anche state interpretate come volutamente paradossali, quasi volessero sottolineare
l’impossibilità di rappresentare il Santo secondo parametri comprensibili all’uomo. Peraltro, volgendo l’attenzione
agli attributi, se così si può dire, “spirituali” dell’Ente Supremo, e senza entrare nel dibattito del pensiero filosofico
medievale ebraico su tale vexata quaestio, neppure con riguardo alle concezioni della mistica più matura, che sfocia
nello Zohar, mi pare persuasivo isolare una “qualità” astraendola dal processo intimo alla Divinità che si svolge
attraverso l’inseparabile operato delle Sephirot.
91
Il tema è pertinente con la mistica. A partire dall’elaborazione del Séfer Bahir si allaccia il rapporto che unirà questi
due simboli – la Shekhinà e la Torà orale – nella Kabbalà. Cfr. G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 170.
92
“Volgila e rivolgila, che tutto è in essa (la Torà); medita su di essa, invecchia e consumati su di essa, e non te ne
allontanare perché non c’è per te niente di meglio.” (Pirké Avot cit., V, 21, 85). Scrive Goetschel (La Cabbalà cit.,
104) : « Se la Torà è Dio pervenuto all’espressione, la sua infinità si riflette necessariamente in essa ed essa possiede
dunque di diritto un significato infinito. Ci troviamo pertanto di fronte ad una polisemia assoluta, o piuttosto ad una
polisemia dell’Assoluto. Ne consegue la legittimità di una moltitudine di letture e si arriverà a parlare di
seicentomila interpretazioni della Torà, tante quanti erano gli israeliti presenti alla teofania sul Sinai. » La polisemia
42
A questo punto, si può forse più fondatamente focalizzare il punto di intersezione, la legge
di confluenza, tra ciò che potrebbe definirsi il determinismo organico e onnipervasivo che
anima la concezione del reale in Borges e l’orientamento della mistica ebraica in questo
decisivo ambito.
In un suo racconto fantastico, Lo zahir93, lo scrittore argentino scrive: ”Gli ebrei e i cinesi
hanno codificato tutte le circostanze umane; nella Misnah si legge che, iniziato il crepuscolo
del sabato, un sarto non deve uscire di casa con l’ago in mano”.
La profondità di senso, per l’ebraismo, connessa all’osservanza dei precetti, è di tale portata
da non potere essere trattata esaurientemente, ora, in tutte le sue innumerevoli
sfaccettature.
Alcuni aspetti, tuttavia, riconducibili alla questione in esame, possono essere accennati.
A mio avviso, e si tratta di un punto che non mi pare sia stato affrontato dagli studiosi, si
coglie, in questa fase, una notevole analogia, ma anche una sensibile differenza, tra il
pensiero di Borges e quello ebraico nella concezione delle dinamiche del reale.
dell’Assoluto della mistica ebraica, tuttavia, se legittima una sconfinata ermeneutica, non giustifica, come si vedrà
infra, il solo versante “passivo” dell’interrogazione del Testo, ma implica e richiede l’attiva cooperazione, libera e
responsabile, dell’uomo, che diventa a sua volta “tessitore” della Torah e del Dio che vi è manifestato.
93
Da L’Aleph cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 847.
43
L’identità si ravvisa nell’idea comune del legame intimo tra gli eventi universali 94, governati
dalle forze della causalità95, nel loro movimento di reciproca influenza che coinvolge il
mondo in alto e il mondo e il basso, se così ci si può esprimere 96.
La divergenza si rileva nel fondamento di tale concezione.
Borges lo attribuisce indiscutibilmente alla divinità e al suo Specchio Parlante, la Scrittura,
liberata da ogni contingenza, sottratta alla collaborazione del caso.
Compito dell’uomo e del Cabbalista è interrogare incessantemente questa Divinità Cifrata,
sconosciuta e immane, fino alla prolissità numerica.
94
“Le sublimi essenze interne costituiscono in segreto una catena che lega ogni cosa dal più alto al più basso, che si
estende dalla pozza superiore al margine dell’universo. Non esiste nessuna cosa, neppure la più minuscola, che non
sia legata agli anelli di questa catena.” Moshè de Leòn, Sefer ha-Rimmon (Libro del melograno) Ed. Elliot R.
Wolfson, Atlanta, 1988, 181-182, citato nella menzionata antologia di D.C. Matt. (L’essenza della cabala, cit., 30;
fonte non controllata).
95
Naturalmente la nozione di causalità evocata non può essere intesa in senso newtoniano-positivistico, né, risalendo
nel tempo, pare assecondare l’accezione propria della tradizione atomistica di Democrito, Epicuro e Lucrezio;
neppure è qualificabile con riferimento al determinalismo fatalistico degli stoici. Il concetto richiamato, e questo può
valere anche per Borges, non può avere una sua specificità “tecnica” come categoria di pensiero filosofico. E’ forse
più corretto e aderente alla mistica ebraica abbandonare almeno in parte, per così dire, la nozione di causalità
all’immaginazione, sottraendola a più rigorose verifiche. Mi sembra infatti più plausibile rideterminare le “forze” che
legano gli eventi del mondo, producendo effetti, in un sistema di poteri e influenze reciproche, di “azioni a distanza”,
in cui, naturalmente, per sfuggire al rischio di decadere nella magia (paradossalmente definita da Borges l’incubo
della causalità, non la sua contraddizione, cfr. n. 86), occorre rettamente intendere e sviluppare i giusti equilibri fra
strumenti e finalità.
96
Il significato (o qualche significato) del rapporto tra mondo in alto e mondo in basso, tema vastissimo, forse tra i
nodi centrali dello Zohar, in parte verrà approfondito nell’analisi testuale riservata al IV capitolo. Pare di poter
comunque affermare che la reciprocità debba essere individuata almeno su due piani distinti (e intersecantisi); da una
parte un rapporto di specularità, colto anche da Borges nel racconto I teologi (L’Aleph, Milano, 2003, 40), là dove il
nostro scrittore scrive che nello Zohar ..il mondo inferiore è un riflesso di quello superiore, e dall’altra un gioco di
influenze (che ovviamente non esclude la specularità, la quale ben può esserne un effetto) o, come si è scritto nella
nota 94, di “poteri”, che trovano espressione nella mistica teurgica e nella teurgia incrementativa, su cui torneremo
infra. Si ricorda: “Tutto ciò che esiste sulla terra esiste anche nei mondi superiori. La più piccola cosa in questo
mondo dipende da una cosa superiore che se ne fa carico. Ecco perché prima che una cosa si svegli qui in basso,
deve prima svegliarsi in alto la sua radice che se ne fa carico. Poiché tutto è unificato; l’uno si unisce all’altro”
(Zohar, I, 156b). Sempre Zohar, III, 86: “Il più piccolo filo d’erba dipende da una forza in alto (nei mondi
superiori).” Citazioni dall’antologia di A. Safran (Tradizione esoterica, cit., 16-17). Talvolta emerge in modo più
44
L’umano e il divino restano sostanzialmente separati, operano su due piani distinti: l’uomo
interroga l’oracolo e può sperare, interpretandolo correttamente, di impadronirsi dei suoi
segreti e del suo potere.
Ciò che resta sconosciuto, nascosto, non svelato, l’aspetto trascendente della divinità, pare
quasi degradato, in questa fase, al piano meno vertiginoso di una banale meccanica
“enigmistica”.
Il mancato dis-velamento di Dio appare qui, in fondo, irrilevante, in quanto il Testo è
garante di tutte le variazioni infallibili. Il libro sacro è la Sfinge, ma qualunque sia la risposta
all’eterno quesito, tale esito sarà comunque “convalidato”. Non vi è “il migliore dei mondi
possibili”; tutti gli universi sono possibili e ugualmente plausibili, poiché sprovvisti di una
gerarchia fondata su valori 97.
netto, in questa complessa relazione, la natura deterministica del legame: “ In effetti tutte le cose di questo mondo
sono legate alla Divinità: sono collegate a Lei da una forza che discende fino a loro: esse le sono unite per mezzo di
un concatenamento di causa-effetto, di un concatenamento progressivo.” (Shulchan ha-Tahor, p. 152a-b, citato da A.
Safran, op.ult.cit., 18). Si potrebbe sostenere che la duplice natura “speculare-deterministica” (nell’accezione già
sottolineata) del legame tra le cose e tra i mondi in alto e in basso possa, per così dire, sintetizzarsi in un unico
modello esplicativo di carattere organico-naturalistico che trova la migliore espressione simbolica nell’albero. Questa
raffigurazione, peraltro, appare senz’altro la più adeguata per esprimere il rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra
Universo e Uomo, relazione mediata dal ruolo delle 613 Mitsvot, che corrispondono agli altrettanti organi del corpo
umano. In questa senso potrebbe forse soccorrere il modello morfologico organico, che spiega i fenomeni in termini
di leggi strutturali, che si sostituiscono alle norme causali della scienza naturale classica, proposto da Goethe per lo
studio degli organismi biologici e adottato come criterio di poetica letteraria da Humboldt (cfr. Dolézel, Poetica
occidentale cit., 71 e 82 ss.). Scrive A. Safran in Saggezza della Cabbalà, Firenze, 1998, 94: “Secondo i saggi della
Cabbalà la “”natura”” non esiste realmente; ciò che esiste realmente è la chyyùt, la “forza vitale” che anima la
natura dall’interno”. Lo stesso studioso aggiunge (op.ult.cit.p.95): “Nella nuova fisica l’indeterminismo ha la meglio
sul determinismo, senza tuttavia separarsene. La nuova fisica si ricongiunge così, grosso modo, con la Cabbalà, la
quale non riconosce una causalità impersonale, fissa, costrittiva, perpetua, che governa impassibilmente il mondo”.
C. Mopsik, nel trattare questo tema con riferimento a Mosè de Leòn cita il Corpus Hermeticum: “Toutes choses sont
connexes les unes aux autre par de mutuels rapports dans une chaine qui s’étend de la plus basse à la plus haut.” (C.
Mopsik, Les grands textes cit., 194)
97
Il criterio di imposizione di un ordine al chaos, in virtù della Parola raccontata, che persuade a ciò che è di
maggior valore, è posto in evidenza da Sini, ne suo commento al Timeo (C. Sini, Raccontare il mondo, Milano, 2001,
86). Mi sono imbattuto anche in un testo di Matteo Bonazzi, allievo Di Carlo Sini (Il libro e la scrittura tra Hegel e
Derrida, Milano, 2004, 34) in cui ho fortuitamente rinvenuto un concetto mediato dall’Enciclopedia delle scienze
filosofiche di Hegel, che, assai meglio di quanto abbia fatto io, rende il senso dell’”enigma” così come ho cercato di
prospettarlo riferendomi a questo passaggio di Borges. Trattando della polisemia simbolica del geroglifico egiziano,
45
Non esiste spartiacque tra giusto e sbagliato.
In sostanza una simile concezione – limitatamente a questa fase – sembrerebbe priva di
una dimensione etica profonda.
Nella mistica ebraica, invece, la forza che anima e determina le innegabili connessioni fra
tutti gli eventi non sta da una sola parte. Essa viene alimentata anche dall’uomo. Il rapporto
profilato da Borges viene quasi rovesciato: la divinità non è sola, ha bisogno di Adamo 98, che
deve cooperare attivamente per restaurare l’armonia infranta. La relazione tra natura
naturans e natura naturata è molto più intima; dell’organismo vitale in cui consiste l’intero
universo, l’uomo, parte viva e significativa, è forse il protagonista principale del dramma
cosmico.
Anche i Cabbalisti, come Borges, ovviamente attribuiscono rilievo enorme alla Torah. Non lo
fanno però solo in quanto vi scorgono il libro-meccanismo prodigioso, che riproduce in modo
speculare l’Infinita Intelligenza dell’Autore. Piuttosto, lo studiano e lo interrogano perché è il
Testo, etimologicamente il tessuto, che assegna anche all’uomo il compito di cooperare in
modo decisivo alla sua stessa “redazione finale”99. Una direzione, un orientamento getta
luce sull’intrigo che avviluppa i destini.
plasticamente incarnato nella Sfinge, Bonazzi scrive: “L’andare qua e là del simbolico espone all’enimma oggettivo
stesso; il suo errare non ha ancora il senso di alimentare l’attività dello spirito, esso produce enigmi, espone
all’enigma stesso prima che tutto ciò sia preso dalla mano del concetto stesso come proprio lavoro, propria fatica.”
98
Un Cabbalista italiano del XII secolo, Menahem Recanati, che ha raccolto gli insegnamenti risalenti a Isacco il
Cieco, nel suo Commentario alla Torah (Deut., fol. 191d, cit. da Mopsik op. cit., 79) scrive a tale proposito, facendo
precedere l’espressione dal consueto “si l’on peut dire”, les realités d’un haut ont besoin des etres d’en bas”.
99
Scholem, ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 95, trattando il tema della “relativizzazione mistica” della Torah
cita un brano di un Cabbalista di Smirne del XVIII secolo, riportato da David Azulai: “..Davanti a lui (Dio, n.d.r.)
c’era una serie di lettere che non erano congiunte in parole, come accade ora, poiché la disposizione vera e propria
delle parole doveva avvenire secondo il modo e la maniera in cui si sarebbe comportato questo mondo inferiore.”.
46
Fare i Comandamenti100, fare la Torah, addirittura “fare Dio” 101. Queste espressioni, pur
spesso mitigate da attenuazioni, ricorrono con una certa frequenza tra i Cabbalisti.
La mistica ebraica, evidentemente, non si accontenta di interrogare il Testo Sacro o di
investigarlo solo per conoscere, decriptandolo, il segreto della Divinità e dell’Universo, dato
una volta per sempre in una formula esoterica impervia, ma anche, se così si può dire, ne fa
oggetto di inquisizione per farsene carico, per viverlo, addirittura per modificarlo, per
ricercarne la lettera mancante102.
In questo senso, se mi è concessa l’analogia, il Giusto di Israele, il Fondamento 103, è il
gigante Atlante104 che, sconfitto nella battaglia cosmica e punito da Zeus, regge sulle spalle
100
L’espressione trova un possibile riferimento testuale in Levitico, 26;3: “Se seguirete le mie leggi, se osserverete i
miei comandi e li metterete in pratica..” (La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, 2002, 255).
101
Sempre M. Recanati, in Sefer Ta’amé ha – Mitsvot, Londra, 1962, 47 ss., traduzione in francese di C. Mopsik, in
Les grands textes cit. 591, scrive: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite comme s’il me
faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ; si l’on peut dire, qui endommage l’en bas,
c’est comme s’il endommageait l’en haut et c’est à ce sujet qu’on a dit: il diminue la ressemblance » Si legge nello
Zhoar (III, 81b, in Zohar il libro dello splendore, passi scelti a cura di G. Scholem, edizione italiana a cura di E.
Loewenthal, Torino, 1998, 76): “Perciò anche il Santo, sia Egli benedetto, è chiamato Uno quando è completato dai
patriarchi e dalla comunità d’Israele”. Scrive M. Idel (Cabbalà Nuove Prospettive cit., 170): “La Cabbalà teurgica
sviluppa una delle fondamentali peculiarità della religione ebraica: dal momento che essa privilegia l’azione rispetto
al pensiero, l’ebreo è responsabile di tutto, Dio incluso”...”Un cabbalista che osserva il rituale non collabora solo al
mantenimento dell’universo, ma anche alla conservazione, o addirittura alla formazione di alcuni aspetti del
Divino” (op. ult. cit., 171). Sottolineo inoltre che la maggiore attenzione alla Cabbala teurgica è dedicata dagli esegeti
successivi a Scholem, soprattutto da coloro che, liberati, per così dire, dall’”angoscia” delle origini del movimento
mistico, tema sviscerato dallo studioso berlinese, hanno potuto più liberamente affrontare i testi, spostando più
decisamente l’analisi sul piano ermeneutico. Mi riferisco in particolare a Idel e Mopsik.
102
Cfr. G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 103, nella parte in cui commenta il Sefer Temunah.
103
“Il giusto sostiene il mondo intero, poiché è scritto:””E il giusto resta come un pilastro eterno”” (“” E il giusto
costituisce il fondamento del mondo””). Se poi il giusto si indebolisce, il mondo non può più sussistere.” Cfr. Sefer
Bahir, 101-102, tratto da A. Safran, Tradizione esoterica ebraica cit., 136.
104
Cfr. Enciclopedia dell’Antichità Classica, Milano, 2000, voce Atlante, 145.
47
con le braccia alzate la sfera celeste; non è Sisifo, l’eroe dell’assurdo di Camus, condannato
al lavoro inutile e senza speranza, tragicamente cosciente dell’inanità dei suoi sforzi 105.
Due sorti diverse: il castigo del primo è portare il mondo sulle spalle, una funzione punitiva,
gravosa, ma utile e determinante per l’economia universale; la pena del secondo è invece
un compito frustrante, che occupa un’eternità angosciosa irraggiata solo dall’eroica
consapevolezza della reiterazione dello sforzo vano106.
E’ forse Sisifo l’uomo di Borges? L’interrogativo è ancora prematuro, ma si riproporrà senza
sosta.
Ora, tornando al tema in discussione, a differenza di quanto avviene nel Confucianesimo,
evocato dal nostro autore in virtù di un forse indebito 107 parallelismo con la Mishnà108, la
codificazione delle circostanze nella precettistica, lungi dall’accondiscendere all’esigenza di
un ritualismo conservativo votato alla tipizzazione109 e regolamentazione delle condotte
sociali, risponde, come altri strumenti dell’immenso arsenale dell’ebraismo religioso, tra cui
la stessa Cabbala110 esoterica, al bisogno profondo di creare un rapporto, per così dire,
“efficace” e “produttivo” tra l’uomo e la divinità.
In termini assai sintetici, i mezzi evocabili per raggiungere tale effetto sono proprio
l’adempimento dei precetti, lo studio della Torah (che configura comunque una mitsvà in sé)
105
A. Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Milano, 1996, 317.
106
Sisifo, come è noto, è condannato a trascinare senza posa un masso sulla sommità di una vetta, dalla quale la pietra
cade incessantemente per effetto del suo peso.
107
Salvo naturalmente che il confronto si esaurisca su un piano meramente formale.
108
Cfr. nota 92.
109
Termine giuridico con cui si significa lo specifico inquadramento e la regolamentazione normativa di fattispecie
concrete, dapprima sprovviste di peculiare disciplina.
110
Sempre che sia corretto distinguere. Se è vero infatti che i precetti corrispondono alla Torah orale e i
Comandamenti alla Torah scritta (cfr. Zohar III 113a, in Trad. Esot. ebraica cit., 176) appare arduo porre nette
delimitazioni fra tradizione rabbinica e Cabbala esoterica. Addirittura, secondo M. Idel (Cabbalà Nuove Prospettive
cit., 11), un’eccellente caratterizzazione sintetica della Cabbala teosofico teurgica è quella che le attribuisce come
motivi centrali la natura delle dieci Sephirot e il significato mistico dei precetti.
48
e la Kawannà nella preghiera mistica, aspetto, quest’ultimo, che non sarà approfondito, in
quanto meno pertinente al mio lavoro.
L’uomo, con la sua attività, può rafforzare o indebolire la potenza di Dio e l’adempimento
della volontà divina sulla base dei precetti è ..il mezzo attraverso il quale partecipa al
processo intimo dell’Ente Supremo 111.
L’osservanza delle mitsvot è il primo e più semplice strumento di influenza di cui l’ebreo, in
particolare, dispone per partecipare da protagonista alla storia dei mondi in alto e in basso
112
.
I
precetti
sono
inscindibilmente
legati
fra
loro,
nessuna
mitzvà
può
esistere
indipendentemente dalle altre mitzvòt, allo stesso modo di un abito tessuto che non
potrebbe esistere se ogni filo non fosse legato agli altri 113.
L’organicità normativa non è una metafora, trovando la propria radicalità “vivente” e
“carnale” in quella naturale e biologica, là dove ogni mitsvà presiede e corrisponde a un
organo o a un nervo del corpo, cosicché il compimento di un precetto implica un atto sia
fisico sia psichico.
Ecco, dunque, che il rafforzamento o l’indebolimento dei mondi, legato alla condotta umana
e alla sua capacità di influire sul processo intimo della divinità, accelerando o rallentando il
momento della redenzione, si riflette necessariamente sull’uomo inteso come unità
psicofisica:
la
stessa
mortalità,
intesa
come
declino
del
corpo
conseguente
al
deterioramento degli organi, è, in ultima analisi, effetto della mancata osservanza della
111
M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit, 159. L’autore, nel capitolo sulla teurgia incrementativa, sposa la tesi secondo
cui la stessa concezione del rituale (non si parla quindi di una pratica cabbalistica medievale, ma dell’insegnamento
talmudico midrashico della tarda antichità) come adempimento dettagliato della volontà divina, finalizzato a una
pratica teurgica, è da considerare organica al pensiero ebraico. Idel va oltre e sostiene la possibilità di affermare che
non esiste nessuna rilevante differenza tra la teurgia midrashica e quella cabbalistica (op. ult. cit., 159).
112
“Il mondo sussisterà grazie all’adempimento delle mitzvòt, dei precetti della Torà che hanno le loro radici nella
bontà.” (Torà Or, 27b, in A. Safran, Trad. Esot. Ebraica cit., 158). “Un solo uomo può “”distruggere”” il mondo
“”in una sola ora””, ma, “”in una sola ora”” può anche “”acquisire il mondo””, prepararsi per il mondo in Alto.”
(A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 196 ss.).
113
Cfr. Sefer Charedim, p. 106, in Tradizione esoterica ebraica cit., 32.
49
totalità dei precetti114 da parte di un singolo (tuttavia per un solo individuo obbedire alle 613
norme è impossibile, forse solo la collettività, la comunità d’Israele, può farlo).
Ma l’intima connessione che lega le mitsvòt, e specularmente riverbera sul microcosmo
umano, si estende anche in alto: la Torah orale, in cui consistono le mitsvòt (cfr.n.111), e la
Torah scritta, insieme costituiscono la totalità del Nome del Santo 115.
Se l’adempimento delle mitsvòt è il primo passaggio necessario di questa teurgia, il precetto
religioso dello studio della Torah è superiore a tutti gli altri116 e la sua mancata osservanza
non colpisce solo l’organo o il nervo corrispondente alla singola mitsvà, ma reca danno a
tutto il corpo, a tutte le
forze dell’uomo, che è allora come morto, privato della vitalità
spirituale117.
Senza la necessità di ricorrere a particolari “accentuazioni” esoteriche, incomincia quindi a
profilarsi un mondo mistico della Torah, di spessore ben più ampio, profondo e complesso di
quello prospettato dal Borges di Una rivendicazione della cabala.
E’ un mondo che implica e presuppone l’uomo, sia in quanto lo studio devoto del singolo
individuo tiene in vita il Testo, e con il Testo il Mondo (cfr. n. 115), sia perché il textum
vivifica e alimenta, infondendovi forza vitale, lo stesso organismo umano, decidendone in
114
Se una di esse fosse soppressa, niente potrebbe compensare quella mancanza (op. ult. cit., 33). A proposito della
impossibilità di poter adempiere la totalità dei precetti da parte di ogni singolo membro della comunità: “ ..Delle 613
mitzvòt non tutte possono essere eseguite da chiunque; alcune infatti sono riservatte ai sacerdoti e possono essere
messe in pratica solo nel Tempio.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 124).
115
Cfr. Zohar III, 113 cit., in op. ult. cit., 176. “..Si l’on peut dire, les réalités d’en haut ont besoin des etres d’en
bas” (Isacco il Cieco, Commentario della Torah, citato da C. Mopsik, in Les grands textes cit., 79).
116
“Se il mondo, a Dio non piaccia – fosse privato per un solo istante dello studio e della meditazione della Torà da
parte del ““popolo tesoro”” (il popolo di Israele) immediatamente tutti i mondi sarebbero distrutti e cesserebbero di
esistere, che a Dio non piaccia! Ecco perché ogni ebreo possiede in se stesso un potere prodigioso: quello di
mantenere nell’esistenza tutti i mondi e la creazione intera, studiando e meditando la Torà” (Nefes ha-Chayim,
portico IV, cap.25, p.46b, in A. Safran, Trad. esot. ebraica cit., 71). Ancora: “Chi si occupa della Torà rispettandone i
fini, acquista molti meriti; non solo, ma tutto il mondo acquista valore per (da intendere “grazie a”, “per meritoeffetto di”) lui” (Pirké Avòt cit., cap. VI,1, p. 89).
117
Nefes ha-Chayim cit., in op. cit., 70. “La vitalità e l’esistenza di tutti i mondi dipendono dal nostro studio della
Torà, dalla nostra meditazione della Torà.” (Ibidem, portico IV, cap.26, p.47°, in op. ult. cit. 71).
50
ultima analisi la sorte “fisica” e spirituale, tanto inscindibilmente quanto modernamente
connesse.
Siamo, a mio avviso, piuttosto lontani dal perfetto asettico lucido divin meccanismo,
sottratto al caso, nobilitato da infiniti scopi, cui allude lo scrittore argentino.
L’organicità che struttura la Torah, nozione in sé condivisa, con le limitazioni prospettate,
dal pensiero di Borges, non configura infatti solo una peculiarità riconducibile al Testo in
astratto, non è l’inaccessibile, l’incessantemente interrogabile idea platonica del libro
perfetto redatto da un’intelligenza infallibile.
E’, piuttosto, una complessità totale, onnicomprensiva e onnipervasiva.
Ora, questa concezione della Torah, intesa come Testo disponibile nella sua attuale
formulazione e tuttavia aperto a innumerevoli trasformazioni, costituisce uno dei punti di
riferimento essenziali per lo studio sulla creazione che sarà inevitabilmente affrontato nella
successiva analisi testuale.
In tale prospettiva, vorrei accennare un’operazione ermeneutica che potrebbe essere
impropria.
Utilizzerei, accostandole e sintetizzandole, le categorie descrittive di Scholem e Idel per
tentare, forse indebitamente, di trarre dal loro insieme qualche riflessione.
Lo studioso berlinese enuclea tre principi, o funzioni, fondamentali del pensiero cabbalistico
sulla natura della Torah: il Testo considerato come organismo, la presenza del Nome di Dio
nella Scrittura, l’infinita ricchezza di significato della parola divina 118.
Idel, a sua volta, nell’introdurre la propria monografia, distingue due correnti principali nella
Cabbala, una “teosofico-teurgica”, di natura teocentrica, e incentrata sulla mistica dei
precetti e sullo studio delle Sephirot, e una “estatica”, di carattere essenzialmente
antropocentrico, definita da Avrham Abulafia “dottrina dei nomi divini”. 119
Mi pare di poter affermare che il punto di confluenza e sutura tra le due vie così identificate
sia proprio rappresentato dalla straordinaria e inesauribile apertura della Torah, nella quale
si riflette, se mi è concesso il termine, un “antropoteocentrismo” totalizzante, in quanto i
due piani, umano e divino, sono entrambi presenti e interagiscono, mentre la speculazione
sul Nome si prospetta come necessariamente pertinente ai due profili, ricongiungendo le
distinte correnti, estatica e teurgica, identificate da Idel.
Rispetto alla mistica dei precetti, branca essenziale nell’ambito di studio della Torah orale su
cui ci si è soffermati, la Cabbala che si sviluppa sulla natura del Testo Sacro, considerato
118
G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 49.
119
M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit., 11.
51
indistintamente in tutte le sue manifestazioni, quelle, per così dire, velate e svelate 120,
storiche e metafisiche, essoteriche ed esoteriche, offre spunti ancora più fecondi,
compendiando in sé, incessantemente e inestricabilmente 121, oltre a tutte le possibili
riflessioni sul processo intimo della divinità e sull’attività teurgica di mantenimento 122 e
restaurazione, anche l’inconcepibile, vertiginosa ricerca del Nome e di ciò che Scholem ha
definito I segreti della creazione123.
E’ infine plausibile affermare che, anche sotto tale profilo, la concezione sulla natura della
Torah elaborata dalla mistica ebraica, soprattutto
se
riconsiderata alla luce della
convergenza tra le due correnti estatica e teurgica, è ben più varia, stratificata e complessa
di quella, pur vertiginosa, ma unilaterale e “passiva”, proposta da Borges.
120
“Così è per la Torah, che dischiude i suoi segreti più riposti solo a colui che l’ama..Da dentro il palazzo lascia
intravedere il proprio volto e gli indirizza un segnale, un’allusione per poi tornare subito a nascondersi..In tal modo
dunque la Torah si rivela fuggevolmente e così facendo attizza l’amore che il suo amante le porta” (in Zohar, II, 94b99b, riprodotto in Zohar a cura di Scholem, cit., 55. Lo stesso brano citato da Scholem a pag. 72 de La Kabbalah e il
suo simbolismo reca una traduzione più pregnante: “E quindi anche la Torah è manifesta e nascosta e innamorata va
dal suo amato e desta l’amore in lui.”
121
Intendo dire che nella concezione della Torah sono presenti tutte le elaborazioni concettuali accennate nella
mistica delle mitsvòt e molto di più ancora. La nozione di organicità esaminata nel trattare soprattutto le intime
connessioni fra i precetti, trova la propria esaltazione, per così dire, nella Scrittura, intessuta con i fili del
tetragramma (Gikatilla, Sha’are’ ‘orah, Offenbach, 1715, f, 2b). Commentando il pensiero di Gikatilla, Scholem (in
op. ult. cit. 56) scrive: “La Torah è il nome di Dio perché rappresenta un tessuto vivo, un textus nel senso preciso del
termine, dove è stato intessuto l’unico vero nome, il tetragramma, in maniera indiretta e segreta”.
122
Nel commentario alle Aggadoth talmudiche di Azriel di Gerona, citato da G. Scholem in op. ult. cit., 59, vi è
scritto: “Certe sezioni o versi (della Torah, n.d.r.) appaiono degni di essere gettati nel fuoco a colui che non capisce il
loro senso nascosto; ma a colui che è riuscito a percepire il loro vero senso appaiono come elementi essenziali della
Torah. E quindi chi toglie dalla Torah anche soltanto una lettera o un punto è come qualcuno che asporta qualcosa da
una costruzione perfetta”. Sul rapporto fra la Torah rappresentata come organismo e l’influenza dell’uomo con
l’attività di mantenimento, cfr. anche Zohar I, 134b (“Colui che si occupa della Torah mantiene il mondo in
movimento e mette ogni parte in condizione di svolgere la sua funzione...E tutto è ordinato secondo l’archetipo della
Torah, poiché la Torah consiste interamente di membra e articolazioni che stanno fra loro in un rapporto gerarchico,
e se sono esattamente disposte costituiscono un unico organismo”).
123
G. Scholem, I segreti della creazione, Milano, 2003.
52
Essa sollecita un’interrogazione del Testo assai più intricata inquietante e “abissale”, nella
quale la collaborazione dell’uomo è molto più attiva e pragmatica.
E’ vero che si è indotti, come il nostro autore, a scandagliare il prodigioso meccanismo fino
alla prolissità numerica, ma è altrettanto certo che l’impatto con la Scrittura non può
esaurirsi in un’incessante inquisizione volta a sciogliere pur portentosi enigmi.
L’organicità, che si è detta antropoteocentrica, del Textum, le intime connessioni ordite, le
inaudite biforcazioni alle quali lo scrittore argentino forse allusivamente 124 pensa, non
possono, come si è sottolineato, essere limitate a un solo aspetto del Divino, all’infinita e
rigorosa intelligenza del distante Dio dei teologi medievali.
Tutti gli aspetti (si sarebbe tentati di dire, con Spinoza, tutti i modi) della realtà conosciuta e
sconosciuta sono nel Testo.
Dio, la luce, la lettera sacra che precede la parola, la parola -cosa 125 che forma il testo, il
testo che crea il mondo126 e l’uomo nel mondo, e daccapo, in un vorticoso gioco di riflessi,
l’uomo che collabora alla redazione del testo, il testo alimentato dalla parola, la parola
decostruita nella lettera, la lettera in Dio, si diramano, si separano, si ricompongono,
dirompenti e impetuosi, senza soluzione di continuità, rifluendo, come onde agitate di un
oceano senza fine, nel libro di sabbia127, nel Punto Assoluto, nell’infinita Torah, che è,
insieme, il Tutto e, paradossalmente, una Parte del Tutto che Lo contiene.
124
In uno dei più celebri racconti (Il giardino dei pensieri che si biforcano, in Finzioni cit. nella edizione Torino,
1995, p. 79 ss.), Borges genialmente ipotizza, fra l’altro, differenti sviluppi di eventi nel tempo determinati da diverse
svolte possibili, corrispondenti alle diramazioni prospettate da un (apparentemente) caotico libro-labirinto.
125
Secondo l’interpretazione di Goetschel (in La Cabbalà cit., 78) la prima consapevole elaborazione di una mistica
del linguaggio dovrebbe attribuirsi a Isacco il Cieco, che avrebbe identificato il principio del dire, dibbur, con le
Sephirot, le parole che stanno all’origine di tutte le cose, giocando proprio sul duplice significato del vocabolo
ebraico. E’ un tema che verrà ripreso nei prossimi capitoli.
126
Dio guardò nella Torah e creò il mondo (cfr. Bereshith Rabbah, 1.1, Torino, 1978, 29).
127
Il libro di sabbia è anche il già citato titolo, eponimo dell’omonima raccolta, di un racconto fantastico di Borges,
che favoleggia di un volume dalle infinite pagine (cfr. J.L. Borges, Tutte le opere cit., Vol.2, 648 ss.). Lo ricordo qui
non casualmente. Come L’Aleph e molte altre narrazioni del nostro autore, anche Il libro di sabbia appare più
adeguato dei c.d. “saggi” borgesiani nel mettere in luce l’influenza anche inconsapevole del misticismo ebraico
sull’opera dello scrittore argentino a un livello forse più profondo degli intrecci espressamente “dichiarati”.
53
Il Testo mi pare anche figura o simbolo della “contrazione” creatrice di En Soph esaltata
dalla Cabbala luriana128. Dopo lo tsimtsum, se ciò si può dire, una Parte del Tutto
paradossalmente contiene il Tutto, e paradossalmente il Tutto è uguale alla Parte. Una
riflessione, questa, che potrebbe aprire altri squarci nei temi che saranno affrontati.
In conclusione, credo che siano emerse, per ora, alcune “familiarità” e non poche
divergenze, che riterrei profonde, tra “la mistica ebraica di Borges” e taluni aspetti della
Cabbala, quali affiorano dopo un esame forzatamente limitato.
Le distonie, tutte pertinenti alla relazione tra Dio e uomo, meno passionale e meno intensa
nella dimensione etica proposta dalla lettura borgesiana, si manifestano su piani distinti che
s’intrecciano e trovano il proprio punto d’intersezione nella Torah, dalla quale sono partito e
mi sono allontanato, per poi infine ritornare.
E’ diversa, mi pare, la concezione di Dio, alla cui “perfezione”, paradossalmente umana, e
non antropomorficamente divina, il Giusto coopera; sono differenti e più complessi, nel
pensiero ebraico, il fondamento e il dispiegamento del legame organico - pur condiviso in
generale da Borges – in cui si articola la realtà, sublimata nelle inesauribili risonanze del
Testo Sacro, che echeggiano incessantemente in una policromia della quale l’uomo è non
solo il critico interprete, non solo l’eterno interrogante, ma anche la principale figura
rappresentata, se non addirittura l’artefice divinamente ispirato, che rimescola e combina i
colori, intinge i pennelli e, con timore e tremore, dipinge il quadro.
Un’ultima osservazione.
Mi pare che, oltre alle inevitabili, e forse feconde discrepanze già discusse, si possa, già in
questa fase, cogliere invece una singolare, significativa, affinità, per così dire, strutturale,
fra il pensiero cabbalistico e quello del nostro autore, quale emergerà in seguito.
Essa è espressione di quell’avidità di ciò che sta oltre la presunta realtà, comune a Borges e
ai mistici, accennata nella prima sezione 129.
In particolare - ma questo aspetto lo si potrà percepire in modo più puntuale quando sarà
affrontato il tema della creazione, strettamente legato all’analisi testuale prospettata - mi
riferisco all’inesauribile, incessante aspirazione o coazione a postulare un regressus ad
128
Al centro del pensiero di I. Luria è la teoria dello Tzimtzùm (ebraico contrazione), per la quale la Creazione è il
risultato di una contrazione della divinità intesa come En Soph (l’infinito) che si ritrae e lascia per così dire spazio al
mondo fenomenico.(cfr. Piccolo dizionario dell’ebraismo cit., voce Luria Isaac, 78). Ampio spazio alla Cabbala
luriana è dedicato da G. Scholem ne Le grandi correnti della mistica ebraica cit., 257 ss.
129
H. Bloom, Come leggere un libro ( e perché), cit., 78.
54
infinitum che pare animare, talora anche angosciosamente, il nostro autore e i Cabbalisti
che hanno indagato sulla natura della Torah.
Si sospetta costantemente che l’Origine sia sempre al di là dell’Origine data. Si mette in
discussione il Principio, per evocarne un altro, subito confutato. Un passo indietro ne
richiede uno ulteriore e l’abisso non accenna ad avere fine.
Il cammino a ritroso dei mistici trova un limite in Dio. In Borges, come si vedrà, anche
questa linea non pare invalicabile.
E’ il problema dell’Inizio, che non è mai solo Inizio in sé, ma esige una condizione, un
presupposto, proprio perché l’Inizio Assoluto è un pensare qualcosa come inizio. E questo
pensare metafisico l’Inizio è condizione di ogni Inizio, che si pone quindi come inizio
duale.130
In questo studio, la riflessione sul principio e sulle sue condizioni è resa ancora più
complicata dal senso, per così dire, speciale, che assume la scrittura. Essa si pone, se
l’espressione è corretta, come codice genetico dell’Inizio nella Torah e costituisce il mezzo
creativo per eccellenza, nonché la mappa di tutti i mondi finzionali possibili, per Borges.
E’ subito evidente che il pensiero, inteso come presupposto o condizione dell’inizio, è una
meditazione sulla scrittura e “dentro” la scrittura. Ciò rende, se possibile, più abissale e
vertiginosa, forse moltiplicandola incessantemente, la dualità dell’Inizio cui allude Sini. E
tale inevitabile complessità si profila ancora più intricata, sia per l’accennata inarrestabile e
precipitevole “pendenza” a ritroso del pensiero affamato di Origine, sia per l’incessante
fecondità che riproduce, reiterando, variando, rispecchiando, e combinandone i temi, i
mondi molteplici e favolosi creati dalla mistica e da Borges.
4)
La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki
Concludo questa sezione, dedicata al repertorio commentato della “saggistica” borgesiana
sulla Cabbala, accennando all’intervista rilasciata a Jaime Alazraki nel 1971 e trasformata
nella relazione che appare nella monografia di questo studioso. 131
130
C. Sini, Raccontare il mondo cit., 13-14. Un inizio oggettivo, assoluto, o in sé, non è qualcosa in sé, ma è un
pensare qualcosa come inizio. Questa riflessione, su cui tornerò, pare puntuale e adeguata al caso nostro, sia con
riferimento ala mistica ebraica, nella quale il “pensiero dell’Inizio” occupa molto spazio, sia, come si vedrà, per
quanto riguarda Borges.
131
J. Alazraki, Borges and the Kabbalah cit., pp. 54-61. Si tratta di un contributo molto importante perché, insieme
alle consuete reiterazioni di temi già toccati, nella relazione emergono riflessioni borgesiane estranee ai “saggi”
esaminati.
55
Il breve scritto, nella prima parte, non contiene elementi nuovi rispetto a quelli già
esaminati.
L’autore argentino illustra il metodo dei Cabbalisti e argomenta nuovamente sulla inefficacia
del Caso nella redazione della Sacra Scrittura, il cui Testo è infinitamente significativo, tanto
da suggerire la possibile pertinenza di ogni versetto a ciascun lettore della Torah132.
Quindi Borges riespone la teoria delle Sephirot, senza quelle accentuazioni dualistiche e
antimaterialistiche che, come si è visto, connotano la concezione espressa nel saggio La
cabala133. Ora il nostro autore le qualifica come emanazioni di En Soph, but their essence is
not different.134
La relazione si sofferma sui rapporti tra l’Uomo Primordiale e il Cosmo. Tutti gli abitanti del
pianeta sono riflessi dell’Archetipo, ma poiché il Mondo Reale è, per usare un tòpos della
mistica, quello “in alto”, tale concezione riporta inevitabilmente all’idealismo platonico 135.
A questo punto incomincia però a profilarsi la portata innovativa del saggio rispetto agli altri
già considerati.
132
Nozione che riecheggia l’esistenza di seicentomila testi della Torah, tanti quanti erano gli ebrei usciti dall’Egitto.
Interessante è anche la precisazione, assai adeguata alla “poetica” di Borges, secondo cui i Cabbalisti, nella loro
produzione, non sono incentivati dall’”agonismo” della novità a ogni costo. Anzi, pur pervenendo a una dottrina
molto differente dall’ortodossia giudaica (Alazraki, op. ult. cit., 57, traduzione mia) non vogliono apparire innovatori
per non screditarsi. Il sostrato di tale concezione (il valore della tradizione e il rifiuto della novità “a priori”) è
evidentemente condiviso dal nostro autore, come già scritto altrove. Peraltro Borges, ritenendo, in parte
contraddittoriamente con il precedente assunto, che i mistici dell’ebraismo si siano appropriati di contributi estranei
alla loro tradizione culturale, ossia di elementi gnostici e neoplatonici non “autoctoni”, congettura l’adozione, da parte
loro, di un metodo finalizzato ad accreditare la loro dottrina nell’ambito della tradizione ortodossa giudaica. In altre
parole, secondo il nostro autore, “la dottrina avrebbe preceduto il metodo” (op. ult. cit. 58), tesi che avrebbe discusso
con Scholem, il quale, “perhaps through sheer courtesy, approved this conjecture”.
133
J.L. Borges, La cabala, in Sette notti cit. (cfr. cap. 2 di questa sez. II).
134
J. Alazraki, op. ult. cit. 59. “They are facets of an indivisible beeing”.
135
Borges cita anche qui Leon Bloy (cfr. nota 84), al quale attribuisce l’affermazione secondo cui il cielo e le stelle
che noi vediamo sono solo il riflesso della nostra anima (Alazraki, op. ult .cit 60).
56
Borges prosegue asserendo (con una certa arbitraria genericità, come talvolta è capitato di
rilevare) che l’universo è “creato” dalle emanazioni, e non in virtù di un atto intenzionale
della divinità. 136
Il tema è notoriamente assai delicato e controverso e non può essere definito così
nettamente. Innumerevoli discussioni si sono sviluppate sulla natura delle Sephirot in
genere137, e in particolare sull’”identità”, sul nome o sulla qualità della prima di esse,
“coinvolta” in una complicità, per così dire, più diretta delle altre “emanazioni”, nell’ineffabile
e controverso rapporto con En Soph.
Scholem ha scritto pagine importanti e non facili su questo argomento, cercando di seguire
e spiegare l’oscillazione tra i due versanti, “intellettualistico” e “volontaristico”, della fase
iniziale del processo intimo della divinità 138, caratterizzato dal prevalere dell’accentuazione,
ora ebraica, ora neoplatonica, del pensiero sull’Origine. Proprio la Volontà, soppressa con
tanta disinvoltura da Borges (ma solo in apparenza 139 e nella sua dimensione, per così dire,
136
J. Alazraki, op. ult. cit., 60 (traduzione mia, n.d.r.).
137
Sul punto cfr. M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 134 ss. Lo studioso prospetta tre soluzioni principali
circa la natura delle Sephirot attestata nelle opere dei Cabbalisti medievali: “Le Sefirot sono parte della natura divina
e partecipano dell’essenza divina (“”Sephirot come essenza””); 2) le Sefirot sono non divine in essenza, benché
strettamente connesse con la divinità, o come suoi strumenti per creare e governare il mondo, o come recipienti
dell’influsso divino, attraverso i quali esso si trasmette ai mondi inferiori; 3) le Sefirot sono l’emanazione divina
all’interno della realtà creata: costituirebbero pertanto l’elemento immanente della Divinità (op. ult. cit., 135).
138
Cfr. G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo cit. Nel saggio Il Dio biblico e il Dio di Plotino nella
Cabbala antica (cfr. in particolare pp. 22-40) Scholem scandisce le fasi del pensiero filosofico e mistico impegnato
nel tentativo di identificare la prima Sephirah distinguendola da En Soph. Dal Sefer Bahir, che accentua fortemente la
presenza della Machshavah, del pensiero, cioè, che starebbe all’inizio del processo in cui Dio si mostra creatore
(assimilabile al Nous plotiniano, ma anche al pensiero che pensa sé stesso di Aristotele) e precede Chokmah
(identificata con la Torah scritta), la sapienza intesa come piano della creazione, si passa alla metafisica della volontà
- forse per l’influenza di Gabirol e del suo Fons vitae - che diventa la prima Sephirah e precede il pensiero di Dio, pur
restando distinta da En Soph (Azriel è tra i Cabbalisti antichi colui che individua nettamente la volontà come prima
Sephirah, op.ult.cit., 28). Interessante è notare che Scholem (con Vajda) identifica la volontà di Gabirol con la parola
e la sapienza di Dio (G. Scholem, op.ult.cit., 22).
139
Più esattamente pare qui soppressa dal nostro autore la “volontarietà°”, o meglio “l’intenzionalità” dell’atto
creativo. Come si vedrà fra poco, la nozione, diversamente intesa, riapparirà prestissimo, sotto le mentite spoglie della
Volontà Cosmica di Schopenauer, il cui pensiero, caratterizzato per certi aspetti dalla paradossale combinazione tra
idealismo e nichilismo, costituisce per Borges una fonte di attrazione e ispirazione costante (cfr. Monegal, Borges cit.,
57
di volizione intenzionale, come si vedrà fra poco), gioca, come è noto, un ruolo
importantissimo nella mistica teosofica ebraica, sia nella lunga disputa che la oppone al
Pensiero per la primazia 140 tra le Sephirot, sia nella tormentata relazione con il supremo En
Soph.
Tale dialettica ha talvolta indotto a identificare il Senza Fine con la Volontà, e,
parallelamente141, l’Infinito col Nulla - l’ante litteram per eccellenza da cui tutto deriva142 sino a sfociare in una distinzione meramente concettuale tra le due Entità, che non ne ha
compromesso, tuttavia, l’inscindibile connessione, la loro inseparabile reciprocità (sancita a
pena della violazione del principio dell’unità divina).
Nel complesso movimento tra En Soph e la prima problematica Sephirah, si scorge la
connotazione assai particolare della emanazione originaria che sembra essere accolta
dall’interpretazione di Scholem (forse influenzato anche del Fons vitae di Gabirol). La
Volontà è un Pensiero Nascosto143, non ancora svelato: essa contiene e cela il Nome di Dio,
137).
140
La sfida primaria tra volontà e intelletto non è certo esclusiva del pensiero e della mistica ebraica e Borges, come
accennato, conosce molto bene Schopenauer, il quale, ne Il primato della volontà, Milano, 2002, 167, scrive:
“L’eterogeneità di volontà e intelletto, nonché la natura secondaria di quest’ultimo, spiegano perché l’uomo si sente
eterno, e nello stesso tempo, a causa della deperibilità del cervello, non possa avere alcuna conoscenza e alcun
ricordo che oltrepassino la durata della sua vita.”
141
Di nuovo, l’Infinito connoterebbe En Soph e il Nulla la Volontà originaria da cui sgorga il Tutto.
142
G. Scholem, op. ult.cit., 29. Dico ante litteram pensando all’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico e punto di
avvio di ogni lingua da cui si dispiegano tutte le articolazioni anche della parola divina (op.ult.cit.33), espressione
dell’unità e della sua origine infinita e traccia ineffabile di En Soph..
143
A tale proposito Scholem, nell’ultima opera citata (p. 37) cita Azriel e lo Zohar, scrivendo: “” Prima che il Santo,
egli sia lodato, creasse il mondo (s’intende qui il mondo delle Sephirot) Egli e il suo nome, che in lui era nascosto,
erano tutt’uno e non esisteva cosa alcuna fino a che nella volontà del pensiero non insorse l’intento di dare esistenza
al tutto con l’apporvi il suo sigillo, e di creare il mondo; ed egli formò (letteralmente: tracciò sigle) e costruì, ma nulla
ebbe esistenza finché egli non si avvolse in una veste di supremo splendore di raggi luminosi del pensiero e creò il
mondo e da quell’aura radiosa suprema produsse quegli alti cedri mistici (che sono piantati nel Libano mistico che è
la Machshavah””. I,29a. Il nome non ancora distinto da Dio, è appunto quella forza dell’emanazione che sta celata in
lui e che in seguito si manifesta nelle Sephirot il cui insieme rappresenta appunto il nome di Dio. La volontà è posta
qui chiaramente al di sopra del pensiero, il quale si identifica con l’aura radiosa della Sophia. Tuttavia, al di sopra
della Sophia, che l’autore dello Zohar identifica in generale con il pensiero divino, si indica ancora qui un pensiero
58
che si farà Parola manifesta e “demiurgica” soltanto nelle Sephirot successive. Ciò trova
riscontro soprattutto in alcuni passi dello Zohar, mediati probabilmente da Azriel, che ha
cercato di sintetizzare tra le due istanze intellettualistiche e volontaristiche attive nel
processo intimo della Divinità. Non è forse arbitrario attribuire alla Volontà, così intesa, un
senso non lontanissimo da quella oscura volizione cosmica, da quell’Infinito 144 non ancora
disvelato, cui Borges, ispirato da Schopenauer, tra poco farà riferimento.
L’ulteriore approfondimento non è in questo momento funzionale al discorso introdotto, ma
il delicato e forse cruciale tema entrerà nuovamente in discussione.
Immediatamente rilevante è invece il successivo passaggio dello scrittore argentino, che
accredita anche al Milton del Paradiso perduto la stessa idea: il mondo, dunque, in quanto
“non deliberato” sarebbe l’esito non di un’azione diretta, ma di una “assenza” di Dio 145.
Echeggiano, forse, in questa concezione la Cabbala luriana e la dottrina dello Tzimtzùm146,
sia pure, probabilmente, percepite senza diaframmi storici, come naturali esiti della mistica
delle Sephirot canonizzata nello Zohar (operazione, peraltro, forse non del tutto arbitraria
né
riprovevole)147. Ovviamente altra cosa è
l’”assenza” qui ipotizzata,
altra è la
nascosto.., esplicitamente identificato con la volontà.” Secondo I. Epstein (in Il giudaismo, Milano, 1967, 175), il
concetto di Volontà fu introdotto da Gabirol per attenuare il concetto neoplatonico di emanazioni necessarie,
confliggenti con il credo ebraico: “In primo luogo (Gabirol, n.d.r.) introdusse il concetto di Volontà Divina intesa
come intermediaria tra Dio e le emanazioni. Queste perciò non sono più lo straripamento inevitabile e meccanico di
una sovrabbondante divinità, come ritenevano i neoplatonici, ma conseguenza della spontanea attività della Volontà
di Dio”.
144
Infinito connotato anche di nichilismo, la cui “pessimistica” o negativa accezione nel pensiero di Schopenauer
appare tuttavia piuttosto distante dal “Nulla” dei mistici.
145
J. Alazraki, op. ult.cit., 60.
146
Cfr. nota 127.
147
Sottolineo che ben prima dello sviluppo della Cabbala luriana En Soph viene identificato anche come assenza
nascosta di Dio. (G. Scholem, op ult cit., 28). Ne consegue che in tale contesto un riferimento di Borges alla dottrina
della contrazione è possibile, ma non necessario. Si noti che Nachmanide, dunque in un periodo ben antecedente a I.
Luria, accenna a una dottrina della contrazione divina, non localizzata peraltro in En Soph, ma nella prima Sephira, la
Corona Suprema o Volontà (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 556).
59
“contrazione”, il “ritiro” di Dio peculiare alla cosmogonia della mistica di Safed; tuttavia si
può dire comune alle due concezioni una certa idea di “eclissi” della Divinità.
Improvvisamente però Borges lascia questo terreno e nell’abbandonarlo lo mette a frutto:
“To understand this notion (l’assenza “creativa”, n.d.r.), we need to think of dreams”.148
Dice che le emanazioni divine sono l’analogo, o forse l’identico, dei sogni umani.
Introduce così un motivo estraneo, o non peculiare149, all’arsenale cabbalistico, quale si
manifesta nella cosmogonia “canonica”.
Accosta in modo produttivo l’Assenza di Dio al Sogno degli Uomini, e poi l’Assenza degli
Uomini al Sogno di Dio.
Scivola sorprendentemente e in modo quasi inavvertito dal silente e discreto oblio della
Divinità, al sonno tacito, al teatro sognante e sognato dell’uomo, preparando così la
“menzogna letteraria” con cui trasfigurerà il pensiero ebraico, contaminato da innumerevoli
altri elementi150, per creare racconti fantastici e poesie.
L’Assenza è il Sogno, e i Sogni, come il mondo scaturito da Dio, sono nostre Emanazioni,
che hanno una propria vita indipendente.
Come Dio si assenta dal Mondo per crearlo, così noi, nel sonno, ci ritiriamo da noi stessi per
dare forma a figure viventi151.
Se Dio ci ha abbandonato, noi continuiamo a vivere come creature del suo Sogno 152.
148
J. Alazraki, op. ult.cit., 60.
149
Intendo dire che non è peculiare, o “necessario” il nesso tra “sogno” e “creazione” nell’ebraismo (a differenza, per
esempio, di quanto accade nell’induismo, come brevemente si vedrà in seguito). Al contrario il sogno in sé e in
generale è un tema importante nell’ambito della mistica e dell’esegesi biblica (cfr. prossima sezione). Esso tuttavia
non pare entrare, se non episodicamente, come elemento sostanziale, strutturale o costruttivo nella cosmogonia
sefirotica (in questo senso uso il termine “canonico”) benché, come si accennerà nel secondo capitolo della prossima
sezione, il tema del sogno sia tutt’altro che estraneo allo Zohar.
150
Elementi estranei alla mistica in senso proprio, ma, come si è avuto modo di verificare già, e come in seguito si
avrà occasione di constatare, comunque pertinenti a un movimento di pensiero in senso lato “anche” ebraico, legato
alle potenzialità espressive della parola letteraria.
151
Sul rapporto fra sogno e mito e soprattutto sull’indagine antropologica tra mondo onirico e mito della creazione,
cfr. anche V. Lanternari, voce Sogno/visione, in Enciclopedia, Vol. 13, Torino 1981, pp. 94 ss.; in particolare, 98-102.
152
J. Alazraki, op. ult.cit. 61.
60
Quando Dio ci abbandona, crea. Quando l’uomo si abbandona, crea.
La materia è il sogno, la forma, forse, è la Parola.
Questa complessa metafora dell’Assenza, intesa come “non volontarietà”, come “negligente
indifferenza”, si complica quando Borges, dopo avere negato l’esistenza di un deliberate act
di creatività della Divinità, citando, come spesso accade, Schopenauer, “congettura” che noi
potremmo essere realmente Emanazioni di un Sogno, in quanto non siamo altro che la
proiezione di una Volontà Cosmica. E’ dunque plausibile l’idea di un essere, di un solo
essere, che è ciascuno di noi e sogna l’intero universo e la sua storia 153.
Evidentemente questa è una terza ipotesi 154.
Si potrebbe forse azzardare che la creazione divina attraverso l’assenza è una tesi mistica,
la creazione umana in virtù del sogno dissimula un mito poetico, l’operare demiurgico della
volontà di Schopenauer avanza una prospettiva filosofica.
Proverò a mettere ordine in un quadro a questo punto molto complesso, schematizzandone
le figure che lo compongono.
Borges dice:
Dio - assenza di Dio - emanazioni non intenzionali - creazione del mondo.
Analogamente, tralasciando per ora l’equazione tra Uomo Primordiale e le dieci Sephirot, e
la concezione secondo cui tutto ciò che esiste è circoscritto in Adam Quadmòn, Borges
ipotizza anche:
Uomo - sonno - sogno - assenza di sé - emanazioni non intenzionali - uomo - sonno - sogno
- assenza di sé - emanazione non intenzionali - uomo.. E il ciclo ricomincia 155.
153
J. Alazraki, op. ult. cit., 60. Anche in questo caso è fortemente presente l’influenza del pensiero di Schopenauer,
così come è stato interpretato da Borges. Scrive a questo proposito il biografo Monegal (op. ult.cit. 137): “Ma
Georgie può essere stato attratto da un altro aspetto della filosofia di Schopenauer: la negazione dell’esistenza del
tempo e l’erosione dei concetti di realtà esterna e di personalità individuali.” Nel “saggio”, dal titolo emblematico, Il
nulla della personalità (da Inquisizioni, non inserito nel “canone”), Borges cita una frase del filosofo tedesco: “Tutti
quelli che hanno detto io durante tutto il tempo prima che io nascessi, erano veramente me”. Lo stesso concetto è
espresso nel racconto La forma della spada, in Finzioni, Torino cit., 111: “Forse Schopenauer ha ragione: io sono gli
altri, ogni uomo è tutti gli uomini.”
154
155
Accanto a quelle del Dio emanatore - creatore e dell’uomo demiurgo sognatore.
Questa sequenza evoca la circolarità del tempo e l’Eterno Ritorno, temi che torneranno in gioco nell’analisi
testuale del racconto Le rovine circolari.
61
Infine, è evocata anche una Volontà Cosmica, di cui noi siamo possibili proiezioni sino
all’annullamento dell’individualità personale.
Un medium tra Dio e l’uomo è il sogno, metafora o forse metonimia (effetto per la causa)
dell’assenza. Ma Sogno e emanazione sono la stessa cosa: conseguenza, o meglio materia,
dell’assenza sognante.
Le “emanazioni negligenti” della Divinità sono fatte “della stessa stoffa del sogno” 156.
Borges riscrive coscientemente Shakespeare: anche l’uomo è fatto della stessa stoffa dei
sogni.
In definitiva, l’assenza, il mondo onirico e le distratte emanazioni, “voci dal sen fuggite”,
sono condivise da Dio e dagli uomini.
Esse si producono e ri-producono nella Solitudine e nel Silenzio.
Si avverte che, a questo punto, qualcosa si è modificato nella dialettica tra Borges e la
Cabbala.
Nel capitolo precedente ho rilevato che la mistica ebraica, ovviamente intesa secondo la
personale percezione e interpretazione del nostro autore, prospetta una certa distanza, una
certa incomunicabilità fra Dio e l’uomo, negando o trascurando quella cooperazione, viva
soprattutto sul piano etico, che attraverso una lettura forse più attenta del patrimonio
culturale della Cabbala si può invece cogliere.
In virtù del mito letterario del sogno e di quello filosofico della Volontà Cosmica, pare che in
questo momento le distanze si siano molto accorciate. Borges, nel segno del paradosso, non
ha misura. Ora procede al contrario. E’ possibile che l’inversione di tendenza sia troppo
netta, l’avvicinamento tra la Divinità e l’uomo troppo spericolato.
Il confine tra analogia e identità, nel castello metaforico edificato dal sogno, appare davvero
labile, anche se i ruoli delle parti – se queste davvero giocano ruoli distinti - non sono
affatto definiti.
Siamo infine tutti sognati da un Unico Sognatore, o ciascuno di noi è il Sognatore, lo
svagato negligente Emanatore, che, nottetempo, svincolato da ogni cura e anche da sé,
libero di sognare, sogna, e sognando crea infiniti Sognatori, fino alla prolissità numerica?
Ma questa consonanza onirica, questa compagnia di sognatori, è forse troppo popolosa.
Una domanda, che sembra davvero “Il Quesito”, pare inquietare Borges.
Chi è il Sognatore di tutti i sognatori?
156
W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, Interludio: “We are such stuff / As dreams are made on.” (Da W.
Shakespeare, I drammi romanzeschi, Milano, 2000, 908).
62
E’ la Volontà Cosmica di Schopenauer157, alla quale è assegnato il compito impervio di
emanare infiniti mondi, generati dal suo sonno cieco, elargitore di una tenebrosa e
incosciente fecondità? Chi ha assegnato questo destino alla Volontà?
Perché dall’oscurità del sonno scintillano mondi riflessi e luminosi?
La Volontà coincide in qualche modo con En Soph?
E qual è la Parola di En Soph, la parola che crea? Da quale silenzio, da quale oscura
solitudine procede?
Infine, a chi appartiene veramente? E’ una parola divina o umana?
157
Nella conversazione con Alberto Arbasino, che introduce l’Antologia Personale di J.L. Borges, Milano, 1981, p.
VIII, il nostro autore dice: “ La storia è un incubo, un sogno, tutto è un sogno. O, come diceva bene Schopenauer, Die
Welt als Will und Vorstellung, il Mondo come volontà e rappresentazione: la nostra volontà e il sogno sono la stessa
cosa. Vorstellung si può tradurre con sogno, con immagine: il mondo come volontà e come immagine. Si può tradurre
in tanti modi Vorstellung”. Questa concezione ovviamente attribuisce una qualità, per così dire, “negativa” in più alle
emanazioni (divine o umane che siano): la volontà cosmica produce immagini, noi siamo rappresentazioni-immagini,
ombre, forse immortali (Vorstellung si può tradurre in tanti modi…). Pervengo a questa conclusione con
“l’autorizzazione” di Borges: “La vita è troppo povera per non essere anche immortale” (Storia dell’eternità, in Tutte
le opere cit., Vol. 1, 543-544).
“Il settimo giorno Dio non riposò/Non ne ebbe il tempo né il desiderio/Trasecolò nella caligine azzurra/Respirò
profondamente/Sull’orlo della sera/Accarezzò tralci di stelle inerti/Staccò il tempo dall’eternità/Con forza e con
dolcezza/Bevve la luce lentamente/E patì il suo sogno di bellezza./Dio creò i suoi sette giorni/Ma poi più nulla/Allattò
la luna senza fretta/Rimboccò le coltri della terra/Tenera e fredda/Cercò le mie mani invano/E con tristezza
pensò/All’ottavo giorno/ E all’aurora incerta.”
Il possibile legame tra la volontà schopenaueriana e la mistica ebraica è anche implicito nell’opera di alcuni pensatori
ebrei del novecento. Si ricorda, per esempio, Abraham Isaac Ha-Cohen Kook (Rav Kook), citato a tale proposito da
M. Giuliani: “Nel pensiero mistico-qabbalista di Rav Kook è per altro implicita una dottrina della volontà di sapore
schopenaueriano, per la quale sta all’uomo contribuire sua sponte al riscatto delle scintille di luce disperse nella
materia mondana.” (M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Brescia, 2003, 201). Certo qui si tratta, mi
sembra, di una volontà diversamente intesa dalla forza cosmica alla quale pare alludere Borges.
63
III) IL GOLEM
1)
La leggenda
In modo forse più coerente con le intenzioni manifestate nella prima sezione 158 di questo
lavoro, un progetto inesorabilmente magmatico, come ancora il mio si profila, avrebbe
potuto prendere le mosse da materiale informe, dal golem159, definito da G. Scholem 160 una
158
Mi riferisco alla mimesi tra scrittura e rappresentazione alla quale si è alluso nella prima sezione di questo lavoro.
D’altra parte se il tema del golem appare più “originario” e “magmatico” di altri già trattati, sul piano della
distribuzione degli argomenti appare forse più opportuno affrontarlo ora, come immediata premessa dell’analisi
testuale che sarà sviluppata nella prossima sezione.
159
Il mito del golem verrà qui rapidamente esaminato soprattutto alla luce della interpretazione letteraria che ne offre
Meyrink: come accennato, Borges conosceva molto bene il romanzo dello scrittore austriaco, al quale sostanzialmente
deve la percezione della leggenda. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto nei capitoli precedenti, in cui si è tentato
di accostare subito i temi mistici alla riflessione di Borges per trarre qualche conclusione, in questo caso mi pare più
opportuno rinviare almeno in parte la trattazione della ”simbiosi” tra i due ambiti del nostro studio alla prossima
sezione, dedicata all’analisi testuale, nella quale la maggior parte dei temi accennati dovrebbe entrare in gioco.
160
In La Cabala, cit., 352.
64
creatura, in particolare un essere umano, fatta in modo artificiale in virtù di un atto magico,
mediante l’uso dei nomi sacri.
Come è noto, questa parola è un hapax nella Bibbia161 (Salmo 139 Onnipresenza ed
onniscienza divina):
“I tuoi occhi mi hanno visto informe embrione,
“nel tuo libro erano tutti scritti
“i giorni fissati, e ancora neppure uno esisteva”.
Voglio citare anche il versetto precedente:
161
Salmi, 139:16, in Bibbia Concordata a cura della Società Biblica di Ravenna, Milano, 1982, II vol., 179
65
“Non ti erano nascoste le mie ossa,
“mentre ero formato nel segreto
e tessuto nella profondità della terra”.
66
In questo modo si comprende meglio il passaggio ermeneutico dal significato letterale della
parola golem162, traducibile con il termine “embrione”, o preferibilmente, “informe” 163, che ne
generalizza il senso, alla più specifica evocazione di Adamo e del racconto della creazione
dell’uomo. Secondo tale più particolare accezione il golem è la massa di terra amorfa, “la
materia inerte del corpo di Adamo prima che gli venga insufflato il pneuma divino, la terra
ancora non animata dallo spirito.”164 O, seguendo Scholem, ciò che “nell’uso filosofico
medievale è la materia senza forma”, “il corpo (del primo uomo) senz’anima” 165.
162
G. Busi lega il golem anche al simbolismo del mantello: “La radice glm che fa da sostegno etimologico a questo
termine destinato a una progressiva polisemia, vale in ebraico “”avvolgere o piegare insieme””, come per i tessuti
che alterano i contorni delle forme, annunciandole senza dichiararle.” Il mantello evoca, con l’avvolgimento,
l’indefinita espansione, associando l’informe all’estensione illimitata. Ecco infine il passaggio al macroantropo:
“”Quando il Santo, sia Egli benedetto, creò il primo uomo, lo creò informe (golem) ed egli si stendeva da
un’estremità all’altra del mondo.”” Il “”primo uomo”” è dunque qui una figura indistinta, un macroantropo che si
espande per l’orizzonte fino a perdere i tratti del corpo umano, divenendo tutt’uno con il cosmo.” (G. Busi, Simboli
del pensiero ebraico cit., 72-73). Questa progressione simbolica, culminante in un antropocentrismo panteista, pare
assai pertinente allo sviluppo della figura del golem nella poetica di Borges.
163
Ma forse non con entrambi come si legge nella traduzione proposta.
164
A cura di Pierre Brunel, Dizionario dei miti letterari, Milano, 1995, Golem, 331. La voce citata è forse tra le più
complete disamine del mito del golem, dalle fonti bibliche e cabbalistiche, alla letteratura talmudica, sino ai racconti
popolari medievali che hanno tratto origine dal chassidismo renano dando vita alle versioni polacche e praghesi della
leggenda. Infinite, e tali da esulare dal nostro ambito, le varianti letterarie scaturite da questo mito, che trattano temi
diversissimi, legati alla magia, all’erotismo, alla hybris punita, all’automa, inteso come incarnazione degradata, al
“doppio”. Come accennato, di nostro interesse, in quanto fonte diretta di Borges, è il romanzo Il golem di G. Meyrink,
su cui mi soffermerò infra, che riproduce la versione praghese della leggenda. Peraltro appare assai suggestiva e ricca
di implicazioni mistiche anche la leggenda polacca, diffusa dal rabbino Elias Baalschem e codificata per la prima
volta nel 1674. Plasmata la figura dell’uomo in argilla e pronunciato il nome della divinità, l’automa prende vita. E’
muto, ma capisce e viene utilizzato come servo. Sulla sua fronte è stampata la parola aemeth (verità). Il golem cresce
smisuratamente e incute terrore ai suoi creatori, che cancellano la prima lettera, affinché resti solo meth (è morto). La
creatura crolla a terra senza vita, uccidendo però uno dei suoi demiurghi. (Questo è un sunto della versione polacca
del mito, cui fa riferimento la voce di Brunel citata). Alcune delle innumerevoli varianti della leggenda hanno
trasformato il golem plasmato da Rabbi Loew in un “eroe buono” e altruista, pronto a mettere al servizio della
comunità ebraica di Praga le proprie sovrumane capacità fisiche, smascherando le trame ordite a danno degli
innocenti ingiustamente accusati dai tribunale cristiano: “La società in cui gli ebrei vivevano, terrorizzati dal futuro,
era caduta così in basso che soltanto un Golem – un essere artificiale senza un’anima, una creatura di argilla
67
Neppure può essere trascurato quel riferimento, cui allude il versetto 15, alla formazione nel
segreto, che connette, a mio avviso, il mito polisemico del golem/informe/Adamo alle letture
mistiche legate soprattutto al Libro della Formazione (Sefer Yetsirà) e al potere creativo
della parola e delle lettere166.
Ma Adamo è anche l’Uomo Primordiale, centrale soprattutto nella mistica di Yitzchàq Luria,
l’Adam Quadmòn, la forma più alta della manifestazione della divinità dopo lo tsimtsùm.167
Temi ricchissimi: al solito, come presagito altrove, diversi piani ermeneutici si intersecano e
il simbolismo che ne risulta è carico di senso. Il golem è solo il primo e più evidente
destinato a faccende terrestri ed escluso dall’influsso divino – poteva essere ancora efficace, e capace di salvarla
dalla perdizione. Questo è il motivo per cui la risposta celeste data al Maharal (Rabbi Loew, n.d.r.) in sogno
conteneva soltanto dieci lettere dell’alfabeto ebraico: erano sufficienti a creare il Golem o almeno a progettarlo. Se il
messaggio avesse contenuto tutte le ventidue lettere, avrebbe voluto dire che era necessario un essere perfetto.” (E.
Wiesel, Il Golem, Firenze, 1986, 45).
165
G. Scholem, op.ult.cit., 352. Anche se, si osserva, “materia informe” e “embrione” sono, ovviamente, cose ben
diverse. Embrione è, quasi superfluo dirlo, il prodotto delle prime fasi di sviluppo dell’uovo fecondato e, solo in senso
figurato, significa “esemplare imperfetto” (cfr. voce embrione in Grande Dizionario della Lingua Italiana a cura di
Salvatore Battaglia, vol.V, 119). In La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 204, lo stesso Scholem è molto più critico
sulla traduzione con il termine “embrione”: “Possiamo dire che qui (nel Salmo 139, n.d.r.) “”Golem”” significa
l’informe, l’amorfo, e che ha certamente lo stesso significato nelle fonti posteriori. Non c’è il minimo argomento per
sostenere che significhi embrione, come si afferma talvolta.” Notevole, nel tentativo di chiarire il concetto, il
contributo filologico di Elémire Zolla, nell’introduzione alla prima edizione italiana del romanzo di Meyrink, Il golem
(Milano 1966): “..Il sostantivo golem richiama il verbo che significa “”avviluppare, piegare”” e dovrebbe perciò
tradursi “”cosa ravvolta in se stessa, ancora informe”” (cfr. le considerazioni filologiche di G. Busi, n. 161, n.d.r.) e si
è interpretato quindi come “”embrione””; il metodico San Girolamo non si spinge a identificare così recisamente
l’oggetto su cui si erano posati ai primordi del tempo, nel mondo delle forme formanti, gli occhi di Dio, ma traduce,
come sempre genialmente:””Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur, Deus
formabuntur, et nemo in eis””. Il golem per la Volgata è l’Imperfetto, il non sviluppato, l’esistenza che precede
l’essenza, la confusione che implica l’ordine e così avanti, di analogia in analogia”.
166
Secondo Scholem la combinazione di elementi di magia proveniente dall’oriente con lo studio del Sefer Yetsirà ha
determinato presso i chassidìm tedeschi lo sviluppo dell’idea del golem, “ cioè della creazione di un uomo magico
attuabile con l’applicazione di procedimenti indicati nel Sefer Yetsirà” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit.,
129).
167
G. Scholem, Le grandi correnti cit, 275. Sulla presenza dell’Uomo Primordiale nella mitologia del golem, cfr.
Brunel, voce cit. pp. 331 ss.
68
passaggio di significato, la cifra plastica e riconoscibile, il materiale, alla lettera embrionale e
informe, animato e vivificato dall’alito della Tradizione.
Soprattutto il mito reintroduce, con concretezza e prepotenza, attraverso le elaborazioni
successive, interrogativi inquietanti su uno dei motivi dominanti tanto della mistica quanto
della poetica del nostro autore: la reale funzione dell’uomo nel processo creativo.
Scrive Chaijim Soloveitchic: “L’uomo dell’halakhà ha ricevuto la Torà sul Sinai non come
semplice recettore, ma in quanto creatore, come un associato di Dio nell’opera di
creazione”168.
Ma quali limiti è lecito porre all’uomo che ricrea il mondo e se stesso adempiendo i precetti?
Quale significato attribuire alla formazione dell’informe 169?
Come si pone, rispetto a tutto ciò, Borges?
Prima di esaminare il racconto nel quale il tema del golem appare più espressamente
divulgato dallo scrittore argentino, occorre però richiamare un’altra fonte di certo
riferimento del nostro autore.
In questo caso si esula dalla conoscenza di Scholem e delle voci enciclopediche di
argomento ebraico. Dunque non si tratta di sorgente, per così dire, mistica (per quanto
indiretta) o in senso lato informativa, ma di una contaminazione letteraria con il romanzo
fantastico Il golem170 , pubblicato a Vienna nel 1915.
Al di là del discusso valore estetico di questa opera, irrilevante per la nostra indagine, la
narrazione di Meyrink interessa perché Borges vi legge la versione praghese “semplificata”
(ma piuttosto fedele) della leggenda171 e trova altri spunti legati alla Cabbala (comunque
168
Cfr. M. Giuliani, Il pensiero ebraico cit., 346.
169
Nel commentare un anonimo testo chassidico, Scholem rileva come una creazione del golem felicemente riuscita
e che non avvenisse solo sul piano simbolico darebbe inizio alla “”morte di Dio””. La hybris del creatore si
volgerebbe contro Dio”. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 228. Questo tema aleggia ovviamente nel
racconto borgesiano che si commenterà. Sempre a tale proposito, non manca un cenno anche nel breve ma pregevole
La Kabbalah di G. Israel, Bologna, 2005, pp.76-80.
170
171
G. Meyrink, Il Golem, Milano, 1991.
Meyrink, op.ult.cit., così testualmente, nella traduzione di Carlo Mainoldi, a pag.37:” L'origine della storia
rimonta al diciassettesimo secolo, pare. Si vuole che un rabbino avesse costretto, seguendo certe istruzioni della
cabala, andate perdute, un uomo artificiale - il cosìddetto golem - perché l'aiutasse a suonare le campane della
sinagoga e facesse ogni sorta di lavori pesanti.
69
connessi al tema principale del golem), soprattutto alla mistica che Scholem talvolta
definisce “pratica”, o estatica (e Abulafia battezza “Cabbala profetica”) 172, la scienza della
combinazione delle lettere, che, con l’intensa meditazione, elevando l’attività teurgica alla
paradossale logica mistica173, conduce all’amore di Dio e alla profezia 174 attraverso la
mediazione dell’intellectus agens175.
Questo romanzo funge certamente da repertorio enciclopedico (altri ancora sono i
riferimenti alla mistica, anche se più episodici e meno approfonditi) 176; esso è però
Non ne sarebbe però uscito un uomo davvero, ma solo un essere animato da un'oscura e semicosciente vita vegetale,
e anche questo soltanto durante il giorno e in virtù di un magico bigliettino che gli veniva messo tra i denti, onde si
alimentasse alle spontanee energie sideree dell'universo.
E quando una sera, prima della preghiera consueta, il rabbino dimenticò di togliersi dalla bocca il sigillo, il golem
sarebbe caduto in un delirio furioso, aggirandosi nell'oscurità delle strade e distruggendo quanto gli capitava
sottomano.
Alla fine il rabbino gli si sarebbe gettato contro, riuscendo a strappare il pezzo di carta dalla bocca del golem, che
sarebbe piombato di schianto senza vita al suolo. Di lui non restò che il corpiciattolo d'argilla, che ancora oggi viene
mostrato nella vecchia sinagoga."
Questa è la versione “canonica” praghese della leggenda, elaborata da B. Auerbach nel suo romanzo Spinosa (1837) e
proposta da Brunel nella voce citata (pag. 334). Protagonista è il celebre cabalista Rabbi Loew (1512-1609).
L’ambiente, come quello del romanzo di Meyrink, è il ghetto: “ Il Rabbi Lov crea il golem per aiutarlo nei suoi lavori
domestici. Gli dà vita, non più attraverso la combinazione di quattro elementi (come vuole la tradizione più antica del
mito, nata dai commenti medievali al Libro della formazione e fatta propria anche da T. Mann ne Il giovane Giuseppe,
1934, n.d.r.), ma per la virtù magica della pergamena che gli fa scivolare dietro la testa dopo aver praticato
l'apertura del cranio. Ogni venerdì sera il rabbino gli toglie la pergamena dalla testa e lui ridiventa argilla inerte.
Ma un venerdì il cabalista si dimentica di farlo e, mentre tutti sono in sinagoga, il servo si scatena e si mette a
distruggere tutto intorno a sé. Il rabbino, avvertito, riesce però a strappargli la pergamena e il golem crolla privo di
vita ai suoi piedi."
172
Scholem, Le grandi correnti cit. (pp. 138, 146, 148).
173
Indubbiamente a questo aspetto della mistica si riferisce Borges ne Una rivendicazione della cabala (in Tutte le
opere cit., Vol.1, 330), quando scrive: “Non voglio rivendicare la dottrina, bensì i procedimenti ermeneutici o
crittografici che ad essa conducono”.
174
Meyrink, op.cit. A pag. 98 vi è un riferimento esoterico alla lettera aleph, mentre alle pagg. 107 e 108 vi è un
esplicito cenno alla meditazione sull’alfabeto: “Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte
con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che
70
soprattutto, ciò non va mai dimenticato, un racconto, e il letterato Borges lo vive
principalmente come tale.
Soprattutto due dimensioni fantastiche aleggiano sulla narrazione, alterando, per così dire,
la purezza dei dati mitici elaborati dalla tradizione ebraica: il gioco spettrale e il fondale
onirico in cui la leggenda si immerge e si deforma.
Così E. Zolla: “..Il golem di Gustav Meyrink ha ben poco in comune con lo smisurato
spauracchio di Rabbi Low. Non è un manichino d’argilla, ma una sembianza sfuggente,
nebbiosa, enigmatica, uno Spuk, uno spettro..” 177
Il ghetto di Praga è sordido e lugubre e minaccia i suoi abitanti, sorpresi da un narratore
spesso ambiguo alla mercé di un’animalità torbida. Il terrore dell’ebreo angosciato e
perseguitato sembra dare vita (o dare corpo, come perspicuamente scrive Zolla) allo spettro
del golem.
Ma anche il sogno forma la trama del racconto.
gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato, se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita ."(P.
107). La permutazione vocalica della Torah, ricorda Idel (Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 205-226), è propria
della Cabbala teosofica, mentre la mistica estatica di Abulafia si avvale anche alla permutazione consonantica.
175
Scholem, op.ult.cit., 149
176
Cenno allo Zòhar a pag. 107.
177
Meyrink, introduzione all’op.ult.cit., XIV-XV.
71
Il filtro onirico vela le atmosfere sospese del ghetto 178 e innerva il tema dominante del
romanzo: l’esistenza del protagonista, Athanasius Pernath, viene vissuta come un sogno da
un’altra persona.
Dunque l’arsenale della Cabbala è in questo romanzo rielaborato in modo originale
dall’autore. Altrettanto farà Borges, come si vedrà.
Ma vi è di più. E’ innegabile che ogni interpretazione testuale, chiunque ne sia fruitore, è
comunque mediata, tendendo a sviluppare le potenzialità di senso di cui l’opera è
depositaria.179
Da ciò non si può prescindere, a maggior ragione, nel valutare i rapporti tra Cabbala,
fluttuante nella complessa rete ordita da recezione e tradizione, e uno scrittore, Borges, più
che mai insensibile, come ben si sa, a rivendicazioni di “originalità” considerate
oggettivamente impossibili o anacronistiche, e tanto esemplarmente quanto ironicamente
consapevole del proprio ruolo di mero interprete di testi già scritti innumerevoli volte
(persino da lui stesso!)
Dunque l’autore argentino utilizzerà, nello sviluppare o nel riproporre il mito del golem, il
materiale cabbalistico appreso in via mediata da Scholem, complicato da altri molteplici
elementi, fra cui alcune delle innovazioni “stilistiche” o letterarie apportate da Meyrink, per
178
Ecco la testimonianza di Kafka, raccolta da Janouch (Colloqui con Kafka, Milano, 1964): “Kafka mi parlò di
questo libro (Il golem di Meyrink, n.d.r.) dicendo:” ”L'atmosfera dell'antico quartiere ebraico di Praga vi è descritta
meravigliosamente."”
“"Lei ricorda ancora l’antico quartiere ebraico?””
"”Veramente arrivai che era già alla fine, ma...”” e fece con la sinistra un gesto come per dire, che cosa sia
raggiunto con ciò? Il suo sorriso rispose: niente. Poi continuò a dire: “"Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui..,
i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo
per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come
nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano
quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno:
fantasmi noi stessi di tempi passati."” (Introduzione a Il golem cit., XVI).
179
Ciò sia detto senza l’ambizione di aprire l’immensa discussione teoretica sul circolo ermeneutico autore – lettore.
A tale proposito si rileva solo che “l’interesse ermeneutico non si rivolge mai al fenomeno storico qui tale, o all’opera
considerata autonomamente. Un testo scritto, per esempio, non va mai letto a prescindere dal suo con-testo… La
storia è dunque da considerare storia di effetti. Ogni fatto, ogni opera, e, nel nostro caso, ogni testo scritto è, per
l’essenza, costituito da una relazione che si stabilisce fra quel che accade, l’evento per così dire puro, e le sue
interpretazioni.” D’Alessandro, Esperienza di lettura e produzione di pensiero, Milano, 1994, pp. 98-99.
72
conto proprio debitore, ovviamente, di specifiche influenze legate all’ambiente culturale
viennese, non ultimi i movimenti dell’espressionismo e la stessa psicoanalisi 180.
2)
Un altro modo di sognare
I temi propriamente mistici legati alla polimorfa leggenda del golem181 saranno dunque
presenti nell’opera di Borges arricchiti anche – ma non solo – dai cromatismi e dalle tonalità
proprie dello scrittore austriaco.
Il sogno non è stoffa nuova in questo lavoro.
Tuttavia qui il taglio è leggermente diverso.
Nella precedente sezione182 mi sono soffermato sulle distratte emanazioni oniriche di un Dio
assente, sulle notti agitate e i popolosi sonni degli uomini, sulle cieche ombre proiettate
dalla Volontà Cosmica di Schopenauer. Nasceva qualche interrogativo, forse implicito nella
scrittura del nostro autore, che aveva introdotto improvvisamente un motivo inatteso nel
tentativo di interpretare o “spiegare” in modo personale l’atto creativo, giudicato non
intenzionale e non deliberato.
In Meyrink naturalmente non vi è nulla di tutto questo. Si registra solo una “tonalità
letteraria”, una particolare, ambigua “opacità” degli oggetti rappresentati e narrati.
E’ innegabile peraltro che il tema del sogno è fortemente accentuato nel pensiero di Borges
sulla Cabbala teosofica ed è altrettanto sicuro che lo scrittore argentino conosceva il
romanzo Il golem sin da adolescente. Tuttavia mi pare plausibile escludere un nesso
necessario tra il sogno, inteso come vero e proprio elemento strutturale di una cosmogonia
“fantastica”, quale emerge nel “saggio” commentato in precedenza, e l’aura caliginosa 183 che
traspare in Meyrink.
180
Introduzione a Il golem cit, XVI
181
Fenice risorta ogni volta diversa dalle intricate ramificazioni locali di un’elaborazione popolare del Chassidismo
renano, oscuramente scaturita dall’esegesi rabbinica e medievale del Sefer Yetsirà. Sulle origini della leggenda e sui
risvolti mistici, distinti da quelli più propriamente letterari trattati da Brunel e accennati nel precedente capitolo, cfr.
soprattutto G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit. (pp. 201 ss.)
182
Cfr. cap.4), La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki.
183
“Aura sanza tempo tinta”, D. Alighieri, Inferno, III, 28, in La Divina Commedia, Milano, 1991, 22.
73
Tanto sostanziale drammatica e feconda nelle sue implicazioni mistiche e filosofiche si rivela
la prima escursione onirica del nostro autore, tanto accidentale e di maniera, o
propriamente d’atmosfera, pare la bruma che ovatta il romanzo.
Nel primo caso il sogno è materia e contenuto, nel secondo è forma e involucro.
Certo, da vero maestro, Borges nella sua narrativa fantastica, come si vedrà, saprà
avvalersi in modo appropriato dell’una e dell’altra modalità, usando questo tema sia come
scenario sia come sceneggiatura.
In definitiva sembra dunque plausibile ritenere che il romanzo descritto possa solo avere
offerto a Borges, oltre a una prima conoscenza della leggenda del golem184, qualche
reminiscenza, forse un fondale, una quinta teatrale dell’incerto colore del sogno, poi
irraggiata, trasfigurata e “contaminata” da altri elementi, del tutto estranei al racconto in
questione e, almeno in apparenza (nel senso che vedremo), allo stesso ebraismo.
Tuttavia l’orizzonte di senso di maggiore intensità affiora in un luogo diverso.
Altro è circoscrivere l’influenza di Meyrink, al quale Borges è tutt’al più debitore di qualche
“suggestione”, altro è cercare di scendere in profondità per individuare possibili rapporti,
certo meno immediatamente percepibili, tra la produzione letteraria borgesiana e la mistica,
penetrando nuovamente nel territorio del sogno 185.
Ci si può infatti legittimamente interrogare su tonalità e senso con cui il motivo onirico si
presenta nella poetica del nostro autore e sulla compatibilità di tali connotazioni con il
movimento di pensiero ebraico. Proseguendo nel tentativo di verificare quelle interferenze
meno visibili e più complesse, già profilatesi in altre occasioni, tra il nostro autore e la
cultura in esame, si potrebbe ipotizzare il possibile legame di questo tema con simboli
mistici fino a ora non compiutamente emersi.
E’ vero che nella Cabbala teoretica, o meglio, nelle dottrine teosofiche e cosmogoniche, il
motivo onirico non sembra giocare un ruolo preminente o sostanziale, cosicché, in ogni
caso, l’intreccio del sogno con le emanazioni della divinità parrebbe un’idea originale 186 di
Borges.
184
Borges leggerà poi, quanto meno, il capitolo dedicato da Scholem al golem ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit.
185
Questa volta raggiunto dal versante ebraico, dopo che in precedenza mi ero soffermato sulla sponda borgesiana
(alla quale peraltro tra poco si approderà di nuovo)..
186
Intendo dire “originale” rispetto alla Cabbala teosofica, non in assoluto. Basti pensare, per esempio, al sogno
cosmico di Vishnu nella mitologia induista (cfr.per tutti J. Campbell, Le figure del mito, Como, 2002, 7). L’originalità,
in definitiva, consiste nel legare Cabbala e sogno in quel senso.
74
Ma è davvero lecito, più in generale, affermare che il tessuto onirico è estraneo alla mistica,
o comunque non ne rappresenta un tratto peculiare o preminente?
Occorre infatti distinguere tra il rilievo del sogno come elemento su cui fondare una
cosmogonia, per così dire, alternativa o concorrente con le Sephirot, e il significato e il
senso, in assoluto, del tema onirico nella cultura ebraica. Si potrebbe anche scoprire una
variante, una “complicanza” nel sistema mistico tale da trasformare e innovare il dato
cabbalistico più consueto e familiare. In altre parole, Borges ha forse riletto in modo
personale il mito della creazione, e quello, pure demiurgico e strettamente connesso, del
golem, dopo avere rimescolato e diversamente combinato, in modo più o meno
consapevole,
elementi
non
immediatamente
percepibili,
ma
comunque
riscontrabili
nell’arsenale della mistica.
75
Sono noti fino all’ovvietà il debito della psicoanalisi verso l’ebraismo 187 e la funzione spesso
cruciale assolta nella Bibbia dal sogno vaticinante e profetico 188, che, prima ancora di dire il
futuro, costituisce il medium di comunicazione privilegiato tra l’uomo e Dio.
Il tema freudiano non mi pare strettamente legato all’analisi appena proposta, orientata a
verificare il legame tra l’opera borgesiana e una particolare accezione ebraica della
sterminata geografia del sogno, che deve essere ridimensionata e localizzata, a pena di un
abissale smarrimento, in un ambito più ristretto, circoscritto all’immaginario dello scrittore
argentino189.
187
La bibliografia è naturalmente vastissima. Basti pensare all’opera di S. Freud e in particolare ai lavori
sull’interpretazione dei sogni, sul motto di spirito e su Mosè. Qualsiasi citazione sarebbe indebita perché omissiva.
Ricordo qui solo l’agile libretto di C. Musatti, Ebraismo e psicoanalisi, Pordenone, 1994, che delinea i rapporti tra
Freud ed ebraismo, accenna al tema del motto di spirito e alla sua possibile matrice chassidica, all’umorismo ebraico
nell’opera di Woody Allen. Cito alcuni passaggi. Musatti (p. 8) esclude un’influenza diretta della mistica sul pensiero
di Freud, benché quest’ultimo, secondo alcune testimonianze, avesse posseduto lo Zohar, e in tale opera “siano
contenute interpretazioni di sogni che possono far pensare al metodo delle associazioni libere ideate da Freud”.
Condivisibile anche questo passaggio: “Parimenti gratuita è l’affermazione secondo cui l’interpretazione simbolica
dei sogni . . deriverebbe da una tradizione ebraica risalente alla Bibbia” (op. cit. 17), in quanto il tentativo di trarre
dai sogni un significato sensato, eventualmente per ricavarne un pronostico per l’avvenire, si trova presso moltissime
altre culture. Queste precisazioni tendono a “smitizzare” quella sorta di esclusiva e primazia che taluni attribuiscono
alla cultura ebraica nello sviluppo della psicoanalisi e nella valorizzazione dell’interpretazione dei sogni. Mi pare
peraltro innegabile che talune metodologie di “interrogazione del testo”, applicate dai Cabbalisti alla Torah, e già
esaminate nella precedente sezione, evochino una certa familiarità, come si vedrà infra, una volta precisati i limiti,
con taluni procedimenti di decriptazione di un codice linguistico propri dell’analisi freudiana del materiale onirico.
188
Scrive A. Safran (La saggezza della Cabbalà cit., 60) a tale proposito, consolidando anche il concetto espresso
nella precedente nota: “L’inconscio conosce l’uomo nella totalità del suo essere, “”vede ciò che l’uomo non vede””,
nel presente che ha origine nel passato e si proietta nel futuro. E’ per questo che i maestri del Talmud e i cabbalisti si
sono occupati così spesso dei sogni. Hanno raccolto tutto quello che l’inconscio rivelava loro sulla persona umana
allorquando si palesa al subsconscio. I sogni raccontati nella Bibbia hanno fatto loro comprendere che il sogno
dell’uomo è uno specchio opaco della profondità del suo essere e che il contenuto, la qualità e la portata di un sogno
dipendono dal valore dell’uomo che sogna. I cabbalisti sono stati pertanto molto attenti ai “”segni”” onirici,
sforzandosi di decifrarli, analizzando le parole e le immagini, “”interpretandoli””.
189
Borges non ama Freud e la psicoanalisi; li ritiene poco interessanti in quanto si risolverebbero a ridurre il mondo,
molto ricco e complesso, a un’ossessione sessuale, uno schema troppo semplicistico. (Cfr. Monegal, op. cit. pp. 2930). Il rifiuto di questa cultura (che certo può suonare a sua volta semplicistico e riduttivo) ovviamente non ha
impedito a Borges di essere psicanalizzato a oltranza, come spesso accade a chi tenta di sottrarsi all’influenza
76
A tale proposito, peraltro, l’unica osservazione forse pertinente a questo lavoro, che non si
propone un’esegesi psicoanalitica dell’opera di Borges, rischia di essere critica e riduttiva.
Come è noto, nel sogno l’ermeneutica freudiana si orienta verso l’aldilà della sfera
intenzionale, indaga lo scarto, o la surdeterminazione di senso fra parola, pensiero e
inconscio. Un ruolo fondamentale gioca il sistema di decodificazione, votato a tradurre in
linguaggio alfabetico ciò che è detto nel geroglifico onirico; materiale da “translitterare” con
il disvelamento della relazione simbolica tra contenuto manifesto e pensiero latente 190.
Ora, questo procedimento presenta qualche analogia (cfr. note 187 e 188) con quello di
interrogazione del testo applicata dai Cabbalisti alla Torah, già esaminato nella seconda
sezione.
Borges, a mio avviso, allora risolveva quel rapporto in modo riduttivo, annullando o
attenuando, in un certo senso, la dimensione etica di cooperazione tra l’uomo e Dio,
centrale nella mistica ebraica; la gigantesca operazione ermeneutica teorizzata ne pativa le
conseguenze, avvilendosi in una meccanica enigmistica piuttosto fredda e intellettualistica.
A mio avviso in quel momento191 mancava al nostro autore l’estasi dell’ignoto, che nasce,
come ha scritto Georges Bataille, da una grande angoscia, dal senso di abissale perdizione
in cui sprofonda il mistero 192.
Anche la costrizione del materiale onirico nei lacci dell’ermeneutica freudiana, alla quale
ovviamente si deve moltissimo in termini di rivalutazione del sogno nella sua dimensione
psicologica, rischia di limitarne e ridurne la portata. Il sogno in Freud è grammatica e
simbolica: l’analisi logica dell’insieme è l’analisi logica del discorso, le motivazioni e le
freudiana: un esempio è fornito proprio dalla citata biografia letteraria di Monegal. Anche per questa ragione,
eccettuate le brevi riflessioni che seguiranno ora, la mia analisi sul tema del sogno dal “versante ebraico” si incentra
sui motivi onirici quali emergono nella mistica e nell’esegesi biblica.
190
Cfr. P. D’Alessandro, Esperienza di lettura e produzione di pensiero cit., 113 ss.
191
Mi riferisco a Una rivendicazione della cabala cit. (in Tutte le opere cit., Vol. I, pp. 330-334), ampiamente trattata
nel capitolo 3) della II sezione.
192
“Legata all’ignoto, al non sapere, è l’estasi che nasce da una grande angoscia. ..Spesso l’ignoto ci causa
angoscia, ma esso è la condizione dell’estasi. L’angoscia è paura di perdere, espressione del desiderio di possedere.
E’ un arresto dinnanzi alla comunicazione che eccita il desiderio, ma che fa paura.” (G. Bataille, L’esperienza
interiore, Bari, 1978, 227).
77
strutture che vi si scoprono sono tessute sulla stessa trama psicologica della coscienza vigile
193
. In sostanza, secondo questa lettura, la polisemia, che pur complica l’interpretazione
attraverso il libero gioco delle associazioni, tenderebbe ad appiattirsi e impoverirsi in un
sistema unilaterale dagli esiti in definitiva “computabili”.
Se così fosse, se Foucault avesse ragione, e potrebbe davvero avere ragione, anche il
sogno,
così
dimensionato,
rischierebbe
di
echeggiare
risonanze
meccaniche,
come
l’interrogazione del testo biblico secondo la percezione borgesiana. La decriptazione e la
translitterazione degli alfabeti e dei linguaggi avrebbero la primazia, la ricerca si esaurirebbe
nell’indagine sulle possibili corrispondenze, con l’aggravante che il “testo”, da interpretare
fino alla prolissità numerica194, in questo caso forse non potrebbe avere infiniti sviluppi, ma
sarebbe costretto a limitate potenzialità195, riducibili alle pulsioni originarie alle quali Freud
fa riferimento.
Credo che tale prospettiva escluda l’estasi dell’ignoto e l’abissale profondità del mistero,
che, come afferma lo Zohar, curiosamente allineato con Bataille196, è il “fondamento”197. Con
questo intendo solo affermare che l’ermeneutica freudiana, alla quale ovviamente molto si
deve, a mio avviso non ha molta familiarità con la tonalità mistica.
193
M. Foucault, Il sogno, Milano, 2003, pp. 27-28. Lo stesso autore scrive (pp. 53-54, op.ult.cit.): “La psicoanalisi
esplora un’unica dimensione dell’universo onirico, quella del vocabolario simbolico, nel corso della quale si opera
la trasformazione di un passato determinante in un presente che lo simbolizza. Il polisemantismo del simbolo, spesso
definito da Freud come “”sovradeterminazione””, indubbiamente complica lo schema e gli conferisce una ricchezza
che ne attenua l’arbitrarietà. Ma la pluralità dei significati simbolici non fa emergere un nuovo asse di significati
indipendenti”.
194
195
J.L. Borges, Una rivendicazione della cabala cit, in Tutte le opere cit., Vol.1, 334.
Quanto alla psicoanalisi, limitate possibilità, forse, di sbocco, perché le esperienze di una vita umana sono
comunque numerabili e quelle rimosse lo sono a maggior ragione, ma illimitati, va detto, sono i procedimenti di
associazione e di interrogazione per verificare quegli esiti.
196
D’altra parte, oltre che come confessione autobiografica, saggio esistenzialista o racconto di finzione, L’esperienza
interiore può essere considerata anche un testo mistico. (Cfr. I. Domanin, Testo e ripetizione, Milano, 2000, 72).
197
A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 55.
78
Ma il sogno non è una mera rapsodia di immagini, da esaurire in un’analisi psicologica e in
una
ricerca
di
significati;
esso
è
piuttosto
la
condizione
prima
dell’immaginazione, che rientra nell’ambito della teoria della conoscenza
198
di
un’esperienza
.
Ora, se il sogno è movimento autentico dell’immaginario 199, la polisemia in cui si
decostruisce il suo linguaggio è irriducibile a una sequenza limitata di esperienze del
passato.
In altre parole, il versante psicologico del mondo onirico, e quindi anche l’ermeneutica
freudiana, devono rimanere solo un tratto particolare, uno dei molteplici aspetti, e non il
principale per il mio progetto, di una più vasta “filosofia del sogno”.
Il problema teoretico “classico” sorge infatti quando la stessa coscienza sveglia, riflettendo
sul suo contenuto e su ciò che possa discriminarlo dal ricordo onirico, avanza come ipotesi la
possibilità che la veglia non sia, a sua volta, altra cosa del sogno 200.
E’ un interrogativo antichissimo che trova celebri antecedenti in Platone, Cartesio, Kant,
Schopenauer201.
E’ in un certo senso un quesito preliminare, perché investe un presupposto di fondo molto
rilevante nell’analisi testuale che seguirà.
198
M. Foucault, op. ult. cit., 28.
199
M. Foucault, op. ult. cit., 90.
200
Cfr. voce Sogno in Enciclopedia italiana cit., Vol. XXXII, 30 e la stessa voce nel Dizionario di filosofia di Nicola
Abbagnano, Torino, 2001, 1020.
201
“Infatti quello che stiamo dicendo ora niente impedisce che ci sembri che ce lo stiamo dicendo l’un l’altro anche
nel sonno. E quando in sogno ci sembra di raccontare dei sogni è incredibile la somiglianza di queste cose sognate
con quelle vissute nella veglia”. Platone, Teeteto, 158 c, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 1991, 209.
Cartesio, come pone in evidenza P. D’Alessandro, in Il mondo dei fenomeni e la loro interpretazione, Milano, 2004,
23-24, argomenta dalla illusorietà del sogno la possibile irrealtà dei pensieri, spesso meno vivi e chiari di quelli
onirici, concepiti nello stato di veglia. Molto borgesiano è naturalmente Schopenauer: “Dopo tante citazioni poetiche
sia permessa anche a me un’immagine. La vita e i sogni sono pagine d’uno stesso libro. Ma quando l’ora abituale
della lettura (il giorno) è trascorsa, ed arriva il momento del riposo, noi continuiamo spesso a sfogliare oziosamente
il libro, aprendo a caso questa pagina o quella, senz’ordine e senza seguito, imbattendoci ora in una pagina già letta,
ora in una nuova; ma il libro che leggiamo è sempre il medesimo.” A. Schopenauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, 1, par.5, Milano, 1991, 54.
79
Prima di proseguire l’indagine sulle peculiarità dell’onirico nel pensiero ebraico, sgombrato il
campo dalla “pregiudiziale psicoanalitica”, occorre dunque ancora scandagliare il territorio
del sogno condiviso indiscriminatamente dai due ambiti del mio studio.
Dall’inquisizione teoretica poc’anzi precisata si deve infatti muovere per trovare l’orizzonte di
senso del motivo onirico nella poetica di Borges e per valutare se l’operazione letteraria con
cui il nostro autore ha accostato il “sogno cosmico” al procedimento creativo sia compatibile,
e in quali termini lo sia, con la mistica ebraica.
Ebbene, a mio avviso, l’interrogativo classico (sogno o son desto?), solo in quanto tale, solo
perché si pone come “atto che interroga”, affranca da ogni vincolo l’immaginazione. Questa
si libera nello spazio e nel tempo, forse suo malgrado, forse in preda all’ebbro terrore di
essere sovrana, garantita paradossalmente dall’inesistenza della chiara evidenza di una
barriera inconfutabile, di una discriminante nella coscienza - invincibilmente certa - tra il
vissuto della veglia e il mondo onirico.
La cifra simbolica autentica del sogno non può non essere angosciosa spettacolare libertà
dell’immaginazione. Libera persino di immaginare se stessa come unica realtà fondante
l’universo. Immaginazione al potere, in quanto le diventa impossibile pensare a altro che se
stessa, immaginazione pura. Immaginazione reale e realtà immaginaria, perché, se il
confine che separa i due territori è illeggibile, la distinzione è insensata. Non ha senso porre
la realtà, che può esistere solo differendo 202 dall’immaginario, non ha senso porre
l’immaginario, che può esistere solo differendo dalla realtà.
Questa libertà infelice della propria felicità di immaginare, originata dal primo sconvolgente
interrogativo teoretico, scuote chiaramente le stesse fondamenta del sognare, che forse è
meno sogno di quanto non sia realtà, e della realtà, che forse è meno realtà di quanto non
sia sogno. L’identità tra i due mondi, che, sottratta la differenza, è anche annullamento,
porta a una torsione verso l’origine e alla già intravista dualità del pensare l’origine 203.
Ma aldilà della dimensione cosmica dell’Inizio, luogo di libertà tragica per eccesso perché
l’immaginario non ha da superare l’ostacolo della differenza 204, il sogno, in un senso più
202
Differenza intesa sia come diversità tra le cose, sia, alla luce del pensiero di J. Derrida, come differimento
temporale, in virtù del quale da una radice comune possono sortire due esiti diversi (cfr. M. Ferraris, Introduzione a
Derrida, Roma-Bari, 2003, 87). L’annullamento della differenza tra sogno e realtà determina un unico esito possibile,
la cui natura, reale o onirica, diventa solo una questione di qualificazione.
203
C. Sini, Raccontare il mondo cit., 13-14.
Si potrebbe azzardare con Kierkegaard, luogo di angoscia, in quanto aperto a infinite possibilità che finiscono con
204
l’annientare. (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, III, Torino, 1993, 193).
80
circoscritto e familiare, se si abbandona e si supera vittoriosamente la vertiginosa incertezza
dell’interrogativo teoretico di fondo, è pure libero quando è libero di pensare se stesso solo
e semplicemente come sogno.
Anche così, senza l’oppressione di una totalità immaginaria che non si distingue dal reale, è
infatti libero di sognare universi fondandoli dall’origine. Per suo tramite l’individuo
costituisce liberamente il rapporto con sé stesso e con il mondo – inteso come rete di
relazioni - in una totalità esistenziale non scomponibile.
Il sogno può essere allora leggerezza irrorata dalla rugiada fresca del primo mattino, quando
la nostra mente, liberata da ogni gravame contingente, meno oppressa dai pensieri e più
lontana dal corpo, è quasi divinatrice della realtà 205.
Questa sottile fragilità assai bene si addice tanto al Dio sognatore di Borges, che si lascia
sfuggire emanazioni quasi negligenti e trascurate, quanto all’uomo che popola di aerei
fantasmi le proprie notti 206.
Il mondo onirico consente all’individuo l’abbandono, che fonda infiniti universi particolari
plasmati con la libertà che annuncia la solitudine.
In questo senso la cosmogonia del sogno è l’origine dell’esistenza stessa, la chiave di volta
in cui i temi dell’Inizio e della Creazione trovano il loro equilibrio e il loro scarico cruciale.
E’ l’esperienza in cui l’infinitamente particolare e l’infinitamente universale traghettano
abbracciati verso un orizzonte condiviso.
Dice bene l’oracolo eracliteo: “I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei
dormienti si ritira in un mondo proprio207.” L’addormentato entra in questo universo
esclusivo non per obliare il mondo della veglia, ma perché gli dà vita, lo popola, lo anima. E’,
o può anche essere, il sogno di Shakespeare che uccide il riposo 208.
205
“Ne l’ora che comincia i tristi lai/ la rondinella presso a la mattina,/ forse a memoria de’ suo’ primi guai,/ e che la
mente nostra, peregrina/ più da la carne e men da’ pensieri presa,/ a le sue vision quasi è divina,/ in sogno mi parea
veder sospesa..(D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Purgatorio, IX, 13-18, pp. 378-379).
206
Cfr. Cap. 4) della II sezione e l’ultima relazione di Borges-Alazraki sulla Cabbala citata (in J. Alazraki, op. cit., pp.
60-61).
207
Cfr. 14 (A 99), in La sapienza greca, a cura di G. Colli, Vol. III, Milano, 1996, 95.
208
“Macbeth ha assassinato il sonno..l’innocente sonno che ravvia / l’intrico degli affanni, la morte / d’ogni giorno,
lavacro d’ogni pena, / balsamo della mente ferita, / pietanza prima al banchetto della vita. (W. Shakespeare,
Macbeth, Atto II, scena II, Milano, 1983, 53).
81
Un universo, una monade isolata è l’ìdios kòsmos, il destino libero, ma solitario dell’uomo,
che può vivere in modo autentico e autoresponsabile un’esperienza immaginaria totale e
totalizzante, anche se probabilmente limitata, come si vedrà, alla creatività letteraria.
Sono questi, credo, due sensi209 possibili del sogno cosmico che Borges ha intrecciato con la
cosmogonia cabbalistica.
Ora, come anticipato a suo tempo, si tratta di verificare se questa concezione sia
compatibile con la mistica ebraica, dopo avere enucleato lo specifico del tema onirico in
quest’ultimo ambito.
Si è detto che il sogno biblico, espressione di una verità trascendente, è la via più breve
attraverso la quale Dio dispensa le sue prove, le sue volontà, i suoi avvertimenti 210.
Qualche volta i messaggi hanno carattere “definitivo” e non necessitano di interpretazione,
talora sono metafore che hanno funzione di vaticinio, riferendosi a una realtà in fieri211. In
questo caso l’ermeneutica è determinante. Il disvelamento è affidato a un interprete che
generalmente non coincide con il sognatore. A proposito del più celebre risolutore di enigmi
onirici, Giuseppe, un dotto rabbino dell’età tardo antica, Yohanan ben Nappaha, giunge ad
affermare che “tutti i sogni dipendono dall’interpretazione che viene loro data” 212. Si tratta di
un paradosso evocatore di talune procedure mistiche, già accennate trattando il rapporto fra
rivelazione e tradizione213, che attribuiscono all’esegeta il potere di “modificare la realtà”
secondo la propria lettura personale del testo, convalidata e garantita dall’autorità suprema.
Questa, peraltro, nel caso dell’ermeneutica del sogno, spesso assiste solo i meritevoli, i
migliori, coloro ai quali Dio elargisce il dono particolare dell’oniromanzia 214.
209
Il primo senso è connotato dalla libertà senza ostacoli e forse angosciosa dell’immaginario onirico indistinto dal
reale; il secondo senso, risolto l’interrogativo teoretico tracciando una rassicurante distinzione, caratterizza il sogno
che fonda universi particolari, in cui la libertà, forse meno tragica, vive tuttavia una solitudine crepuscolare.
210
In questo senso, cfr. ancora M. Foucault, op. ult.cit., 33.
211
Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit, pp. 83 ss
212
Cfr. G. Busi, op.ult.cit., 88.
213
Cfr. nota 27.
214
Cfr. A. Safran (La saggezza della Cabbala cit., 60). Secondo Elia Benamozegh (in Gli Esseni e la Cabbala,
Milano, 1979, 216) la pratica oniromantica, o più in generale di un’ermeneutica affidata ai sogni, è riconosciuta e
82
Sarà l’autore del corpo principale dello Zohar215 a coniugare il sogno profetico di Maimonide
alla Cabbala teosofica. Lo farà sposando l’afflato mistico a quel primo passaggio onirico
“ancora acerbo” che può successivamente maturare nella visione, sola rappresentazione
nitida dell’immaginazione nella quale l’influsso divino si manifesta apertamente e si vedono
le cose come se fossero esterne216.
E qui l’ampio cerchio del sogno che ho tracciato finalmente accenna a chiudersi.
Nell’opera di Moshe de Leòn, che si dedicò all’esegesi della Guida dei perplessi, i sogni
(frutti acerbi, rispetto alla visione, n.d.r.) sono immaginati nella loro discesa attraverso le sei
Sephirot inferiori, lungo un itinerario in cui s’ispessiscono fino a giungere all’ultima, Malkut,
da cui prendono l’ultimo slancio verso l’uomo 217.
Nello Zohar, l’elaborazione del tema onirico da parte dei Cabbalisti è ormai matura.
Il sogno è un viaggio segreto che l’anima compie ogni notte, un itinerario di ascesa verso la
sorgente celeste.218
S’impone un’accezione sensibilmente diversa da quella del sogno-segno che caratterizza in
modo dominante l’esegesi biblica.
Nel capolavoro della mistica medievale l’itinerario onirico è un presagio non tanto del futuro
219
, quanto della separazione dalla realtà fisica.
diffusa proprio fra i Cabbalisti, i quali sono soliti, “allorché un bisogno li spinge a consultare l’avvenire, allorché
nasce qualche dubbio intorno ad un soggetto dogmatico o rituale, usare la via della sceelat halom; nel riposo dei
loro sensi, nella concentrazione delle loro forze psichiche, spirituali, essi credono che l’anima sia capace di
comprendere cose che allo stato di veglia sarebbe stato più difficile comprendere.”
215
La tesi dell’attribuzione della paternità del corpo principale dello Zohar a Moshe de Leòn è stata, come è noto,
autorevolmente rilanciata da G. Scholem ed è prevalentemente, anche se non unanimemente, accolta. Cfr. Le grandi
correnti della mistica cit., pp. 167 ss.
216
G. Busi, op. ult.cit., 91
217
“Sappi che (dall’origine superna) i frutti acerbi cadono di grado in grado, per sei passaggi consecutivi donde il
sogno si diffonde, poiché esso cade discendendo dal grado della profezia.” (Da Susan ‘edut, citata a tale proposito,
con Il Commento alle aggadot di Azri’el di Gerona, da G. Busi nell’opera menzionata, p. 92).
218
“Il sogno viene dall’alto, quando le anime sono uscite dai corpi e sono ascese ciascuna secondo la propria via.
Quanti gradi appartengono al segreto del sogno! E tutti sono racchiusi nel mistero della saggezza.” (Zohar, I, 183 a).
83
E’ un viaggio individuale e libero verso il mondo superno. E’ un peregrinare nel cosmo delle
Sephirot.
Ciò che è notevole, nel valutarne la compatibilità con la concezione borgesiana, è il distacco
dal conosciuto universo della veglia. Non più un processo semantico da interpretare, ma un
viaggio in un mitico altrove.
“I dormienti sono artefici delle cose cha accadono nel mondo, e aiutano a produrle.” 220
Quale misteriosa intenzione cela quest’altro frammento eracliteo, apparentemente così
vicino alle affabulazioni del nostro autore?
Non solo si evoca il popoloso esercito di assassini del sonno immaginato da Borges e da
Shakespeare: anche l’odissea notturna delle anime dei giusti attratte dal mondo in alto è
complice delle cose che accadono.
Non solo la divinità “assente” di Borges, persino il Dio della mistica ebraica qualche volta si
concede al sogno.
Anche Faraone ebbe un sogno (Gen. 41.1). Forse che non sognano tutte le creature? E’
vero, ma il sogno di un re abbraccia tutto il mondo.”221
Chi regna con la corona suprema, Kèter ‘Elijòn, se non l’Entità, che, con la canonizzazione, o
meglio, con la stabilizzazione del mondo sefirotico cementata dallo Zohar, sarà il nome
indiscutibile della prima Sephira, la primordiale e trionfante Volontà Divina 222?
219
Benché, come osserva Busi, non manchino ovviamente neppure nello Zohar sogni di natura “tradizionale”, ossia
vaticini e premonizioni.
220
14 (A 98), in (a cura di) Colli, La sapienza greca cit., Vol.III, 95.
221
Genesi Rabbah LXXXIX, 4, citato da G. Busi, in Simboli del pensiero ebraico cit., 522.
222
Nelle Origini della Kabbalà Scholem traccia la mappa complessa e travagliata del mondo sefirotico nelle prime
fasi della mistica ebraica medievale. Come accennato altrove, uno dei temi di più difficile decifrazione è proprio
quello dell’identificazione della prima emanazione (che tale originariamente non è) e della sua natura. Nel Sefer
Bahir, in cui la concezione delle Sephirot non è giunta a maturazione, si identificano dieci principi ancora magmatici;
prevale una ancora non compiuta e risolta idea di forza della divinità e di regalità connessa alla mistica della
Merkavà, contaminata da elementi gnostici. Si fa cenno anche a dieci re, corrispondenti agli eoni, e al nome di Corona
Suprema, attribuito al più alto di essi (op.ult.cit., 105). Nel trattare gli sviluppi successivi della Cabbala provenzale (il
cenacolo Iyyùn) si accenna al ruolo preminente fra le emanazioni assegnato alla Corona, etere primordiale che è allo
stesso tempo la volontà divina e il nulla (op.ult.cit., 424), e da cui promana Chokmà.
84
Ora, benché il motivo non sia forse di immediata percezione, non si può negare anche alla
Cabbala di avere, se non proprio concepito con il proposito di avviarne l’incessante sviluppo
ermeneutico che ha complicato altri temi, quanto meno accennato e intravisto nell’oscurità
della notte un sogno cosmico di origine divina.
Tuttavia appare più profondamente peculiare alla mistica il fugace itinerario delle anime e il
loro incontro onirico, di provenienza superna, ispirato dal pensiero di Maimonide.
E’ innegabile come questa prospettiva presenti punti comuni, ma anche rilevanti divergenze,
rispetto alla visione di Borges trattata nella sezione precedente.
Ancora una volta, a mio avviso, l’ebraismo profila una relazione speciale tra Dio e l’uomo, in
parte obliata invece dal nostro autore.
In questo caso il rapporto in gioco mi pare quello di comunicazione e dialogo accondisceso
dal meccanismo onirico, prima e ancor fragile fase della congiunzione tra intelletto agente e
immaginazione umana, che raggiunge la pienezza, e con questa la capacità vaticinante della
profezia, solo con la perfezione morale individuale meritevole dell’abbagliante ed eloquente
illuminazione divina223. Un motivo etico orienta quel periglioso viaggio notturno in cui l’uom
s’etterna224.
Se è vero che Borges nel concepire l’emanazione creativa come sogno di Dio e dell’uomo ha
quasi stretto un patto, o meglio ha profilato una complicità tra i due, ma su un declinante
piano di condivisione dell’assenza e della solitudine, tanto da avvicinare troppo, e persino
incautamente, il divino e l’umano rispetto a quanto adombrato in una sua precedente
riflessione225 incentrata sulla solipsistica interrogazione del Testo, è anche vero che
quell’annullamento delle distanze ha un significato ben diverso da quello propriamente
mistico, di esperienza diretta del divino 226, proposto da Moshe de Leòn.
Tanto nella Cabbala quanto nel Borges “saggista” il sogno è un medium tra l’uomo e Dio e si
manifesta come separazione e fuga dalla realtà fisica.
Ma non è la stessa cosa.
Nell’elaborazione dei mistici il viaggio onirico, ascensionale e discensionale, vive di un
coinvolgimento diretto e di una sublime aspirazione all’integrazione tra i due versanti,
223
Cfr. G. Vajda, La filosofia ebraica, in Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra, Vol. 5, Milano, 1976, 355.
224
D. Alighieri, La Divina Commedia cit. Inferno, XV, 85, p. 133.
225
Cfr. cap.4) II sez.
226
G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 8.
85
Creatore e creatura, intelletto agente e immaginazione umana, in una circolarità vivificante
e feconda, ma non cieca o disorientata, perché la fuga notturna dell’anima s’illumina a
Oriente e di slancio si getta verso l’Eternità 227.
Borges coltiva il sogno divino e umano dell’assenza e della solitudine fino alla prolissità
numerica. Ma è un infinito caotico, in cui la proliferazione degli enti creatori e degli enti
creati, che a loro volta s’improvvisano creatori, non accenna a darsi un ordine, né si
compone
in
un’amichevole
cooperazione.
Innumerevoli
emanazioni
distratte,
cieche
proiezioni di una volontà cosmica deserta e dis-orientata: nessuna luce proviene dall’Oriente
consolatore che traccia itinerari per i viandanti smarriti.
Questo è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul quale irrimediabilmente
planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e
fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti.
Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in
parte da un rozzo specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se
accanto, immobile, una pozza d’acqua se la sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per
quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura?
“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi
nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal
Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco
violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra
è infrequente”.228
227
Scholem cita Nachmanide: “Nel momento della visione profetica, quando l’anima (neshamà, n.d.r.) si unisce agli
oggetti della sua contemplazione, essa si trova in questo stato di devequth, grazie al quale essa ottiene una
conoscenza di Dio faccia a faccia.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 564). Non si tratta di tema mistico di
esclusiva pertinenza dell’ebraismo: “Una delle prime Upanishad, la Chandogya, afferma che ogni giorno, nel
profondo sonno, si penetra nel mondo-Brahma ma non lo si raggiunge completamente.” (G. Parrinder, Le Upanishad,
la Gita e la Bibbia, Roma, 1964, 68).
228
J.L. Borges, Le rovine circolari, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 659
86
Parte Seconda
87
IV)
LA CREAZIONE NELLA LETTERATURA FANTASTICA DI BORGES:
ROVINE CIRCOLARI
LE
1) L’epigrafe
88
Nelle pieghe del sogno – un viaggio notturno dell’anima confortato dall’orientamento divino
nella mistica ebraica229, la sfrenata scorribanda di un immaginario sconfinato 230 e caotico231
nella poetica di Borges - sembra insinuarsi l’incipit del racconto Le rovine circolari, che si è
infine svelato poc’anzi232, assecondando l’invocazione di uno smarrimento letterario a chiosa
di una divagazione233 occidentale234 sull’assenza, sul declino e sulla solitudine.
Nelle mie intenzioni l’analisi che seguirà dovrebbe non solo suggerire i rimandi più espliciti
alla Cabbala, ma anche tentare di penetrare, violando territori meno visibili, il senso di
229
Mi riferisco alla mistica medievale, in particolare ai contributi di Moshe de Leòn e ai passaggi dello Zohar più
visibilmente influenzati dal pensiero di Maimonide (cfr. n 213 – 214). Naturalmente, come sottolineato, il sogno
nell’ebraismo è in genere connotato quale canale di comunicazione fra l’uomo devoto e Dio, ciò che emerge
nell’esegesi biblica. Se l’arbitrio è tollerato, l’itinerario profetico dell’anima richiama, proprio perché pare
caratterizzato dall’opposto atteggiamento sentimentale, l’accorato rimpianto del mondo dell’imperatore Adriano,
immaginato da Marguerite Yourcenar nel momento del suo nostalgico congedo dalla vita: “Piccola anima, smarrita e
soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli
svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai
più..Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti..” (M. Yourcenar, Memorie di Adriano, in Opere, Milano, 1986,
542). A occhi aperti anche il mistico intraprende il suo viaggio notturno, dal quale però ritorna con il desiderio di
appartenere per sempre al luminoso al di là. Sempre “a occhi aperti” il mistico entra nell’al di là, nel mondo in alto,
che “durante la vita non (gli) è permesso di vedere, ma morendo sì.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero
cabbalistico cit., 96).
230
Nel senso ovvio di “illimitato” e in quello alternativo di “privo di confini” percettibili nel territorio della cosiddetta,
e forse ossimorica, realtà fenomenica.
231
Caotico non nel senso di confuso, ma piuttosto di “originario”. “L’origine si manifesta come voragine, e quindi
propriamente come chaos. E’ noto che nel linguaggio dei greci il chaos non significa affatto disordine, indeterminata
mescolanza, confusione, quanto soprattutto incolmabile distanza, propriamente abisso. Infatti chaos discende dalla
radice indo-europea gha, da cui il termine greco chasco, che significa mi apro, mi spalanco..Chaos è propriamente lo
spalancarsi, è lo spazio della separazione in cui non si tocca il fondo, in senso stretto è il vuoto.” (S. Natoli, Parole
della filosofia, Milano, 2004, 16).
232
In conclusione del precedente capitolo.
233
Nelle mie intenzioni, una divagazione intesa a “mimare” con la scrittura lo smarrimento che segue la mancanza di
orientamento, alla quale si è alluso nel trattare il mondo onirico di Borges nel confronto con il sogno mistico (cfr.in
questo senso C. Sini, Filosofia e scrittura cit., 121).
89
questo cammino, attraverso un percorso forse più accidentato, votato alla ricerca di rapporti
meno ovvi235.
Quanto si è cercato di mostrare fin qui non dovrebbe essere inutile nella prospettiva che mi
accingo a delineare.
I “saggi” nei quali Borges prospetta la propria personale “misinterpretazione” del pensiero
ebraico, oltre a offrire gli spunti di riflessione già enucleati, che potrebbero trovare nuovo
sviluppo in questa sezione, hanno comunque posto in evidenza parallelismi e divergenze
rispetto alla Cabbala, al vaglio di una esegesi dei testi mistici, pur forzatamente succinta,
più aderente alla ermeneutica tradizionale 236.
Il punto di separazione più frequente tra i due ambiti, una scissione che curiosamente
ricorre, come si è notato, in relazione a temi eterogenei, è la diversa concezione del
rapporto tra l’uomo e la divinità. Vivo e passionale nell’ebraismo, in cui si oscilla tra un
sistema di cooperazione e un regime, quasi, di reciproca “dipendenza” fra i due poli 237
benché talvolta attraversato da una dialettica drammatica238, l’intreccio pare invece
caratterizzato, nel segno di una vertiginosa dimensione cosmica che sembra spersonalizzare
tanto il divino quanto l’umano, da eccessi sia di distanza, sia, paradossalmente, di temeraria
prossimità, nel pensiero di Borges239, in cui talora pare di leggere, anche in situazioni di
234
Occidente evocato non solo quale richiamo etimologico al declino del giorno, ma soprattutto come punto cardinale
emblematico del dis-orientamento, nel confronto con la devequt mistica che sembra decisamente rivolta a oriente.
235
“La trama nascosta è più forte di quella manifesta.” (Eraclito, 14A 20, in G. Colli, La sapienza greca cit., III, 35).
236
Ovviamente letti soprattutto alla luce delle interpretazioni di Scholem e Idel.
237
Tema sviluppato soprattutto nel cap.3) della II sezione. Dunque si intende “dipendenza” non nel senso di
subordinazione gerarchica, ma di legame affettivo in cui ognuno dei poli vive l’alterità dell’Altro.
238
Il rapporto dell’ebreo con il Dio personale è spesso vissuto come un dialogo nel quale, come accennato altrove, la
Divinità, chiamata a rispondere del proprio operato nel mondo quando accadono eventi di una tragicità ineffabile, è
invocata con accenti nei quali la concezione, pur presente, dell’Ente supremo trascendente che percorre vie
inconoscibili e imperscrutabili si scontra drammaticamente, pur non scindendosi, con quella del Dio presente nella
storia. Emblematico in tal senso è il testo di Z. Kolitz, Yossi Rakover si rivolge a Dio, Milano 2003, attribuibile a un
ebreo del ghetto di Varsavia e risalente all’epoca dello sterminio nazista.
90
simbiotica reciprocità tra i due enti, assenza di solidarietà, solitudine non condivisa e
sostanziale incomunicabilità 240.
Il testo che commenterò, ascrivibile senza equivoci al ramo della narrativa fantastica 241,
potrebbe confermare la tendenza emersa, oppure, nella sua caotica apertura 242, spalancata
a una libera inventiva meno implicata dal gioco dell’ironia, confutarla o attenuarla.
Il tentativo che in ogni modo mi propongo è quello di esaminare la scrittura del nostro
autore senza pregiudizi teorici, attenendomi a un approccio descrittivo, volto al dire che le
cose stanno, così come si danno 243, nei limiti, peraltro ovvi, di una fenomenologia il cui dato
di riferimento è pur sempre un testo244, il “prodotto”, in quanto tale, di una precedente
interpretazione e comprensione.
Uno degli effetti più curiosi di tale maniera di porsi rispetto al racconto è lo straniamento,
derivante per un verso dal mio “sapere qual è” l’evoluzione successiva dell’intreccio,
conoscenza che inevitabilmente condiziona la mia lettura e l’interpretazione suggerita, e per
l’altro dal mio proposito di sfuggire quel destino, cercando di procedere quasi alla cieca,
all’insaputa degli sviluppi narrativi, nell’intento di favorire un approccio alla scrittura il meno
possibile pregiudicato 245.
239
Eccesso di distanza nel rapporto fra Cabbala e Torah (cfr. cap.3 della II sezione), eccesso di vicinanza nella
concezione del processo creativo (cap. 4 della II sezione).
240
Questi ultimi aspetti forse emergono nel cap. 2 della III sezione.
241
Sul punto, fra gli altri, cfr. A.M. Barrenechea, La expression de la irrealidad en la obra de Jorges Luis Borges,
Buenos Aires, 1984.
242
Cfr. n. 230.
243
Cfr. P. D’Alessandro, Il mondo dei fenomeni e la loro interpretazione, Milano, 2004, 115.
244
P. D’Alessandro, op. ult. cit., 183.
245
Non pregiudicato, forse, dalla conoscenza del seguito del racconto, ma, come è ovvio, inevitabilmente influenzato
dal bagaglio di conoscenze, ricordi, esperienze, immaginazioni dell’interprete, nozioni e presupposizioni che
necessariamente deformano ogni approccio tendenzialmente puro al testo, destinando a una certa arbitrarietà anche
l’ermeneutica più spassionata. Si tratta in sostanza della precomprensione cui allude D’Alessandro in Esperienza di
lettura cit., pp. 94-95.
91
Le rovine circolari è un racconto che forse giustifica gli smarrimenti onirici accennati nelle
sezioni precedenti, perché, non a caso, l’epigrafe recata è una significativa citazione tratta
da Through the Looking Glass di Lewis Carroll: “And if he left off dreaming about you...” 246
Il riferimento è troppo preciso e univoco per non essere anche chiave di lettura del testo e
tonalità cromatica - luce di scena della narrazione. Già si è visto che il tema onirico, sia sul
piano della materia - contenuto sia sul versante della forma - involucro, è oggetto di
approfondita meditazione e di ripetuta affabulazione nell’opera di Borges. Si è tentato anche
246
Mi pare opportuno citare la traduzione italiana del brano completo cui Borges si riferisce:
“Qui (Alice, n.d.r.) si interruppe piuttosto allarmata, avendo sentito un rumore simile allo sbuffare di una grossa
locomotiva, che proveniva dal bosco, ma che temeva fosse quella di una bestia feroce. “”Ci sono dei leoni o delle
tigri qui in giro?”” chiese, timidamente.
“”Oh, è soltanto il Re Rosso. Sta russando.”” spiegò Tuidoldìi
“”Vieni a vederlo!”” gridarono i due fratelli, e prendendo ciascuno una mano di Alice, la portarono a vedere il re
che dormiva.
“”Non ti pare bello?””, disse Tuidoldìi..
Alice non poteva onestamente dire che lo fosse. Aveva in testa una lunga berretta da notte rossa che finiva con una
nappa e se ne stava tutto raggomitolato, come una specie di fagotto informe, e russava forte – “”finirà col diventare
sordo a furia di russare a quel modo”” osservò Tuidold^i.
““Ho paura che si prenderà un raffreddore a starsene sdraiato sull’erba umida”” disse Alice, che era una ragazzina
molto giudiziosa.
“”Sta sognando” disse Tuidoldìi. “”Secondo te che cosa sogna?””
Alice rispose: “E chi può saperlo!”
“”Ma come, sta sognando te!” esclamò Tuidoldì, battendo le mani trionfante. “”E se smettesse di sognare (epigrafe
del racconto di Borges, n.d.r.) dove pensi che saresti?””
“”Dove sono adesso, naturalmente”” rispose Alice.
“”No, tu no!” replicò Tuidoldìi in tono sprezzante. “”Tu non saresti da nessuna parte. Tu sei soltanto una specie di
cosa dentro al suo sogno!””
“”Se quel Re che tu vedi lì”” aggiunse Tuidoldàm, “”dovesse svegliarsi, tu spariresti di colpo – puf – via come una
candela!””
“”Non è vero!”” esclamò indignata Alice. “”E inoltre se io sono soltanto una specie di cosa dentro al suo sogno,
che cosa siete voi, allora, mi piacerebbe saperlo!””
“”Idem come sopra”” disse Tuidoldàm.
“”Idem come sopra, idem come sopra!””, gridò Tuidoldìi.
Gridava così forte che Alice non potè fare a meno di dire: “”Zitti, finirete per svegliarlo, se continuate a fare tutto
questo chiasso.””
92
di cogliere, in questo ambito, qualche analogia, da cui spesso sono però emerse rilevanti
distonie, tra il pensiero dello scrittore argentino e la mistica ebraica 247.
Tuttavia la prospettazione qui allusa dal nostro autore è sensibilmente diversa da quelle
delineate. E’, se possibile, più angosciosa e inquietante.
Abbandonato il punto di vista del sognatore, prevalentemente assecondato nelle pagine
precedenti, l’attenzione ora si focalizza sul personaggio sognato e sulla sua situazione,
irresistibilmente tesa, di “prigioniero del sogno”.
Alice viene informata di non essere vera, ma solo una specie di cosa sognata, una distratta
burlesca, quanto effimera, emanazione del Re Rosso.
Anche il pianto della ragazzina viene ontologicamente invalidato (spero che tu non ti illuda
che queste lacrime siano lacrime vere) dal presupposto straniante dell’ambiente illusorio in
cui la scena è rappresentata.
Tutto è reso ancora più angoscioso e vertiginosamente abissale non tanto dall’estrema
fragilità esistenziale dei personaggi, indissolubilmente legata all’esile filo dell’auspicabile
“”E’ inutile che parli tanto di svegliarlo”” disse Tuidoldàm, “”quando sei soltanto una delle cose dentro al suo
sogno. Tu sai benissimo di non essere vera””.
“”Io sono vera!”” replicò Alice e scoppiò a piangere.
“”Piangendo non diventerai più vera, neanche di un pezzettino piccolo piccolo”” osservò Tuidoldìi; “”non c’è
motivo per piangere.””
“”Se io non fossi vera”” disse Alice – quasi mettendosi a ridere in mezzo alle lacrime, l’intera faccenda era talmente
ridicola – “”non sarei capace di piangere.””
“”Spero che tu non ti illuda che queste lacrime siano lacrime vere?”” la interruppe Tuidoldàm in tono di sommo
disprezzo.
“”So che stanno dicendo delle cretinate”” pensò Alice fra sè e sè, “”ed è sciocco piangerci sopra.”” Allora si
asciugò le lacrime e riprese con tutta l’allegria che le riuscì di trovare. “”In ogni modo è meglio uscire dal bosco,
perché si sta davvero facendo buio. Pioverà, secondo voi?”” (L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso
lo specchio, Milano, 1989, pp. 195 – 196).
Non solo questo brano, interamente alluso, evidentemente, da Borges nella citazione iniziale, dà la tonalità e fornisce
una delle chiavi ermeneutiche principali del testo in esame, ma, curiosamente e in modo del tutto inconsapevole,
richiama la mistica del Genesi Rabbah e il sogno cosmico del re citato nel capitolo conclusivo della precedente
sezione (cfr. nota 220).
247
Si rammenta la concezione del sogno cosmico prospettata da Borges nel processo creativo, sul piano dei contenuti,
e la lettura di Meyrink, in cui il tema onirico emerge come tonalità del romanzo (rispettivamente cap.4 della II sez. e
capitolo 2 della III).
93
propensione a un durevole sonno del demiurgo addormentato, quanto dalla stessa
fuorviante presenza di quest’ultimo sullo scenario onirico.
Alice è il sogno di un altro e nel sogno che le sta dando vita vede chi non dovrebbe mai
vedere, perché la ragazzina si trova addirittura al cospetto di colui che tiene in pugno come se fosse una preda - la sua assai caduca esistenza. Perciò la bambina, che dispera e
versa lacrime vane, futili in quanto non vere, è frustrata persino nel suo miserabile diritto di
provare dolore e pena.
Tale inesauribile e inquietante prospettiva, in cui ricorre un’incessante mise en abyme 248, da
una parte rimette in discussione la concezione del sogno inteso come espressione di libertà
dell’immaginazione, benché, nel suo radicalizzarsi estremo, nullificata dall’angoscia 249,
dall’altro ripropone lo scivolamento sul piano inclinato dell’Origine, cui si era alluso in
precedenza250.
Infine suggerisce il possibile traghettamento del cosiddetto mondo reale nelle paludi infide
di una sconcertante fittizietà, tanto più paurosa in quanto assolutamente credibile251.
Trattandosi di uno dei temi centrali del racconto, vi tornerò in seguito.
248
Il personaggio sognato, Alice, vede il sognatore che lo sta sognando, il Re Rosso, che a sua volta, nel sogno, vede
se stesso in veste di personaggio che sta sognando Alice, il personaggio sognato, che vede il sognatore personaggio, il
quale a sua volta, ecc. In generale, sul tema della mise en abyme, assai pertinente all’opera di Borges, ma non
insignificante neppure per la mistica ebraica, con particolare riferimento ai temi connessi alla Torah, intesa come tutto
e come tutto che contiene se stessa, cfr. A. Gide, Journal 1889-1938, Paris, 1948 e L. Dallenbach, Le récit spéculaire.
Essai sur la mise en abyme, Paris, 1977.
249
Intesa in senso kierkegaardiano come stato dell’uomo messo di fronte a infinità possibilità positive e negative (cfr.
n. 199). “L’innocenza è ignoranza... In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che
non è né inquietudine, né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto
ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia.
Sognando, lo spirito proietta la sua propria realtà, ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede
continuamente fuori di sé. L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante..Nella veglia la differenza tra l’io
e l’altro da me è posta, nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato..Poiché il concetto dell’angoscia non si
trova mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto che esso è completamente diverso da
quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà
della libertà come possibilità per la possibilità”. (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, 1.5, Milano, 1995, 36).
250
Cfr. le riflessioni sul sogno, specie nell’accezione di M. Foucault, sviluppate nel cap.2) della III sezione e quelle
sulla coazione a postulare un regressus ad infinitum, comune per certi aspetti a Borges e ai Cabbalisti, trattate nella
parte finale del cap.3) della II sezione.
94
2) L’incipit
Celebrato l’imprescindibile esergo, è tempo di calarsi senz’altro nel testo, il cui incipit, ricco
di evocazioni, è bene richiamare di nuovo integralmente:
“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi
nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal
Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco
violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra
è infrequente”.252
In questo principio “nessuno” ripetutamente echeggia.
La struttura anaforica del brano, che rimarca lo sbarco isolato di un uomo taciturno
nell’oscurità, assegna al testo intonazioni “unanimi” all’epigrafe commentata.
Tenebre e solitudine, questo dice la primissima lettura.
L’uomo sbarca nella notte, territorio del sogno. Il suo itinerario è solitario e in un certo modo
“magico”, perché nessuno vede arrivare il viaggiatore; pochi giorni dopo, però, tutti
conoscono la sua provenienza e il suo idioma.
Lo scenario è fitto di oggetti simbolici carichi di senso: la notte, lo sbarco, l’incagliamento
nel fango sacro, il fiume, il Sud, la lingua incontaminata.
Come spesso accade nell’opera del nostro autore, domina la polisemia e il disvelamento
degli universi evocati non conduce solo alla mistica ebraica, ma anche ad altre mitologie e
sistemi religiosi253.
251
“Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una
notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte e Amleto spettatore dell’Amleto? Credo di
avere trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o
spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi.” (J.L. Borges, Magie parziali del Don Chisciotte, in
Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1, 952).
252
253
J.L. Borges, Le rovine circolari, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 659.
Come si è sottolineato, specie nei racconti fantastici Borges utilizza interamente il suo immenso bagaglio di
nozioni e letture, cosicché il reperimento delle fonti diventa arduo e inutile. Ciò anche perché la trasfigurazione e
l’impiego polisemico degli oggetti del suo repertorio è già, per definizione, materiale elaborato. D’altra parte alla
stessa Cabbala non sono ovviamente estranei elementi eterogenei al pensiero ebraico. Sul punto, cfr. n.11.
95
L’uomo non approda in un punto plausibile (la canoa si incaglia nel fango sacro) ma sbarca
nella notte. Tale è il porto senza limiti che lo attende.
Questa singolare geografia nautica evoca l’odissea dell’anima dell’uomo nella mistica dello
Zohar254, il sogno come viaggio segreto compiuto ogni notte, l’itinerario di ascesa verso la
sorgente celeste.
Dunque una solitudine, enfatizzata da quel ridondante “nessuno”, che si può leggere
desolata e appartata, come è disperato l’incagliarsi della canoa nel fango; ma forse, se
l’interpretazione mistica poc’anzi accennata dovesse trovare altri supporti, questa volta
potrebbe accadere e manifestarsi una diversa e meno radicale dimensione solitaria - sinora
inesplorata da Borges - aperta a qualche speranza, benché duramente messa alla prova da
un
periglioso
viaggio
notturno255.
La
rotta potrebbe
infatti “orientarsi”
verso
una
costellazione luminosa, quella delle Sephirot, il complesso mondo divino che comunica
fugacemente
con
l’uomo
immaginazione onirica
254
256
per
tramite
della
congiunzione
fra
Intelletto
Agente
e
.
Cfr. Cap. 2 della II sezione (comprese le note 216 e 217), in cui si fa cenno alla fenomenologia del sogno nella
mistica dello Zohar. Si ricorda anche: “Ogni notte le anime dei giusti salgono e, quando giunge la mezzanotte, il
Santo, sia Egli benedetto, si reca nel giardino di Eden per dilettarsi con loro. Rabbi Yosi affermò: con tutti loro, sia
con quelli che hanno dimora in questo mondo sia con coloro che risiedono nell’aldilà”. (Zohar, 1.8 2b). Nella mistica
ebraica “la notte è..conoscenza, poiché dischiude un rapporto diretto col divino che pare impraticabile durante il
giorno.” (G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit., voce Notte, 133). Sul senso e i limiti della devequt, con
riferimento all’itinerario dell’anima individuale e alla sua unione con l’anima universale, così come sulla
congiunzione tra intelletto e Intelletto Attivo, tra pensiero e Chokmà, e sulla “metabolizzazione” del pensiero
filosofico neoplatonico e aristotelico nella mistica ebraica, cfr. M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 55-60).
255
Quale sia il senso, vivissimo nei miti e nelle leggende di ogni cultura, della “prova da superare” per raggiungere
l’obiettivo perseguito, spesso rappresentata da un viaggio pericoloso per mare, e quale sia, più in particolare il rilievo
dell’Odissea, classico innumerevoli volte echeggiato, è troppo noto per essere sottolineato. Mi permetto solo di citare
quale contributo fondamentale della critica letteraria strutturalista, con riferimento al tema delle funzioni nel racconto
(e quindi anche a quella della “prova da superare”), l’opera di Propp, La morfologia della fiaba, Torino, 1966.
Ricordo anche, per quanto riguarda l’effetto “ridondante” e di costante nostalgico ritorno dei grandissimi classici, I.
Calvino, Perché leggere i classici, Milano, 1991.
256
Anche Borges conosce bene la dottrina della profezia di Maimonide. Nel racconto Il miracolo segreto (da Finzioni,
in Tutte le opere cit.,Vol. I, pp. 743-744) scrive: “Ricordò che i sogni degli uomini appartengono a Dio e che
Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano chiare e distinte, e non si può vedere chi le ha
dette, sono divine.” Sui limiti entro cui l’unio mystica dovrebbe essere concepita nel pensiero ebraico, come è noto le
96
D’altra parte il viaggio al quale si allude non è solo metaforico. Certo per ora, emarginata
alla periferia del paesaggio, sembra latitare curiosamente l’acqua, il mezzo naturale che
consente all’imbarcazione di procedere 257. Si naviga piuttosto nell’aria e nella terra,
quest’ultima ostacolo - remora, e, come si vedrà, possibile incantamento: l’uomo taciturno
arriva nella notte e illudendosi di non interrompere il suo itinerario di ascesa pare voler
proseguire il suo viaggio sconfinando nella dimensione uranica. Contraddittoriamente però lo
slancio è frenato: la canoa di bambù rimane incagliata nel fango.
Il naviglio dal così precario incedere forse cela il compito segreto di solcare il cielo con il sole
– Ra258 per dare luce al mondo diurno dei vivi, e nottetempo rischiarare l’ipogeo dei morti.
Ma qualcosa è andato storto. La barca si è incagliata nel fango sacro e la missione cosmica
del benefico pellegrino sembra per il momento sfumare.
L’incagliamento è un ostacolo evidente, forse insuperabile. Il viaggiatore è costretto
probabilmente a modificare i suoi piani.
opinioni sono discordi. Mentre Scholem spesso rileva che la congiunzione totale, salvo casi sporadici, deve intendersi
come assente, Idel ritiene invece tale ipotesi infondata sia dal punto di vista teoretico sia da quello fattuale (M. Idel,
Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 69-70).
257
Non a caso: come è noto l’acqua è nella mistica ebraica cifra simbolica, tra l’altro, della Torah, attraverso la
mediazione della Chokmà, secondo Scholem derivante, almeno per quanto attiene il Sefer-ha Bahir, dalla Sophia degli
gnostici (Le origini della Kabbalà cit., pp. 154 ss.). Sul punto cfr. la più ampia nota 264, infra. Come emergerà tra
poco, questo brano, a mio avviso, pur sottendendo elementi anche cabbalistici, considerato nel suo complesso
richiama più prepotentemente il paesaggio di Genesi, peraltro comune, per certi aspetti, ad altri sistemi religiosi.
258
Le “Barche del sole” che si trovano nei pressi della piramide di Giza riproducono la nave sulla quale ogni giorno il
dio Ra percorre il cielo, per illuminare di notte il mondo dei morti e quindi ritornare al punto di partenza (a cura di H.
Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, 1999, voce Nave, 317).
97
Da possibile sovrano e supremo regolatore dell’universo, dispensatore di ogni dono 259, il
presunto Ra è costretto a cercare rifugio nella palude, dove, come si nota avanzando un
poco nel racconto, potrà sopravvivere solo grazie alla ambigua benevolenza, tinta di timore,
degli abitanti senza nome di questa indecifrabile località:
“Orme di piedi nudi, alcune frutta e un bacile l’informarono che la gente del luogo aveva
spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia 260”.
Poco male qualche quotidiano disagio per una divinità, se di Ra si tratta, che ha talvolta
dovuto piangere la morte di altri dèi del Pantheon egizio 261!
259
Ecco alcuni brani, significativi della funzione accennata, dell’Inno ad Amon-Ra (in Letteratura e poesia
dell’Antico Egitto, Torino, 1990, 405): “Inno ad Amon Ra, il toro di Eliopoli, il principe di tutti gli dei, il dio buono,
l’amato, che fa vivere ogni verme e ogni buon pastore. Lode a te, Amon-Ra, signore di Karnak, principe di Tebe! /
Toro di sua madre, che è il primo sul suo campo! /..Signore di ciò che esiste, che crea gli alberi da frutto, che fa
l’erba e nutre il bestiame /..Che felicemente attraversa il cielo, il re dell’Alto e del Basso / Egitto, Ra dei giustificati /
…Amon, che ha creato gli uomini, che ha distinto la loro natura e li / ha fatti vivere, / che ha distinto i colori della
pelle delle razze umane l’uno/ dall’altro; / che ascolta le preghiere del prigioniero, con cuore ammirevole, / quando li
invoca; / che libera il timoroso dall’insolente e mette pace tra il debole e il / forte… Egli fa stare aperti tutti gli
occhi.., la sua bontà ha creato / la luce… Sei colui che ha creato tutte le cose, l’unico / che ha creato ciò che esiste, /
dai cui occhi sono usciti gli uomini (il mito voleva che gli uomini egiziani fossero nati dalle lacrime di Ra, n.d.r.), /
dalla cui bocca hanno avuto origine gli dei, / che produce il foraggio che nutre le greggi, / e gli alberi da frutto per
gli uomini /..Salute a te che hai creato tutto questo, / unico con molte mani / che veglia quando tutti gli uomini
dormono, / e cerca il bene per il suo bestiame..” Sulla funzione di governatore e ordinatore universale della divinità
solare Ra, cito anche l’ottimo profilo della figura mitica evocata contenuto nel Dizionario universale dei miti e delle
leggende, Roma, 2002, 528: “Uno dei primi atti della creazione, nella mitologia egizia, fu l’apparizione del disco del
sole di Ra sopra le acque di Nun (caos). Si dice che il tempo avrebbe avuto inizio con la prima alba di Ra. Poiché gli
egiziani credevano che il sole fosse fatto di fuoco e non potesse essere spuntato dall’acqua senza un mezzo di
trasporto efficace, si pensava che Ra avesse fatto il suo viaggio sulle acque in una barca. La barca della mattina si
chiamava Mandiet (rafforzarsi) e quella della sera, Masket (indebolirsi). Si dice che il percorso di Ra fosse stato
tracciato dalla dea Maat, personificazione delle leggi morali e fisiche. La sera, dopo che il sole si era posizionato a
ovest, Ra si recava nel Dat, l’oltretomba. Con l’aiuto degli dei, attraversava quella regione in una barca e
ricompariva la mattina successiva. Durante il suo tragitto nel Dat, egli regalava aria, luce e cibo a cloro che erano
stati condannati a vivere lì.” E’ importante sottolineare, per il legame con il tema centrale trattato in questa sezione, il
mito antropogonico risalente a questa tradizione, che fa derivare l’origine dell’uomo dal pianto di Ra.
260
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 659.
261
Anche Osiride restituito alla vita dopo lo smembramento subìto non appartiene più al presente, è esplicitamente
una mera riproduzione del passato, è “ieri”. Cfr. D. Meeks Ch. Favard – Meeks, La vita quotidiana degli Egizi e dei
98
Questa ipotesi di lettura, per quanto suggestiva e forse autorizzata, come tante altre, dalla
polisemia del testo, sembra però infrangersi nell’incaglio dal quale ancora fatico a
disancorarmi.
Restiamo alla scena iniziale, dimenticando per un momento l’anelito cosmico del viaggiatore
notturno.
C’è forse una parola di troppo, una leggera tautologia nel primo brano del racconto citato: la
canoa di bambù, è scritto, si è arenata nel fango sacro.
In realtà si sa benissimo, senza necessità di precisarlo, che quella è terra santa, numinosa.
Borges ha censito in modo molto evidente un essenziale, ma completo teatro della
creazione, in cui tutti gli elementi primordiali compaiono: l’aria-etere della notte unanime,
l’acqua del fiume, la terra plasmabile, cioè il fango. Manca solo il fuoco, ma presto anch’esso
illuminerà la scena per recitarvi un ruolo regale.
C’è quindi tutto l’armamentario di una sacra rappresentazione.
In un territorio sconosciuto, che pare evocare il punto in cui tutti i luoghi dei miti creativi si
incontrano - parodiando il nostro autore, un Aleph di tutte le Genesi possibili - c’è dunque
materia per fare; in questo misterioso paese è approdato avventurosamente un artiere
-demiurgo destinato a dare forma a qualcosa, a compiere un percorso creativo parallelo con
l’autore del racconto e con i suoi infiniti lettori.
E’ un viaggiatore262 che vive la meraviglia e lo stupore propri del filosofare, ancora più
abissali in questo territorio dell’essenza e dei primordi, in cui ne va dell’Origine 263.
loro dèi, Milano, 1995, 138.
262
“I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è
l’espressione che le appartiene”. (Eraclito 14A 55, in G. Colli, La sapienza greca cit., III, 63).
263
“Gli uomini hanno cominciato a filosofare ora come in origine, a causa della meraviglia.” Aristotele, La
metafisica, I,2,982b, Milano 1992, 77. Se qualsiasi filosofia è filosofia dell’origine, perché la domanda è sempre una
domanda sull’origine (cfr. S. Natoli, Parole della filosofia cit., pp. 16-17)), inarrestabile e irresistibile è lo
scivolamento a ritroso che avviene quando il contenuto del pensiero riflette sul procedimento creativo iniziale. Scrive
lo stesso autore (op.ult.cit., 113): “In tempi lontani mi è capitato di scrivere sul “”motivo dell’origine della
filosofia””, Dicevo: essa non coincide con una causa non principiata, né con un mondo dietro il mondo, ma inerisce
alla dimensione umana del domandare, attiene alla meraviglia. La meraviglia è il sentimento che erompe improvviso
innanzi all’eccezionale, all’inaudito. Ma non è solo questo, è molto di più; è la capacità di avere uno sguardo
originale su ciò che è abituale.” Questa vertigine è avvertita anche – forse soprattutto – nella mistica ebraica, in cui il
momento iniziale, il Principio – Bereshit, il suo intreccio dialettico con la creazione e con Dio e il conflitto tra la
divinità vivente, personale e l’En Soph nascosto, “che riposa in eterno inaccessibile, nella profondità del suo essere
99
E’ uno strano pellegrino, che naviga il fiume, sbarca nella notte e si incaglia nel fango.
I rimandi sono inevitabilmente molteplici e delineano una geografia tanto coerente e
unanime, per gli aspetti di più immediata percezione, quanto spezzata in una serie di segni
che frantumano la visione d’insieme, evocando, come si è in parte già visto, miti più remoti
e meno svelati. Sono segni che chiedono un senso 264.
Indubbiamente il quadro generale richiama il paesaggio edenico, condiviso dalla mitologia
babilonese.
o, secondo l’audace versione dei cabbalisti, “”nella profondità del suo Nulla”” sono al centro di vastissime, abissali
speculazioni messe in luce da Scholem, anche negli aspetti più paradossali, ne Le grandi correnti della mistica
ebraica cit. (alle pagg. 24-25 il brano appena citato) e ne I concetti fondamentali dell’ebraismo (Creazione dal nulla e
autolimitazione di Dio, pp. 40 ss.). Tornando alla quanto mai efficace “fenomenologia della meraviglia” poc’anzi
evocata da Natoli, si può sostenere che i Cabbalisti abbiano coltivato lo stupore dell’inaudito, donando quasi una
parola paradossale all’ineffabile, soprattutto nel produrre la mistica del Principio. Tuttavia mi pare che l’esegesi
midrashica, adempiendo in questo modo anche alla “seconda maniera” dello stupore, abbia saputo spesso cogliere con
sguardo profondo nessi invisibili tra cose apparentemente lontane, vestendo di splendore passi biblici a un primo
sguardo “insignificanti”. In ogni modo, l’esito forse più ardito della speculazione sulla creazione è quello rammentato
da Scholem (ne Le grandi correnti cit., 230) che evoca una delle possibili traduzioni dell’inizio del Genesi (Bereshith
barà Elohìm): per mezzo della Sapienza Divina (il Principio) il nascosto nulla (soggetto grammaticale di barà) creò emanò Elohìm. Non so se questo passaggio sia stato notato da Borges, ma credo di potere essere “autorizzato” a
valermene nell’indagine che sto conducendo sul testo, per l’indubbia affinità tra questa speculazione e il “movimento
di pensiero” del nostro autore.
264
“Cosa dunque caratterizza la filosofia come forma di sapere? La trasformazione del segno in senso.” (Natoli,
Parole della filosofia cit., 21).
100
La connotazione “fluviale” dell’ambiente è certamente esplicita e univoca. E’ troppo noto il
racconto biblico jahvista della creazione265; è un tòpos della mistica l’accostamento tra
l’acqua di sorgente e la divina Chokmà266.
So tuttavia come avanzerà il testo, so anche che il tema centrale della narrazione è la
creazione dell’uomo, obiettivo che sarà però perseguito assecondando procedure diverse da
quelle fin qui in apparenza suggerite dal racconto.
Questa arbitraria precognizione dello sviluppo successivo mi induce a fissare nuovamente
nell’abisso vertiginoso dell’Inizio, quale più significativo elemento del quadro tracciato, il
fango sacro.
Fango, non terra, né polvere.
Come tale, morbido, plasmabile e fertile; legato alla fecondità.
265
“Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. ...Un fiume
usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama
Pison...il secondo fiume si chiama Ghicon...Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto
fiume è l’Eufrate (La Bibbia di Gerusalemme, Genesi, 2.8-2.14). Secondo J. Campbell (Mitologia occidentale,
Milano, 1992, 122) in questo racconto “riconosciamo l’antico giardino dei Sumeri”: addirittura sarebbe evocato il
tardo mito babilonese secondo cui gli uomini furono creati per sollevare gli dei dal pesante compito di lavorare la
terra. Di opinione diversa P. Stefani (Le radici bibliche della cultura occidentale, Milano, 2004, 35). Secondo questo
studioso, al contrario, sarebbe la prima versione sacerdotale del racconto della creazione a richiamare le cosmogonie
babilonesi, le quali cominciano con l’emersione della terra dalle primordiali acque del caos ispirandosi
metaforicamente al fatto che il suolo asciutto risorgeva annualmente dagli straripamenti del Tigri e
dell’Eufrate…..La seconda narrazione, più arcaica….presenta condizioni geografiche e climatiche simili a quelle
della terra di Canaan, il caos originario viene descritto come una terra disseccata dal sole, arida e desertica..”
266
“Come l’albero dà frutti grazie all’acqua, così il santo, sia Egli benedetto, accresce le forze dell’albero per mezzo
dell’acqua. E che cos’è l’acqua del santo, sia Egli benedetto? E’ la sapienza e sono le anime superiori dei giusti che
sgorgano dalla sorgente versio il grande canale, il quale sale e s’unisce all’albero.” [Sefer Bahir (119-85), in Mistica
ebraica cit., 183]. “Poi Egli foggiò un piccolo contenitore, cioè la Yod, che andò riempiendo di Sé. La chiamò
“”Fonte che sgorga Sapienza e se ne chiamò Sapiente”. (dallo Zohar, II 42b-43a, in Zohar cit., 47). Scrive Scholem
nel commentare il testo mistico citato: “Questa Sophia è naturalmente la Torà primordiale, conformemente
all’equivalenza statuita nell’Aggadà tra i due concetti, ma anche all’identificazione che essa stabilisce tra l’acqua
della fonte, l’acqua fresca e l’acqua in generale, da una parte, e la Torà dall’altra.” (G. Scholem, Le origini della
Kabbalà cit., pp. 164-165). Anche nella mistica provenzale delle origini, più specificamente proprio il fiume del
paesaggio edenico ha una forte valenza simbolica: “Il fiume che esce dall’Eden è la corrente d’emanazione delle
Sephirot; ma nel punto dove lascia il Giardino, la Sefirà meno elevata, si divide e diviene la molteplicità del mondo
della creatura, del mondo della separazione.” (Op. ult. cit. pp. 148-149).
101
Oltre a richiamare il racconto biblico della creazione di Adamo nella versione jahvista (in cui
però polvere e aria paiono essere gli elementi demiurgici più puntualmente enunciabili 267), la
mitologia sumero-accadica, alla quale si deve la narrazione probabilmente più antica 268, il
teatro greco269, e addirittura la formazione del golem, fin troppo pertinente al nostro
tema270, intorno al fango sacro aleggia una dimensione simbolica forse ancora più profonda
di quella evocata dalle antropogonie citate; si avverte, per così dire, un richiamo
“primordiale” più potente.
267
“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente.” (La Bibbia di Gerusalemme cit., Genesi, 2.7, 38).
268
La narrazione accadica è contenuta in molti testi. Il più ampio e suggestivo è il Poema del Supersaggio,
probabilmente composto intorno al 1700 a.c.: Quando gli dèi (facevano) l’uomo,/ erano soggetti a lavori pesanti e
lavoravano duramente: / enorme era l’incarico affidato loro, / la loro corvèe pesante, ed infinito il loro lavoro, /
poiché i grandi Annunaku agli Igigu / imponevano una fatica sette volte pesante. Gli dei lavoratori (Igigu) protestano
per il trattamento e il dio Ea provvede creando un essere intelligente e limitato (non in grado cioè di minacciare gli
dèi): l’uomo, che viene plasmato d’argilla mescolata con il sangue di un dio minore. (Cfr. J. Bottéro, Mesopotamia,
Torino, 1991, pp. 243-245).
269
“Uomini dalla vita oscura, simili alla stirpe delle foglie, deboli creature impastate di fango, ombre instabili,
effimere, senz’ali, mortali infelici, vani come sogni, prestate attenzione a noi che siamo immortali, da sempre viventi,
eterei, immuni da vecchiaia, e pensiamo eterni pensieri”. Aristofane, Gli uccelli, 685-686, in Le vespe – Gli uccelli,
Milano, 2001, 233). Si noti il legame tra il fango plasmato e il sogno vano, che condividono evidentemente il
territorio dell’effimero e del fragile.
270
Citando a tale proposito il Midrash avkir, Idel scrive: “Rabbi Berakayà disse:””Quando Dio desiderò creare il
mondo, iniziò la sua creazione dall’uomo e lo plasmò come un golem. Quando si accinse a infondere un’anima in lui,
disse: “Se lo vivifico ora, si dirà che è stato mio assistente nell’opera della creazione; così lo lascerò golem (in uno
stato rozzo, incompiuto), finché non avrò creato tutto il resto.”” Quando ebbe creato tutto, gli angeli gli
dissero:””Non farai ora l’uomo di cui parlavi?”” Ed egli rispose: “”L’ho già creato da tempo, manca solo
l’anima.”” Allora infuse in lui l’anima e lo vivificò e concentrò in lui tutto il mondo. Con lui iniziò e con lui concluse,
come è scritto: ““Mi hai formato davanti e dietro.”” Dio disse:””Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi.”” (Idel,
Cabbalà Nuove Prospettive cit., 119.) Questo brano è rilevante almeno sotto tre profili. Il primo è l’ovvio e immediato
emergere, su un piano di superficie, della plasticità del golem evocata direttamente dall’atto demiurgico del plasmare
il fango; la seconda è la già accennata e persistente aura di imperfezione e materialità che si congiunge a questa
creatura. Infine l’idea di concentrazione di tutto il mondo nell’uomo, dotato di anima e dunque portato a perfezione, è
feconda sia per comprendere i limiti e il senso del panteismo nella mistica ebraica, sia per interpretare, come si vedrà
102
Sono forse questa volta guidato in modo opportuno dal mio essere forzatamente
“pregiudicato” dalla precognizione degli sviluppi successivi della narrazione borgesiana: non
sarà, come una lettura innocente degli esiti potrebbe far supporre, la terra umida la
fautrice-fattrice del complesso atto creativo al quale ci accingiamo ad assistere.
Ma, evidentemente, una così precisa, e, per certi versi - si è detto - superflua,
puntualizzazione della sacralità dell’elemento da parte di uno scrittore tanto attento ed
economico nello stile narrativo, non può essere casuale.
Anche se il taciturno viaggiatore sceglierà un altro percorso creativo, forse optando per le
trentadue vie della sapienza divina del Sefer Yetsirà, lo scenario paludoso e sacro del suo
approdo ha comunque un senso.
E’ un avvertimento di ciò che accadrà e di come non accadrà.
Il pellegrino è arrivato sin qui con uno scopo.
L’obiettivo non può essere che la creazione di qualcosa. Gli indizi già riscontrati sono
inequivocabili e tra poco altri affluiranno.
Il fango sacro, l’elemento più chiaramente “sospetto”, d’altra parte reca almeno due sensi.
Da un lato, segnala, a mio avviso, l’ineluttabilità dell’atto demiurgico, assegnandogli tonalità
e connotazioni di concreta plasticità e soprattutto di primordiale universalità.
Dall’altro, denuncia i propri limiti, proponendosi solo come il primo passaggio di un processo
più complesso: l’uomo taciturno, disincantato dall’incagliamento 271, procederà oltre; si
ammanterà, se vogliamo, della sacralità di questa terra, si nutrirà della sua potenzialità
numinosa, ma non ne farà la materia del suo operare.
in seguito, l’atto creativo nell’opera e dell’opera di Borges.
271
Sfuggo, forse a malincuore, alla tentazione di attribuire all’incagliamento un senso di malìa sessuale, la vertiginosa
tentazione proditoriamente macchinata da sirene terragne o dalla acquorea rassicurante e materna Calipso; prove non
da poco, che il nostro itinerante taciturno viaggiatore pare avere con qualche difficoltà superato.
103
Per un verso, dunque, il fango fecondo e plasmabile evoca l’elemento femminile 272, con tutto
il suo potenziale generativo, altrimenti assente dallo scenario. L’associazione tra donna e
humus è oltre tutto condivisa anche dallo Zohar273.
Per un altro, Borges ci suggerisce che la terra-madre-donna è condizione forse necessaria,
ma certamente non sufficiente, per raggiungere un esito demiurgico straordinariamente
ambizioso.
Si è appreso dal Midrash avkir citato da Idel (cfr. n. 269) che Dio ha formato Adamo in due
fasi: prima ha plasmato il fango e ha forgiato il golem, poi, completata la creazione
dell’universo, ha realmente “fatto” l’uomo, infondendo l’anima all’embrione, vivificandolo e
concentrando in lui tutto il mondo.
Dunque modellando la terra materna e feconda si produce solo un miserabile effimero
manufatto: l’incompleto, l’amorfo, il golem, il servitore degli dèi nella mitologia accadica, il
muto e rozzo famulo delle leggende chassidiche.
Invece per creare l’uomo, cosa ben diversa, il procedimento è più complesso: prima si forma
il cosmo, poi si anima l’embrione, che si trasforma nel macroantropo in cui il mondo è
circoscritto274.
272
Sul punto mi pare assai pertinente il saggio di Kàroly Kerényi L’uomo dei primordi e i misteri, contenuto in Miti e
misteri, Torino, 1979, 369 ss. Lo studioso, descritto l’accostamento e la sovrapposizione della concezione più
squisitamente mitologica delle antropogonie a qualche ipotesi scientifica maturata nella tarda antichità lungo le linee
del pensiero di Democrito, Epicuro e Lucrezio, riscontra, anche attraverso una puntuale analisi etimologica (greco
laòs, popolo, laas, pietra, allusivo del lancio di sassi con cui Deucalione e Pirra avevano ripopolato il mondo dopo il
diluvio; latino humus, terra, homo, uomo; se mi è concesso, ebraico ‘adam, uomo, ‘adamah, suolo), il mitologema
legato alla storia delle origini, quando la terra svolgeva il ruolo della Madre Primordiale. L’idea che emerge
dall’analisi del mito di Kerényi è che, nel parallelismo che si sviluppa tra il suolo fecondo e la donna, sia quest’ultima
a “imitare” la terra e non il contrario (op.ult.cit., 381).
273
“E a far salire dalla terra (Gen. 2,6) per completare ciò che mancava, per irrigare tutta la superficie del suolo
(ibidem). Ciò che sale dalla terra è il desiderio della femmina per il maschio.” (Zohar, I, 34b-35°, da Zohar cit. 10).
274
Naturalmente il mondo, inteso come macrocosmo, può essere concentrato nel macroantropo, nell’Adam Qadmòn;
peraltro ciò non pare escludere che lo stesso concetto possa applicarsi, magari in virtù di una trasposizione simbolica,
anche al caso dell’uomo non trasfigurato dal mito (uomo inferiore), punto su cui si tornerà in seguito; se poi
accediamo all’affabulazione letteraria, ben può essere che l’universo, si pensi all’Aleph di Borges, possa essere
concentrato in dimensioni minime.
104
Questo è il senso che colgo: il taciturno, benché eloquente 275, viaggiatore, se volesse
formare solo un golem, un essere incompleto, potrebbe restare serenamente incagliato nella
domestica familiarità del fango sacro e attingere dalla terra madre – donna la materia
sufficiente per plasmare l’embrione, esaurendo così la sua missione senza procedere oltre 276.
Ma non è questo il suo scopo. Il pellegrino è più ambizioso. Vuole, come ho indebitamente
anticipato, generare un uomo, e, illudendosi di sé, vuole farlo a propria immagine e
somiglianza.
Per assecondare la tracotante velleità del protagonista, lo scenario essenzialmente biblicoedenico277 dal quale ho preso le mosse non è più sufficiente.
Occorre infatti abbandonare quel limaccioso mare della tranquillità in cui predomina la
naturalità primigenia e avventurarsi negli imperscrutabili abissi della mistica, ampliando con
strumenti nuovi lo spettro delle potenzialità demiurgiche del viaggiatore.
Alcuni degli elementi enucleabili dal primo brano del racconto evocano già una certa
familiarità con la Cabbala: il sud, punto cardinale dello spazio dal quale il nostro viandante
proviene, e l’idioma incontaminato, dunque puro, perfetto, originario, forse sacro, di cui il
protagonista, peraltro sinora taciturno, sembra in possesso. D’altra parte, associati a un
contesto diverso da quello biblico o dallo scenario della fisica presocratica, terra, aria,
275
Taciturno in quanto il suo tacere è solo propiziatorio di una parola determinante, di una parola, circondata dal nulla,
che, differendo dal silenzio, esplode originaria per incidere il mondo.
276
Questa mia interpretazione non concorda con quella, di matrice psicoanalitica, che vede nella creazione del golem
la risposta maschile al potere della maternità, il malcelato tentativo del maschio di riappropriarsi del primario potere
femminile della creazione.” (M. Centini, La sindrome di Prometeo, Milano 1999, 19). Come si vedrà infra, a mio
avviso tale desiderio di autoaffermazione maschile appare forse più evidente nel tentativo di creare l’uomo in tutte le
sue fattezze e non il semplice imperfetto golem.
277
Scenario biblico, come si è visto, debitore di qualche colore, sfondo, oggetto, alla “koiné” mesopotamica del
giardino, dell’operosità lavorativa e della feconda terra argillosa.
105
acqua, e fuoco (quest’ultimo non ancora presente) sono determinanti – eccettuata la prima
278
- anche nel processo creativo descritto nel Sefer Yetsirà.
Non credo però che tale ultima considerazione valga a confutare il quadro che ho delineato,
e neppure che l’elemento mistico, pur ovviamente sotteso 279, si imponga con prepotenza
inderogabile sin dall’incerto approdo del nostro viaggiatore.
L’interrogazione sul senso non può infatti a questo punto esaurirsi solo censendo i singoli
oggetti tratti dall’arsenale letterario del nostro autore, per poi assecondarne plausibili
corrispondenze con sostrati culturali facilmente identificabili, ma spesso equivoci 280, bensì va
interpretata281, forse aderendo ai dettami della morfologia strutturale già accennata 282 e
dell’ermeneutica gadameriana283, adottando, insieme alla spassionata e “impregiudicata”
descrittività fenomenologica, anche una visione olistica del testo. Ciò consente di alternare e
quindi arricchire le prospettive, svelando i significati attraverso il senso, e il senso alla luce
278
Nel Sefer Yetsirà, come si vedrà, la terra non è fra gli elementi primordiali (aria, acqua, fuoco). D’altra parte
qualche volta nella mistica ebraica il fango o la terra sembrano costretti a una cifra simbolica “negativa”, legandosi
alle tenebre, all’oscurità. In questo senso il vohu nel tòhu va-vòhu di Genesi 1.2 sarebbe costituito da “”pietre
fangose [?] affondate nell’abisso””. Nella Chaghigà 12a, sempre citata da Scholem, si parla di pietre fangose da cui
fluiscono le tenebre.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 93). Questa annotazione sembra confermare il senso
non prevalentemente mistico cabbalistico del brano introduttivo letto ora.
279
L’elemento mistico, in senso lato – e dunque non squisitamente ebraico, o magari ebraico – ma non rigorosamente
cabbalistico - era individuabile, con contenuto arbitrio, sia, come si è scritto, nell’itinerario notturno del taciturno
cosmonauta, sia, come accennato ora, negli elementi primordiali enucleati.
280
Come si è accennato, per esempio, gli elementi terra, acqua, aria, fuoco possono richiamare molteplici fonti, anche
assai eterogenee.
281
Dico “interpretata” e non “risolta”, perché questo è il modesto contributo che si può tentare, a mio avviso, di offrire
quando ci si imbatte in una interrogazione sul senso. Non esiste una parola definitiva, né la sua esistenza mi pare
auspicabile.
282
283
Cfr.n. 95. L’autore alluso è Dolézel (Poetica occidentale cit. pp. 71 ss.).
L’interpretazione di Gadamer contrappone alla fenomenologia husserliana, che pretende di risalire ai dati
immediati di coscienza, una struttura di anticipazione data dal sedimentare delle opinioni precedenti. “L’ermeneutica
riabilita così i pregiudizi, con l’esaltazione del momento della precomprensione”. P. D’Alessandro, Esperienza di
lettura cit., pp. 94-95.
106
dei significati. In questo modo, come si è detto, “il tutto precede le parti che lo
compongono“ o, in termini di morfologia organica, il tutto è maggiore della somma delle
parti che lo costituiscono 284.
Tuttavia, prima di accennare temi inediti e di trattare oggetti già descritti, ma non per
questo meno “nuovi” là dove ricollocati su un diverso orizzonte di senso 285, pare opportuno
avanzare nella lettura, per poter più facilmente verificare se la svolta nel programma
demiurgico, resa, come si vedrà, perentoriamente esplicita dall’autore, sia presagita o
accompagnata da segni ancora più specificamente pertinenti alla mistica ebraica 286, che
preannuncino o confermino la progressione ed evoluzione della narrazione verso un esito più
compiutamente creativo.
3) Lo scenario mistico
“L’uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare (probabilmente senza
sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto
circolare che corona una tigre o cavallo di pietra che fu una volta del colore del fuoco ed è
ora di quello della cenere. Questa rotonda è ciò che resta d’un tempio che antichi incendi
divorarono, cui profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli
uomini.
Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore
che le ferite s’erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della
carne, ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che
284
In tal senso cfr. anche P. D’Alessandro, Orizzonti e forme del dire filosofico, Milano, 2003, 28.
285
Si è detto che gli stessi elementi materiali, gli stessi oggetti sorpresi da una visione olistica nella quale prevalga il
senso biblico-edenico, sono interpretati come segni di quell’orizzonte di senso (biblico-edenico), mentre collocati su
un orizzonte mistico avranno valenze diverse, coerenti con la loro nuova dimensione. D’altra parte, come è noto, nella
linguistica di Saussure il valore del segno linguistico, inteso come rapporto fra significante e significato, è funzione
della sua posizione (ossia del suo orizzonte di senso) nello scacchiere della lingua. Variando la posizione di un segno,
tutti gli altri cambiano. (“Il valore di un segno linguistico risiede dunque in un rapporto di rapporti in cui il primo
rapporto risulta interno al segno; gli altri sono invece quelli che il segno stabilisce di volta in volta al suo esterno
con altri segni del medesimo sistema”. P. D’Alessandro, Esperienza di lettura cit, pp. 56-57).
286
Ossia pertinenti in modo esclusivo e inequivocabile, per quanto possibile, alla mistica, anche in virtù di un’esegesi
più prossima alla superficie del testo.
107
conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a
soffocare, più a valle, le rovine d’un altro tempio propizio, anch’esso di dèi incendiati e
morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno..
Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un
uomo; voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto
magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima. .Gli conveniva il tempio disabitato e
rotto, perché era un minimo di mondo visibile.”.287
La separazione del viaggiatore dalla terra madre è suggellata da un bacio coniugale o filiale
ed è travagliata da ferite e lacerazioni, nel corpo e nell’anima.
Non si è trattato di una scelta facile.
Da questo momento l’uomo taciturno è straniero, ma meglio sarebbe dire “straniato”. Ha
abbandonato il suolo edenico, che avrebbe potuto felicemente signoreggiare plasmando
materiale docile, un luogo irrorato dalla segreta Sapienza divina ancora indistinta 288, e ora
vive l’ambigua situazione dello spaesamento.
Il nostro Ulisse, dapprima cosmonauta ardimentoso in un viaggio che non fu, quindi
possibile sedentario fruitore della terra madre, quell’Itaca Penelope (o Ogigia Calipso) non
senza pena ricusata, ha infine preferito tramare percorsi intricati, inoltrandosi in un territorio
che subito si mostra ostile scosceso e maligno 289.
287
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 659-660
288
Tale nella mistica sefirotica “canonizzata” dallo Zohar è Chokma, prima di sfociare nel mare dell’intelligenza,
intesa come discernimento, la dialettica Binà (cfr. Zohar, II, 42b – 43a, in Zohar cit. 47).
289
Nel compito non impossibile, ma soprannaturale che il personaggio si impone e nello scegliere l’abbandono della
terra sacra, che favoleggio edenica e in qualche modo coniugale, questa avventura può richiamarne un’altra
celeberrima, sempre un’Odissea immaginaria: “Quando / mi diparti’ da Circe, che sottrasse / me più d’un anno là
presso a Gaeta / prima che sì Enea la nomasse, / né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘l debito
amore / lo qual dovea Penelope far lieta, / vincer poter dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto /
e de li vizi umani e del valore;/..(D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno XXVI, 90-99, 236). Ho poi scoperto
– non lo sapevo prima di associare inconsapevolmente i due miti – che una leggenda, accreditata dai tragediografi,
non da Omero, fa di Ulisse il figlio non di Laerte, ma di Sisifo, al punto che talvolta è chiamato Sisifide (cfr.
Enciclopedia dell’antichità classica cit., voce Ulisse, 1469 e Dizionario di mitologia, Torino, 1999, voce Sisifo, 649).
Forse questa tardiva trovata rende meno arbitrario quell’accostamento tra i due personaggi, sconfinante in
sovrapposizione, che, come si vedrà, ho spesso proposto.
108
Il viaggiatore sembra spaesato proprio perché in qualche modo appare legato anche a
questo luogo290 dal quale è oscuramente attratto.
Le rovine circolari di un tempio devastato dal fuoco fanno corona a un misterioso simulacro
bestiale dai contorni sfumati, sospeso tra l’animalità domestica e la ferinità selvaggia
(cavallo o tigre, ma solo nel sogno sembra possibile siffatta incertezza).
Mentre il fango del faticoso approdo era sacro, questo territorio è propizio alla magia, ma è
stato abbandonato dagli dèi. Anzi, racconta Borges, le divinità che qui aleggiavano sono
state sopraffatte dalla violenza, persino assassinate (dèi incendiati e morti). In un luogo
sconsacrato, in mezzo alle rovine, che, tuttavia, per quanto lo accennino solo, evocano un
minimo di mondo visibile, lo straniero venuto dal Sud, il taciturno signore della terra,
dell’acqua, dell’aria della notte unanime e ora del fuoco distruttore, intende realizzare il suo
proposito invincibile, dormire incessantemente per sognare un uomo con minuziosa
interezza e imporlo alla realtà.
Il testo fornisce indizi apparentemente inequivocabili.
Il
viaggiatore
ha
penetrato,
forse
violato,
un
terreno
la
cui
sacralità,
peraltro
drammaticamente perduta, è diversa da quella originaria e naturale che ha da poco
abbandonata. E’ il territorio del tempio, dello spazio che gli uomini hanno sottratto al
tempo291, misura delle loro occupazioni e del lavoro operoso; è la regione separata,
“tagliata”, suddivisa e consacrata alla divinità, per consentire agli àuguri di interpretare i
presagi292.
290
“L’Unheimische (termine heideggeriano traducibile con “”spaesamento””, n.d.r.), il non familiare, non genera
turbamento semplicemente per la sua incongruenza con le misure abituali, per il suo carattere di novità e di ignoto –
esso non coincide con l’avventuroso, con l’evasione dal quotidiano, - ma piuttosto con il suo rimandare, nella sua
stessa estraneità e immensità, a qualcosa che riguarda il familiare.” (G. Berto, Freud Heidegger lo spaesamento,
Milano, 2002, 140).
291
Creando forse una falsa etimologia, o più plausibilmente, giocando sull’assonanza, dal greco témnein, dividere (cfr.
nota successiva) assimilo templum e tempus. Mi paiono legati dalla comune nozione di frazionamento, da un lato
pertinente al luogo sacro delimitato e sottratto allo spazio profano, dove invece si svolge la vita ordinaria scandita
dalle occupazioni usuali, e dall’altro non estranea al tempo inteso come misura, e di nuovo come criterio di
distribuzione di funzioni e compiti produttivi, in quanto tali distanti dalla dimensione della contemplazione e della
sacralità, che forse trova nel Sabato ebraico, preservato dall’occupazione quotidiana, uno spazio adeguato e una cifra
simbolica plausibile.
292
Cfr. Voce Tempio, in Enciclopedia Italiana cit., Vol. XXXIII, 361. Come è noto il latino templum rispecchia il
verbo greco temnein, tagliare.
109
Dal sacro humus, in fondo irriducibile a confini precisi, si passa a una terra delimitata, la cui
santità è convenzionalmente stabilita, recintata e orientata.
Questo luogo, per essere propizio al compito soprannaturale dello straniero, deve essere
l’ombelico del mondo, il Centro293, dove si celebra la ierogamia tra cielo e terra, il punto
geometrico
dell’Origine
da
cui
s’irradia
l’Universo;
nella
mistica
del
Bahir,
sorprendentemente analoga a un celeberrimo passo del nostro autore, è il luogo, legato al
Pensiero Infinito e all’aleph, nel quale tutti gli esseri spirituali hanno dimora294. Qui soltanto
è consentita la ripetizione del rito cosmogonico e di quello conseguente della creazione
293
Ricorda Scholem (in Le origini della Kabbalà cit., 144) che “la frase secondo la quale il santuario celeste è al
centro del mondo, e sopporta tutte le sei direzioni, che nello stesso tempo corrispondono alle sei ultime sefiròth,
appare nel capitolo IV del Libro della Creazione”.
294
“Questa machshavà la troviamo rappresentata in tre importanti simboli: la consonante alef, principio del
linguaggio e di ogni discorso,...l’orecchio dell’uomo...per mezzo del quale l’uomo percepisce la parola di Dio; il
tempio [heckàl] del Santuario..Il pensiero divino infinito, che tutto precede e che tutto contiene, è il “”tempio””
mistico in cui tutti gli esseri spirituali hanno il loro luogo.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 159-160).
Come già ricordato altrove l’Aleph di Borges (cfr. J.L. Borges, L’Aleph, cit., da l’Aleph, Ed. Milano 2003, pp. 161 e
169) è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti. ..Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i
luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. Nello stesso celebre racconto Borges intepreta l’aleph estendendone la
portata simbolica, pur sempre nell’ambito della mistica ebraica: “Per la Cabala quella lettera rappresenta l’En Soph,
l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa ha la figura di un uomo che indica il cielo e la terra, per
significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del mondo inferiore. (Questa analogia ci riporta al luogo del
tempio, accennato supra, n.d.r.).
110
dell’uomo295. Liturgia conosciuta dalla saggezza dello Zohar296, che disvela senza schermi il
rapporto tra macrocosmo e microcosmo, sancendone il legame indissolubile propiziato dalla
santità del tempio.
I punti cardinali, che circoscrivono e descrivono la mappa della benevolenza divina,
decidendo il tracciato speculare e recettivo 297 del perimetro consacrato, non sono ignoti
all’uomo taciturno salito dal meridione benigno del Sefer Bahir298.
295
“Nel Rig-Veda,( per esempio, 10,149) l’universo è concepito come se la sua estensione fosse partita da un punto
centrale. La creazione dell’uomo, replica della cosmogonia, è avvenuta ugualmente in un punto centrale, nel centro
del mondo. Secondo la tradizione mesopotamica, l’uomo è stato creato all’””ombelico della terra””.. Il paradiso in
cui Adamo fu creato con il fango si trova, beninteso al centro del mondo.” (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno,
Roma, 1990, 25). Secondo René Guénon (Simboli della Scienza sacra, Milano, 2003, 67) il Centro, intorno al quale
ruota la circonferenza emblematica delle concezioni cicliche della realtà in divenire (su cui infra), è l’immagine
dell’eternità in cui tutte le cose sono presenti in perfetta simultaneità”. In ambito squsitamente ebraico, scrive J.
Maier (in La Cabbala, Bologna, 1996, 18): “Nell’ebraismo, la teologia del tempio e la teologia cultuale hanno
rivestito grande importanza al riguardo, poiché la corrispondenza fra la realtà terrestre e la realtà celeste vi esisteva
già da antica data e si presupponeva alla base dell’evento cultuale, del compimento del rito, un complesso di
reciproche influenze. In questa concezione il tempio, con le sue diverse parti, rappresentava il cosmo in senso mitico;
in altri termini, nel tempio, l’””ombelico del mondo””, il luogo terrestre e il luogo celeste della dimora e del trono
delle divinità venivano per così dire a coincidere.” Ancora Maier (in op.ult.cit., 21): “Come il re rappresenta
prioritariamente quest’ordinamento universale, nel senso dell’assicurazione del diritto e della giustizia,
assicurazione cui si ascriveva una funzione di conservazione del cosmo, così il tempio, con il suo rituale
calendariale-cosmologico, sostiene in primo luogo l’ordinamento del cosmo e assicura la prosperità della natura.
Questa visione delle cose era comune anche all’ebraismo, dal momento che anche il tempio di Gerusalemme era
considerato copia del “”tempio celeste”” e copia del cosmo”.
296
“Rabbi Simon si alzò e disse: “”Speculando ho compreso che quando il Santo benedetto decise di creare l’uomo,
sussultarono tutte le creature...Allora la fonte di tutte le luci scaturì e aprì la porta dell’Oriente, donde s’estese la
luce. Il Meridione dispiegò nel pieno del suo fulgore la luce ereditata dall’inizio, e fece manforte con l’Oriente,
l’Oriente sopraffece il Settentrione, il Settentrione si risvegliò, si diffuse e gridò verso l’Occidente, perchè venisse a
lui; allora l’Oriente venne al Settentrione e si unì ad esso, quindi il Meridione afferrò l’Occidente, il Settentrione e il
Meridione cinsero il Giardino e ne divennero il limite, intanto l’Oriente s’accostò all’Occidente, che, rallegrato,
disse agli altri: “”Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza (Gen., I. 26), che includa,
così come noi i quattro punti cardinali, oltre al sopra e il sotto. Allora l’Oriente aderì all’Occidente e lo produsse.
Per questo hanno detto i nostri maestri che l’uomo emerse dal sito del Tempio””. (Zohar, I, 34b-35a, in Zohar cit., 8).
Secondo Scholem nel par. 55 del Sefer-ha Bahìr “una relazione è stabilita tra le sei direzioni dello spazio e il loro
111
Ma certo qualcosa è profondamente mutato: il narratore-viaggiatore, forse in origine il
Giusto che proviene dal Sud299, ha lasciato il familiare territorio della natura, la terra,
l’acqua, l’aria, per avvicinare una diversa dimensione, in cui dominano manufatti e misfatti
umani.
Gli elementi in gioco ora echeggiano, al primo impatto, un simbolismo più rigido, disegnano
geometrie in apparenza arcane, ma in realtà agevoli, i cui ostentati rimandi si prestano a
una decifrazione meno impervia: gli oggetti appaiono destituiti dalla ricchezza polisemica
che animava lo scenario originario. Artificiale è il tempio con la statua, forse convenzionale e
strumentale l’idioma incontaminato300, manieristica e troppo manifestamente “riconoscibile”
la circolarità delle rovine, ostile il fuoco, non liberatore, non propizio, ma violento e
distruttore.
Perché dunque questo cambio di scenario, quasi traumatico?
centro, il tempio sacro, da una parte, e le sette membra dell’uomo terrestre o celeste dall’altra.” (Le origini della
Kabbalà cit., 176). Scrive M. Eliade in Mito e realtà, Roma, 1993, 55: “..La cosmogonia costituisce il modello
esemplare in ogni situazione creatrice: tutto ciò che fa l’uomo, ripete in qualche modo il “”fatto”” per eccellenza, il
gesto archetipo del Dio Creatore: la Creazione del Mondo.”
297
Speculare della volta celeste e recettivo dei segnali divini, quasi fosse, il terreno consacrato, uno strumento di
captazione, un complesso sistema di antenne protese a cogliere e decriptare le voci degli dèi. Sulla centralità del
tempio, edificato spesso in un punto considerato come la zona di intersezione dei mondi superiore, terrestre e
sotterraneo (concezione sviluppatasi nell’Italia antica), sulla sua funzione di speculare imago mundi, cfr. M. Eliade, Il
mito dell’eterno ritorno cit., 26.
298
“Il Giusto fondamento del mondo è nel mezzo, ed esce dal meridione del mondo. Egli è principe sulle altre due
(forze, n.d.r.); in mano sua è l’anima di ogni vivente, giacché egli è Colui che dà vita ai mondi; tutto ciò che è
indicato con “”creazione”” è opera sua”. (Sefer Bahir, 180, in Mistica ebraica cit., 202). Commentando quest’opera,
Scholem scrive: “Benché egli stesso (il giusto) sia a sud-ovest, ha avuto origine nel sud del mondo, dove, per
opposizione al nord che è il male, è la middà della bontà e della grazia di Dio, Chésed, che ha palesemente il suo
posto.” (Le origini della Kabbalà cit., 195).
299
Un’altra connotazione simbolica è rivelata dal Sud, oltre a quella accennata supra. Nell’uomo creato, secondo lo
Zohar, sono rappresentati i punti cardinali; tra questi sono compresi “il sopra e “il sotto”, evocativi del mondo
superiore e inferiore, che trovano riscontro nelle lettere della parola Adam. Ciò allude al desiderio dell’uomo di
conoscere la realtà superna e mondana. (cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., pp. 78-79).
300
Idioma cui si accenna nel primo brano, ma che incomincia ad acquistare senso in questo.
112
Da una parte, il viaggiatore sembra avere abbandonato la natura, la phusis che è da sempre
e per sempre, l’Essere301, nel cui grembo tutto confluisce, ma niente viene mai meno;
quell’Essere benigno e primordiale, negatore del nulla, porto in perenne agitazione, eppure
eternamente tranquillo, luogo dove ogni cosa trova requie nella dolce trasformazione che le
dona vita immortale. Essere - natura che può essere solo plasmata, ma non creata. Teatro
solare, non a caso destinato alle scorribande dell’egizio Ra, lo scenario in cui l’uomo può
solo cogliere il frutto dalla terra, fecondarla e modellarla, fino a creare un simulacro di sé, lo
schiavo informe, il golem. Per converso, il taciturno pellegrino ha ora scelto un altro mondo,
quello dell’azione e della distruzione, degli dèi e della loro morte, del sacro e dello
sconsacrato, del fuoco civilizzatore e preservatore, e dell’incendio che devasta; tutto questo
ha fatto per realizzare l’invincibile proposito, negato dalla natura-phusis, di creare l’Altro da
Sé. E’ in ogni caso un mondo di sofferenza, in cui fa la sua apparizione il nulla. E con il nulla
di nuovo il sogno, e con il sogno l’uomo, in tutta la sua minuziosa interezza. L’uomo da
imporre alla realtà. In questo quadro così complesso, prima ancora dei singoli oggetti,
impregnati di un simbolismo a tal punto “esibito” da evocare una vera e propria liturgia 302,
301
“La phusis, presa nella sua totalità non è mai toccata dal nulla, ma riposa in se stessa, non viene mai meno: è
l’essere. Il termine phusis, preso nella sua radice, significa infatti essere. La parola appartiene alla stessa famiglia
del verbo phuo, che vuol dire produco, genero, cresco, ma la cui radice sanscrita è bhu-, bhavati e che vuol dire
precisamente “essere”, da cui il latino fui.” (Natoli, Parole della filosofia cit., 94).
302
Tutto il brano appare, a differenza del primo, pervaso da una assai percepibile intenzionalità d’azione, che però
nulla, a mio avviso, almeno per ora, condivide con la devequt mistica, benché la forte concentrazione di oggetti
simbolici legati a una misteriosa ma innegabile ritualità possa evocare uno scenario liturgico. Manca infatti, questa
volte espressamente, qualsiasi desiderio di comunicare con la divinità, cosicché non sembra appartenere a questo
nuova rappresentazione l’assimilazione o la comunicazione tra uomo e Dio pertinente all’unio mystica. In tal senso
appare molto più “religioso” in senso etimologico (seguendo la pur discussa accezione ciceroniana della derivazione
di religio da religare, “legare strettamente”, riferibile al legame che l’uomo stringe con gli dèi; cfr. M. Cortelazzo P.
Zolli, Il nuovo etimologico cit., voce religione, 1342) lo spartito iniziale. In questo prevale invece una tonalità
apotropaica, in cui la magia, strumento di assoggettamento e controllo delle forze naturali, è asservita alla
realizzazione di un fine che, nel suo essere destinato al sovvertimento delle gerarchie divine, sembra “sconsacrato”,
legato come è alla hubrys umana, rimanendo invece estraneo alla sua elevazione. Pertanto anche l’armamentario
cabbalistico, pur evidentemente presente, come si apprezzerà infra, appare meramente strumentale, assumendo infine
un rilievo squisitamente “tecnico” per realizzare un fine definito da Borges soprannaturale, ma, manifestamente, tale
solo nell’accezione più povera di violazione o deroga di leggi che apparivano rispettate, nella sostanza, nel primo
scenario descritto.
113
emerge,
come
si
è
già
colto,
un
senso
nuovo
e
antitetico
rispetto
alla
sacra
rappresentazione lasciata poc’anzi.
Dall’essere, attraverso il nulla, si transita al divenire 303, dalla linearità dell’itinerario
originario alla circolarità delle rovine e del “doppio” cui Borges rimanda 304 senza
sorprendere, dall’eternità della materia plasmabile al tentativo di dare vita al tempo
originario della creazione ex nihilo, per tramite del sogno, vissuto però come una
coartazione della volontà, paradossalmente negatrice della stessa libertà onirica, per
quanto, come si è narrato, questa sia in fondo lontana dalla spensieratezza, vivendo
dell’angoscia generata dalla sfrenatezza dell’immaginario gettato nell’apertura abissale del
chaos305.
303
“A partire dal pensiero greco, il diventare altro da parte del qualcosa, è l’annientamento del qualcosa in quanto
identico a sé, ed è l’uscire dal niente da parte dell’altro a cui il qualcosa si identifica. Se infatti il qualcosa da cui
incomincia il divenire e che viene travolto dal divenire non diventasse niente, il qualcosa resterebbe se stesso e non ci
sarebbe quindi il suo diventare altro.” (E. Severino, Oltre il linguaggio, Milano, 1992, 23).
304
“Sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d’un altro tempio propizio,
anch’esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno..” (J.L. Borges, Le rovine
circolari cit., 660). Attraverso l’evocazione del “doppio” irrompe la circolarità, già allusa nel titolo del racconto. In
questo senso, dunque, non ci può sorprendere.
305
Cfr., p.e., note 200, 201, 217, 246, 247, oltre al capitolo conclusivo della precedente sezione, nel quale è trattato
specificamente il tema onirico, anche nei suoi rapporti con quello, diverso e connesso, dell’Origine.
114
Il fango sacro, con la sua plastica e docile pienezza di echi e rimandi, era forse l’elemento
più emblematico e carico di senso nell’orientare l’esplorazione del primo brano.
Ora, se si vuole ridurre la complessità del nuovo tracciato all’essenziale, è forse plausibile
assegnare tale centralità al fuoco, cifra simbolica quasi incommensurabile e irriducibile a
corrispondenze rigidamente predeterminabili.
Il divenire306, l’incessante trasformazione della realtà alla quale principalmente allude questo
secondo scenario, trova in tale elemento una prima dirompente evidenza.
Il fuoco eracliteo, che precede, ma, come si vedrà, non invalida altre letture più pertinenti al
tema mistico, illumina dunque la rappresentazione orientandone il senso 307.
Anche phusis, si potrebbe obiettare, è in perenne mutamento e non nega la trasformazione,
ma ne asseconda benignamente il moto secondo regole di equilibrio che essa stessa pone.
“Niente viene mai meno”: il nulla non abita ancora il mondo.
Pur essendo il fuoco anche figura dell’armonia tra gli opposti, e dunque, in definitiva, cifra
apparentemente non estranea all’idea di dinamica conservazione dell’essere attraverso il
mutamento, questa sua prima epifania nel racconto, risuonando aggressiva e indomabile,
sembra esemplificare un divenire profondamente diverso.
La sua entrata in scena, celebrata con un’assenza allusiva di una passata devastante
presenza, è spaventosa: l’elemento viene inizialmente rappresentato da Borges nel suo
movimento distruttivo, addirittura come crepitante strumento di soppressione degli dèi che
abitavano il tempio incendiato.
306
Come sarà precisato infra, da intendere in modo diverso dalla trasformazione della realtà naturale alla quale si è
alluso poc’anzi nel trattare il tema della terra madre.
307
“Il motivo per cui Eraclito ha additato proprio nel fuoco la “”natura”” di tutte le cose, diventa chiaro non appena
si ponga mente al fatto che il fuoco esprime in modo paradigmatico le caratteristiche del perenne cangiamento, del
contrasto, dell’armonia. Il fuoco infatti è perennemente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è
incessante trasformazione in fumo e cenere, è, come in modo perfetto dice Eraclito del suo Dio Bisogno e sazietà.
In altri termini è unità di contrari, è bisogno delle cose e in tal senso fa essere le cose; è sazietà delle cose e, in tal
senso, distrugge e fa morire le cose.” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Vol. 1, Orfismo e presocratici
naturalisti, Milano, 2004, 115). Come si è accennato, in questa prima entrata in scena il fuoco non appare unità dei
contrari, ma univoca e annichilente espressione di “sazietà”. In seguito emergeranno anche sensi diversi.
115
Non è un fuoco benigno, non protegge, non alimenta, non riscalda, non genera, non vivifica,
ma è già passato, tremendamente possente, per mutare tutto in cenere. Forse è il segno di
una catastrofe cosmica.
Trascorsa la sua pur memorabile efficacia, riposa per ora dietro le quinte e dal suo
nascondimento
annuncia
baluginanti
messaggi
di
morte,
che
accendono
tramonti
inestinguibili, ostili alle tenebre della quiete notturna e premonitori di insonnia 308: di nuovo309
siamo nel segno dell’occidente e del suo nulla.
Ma non soltanto. Anche l’antica mistica ebraica della Merkavà conosce il fuoco distruttore,
che minaccia il viaggiatore in ascesa ai sette palazzi e ne rende impervio il cammino 310 e
nello Zohar talvolta divampano le fiamme della collera divina non mitigate dalla
misericordia311, mentre nella mitologia dell’India è l’elemento igneo che al termine del Kali
Yuga annienterà il mondo per estinguersi nell’oceano del vuoto 312.
Ma quel fuoco è sempre solo il versante, forse deleterio, di un processo complesso e non
sempre distruttivo. Quello che qui mostra le sue tracce non reca l’armonia promessa; non
ha contrappesi, è orfano degli equilibri eraclitei incisi anche nelle lettere doppie del Sefer
Yetsirà313: spiega un divenire esclusivamente orientato verso la morte, al quale sarà arduo
chiedere di generare la vita. In questo momento è il principio che nell’annientare afferma il
divenire come un uscire e un ritornare nel nulla 314, o forse nella profondità abissale di En
Soph, in cui, fallita dal Cabbalista la teurgia di mantenimento, si smarrisce allontanandosi, a
causa del peccato dell’uomo, il volto della Divinità 315.
308
309
Come si apprezzerà infra, il protagonista non troverà riposo nel sonno.
L’immediata periferia onirica di questa analisi testuale era nel segno del solitario occidente di uno smarrito
narratore (cfr. parte finale del capitolo conclusivo della III sezione).
310
Cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., pp. 29 -30. D’altra parte il fuoco, attraverso il
quale, come si vedrà, la divinità è solita esprimersi, anche nella Torah (cfr. Deuteronomio, 4.2 ss., e, a tale proposito,
G. Laras, op.ult.cit., 80) è spesso rappresentato come fuoco “divoratore” (benché in senso assai diverso dal fuoco
distruttivo, annichilatore e, come si potrà rilevare, “ciclico”, qui sinora prospettato). Si rammenta il manifestarsi del
fuoco divoratore evocato da Deuteronomio 4.29, e la gerarchia tra la luminosità e il colore delle fiamme in Zohar, I,
50b-51b, in Zohar cit. 13 ss. Secondo Scholem nel par. 93 del Sefer Bahìr, “il tòhu da dove viene il male è
identificato con il “”fuoco di Dio”” (Le origini della Kabbalà cit., 187).
116
Ciò che a mio avviso fa transitare l’elemento igneo dal dominio dell’Essere solare - al quale
sarebbe forse appartenuto se fosse apparso nella sua pienezza benigna e rigenerante –
all’inquietante assoggettamento a un trasmutare cieco e travolgente, è il suo banchettare
troppo esclusivo con la morte, il suo non essere plasmabile né, per ora, controllabile
dall’uomo, come lo era il fango sacro; non solo dunque riluce il suo passaggio coartato
attraverso l’annientamento, dimensione ignorata dalla phusis, ma anche si manifesta il suo
indugiare nel nulla, che familiarizza con lo sguardo solitario del taciturno viaggiatore sulle
rovine incendiate, sul territorio sconsacrato.
Ed ecco di nuovo lo scenario dinamico. Sotto il segno della devastazione e della solitudine, il
nostro straniero, adempiendo misteriosi rituali, si accinge, forse, a ri-evocare la divinità
esiliata dal fuoco annichilatore per attuare il proposito soprannaturale di creare non un
semplice golem, esito forse non precluso che sarebbe stato probabilmente assecondato dalla
collaborazione di phusis, ma l’uomo in tutte le sue fattezze.
311
Cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., pp. 97-98.
312
H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Milano, 1997, 140.
313
“Sette doppie b, g,d,k,p,r,t; il loro fondamento: vita, pace, sapienza, ricchezza, fertilità, grazia sovranità. Si usano
in due forme perché son doppie per l’alternanza..tenero contro duro, forte contro debole. Ecco le alternanze: vitamorte, pace-guerra, sapienza-stoltezza, ricchezza-povertà, fertilità-sterilità, grazia-bruttezza, sovranità-servitù.” (dal
Sefer Yesirah, 37, in Mistica ebraica cit.,40). Indubbiamente anche questo passaggio echeggia il movimento di
pensiero eracliteo del contrasto e dell’unità fra gli opposti.
314
E. Severino, op. ult.cit., 24. Peraltro tale ripetuta affermazione non è connessa al pensiero di Eraclito, e in
particolare al fuoco come arché o raffigurazione simbolica del divenire, né tanto meno può essere puntualmente
riferibile a questa mia personale rielaborazione, che, nel porre il nulla, o meglio, l’annichilimento, come motore
centrale dell’azione, scinde l’unità degli opposti, propria del pensiero presocratico, evidenziando la funzione solo
divoratrice ed eversiva dell’elemento igneo quale emerge, a mio avviso, in questa fase del racconto.
315
Scrive Idel citando un Cabbalista dell’inizio del XIV secolo (David ben Avraham Ha-Lavan, in Cabbalà Nuove
Prospettive cit., 174): “...Quando un uomo pecca, provoca il ritorno degli attributi al nulla, al mondo primordiale,
alla loro esistenza primaria e (allora) non emanano bontà nel mondo inferiore..”Quando tutte le potenze torneranno
al nulla, allora l’””uno primordiale””, che è la causa di tutto, resterà nella sua unità nella “”profondità del
nulla””, in un’unione armonica””.
117
La tensione romantica dell’Ulisse-Ra, che è parsa vivificare la prima parte del viaggio, ora si
stempera e avvilisce in una caduta alchemica, in un’artefatta “opera al nero”, nella quale
immerso, il nostro demiurgo, che non ha ancora l’umanità sofferta di Zénon 316 pur
accingendosi a frequentare le frustrazioni di Sisifo317, si limita a cospirare con forze
soprannaturali che dovrebbero assisterlo, chiamando affannosamente a raccolta i ferri del
mestiere.
316
Si allude al personaggio protagonista del romanzo di M. Yourcenar, L’opera al nero, in Opere cit., pp. 579 ss.
317
Cfr. n. 104.
118
Si rappresenta dunque una vera e propria falsificazione della Cabbala, perché il delineato
quadro dell’armamentario pratico architettato dal viaggiatore non è forse tecnicamente
lacunoso, ma difetta dell’afflato emotivo e sentimentale che dovrebbe ispirare l’intenzione
del mistico318. L’imitazione di Dio, che, perseguìta con l’obbedienza ai precetti, dovrebbe
essere il motivo conduttore del retto operare, è degradata a un apprendistato di tecniche
magiche, in cui predomina l’uso strumentale del Nome e sono di nuovo assenti la
cooperazione etica e dunque la relazione autentica tra il polo umano e quello divino.
318
“La parola, l’intelletto, il percorso della ragione sono al centro della filosofia; l’emozione, il sentimento,
l’immaginazione tessono l’esperienza mistica.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 4).
119
Si assiste all’esibizione di un rigido formulario, in cui anche la volontà, orbata di qualsiasi
afflato cosmico schopenaueriano e di possibili rapporti con Kèter, la Corona del mondo
divino delle Sephirot319, è solo artificio, mentre la dimensione onirica non ha nulla in comune
né con le negligenti emanazioni che, sfuggendo al controllo di un Dio assente e distratto, o
dell’uomo dormiente, “producevano il mondo”, né con quell’espressione suprema della
libertà dell’immaginario, pur offuscata dall’angoscia dell’illimitato, immersa nelle profondità
abissali dell’estasi dell’ignoto, così familiare a quella “mistica laica”- se mi è concessa la
definizione - della quale si avverte il respiro in certi passaggi dell’opera di Foucault e Bataille
320
.
Si smarrisce l’uomo taciturno nell’aporia di un ossimoro insuperabile, di un contraddittorio
sogno volontario e in quanto tale impossibile.
319
Cfr. n. 221.
320
I temi qui sfiorati sono stati trattati, rispettivamente, nel cap.4 della II sezione e nel capitolo 2 della III sezione.
120
Così perdendosi, il protagonista disfa la stessa stoffa onirica, quel galoppante movimento
dell’immaginazione tanto incondizionato e sfrenato che neppure esclude la possibilità di
negare la differenza tra realtà e apparenza, incubo teoretico pur così angosciosamente vivo
nella mente di Borges, da esortarlo all’inequivocabile epigrafe di questo racconto 321. Curioso
conflitto tra personaggio e narratore!
Negando alla luce onirica la materia di cui è fatta, il nostro Prometeo, che si incatena al
suolo per disperatamente sognare322, si preclude l’esito sperato.
321
322
Libertà estrema e paradossalmente l’estrema negazione di essa, la prigionia nel sogno.
L’allusione a Prometeo non si ispira solo alla nota funzione di benefattore dell’umanità e promotore
dell’incivilimento, in virtù del dono del fuoco, attribuita al figlio del titano Giapeto. Questa composita figura mitica,
su cui si tornerà infra, è stata anche associata a una attività demiurgica. Si riteneva infatti che Prometeo avesse creato
i primi uomini modellandoli con creta. E’ significativo, per la lettura che si propone, che questo personaggio fosse
fratello del già citato Atlante. I due sono raffigurati insieme, mentre scontano la punizione loro inflitta dagli dèi,
all’interno di una coppa laconica attribuita al pittore Arcesilao da Cerveteri (circa VI sec. A.C.), custodita nel Museo
Etrusco Gregoriano di Città del Vaticano (cfr. Enciclopedia dell’Antichità Classica cit. voce Prometeo, 1170). Sul
Prometeo demiurgo, cfr. Ovidio, Metamorfosi, I,76-88, Torino, 1979, 9: “..Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza
da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto, a immagine degli dei che
tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto etere,
ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata..” Cfr. inoltre, autore Giorello, il recentissimo
Prometeo, Ulisse, Gilgames, Milano, 2004.
121
Infatti come potrebbe l’uomo, formato a immagine e somiglianza di Dio, e dunque, in certi
limiti, specchio della Divinità, tale nella sua essenza perché libera di creare 323, mutilarsi della
più preziosa ed esclusiva scintilla donatagli all’abbrivio, rinnegando se stesso nell’obliarla, se
proprio quella libertà, riflesso del mondo superno, lo distingue da tutte le altre creature? E
per giunta, che senso ha tale suicida menomazione, quando il taciturno demiurgo ha deciso
di perseguire un obiettivo straordinario, che presuppone, per così dire, l’essere non solo
simile, ma in fondo uguale all’Ente Supremo?
Nel decidere di dormire per sognare, e nell’obbligarsi a sognare un uomo per imporlo alla
realtà, lo straniero ha in sostanza negato la sua stessa dimensione umana di creatura libera
per eccellenza.
Non poteva uscirne che uno scacco.
Il nostro viaggiatore ha scelto la magia324 come strumento per irretire, orientandola per
assecondare una causalità nemica di phusis, l’incessante catena di imposizioni, dalla quale
dovrebbe scaturire l’esito auspicato. Di nuovo il rigido determinismo, attinto non alle leggi
naturali, ma a quelle immaginarie del soprannaturale ha irrimediabilmente precluso ogni
solidarietà tra polo umano e Divino 325. Anzi, in questo caso, ha pregiudicato anche la stessa
naturalità dell’uomo: il nostro Ulisse, ora Prometeo incatenato al suolo come un forzato del
sonno, dopo avere abbandonato la consolatoria terra madre per avventurarsi nel nuovo
territorio ostile e straniante, ha rinunciato anche alla libertà nel disperato e impossibile
tentativo di vincolare l’immaginazione.
La magia diligentemente apprestata è circolare, ma la circolarità delle rovine non può che
rivelarsi sterile e speculare.
In astratto, se cioè l’evocazione fosse accompagnata da un reale afflato mistico, il simbolo
potrebbe, aldilà del suo significato più ovvio, colmare di senso la rappresentazione.
323
“Lo tzèlem, inoltre, vale a dire l’”immagine”” di D-o che compare anche in Genesi I, 27 nell’espressione a Sua
immagine, indica ciò che è proprio di D-o, e propriamente di D-o è la Sua libertà: Egli infatti crea il mondo a partire
dalla sua libertà. Dandogli la Sua immagine, pertanto D-o dà all’uomo il libero arbitrio..” (G. Laras, La mistica
ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 77).
324
Scrive Borges: ”La magia è la coronazione o l’incubo della causalità, non la sua contraddizione. Il miracolo è
tanto estraneo a quell’universo quanto a quello degli astronomi. Tutte le leggi naturali vi imperano, e altre
immaginarie.” (L’arte narrativa e la magia, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 360).
325
Cfr. le considerazioni sui rapporti, e soprattutto sulle distonie, tra il c.d. “determinismo” nell’opera di Borges e
l’analoga nozione nella mistica ebraica svolte nel cap.3 della II sezione, con l’ampia n. 95.
122
Le corrispondenze meramente semantiche sono infatti facilmente enucleabili.
E’ richiamato indubbiamente il mandala, che visualizza un’esperienza di unione fra il divino e
l’umano, tra macrocosmo e microcosmo, sia nell’iconografia indù326, sia, come ha rilevato
Idel, nella mistica ebraica 327.
In particolare il cerchio allude, se restringiamo l’orizzonte del nostro sguardo alla dottrina
cabbalistica, l’ascensione dell’uomo inferiore e la sua possibile trasformazione in “uomo
superiore”.
Se però se ne volesse estendere la portata simbolica sino a comprendervi la visualizzazione
del mandala tibetano328, allora la rappresentazione del macrocosmo si arricchirebbe di una
connotazione dinamica, alludendo nuovamente, ma in senso più ampio, al divenire
universale già fortemente implicato in questo scenario dall’ambigua presenza-assenza
dell’elemento igneo329.
326
“Il mandala (cerchio) .. presenta un disegno assai complesso, costituito da uno o più cerchi concentrici.. Una
complessa simbologia suggerisce analogie fra microcosmo (l’individualità psicofisica) e macrocosmo (l’universo)..Il
mandala è quindi nel medesimo tempo immagine dell’universo e strumento di concentrazione yoghica e di
riunificazione con l’assoluto”. (S. Piano, Sanatana dharma, Milano, 1996, 249).
327
“Secondo uno dei discepoli di Abulafia..l’uomo è l’ultima delle entità composte ..ed è perciò rappresentato dalla
lettera yod che indica anche il numero dieci, considerato numero primario. Egli continua: ””Egli è la yod del mondo,
che ha ricevuto il potere del tutto e comprende il tutto, come la yod nel regno delle Sefirot. Devi pertanto
comprendere che non esiste differenza discernibile tra questa e quella yod…e questo è il segreto del versetto e a Lui
vi riunirete: l’unione della yod alla yod per completare il cerchio.”” Ognuna delle due yod è esplicitamente definita
metà del cerchio che si completa mediante l’ascensione dell’uomo inferiore e la sua trasformazione in uomo
superiore… L’uomo non è dunque che una metà di un’unità più grande, il cerchio: per mezzo della sua ascesa può
ricostruire tale unità..La metafora del cerchio, simbolo dell’unione dell’umano e del divino.. richiama alla mente la
concezione junghiana del mandala come simbolo di individualizzazione..(M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit.,
72). Lo stesso autore evidenzia anche un’altra possibile interpretazione (che d’altra parte echeggia quella raffigurata
dal rapporto tra Shiva e Shakti nel sistema dualistico yoga-kundalini), legata alla divisione in semicerchi dell’essere
sferico androgino primordiale originariamente unitario. A pag. 110 della citata monografia Idel ipotizza, nel
valorizzare gli echi macrocosmici comuni ai due sistemi religiosi (e probabilmente riferendosi anche ai rapporti tra
elemento maschile e femminile della divinità) la possibilità che tradizioni indù siano state assorbite dalla Cabbalà,
forse grazie alla mediazione di materiale sufico.
328
329
Cfr. Enciclopedia dei simboli cit., voce Mandala, 286.
Con qualche rilevante differenza rispetto alla nozione del divenire distruttivo e annichilatore che è sembrata
emergere poc’anzi nell’ermeneutica tentata sulla prima epifania del fuoco nel testo del racconto. Il mutamento cui
123
Credo che l’obiettivo dello straniero, astrattamente in linea con l’itinerario mistico tracciato
da Idel, fosse in fondo quello di propiziare, sia pure in modo inadeguato, il personale
congiungimento con la dimensione divina, quasi ad accondiscendere una pratica, per così
dire, di promozione ed esaltazione di capacità demiurgiche, destinate negli auspici alla
formazione di un essere completo in tutte le sue fattezze, e forse, e ancor meglio, alla
palingenesi dell’uomo-padre in veste di nuovo dio, in grado di dare vita a un esito creativo
straordinario altrimenti inibito.
Ma non vi erano, non vi sono, i presupposti per la felice riuscita dell’unio mystica; il
tentativo fallisce e il taciturno viaggiatore cade tragicamente nella ripetizione.
Il mandala, rinnegando la propria vocazione teurgica, si rivela la ruota ciclica sterile
speculare e dunque abominevole330 dell’eterno ritorno331.
sembra alludere il mandala tibetano evoca infatti ciclicità e ripetizione, postulando quindi una dimensione cosmica
nuova che sposta significativamente il senso della rappresentazione.
330
“..Uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché
moltiplicano il numero degli uomini”. (J.L. Borges, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius cit., in Finzioni cit., ed. Torino, 7).
Borges tenta di confutare in un suo “saggio” la “dottrina” dell’eterno ritorno. Dopo averla definita (“Il numero di tutti
gli atomi che compongono il mondo è, benché smisurato, finito; e perciò capace soltanto di un numero finito –
sebbene anch’esso smisurato – di permutazioni. In un tempo infinito, il numero delle permutazioni possibili non può
non essere raggiunto e l’universo deve per forza ripetersi. Di nuovo nascerai da un ventre, di nuovo crescerà il tuo
scheletro, di nuovo arriverà questa pagina nelle tue mani uguali, di nuovo percorrerai tutte le ore fino all’ora della
tua morte incredibile”) la contraddice: “Se l’universo consta di un numero infinito di termini, è rigorosamente capace
di un numero infinito di combinazioni – e la necessità di un ritorno rimane sconfitta. Resta la sua mera possibilià, da
calcolare uguale a zero.” (J.L. Borges, La dottrina dei cicli, da Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, pp.
568 e 571).
331
Non è possibile ora trattare esaurientemente un tema vastissimo che non ha cessato di affascinare, fino alle soglie
del nostro secolo, filosofi scienziati e mistici. Spesso i pensatori moderni che lo hanno affrontato – si pensi al più noto
e ovvio, Nietzsche - ne hanno in parte innovato il senso, sottolineando aspetti legati alla drammaticità, da vivere
peraltro con stoico amor fati, dell’abisso metafisico spalancato dal temuto ma forse desiderato Ritorno dell’Uguale.
Tuttavia la “dottrina” (ma in definitiva direi che si tratta forse di “un movimento di pensiero”) troverebbe il proprio
sostrato antropologico, ravvisato da M. Eliade (cfr. il citato Il mito dell’eterno ritorno; soprattutto, per tale aspetto, il
primo capitolo Archetipo e ripetizione, pp. 13-53) nella mentalità arcaica; in particolare nella rituale e deliberata
reiterazione da parte dell’uomo di atti - si riteneva - posti in essere dalla divinità nel mondo superno. Il sacerdote
delegato alla liturgia disponeva di un luogo sacro in cui poteva essere legittimamente ri-evocato e replicato l’atto
demiurgico celeste. I riti, generalmente legati alla celebrazione dell’inizio dell’anno nel calendario, a sua volta
emblematica dell’origine assoluta, erano finalizzati in sostanza a colmare di significato eventi che acquisivano
124
Si tratta di deviazione forse anomala, ma non del tutto estranea neppure al pensiero ebraico
332
.
Il fuoco distruttore, le tracce di una possibile catastrofe cosmica e della tragica morte degli
dèi, l’allusione alle rovine di un altro e non distante tempio propizio, sono i segni, per così
dire, esteriori, che paiono suggerire questa lettura.
esistenza e realtà solo in virtù di tale liturgia reiterativa, di natura quindi ontologica. Dalla ripetizione si è dunque
sviluppata, attraverso l’idea di rinnovamento dell’atto originario, la nozione della rigenerazione e circolarità del
tempo, legata al ripetersi dei cicli naturali; da qui è sorto il convincimento o credenza del perpetuarsi dell’atto
creativo, elaborato sino all’esito più radicale e inquietante, quello del tempo ciclico infinito che propone l’inaudito
Ritorno dell’Uguale.
D’altra parte tale “movimento di pensiero”, benché, secondo l’autore citato, abbia attinto il proprio fondamento nella
ripetizione di un archetipo, risultando dunque fortemente connotato in senso antropologico, ha trovato vasta eco sia
nel pensiero mistico filosofico indiano, sia nella filosofia occidentale presocratica e platonica, prima di celebrare il
suo più compiuto sviluppo negli ambienti stoici.
Da una parte nel pensiero indiano l’atto restaurativo dell’origine, affidato al sacrificio, ha anche una funzione
specifica, che mi pare pertinente al brano in esame là dove si allude all’assassinio della divinità e al rituale
rigenerativo abbozzato dallo “straniero” protagonista (sia pure, come osservato, senza un reale afflato mistico): rifare
l’unità primordiale, quella che esisteva prima della creazione. Poiché Prajapati creò il cosmo con la sua propria
sostanza, una volta che se ne fu privato, ebbe paura della morte e gli dèi gli portarono offerte per ricostituirlo e
rianimarlo. In un modo affatto analogo, colui che ai nostri giorni celebra il sacrificio riproduce questa ricostituzione
primordiale di Prajapati..ricostituisce la divinità fatta a pezzi.” (M. Eliade, op.ult.cit., 82). Dall’altra, nello stesso
ambito speculativo, è sviluppata in modo approfondito la credenza nella creazione e distruzione periodica
dell’universo, già presente nell’Atharva Veda, ritmata dal succedersi di cicli (il più breve è lo yuga) eternamente
ripetuti, dai quali l’uomo, come è noto, può emanciparsi solo in virtù di particolari atti volti alla conquista della libertà
spirituale. Viene quindi teorizzata la ciclicità del tempo, comune a induismo e buddismo, rappresentata da una ruota
con dodici raggi.
Nel pensiero greco l’idea del ciclo cosmico è presente nei presocratici Anassimandro ed Empedocle, mentre quella,
più specifica e radicale, di Eterno Ritorno (“la ripresa periodica da parte di tutti gli esseri delle loro esistenze
anteriori”, Eliade, op.ult.cit. pp. 118-119) affiora già nel pitagorismo primitivo. Particolarmente rilevante e influente
è l’interpretazione platonica del mito dei cicli cosmici svilupppata nel Politico, in cui emergono anche la concezione,
di origine iranica, delle catastrofi purificatrici del genere umano e il mito del paradiso primordiale. Tuttavia l’eterno
ritorno nella sua comune accezione risulta ampiamente teorizzato soprattutto dagli stoici Zenone e Crisippo. Il loro
pensiero, lo si sottolinea per la pertinenza con questo brano del racconto borgesiano, esalta anche la funzione
purificatrice del “fuoco cosmico” che pone fine periodicamente al mondo per rinnovarlo (Eliade, op.ult.cit. 121). Cito
125
Soprattutto però l’esito ermeneutico prospettato trova fondamento, su un altro piano, nella
negazione della vocazione umana, che lo straniero ha tradito sia affrettando l’abbandono
della terra, originariamente sacra per natura, sia assecondando l’oscuro commercio, pur
mascherato di falsa pietas religiosa, con incerti poteri occulti, pagati, senza guadagnare la
drammaticità conflittuale e in un certo modo eroica che pervade Faust 333, con l’abdicazione
completa alla libertà, fino a sacrificare persino l’immaginario onirico.
Quale destino può dunque impetrare l’uomo taciturno?
alcuni frammenti significativi dei due stoici ricordati: “Inoltre (Zenone) ritiene che in tempi fissati dal destino l’intero
cosmo finisca per combustione, ma che poi di nuovo si riorganizzi. Il fuoco primigenio è una specie di seme che
possiede le strutture razionali di tutte le cose, e le cause di ciò che si genera nel presente, nel passato e nel futuro.
L’interrelazione di queste cose altro non è che il destino, e la verità e la legge.” (Zenone Framm. A 98). “Crisippo..
fa questo ragionamento:””A queste condizioni, chiaramente nulla è impossibile, e anche noi, dopo la morte,
trascorso un certo ciclo di tempo, torneremo ad assumere l’aspetto che ora abbiamo.”” (Crisippo Framm. B 623).
“..Sono convinti che dopo la conflagrazione tutte queste realtà si costituiscono di nuovo nel cosmo, una per una, e
che in quel cosmo <rinnovato> la loro qualità tornerà ad essere quella di prima..” (Crisippo Framm. B 624). “Gli
stoici affermano che i pianeti si ristabiliscono identici sia nelle dimensioni sia nella estensione nella medesima zona
dello zodiaco che ciascuno occupava alle origini della costituzione del cosmo..Poi di bel nuovo il cosmo si riformerà
così com’era all’origine..E torneranno ad esserci Socrate e Platone e ciascun uomo con i suoi amici e concittadini..le
stesse cose si susseguiranno indefinitamente senza sosta..” (Crisippo Framm. B 625). “La maggior parte degli stoici
ritiene che tale evoluzione ciclica non concerne solo gli essere mortali, ma anche quelli immortali..” (Crisippo
Framm. B 626). Questi passi sono citati da Stoici antichi Tutti i frammenti, raccolti da Hans von Arnim, Milano, 2002,
pp. 51 e 655-657.
Infine, quanto alla rielaborazione moderna del mito, attraversata, come accennato, da un senso tragico e abissale del
ritorno, cito (da La dottrina dei cicli cit., in Tutte le opere cit., Vol.1, 571) Nietzsche riscritto da Borges: “Scrive
Nietzsche, verso l’autunno del 1883:””Questo lento ragno che si trascina nel chiaro di luna, e questa luce della luna
(sottolineo che la luna è considerata da Eliade cifra simbolica per eccellenza del tempo ciclico, n.d.r.), e tu e io che
bisbigliamo in un portone, bisbigliamo di eterne cose, non siamo già coincisi nel passato? E non ritorneremo
un’altra volta sulla lunga strada, su quella lunga tremante strada, non ritorneremo eternamente? Così parlavo, e con
voce sempre più bassa, perché mi impaurivano i miei pensieri e i miei sovrapensieri.””
332
Indubbiamente la dottrina dei cicli mondiali o “schemittòth”, la cui fonte nel pensiero ebraico è rintracciabile nel
Trattato di Sahnedrin del Talmud, ed è poi sviluppata nel Sefer Temunà, evoca, come sottolinea Scholem, il processo
perpetuo di rinnovata creazione del mondo (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 571). Il tema della ciclicità è
tuttavia reso ancor più complesso dalle connessioni tra shemittòth, lettere dell’alfabeto ebraico e Sephirot, legate ai
sette giorni della creazione e rappresentative delle speculari sette unità cosmiche. Soprattutto emerge una particolare
concezione mistica della Torah (op.ult.cit., 576). Nessuna schemittà può esprimere tutta la forza della Torah
126
Sterilità e ripetizione, perché il suo cammino procede senza che lo sguardo si volga mai
verso l’Alterità, sia essa identificata con un’autentica dimensione divina, sia essa circoscritta
al sereno riconoscimento del limite di sé, troppo presto disatteso rinunciando alla ierogamia
con phusis abbandonata.
Gli resta solo l’abominevole specchio, che rimanda alla deludente riproduzione del
“doppio”334, ricacciando nell’eternità, e dunque negandola, l’Origine, e con essa la creazione,
se è vero che la circolarità di un divenire annientatore e ridondante può interrompersi in
virtù della redenzione, crocevia dell’inizio, della linearità e del senso della storia 335.
primordiale, e ogni ciclo svela un aspetto particolare della rivelazione divina. Si profila anche una dimensione
“cosmica” della credenza nella capacità demiurgica delle diverse forme di combinazioni delle lettere, che danno vita a
svariate versioni dei testi sacri, talvolta caratterizzate da contenuti “antinomici”, in corrispondenza, per esempio, del
ciclo storico dominato dalla Giustizia (infatti la Torah scritta, di natura fortemente prescrittiva, inizia con bet, lettera
che esprime dualità e dunque suggerisce antinomia, circostanza questa che entrerà in gioco nelle spiegare i
comportamenti paradossali di S. Szevi; cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., pp. 206-207)); tutto ciò benché non
venga mai tradita la credenza, tale da consentire in ogni caso di marciare in linea con l’ortodossia, nell’esistenza del
testo sacro primordiale, illeggibile per gli uomini, rivelato a Mosè sul Sinai. Senza entrare nella discussione sulla
familiarità tra questa concezione e quelle esaminate nella precedente nota, riterrei che l’aspetto peculiare della
dottrina non si debba cogliere tanto nella concezione della reiterazione delle cosmogonie (benché a conclusione dei
sette cicli di 7000 anni si avrebbe il caos cui seguirebbe una nuova creazione), quanto in quella, più squisitamente
“mistica”, delle diverse Torah periodiche, ispirate, governate e disvelate dalle Sephirot che “presidiano” le unità
cosmiche in successione.
333
L’accostamento mi pare plausibile anche alla luce del già citato passaggio borgesiano nel brano in esame: “Questo
progetto magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 660).
334
Paternità e specularità nella poetica di Borges sono spesso accomunati da un’identica accezione negativa, in quanto
fungono da odiosi moltiplicatori. Oltre al già citato passaggio del racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, in Storia
universale dell’infamia (da Tutte le opere cit., Vol.1, 491), il nostro autore scrive: “La terra che abitiamo è un errore,
una incompetente parodia. Gli specchi e la paternità sono abominevoli perché la moltiplicano e la affermano.”
335
La concezione lineare e orientata del tempo, che sarebbe tipica del pensiero ebraico e cristiano, spesso contrapposta
alla concezione circolare propria di altre culture, è un vero e proprio luogo comune della storiografia, tant’è che
qualsiasi citazione sarebbe in difetto. In realtà si tratta forse di una semplificazione eccessiva, in quanto, a mio avviso,
linearità e circolarità sembrano piuttosto connotare un “movimento di pensiero” e non tanto una nozione cosmologica,
religiosa o filosofica. In ogni caso, proprio con riferimento alla mistica ebraica, scrive Eliade (Il mito dell’eterno
ritorno cit., 107): “..Il messianismo conferisce loro (agli antichi scenari, n.d.r.) un valore nuovo, abolendo prima di
tutto la loro possibilità di ripetizione ad infinitum. Quando verrà il Messia, il mondo sarà salvato una volta per tutte
127
Unicamente la libertà assoluta dell’immaginario accondiscende all’atto creativo, che si
manifesta come tale con il riconoscimento della differenza e dell’Altro, sola reale opportunità
di evitare, garantendo le condizioni di un’evoluzione autentica, lo sterile riprodursi del già
esistente.
L’atto demiurgico è felice solo se si assume il rischio dell’Origine, consentendo l’emergere
del diverso dal Nulla336, e ciò può accadere se si rinuncia alla specularità, alla ripetizione
dell’identico e dell’imago sui. In questo modo, evocando appunto il principio creativo
dall’abisso della sua profonda originalità, si può forse interrompere la ciclicità dell’eterno
ritorno.
e la storia cesserà di esistere.” Nel commentare il Sefer-ha Bahir Scholem accenna alla redenzione come via per
porre fine alla trasmigrazione delle anime peccatrici (cfr. Le origini della Kabbalà cit., 219) e dunque come strumento
interruttivo di un ciclo.
336
Nulla mistico, En Soph, in questo caso: dunque Principio, Aleph del mondo, ma inconoscibile e diverso dal mondo.
“Vi è un nulla di Dio che dà origine all’essere, e vi è un essere di Dio, che rappresenta il nulla. Il modo con cui le
cose esistono nel nulla di Dio è uno: il modo con cui esse esistono nel suo essere è un altro. Ma l’uno come l’altro
sono modalità dello stesso En – sof, che costituisce l’unità inseparata di qualche cosa e del nulla.” (G. Scholem, Le
origini della Kabbalà cit., 525). Curiosamente scrive Leopardi nello Zibaldone di pensieri (1340-1342 in Opere, T. II,
Milano-Napoli, 1966, 292): “In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è
assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal
modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o
essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra
tutte le bontà e perfezioni possibili. Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai
fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per
giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale.” Ciò che pare rilevante ai nostri fini non
è tanto, né solo, la nozione del nulla, che anche nella concezione leopardiana ben potrebbe essere “creativo” (o
comunque non escludere un “principio delle cose”) in modo analogo all’En Soph, bensì la pretesa di fare di Dio un
Ente necessario antropomorficamente caratterizzato, su misura della ragione umana, dalla perfezione degli attributi.
Già mi ero soffermato sul vizio, per così dire, epistemologico, di tale processo mentale nel trattare i rapporti fra la
particolare accezione di determinismo elaborata dalla mistica e l’intelletto divino secondo la concezione di Borges,
nel quadro di un abbozzato studio del legame causale fra gli eventi, prospettiva in linea generale comune alla Cabbala
e al nostro autore (cfr. soprattutto le note da 88 a 95). Si vedrà infra, nel considerare i sogni “di natura dialettica” cui
alluderà il prossimo brano del racconto, che di nuovo verrà in questione il problema del limite critico della ragione.
128
Incatenandosi al dominio del suolo sconsacrato per imporre un uomo alla realtà, Prometeo
condanna sé e il mondo agli stessi vincoli che lo irretiscono, destinandolo e destinandosi a
divenire e ritornare, per sempre il medesimo.
4) Lo scacco e il nuovo modo di sognare
“Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava
nel centro di un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di
alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di
distanza e ad una altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L’uomo dettava lezioni di
anatomia, di cosmografia, di magia; quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di
rispondere con senno...Nel sogno, o più tardi, da sveglio, l’uomo considerava le risposte dei
suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori...Cercava un’anima che meritasse di
partecipare all’universo.
Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano
passivamente la sua dottrina, ma in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione
ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto non potevano aspirare alla
condizione di individuo... Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del
sonno...) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un
ragazzo taciturno, malinconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli
del suo sognatore..Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l’uomo emerse dal sonno
come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d’un tramonto che prese per un’aurora,
comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la lucidità
intollerabile dell’insonnia si abbattè su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma potè
appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole...Comprese che l’impegno di
modellare la materia incoercibile e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo
che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell’ordine superiore e
inferiore...Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l’enorme
allucinazione che l’aveva sviato al principio e cercò un altro metodo di lavoro..Non
premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire..Le rare volte che
sognò durante questo periodo, non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l’impresa
aspettò che il disco della luna fosse perfetto. Allora, di sera, si purificò nelle acque del
fiume, adorò gli dei planetari, pronunciò le sillabe lecite d’un nome poderoso e dormì. Quasi
subito, sognò un cuore che palpitava. 337
337
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 660-662.
129
Prima di riprodurre questo terzo brano del racconto, davvero non ne rammentavo tutti gli
sviluppi.
Se potesse collaborare con me l’ironia di Borges, favoleggerei di un’ermeneutica divinatoria
non meno efficace dell’oniromanzia ebraica, della chiaroveggenza o dell’astrologia caldea.
In effetti i miei modesti auspìci paiono confermati dagli eventi narrati.
L’esito creativo, almeno per il momento, fallisce, e non potrebbe essere altrimenti.
Tuttavia, abbandonata l’orgogliosa negazione di ogni rapporto, e sconfessata, in parte, la
degradazione generata dall’uso strumentale e perverso della Cabbala, ora lo straniero pare
dedicarsi alla propria crescita ed evoluzione.
Il viaggiatore (non più taciturno, né straniero, ma significativamente uomo tout court, tutt’al
più insonne) prima di spezzare le catene dell’imposizione e di riguadagnarsi il perduto
amore della divinità liberando di nuovo l’immaginazione irretita - benché non sia ancora
chiaro, non lo sarà mai, quale dio lo soccorra - da un lato pone i presupposti, dopo gli
smarrimenti del suo peregrinare sterile, di una ri-umanizzazione intellettuale e affettiva, che
da questo momento potrà favorirne il riscatto e lo scioglimento dai vincoli; dall’altro è però
costretto a patire limiti, comunque insuperabili, intrinseci al proprio operare: la creazione,
anche in caso di successo, non potrà esibire che certe caratteristiche, manifestamente
rivelatrici dell’errato percorso compiuto.
L’”opera al nero” produce dapprima solo sogni caotici. Ma qui si tratta del caos antitetico al
cosmo, della confusione contrapposta all’armonia, dello stato indeterminato dell’universo
antecedente, secondo il Timeo, all’atto demiurgico, non dell’apertura verso l’origine alla
quale si è alluso evocando altrove la nozione. 338
La caoticità nega il ni-ente che precede il principio, e negandolo, preclude la creazione, che
è tale solo ex nihilo, perché unicamente in questo modo l’atto iniziale fa uscire il diverso dal
nulla assumendosi il rischio dell’Origine.
Ma questo stato torbido e fluido, in cui l’immaginazione, sacrificata al dovere di imporre un
ente alla realtà, e dunque costretta a rinnegare la propria vocazione autentica a
immaginare, si è votata allo scacco, quasi subito subisce una trasformazione “logica”
evolvendosi in dialettica339.
Si comprende il senso di questo termine, quanto mai equivoco, solo avanzando nella lettura:
l’uomo ora si sogna maestro circondato da una nube di allievi riuniti in un anfiteatro che
338
Cfr. n. 230.
339
“Al principio i sogni furono caotici; poco dopo di natura dialettica.” (Borges, op. ult. cit. 660).
130
ripete le rovine circolari del tempio; le sue lezioni suggeriscono il dialogo e la
contraddizione. Solo chi brillerà sotto questo segno sarà degno di essere l’anima eletta.
Dunque la dialettica, a un primo sguardo, sembra intesa da Borges senza particolari
connotazioni filosofiche storicamente orientate, ma nella sua accezione forse più comune di
serrato confronto nel quale agonisticamente si misurano posizioni contrastanti 340.
340
Cfr. voce Dialettica, in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia cit., 276.
131
Tuttavia il testo ne rivela, poco più avanti, un senso diverso e più specifico. Questa disciplina
non sembra interpretabile solo nella sua dimensione, per così dire, retorica 341, benché tale
primo aspetto non sia affatto da trascurare, ma, nel riecheggiare soprattutto la teoretica
platonica342, essa vale anche come principio di progressiva separazione del diverso
dall’uguale, attraverso la dicotomia “discensiva” 343: gli ammirevoli ossequiosi alunni che,
riproducendo fedelmente le dottrine del maestro, ripetono l’identico, per quanto amabili,
non sono degni di esistenza, non possono aspirare alla condizione di individuo. Lo zelo non
paga.
341
Genericamente da intendere, come arte della persuasione.
342
Tale connotazione emerge anche dal quadro complessivo delineato dal brano, indubbiamente evocatore, in virtù dei
particolari ambientali accennati, della grecità classica, qui intesa soprattutto quale patria eletta della funzione
civilizzatrice della cultura. Il protagonista veste i panni del maestro ritrovando la parola della qual fino a ora era solo
potenzialmente dotato, e lo fa per promuovere il dialogo con gli allievi.
343
La dialettica “discensiva” “parte dall’Idea suprema o da idee generali (da “”Metaidee””) e, procedendo per
divisione (procedimento diareitico), cioè distinguendo via via idee particolari contenute nelle generali sulla base
delle articolazioni in cui si esplicano, giunge alle Idee che non includono in sé ulteriori Idee”. (G. Reale, Storia della
filosofia greca e romana, Milano, 2004, Vol.3, 184). Trabattoni (in Platone, Roma, 1998, pp. 261-265) evidenzia
soprattutto il ruolo della dialettica platonica nel porre in relazione fra loro le idee, in una prospettiva da cui traspare
l’emergere del non-essere come “diverso” (che fa parte a pieno titolo dell’”essere”); ciò consente il superamento
quindi delle aporie cui conduceva l’impossibilità di pensare il non essere come nulla. Mi pare infine importante,
perché asseconda la prospettiva ermeneutica accennata in questo lavoro, la concezione moderna di dialettica elaborata
da Gadamer in Verità e metodo (Milano, 1983, 420, trad. di G. Vattimo), secondo cui essa si attua “come domandare e
rispondere, o meglio come passaggio di ogni sapere attraverso il domandare”.
132
Dunque sembra confermata una linea precisa nella narrazione, forse non immediatamente
percepibile, ma, riterrei, plausibile dopo una più approfondita verifica: la reiterazione
dell’identico nega ogni possibilità demiurgica.
La tesi sembra radicale e si colloca addirittura al di qua dell’atto creativo.
La questione si manifesta infatti sul piano ontologico: può avere concreta consistenza solo
ciò che nasce da un processo di differenziazione. La dialettica, in tal senso, diventa un
segno di realtà. Sotto un duplice profilo: da un lato è possibile, come si è visto, uscire dalla
sterilità del ripetersi dell’uguale, solo riconoscendo l’Alterità, e dunque con il dialogo, unico
rimedio all’abominio dello specchio; dall’altro, attraverso il confronto e la contrapposizione si
pone il presupposto dell’individuazione, ossia del venire alla luce del diverso dall’identico,
quello scintillio raro e brillante che, interrompendo la ciclicità speculare dell’eterno ritorno e
del niente di nuovo sotto il sole 344, accondiscende alla creazione dal nulla.
Ma questo, come sappiamo, non basterà.
344
Qoelet (1.9), nella versione di P. Sacchi, Milano, 1998, 118.
133
E’ noto che il nostro uomo, straniero già silenzioso in tempi che paiono lontani, ora
eloquente maestro di una frotta di allievi erede della sua vocazione taciturna, pur avendo
ritrovato, con la propria disposizione alla classica paidéia, un’importante espressione della
obliata dimensione umana, non ha alcuna speranza di creare, perché, dopo avere rinunciato
alla autentica unio mystica, si è consegnato a un mero ritualismo infecondo, al quale ha
inutilmente sacrificato la libertà dell’immaginazione.
La “mantica ermeneutica” ci aveva già informato dello scacco.
134
Il proteiforme Ra-Ulisse-Prometeo-Faust, oggi Socrate-Platone 345, che tra poco smarrirà il
filo del sonno recuperandone ambigui frammenti tra la cicuta, dovrà riconoscere di avere
sbagliato modo di procedere, compromettendo in tal modo l’esito felice dell’impresa.
Ai fatali errori già compiuti in precedenza, un altro gravissimo ne aggiunge ora, rivelandosi,
nonostante la crescita culturale, demiurgo poco studioso e perspicace.
345
Socrate è nome pertinente al procedere del personaggio, come ci ricorda P. D’Alessandro (in Orizzonti e forme cit.,
pp. 122-123), rievocando il termine pharmakon, da correlare a pharmakeus, mago e stregone, appellativo con cui
Platone, nei dialoghi, è solito riferirsi a Socrate; questi, infatti, è un mago che agisce con raggiri e incantesimi.
D’altra parte la magia intesa come tecnica dell’occulto, o come potere di controllo delle forze naturali, che si è
spiegata nel brano precedente, qui si evolve nella magia del metodo filosofico stesso, che è anche pharmakon nel
diverso – ma correlato e più confortante - senso di “rimedio”.
135
Inverte,
con
presuntuosa
tracotanza,
il
processo
creativo,
disattendendo
tutte
le
antropogonie conosciute. In nome di un idealismo astratto, anch’esso infecondo, dimentica
che ogni atto di creazione deve conoscere fasi ritmi tempi, che nessun uomo può sognarsi di
modificare.
Prima è necessario modellare il corpo, in tutte le sue fattezze, poi solo in un secondo
momento è possibile infondere l’anima, scintilla di Dio 346; questo è l’insegnamento
universale.
Invece prodiga il contrario.
L’abissale esilio spazio-temporale degli alunni (che insieme, significativamente, formano una
“nuvola”), i cui volti (peraltro, del tutto precisi) si perdono a molti secoli di distanza e ad
un’altezza stellare, suggerisce che il taciturno Ra, sorpreso, come si ricorderà, all’inizio del
suo viaggio dall’incagliamento nel fango sacro che aveva frenato lo slancio del mistico
itinerario nella notte unanime, in un certo senso è ora riuscito, trascorse le spaventose
traversie delle rovine circolari, a disincantare l’imbarcazione, intraprendendo, sempre nella
luce onirica, una “seconda navigazione 347” verso il mondo superno.
346
“Quando il Santo, sia Egli benedetto, ebbe in animo di creare il mondo, Gli piacque formare tutte le anime che nei
giorni futuri sarebbero state assegnate ai figli dell’uomo.” (Zohar, II, 96b, in Zohar cit., 56). “Tre sono i nomi con i
quali viene chiamata l’anima dell’uomo: nefes (spirito vitale), ruah (spirito) e nesamah (anima interiore o superanima)..Nesamah ascende subito alla sede che le spetta, al luogo da cui è sortita, ed è apposta per lei che la luce
s’accende, per risplendere lassù. Essa non scende mai più nel mondo dabbasso. In lei si consuma l’uno che combina
ogni direzione, l’alto e il basso.” (Zohar, II, 141b-142a, in op.ult.cit., pp. 60-61). L’origine divina dell’anima
dell’uomo è convincimento espresso già da Isacco il Cieco: “Per spiegare Gen. 2,7: “”Gli soffiò nel naso un alito
vitale”, Isacco usa la seguente parabola:” Colui che soffia in un otre, vi mette il proprio fiato.” Dobbiamo dunque
ammettere che egli vedeva il pneuma umano nato direttamente dal mondo delle emanazioni: era per lui il divino
nell’uomo e questo divino non aveva bisogno di essere attualizzato.” G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 360.
347
L’analogia di questo nuovo itinerario onirico del protagonista con la celebre “seconda navigazione” platonica (cfr.
Fedone, 99 D, in Tutti gli scritti cit., 107) la metafora con cui il filosofo ateniese aveva alluso alla necessità di lasciare
la prima facile – ma sterile – navigazione compiuta col vento a favore (evocatrice degli sforzi infecondi dei filosofi
della natura), per intarprendere un più faticoso percorso con le sole forze proprie, con i remi, per andare alla scoperta
del sovrasensibile, si manifesta sotto due profili: da un lato pure il nostro straniero muove verso l’iperuranio, e
dall’altro anch’egli ha abbandonato, come si rammenterà, l’ospitale madreterra, la presocratica phusis, dove il viaggio
da compiere era probabilmente meno accidentato.
136
Quale senso ha questo ritorno al passato?
All’inizio del racconto, quando nulla era pregiudicato e né io né il mio compagno ancora
sapevamo verso quale destino ci saremmo imbarcati, pur sconcertati dall’epigrafe
angosciosa della nostra storia – e se smettesse di sognare? – eravamo tuttavia confortati
dalla possibilità, subito disattesa, di percorrere l’itinerario zohariano delle anime, il segreto
viaggio notturno verso la sorgente divina 348.
348
“Il sogno viene dall’alto, quando le anime sono uscite dai corpi e sono ascese ciascuna secondo la propria via.
Quanti gradi appartengono al segreto del sogno! E tutti sono racchiusi nel mistero della saggezza.” (Zohar, I, 183 a).
137
Il sogno era originario e spalancava trame infinite. L’immaginazione poteva folleggiare
libera, la storia narrata non era ancora alle nostre spalle e non poteva in alcun modo
ridimensionare le attese di un viaggio che ancora doveva inventarsi 349. Ero salito sulla canoa
di bambù, insieme al taciturno cosmonauta e al nostro autore; ognuno di noi scrutava
orizzonti diversi.
Mi illudevo di poter orientare la scorribanda onirica verso il mondo superno, che mi aveva
attratto prima di imbarcarmi350, ma non potevo sapere dell’incagliamento che avrebbe
costretto l’inquieto equipaggio a ripensare il percorso.
Ho seguito tutto il vagabondare del proteiforme Ra, lamentando talvolta, non diversamente
dal coro di una tragedia, la perdita irrimediabile di qualche occasione di felicità possibile.
349
Scrive P. Valery, citato da A. Mazzarella in La potenza del falso, Roma, 2004, 149: “Appena usciamo dall’istante,
appena cerchiamo di ingrandire ed estendere la nostra presenza fuori di noi stessi, la nostra libertà ci esaurisce”.
Così commenta Mazzarella: ”La favola è l’unico linguaggio che possiede i requisiti per raffigurare ciò che non si
oppone a niente, che non rifiuta niente, che non assomiglia a niente. Coincide appieno…con il modo della pura
possibilità”.
350
La sezione che precede l’analisi testuale si chiude, come forse si ricordeà, con un cenno al tema del sogno mistico
nello Zohar.
138
Senza nostalgie per Itaca-Penelope, Ulisse, adescato dalle sirene dello sconsacrato Centro
del mondo351, aveva lasciato la terra madre già pronta a donargli consolazione, congiurando
le forze oscure del nulla, ma votandosi così all’insuccesso irreparabile.
Non ho potuto fare altro che registrarne le angoscie, censirne le metamorfosi, biasimarne gli
errori, lodarne i progressi.
Ora anche questa nuova peregrinazione pare nascere sotto il segno della perdizione e del
disorientamento. La condanna è già stata pronunciata.
La dialettica che suggerisce il principio della differenziazione e che, attraverso la seconda
navigazione, consente di accedere al mondo delle idee, racconta solo una bellissima favola
umana. Può orientare, non creare.
Socrate-Platone, ormai avvicendato dall’eternamente deluso Sisifo, crede di essersi lasciato
alle spalle il nulla dell’infernale circolarità delle rovine incendiate, l’abominio dell’eterno
ritorno, ma, benché bene addestrato nella scienza umana, pur forzando senza risparmio i
remi della nave, che a fatica procede senza la spinta del pneuma – ruach, può solo imparare
a pensare correttamente, a leggere meglio la realtà 352; non gli è certo concessa l’hybris
estrema della creazione dell’uomo ex nihilo.
Questo viaggio nel mondo superno, dove le anime, o le “idee” – ma ciò, mi pare, non
cambia la sostanza - attendono di interpolare la realtà353, ha un senso solo accettandone i
limiti. Essi consistono nella coscienza della domanda, e non nella pretesa della risposta.
351
Non avrebbe potuto fare altrimenti:”..Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece
incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori,
tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente
inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e
alberi maestri!” (F. Kafka, Il silenzio delle sirene, da Tutti i racconti, Milano, 1979, 388). Ecco che Kafka, legando
l’eroe alle catene dell’albero maestro, agevola la metamorfosi da Ulisse a Prometeo..
352
Credo si possa fondatamente ritenere che una delle principali eredità della metafisica di Platone, forse il contributo
maggiore al progresso del pensiero occidentale, si debba individuare nell’avere cominciato quel poderoso lavorio di
critica dei limiti della ragione umana che troverà in Kant il più illustre interprete. In questo senso alla dialettica
platonica tenderei ad attribuire un senso schiettamente metodologico, assegnandole la funzione di verifica del corretto
pensare. Corollario di ciò è naturalmente la costruzione dell’arte della domanda, base indiscutibile, se non contenuto
principale, della filosofia teoretica. Cfr. Natoli, Parole della filosfia cit., 117, nonché n. 262.
353
“...Quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza
dell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l’avrebbe interpolato nel mondo
reale.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 660).
139
Con la ragione dialettica lo straniero - che forse qui non è più tale, perché sembra prevalere
il nostro autore nella sua patria metafisica: è infatti lo scettico occidentale che scala questo
limbo354 - riscopre la propria dimensione umana, il pensiero, che lo rende democratico
sovrano - ma non assoluto prevaricatore - di phusis. L’Oriente, avevo accennato355, traccia
una mappa; l’itinerario da percorrere è illuminato dalla volta celeste che guida l’anima del
Giusto. L’occidente può solo, e più modestamente, scoprire l’arte del corretto chiedere, del
limpido pensare; ciò è già moltissimo, quando non travalica.
Lo slancio verso l’aldilà iperuranico può assecondare l’orientamento del pellegrino, ma non
può donargli quel mondo, la cui sostanza non può essere posseduta o manipolata.
Le idee esistono per essere contemplate, non sottomesse, sono oggetto di fede, non di
dominio; altri le può forse governare, ad altri spetta dare loro vita, se sono solo vane
parvenze, alitando spirito vitale nella materia 356. Il mistico naturalmente sa, o crede di
sapere più del filosofo, chi è Altri.
354
Si è già sottolineato altrove che un tòpos del pensiero di Borges è proprio l’idealismo filosofico (non solo nel
pensiero di Platone) che in questo brano mi pare in effetti evocato sia per l’esplicito riferimento alla dialettica, sia per
l’allusione alle anime in un iperaruranio dimentico delle umane dimensioni spazio temporali. Il racconto fantastico in
cui tale predilezione emerge forse in modo più evidente è il citato Tlon, Uqbar, Orbis Tertius (in Tutte le opere cit.,
Vol.1, pp. 623 ss). Cfr. anche nota 58. Peraltro tali concezioni non sono affatto estranee al pensiero ebraico. Scrive G.
Laras (in La mistica ebraica cit., 36): “Nella descrizione che ne dà il Libro di Enoch e che trova eco nel commento di
Rashì ad un passo talmudico (Yevamoth 63 b), nel Pargod o velo cosmico divisorio troverebbero albergo tutte le
anime create fin dall’origine e destinate a scendere nei corpi che via via verranno formati nonché le immagini, nel
loro stato preesistenziale, di tutte le cose presenti sin dall’inizio nel mondo celeste.”
355
Cfr. parte finale del cap. 2) della III sezione e inizio del tracciato ermeneutico di questo racconto.
356
Meno ancora può spettare all’uomo il compito di scegliere le anime nel Pargod se si fa propria la concezione
secondo cui, essendo però le Sefiròt emanazioni di D-o, si può pensare che le anime (ci si riferisce in particolare alla
Neshamà, n.d.r.) finiscano per identificarsi con lo stesso D-o” (G. Laras, La mistica ebraica cit., 100). Appare infatti
preclusa all’uomo la facoltà di entrare direttamente nel processo intimo della Divnità.
140
Lo scettico357 dell’Occidente, Socrate - Platone negli slanci, Sisifo nelle ripetute delusioni,
presume, sostituendosi al vero Demiurgo, di poter scegliere l’anima eletta (o di esserne
scelto, ma ciò è speculare, e dunque indifferente), predilige l’idealismo astratto, l’intangibile
perfezione dei modelli eterni, cifra della presunta superiorità del mondo spirituale sulla
materia358, forse del cielo maschio sulla terra femmina 359, trascurando però che noi siamo
anche, e forse prima ancora di essere altro, carne e sangue; apre la strada al malinteso di
fondo del pensiero filosofico dei futuri millenni – l’irriducibile dicotomia psychè - soma, la
degradazione del corpo360, con l’inevitabile corollario del dualismo gnostico – e lo fa in fondo
nel nome di una paradossale tracotanza, dimentico che il mondo inferiore è davvero il
sublime riflesso di quello superno, obliando che il macroantropo circoscrive l’universo 361 e
che l’Antico dei Giorni non vuole sconcertare l’uomo evanescendo nell’inconoscibile En Soph,
357
Scettico in quanto occupato a porre limiti critici alle potenzialità esplorative della ragione e scettico perché
incapace, fino a questo punto del suo viaggio, di abbandonarsi all’immaginazione. Dunque scettico perchè
essenzialmente vincolato.
358
Raramente, mi pare, nel pur variegato pensiero ebraico, le istanze intellettualistiche hanno prevalso su quelle che
hanno più equilibratamente risolto il rapporto fra materia e forma. Con riferimento ai Cabbalisti spagnoli, scrive
Scholem: “Il gruppo di Gerona in ogni caso professava l’opinione rappresentata dalla filosofia di Averroè, secondo
la quale le forme, per la loro origine, sono inerenti alla hylé. Dio non ha fatto nascere le forme separatamente dalla
materia senza forme, per unirvele solamente in seguito; egli le ha ““tratte”” dalla Chokhmà-hylé, in seno alla quale
esse preesistevano in potenza, come essenze ancora indifferenziate. Bohu è un prodotto dello sviluppo di tòhu e non
un principio interamente separato.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 531-532).
359
“E’ solo con Eva che l’uomo e la donna si “”guardano in faccia”” (Adamo conobbe Eva, sua moglie – Gen. IV, 1)
e, così, si attuano l’unione tra il cielo e la terra, e l’aiuto tra l’uomo e la donna” (G. Laras, La mistica ebraica cit.,
80).
360
Come è noto, la sessualità nell’ebraismo – che pure esalta il valore della castità – è considerata un valore
estremamente positivo: “Ricordiamo infatti che per lo Zohàr il matrimonio ha un valore fondamentale e addirittura è
assurto a santo mistero, dato che l’unione uomo – donna riproduce simbolicamente il momento più alto della realtà
celeste, e cioè l’unione di Dio con la Shekhinà. La sessualità, perciò, non è disprezzata né condannata, ma viene
considerata, nell’unione coniugale, come mezzo per avvicinarsi all’infinito mistero di Dio.” (G. Laras, La mistica
ebraica cit., 95).
361
Cfr. il citato Midrash Avkir (n. 269).
141
ma ha un Trono, una Grandezza, una Maestà, un Volto 362; la presenza divina è in mezzo a
noi per condividere l’esilio, il corpo dell’uomo è il simultaneo coevo riflesso del tempo e del
mondo363, scolpito nella materialità delle lettere dell’alfabeto sacro, antecedente ogni
Origine.
362
Sono ben noti, grazie agli studi di Scholem, i rapporti, agli albori della Cabbala provenzale, tra la mistica antica
della Merkavà e l’origine della dottrina delle Sephiròt. In particolare grandi difficoltà si legano al delicatissimo
passaggio dall’ambito e dalla fenomenologia “negativa” della Causa delle Cause a quella del demiurgo Jotzèr
Bereshìth, la cui figura appare in un primo tempo ancora caratterizzata in senso antropomorfico, legandosi alle
descrizioni dello Shi’ùr Qomà. Se da un lato emerge la preoccupazione di attentare, con scissioni indebite, il principio
dell’Unità Divina, o di immaginare (ereticamente, secondo Maimonide) una “corporeità” dell’Ente Supremo,
dall’altro, e parallelamente, Avrahm ben Davìd e i primi Cabbalisti provenzali non rimuovono affatto
l’antropomorfismo originario, pur preoccupandosi di attribuire al demiurgo non la natura di Divinità separata, ma
quella di una sua forma di manifestazione. Dunque si ha l’impressione che sia esigenza dell’ebraismo coltivare,
almeno nella fase iniziale della mistica medievale, la possibilità di attribuire fattezze umane, sia pure iperboliche, a un
Dio personale verso il quale indirizzare la preghiera e con il quale dialogare, nell’impossibilità, tale per definizione, di
raggiungere En Soph. “Prima di tutto abbiamo qui, su un nuovo piano, una continuazione della vecchia idea del
Shi’ùr Qomà e della mistica della Merkavà in cui si parla di un corpo della Shekhinà e di un Creatore del Principio,
Jotzèr Bereshìth assiso sul trono e dotato, in un certo senso, in questa apparizione, di un numero e di una
misura....Ed è di lui che parla il versetto [Gen. I, 26]: “”Facciamo l’uomo a nostra immagine””. (G. Scholem, Le
origini della Kabbalà cit., pp. 261 e 263). Anche la Cabbala luriana pone in evidenza, attraverso le configurazioni
assunte dall’Adàm Qadmòn nella teoria del Tiqqùn, e dopo la rottura dei vasi, gli aspetti antropomorfici legati alla
concezione del Dio personale. Scrive Scholem: “Le luci delle Sefiròth, provenienti dall’Adàm Qadmòn, si
organizzarono così in nuove configurazioni, e in ciascuna si rifletteva l’Adàm Qadmòn secondo certe forme definite e
quindi ogni Sefirà si trasformò da un generale attributo di Dio in ciò che i cabbalisti chiamano Partzùf, “”volto della
Divinità””. Con ciò essi intendono dire che tutte le potenze prima latenti in una Sefirà sono ora sottoposte sempre
più all’influenza di un principio formativo e trasformate in modo che in ognuna di esse appare l’intera personalità di
Dio, ma in ciascuna secondo una ben determinata espressione. Il Dio che ora si manifesta è il Dio vivente della
religione, meta dei cabbalisti, che rappresenta molto di più del nascosto En Sof: è Dio che si realizza come persona
compiuta nel processo del Tiqqùn.” (G. Scholem, Le grandi correnti cit., 278).
363
In questo senso, mi pare orientato, come si vedrà infra, il Sefer Yetsirà.
142
Se così stanno le cose, non solo l’esito demiurgico, qualunque esso sia, è negato - e ciò era
stato da tempo vaticinato – ma anche l’errato modo di procedere del maestro di dialettica
non può sortire in ogni caso che il nulla, ossia la ripetizione dell’identico.
L’anima eletta infatti non smentisce l’abominio dello specchio, è l’imago sui del creatore, il
ritorno di sé, è, come scrive Borges, un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche
volta, dai tratti affilati che ripetono quelli del suo sognatore 364.
L’ironia del destino beffardo sfugge all’orgogliosa tenerezza dello snaturato padre.
Eppure ben poteva immaginarlo il prigioniero del sogno, l’asessuato Narciso 365, che le rovine
circolari dell’Eterno Ritorno avrebbero prodotto solo sterili sconcertanti riflessi.
364
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.
365
Il celeberrimo mito di Narciso ha nella grecità la sua origine, nelle Metamorfosi di Ovidio la sua poesia, nella
psicoanalisi la sua celebrazione. Nel censirne il mito classico, Robert Graves (ne I miti greci, Milano, 2004, 259 ss.)
rammenta il vaticinio di Tiresia alla madre, la ninfa Liriope: Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai se
stesso (si se non noverit). Chiunque se ne sarebbe innamorato, ma senza successo, perché era caparbiamente geloso
della sua bellezza. Tra gli spasimanti di Narciso vi era Eco, che non poteva più servirsi della propria voce se non per
ripetere le ultime parole gridate da qualcun altro. Dopo che Narciso l’ebbe respinta bruscamente, Eco trascorse il resto
della vita lamentando la sua sorte, finché, come racconta Ovidio, di lei rimase solo la voce. Il poeta latino racconta la
morte del giovane, che giunge dopo il riconoscimento di sé e dell’amore per l’immagine di sé riflessa in una limpida
fonte. Nella traduzione di F. Bernini delle Metamorfosi, III, Vol. 1, Bologna, 1974, pp. 123 ss., si legge: “ Era una
limpida fonte dall’acque argentine non tocca mai da pastori…Qui riposò dalla caccia e dal caldo il fanciullo
Narciso….ma mentre vuole spegnere la sete, altra sete gli cresce, perché nel bere, sorpreso dal volto riflesso
nell’onda, arde d’un’ombra, dell’ombra di sé..Senza saperlo, desidera sé; mentre loda è lodato, chiede ed è chiesto; e
nel tempo medesimo brucia ed accende…- Perché mai credulo tenti di prendere un’ombra fugace
inutilmente?..Perché fanciulletto divino, perché m’inganni? Io sono te, me ne accorgo: l’immagine mia non
m’inganna. Io di me brucio d’amore ed accendo la fiamma che m’arde… Ma già mi rapisce il dolore le forze e non
mi resta da vivere molto: mi spengo fanciullo! Ma non mi duole la morte con cui lascerò le mie pene. Oh, lui che
adoro, vivesse più a lungo. Ma noi moriremo, esaleremo lo spirito insieme in un solo sospiro!” (Libera scelta, vv.
408-475). Non solo la specularità, il ritorno dell’identico, la negazione dell’alterità, ma anche la consistenza umbratile
o fantasmatica, la fittizietà, insomma, del prodotto creativo, peraltro incompiuto, del nostro protagonista mi pare che
giustifichino pure questo accostamento. Così come il riconoscimento dell’errore, con la conseguente caduta del sogno
di immortalità del demiurgo. Ho scritto Narciso “asessuato”, alludendo all’esito ripetitivo del tentativo demiurgico –
su cui si tornerà infra - che pare punitivo delle modalità, incentrate sull’autogenerazione, con esclusione del ruolo
femminile materno, del rituale genetico osservato.
143
L’immagine speculare di sé è l’esito massimo, non perfettibile, di un lavorio spossante e
avvilente. E’ la negazione della creatività come atto originario. Quel Narciso dello spirito,
padrone della retorica e della dialettica, tecnica di navigazione pur così incline ad avvicinare
l’Isola delle Idee Eterne e viatico irrinunciabile del pellegrinaggio nell’equoreo mondo
superno delle anime che veleggiano nell’azzurrare tremulo dell’ansiosa attesa di una vita
mendicata366,
ha
solo
abbozzato
la
superflua
ripetizione
dell’identico,
sottraendosi
all’evoluzione creatrice per rivivere l’angoscia dell’incagliamento. Il mondo in alto si è
spogliato del suo manto luminoso367; negato dal nostro demiurgo l’alimento dell’obbedienza,
all’ordine superiore368 sono mancate le forze, e questo collasso lo ha, per così dire, esiliato in
basso369. Non dà slancio né orientamento alla superbia, e la sua caduta dall’iperuranio
favoleggia di un rozzo specchio370 affiorante nella fanghiglia, forse anch’esso una Qelipà371,
un detrito dello squilibrio cosmico, l’argentato involucro, blasfemo e abominevole, che
366
“Quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza
di quell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza..” (J.L. Borges, op. ult.cit.,
661).
367
“Nella speculazione del Shi’ur Qomà, la figura mistica assisa sul trono appare come quella del Creatore
dell’Universo (Jotzèr Bereshìth); dal suo mantello cosmico, di cui si parla in diverse riprese, irradiano gli astri e i
firmamenti” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 29).
368
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.
Mopsik, in Les grands textes cit. 591, scrive: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite
369
comme s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ; si l’on peut dire, qui
endommage l’en bas, c’est comme s’il endommageait l’en haut et c’est à ce sujet qu’on a dit: il diminue la
ressemblance ».
370
L’interpretazione proposta attribuisce a questo “rozzo specchio” (inesistente nel racconto), già annunciato, con
qualche arbitrio, a chiusura della precedente sezione, il valore emblematico di artificio umano; esso è “rozzo” in
quanto solo pallida e insufficiente evocazione del rapporto mistico, esaltato soprattutto nello Zohar, tra mondo in alto
e mondo in basso, in cui la specularità (che non nega - ed anzi è, per così dire, effetto della cooperazione tra i due
ambiti della creazione) assume ben altro spessore e significato. L’abominio della ripetizione del doppio secondo
questa mia prospettazione (peraltro, come già sottolineato, è lo stesso Borges che, pur affascinato dall’oggetto, ha
accostato i termini “specchio” e “abominevole”) e la conseguente inevitabile sterilità dell’atto creativo derivano
proprio dalla degradazione dell’unio mystica sostanzialmente disattesa nell’approccio meramente “magico” del rito
inscenato dal protagonista nel brano di testo precedente.
144
restituisce a Narciso il ridondante doppio, riempiendo di sé il creatore illuso da gravidanza
sterile e infausta: ma ecco sopravvenne la catastrofe, la luce vana di un tramonto372, che
spalanca gli occhi del nostro dormiente obbligandolo all’intollerabile insonnia.
Lo scenario, nel perdurare della ciclicità che annuncia, echeggia il paesaggio, attraversato
da rosseggianti bagliori, che ha preceduto l’Origine del nostro racconto 373:
“Questo374 è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul quale irrimediabilmente
planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e
fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti.
Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in
parte da un rozzo specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se
accanto, immobile, una pozza d’acqua se la sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per
quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura?
371
Come è noto, nella Cabbala luriana, dalla rottura dei vasi seguìta alla irruzione della luce divina nello spazio
primordiale, dramma cosmico incardinatosi dopo la contrazione divina originaria, emergono le scorie, i gusci, forse
preesistenti alla catastrofe seguita allo tsim-tsum, ossia le Kelipoth, le forze del male che trattengono le scintille divine
e solo con il processo di separazione, restaurazione e redenzione possono essere debellate: talvolta, come emerge nel
Sabbatianesimo, anche in virtù di condotte antinomiche e paradossali, dalle quali può trasparire l’ossimorica “santità
del peccato”. (Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica cit., pp. 274-281 e 317-321). Secondo Laras
(La mistica ebraica cit., pp. 98-99) “le kelippòt fuoriescono nel processo di travasamento (da En Soph nelle Sephiròt,
n.d.r.) e precipitano nel mondo divenendo il male. In questo senso, allora, il male metafisico sarebbe in Dio e
sorgerebbe durante il processo di effusione dell’En Sof nelle Sefiròt, cioè durante la stessa creazione del mondo. Il
male che così cade nel mondo, però, è di per sé cosa morta e solo il peccato dell’uomo lo fa esistere, lo rende
presente”. Alla luce di quest’ultima prospettiva, l’interpretazione che propongo fa evidentemente dello “specchio
-buccia” un’occasione di caduta, che peraltro il protagonista del racconto, ora Narciso, non ha evitato.
372
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661. La catastrofe echeggia indubbiamente quella che annuncia, sia nel sistema
indù, sia nel Sefer Temunà, la palingenesi del tempo ciclico. La luce vana del tramonto mi riconduce all’Origine, anzi
al momento che la precede, di questa analisi testuale.
373
Il tentativo, annunciato all’inizio della prima sezione di questo lavoro, di “mimare” talvolta con la scrittura il
(presunto) movimento di pensiero dell’autore – d’altra parte non dissimile dall’andamento dinamico e reiterativo che
pare spesso connotare il simbolismo mistico (cfr. M. Idel, La Cabbalà Nuove Prospettive cit., 213) - autorizza forse
questo ritorno all’origine del commento testuale anche sul piano, per così dire, stilistico-narrativo.
374
Alla fine della precedente sezione “questo” si riferiva al sogno-viaggio di Borges; anche qui stiamo seguendo quel
viaggio, quel sogno.
145
“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi
nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal
Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco
violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra
è infrequente.”
Narciso, come Sisifo, carico di un futuro insostenibile e frustrante, è rotolato nuovamente
nel suo passato travolto dal peso insopportabile della disillusa hubris; è ritornato all’origine,
al punto in cui gli sarà permesso di conoscere finalmente se stesso e i suoi limiti 375. In
questo territorio, dove non è più concesso il sonno, deve rinunciare al sogno di immortalità.
Sembra giunto il momento del ripensamento, quello del possibile ricongiungimento con
phusis troppo affrettatamente abbandonata. Quella semplice pozza d’acqua che, senza
ricorrere ad artifici376, “se la sbriga meglio dello specchio nel rifrangere il mondo”, forse
evoca qualcosa, uno scenario già intravisto (perché non vi è niente di nuovo sotto il sole) 377.
Potrà illuminare Narciso, affranto dall’insonnia, distrutto dalla lucidità abbacinante? Sordo
alla passione di Eco - ma non poteva essere altrimenti, la sfortunata ninfa è anch’essa
prigioniera dell’incessante riflesso acustico che ne pregiudica, negandola, la Parola
Differente, forse il solo talismano capace di liberare l’amato dall’incantesimo dello specchio
ponendo fine al ripetersi dell’identico378 - il nostro eroe, raffinato dalla dialettica ma frustrato
dall’insuccesso (la creazione dell’imago sui è fallita), ora è sveglio, pensa e comprende che
l’impegno di modellare la materia incoercibile e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il
più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell’ordine
375
“Si se non noverit” (Ovidio, Metamorfosi, III, 348, in op.cit., 120).
376
S’intende, come illustrato più ampiamente in n. 364, l’artificio della magia dello specchio, la tecnica manipolatoria,
il manufatto che sostituendosi alla naturalità induce all’errore il nostro sognatore. Qui lo specchio, oggetto
emblematico del mondo fantastico di Borges è cifra simbolica della magia sterile, negazione della mistica autentica e
della creativitità, in quanto mero riproduttore dell’immagine di sé e materializzazione, per così dire, del ritorno
ciclico.
377
Alludo allo scenario del primo brano del racconto, quando l’uomo taciturno, che coltiva l’ambizione di creare un
essere umano completo e animato, e non il mero golem, abbandona troppo presto la terra madre per avventurarsi verso
le rovine circolari.
378
Il mito di Eco, alludendo al reiterarsi dell’immagine acustica, come Narciso esemplifica il riverbero dell’immagine
visiva, è in sostanza una variante, il “sonoro” della frustrazione amorosa. (Cfr. l’ampio commento alla n. 364).
146
superiore e inferiore....379 Rinuncia dunque a plasmare l’indomabile luce onirica, che non gli
favorisce il sigillo, l’ambito lasciapassare380 - possibile complice, se la mistica non gli fosse
ostile, dell’evasione dal cerchio abominevole della ripetizione incessante, segno cifrato,
questa, della rinuncia alla libertà dell’immaginario - spezza le catene che lo vincolano,
prigionero della selva381 insidiata dalla mortale cicuta, e, riconosciuta, con intenerito
accento, la propria immagine382, desiste, assecondando il vaticinio di Tiresia 383, dal sogno di
immortalità. Appresa la geografia dei mondi, ma non ancora il sod384, in virtù della scienza
non inutilmente acquisita finalmente concepisce l’insufficienza di sè ritornando all’Alterità. In
quanto “uomo solo” non può creare, gli è chiaro. Deve mutare, rinnovandolo radicalmente, il
“metodo di lavoro”. In definitiva, il protagonista, qui figura del nostro autore 385, deve trovare
379
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.
380
Nelle visioni del Carro proprie dell’antica mistica della Merkavà, come è noto l’ascesa ai Palazzi e al Trono era
ostacolata dagli arconti, i custodi delle porte delle sale celesti; solo in virtù di un sigillo, di un lasciapassare, il mistico
poteva progredire nel viaggio verso il mondo superno (Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti cit. pp. 58 ss.). Alludo qui
alla impossibilità per il nostro pellegrino di avanzare nel suo percorso, eludendone la circolarità, in assenza di un reale
afflato mistico, carenza più volte sottolineata.
381
Un’altra celeberrima selva oscura della nostra letteratura evoca una possibile circolarità (o meglio, una frustrazione
“da rotolamento in basso” evocatrice del ritorno e dell’inanità, propria dell’eterna vanità dello sforzo di Sisifo) che
rende stentato l’esordio del viaggio dantesco: “E qual è quei che volentieri acquista,/ e giugne ‘l tempo che perder lo
face,/ che ‘n tutti i suoi pensier piange e s’attrista,/ tal mi fece la bestia senza pace,/ che venendomi ‘ncontro, a poco
a poco / mi ripigneva là dove ‘l sol tace./ Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,/ dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi
per lungo silenzio parea fioco. (D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno, I, 55 - 64, 6). L’orrore del Ritorno è
evitato a Dante dal soccorso di Virgilio; la possibile interruzione della ciclicità sarà ottenuta – forse – nel nostro
racconto dal riconoscimento dei propri limiti da parte del viaggiatore.
382
“Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo
sognatore”. (J.L. Borges, op.ult. cit., 661).
383
Cfr. n 364.
384
Come tale intenderei il mistero mistico, ciò che sta oltre il limite della ragione.
385
Si è più volte sottolineato, anche nelle precedenti sezioni, che il vero limite discriminante, sinora emerso, nel
rapporto tra il pensiero di Borges e la mistica ebraica è la negazione, da parte dello scrittore argentino, di una
relazione autentica e profonda tra mondo divino e umano.
147
la cooperazione con l’Altro, con la Natura, con la Divinità, che si è finora negata. Occorrono
pentimento e purificazione, retta intenzione e giusta umiltà. Per sperare di raggiungere
l’esito sperato – creare l’uomo, non l’infimo golem e neppure la sola anima, vana parvenza
se priva di un corpo – gli è imposto, come a un personaggio di fiaba, di superare almeno tre
prove386. L’itinerario ora è conquistare la libertà perduta riscattando l’immaginazione
sacrificata, la felicità naturale abbandonata, ricongiungendosi con phusis, e infine la Parola
vera387 recuperando l’unio mystica.
E questo l’uomo può fare solo riguadagnando interamente la propria integrità e praticando
una reale e intensa Devequt con il Divino.
Quando Narciso, disilluso nell’attimo dell’autocoscienza che ha dissolto la sua ombra, ha
preso atto dei naturali limiti umani, riabilitando la ragione e attribuendo alla dialettica il
senso che le è proprio - non illusoriamente creativo, ma proficuamente critico - l’eroe dai
mille volti388 ha compiuto il primo passo.
Ora, dopo avere rinunciato a premeditare fantasmi onirici, così uccidendoli, spezzate le
catene che lo vincolavano, può finalmente dormire il sonno del Giusto.
386
Una certa ermeneutica potrebbe suggerire che questa è una fiaba di metamorfosi, ripetizioni e prove. In questo caso
gioca anche la c.d. “legge del tre”, elemento di struttura che spesso entra nella composizione del racconto, specie nella
tradizione orale. (Cfr. G. Gatto, La fiaba nella tradizione orale, Milano, 2004, 37).
387
Sembra pertinente questa citazione di Azriel (in G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 514): “Colui che prega
deve respingere tutto ciò che dà fastidio e che disturba e ricondurre la parola alla sua origine – letteralmente: al suo
nulla”. Secondo l’interpretazione proposta, e più volta richiamata anche nel commento dei brani di testo precedenti, il
nulla mistico al quale si allude è, usando l’espressione di Scholem (in op. ult. cit., 520), ciò da cui “procede tutto ciò
che ha virtù creatrice”. E’ il sostrato della trasformazione di ogni cosa, e, in senso simbolico, è assimilabile alla
Sephirà del Rigore e della delimitazione, che rappresenta “la forza di cambiare che risiede nelle cose”. Questo
“nulla” originario, perno della creazione, è dunque cosa diversa dal “nulla” dell’annichilimento, il fuoco distruttore
evocato nel commentare il brano precedente (cfr.,p.e. n. 308).
388
Alludo, per ragioni che spero risultino chiare dal testo, al poliedrico monomito evocato da J. Campbell nel suo libro
intitolato, appunto, L’eroe dai mille volti (Milano, 1984).
148
Presto il sogno ritorna, e non è più sortilegio. E’ di nuovo l’incoartata espressione del
movimento
autentico
dell’immaginario389,
la
profondità
abissale
dell’ignoto
che
si
accompagna al tremore mistico.
Nel darsi alla follia dell’illimitato, nel penetrare nuovamente nel territorio in cui realtà e
immaginazione (sogno o son desto?) possono non differire, Prometeo, liberato e liberatore,
sprofonda nel Caos dell’apertura originaria 390, dove si accinge ad alimentare le caldaie
inabissate dell’incagliata nave cosmica con il combustibile divino della Creatività dal Nulla,
emancipando i fuochisti ormai logorati dal giogo infernale dell’Eterno Ritorno.
Per riuscire nel tentativo immane, si dedica all’ascesi per un mese e recupera, dopo la
Libertà, la Grazia.
Infrange il rozzo specchio della sua sterilità, si china verso la miserabile pozza d’acqua che lì
accanto, nella fanghiglia, Natura gli offre391; si purifica, favorito dalla luna, pronuncia il
Nome e nel sogno subito trova il Cuore palpitante.
Tranquillità
della
sera,
acque
immobili,
cuore
e
luna:
quale
paesaggio
elegiaco
improvvisamente si distende, quale provvidenziale suonatore di pianoforte, epifania così
improbabile nella radura, compone le note sorprendentemente delicate di un romantico
Notturno? Il nuovo rituale disvela enfasi d’amore.
Dialogare con la natura, un tempo - che pare lontano nella menzogna letteraria abbandonata dall’eroe dantesco dell’avventura392, è il primo gesto di riconciliazione.
Dimentica dei torti, phusis è nuovamente materna e accogliente.
Ulisse, uscito dal cerchio che lo irretiva, sfuggito all’opera al nero di Circe e ai sortilegi delle
metamorfosi crudeli, è ritornato a questa notturna Itaca - Ogigia più saggio. Non solo lo
brucia il desiderio di amore, ma vuole generare, e può farlo, ormai gli è chiaro, unendosi al
divino393. Questa è la notte del prodigio.
389
Cfr. il citato M. Foucault, Il sogno, 90.
390
Sul Caos nel senso di “originario” proposto da S. Natoli, cfr. n. 230.
391
Mi sono permesso di mutare il fiume purificatore, cui si riferisce Borges nel racconto, con l’inventata pozza
d’acqua già contrapposta allo specchio, prospettata precedentemente come chiave intepretativa del ritorno dal
narcisismo alla natura e all’Alterità.
392
Mi riferisco alla favola dell’abbandono della terra madre da parte dell’Ulisse attratto dalle rovine circolari (cfr.
cap.2 di questa sezione).
149
E’ ben consapevole che da solo nulla può – Narciso glielo vieta - e da tempo sapeva,
avrebbe dovuto sapere, che la terra madre, familiare figura della donna e della fecondità,
era condizione forse necessaria, ma non sufficiente a garantire l’esito felice dell’atto
demiurgico394.
Lo scenario mistico che gli si offre pare però, finalmente, quello pertinente. La natura
femminile, la Divinità, l’uomo possono abbracciarsi uno intelligendi actu per compiere il
gesto creativo con la cooperazione di tutti gli elementi evocati 395, che si fondono
mirabilmente in questo favoloso Notturno, dove la magia sterile delle rovine circolari è
ascesa a malìa naturale e incanto.
393
Sottolinea Idel come nella Cabbala estatica l’unione mistica più “intima” consista nell’”invasione” dell’uomo da
parte di Dio. In questa prospettiva il Cabbalista veste il ruolo di partner femminile della divinità. (Cfr. M. Idel,
Cabbalà Nuove Prospettive, 185).
394
Nel commentare il primo brano del racconto si era prospettato il rapporto tra il protagonista della vicenda e phusis,
emblematicamente raffigurata dalla terra madre che, provocando l’incagliamento dell’imbarcazione, aveva in un
primo tempo attratto l’uomo. Si era tuttavia favoleggiato, con qualche armatura argomentativa, che se il viaggio fosse
terminato in quel luogo, probabilmente nel primordiale paesaggio edenico il nostro demiurgo, pur in armonia con
l’Essere e rassegnato ai propri limiti umani, avrebbe, al più, dato vita all’informe golem, sacrificando ogni possibilità
di coronare la sua ben più elevata ambizione.
395
Mi pare che a questo punto il protagonista del racconto stia in effetti prodigandosi in una reale unio mystica
fondata sul perfezionamento spirituale, sulla cooperazione con la Divinità, che qui aleggia più che altrove (e
soprattutto, per così dire, in forma meno “perversa”), e sulla comunione tra intelletto individuale e intelletto agente,
preceduta da una fase di isolamento, preparazione e purificazione, che evoca indubbiamente qualche procedimento di
Cabbala estatica, in particolare quello “antropocentrico” della Via dei Nomi di Abulafia. Sembra infatti accostabile a
questo il ritualismo inscenato dal nostro personaggio. In tale senso, scrive M. Idel: “Abulafia non specula sulla natura
di queste Sefirot, ma solo sul mezzo e sulla tecnica per mezzo della quale il cabbalista, usando combinazioni, formule
e meditando sulle lettere, può attrarre le emanazioni o lettere divine....L’unione può essere conseguita attirando sul
mistico la spiritualità dall’alto, piuttosto che attraverso l’ascesa di quest’ultimo al Divino” (M. Idel, Cabbalà Nuove
Prosp. cit., 144). Sottolineo però subito che le finalità perseguite dal demiurgo del racconto vanno ovviamente ben al
di là del perfezionamento spirituale, sommum bonum dell’esperienza mistica estatica.
150
Per raggiungere il cuore396, la sfera in cui sono racchiuse le trentadue meravigliose vie della
Saggezza397, cifra simbolica dell’organismo umano nel procedimento di creazione globale e
onnipervasivo che comprende anche il Mondo (“adorò gli dei planetari”398) e il Tempo, prima
Prometeo il demiurgo deve ristabilire, attraverso la sizigìa del maschio e della femmina, la
condizione preliminare dell’esistenza di tutti gli universi, restaurando lo stato androgino
originale399. E questo può farlo alla luce morbida della luna 400 che rischiara la radura
illuminando la figlia del Re, la divina Shekhinà, l’elemento femminile, madre di ogni
396
“Quasi subito, sognò un cuore che palpitava” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662).
397
Il concetto di “cuore”, simbolo su cui s’impernia lo scenario rappresentato connotandolo decisamente nel senso
della mistica ebraica (elemento forse addirittura evocato da un Borges consapevole, in quanto, lo si ricorderà, il nostro
autore è a conoscenza del Sefer Yetsirà), come sottolinea Scholem, pur richiamato (o meglio, “mitizzato”) dal Sefer
Bahir, proviene dal Libro della Creazione: “..La regione del Dragone, Teli, che rappresenta il mondo, la regione della
sfera visibile, che rappresenta il tempo e la regione del “”cuore”” che rappresenta l’organismo umano”. (G.
Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 97-99). Ancora: “Il cuore s’alimenta dei settantadue (cifra che evoca il
numero dei Nomi di Dio, n.d.r.) sorveglianti ed arconti e da parte sua li alimenta; ma nello stesso tempo lo si
interpreta come parola simbolo: è allora una sfera chiamata “”cuore””, dove sono rinchiuse le trentadue
meravigliose vie della Sophia, conformemente al valore numerico rappresentato dalla parola ebriaca lev, cuore.”
(op.ult.cit., 98). Sul complesso simbolismo di cuore-lev, cfr. anche G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit., 142: “A
partire dal medioevo, i cabbalisti ricorsero all’immagine del cuore per descrivere l’irradiarsi della forza divina nella
creazione. La trasformazione dell’organo umano in un simbolo cosmico trasse origine dalla corrispondenza tra il
valore numerico della parola lev (lb, 32) e le trentadue vie della sapienza..Poiché le lettere usate per indicare il
numero trentadue sono, in ebraico, le stesse che designano il cuore, il passaggio tra la nozione dinamica delle vie
della sapienza e quella di un cuore pulsante del creato apparve del tutto naturale…Mediante un’altra corrispondenza
numerica, il Bahir colega inoltre lev e kavod, la gloria divina, facendo così del cuore la fonte della luce superna.”
398
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662.
399
Il tema dell’elemento femminile della Divinità è uno dei più complessi e controversi dell’ebraismo e naturalmente
non può essere approfondito qui. In ogni caso, per chiarire il senso dell’ermeneutica proposta, basti accennare alcune
considerazioni di Scholem sul Sefer Bahir. In questo testo mistico emerge la “...sizigìa del maschio e della femmina..
(come) condizione preliminare d’esistenza di tutti i mondi. Evocando l’immagine primordiale della femmina di cui
parla il Cantico dei Cantici 6,10: “”Chi è che appare come l’aurora, ecc.?””, il par. 117 ( del Sefer Bahir, n.d.r.)
constata che: “”la donna è stata presa dall’uomo, perché sarebbe impossibile al mondo inferiore esistere senza il
principio femminile.” (G. Scholem, Le origini della Cabbalà cit., 177). La femminilità non è evocata solo da una
Sephirah. Nella sua accezione materna, come evocazione di Mondo al quale Tutto ritornerà, sembra puntuale il
151
vivente401, la sposa - che è anche il cuore di Dio 402 - alla quale l’uomo può unirsi dopo la
purificazione nella pozza delle acque primordiali del Bohu403.
E finalmente, compiuto il rito divino, a Prometeo il creatore sarà concesso di pronunciare le
parole mistiche, in cui si concatenano l’inizio e la fine della Torah, potrà evocare il Principio,
l’Aleph, il nome poderoso – eppure così etereo - per formare il cuore – LB - della creazione,
nient’altro che la stessa Volontà divina 404, il suo Nulla.
Il demiurgo in estasi ha un’infinita ambizione: benché la prima lettura paia negarla,
suggerendo la più facile interpretazione opposta, egli non è affatto interessato a dare vita a
riferimento di Scholem a Binà, nella sua qualità di terzo eone del complesso universo simbolico del Sefer Bahìr (G.
Scholem, le origini della Kabbalà cit., pp. 169 – 170). Ma, come è noto, la donna è figura della Shekhinà, che sta
all’Ovest, mentre, secondo il par. 104 del Sefer ha-Bahir, il settimo logos è l’Est del mondo, emblematico del Giusto e
del fallo; “L’est e l’Ovest, il Giusto e la Shekhinà formano una sizigia”. (Scholem, op. ult. cit., 192). Non è superfluo
neppure rilevare, sottolineando così la straordinaria polisemia dell’armamentario simbolico evocato da Borges in
questo brano, che la Sheckinà è anche il “Cuore mistico” (op. ult. cit., 199. “Il Giusto è dunque un canale attraverso
il quale i ruscelli e le correnti delle forze superiori scendono nel mare della Sheckinà, o “”cuore mistico””). Inoltre
“i due principi del maschile e del femminile s’uniscono attraverso l’azione intermediaria della bet all’inizio dela
prima parola della Torà.” (Op.ult.cit. 211). Ciò implica quindi anche un aggancio, su cui ci si soffermerà infra, tra la
dottrina della sizigia e la teoria cabbalistica del linguaggio.
400
Sulla valenza della luna come cifra simbolica del femminile, derivante tanto dalla sua qualità di corpo celeste che
riceve passivamente la luce solare, quanto dall’analogia col ciclo mensile (cfr. voce Luna, in Enciclopedia dei Simboli
cit., 277) è quasi superfluo richiamare l’attenzione. Peraltro anche la mistica ebraica evoca questo astro in una
sequenza di elementi che richiamano la donna e la presenza divina – elemento femminile nelle Sephiròth (Shekhinà),
ancora una volta censiti da Scholem con riferimento al Sefer ha-Bahir: “Tre o quattro concetti, soprattutto, che
superano di gran lunga tutto ciò che si trova nelle più antiche parti di Aggadà, sono identificati nel Bahir: la sposa,
la figlia del re, o sempicemente la figlia, la Shekhinà e la Congregazione d’Israele. Conviene aggiungervi il
simbolismo della terra (che concepisce), della luna (senza luce propria, ma che riceve la sua luce dal sole),
dell’etròg, frutto dell’albero della bellezza nel mazzo festivo ..considerato come elemento femminile e del dattero,
come immagine del pudendum muliebre. I quattro primi concetti sono indifferentemente usati nel Bahir ed è ciò che
vi è di completamente nuovo”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 203). Sull’accostamente fra la luna e la
Sefirà Malkut, cfr. anche G. Busi (Qabbalah visiva, Torino, 2005, 179). Sotto altro profilo l’avvicendarsi del ciclo
lunare è, di nuovo, cifra simbolica della ripetizione del tempo, evocando il momento della catastrofe nel novilunio e
della rigenerazione col plenilunio. (Cfr. P. Spinicci, in Lezioni sul tempo, la memoria, il racconto, Milano, 2004, 292).
401
G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 429. Inoltre G. Laras (in La mistica ebraica cit., 91): “In particolare
l’ultima delle Sefiròt, la Shekhinà, costituirebbe l’elemento femminile della divinità, e viene vista come la sposa, la
figlia, la regina della divinità e la madre di tutti i viventi.”
152
un ovvio e deludente golem formulando a gran voce, come un ciarlatano in fiera, dubbi
mantra ispirati al Sefer Yetsirà405.
A che sarebbe valsa, altrimenti, tanta abnegazione?
Può forse la placida radura evocata ospitare un mercato così dozzinale?
La magia, dopo la conquista della ragion critica che può favorire, in virtù del discernimento
dialettico, il faticoso recupero delle scintille prigioniere nello specchio fatato di Narciso 406 – lo
sfavillio che ha rivelato il volto sconsolato ma partecipe di Sisifo 407 - ha lasciato il posto alla
mistica.
.
402
“La sposa è pure il “”cuore”” di Dio, di cui il valore numerico LB, cuore, che corrisponde a 32, porta alle
trentadue vie nascoste della Sophia, per mezzo delle quali il mondo è stato creato” (G. Scholem, Le origini della
Kabbalà cit., 210).
403
L’ermeneutica che prospetto individua in questa favoleggiata pozza d’acqua un’accentuata polisemia. Da un lato,
come si è già visto, essa è stata contrapposta all’emblema dello specchio come espressione di naturalità primordiale in
antitesi all’artificio e alla ripetizione negatrice della creatività. Ora si propone sia come evocatrice dell’Origine, tema
non sconosciuto alla mistica ebraica (cfr. il sistema cosmogonico dello pseudo-Chaj, richiamato da Scholem nel citato
Le origini della Kabbalà, 420; secondo questo manoscritto le acque primordiali, bohu, scorrono, con l’etere, dallo
pneuma che sta al Principio), sia come elemento di purificazione. A tale proposito, nell’antica teurgia della captazione
accennata da Idel (in Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 161-162) la purificazione è descritta, negli appunti del
Cabbalista Yohanan Alemanno, come pulizia rituale del corpo che preludendo al mutamento interiore e all’elevazione
spirituale, predispone l’uomo all’unione mistica, consentendo, insieme alla lettura magica della Torah, di “captare” lo
spirito divino. Acque delle purificazioni e dell’oblio: ricordo quelle celebri del Lete e dell’Eunoè nel Paradiso
Terrestre, ultimo viatico di Dante prima del terzo e più ambizioso viaggio: “Io ritornai da la santissima onda / rifatto
sì come piante novelle / rinovellate di novelle fronde, / puro e disposto a salire a le stelle.” (D. Alighieri, Purgatorio,
XXXIII, 142-145, in La Divina Commedia cit., 581). Infine già si è accennato al rapporto fra le acque primordiali e la
Torah, che emerge forse per la prima volta nel Sefer Bahìr (G. Scholem, le Origini della Kabbalà cit., 171).
404
Il “cuore”, oltre a essere come si è visto (cfr.n. 396) la cifra simbolica dell’organismo umano nel Sefer Yetsirà, è
anche strettamente legato alla mistica delle lettere, aspetto che torna in evidenza nella Cabbala di Gerona. Scrive
Scholem (in Le origini della Kabbalà cit., 555): “Le dieci sefiròth sono per Nachmanide l’””interiorità”” delle
lettere. Il principio e la fine della Torà si concatenano, secondo un gioco di parole mistiche, per formare il cuore LB,
della Creazione; secondo il suo significato in termini di mistica dei numeri questa parola indica pure le trentadue vie
della Saggezza, che agiscono in essa. Ora, questo cuore non è altro che la volontà stessa di Dio, che mantiene la
creazione finché vi esercita la sua azione. Poiché diviene il Nulla, BL, appena la Volontà inverte la sua direzione e
riconduce tutte le cose alla loro essenzialità primitiva.. Ma questo ritorno delle cose al loro proprietario è anche il
ritorno al puro nulla mistico.” Interessante la puntualizzazione, a tale proposito, di Busi (in Simboli del pensiero
153
La riconciliazione con il femminile è anche comunione con il Dio finora assente. Il fango
sacro abbandonato era, sì, la terra della fecondità, ma il nostro viaggio, quando la canoa
s’incagliò la prima volta, viveva la sua incerta aurora, la ricerca del divino era appena
incominciata e in quell’antica età dell’oro anche la divinità, come l’uomo, era forse ancora
bambina. Sfuggiva al pellegrino che Dio e la natura madre di ogni vivente non sono
separabili408. Il nostro eroe si era lanciato invano oltre le Colonne d’Ercole nell’avventura
delle rovine circolari per tentare di unire con l’artificio magico ciò che per essenza era
inscindibile; così facendo, con il volto perplesso di Sisifo, faticava inutilmente, perché da
temerario concepiva la blasfema divisione nel mondo superno.
ebraico cit., pp. 142-143): “Grazie al gioco di corrispondenze tra lev e la negazione ebraica bal, il cuore, in quanto
principio della costruzione divina, diviene qui anche l’origine della decostruzione, ovvero di quella decreazione che,
secondo la qabbalah, cancellerà il mondo alla fine dell’era attuale.”
405
Come è noto, la “combinazione tra magia e studio della Jetzirà ha portato presso i Chassidìm tedeschi allo
sviluppo dell’idea del Golem, cioè della creazione di un uomo magico attuabile con l’applicazione di procedimenti
indicati nel Sefer Jetzirà”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 129.) Nel Sefer ha-Shem El’azar di Worms,
trattando la combinazione del Tetragramma con tutte le lettere dell’alfabeto, affronta il tema della creazione del
golem. “Egli afferma che tutte le lettere dell’alfabeto devono essere pronunciate sopra ogni membro del golem,
combinate con una lettera del Tetragramma e vocalizzate secondo le sei vocali” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive
cit., 104).
406
La dialettica appresa dal nostro eroe – nella sua manifestazione « platonica » - sul piano della mistica ben può
operare come possibile criterio di cernita delle scintille divine (mitzotzòt) tra le kelippòt (cfr. G. Laras, La mistica
ebraica cit., 235).
407
Cancellato Narciso, resta il disilluso e frustrato Sisifo, la cui umanità dolente segna tuttavia un progresso etico del
personaggio itinerante.
408
Come è noto, nella sistemazione “canonica” definitiva – attribuibile allo Zohar – delle Sephirot, Malkut-Sheckinà è
la decima, allusiva della presenza divina nel mondo inferiore.
154
Dopo il riconoscimento dell’Alterità - Eva-Sheckinà - finora ignorata da Prometeo liberato, il
divino e l’umano convergono e insieme si prodigano per fare Dio 409, il cuore della sposa
mistica. Finalmente Ulisse ritrova la parola eloquente e originaria, unica e infinitamente
significativa 410, e pone il Principio dell’Uomo, del Tempo e del Mondo.
409
Cfr. C. Mopsik, in Les grands textes cit. 591: « Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite
comme s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ».
410
“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano
l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le
opere cit., Vol. 2, 369).
155
L’estasi d’amore è la sizigìa celebrata questa notte con il ministero della seconda lettera bet,
che è la prima della Torah411. La femminilità si eterna in Dio ed è presenza consolatrice. Il
sorriso di Eva, Rachele, Ruth, Giuditta412 è la luce riflessa dalla luna che illumina la scena.
Queste presenze evocano la divinità e, insieme, un altro modo di produrre la vita, la via
insegnata da phusis, che allontana definitivamente Narciso.
La creazione, per interrompere la sterile ripetizione dell’identico, è dunque la riproduzione
attraverso il riconoscimento e la conoscenza dell’Altro 413 e non il mero rispecchiamento di sé.
Ma è anche vero che la pulsione alla generazione naturale del figlio si accompagna
necessariamente a un progetto più vasto, al ritorno del sogno cosmico originario 414.
Non è possibile dare vita all’”uomo figlio” senza generare anche il mondo e con il mondo il
tempo ex nihilo: questo è il senso dell’atto creativo al quale insieme a Borges e al sognatore
ci accingiamo ad assistere 415.
411
Nel commentare il par. 36) del Sefer Bahir, Scholem rileva che “i due principi del maschile e del femminile
s’uniscono attraverso la parola intermediaria della bet, all’inizio della prima parola della Torà (Bereschit, n.d.r.) Cfr.
Le origini della Kabbalà cit., 211.
412
Anche le eroine bibliche hanno una loro “storia mistica”, ed anzi cabbalistica in senso stretto. Basti pensare a Ruth,
cui lo Zohar dedica una parte del corpo principale. Come scrive C. Mopsick nell’introduzione al volume Le Zohar –
Livre de Ruth, Verdier, 1987, 11, l’eroina, progenitrice di David e dunque anche figura messianica, assurge a simbolo
di Malkut – Regalità (“si chiama decima Sefirà o Malkut, poiché la corona della regalità è sulla sua testa”, Scholem,
Le origini della Kabbalà cit., 230), legata, come è noto, alla Sheckinà, e, su un piano distinto, all’anima intellettuale.
Diverso il destino di Giuditta, le cui gesta non entrano nel canone ebraico. Tuttavia questa eroina è, a suo modo, cifra
del paradosso, e, a parer mio, della letteratura, là dove la menzogna fatale a Oloferne, viene servita, e dunque
giustificata, per raggiungere un fine edificante: “Giuditta / principalmente nata / dagli odorosi amori / dell’orgoglio
carminio / tranquilla piange / sulla spada / al gesto chiamata / d’Oloferne ucciso. / Quale assassinata dolcezza /
scorre / nell’agrumeto stanca / e di sangue dimenticato / s’incanta? / Dolce amara / all’acqua tornare / in luce
bianca / d’intatto desiderio / madre sorgente / tiepida amata / scompare /tra le righe / scomposte del viale”.
413
Pare significativo in questo senso il frequente uso nella Bibbia del verbo “conoscere” per alludere all’atto sessuale:
“L’uomo conobbe Eva sua moglie ed essa rimase incinta” (Genesi, 4.1 in Bibbia ebraica, 1, Firenze, 2000, 10).
414
Sul punto, oltre alle considerazioni che seguiranno, cfr. i temi sviluppati nel cap 2) della III sezione.
415
Nel commentare il Sefer Yetsirà, scrive Scholem: “L’uomo, egli stesso, è compreso in questo processo. Egli è
“”costruito in combinazione con le lettere”” (capitolo III). “”e questo edificio superiore dello spirito [Ruach] che lo
dirige, dirige [anche] il tutto, e così il tutto è collegato con i superiori e gli inferiori e si compone del mondo,
dell’anno e dell’anima… L’uomo è la somma di tutte le creature, un grande sigillo nel quale il principio e la fine “”
156
L’attimo impressionante dell’Origine precede e nello stesso momento esaurisce tutto questo.
L’eroe dai mille volti pronuncia con timoroso riserbo la lettera ineffabile che evoca il Nulla; il
nome poderoso è solo un Pensiero, un soffio impercettibile 416. Nella fiamma danzante
dell’Aleph, e ugualmente in tutti gli altri segni - sacri sottili intimi nascosti segreti plastici
guizzanti - sono comprese le dieci Sephirot, è concentrato il mondo intero nel suo divenire,
sono contemplati gli eventi futuri, così come in un solo uomo vivono tutti i discendenti 417.
di tutte le creature “” sono agganciati l’uno all’altro””. (G. Scholem Le origini della Kabbalà cit., 359).
416
Sottolinea Scholem che nel Sefer Bahir l’Aleph simbolizza la Machschavà di Dio, il Pensiero senza limiti, inizio di
ogni linguaggio ed espressione, condizione necessaria di tutte le lettere. (Cfr. Le origini della Kabbalà cit., 159).
417
Nel commentare la nozione di En Soph e la dottrina delle Sephirot in Isacco il Cieco, Scholem esprime concetti
simili a quelli sopra accennati (Cfr. Le origini della Kabbalà, pp. 323-358; in partic. pp. 343 e 353).
157
E’ un’invocazione o piuttosto un’imitazione di Dio, è in ciò si compie l’unio mystica418, ma è
anche il movimento originario del linguaggio in cui consiste, secondo molti Cabbalisti,
l’essenza dell’universo419; è l’inizio dell’inesorabile disgregazione attraverso la quale la Parola
Unica e Infinitamente Significativa favoleggiata da Borges incomincia a moltiplicarsi
incessantemente.
Di nuovo ciò avviene nell’incerta luce onirica di un itinerario notturno. Per la prima volta il
gesto creativo, con la raggiunta coesione e omogeneità degli elementi dello scenario, che
rappresenta puntigliosamente l’armamentario cabbalistico più accreditato 420, favorito dalla
maturazione umana del protagonista, che ne asseconda una più credibile autenticità della
devozione mistica421, sembra promettere un successo.
418
A proposito dei rapporti fra Devequt e teurgia, così Idel descrive le fasi del culto cabbalistico: “1) unione
preliminare del pensiero con le lettere del nome divino; 2) attivazione di queste lettere nella loro qualità di simboli di
entità superiori, in modo tale che esse vengano a costituire una totalità unificata; 3) congiunzione con questa totalità
divina unificata” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 66).
419
420
Cfr. G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, 2001, 15.
Come accennato, aldilà della mia personale accentuazione di una possibile inedita presenza dell’elemento
femminile, rilevante, a mio avviso, nell’accreditare la “crescita mistica” del personaggio, indubbiamente gli elementi
enucleati da Borges (l’evoocazione del Nome, l’invocazione agli astri e, soprattutto, il sorprendente riferimento al
cuore come primo elemento “creato”) richiamano in modo piuttosto evidente il Sefer Yetsirà (“Cielo, fuoco, aria,
spirito, terra, acqua. La testa dell’uomo è fuoco, il ventre acqua, il cuore spirito”; cfr. Sefer Yetsirà, 35, in Mistica
ebraica cit., 40) e la sterminata esegesi formatasi su questo testo.
421
In questo senso ho prospettato, con la rinuncia al narcisismo sterile, una maturazione umana di Ulisse tornato a
Itaca-Ogigia (ossia al talamo) alludendo anche a una sua crescita mistica. Questa intepretazione è confortata dal
pensiero di M. Idel, che pone in evidenza come la comprensione del simbolismo dello Zohar, per il Cabbalista, sia
solo un invito all’azione, unica via per il cui tramite si può raggiungere “lo status umano”. A tale ultimo propsito
scrive (in Cabbalà Nuove Prosp. cit., 207) che una delle fasi attraverso le quali si compendia la comprensione del
mondo superiore è rappresentata dall’”acquisizione dello status di uomo, cioè un’unione costante con la propria
moglie, allo stesso modo che due Sefirot devono essere unite nell’alto.”
158
Tuttavia proprio la frantumazione della parola originaria, ossia il debito che il demiurgo deve
pagare per prodigarsi nel tentativo di creare l’inscindibile triade tempo-mondo-uomo, fa
sorgere il dubbio che l’esito finale possa essere ancora una volta diverso dalle attese.
Il molteplice è allontanamento dall’origine, che, non appena conquistata, è già perduta 422,
così come il tempo è una macchina che, una volta partita, non può più essere fermata.
E’ forse dotato il nostro demiurgo della capacità di immobilizzarlo con la sua parola
iniziale423? Se così fosse, se il protagonista-narratore (ora l’identificazione tra i due è
innegabile, perché discutiamo anche di linguaggio, e ciò indiscutibilmente comporta una
sovrapposizione di ruoli) si limitasse a pronunciare il nome poderoso424 di Dio, il nostro
racconto, che, come insegna pure il Sefer Bahir, procede da un Principio discorsivo
successivo all’Origine425, verrebbe negato.
Il timore è che il tentativo di creare, perseguito attraverso le distratte emanazioni oniriche di
un Dio, di un Uomo, o di una Volontà cosmica, entità forse sin troppo “indistinguibili”, come
Borges ci aveva suggerito in una non dimenticata intervista 426, possa prestarsi ad altre
sconcertanti letture, allontanandoci di nuovo, almeno in parte, da quell’itinerario mistico che
sembrava finalmente intrapreso con sicurezza dal nostro proteiforme viaggiatore.
422
423
Cfr. n. 129, con le osservazioni di C. Sini sulla “dualità dell’inizio”.
L’eternità come cristallizzazione del molteplice della vita, come riconoscimento, per così dire, conchiuso, del
futuro già dato e del passato rimasto presente, contrapposto al tempo, che nasce sotto il segno dell’inquietudine, come
bisogno di discorsività e narrazione. Ne tratta P. Spinicci, sviluppando la nozione di tempo nelle Enneadi di Plotino,
in Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, cit., pp. 22-24. Nel momento in cui la parola incomincia a distendersi,
secondo l’interpretazione qui prospettata, l’eternità è compromessa dall’inevitabile discorsività del racconto nascente.
424
Nel Sefer ‘Iyyùn si dice che il nome di Dio è l’unità del movimento del linguaggio, che esce dalla radice
primordiale e si ramifica (Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 410).
425
« Secondo il par. 13 (del Sefer Bahir, n.d.r.), il luogo mistico dell’alef precede persino l’origine della Torà, che
dunque non comincia che con la lettera beth, nella parola Bereshith (Principio, n.d.r.) Cfr. G. Scholem, Le origini
della Kabbalà cit., 163. Avevo rilevato nella parte finale del cap.4) della II sezione l’ossessione, comune al
movimento di pensiero ebraico e borgesiano, di postulare insaziabilmente un’origine al di qua dell’origine data,
un’inarrestabile pulsione al regressus ad infinitum.
426
Cfr. cap.4), II sez.
159
Il sogno cosmico e la sfrenata libertà dell’immaginario poco si addicono al silenzio di
un’unica parola sussurrata, suggerendo altro.
Scivola Sisifo – Atlante nelle acque agitate del sogno, non riesce a fermarsi lungo il piano
inclinato dell’Origine; era soverchiante e incommensurabile il peso dei Mondi che aveva
sorretto nelle lunghe veglie, era enorme la stanchezza del Giusto. Universi incessantemente
desiderati, blanditi e creati, ora interamente sfumati e dissolti nell’oblio del sonno; rotola lo
spossato sognatore nella sabbia soffice del paese onirico per toccare infine il desertico
Aleph427 dal suono sospeso – terra inesplorata e indicibile. La dolce pendenza sospinge il
demiurgo verso l’Inizio; l’etere primordiale428 anestetizza, senza sopprimerli, tutti i ricordi,
uno per uno. E’ agevole catturarli, lievi e trasparenti come sono, nel loro inarrestabile
declinare; è facile arrestare quel pigro e innocente sfogliarsi di terse immagini nell’abisso.
Denudati - il sogno toglie loro ogni pudore - poi rapiti – incoscienti e ormai senza padroni –
sono stipati, puri e senza nome, negli archivi dell’immaginario dagli affacendati fuochisti
della nave cosmica – i severi Arconti - in attesa dall’Eterno Ritorno. Saranno classificati,
protocollati, immatricolati e infine riciclati senza troppe cerimonie da altri Universi,
desiderosi di sfoggiare modelli già pensati dagli uomini, variopinte forme impreziosite dal
pregio delle cose vissute e sofferte.
427
Scrive Scholem (Il nome di Dio e la teoria cabbalistica cit., 54): “L’alef è l’intonazione laringale che precede ogni
emissione vocalica, …l’elemento da cui originariamente deriva ogni suono articolato”. Essendo cifra dell’“origine”,
il valore emblematico di Aleph sia nella teoria cabbalistica del linguaggio sia sul piano cosmogonico e propriamente
teologico è notevolissiimo. Si è accennato sotto tale ultimo profilo ai rapporti tra la prima lettera e En Soph, tema
recepito da Borges, come è noto, nel celebre racconto L’aleph; quanto all’aspetto linguistico, l’indicazione che
emerge dal Sefer Yetsirà sembra piuttosto chiara: l’identificazione tra l’Aleph e l’etere primordiale, aura che circonda
Dio, consente di attribuire a questa lettera, anzi al movimento (come scrive Scholem nell’opera citata) che le è
proprio, l’intonazione vocale ancora muta da cui derivano il Nome di Dio e ogni linguaggio.
428
J.P. Vernant (in L’universo, gli dei, gli uomini, Torino, 2000, 15) ci rammenta che Aither (Etere) è figlio della Notte
e nipote di Voragine (Caos).
160
Il sognatore s’illude di scolpire e plasmare nuove realtà nel vento, nell’acqua e nel fuoco aleph, mem e shin – benevolmente accolto nel grembo delle tre Madri, le donne dal volto
familiare che lo soccorrono429 nelle Profondità degli opposti430. Tre volti diversi della stessa
divina presenza, che ha letto tutte le Memorie delle generazioni passate e future, ed è
accorsa chiamata dal pianto degli uomini 431.
Non c’è Shekhinà senza lacrime evocatrici. Ma quei trentadue meravigliosi sentieri di
sapienza che mostrano la strada verso il Cuore mistico, sono intricati fiordi, nelle cui
labirintiche trame solo il dolore non si smarrisce mai.
5) La creazione
“Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d’un pugno serrato..con minuzioso amore lo
sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza.Non lo
toccava; si limitava ad esserne testimone..Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto
molti angoli..Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò
il nome di un pianeta e passò alla visione di un altro degli organi principali. In meno di un
anno giunse allo scheletro, alle palpebre..Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si
levava, né parlava, né poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo
addormentato.
Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi
in piedi; così inabile come quest’Adamo di polvere, era l’Adamo di sogno che le notti del
mago avevano fabbricato.
429
Possibile richiamo: “Dunque: che è? Perché, perché restai, / perché tanta viltà nel cuore allette, / perché ardire e
franchezza non hai, / poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del cielo / e ‘l mio parlar tanto ben ti
promette?” (D. Alighieri, Inferno, II, 121-126, in La Divina Commedia cit., 18).
430
“Profondità del principio e profondità del termine, profondità del bene e profondità del male, profondità del sopra
e profondità del sotto, profondità dell’oriente e profondità dell’occidente, profondità del settentrione e profondità del
meridione.” (Cfr. Sefer Yetsirà, 7, in Mistica ebraica cit., 36).
431
M. Idel (in Cabbalà Nuove Prospett. cit. pp. 90-93) accenna alla tecnica “anomica” del pianto per indurre la
visione della Sheckinà: “La rivelazione della Sheckinà (si compie) per mezzo e a seguito di una sofferenza..per mezzo
della quale si avverte la sofferenza della Sheckinà..Questa premessa postula una rivelazione della Sheckinà come
immagine femminile derivante dalla sofferenza”
161
Una sera l’uomo fu quasi per distruggere tutta l’opera, ma si pentì. (Più gli sarebbe valso
distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell’effigie che
era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo
dello stesso giorno sognò questa statua. La sognò viva, tremula; non era un atroce bastardo
di cavallo o tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, ed anche un toro, una
rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel
tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che
magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il
Fuoco stesso e il sognatore, l’avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordinò di
inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell’altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a
valle, affinché una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell’edificio deserto. Nel sonno
dell’uomo che lo sognava, il sognato si svegliò.
Il mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo a scoprirgli gli arcani dell’universo e il culto
del fuoco. Nell’intimo gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica,
allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno...A volte l’inquietava un’impressione che tutto
quello fosse già avvenuto..In complesso i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi
pensava: “Ora starò con mio figlio.” O, più di rado: “Il figlio che ho generato m’aspetta, e
non esisterà se non vado.”
Gradualmente lo venne avvezzando alla realtà..Comprese con una certa amarezza che suo
figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, lo baciò, e lo inviò
all’altro tempio..Prima (perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un
uomo come gli altri) gli infuse l’oblivio totale dei suoi anni di apprendistato.
La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All’alba e al tramonto si
prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale stesse
eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, più a valle; la notte non sognava, o sognava
come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme dell’universo: il figlio
assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era
raggiunto; continuava a vivere in una specie di estasi” 432.
Il brano, che incomincia a annunciare la fine del racconto, si svolge sotto il segno del dolore e
del fuoco, della melanconia e dell’estasi.
Giunti a questo punto, non tanto interessa seguire passo per passo il procedere del demiurgo
lungo un percorso ormai prevedibile: la creazione avanza infatti senza sorprese. E’ lecito
432
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 662 – 663.
162
immaginare che i sette pianeti e le dodici costellazioni invocati dal sognatore 433 sorgano in
cielo nello stesso attimo in cui si formano gli organi del corpo 434. Ogni fase sembra richiedere
per il suo perfezionamento quattordici lucide notti, un numero non casuale; è forse
ammissibile accostarlo, per la profondità delle sofferte risonanze che echeggiano in questo
testo, alle sette consonanti doppie, cifra simbolica della drammatica tensione fra gli opposti
nel macrocosmo e nel microcosmo435.
In capo a meno di un anno, una delimitazione temporale che probabilmente allude alla durata
della gestazione, la creatura, per quanto desolatamente muta e incosciente, sembra
anatomicamente “compiuta”. I costanti e puntuali riferimenti al Sefer Yetsirà, benché - ciò
433
In realtà, come si è letto, il protagonista invoca gli dei planetari. Tuttavia il successivo esplicito cenno alla
leggenda del golem e le allusioni al Libro della Creazione forse consentono questa piccola arbitrarietà che trova il
proprio fondamento nel procedimento demiurgico formulato nel Sefer Yetsirà. D’altra parte questo testo è ben
conosciuto da Borges. Questa la prova: “Il trattato Sefer Yetsirah (Libro della Formazione) scritto in Siria o in
Palestina intorno al secolo VI, rivela che Jehova, Dio degli Eserciti, d’Israele e Onnipotente, creò l’universo
mediante i numeri cardinali che vanno dall’uno al dieci e le ventidue lettere dell’alfabeto. Che i numeri siano
strumenti o elementi della Creazione è dogma di Pitagora e di Giamblico; che lo siano le lettere, è chiaro indizio del
nuovo culto della scrittura. Il secondo paragrafo del secondo capitolo dice: “”Ventidue lettere fondamentali: Dio le
disegnò, le incise, le combinò, le pesò, le permutò, e con esse produsse tutto ciò che è e tutto ciò che sarà.”” Poi
viene rivelato quale lettera ha potere sull’aria, e quale sull’acqua, e quale sul fuoco, e quale sulla sapienza, e quale
sulla pace e quale sulla grazia, e quale sul sonno e quale sulla collera, e come (per esempio) la lettera kaf, che ha
potere sopra la vita, servì per formare il sole nel mondo, il mercoledì nell’anno e l’orecchio sinistro del corpo.” (J.L.
Borges, Del culto dei libri, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1, 1013).
434
Ad esse (alle sette consonanti doppie, n.d.r.) corrispondono, tra l’altro, i sette pianeti, i sette cieli, i sette giorni
della settimana e i sette orifizi del corpo..Le dodici consonanti semplici..corrispondono alle dodici principali attività
dell’uomo, alle immagini dello Zodiaco, ai dodici mesi e ai dodici principali organi (guide) del corpo umano. (G.
Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 39).
435
“Profondità del principio e profondità del termine, profondità del bene e profondità del male, profondità del sopra
e profondità del sotto, profondità dell’oriente e profondità dell’occidente, profondità del settentrione e profondità del
meridione.” (Cfr. Sefer Yetsirà, 7, in Mistica ebraica cit., 36).
163
non può più sorprendere436 – la Cabbala sia stata arbitrariamente trasformata in una
cosmogonia gnostica, sono esplicitamente dichiarati da Borges.
436
Nei capitoli 1 (soprattutto) e 2 della II sezione di questo lavoro ci si è soffermati diffusamente sull’interpretazione
borgesiana della cosmogonia cabbalistica – mediata da Scholem – quale soprattutto emerge nella sua conferenza La
cabala, raccolta nel citato Le sette notti. Indubbiamente, come si accennò a suo tempo, certe affrettate conclusioni
dello scrittore argentino sono in qualche misura attribuibili alla forte (e forse non del tutto e non sempre giustificata)
accentuazione dei rapporti tra gnosi e ebraismo presente nell’opera del grande studioso berlinese.
164
L’allusione, colma di delusa disaffezione, all’inabile e rosso Adamo di polvere, conferma la
corretta previsione dell’”ermeneutica divinatoria” più volte esercitata: il demiurgo
non intende affatto produrre un golem. Questa è una falsa pista battuta dallo stesso
autore437; tuttavia non è né credibile né soddisfacente. Le rovine circolari è, più
ambiziosamente, un racconto sull’origine, sulla creazione e sulla generazione; la
fabbricazione dell’informe fantoccio di Rabbi Loew vi gioca una funzione strumentale
e transitoria.
Un golem è, come si sa, un essere incompleto perché manca della libertà dell’immaginario
(non può sognare) e della connessa capacità creativa. Questa peculiarità si esprime
nell’ebraismo soprattutto per tramite della parola - scrittura, lo strumento che fa
dell’uomo la creatura formata a immagine e somiglianza del Dio 438 che disse: “Sia la
luce. E la luce fu” 439.
437
Il racconto che sto commentando viene avvicinato spesso dalla critica alla poesia (sempre di Borges) Il golem. E’ lo
stesso autore, peraltro, che autorizza l’accostamento (cfr. a tale proposito la citata Antologia personale dello scrittore
argentino, 3: “Così, ancora una volta ho constatato la mia fondamentale povertà: Las ruinas circolares, che datano
del 1939, sono una prefigurazione di El Golem o di Ajedrez, che sono quasi di oggi ”). Se pure l’analogia appare più
che mai lecita sul piano fenomenologico (ed anzi, come si vedrà infra, non è possibile proporre criteri di
interpretazione di questo racconto senza accennare anche a quella e altre poesie), è comunque vero - credo – che il
tema del golem, in entrambi i testi, è allusivo di ben più vasti e inquietanti interrogativi.
438
Commentando il Razà Rabbà, una delle possibili fonti del Sefer Bahir, Scholem riferisce alcuni passaggi che
alludono alla creazione del golem: “E’ detto così: “”Se un uomo crea una creatura per mezzo del Sefer Jetzirà, egli ha
la forza di creare tutto, meno che una (sola) cosa.”” Qual’è questa cosa? Non lo si dice, ma dev’essere la lingua,
come in numerosi testi paralleli e come nel Bahir”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 152-153).
439
Gen. 1.3 (in La Bibbia di Gerusalemme cit. 35). Alludo naturalmente alla capacità demiurgica della parola di Dio,
della quale reca ampia testimonianza proprio il I cap. del Genesi.
165
Se così stanno le cose, il nostro viaggiatore, ora anche figura di quel Jorge Luis Borges che
ben conosce il valore di una parola infinitamente significativa, meglio se splendente e
solitaria cifra simbolica del Tutto, principio e fine, luogo di tutti i luoghi, etere
primordiale e cuore cosmico, centro del mondo e dunque, in modo definitivo,
“Aleph”440, è perfettamente consapevole di essere ancora lontano dal felice
compimento dell’opera.
Proprio quando il desolato demiurgo – padre vuole disfarsi della pallida parvenza 441, formata
con cura tanto minuziosa quanto inefficace, disperando di ridestare la sconcertante
creatura che dorme un sonno pietrificato nel territorio ben noto delle divagazioni
oniriche (itinerari ormai frustranti, e forse funestati dalla paura; in fondo è un
incubo, non un sogno, la ripetuta visione di una creatura addormentata), ecco, nelle
pause di veglia, affiorare il ricordo del viaggio intrapreso molto tempo addietro per
adempiere quel progetto magico che aveva esaurito l’intero spazio della sua
anima442: un romanzo di formazione, in fondo, così l’ho anche immaginato, segnato
da una serie di passaggi inobliabili e ormai irreversibili 443.
440
Come più volte sottolineato, la prima lettera dell’alfabeto ebraico è cifra simbolica polisemica, che rimanda ai tanti
significati già di volta in volta evidenziati nel testo. Non solo, come è noto, l’Aleph ha grande rilievo anche nel mondo
letterario di Borges, ma nella mistica ebraica evoca, oltre al Principio, all’Unità e all’Universo, anche il genere umano
considerato indeterminatamente. Cfr. G. Mandel L’alfabeto ebraico, Milano, 2000, 23: “Secondo Fabre d’Olivet (La
langue hebraique restitueé, 1815) “”come immagine simbolica rappresenta l’uomo universale, il genere umano,
l’Esseere dominatore della terra.” Si tratta di una riaffermazione del rapporto di specularità tra macrocosmo e
microcosmo.
441
“Una sera l’uomo fu quasi per distruggere tutta l’opera, ma si pentì.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662).
La decisione e il pentimento echeggiano, secondo S. Sosnowski (in Borges y la Cabala cit., 66), l’episodio biblico del
Diluvio e l’atteggiamento della Divinità, la sua tentazione di distruggere irrevocabilmente l’empio genere umano.
442
J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 661.
443
Come è stato anticipato nella sezione introduttiva di questo lavoro, ho talvolta tentato una sorta di approssimativa e
insufficiente mimesis stilistica tra alcuni movimenti di pensiero borgesiani e qualche aspetto della mistica ebraica.
Assecondando questa prospettiva, l’analisi testuale del racconto si è ampiamente dilungata, quasi a voler significare
una adeguazione del tempo della narrazione al tempo della storia. Come si sarà notato infatti la fabula ne Le rovine
circolari, benché l’economico stile di Borges ne racchiuda lo sviluppo nel volgere di poche pagine, occupa alcuni
anni, dimensione temporale necessaria per la gestazione ed educazione del figlio generato dal protagonista. In questo
senso ovviamente è lecito parlare di “romanzo di formazione”, ben potendo, senza fare violenza eccessiva al mito
dell’intenzione dell’autore (Borges aborriva la prolissità del genere romanzesco), un breve racconto narrare una vita
166
L’eroe dai mille volti volge lo sguardo di nuovo verso il tempio incendiato e ripercorre gli
infiniti itinerari compiuti. E’ tetra solitudine, nemmeno il grido di un uccello, neppure
in lontananza il rombo di un tuono amico nel cielo unanime, solo la prospettiva
paurosa di vegliare nel sonno un golem inerte e insensato.
Perchè quella statua bruciata? Perchè gli dei hanno abbandonato il Centro del mondo, la terra
sconsacrata del tempio? Dove si sono nascosti, fuggiaschi, a mendicare una morte
infamante? Chi li ha costretti alla resa?
Nell’incipiente oscurità vaga la mente dell’infaticabile Sisifo e il pensiero dà forma alla statua
dall’indecidibile ambiguo profilo, sospeso tra l’essere cavallo o tigre, tra l’essere dio o
nulla; l’uomo cerca una traccia che possa svelargli l’arcano. Ricorda la beffa del figlio
mai nato, l’identico a sé, il frutto acerbo e abortito dell’opera al nero, e teme il
ripetersi degli errori passati. Dapprima era la frenetica ricerca dell’anima, sognata
prematuramente, un fantasma troppo avulso dall’imprescindibile involucro di carne e
ossa, allora trascurato con la sublime tracotanza dell’idealismo superbo 444 e poco
tempestivo dei grandi maestri greci; adesso è il processo contrario, ma la
frustrazione è identica, il fallimento uguale. Ora, istruito dalla dottrina mistica, sa
bene che il Midrash avkir attribuisce irrevocabilmente a Dio l’ultimo decisivo slancio
demiurgico445.
Perchè, dunque, la divinità è sorda?
intera alludendo anche a un’evoluzione del personaggio. Sul punto, cfr. p.e., A. Marchese, L’officina del racconto,
Milano, 1996, pp. 137-139.
444
Si ricorderà che nel precedente brano (cfr. cap. 4 di questa sezione) si era ipotizzato un errore di procedura del
demiurgo, che, prima di dare corpo alla sua creatura, aveva “invertito” le fasi, scegliendo l’anima, sognata
narcisisticamente uguale o simile a quella del padre creatore.
445
“Quando Dio desiderò creare il mondo, iniziò la sua creazione dall’uomo e lo plasmò come un golem. Quando si
accinse a infondere un’anima in lui, disse: “Se lo vivifico ora, si dirà che è stato mio assistente nell’opera della
creazione; così lo lascerò golem (in uno stato rozzo, incompiuto), finché non avrò creato tutto il resto.”” Quando
ebbe creato tutto, gli angeli gli dissero:””Non farai ora l’uomo di cui parlavi?”” Ed egli rispose: “”L’ho già creato
da tempo, manca solo l’anima.”” Allora infuse in lui l’anima e lo vivificò e concentrò in lui tutto il mondo. Con lui
iniziò e con lui concluse, come è scritto: ““Mi hai formato davanti e dietro.”” Dio disse:””Ecco, l’uomo è diventato
come uno di noi.”” Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 119.
167
Nel pregare con disperata veemenza l’indecifrabile effigie – il dio assente - nell’invocarne il
ritorno
–
ciò
che
ora
gli
interessa
davvero
è
disertare
questa
solitudine
insopportabile, riempire il vuoto delle rovine circolari, respingere l’incubo onirico del
golem – l’eroe, vincitore di innumerevoli prove, ma instancabilmente all’erta per
affrontare la nuova battaglia che il destino, con enfasi retorica, gli riserva senza
risparmi, si chiede come ricondurre la parola alla sua origine, al suo nulla 446.
Quando447 ancora era accampato in una terra lontana del Sud, pianeggiante e fertile, prima di
imbarcarsi per raggiungere questo territorio di montagne accidentate e acquitrini
(più gli sarebbe valso non farlo!), al taciturno viaggiatore qualche volta era accaduto,
sostando ai bivacchi, di ascoltare strane storie notturne, che favoleggiavano –
ricorda con quale animosa intransigenza gli anziani prodigavano quella commossa
sapienza tramandata - di un unico dio, un dio - assurdo a dirsi - senza immagini,
senza statue, senza forme, un dio ineffabile e inconcepibile, che aborriva, talvolta
con intolleranza collerica, tutte le rappresentazioni umane; un dio che tuttavia si
emancipava, pur con calibrata parsimonia, dal suo mistero di inafferrabile deus
absconditus, svelandosi con la parola e il fuoco della clemenza e del rigore. Oppure,
quasi non volessero ripetersi, quegli eloquenti pastori notturni, curiosamente
divagando, narravano di un’altra, più spettacolosa divinità – ma forse era la stessa –
che consisteva di tutte le immagini e di tutte le forme possibili.
446
Azriel (in G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 514): “Colui che prega deve respingere tutto ciò che dà
fastidio e che disturba e ricondurre la parola alla sua origine – letteralmente: al suo nulla.”
Piuttosto “liberamente”, ma – si spera – non troppo arbitrariamente ispirato a questa fase del racconto, segue un
447
breve brano “narrativo”, nel quale si cerca di delineare alcuni tratti della possibile immagine della divinità quale
Borges la rappresenta. Riterrei più in linea con la cifra stilistica dello scrittore argentino la raffigurazione, pur intricata
e complessa, di un Dio unico. Questa concezione, che si sviluppa nell’idea di una creazione dal nulla o dall’UnoAleph, (piani talvolta sovrapposti, come è noto, dalla Cabbala, attraverso l’identificazione o la poco netta separazione
tra En Soph e prima Sephira, spesso coincidente con la volontà primordiale) si sposa indubbiamente meglio con
quell’insistita pulsione verso un’Origine, con quell’incoercibile attrazione per una parola originaria infinitamente
significativa e unica, che, come si è sottolineato, pare ricorrere così frequentemente nell’opera del nostro autore.
168
Dopo i primi sconcerti era sembrato, a lui, uomo ormai civilizzato dalla scienza e dalla
dialettica, non digiuno di farmaci 448 e mantra, che la ragione meglio sopportasse la
nozione di un dio unico, padrone e demiurgo. Gli pareva infatti più agevole concepire
la creazione di questo mondo, attestato, senza alcun sensibile dubbio, di natura
plurale e molteplice, lasciando indefinitamente scivolare all’indietro, complice
l’inerzia in dolce pendenza di lunghissimi meriggi assolati, un pensiero vago ma teso
fino al suo limite, per fissare un unico radioso principio, purissimo solitario originario,
eppure quasi trascurabile e marginale, che poteva ben darsi fosse divino, se non
altro perché irrevocabilmente iniziale: un punto, l’Uno dal quale dilagava il mondo
(avrebbe potuto sussurrare Aleph, la stessa cosa, insegnava il suo idioma non
contaminato dal greco449). Da una parte questa dottrina accondiscendeva il suo
genio, avido di incessanti ritorni agli ineffabili istanti, sempre rinnegabili perché
inesauribili, di quell’accecante partenza, e attratto da vertiginosi e abissali percorsi a
ritroso senza mete enunciabili; dall’altra, con quel consolante pensare, meglio
riusciva ad assecondare l’esito naturale dell’ineluttabile degradare e oscurarsi
dell’abbagliante Principio, quelle grevi tenebre notturne, alle quali egli tutto si era
votato, tanto da stringere patti occulti con incubi ricorrenti; meglio si rappresentava,
dunque, il brusco declino, immaginandolo con gli occhi della mente, assai meno
vulnerabili dalla luce e perciò più attrezzati a sopportare quel formidabile incipit, di
quanto mai avrebbero potuto le sue povere iridi, mortalmente esposte al catastrofico
sovrumano bagliore. Certo, questo suo professare il Dio unico, creatore ex nihilo, lo
aveva indotto a tradire, ciò è innegabile, la credenza appresa dai maestri greci, che
all’opposto insegnavano come il Caos originario, da sempre esistente, fosse stato poi
organizzato e armonizzato da un raffinato demiurgo, l’architetto di un cosmo
perfetto, nel quale pareva riflettersi la solare letizia del suo sublime giardiniere. Ma
la favola di un mondo di così splendente e specchiata virtù non gli era mai sembrata
troppo convincente. Gli pareva – e come dargli torto - tangibile il disordine,
percepibile il logoramento, inesplicabile quel quotidiano andare a tentoni, cosicché si
affacciava assai più verosimile l’ipotesi di qualche vistosa carenza, se non proprio
l’assoluta certezza di lacune incolmabili, nelle maglie, si direbbe oggi, della
448
Sul senso polisemico di pharmakon, cfr. n. 344.
449
J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 660.
169
“programmazione
divina”,
evidentemente
incompatibili
con
un
progetto
di
soprannaturale perfezione450.
In definitiva, sembrava più plausibile restare saldamente ancorati all’idea di quel fulgido Uno,
ammettendo però, con serena franchezza lontana da protervia blasfema, che
qualcosa,
esaurito
l’irripetibile
splendore
iniziale,
era
andato
offuscandosi,
sconfinando ben aldilà delle pur benevole inclinazioni divine.
Non tanto lo angustiava la sofferenza – era infatti convinto che questa dovesse fare parte del
mondo, anzi ne fosse la stoffa, così come la pelle veste il corpo, come le spine
inaspriscono, senza guastarle, le rose, e che nessun dio potesse porvi efficace
rimedio; al contrario – le rovine distrutte lo provavano – anche gli immortali – uno o
mille che fossero – di tanto in tanto, ma non meno degli uomini, ne pativano
direttamente gli inevitabili strali.
Lo stordiva piuttosto il disordine, l’inestricabile aggrovigliarsi di ogni progetto, l’impossibilità
di venirne a capo; perciò provava rammarico, quasi pietà, un sentimento che non
riservava solo a se stesso o al destino umano, ma dilatava senza soste e senza limiti,
fino a fargli toccare, in alto, sempre più in alto, la luna, gli astri, le stelle e persino
quel nascosto e forse indebolito Aleph..
Sulle note appena sussurrate di quel suono si spegne il giorno. Finalmente, rifluiti a poco a
poco quei vaghi pensieri, rimboccati come coltri sottili intorno al corpo disteso sulla
terra consolatrice, Sisifo cede al sonno, nella speranza, questa volta, di non sognare
più nulla.
E invece sogna al tramonto l’ineffabile statua; cavallo, tigre, toro, rosa e tempesta a un
tempo. Si proclama, quel molteplice iddio, svelando il suo nome, quello terribile e
cangiante del Fuoco; lamenta l’empia diserzione del suo culto e ne pretende il
ripristino: quell’invocazione che tuona veemente sembra echeggiare un patto antico.
450
Più radicalmente Borges (L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1,
1005): “”Il mondo”” scrive David Hume “” è forse l’abbozzo rudimentale di un dio infantile che lo abbandonò a
metà dell’opera, vergognandosi della sua esecuzione deficiente; è fattura di un dio subalterno, del quale gli dei
superiori si burlano; è la confusa produzione di una divinità decrepita, tenuta in disparte, che è già morta.””
170
Si offre, per ovviare agli onori perduti e reclamare la gloria dovuta al suo nome, di animare il
corpo del giovane dormiente, conservando il segreto della sua fragile sostanza
onirica, da condividere solo col padre.
Il giovane si sveglia infatti dal sogno, ma prigioniero nel sogno paterno; il genitore lo
istruisce a lungo sui misteri della liturgia del fuoco. Nasce l’affetto del demiurgo,
forte e struggente; un sentimento certo inatteso. Ciò lo induce a rallentare il ritmo
della iniziazione del figlio agli arcani segreti. Lo studio definitivamente compiuto del
rituale annuncia infatti la nascita; non pare altro, l’evento lieto, che l’apparente fuga
dal mondo onirico (pur restando tuttavia il giovane una vana parvenza, il frullare di
un sogno nel mondo): venire alla luce è soltanto l’emanciparsi dal padre demiurgo,
che ha infuso nella sua creatura il pietoso oblio degli anni di apprendistato, per
favorire la dimenticanza della fragile stoffa in cui il figlio consiste 451.
Ma che cosa farà il ragazzo da grande? Sarà, come il suo sognatore, il sacerdote di quel
molteplice iddio e ne celebrerà il culto in un altro tempio circolare.
Prometeo ora è quasi felice; non vive però l’estasi della creazione, bensì quella più intima
della paternità. Avverte di tanto in tanto una diminuzione della propria pienezza, cui
corrisponde l’erratica emanazione di un sovrappiù di luce e bontà, sostanziosa
eccedenza elargita come un vitale nutrimento al giovane che non ha più accanto. Il
nuovo straniero, ora avvezzo alla realtà, solitario si è imbarcato nel mondo. Ecco
sorgere di nuovo l’illusione che la creazione sia opera umana, che quei distratti
sospiri onirici possano fondare un universo 452.
451
Ricorda J. Alazraki (in Borges e la Kabbalah cit., 23) che il procedimento per tramite del quale nell’anima
nascitura si infonde l’oblio della creazione è un’idea che Borges condivide con la mistica ebraica; in particolare è
sviluppata nel Midrash sulla creazione del bambino, commentato da Eleazar di Worms. Tuttavia l’inziazione del figlio
qui evocata riecheggia assai da vicino, anche in virtù della luce onirica che illumina la scena, il rito del buddhismo
tibetano, descritto nel Tantraloka, nel quale il sognatore maestro e il discepolo, che dormono accanto al fuoco del
sacrificio e condividono lo stesso flusso di coscienza, concepiscono un identico sogno che ha l’effetto di creare
oggetti materiali prima inesistenti. Cfr. W.D. O’Flaherty, Dreams Illusion and other Realities, Chicago, 1984, 27, e
Abhinavagupta, Luce delle sacre scritture (Tantraloka), Torino, 1972: sul sogno condiviso tra maestro e discepolo,
cfr., p.e., pp. 497-498.
452
Nel cap.4) della seconda sezione, a margine del commento sulla intervista -relazione di J. Alazraki, è trattato il
tema della creazione attraverso l’emanazione onirica di Dio e dell’uomo. Mi pare che in questo racconto il passaggio
ora accennato anticipi fugacemente quell’idea di Borges (la relazione in questione è cronologicamente successiva a
Le rovine circolari).
171
La serenità del demiurgo è però guastata dall’appagamento dello scopo raggiunto e dalla
melanconia per la separazione dal figlio, che, non lontano dal padre, inconsapevole
fantasma alle prese con uguali rovine, forse sta già ripercorrendo la sua stessa vita..
Sono passati anni da quando la peripezia è incominciata e la lunghissima gestazione ha
finalmente compiuto il suo corso, il progetto pare essersi compiuto, l’antico sogno
realizzato.
Se volessimo utilizzare come chiave di lettura del testo, fra le molte proposte, quella del
romanzo di formazione, certamente ardita, se non altro perché applicata a un
racconto che non si sviluppa per più di sei o sette pagine, si potrebbe sostenere con
qualche ragione che il protagonista della storia a questo punto sembra avere portato
a temine la sua evoluzione personale. Conosciuto come spericolato e tracotante
avventuriero, quindi ammirato nelle vesti di colto maestro della dialettica, pur
impegolato nelle panie di un narcisismo amaramente sterile, con il favoloso arbitrio
della scrittura sgorgata dalla scrittura lo abbiamo accompagnato a riguadagnare un
rapporto più equilibrato con la natura e con l’Alterità, lo abbiamo seguito nella ricerca
di un più sincero afflato mistico, purificato, grazie a una cooperazione più convinta e
devota con la divinità, dagli eccessi di una teurgia esclusivamente votata al versante
magico; infine abbiamo assistito, per così dire, alla sua crescita affettiva, culminata
in questa strana paternità, fonte di estasi e melanconie.
Certo, paradossalmente, l’uomo taciturno può anche apparire sempre immobile, vincolato al
punto di partenza. E’ vero, sembra essersi liberato della sua solitudine originaria, ma
solo per assecondarne un’altra, ancora più dolorosa: in principio essa connotava il
suo
stato
iniziale
e
si
manifestava
quasi
come
una
scelta
ostentata
e
orgogliosamente rivendicata, mentre ora sorge dall’abbandono, dalla separazione,
dal timore della frustrante inutilità di ogni gesto, dall’angoscia sottile che promana
dalla fragilità di quel figlio fantasma, tanto evanescente eppure adorato: amato, si
potrebbe dire, scomodando una banalità illuminante, con la stessa ostinata passione
con cui si amano i sogni.
Si avverte la sensazione, che con l’ermeneutica divinatoria ho buon gioco nel dire profetica,
di un possibile ripetersi, nella vita del figlio, della peripezie paterne. Riaffiora
l’incubo, mai definitivamente cacciato, dell’Eterno Ritorno 453.
453
.”A volte l’inquietava un’impressione che tutto quello fosse già avvenuto”. (J.L. Borges, Le rovine circolari cit.,
663.
172
La cifra simbolica che in conclusione pare sempre coesistere con tutte le altre evocate e infine
prevaricarle, il Nome che non abbandona mai il nostro straniero, è in fondo quello
eroico e sofferente di Sisifo, figura centrale nel repertorio della mitologia esistenziale
di Camus, straordinario emblema, arcaico e moderno a un tempo, della delusa
frustrazione dell’uomo, ma anche, su un piano diverso, sublimazione dell’estasi
mistica
che
lo
sprofondamento
nell’abisso,
pur
amaramente
desolatamente destituito di ogni positivo esito, può ridestare
reiterato
e
454
.
Ma questo brano offre anche un contributo importante nella decifrazione della concezione
borgesiana della divinità, per quanto attiene soprattutto al versante propriamente
“estetico”.
Un dio, che ha ascoltato la disperata invocazione dell’eroe dai mille volti, si è rivelato. Non
può essere, inconfondibile nei suoi tratti 455, che il dio di Borges: una parola
infinitamente significativa, una sola cosa, cifra e chiave evocatrice di tutte le altre
comunque alluse456, una divinità bella e soave come una rosa, ma anche sublime
terribile e minacciosa come il Leviatano, la tigre, la tempesta; infine incomprensibile
e grandiosa come la misteriosa divinità che poeticamente si manifesta a Giobbe 457.
454
Alludo al citato Mito di Sisifo e al rammentato “romanzo mistico” di Bataille, L’esperienza interiore. Non è
superfluo sottolineare, nel tentativo di cercare nuove allusioni e rimandi, che uno dei più celebri romanzi di Camus
porta fra l’altro l’emblematico titolo Lo straniero.
455
Osserverei che nella concezione della divinità in Borges, almeno quale è rappresentata in questo racconto, non
tanto o non solo, come potrebbe suggerire la prima impressione, si svela un fin troppo ovvio e abusato panteismo, ma
piuttosto si manifesta una netta predilezione per la figura della metamorfosi e della ripetizione. Vedo, insomma, più
Ovidio e Zenone di Spinoza. In questa prospettiva appare emblematico il simbolismo del fuoco, che mi pare
pertinente a questa idea insistita di trasformazione e reiterazione. Mi riferisco qui, se l’espressione può considerarsi
corretta, a una fenomenologia del divino, e non a un più profondo e meditato sentimento della Divinità nell’opera di
Borges, tema assai più complesso e degno di studio molto più approfondito. In ogni modo in questo lavoro (e nelle
considerazioni non ancora svolte) si cerca di offrire qualche piccolo spunto di riflessione anche su questo argomento.
456
Come già rilevato altrove, sia nella mistica ebraica sia nella produzione letteraria di Borges si esalta la polisemia
sconfinata della parola-cosa. Cfr. The unending rose, da La rosa profonda., in Tutte le opere cit., Vol. 2, 745: “ Sono
cieco e ignorante, ma intuisco / Che sono molte le strade. Ogni cosa / E’ infinità di cose. Sei musica, / Firmamenti,
palazzi, fiumi, angeli, / Rosa profonda, illimitata, intima, / Che Dio indicherà ai miei occhi morti.”
457
Il tema è stato accennato nel commento sulla conferenza di Borges La cabala (Sez. II, cap.2). In particolare le note
61 e 62 alludono alla concezione della “divinità mostruosa”, legata anche all’immagine della grandezza
incommensurabile e imperscrutabile di Dio quale è delineata nel Libro di Giobbe, una delle letture preferite dallo
173
E’ il ritorno, possente e tonante, del Fuoco, non distruttore, non assassino, come quello che
aveva illuminato la scena con i suoi ultimi bagliori molti anni prima, quando Ulisse
l’avventuroso, il figlio di Sisifo458, si era inoltrato per la prima volta fra le rovine del
tempio distrutto, dopo avere abbandonato la terra feconda 459.
E’ il fuoco di Eraclito460, del Dio dell’Esodo461, è il figlio di Ahura Mazda462, è l’Unità del
molteplice, è infine il Principio, l’Uno e l’Unica Divinità.
scrittore argentino.
458
Cfr. n. 288 e cfr. Enciclopedia dell’antichità classica cit., voce Ulisse, 1469.
459
Nel terzo capitolo di questa sezione è ampiamente trattato il tema del fuoco distruttore (cfr. le note di riferimento,
in particolare 306 e 309). In quella fase del viaggio immaginario del protagonista l’interpretazione proposta esaltava,
traendole dalla polisemia di un simbolo inesauribile, le peculiarità, per così dire, “negative” e allusive della
distruttività e della circolarità (intesa come reiterazione della catastrofe ciclica) pertinenti all’elemento igneo. Ora il
fuoco riappare, a mio avviso, prospettandosi, nell’economia di questo brano, come un segno assai diverso, come cifra
dell’unità del molteplice, della permanenza nel divenire.
460
“..Il fuoco esprime in modo paradigmatico le caratteristiche del perenne cangiamento, del contrasto, dell’armonia.
Il fuoco infatti è perennemente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è incessante trasformazione in
fumo e cenere, è, come in modo perfetto dice Eraclito del suo Dio Bisogno e sazietà. In altri termini è unità di
contrari, è bisogno delle cose e in tal senso fa essere le cose; è sazietà delle cose e, in tal senso, distrugge e fa morire
le cose.” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Vol. 1, Orfismo e presocratici naturalisti cit., 115)
461
“Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di
notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte .” (Esodo, 13.21, in La
Bibbia di Gerusalemme cit., 153). Cfr. più ampi riferimenti sulla frequenza di questa cifra simbolica anche nella
mistica dello Zohar, alla nota 309.
462
La religione monoteista iranica attribuisce al fuoco la qualità “traslata” di figlio di Ahura Mazda. Tutto il creato è
figlio (putra) ossia opera di Ahura Mazda. D’altra parte putra significa propiamente “quintessenza purificatrice”, che
allude all’altissimo compito affidato a Atar, il fuoco divino. Dunque anche in questa antichissima religione il fuoco
assolve a una funzione positiva, accostata alla vitalità che evoca. Atar, pur essendo creato, è comunque strettamente
legato all’epifania della divinità, della quale, per così dire, manifesta le qualità purificatrici. Il fuoco è invocato anche
per procacciare salute, virilità, benessere e regalità: “Dammi, Atar, figlio di Ahura Mazda, benessere immediato,
dinamica felicità, sostentamento, salute, abbondanza e pienezza di vita, ricolma di zelo, saggezza, santità, prontezza
174
Tuttavia, osservato dalla prospettiva del nostro demiurgo, è anche il vivido e misterioso
elemento che consente a Prometeo di trascendere finalmente l’insufficienza del rozzo
golem per creare e civilizzare Adamo.
In questo senso, del tutto differente, la rappresentazione è ribaltata. L’epifania del Fuoco non
è necessariamente segno della presenza di Dio. Al contrario, Prometeo-Anthropos 463,
la divina decade della gnosi e della mistica ebraica, è colui che, dispensando questo
strumento prezioso sottratto agli dei, immateriale e materiale nello stesso tempo,
consente all’uomo di abbandonare le desolanti condizioni primordiali, in cui vegetava
simile a fantasma di sogno464, per ascendere al nuovo rango di creatura immagine di
Dio.
di linguaggio, intelletto, consapevolezza per la mia anima; e poi saggezza divina, che è esauriente, grande,
imperitura”. (da Atas Niyayes, 10, in Avesta, a cura di Arnaldo Alberti, Torino, 2004, 277).
463
Già si è accennato (cfr. n. 321) al Prometeo demiurgo. K. Kerényi, in Miti e misteri cit., 192, lo accosta, per la
stretta relazione con l’umano che caratterizza questa strana figura mitologica, al dio degli Gnostici che in greco si
chiamava Anthropos, “”uomo”” o “”primo uomo””. Questo parallelismo ne autorizza ovviamente un altro, legato
alla Cabbala e, in particolare, alla nota, e più volta rammentata, figura dell’Adam Qadmòn, che contiene, circoscrive e
riflette il mondo delle Sephirot. Sui rapporti fra l’Anthropos gnostico e l’Adamo primordiale nella Cabbala, cfr. M.
Idel, La Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 115 ss.
464
Nell’omonima tragedia di Eschilo, Prometeo racconta al coro come erano gli uomini prima che lui li avesse
perfezionati.” (K. Kerényi, Miti e misteri cit., 390. Ecco i versi nella traduzione (di M. Undertsteimer) del passo
riportata a p. 391 dell’opera citata. Si ritiene opportuno evocarli in quanto echeggiano uno stato “larvale” e onirico
degli uomini prima dell’intevento salvifico dell’eroe mitico: “Udite, invece, le infelicità regnanti fra gli umani, come
un tempo erano inetti prima che chiarezza di spirito e dominio della mente a loro dessi. Questo ora dirò, non perché
abbia un biasimo per gli uomini, ma per mostrare la mia benevolenza nel concedere loro questi doni. Essi, in
passato, pur vedendo, invano vedevano, ed udendo non udivano, ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita
confusamente e a caso ogni azione compivano, né di case intessute di mattoni e al sole esposte avevano un’idea, né
dell’arte di lavorare il legno; sotto terra abitavano come formiche rapide nel più profondo degli antri ove il sole non
giunge”.
175
Quale orizzonte di senso è più plausibile? Quello aperto al Dio unico soccorritore, che, dopo
avere sciorinato il suo intimo dispiegarsi in innumerevoli forme coeve, le accoglie
tutte in sé e si rivela definitivamente nel Fuoco, segno emblematico del paradossale
contrasto tra divenire e permanere, molteplicità e unità, principio e fine, vita e morte
465
? Quello dunque destinato al solo Essere che si è svelato l’Onnipotente in grado di
completare l’opera dell’inadeguato demiurgo? Oppure è il nostro eroe dai mille volti,
che nelle vesti numinose di Prometeo Anthropos (l’Adam Qadmòn della Cabbala)
strappa la fiamma vivificante alle divinità sconfitte (sono memorabili e significativi a
questo proposito gli dei incendiati e morti466), liberando il golem inetto, simile a
fantasma onirico, dal più profondo degli antri, ove sole non giunge?
Credo che la storia letteraria di Borges possa condividere entrambi i punti di vista.
Da un lato, la vertiginosa ricerca dell’origine, del Principio, di ciò che precede o sta oltre
l’impropriamente detta “realtà”467, un’inquisizione, come si è sottolineato, tanto
familiare anche alla mistica ebraica, rende verosimile la credenza del nostro scrittore
in quell’unica parola infinitamente significativa, nell’Aleph, che inevitabilmente, per
definizione, postula un inizio; sappiamo bene, lo insegna la Cabbala, che la nostra
arché scivola nelle profondità abissali del Nulla, e di tale terribile ambiguità è cifra
simbolica proprio questa strana lettera dell’alfabeto sacro, incerta e divisa tra silenzio
e suono, tra l’essere e il ni-ente. Tuttavia Aleph è segno anche dell’Unità e del
Principio e questo autorizza a pensarla come Origine: il primo movimento linguistico
che promana ex nihilo468.
465
Sulla valenza simbolica del fuoco nella mistica ebraica, cfr. anche G. Busi (Simboli del pensiero ebraico cit, 60
ss..).
466
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 660. E’ un passaggio del secondo brano di testo, esaminato nel terzo capitolo
di questa sezione.
467
Dice bene H. Bloom, come sottolineato altrove, la presunta realtà (Cfr. Come si legge un libro cit., 78).
468
“Il nome di Dio è l’unità del movimento del linguaggio, che esce dalla radice primordiale e si ramifica.” (G.
Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 410).
176
Dunque non è arbitrario supporre che nel pensiero di Borges, quale si manifesta nel nostro
testo, possa aleggiare un unico Dio, principio della parola-cosa, inizialmente dato
nella purezza ineffabile dell’indicibile Aleph; una lettera archetipo, che in seguito, per
così dire, si “degrada” e frammenta nel tempo del mondo e del racconto. Si ipotizza
una Divinità
le cui forme
infinite
non oscurano
la sostanziale
indivisibilità
trascendente, risolvendosi nell’immanenza di modi innumerevoli che non ne
tradiscono l’incommensurabile Unità 469.
Il nostro autore, peraltro, come i mistici, scrive nel segno del paradosso.
Ecco perché mi pare altrettanto plausibile il ribaltamento di prospettiva che trasforma il
demiurgo, emancipandolo dagli invalicabili limiti umani, nel titanico Prometeo che
elargisce il fuoco agli uomini per dotarli di chiarezza di spirito e dominio della mente;
in altre parole, per donare loro un’anima, completandone la creazione.
Nulla esclude infatti, come si è già visto, nella concezione del divino prospettata dal nostro
autore, che Dio e uomo possano accorciare enormemente la distanza che li separa
frequentando un comune territorio onirico. Proprio l’atto creativo li unisce,
assecondando un analogo processo di emanazione, legato, nel pensiero borgesiano,
a un prodigioso sognare che negligentemente produce universi 470 come voci dal sen
fuggite. Si era osservato che quell’annullamento delle differenze 471 alludeva a un
possibile giganteggiare dell’uomo (un “titanismo” che si addice quasi alla lettera alla
figura mitica del nostro Prometeo) correlato a una corrispondente “degradazione”
della divinità.
469
Tale concezione ho cercato di sviluppare nella precedente narrazione liberamente ispirata agli immaginari pensieri
del protagonista. Ho anche rilevato come la raffigurazione del divino in Borges, se pure ispirata a una sorta di
“panteismo filosofico” non chiaramente nè rigorosamente delineato, sia tuttavia anche caratterizzata, sotto il profilo
della rappresentazione letteraria, e dunque a un livello meramente “descrittivo”, dalla tendenza ad accentuarne il
dinamismo metamorfico.
470
Cfr. cap.4) della II Sezione.
471
Ecco alcuni versi di una poesia giovanile di Borges in cui si avverte l’accorciamento delle distanze: “ Credo che le
mie giornate e le mie notti eguaglino in / povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle / di tutti gli uomini.” (La mia
vita intera, da Luna di fronte, in Tutte le opere cit., Vol.1, 127).
177
Quell’orizzonte ermeneutico ritorna, quindi, assegnando nuovi ruoli alle parti, consentendo
all’eroe dei mille volti, nei panni prometeici, di far nascere davvero l’uomo
accompagnandolo dall’oscurità alla luce, per liberarlo così definitivamente dall’amorfo
stato larvale di golem inetto e dormiente, di fantasma di sogno.
Tuttavia noi sappiamo che il “neonato” de Le rovine circolari è sì figura umana, ma è anche
sogno: è in definitiva una strana sospesa figura di uomo -sogno.
Sorge un interrogativo.
Questo scenario deve essere letto in senso “riduttivo”, ossia come la parabola letteraria del
limite invincibile che separa e circoscrive nettamente la cosiddetta realtà 472,
segregandola in modo definitivo dal ben diverso vissuto del sogno, degradato e
illusorio prodotto dell’impotente immaginazione umana, alla quale sarebbe riservata
solo una creatività, per così dire, imitativa, mimetica, e non originaria?
Oppure il territorio onirico è l’unica geografia universale, il solo ambito percorribile,
l’evanescente fondamento del Tutto che non può confrontarsi con alcunché di
differente (sogno o son desto?), in definitiva il Paese di ognuno, dal quale nessuno,
neppure la divinità, può evadere?
Si ritorna dunque a uno degli interrogativi fondamentali: a chi appartiene la parola originaria?
6) La fine del sogno
Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni,
altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli
parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco
senza bruciarsi. Il mago ricordò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte
le creature che compongono l’orbe, il fuoco era l’unico a sapere che suo figlio era un
fantasma.
472
La realtà è intesa qui nella sua espressione di evidenza “cartesiana” dell’autocoscienza propria e del mondo, la cui
esistenza sarebbe garantita dal suo stesso artefice, l’unico possibile, quel Dio demiurgo che non ci può ingannare:
“Sono l’unico uomo sulla terra e forse non c’è terra né uomo. / Forse un dio mi inganna. / Forse un dio mi ha
condannato al tempo, quella lunga illusione. / Sogno la luna e sogno i miei occhi che vedono la luna../ Forse non
ebbi ieri, forse non sono nato. / Forse sogno di aver sognato. / sento un po’ di freddo, un po’ di paura..” (J.L. Borges,
versi scelti da Cartesio, in La cifra; Tutte le opere cit., Vol. 2, 1157).
178
Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio
meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione
di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno
di un
altr’uomo; che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i
figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è
naturale che il mago temesse per l’avvenire di quel figlio, pensato viscere per
viscere, lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete.
Il termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Prima (dopo una
lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso
sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il
metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poiché si ripetè ciò che era
già accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte del
fuoco. In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio
concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell’acqua, ma comprese che la morte
veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro
ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono
senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore,
comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo .
6.1) Premessa
Alla fine succede ciò che forse oscuramente si era presagito al primo svelarsi di quell’esergo
così profetico e inquietante (“E se smettesse di sognare?”)
Come si sapeva, siamo fatti della stessa stoffa dei sogni. Tuttavia questa immaginifica
metafora teatrale non deve essere letta come un mero traslato: rappresenta, al contrario, la
realtà, “il mondo” del racconto; certo uno dei tanti possibili, ma, particolare non trascurabile,
tra i molti è proprio quello eletto da Borges.
Ora non deve importare più nulla di tutti gli altri universi, in astratto dotati di credenziali
altrettanto plausibili e forse per noi meno inquietanti, che avrebbero potuto ispirare al nostro
autore soluzioni narrative diverse.
Sul piano squisitamente letterario siamo al cospetto di uno scioglimento della storia
assolutamente coerente e legittimo: forse, come si era detto, impossibile solo nell’attualità, a
differenza delle finzioni utopiche, non realizzabili in alcuno dei mondi possibili 473.
473
Si tratta della già citata teoria della finzionalità di Baumgarten. (Cfr. L. Dolézel, Poetica occidentale cit., 58-59). Si
è più volte sottolineata (e si è dedicata una lunga divagazione a questo tema nel cap. 2 della III sezione) la centralità e
179
E’ una conclusione tragicamente consequenziale alle premonizioni che si erano avvertite ed è
strettamente intrecciata alle trame letterarie incessantemente tessute dal nostro autore.
Non
mi
riferisco
solo
all’ultima
relazione
dello
scrittore
argentino
sulla
Cabbala,
particolarmente originale, come si era notato, soprattutto nel trattare il processo della
creazione, legato indiscutibilmente a proiezioni - emanazioni oniriche di Dio, dell’uomo o della
cieca volontà cosmica di Schopenauer .
Alludo anche all’opera poetica, cui accennerò fra poco.
Soprattutto, ma da Borges non ci potrebbe attendere nulla di differente, è un finale
inesauribile, perché nel momento in cui il cerchio si chiude, ci si trova nuovamente “gettati”
all’origine: è cosa ovvia, perché proprio la circolarità, evocata dal titolo del racconto,
rappresenta una delle chiavi ermeneutiche principali del testo.
Gli orizzonti di senso che si aprono sono tuttavia molteplici; m’illudo che le digressioni, gli
arbitri, le reiterazioni spesso prodigate in questo lavoro possano trovare una legittima
collocazione. Tuttavia non è lecito ambire ad alcunché di stabile o conclusivo, né presumere
un impossibile, quanto forse scorretto, “tout se tient”. E’ molto discutibile, a mio avviso,
offrire interpretazioni univoche (se pure in assoluto fosse davvero possibile farlo) anche
quando un testo apparentemente “facile” paia prestarsi a semplificazioni 474. Tentare poi tale
operazione quando si è alle prese con scritti di Borges e con la mistica ebraica sarebbe
pretesa folle.
legittimità dell’interrogativo “Sogno o son desto?”
474
Evidentemente il brocardo giuridico in claris non fit interpretatio non può avere successo nell’ermeneutica
applicata alla letteratura. Tanto meno avrebbe fortuna nel mondo di Borges, che, come si è detto, nega l’effettiva
originalità di qualsiasi opera e in sostanza attribuisce alla comunità letteraria – comprendente anche il lettore – il
compito di riscrivere, paradossalmente, le stesse cose.
180
E’ forse preferibile la meno proterva pazzia che, saputo quanto barocco è il mondo 475, si
diverte ad almanaccarne coraggiosamente anche gli esiti più improbabili.
Se così è, e lo credo fermamente, posso prospettare qualche spunto.
Dico subito che la prima riflessione, in parte anticipata, trae origine, per così dire, dalla
stessa struttura profonda del racconto, che trova il suo orizzonte più facilmente riconoscibile
nella circolarità.
Il secondo piano ermeneutico vive soprattutto dell’indagine sul rapporto, a lungo dibattuto
in questo lavoro, tra l’uomo e la divinità, e impone di ampliare brevemente il tema del
racconto raccordandolo, quasi a colmarne presunte “lacune”, a altre opere di Borges. Si
tratta, se si volessero cercare analogie con l’altro versante dei nostri studi, di procedimento
interpretativo ben conosciuto dai maestri ebrei dell’esegesi biblica.
Il terzo profilo si richiama, sviluppando in sostanza il secondo, a una tesi mistica messa in
luce soprattutto da M. Idel.
Il tema finale lo riservo, per giustificarne qualche “pirotecnica” arditezza comparatistica 476 e
per la sua portata più generale, alle considerazioni conclusive della prossima sezione.
6.2) La circolarità
Il tempo della storia si dilata ancora. Trascorrono forse lustri e Sisifo – Prometeo, pur
consapevole di avere dato vita a una mera parvenza, peraltro anatomicamente compiuta e
divinamente animata, ha comunque raggiunto lo scopo al quale si è votato e giace immerso
nei suoi solitari sonni estatici.
Possiamo immaginare che ora, esaurito il compito, i suoi sogni siano nostalgici e gli pesi
l’assenza del figlio pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una
notte segrete477.
475
Posso appellarmi non solo a Borges (“E’ strana la sorte dello scrittore. In un primo tempo è barocco,
vanitosamente barocco, ma, col passare degli anni può attimgere, se le stelle sono favorevoli, non la semplicità, che
non è niente, ma la modesta e segreta complessità.” Cfr. J.L. Borges, L’altro, lo stesso, in Tutte le opere cit. vol. 2, 7),
ma anche all’autorità di C.E. Gadda (scrittore tanto diverso dal nostro, quanto, per certi aspetti, non del tutto estraneo)
e alla sua prosa introduttiva a La cognizione del dolore (Torino, 1970, 236): “Ma il barocco e il grottesco albergano
già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume..”
476
Pirotecnica non certo per spettacolarità, ma perché artificiosa, certamente inoffensiva e in ogni caso del tutto
trascurabile.
477
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.
181
Ma improvvisamente, dopo questa lunga sospensione temporale senza cronache, un giorno
qualsiasi, a mezzanotte due rematori dal volto indecifrabile, lo svegliano e gli raccontano di
un uomo, dedicato al culto del fuoco, che, pur frequentando le fiamme, ne resta
miracolosamente immune. Non può essere che il figlio – fantasma e il pensiero del padre è di
sollievo – per la prerogativa magica che preserva la sua creatura – e di dolore, perché teme
che il giovane possa saggiare la stoffa evanescente nella quale consiste, riuscendone
umiliato.
Intanto i due navigatori - narratori, i soli personaggi, all’apparenza, “compiutamente reali”
del racconto diversi dal protagonista (per quanto senza volto e privi di identità) non possono
non richiamare l’esordio della storia, e l’itinerario notturno intrapreso all’origine dal nostro
eroe con la fragile canoa incagliatasi precocemente nel fango sacro, l’odissea dell’uomo
taciturno impegnato forse nel tentativo di eludere le peripezie che lo avrebbero coinvolto per
raggiungere subito l’ascesi mistica e l’apoteosi divina nelle vesti regali dell’egizio Ra,
prometeico dispensatore di benefici all’umanità.
Indubbiamente è questo un altro sottile indizio478 della reiterata ciclicità della narrazione, che
tra poco troverà più esplicite conferme.
Un diverso aspetto479, l’evoluzione e la crescita etica del protagonista, è sublimato da questo
brano conclusivo.
Forse per la prima, e certamente per l’ultima volta nel racconto, il taciturno straniero, che
nella vita di veglia ha rotto il silenzio solo per pronunciare il nome poderoso480, esce da se
478
Si è sottolineato a lungo nel cap. 3 di questa sezione il tema della reiterazione, della ciclicità e dell’Eterno Ritorno
– anche con riferimento alla mistica ebraica del Sefer Temunà -, e sono stati prospettati i riflessi di questa struttura di
pensiero sui procedimenti creativi mai realmente o completamente soddisfacenti attuati dal protagonista. Le
considerazioni svolte sono, come tutte le altre di analogo contenuto, richiamate ora, in questa sorta di redde rationem
– sia pure non impegnativo - degli spunti di volta in volta enucleati.
479
Tra i molteplci orizzonti di senso che ho cercato di esplorare in questo commento, uno è certamente quello, per così
dire, “esistenziale”, legato, come si è detto, alla lettura del racconto come romanzo di formazione. Certamente, è
appena il caso di rilevarlo, taluni aspetti appena accennati (anche perché meno legati a rapporti con la mistica
ebraica), come quelli attinenti il significato della paternità per il protagonista sarebbero certamente meritevoli di
approfondimento in quanto comunque significativi nell’esegesi globale de Le rovine circolari. Basti pensare che il
demiurgo, sognando il figlio viscere per viscere, lineamento per lineamento, ha assolto a una funzione creativa, ove si
prescinda dallo scenario onirico, assoluta e completa, nella quale i confini tra maternità e paternità sbiadiscono.
480
Non per dialogare, dunque, non per comunicare, non per raccontare, ma per raggiungere uno scopo. Il protagonista
si mostra dialettico, come si è visto, nel sogno, ma nella veglia compie, al più, un atto che in linguistica è forse
182
stesso e si cala, animando il suo vivacissimo fervore intellettuale con un veemente
sentimento di affetto, nell’esperienza dell’Altro, del figlio sognato, e prova dolore: “Non
essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione
incomparabile, che vertigine!”481
Ora, se questo è l’orizzonte, poco importa, in tale contesto, indagare se l’atto creativo debba
essere attribuito a Dio, all’uomo o una Cieca Volontà. Si tratta in ogni caso – si torna a
riflessioni non nuove482 - di distratte emanazioni oniriche, dei prodotti casuali di un’assenza e
di una solitudine: che cosa può nascerne483? Probabilmente l’interrogativo è retorico, ma
perchè il figlio dovrebbe avvertire proprio “vertigine e umiliazione”?
Questi due termini hanno in comune l’abisso di dolore al quale guardano con tremore:
l’umiliazione, soprattutto se pensata nella sua accezione etimologica più propria 484, fa
sprofondare verso il basso, verso la terra.
classificabile come un’esortazione di natura pragmatica.
481
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.
482
Cfr. cap.4) della II sezione.
483
In questa prospettiva, forse la più tragica fra quelle che propongo, mi pare opportuno citare una prosa di Borges
(Metempsicosi della tartaruga, in Discussione, da Tutte le opere cit., Vol.1, 399): “Noi (la indivisa divinità che opera
in noi) abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo
nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto”.
In un racconto della raccolta Finzioni (Il miracolo segreto, in op.ult.cit., 743) così lo scrittore argentino: “Ricordò che
i sogni degli uomini appartengono a Dio e che Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano
chiare e distinte, e non si può vedere chi le ha dette, sono divine”.
Ancora il nostro nella prosa Everything and
nothing (in L’artefice, op. ult. cit., 1161): “La storia aggiunge che (Shakespeare, n.d.r.), prima di morire o dopo
morto, si seppe di fronte a Dio, e gli disse: “”Io, che tanti uomini son stato invano, voglio essere uno e io.”” La voce
di Dio gli rispose da un turbine: “”Neanch’io sono: io sognai il mondo come tu sognasti la tua opera, mio
Shakespeare, e tra le forme del mio sogno sei tu, che come me sei tanti e nessuno.””
484
“Dal latino humile(m), che secondo la famiglia etimologica, alla quale appartiene [da humu (m) terra] significa
propriamente “”basso, che non si alza da terra, quindi, poi, “”modesto, umile, oscuro””. (Cfr. M. Cortelazzo, P. Zoli,
Il nuovo etimologico cit., voce umile, 1763).
183
Oltre al timore di perdere una creatura sentita come esclusivamente propria 485, si esprime in
questo modo, così profondamente patetico, il dolore della degradazione, avvertito come un
sentimento legato alla finitezza (verrebbe quasi da dire alla finitudine) dell’uomo. Se questo
venire deprivati e diminuiti sia solo un fatto, per così dire, accidentale o contingente, legato a
un procedimento creativo limitato e penalizzante, noi non lo sappiamo, e in fondo poco
importa saperlo, perché, come si è raccontato – questa visione potrà trovare altrove
importanti conferme – l’essere sogno o “realtà”, persino la legittimità di un distinguo siffatto,
è un’alternativa (sogno o son desto?) il cui scioglimento probabilmente non offrirebbe decisivi
contributi nell’orientare il pensiero verso una più corretta impostazione della relazione col
nostro mondo (la cui natura continuiamo a ignorare) 486.
Restano il dolore, l’afflizione, il senso di inadeguatezza: nessuna “eventuale” realtà più
“reale” del sogno potrà attenuarli, nessun sogno meno “reale” della realtà potrà mai
emendarli487.
485
Come accennato, è innegabile che gli sforzi prodigati, peraltro destinati all’inanità senza l’aiuto del dio, per
pensare e formare quel figlio viscere per viscere, hanno creato nel demiurgo il convincimento, non alieno da
presunzione (e forse infondato alla luce delle considerazioni, basate anche su una lettura cabbalistica del testo, svolte
nel cap. 4 di questa sezione) di essere il solo genitore, madre-padre, della creatura. Se ne può plausibilmente dedurre
un senso di possesso ancora più fortemente accentuato di quello legato a una paternità “naturale”.
486
Cfr. gli spunti nel cap.2) della III sezione. Mi permetto, solo per chiarire questo passaggio, di citare una delle mie
riflessioni sul punto: “La cifra simbolica autentica del sogno non può non essere angosciosa spettacolare libertà
dell’immaginazione. Libera persino di immaginare se stessa come unica realtà fondante l’universo. Immaginazione
al potere, in quanto le diventa impossibile pensare a altro che se stessa, immaginazione pura. Immaginazione reale e
realtà immaginaria, perché, se il confine che separa i due territori è illeggibile, la distinzione è insensata. Non ha
senso porre la realtà, che può esistere solo differendo dall’immaginario, non ha senso porre l’immaginario, che può
esistere solo differendo dalla realtà”.
487
Condivisibile in parte (come lo sono tutte, proprio perchè non esiste “interpretazione autentica), per quanto, lo si
ribadisce, mi sembri non troppo rilevante il distinguo tra sogno e “cosiddetta realtà”, anche l’intepretazione di P.
Quaglia (nella pregevole Una lettura filosofica dei racconti di J.L. Borges cit., 42): “Purtroppo la stessa natura
umana, che egli crede di avere oltrepassato, lo riporta a un modo d’essere che è caratteristica di ogni uomo, cioè al
dolore che si prova nel vedere le sofferenze altrui. Egli sa che c’è un testimone che conosce le origini della sua
creatura, teme che essa possa scoprire la propria condizione di simulacro, la propria irrealtà”.
184
In definitiva, mi piace – o trovo più fecondo - pensare che il demiurgo soffra dell’illusorietà o
della vanità, se si vuole, della condizione umana “in quanto tale e in generale”,
prescindendo, per così dire, dal suo statuto ontologico-esistenziale e dunque dalla
considerazione, che mi pare più pertinente all’importante ma distinta prospettiva del
rapporto affettivo paterno488, della fragile stoffa onirica in cui consiste il figlio.
O meglio, se si preferisce, il sogno è in questo caso parabola, emblema, cifra simbolica di
tale condizione.
La sofferenza, infatti, a mio avviso, nasce altrove per assumere una dimensione più
universale: sorge - ecco di nuovo Sisifo immortale – dal dolore disperante della frustrante
ripetizione, dalla percezione della vanità e, se volessimo utilizzare una categoria del
pensiero buddista, dell’impermanenza, che travolge le cose senza risparmiare neppure il Sé,
la cui inconsistenza sta per rivelarsi in modo così netto e inconfutabile nella conclusione
narrativa489.
L’umiliazione e la vertigine scaturiscono dalla reiterazione del dramma catastrofico
dell’Origine, dall’incessante mise en abyme che pur spalancandosi vertiginosa solo nella
frase finale del racconto490, tuttavia non giunge inattesa, perché è preparata da tempo ed è
annunciata dai segni inquietanti e spettacolari che il nostro autore, come un drammaturgo
elisabettiano, prodiga senza risparmio.
La siccità, una nube remota, un cielo insolitamente rosa (come la gengiva del leopardo,
488
Aspetto certo importante, ma non unico. Secondo le prospettive ermeneutiche abbozzate, anche questa relazione
gioca un ruolo rilevante nella crescita etica del personaggio, evidenziandone, peraltro, anche i limiti.
489
Nel trattare le quattro nobili verità su cui si fonda l’etica buddista, Beolchi (in Introduzione alla filosofia indiana,
Milano, 2004, pp. 214-215) ricorda che dei livelli di sofferenza (prima nobile verità), il secondo è legato alla
percezione della vanità e dell’impermanenza delle cose. A ciò aggiunge che “infine un terzo livello di sofferenza si
lega al fatto che noi stessi siamo impermanenti e che non esiste nulla che si possa chiamare “”sé”” o “”anima””.
Ciò che chiamiamo”” sé”” è una combinazione di forze fisiche e mentali. In contrasto non solo con lo spiritualismo,
ma anche con la psicologia materialista, il Buddhismo afferma che i cinque insiemi o aggregati costituenti quella
combinazione di forze fisiche e mentali che chiamiamo sé sono essi stessi inesistenti. Lo stesso vale per il concetto di
“”sé””. Esso pure – in quanto concetto – è prodotto di una di quelle forze.”
490
“Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava
sognandolo”. J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.
185
nulla di più borgesiano), il fumo, la fuga delle bestie, e infine il fuoco devastatore, assassino
degli dei491.
Lapidaria la frase successiva (è a mio avviso una sorta di prima conclusione del racconto 492):
“Poiché si ripeté ciò che era già accaduto nei secoli”. 493
La narrazione potrebbe terminare a questo punto: la conclusione è infatti quasi ridondante
se si assecondano le attese create dall’orizzonte di senso proposto nel segno della
ripetizione. Noi sappiamo, dovremmo sapere – lo stesso esergo de Le rovine circolari ne è la
chiave
–
che
anche
l’eroe
dai
mille
volti
è
illusorio 494: solo
il
sogno,
territorio
dell’immaginario, o solo il suo essere un dio proteiforme, come pure si è ipotizzato 495,
possono spiegare le sue innumerevoli trasformazioni. Dilemma non da poco, che aleggerà
anche sulle altre letture che seguiranno.
Siamo coscienti per ora che la luce onirica proiettata dal Golem di Meyrink sulla produzione
letteraria di Borges ha trovato qui il terreno più fertile e che la sola geografia plausibile di
questa narrazione è quella del sogno.
In tale prospettiva, d’altra parte, il nostro autore ha anche offerto altri consistenti indizi
sulla stretta e inquietante relazione tra il predominante elemento onirico e la circolarità e
reiterazione degli eventi.
491
Segni che riportano alla memoria quelli che nel Macbeth preannunciano e accompagnano la morte di Duncan:
“Vecchio: “”Una cosa innaturale, come l’atto che è stato commesso. Martedì scorso un falco in pieno volo fu
artigliato da un gufo e ucciso come un topo””. Ross: “”E i cavalli di Duncan – si stenta a crederlo, ma è vero –
campioni di bellezza e velocità, son tornati selvaggi, e rotte le barriere son fuggiti liberandosi dal morso, come per
portare guerra al genere umano.”” Vecchio: “”Si son divorati fra loro, ho sentito dire.”” Ross: “”Così è. Li ho visti,
sbigottito, coi miei occhi.” (W. Shakespeare, Macbeth, II atto, scena IV, a cura di V. Gassman, Milano, 1983, pp. 6566.)
492
Secondo questa prima interpretazione proposta, fondata sulla circolarità, è la reale conclusione del racconto.
493
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.
494
Nella prospettiva ermeneutica sviluppata qui per prima, evidentemente il sogno, tema su cui spesso mi sono
soffermato, è sì proiezione dell’immaginario e atto creativo, ma è anche espressione e figura dell’illusorietà che una
concezione ciclica del divenire, chiave di interpretazione proposta in questo paragrafo, necessariamente comporta.
495
Nel capitolo precedente si è prospettata una duplice interpretazione, due sensi profondamente diversi dell’epifania
del Fuoco.
186
Se tutto si è ripetuto da secoli, ci avverte Borges, se il figlio non è altro che la proiezione del
sogno paterno, se la creatura, così limitata, è dedicata, come il suo creatore, al culto del
fuoco in un tempio uguale a quello destinato alla ineluttabile distruzione ciclica - lo stesso
luogo ora sacro, ora sconsacrato, in cui il demiurgo si è prodigato nell’emulare la divinità allora il nostro eroe dai mille volti, che in definitiva si è riprodotto per adempiere il suo
futuro, non può non conoscere anche l’identico passato già vissuto496: esso non ha più
misteri, perché quell’evanescente frutto della sua frenetica attività generativa gli ha svelato
la tragica circolarità del divenire, gli ha mostrato la fatale ruota che non cessa di girare, lo
ha posto di fronte all’impossibilità di eluderla, al dolore di non potervi sfuggire 497, ha
proclamato l’inanità di ogni sforzo, quel perenne patetico ritornare in cima alla rupe
impervia, carico del peso del mondo - come Sisifo, non diversamente da Prometeo drammaticamente conscio della certezza di vedere per sempre l’insostenibile masso di
nuovo rotolare in basso, verso la terra - humus: che umiliazione incomparabile, che
vertigine! Si potrebbe azzardare che quell’umiliazione consista proprio nella vertigine, che si
tratti, sintetizzando i due concetti, dell’umiliazione della vertigine.
496
“A volte, l’inquietava un’impressione che tutto quello fosse già avvenuto.” J.L. Borges, Le rovine circolari cit.,
662. Sempre il nostro autore (Per una versione dell’”I King”, da La moneta di ferro, in Tutte le opere cit., Vol. 2,
1011): “L’avvenire è altrettanto irreparabile / Quanto il rigido ieri. Non esiste cosa / Che non sia una lettera muta /
Dell’eterna scrittura indecifrabile / Il cui libro è il tempo”. Significativi anche questi versi di Borges (tratti da
Endimione a Latmo, in Storia della notte, in op. ult. cit., 1055): “E’ inutile ridirmi che il ricordo / Di ieri e un sogno
sono la stessa cosa”).
497
Nel cap. 3 di questa sezione è stato trattato il tema dell’Eterno Ritorno. Qui si sottolinea, se fosse necessario, come
la ciclicità del tempo e in particolare la trasmigrazione delle anime, per certi versa connessa, siano argomenti tutt’altro
che estranei alla mistica ebraica. Proprio i Cabbalisti si sono a lungo interrogati circa il significato della credenza
nello Ibbur: chance ulteriore di redenzione di un’anima non completamente malvagia, o, quasi a voler reiterare il
pensiero indu e buddhista, punizione? Sul punto si veda l’approfondita analisi di G. Laras, in La mistica ebraica e il
pensiero cabbalistico cit., pp. 99 ss.
187
Come eludere il terrore di questa parvenza di immortalità umbratile, fantasmatica e fittizia?
Solo se si lascia ad altri, o meglio a uno solo quel tragico dovere di sognare, solo se si
sfugge al ciclo incessante delle proiezioni oniriche, all’incubo della illimitata mise en abyme,
dell’infinito moltiplicarsi dei sogni nei sogni: solo così forse si può sperare di sfuggire
all’abissale umiliazione.
Chi sogna senza essere sognato è forse Dio o un volere cieco che sovrasta anche la divinità,
questo pare di comprendere: l’eroe dei mille volti, se la lettura prospettata è accettabile 498,
ha finalmente ora la certezza di non essere l’Origine 499.
498
Si è detto che quella proposta in questo paragrafo è forse una delle possibili letture, non certo la sola.
499
Sempre in linea con questa lettura, così il citato P. Quaglia (op. ult. cit., 43): “Il suo desiderio di onnipotenza non è
che un sogno, il quale si trova all’interno di un altro sogno e così via all’infinito. L’Assoluto sfuma in una lontananza
sempre più remota. In questo racconto il sogno perde il suo carattere di apertura verso la trascendenza e precipita in
una vera forma di delirio. Nel sogno deviato l’uomo crede di essere egli stesso un assoluto, crede di essere un
creatore che può tutto. La ricerca della trascendenza si capovolge in una demoniaca illusione: alla tranquilla estasi
del mistico si è sostituita una funesta esaltazione.” Nelle linee generali, e limitatamente all’ottica adottata in questo
paragrafo, si può condividere, come tante altre, questa conclusione, anche se mi pare che la “demonizzazione” del
protagonista sia forse segno di una radicalizzazione eccessiva. Intanto è innegabile, come sottolineato, che il
demiurgo sul piano etico “cresce” nel corso della narrazione; poi si riscontra sempre questa inesauribile tensione
esistenziale – l’inanità dello sforzo frustrante – che in ogni caso, a mio avviso, illumina, per così dire, di luce eroica il
percorso del nostro Sisifo-Prometeo. Secondo Alazraki (in Borges e la Kabbalah cit., 24), ciò che distingue in questo
racconto la concezione di Borges da quella cabbalistica sarebbe la prospettiva, propria solo dello scrittore argentino,
di considerare anche Dio un sogno: ma questa non mi pare una conclusione imposta da Le rovine circolari: per
adottarla mi pare inevitabile agganciare questa narrazione a altre opere di Borges (in particolare alla poesia Scacchi,
come si vedrà nel prossimo paragrafo).
188
Forse è consolato dall’idea che un giorno o l’altro, in un passato-futuro lontano, magari per
capriccio, qualcuno, chissà chi, smetterà di sognarlo, interrompendo il ciclo delle
emanazioni.
Essere Dio o morire, per non sognare più, per non essere più sognato 500, questo è il
problema501, ancora irrisolto.
6.3) Dio e l’uomo
La lettura proposta nel paragrafo precedente pone in luce solo quella certa particolare
“tonalità” ermeneutica di fondo, la ciclicità, che sembra prescindere dalle risposte ultime, o,
più modestamente, dagli urgenti e inquietanti interrogativi sorti di volta in volta
accompagnando Borges intorno alle Rovine circolari. Le domande alle quali alludo
presuppongono forse un percorso temporale schiettamente lineare, orientato, sul versante
narrativo, verso uno scioglimento della trama più riconoscibile.
500
In questo senso la liberatoria interruzione del ciclo delle nascite ( il samsara) nel pensiero indu e nel buddismo
potrebbe essere “rispecchiata” dall’interruzione, altrettanto agognata, del ciclo dei sogni nella concezione del cosmo
di Borges. Non si deve dimenticare peraltro che tale prospettiva dello scrittore argentino trova il proprio spunto
originario, come si è visto, nella cosmogonia ebraica, e in particolare nell’accezione emanatistica della dottrina delle
Sephirot.
501
Qui mi pare abbastanza puntuale rammentare non solo l’inizio del celebre monologo, ma anche un altro passaggio
non estraneo all’angosciosa prospettiva illustrata nel testo: “Essere o non essere è questo che mi chiedo: se è più
grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare
di guai e opponendosi li annienta...Morire..dormire, - dormire, sognare forse – Ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno
della morte quali sogni possano venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto, è la domanda che ci
ferma – ed è questo il dubbio che dà una vita così lunga alla nostra sciagura.” (W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena
I, vv. 56 ss., Milano, 1984, 113).
189
La circolarità, con la sua naturale vocazione alla reiterazione, tende ovviamente a non
chiudere il discorso, offrendo spunti di taglio, per così dire, prevalentemente “esistenziale”:
la vertigine della ripetizione e lo smarrimento abissale che, in una prospettiva destituita da
forme liberatorie di redenzione, sembrano avvolgere l’uomo senza risparmiare la divinità,
delineano l’orizzonte di senso dominante; inoltre il rilievo della distinzione tra le funzioni e la
natura - umana o divina - dei personaggi della storia sembra destinato, in questa
dimensione, ad attenuarsi e forse svanire.
Ciò che emerge è, in definitiva, la frustrante peripezia di Sisifo-Prometeo, uomo o dio poco
importa, illuminata dalla consapevolezza della tragicità dell’Eterno Ritorno.
Ci si può chiedere, dunque, se persista il medesimo senso di tragica inanità spostando
l’attenzione sul vero e proprio esito narrativo, sul “colpo di scena” finale del racconto: ” Con
sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un
altro stava sognandolo”.502
Per sviluppare nuove riflessioni su una conclusione annunciata sin dall’esergo – dunque, se
si vuole, per nulla sorprendente - occorre richiamare qualche altro testo di Borges,
ricorrendo questa volta all’opera poetica503, nella quale il tema del sogno di Dio, o meglio,
del più complesso e intricato rapporto tra divinità, uomo e tessuto onirico, è più
frequentemente proposto.
Ecco quindi una breve scelta antologica di versi tratti da composizioni diverse. Non è, né
può essere esaustiva, ma è, credo, sufficientemente significativa e, per certi aspetti, non
priva di connotazioni “ossessivamente” ripetitive, tanto da consentire forse l’individuazione
di un filo conduttore comune:
“Affinché possa io sognare l’altro
La cui verde memoria sarà parte
Dei giorni dell’uomo, io ti supplico:
Dio, mio sognatore, continua a sognarmi.” 504
Qui riecheggia l’epigrafe del nostro racconto (E se smettesse di sognare?) La geografia
onirica è l’unica disponibile: non esiste universo all’infuori di questo. La garanzia di esistenza,
502
J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 665.
503
Alcuni richiami, sullo stesso tema, all’opera in prosa di Borges sono evocati alla nota 486.
504
J.L. Borges, Nemmeno sono polvere, da Storia della notte cit., in op. ult. cit., 1061.
190
la cui precarietà è evidentemente allusa, è affidata solo alla volontà, in qualche modo fortuita
e paradossalmente “non intenzionale”, di produrre (o lasciarsi sfuggire) sogni, attributo di
pertinenza di un demiurgo divino, al quale è rivolta un’opportuna supplica, in fondo non
troppo dissimile dalla preghiera mistica del Cabbalista teurgo che coopera attivamente con
Dio per assicurare la persistenza, la conservazione, il rafforzamento del mondo 505.
Ci si deve però interrogare anche sull’altra, non meno illuminante, faccia della medaglia:
l’uomo in questi versi chiede a Dio di assicurargli, con il sogno, la sopravvivenza, perché solo
così può a sua volta sognare l’altro: innocente desiderio di “normale” evasione onirica,
oppure, come sembra più plausibile (e attestato altrove) delega di poteri creativi,
annullamento della distanza tra il divino e l’umano?
“Nella mia voce il metro del persiano
torni e rammenti che il tempo è la trama
ineguale dei sogni che noi siamo
e che il segreto Sognatore sperde.”506
Questa versione dello stesso tema sembra prestarsi a una lettura ancora più trasgressiva.
Come si sa, siamo fatti della stessa stoffa dei sogni, la cui trama, a sua volta, consiste nel
tempo, ossia nell’irreversibile allontanamento dall’Origine 507, nella frantumazione, attraverso
il molteplice, della parola iniziale, che “degenera” nel discorso narrativo (coincidente, nella
mistica ebraica, con l’atto creativo inteso come movimento linguistico), inesorabilmente
privato, nel suo progressivo fluire, della purezza dell’ineffabile onnicomprensivo Aleph.
Dalla scissione dell’Unità, da cui, in definitiva e inevitabilmente, promana, insieme al tempo,
l’opera letteraria, derivano dunque tutti i Mondi, tanto quelli “reali”, quanto quelli “finzionali”
– discriminazione, come si è detto, forse non necessaria: il territorio onirico - si è cercato di
sostenere - favorito dalla sua stessa ambiguità, costituisce la geografia comune, il luogo di
mediazione di tutti gli universi possibili.
505
Su questo tema ci si è ampiamente soffermati. Si rammentano, oltre alle menzionate pagine di Idel sulla teurgia
incrementativa, anche le puntuali citazioni di Safran, già ricordate: “Il mondo sussisterà grazie all’adempimento delle
mitzvòt, dei precetti della Torà che hanno le loro radici nella bontà.” (Torà Or, 27b, in A. Safran, Trad. Esot. Ebraica
cit., 158). “Un solo uomo può “”distruggere”” il mondo “”in una sola ora””, ma, “”in una sola ora”” può anche
“”acquisire il mondo””, prepararsi per il mondo in Alto.” (A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 196).
506
J.L. Borges, Rubaiyyat, da Elogio dell’ombra, in op.ult.cit., 299.
507
Questa è l’interpretazione (o una delle interpretazioni) dell’atto creativo proposta nel cap. 4 di questa sezione.
191
L’apertura audace s’intravede invece nel ruolo attribuito al Sognatore - evidentemente di
natura “divina” - dall’ultimo verso citato: il demiurgo “sperde” i sogni (che noi siamo). La
dispersione allusa si presta a una doppia interpretazione. Può semplicemente significare la
creazione attraverso le “distratte emanazioni” di Dio, argomento, come si sa, non nuovo e
trattato anche dal Borges “saggista”508. Può al contrario suggerire l’idea gnostica o eretica di
un’inedita divinità maligna, impegnata nel distruggere e vanificare le trame oniriche, creative,
tessute dall’uomo: una dispettosa Penelope, che di giorno, alla luce del sole, si diverte nel
disfare, rendendoli inefficaci e disperdendoli in labirinti inestricabili, i ricami demiurgici
imbastiti dai “pretendenti” umani, da quei suoi presuntuosi ma inadeguati imitatori. Un esito
ermeneutico non del tutto inattendibile, ove si pensi al Borges, come si è rilevato a suo
tempo, affascinato dalla gnosi dualistica: di nuovo in ogni modo una prospettiva che tende ad
annullare le distanze tra Dio e l’uomo.
“Vissero il loro destino come in un sogno, senza sapere
chi fossero o che cosa fossero.
Forse accade la stessa cosa a noi”509.
“Un libro, un sogno li avverte
che sono forme di un sogno già sognato
nelle terre di Bretagna.
Altro libro farà che gli uomini,
sogni essi pure, li sognino.” 510
Le due poesie parzialmente citate propongono nuovamente il versante passivo, quello più
angoscioso, del sogno – creazione: l’essere sognati.
Vertiginosi i versi di Inferno, V, 129: la simbiosi, più volte già evocata, tra creazione e opera
letteraria, e la mise en abyme nella quale sprofonda il territorio onirico, sono celebrate da
questa composizione, che ovviamente rievoca il canto dantesco di Paolo e Francesca; qui
sono due libri, il romanzo Lancelot contenente la forma archetipa della storia degli amanti
romagnoli, e la stessa Divina Commedia, le scintille che accendono il sogno, sostituendosi, in
508
Alludo ovviamente all’intervista – relazione di J. Alazraki (cap. 4, II Sez.).
509
J.L. Borges, I Gauchos, da Elogio dell’ombra, in op. ult. cit., 321.
510
J.L. Borges, Inferno, V, 129, da La cifra, in op. ult. cit., 1223.
192
un certo senso, al Dio demiurgo. Spunto fecondo anche per le riflessioni che seguiranno sulla
ricomposizione in un unico orizzonte di senso, cui pare di essere inesorabilmente destinati,
della sempre più artificiosa separazione fra creazione e letteratura - allusa nella mistica
ebraica dall’onnicomprensiva Torah - avvicinate dalla comune patria onirica: sognare
creando, creare sognando, creare scrivendo, scrivere creando, sognare scrivendo, scrivere
sognando.
In altre parole, sognare – creare – scrivere: tre azioni inseparabili che paiono determinare
effetti equivalenti, tre diversi modi di esprimere la stessa realtà, tre termini fra loro fungibili e
forse identici.
E’ questa alla fine la lezione di Borges?
“Dio muove il giocatore, questi il pezzo.
Quale Dio dietro Dio la trama ordisce
Di tempo e polvere, e sogno e agonie?”511
La temeraria conclusione di questa celebre poesia, una metafora non nuova sul gioco degli
scacchi, annulla certamente le distanze tra Dio e l’uomo, o quanto meno, relativizza
l’onnipotenza del demiurgo, al quale sembra residuare soltanto una certa superiorità
gerarchica, di natura, per così dire, “direttiva” nell’ordine dell’universo: una posizione
moderatamente privilegiata che si manifesta nella possibilità di determinare le mosse delle
sue creature. Si congettura, per dirlo con il nostro autore, che anche Dio non sia che il sogno
di qualcun altro (che umiliazione incomparabile, che vertigine!) o di qualcos’altro: forse di una
diversa sconosciuta divinità, di una causa primordiale, della Cieca Volontà di Schopenauer.
Naturalmente
le implicazioni
della concezione
prospettata
sono
varie,
inquietanti
e
paradossali; non solo Dio e l’uomo sono parimenti sudditi, sia pure di diverso rango, in una
comunità feudale che ignora il reale detentore del potere, ma tale prossimità, questa
condivisione di una Sorte, l’essere comunque parti distinte di un medesimo gioco giostrato da
un misterioso occulto regista, possono essere interpretati sia come una sorta di degradazione
della divinità, sia, per converso, come un’ascesa dell’uomo: Dio e la creatura a sua immagine
e somiglianza si contendono la sovranità nel comune territorio del sogno.
Non può essere taciuto infine il celebre El Golem, testo molto più recente de Le rovine
circolari, ma affine al racconto per l’argomento affrontato. Anche in questa lunga poesia
511
J.L. Borges, Scacchi, da L’artefice, in op. ult. cit., Vol.1, 1181.
193
Borges sviluppa in modo compiutamente narrativo il tema della creazione - generazione e, in
termini più crudi di quanto avesse osato in prosa, sembra soprattutto coltivare la sua vena
patetica nel descrivere una paternità intrisa di tenerezza e disgusto. In nota è riportato il
testo integrale512. Qui cito i versi conclusivi, che mi paiono i più significativi:
512
“Se è vero (come nel Cratilo è detto) / Che l’archetipo della cosa è il nome, / Nella parola rosa è già la
rosa / E il Nilo nelle lettere di Nilo. / Ci sarà di vocali e consonanti, / Un terribile Nome, che l’essenza / Di
Dio compendi e che l’Onnipotenza / Serbi in lettere e sillabe precise. / Nel giardino lo seppero le stelle / E
Adamo. Poi il peccato e la sua ruggine / L’han cancellato (dice il cabalista) / E le generazioni l’han
perduto. / Il candore e gli artifici dell’uomo / Non hanno fine. Sappiamo che un tempo / Il popolo di Dio
cercò quel Nome / Nelle veglie e nelle magie dei ghetti. / Non al modo di altre che una vaga / Ombra
insinuano nella vaga storia, / E’ verde ancora e viva la memoria / Di Leon Giuda, rabbino di Praga. /
Ansioso di sapere ciò che Dio / Soltanto sa, si dette a mutazioni / Di lettere e a complesse variazioni / E
disse alfine il Nome che è la Chiave, / La Porta, l’Eco, l’Ospite e il Palazzo, / Su un fantoccio che avea
con lente mani / Foggiato, per insegnargli gli arcani / Di quelle lettere e di Tempo e Spazio. / Sollevò il
simulacro i sonnolenti / Occhi e gli apparvero forme e colori / Che non intese, perdute in rumori, / E tentò
timorosi movimenti./ Gradatamente fu (come noialtri) / Prigioniero della rete sonora. / Di Prima, Poi, Ieri,
Frattanto, Ora, / Destra, Sinistra, Io, Tu, Costoro, gli Altri. /( Il cabalista che fece da nume, / La
mostruosa creatura chiamò Golem; / Verità sono che tramanda Scholem / In dotte pagine del suo
volume.) / Gli spiegava il rabbino l’universo / (questo è il mio piede, questo il tuo, la corda) / E ottenne, in
capo agli anni, che il perverso / Spazzasse almeno la sua sinagoga. / Ma forse s’era annidato un errore /
Nella grafia o pronuncia di quel Nome; / Ché nonostante l’insigne magia / Non imparò a parlare il quasi
uomo. / I suoi occhi, non d’uomo, ma di cane / E anzi più che di cane di cosa, / Seguivano il rabbino per
l’incerta / Penombra delle stanze di quel carcere. / Qualcosa di anormale era nel Golem, / Giacché al suo
passo il gatto del rabbino / Si nascondeva. ( Non lo dice Scholem, / Ma io attraverso il tempo l’indovino.) /
Alzando anch’egli a Dio mani filiali / Le devozioni del suo Dio copiava / O, stolido e ridente, si curvava /
In concave riverenze orientali. / Lo guardava il rabbi con tenerezza /E orrore. Come ho potuto (si disse) /
Dar vita a questo tormentoso figlio / Lasciando l’inazione che è saggezza? /Perché ho aggiunto alla già
infinita serie / Un altro simbolo? Perché alla vana / Matassa che in eterno si dipana / Ho dato ancora causa,
effetto e pena? /Nelle ore di angoscia e luce vaga /Sul suo Golem lo sguardo soffermava. / Chi potrà dirci
che cosa pensava / Iddio guardando il suo rabbino in Praga?” (Il Golem, da L’altro, lo stesso, in op. ult.
cit., 65).
194
“Lo guardava il rabbi con tenerezza
E orrore. Come ho potuto (si disse)
Dar vita a questo tormentoso figlio
Lasciando l’inazione che è saggezza?
Perché ho aggiunto alla già infinita serie
Un altro simbolo? Perché alla vana
Matassa che in eterno si dipana
Ho dato ancora causa, effetto e pena?
Nelle ore di angoscia e luce vaga
Sul suo Golem lo sguardo soffermava.
Chi potrà dirci che cosa pensava
Iddio guardando il suo rabbino in Praga?”
Queste ultime strofe evidentemente non riguardano il sogno creativo in senso stretto: si
prestano piuttosto a qualche riflessione di tenore opposto a quelle accennate intorno alla
poesia Scacchi.
Là si era rilevata una possibile “degradazione” della divinità.
Qui l’uomo sembra invece subire un inatteso ridimensionamento.
Da una parte il rabbino demiurgo, pur coinvolto affettivamente, guarda deluso alla mostruosa
creatura,
abbandonandosi
a
sconsolate
divagazioni
cosmiche,
di
sapore
vagamente
leopardiano, sull’inopportunità di accrescere con questo nuovo discutibile prodotto il già
esuberante novero di simboli che affatica l’universo.
Dall’altra, mentre il creatore umano angosciato posa lo sguardo su quel misero golem, Dio,
dal mondo superno, forse altrettanto angustiato, osserva il suo rabbino in Praga: non
conosciamo i suoi pensieri, ma probabilmente, così sembra di capire, nutre nei confronti
dell’uomo gli stessi contrastanti sentimenti, tenerezza e delusione, che Leon Giuda prova
verso l’incompiuto esito dell’insigne magia.
Per un verso - possiamo supporre - in questo caso le distanze tra l’uomo e la divinità
sembrano ingigantite. Il golem e Adamo sono palesemente prodotti imperfetti, assai lontani
dai progetti ideali votati alla realizzazione di due creature a immagine e somiglianza dei loro
creatori.
La distanza tra il rabbino e il golem è la stessa, enorme, che separa l’uomo dalla divinità.
195
Per un altro verso, tuttavia, possiamo ipotizzare che là dove il rabbino ha certamente fallito,
anche Dio ha dato forma e sostanza a una creatura inferiore alle proprie aspettative.
Si può forse congetturare, quindi, la delusione e la frustrazione della Divinità. Né Dio né
l’uomo in definitiva sono riusciti nell’intento di compiere ciò che si ripromettevano.
Paradossalmente, proprio nel momento in cui le distanze tra l’umano e il divino paiono
aumentare, restituendo quindi al rapporto tra le due entità quell’aura di trascendenza e
incommensurabilità in cui, per così dire, esso è tradizionalmente immerso, ecco che Borges ci
suggerisce, al contrario, che esiste, aldilà della soglia onirica che coinvolge entrambi, un altro
terreno comune, ben più scosceso e impervio, tante volte evocato in questo lavoro: quello
dell’inanità dello sforzo creativo, raffigurata, secondo l’interpretazione proposta, dal mito di
Sisifo, che pare aleggiare, a questo punto, sul mondo in alto e su quello in basso, non
risparmiando neppure Dio.
Resta la tenerezza del padre, resta il sogno, a questo punto in parte privato della sua
funzione demiurgica e ricondotto al suo significato, se si vuole, più ovvio e comune, di
lontano punto di riferimento, di isola non trovata, di desiderio di onnipotenza, di aspirazione
verso l’impossibile, di miraggio e utopia.
***
Ritornando, dopo le digressioni incentrate su alcuni momenti dell’opera poetica di Borges, al
punto di partenza, ossia alla conclusione del racconto commentato 513, in quale prospettiva
ermeneutica è legittimo collocare queste riflessioni sparse? Tutte quante cospirano nel
delineare un certo orizzonte di senso, che sconfina nel territorio del sogno.
E’ questo naturalmente il punto di riferimento comune.
Ma chi abita il Paese onirico?
Il nostro autore sembra non avere dubbi nell’attribuire all’uomo lo statuto passivo di essere
sognato, di proiezione-emanazione dell’immaginario di un altro suo simile, di prigioniero di
una vertigine abissale, che lo terrorizza e umilia.
Quanto alla Divinità, talvolta essa pare, per dirlo in termini fichtiani, l’Io che pone il Non – Io,
il soggetto attivo che forse si sogna, ma non è sognato da nessun altro diverso da sé, e
tuttavia certamente sognando produce almeno il primo sognatore demiurgo, dal quale
promana l’ininterrotta catena di emanazioni.
Aderendo a note dottrine della Cabbala, si potrebbe supporre che la prima proiezione onirica
di Dio sia Adam Qadmòn, il Prometeo Anthropos di natura divina: in questo caso forse
troveremmo una prima chiave di lettura, che consentirebbe di annullare le distanze tra le due
513
“Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava
sognandolo”. J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 665.
196
entità, relativizzando e in un certo senso risolvendo l’interrogativo iniziale sulla ripartizione
dei poteri creativi. Benché tale prospettiva possa essere plausibile, in quanto, pur sempre, la
specularità tra Dio e Uomo propria di questo orientamento mistico trova certamente eco
nell’opera di Borges, sia là dove il nostro autore, come si è detto, sembra volutamente non
distinguerne le sorti, sia nell’elaborazione del tema del “doppio”, astrazione o metonimia dello
specchio che lo ossessiona, tuttavia la questione appare più complessa.
A mio avviso il punto cruciale qui non si deve ravvisare tanto nella discussione sulla diversa
(o uguale) natura dell’uomo e della Divinità, sull’incommensurabilità, similarità o identità dei
loro “attributi” e delle loro facoltà, sull’efficacia in assoluto dei rispettivi poteri creativi, nel
tentativo di stabilire analogie priorità e gerarchie, quanto nel rilevare il rapporto matematico,
per così dire, fra le due entità. Credo che questa riflessione non sia del tutto estranea al
pensiero ebraico.
Come si è prospettato, infatti, Borges tende, in definitiva, attraverso l’uso demiurgico del
sogno, ad annullare le distanze tra la divinità e le sue creature. Si può quindi affermare che,
indipendentemente dal valore, enorme o infimo, attribuito a ciascuno dei due poli in
relazione, il loro rapporto tenda sempre verso l’unità.
Dalle proiezioni di un Dio creatore onnipotente sembra emanare un Uomo Cosmico (quasi)
altrettanto dotato (potrebbe essere, per così dire, il suo “doppio”, Adam Qadmòn). Per
contro, e soprattutto, un uomo debole e precario, nient’altro che un evanescente sogno a
spasso per il mondo, affidato alle oscillanti distratte divagazioni oniriche di una compagnia di
sognatori, all’unisono creatori e creature, attivi e passivi, naturae naturantes e naturatae,
pare a sua volta testimoniare l’esito demiurgico non del tutto felice e convincente di un dio
non infinitamente perfetto, non compiutamente onnipotente, di un dio forse, e suo malgrado,
coinvolto nello stesso gioco abissale e soggetto anch’egli a una forza (non si sa se benevola,
malevola, o semplicemente cieca) che lo sovrasta.
I
brani
di
poesia
citati
poc’anzi
possono
autorizzare
soprattutto
questa
seconda
interpretazione. Dopo la Shoà, taluni sviluppi del pensiero religioso ebraico, che non è
possibile qui approfondire, per certi aspetti, e usando molta cautela, potrebbero non
smentirla514. Ma l’arditissima idea di un presunto “dio debole” quanto incide nel descrivere
514
Così, per esempio, Natoli (in Parole della filosofia cit., 165): “E’ noto come nella tradizione ebraica vi siano
correnti che interpretano la creazione come un ritirarsi di Dio perché il mondo sia. Nell’ebraismo si sono quindi
sviluppate linee di pensiero centrate sull’idea della debolezza di Dio, tendenza questa che nel novecento ha preso un
particolare spicco dopo Auschwitz.” Su questo tema, una delle riflessioni più ardite è esposta nel celebre breve saggio
di Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova, 1991, indagine sui rapporti fra tre attributi divini che dopo la
Shoà difficilmente, per così dire, possono ancora considerarsi simultanemante presenti (comprensibilità, bontà e
onnipotenza). Per una panoramica completa si veda, di M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Brescia, 1998.
197
l’orizzonte del rapporto tra la Divinità e l’uomo? Fino a che punto può influenzare o
compromettere questa relazione?
Se nel pensiero di Borges il rapporto tra le due entità tende verso la parità (e non rileva quale
sia il valore assoluto dei due termini confrontati, anche se l’opera poetica borgesiana sembra
accreditare piuttosto un “livellamento verso il basso”), allora che importa la potenza, la forza
dell’Ente Supremo?
Ecco di nuovo - soprattutto se ci si muove verso la limitazione dei poteri della divinità prevalere il profilo, se così si può dire, esistenziale, nel drammatico incontro tra Dio e Adamo.
Il terreno condiviso dall’uomo e dalla Divinità, lo scenario dell’evento, è il sogno, che nasce
dal sonno, dalla distrazione e dall’abbandono, dalla solitudine e dalla divagazione negligente,
come un frutto magnifico e inatteso del seme della trascuratezza. Proprio questa luce onirica,
che pure è l’espressione della libertà dell’immaginario e la materia della creatività altrimenti
preclusa, ora sembra manifestarsi anche come sorprendente segno di angosciosa debolezza,
o in ogni caso, come cifra di quella parità o commensurabilità di forze che adesso pare il
denominatore comune dei due termini del rapporto.
Se pure Dio soggiace a limitazioni, se persino la sua opera non può attingere la perfezione
voluta, se, in altre parole, anch’Egli è, in un certo modo, Sisifo, allora i destini dell’uomo e
della Divinità sono in fondo simili e nella sostanza la pietas loro riservata dal Borges narratore
e poeta non sarà diversa.
Il rapporto tra i due poli, se così stanno le cose, non si gioca più sul piano della eterogeneità
della loro natura, della incommensurabilità delle loro facoltà e attributi, ma si sviluppa su un
versante diverso, che esclude o, se vogliamo, limita l’efficacia della chiave ermeneutica più
immediata e agevole del finale del racconto, quella della frustrazione dell’umano desiderio di
onnipotenza, quella del fallimento della imitatio dei515.
La cooperazione avviene piuttosto, come ci suggerisce Le rovine circolari, nel segno della
complessa relazione tra Padre e Figlio.
E’ plausibile che nella geografia del sogno, nella mappa della libertà dell’immaginario, Dio e
l’uomo, accomunati dal dolore della ciclicità del divenire - la ruota che uccide l’individualità,
negando l’irripetibilità - dal pensiero del desolante permanere dell’Eterno Ritorno 516, dalla
consapevolezza dell’impossibilità di sfuggire a una Cieca Volontà che sembra avere l’ultima
parola e l’esclusiva sovranità dell’Origine, possano trovare consolazione e sostegno reciproco
515
Cfr. n. 506.
516
Considerazioni sviluppate nel precedente paragrafo.
198
nella solidarietà del rapporto filiale. Come la creatura del racconto in fondo disvela al padre,
al nostro Sisifo umano, che tutti quanti siamo fatti della stessa fragile stoffa onirica, e l’uomo
taciturno
prova
la
pietas
cosmica
del
sapersi
così
irrimediabilmente
povera
cosa,
ammorbidendo però la disfatta con il velluto dell’affetto paterno che mitiga quell’umiliazione
incomparabile, allo stesso modo possiamo immaginare il Sisifo divino prodigare amore e
attenzione all’eroe dei mille volti, a quello strano figlio che sembra voler ripetere il suo sforzo
vano. In fondo:
“Chi potrà dirci che cosa pensava
Iddio guardando il suo rabbino in Praga?” 517
In questa prospettiva, forse per la prima volta 518, Borges pare indicare una possibile apertura,
una reale via di comunicazione tra Dio e l’uomo, oltre la “dialettica di potere”, aldilà del
mistero intellettuale519, e lo fa proprio alludendo a un possibile accordo tra il processo
emotivo a livello umano e divino, nel segno cioè di quell’antropopatia, cui allude Moshe Idel,
fondamentale per comprendere la trasformazione della teosofia in teologia mistica 520.
Uomo e Dio, figlio e padre, consapevoli dell’illusione, sono solidali nel resistere eroicamente
agli assalti ciechi di un’imperscrutabile Volontà Cosmica.
Si è forse individuata, sia pure con l’aiuto di quella libertà d’immaginazione della quale io
stesso ho fatto largo (e forse talvolta indebito) uso, una possibile lettura del finale del
racconto521 in chiave essenzialmente cabbalistica?
517
Il Golem, da L’altro, lo stesso, in op. ult. cit., 65 ss..
518
Mi riferisco naturalmente ai testi esaminati.
519
Tema trattato nel cap. 3 della II sez.
520
“L’antropopatia, più che l’antropomorfismo, è il concetto basilare per la comprensione della trasformazione della
teosofia in teologia mistica. In altri termini: in luogo della partecipazione mistica del cabbalista alla vita divina, ci
troviamo adesso in presenza di una partecipazione mistica del Divino alla vita umana”. (M. Idel, Cabbalà Nuove
Prosp. cit., 185).
521
Come si è detto le chiavi di lettura sono innumerevoli, e molte, anche estranee alla mistica ebraica, ne ho suggerite
in questo lavoro. Non ne esiste una da privilegiare. Certo è però che il racconto deve a mio avviso moltissimo alle
conoscenze cabbalistiche di Borges e questo dato, che non può essere ignorato, sembra autorizzare una certa
disinvolura e libertà nell’attingere a strumenti esegetici propri dell’ebraismo.
199
6.4) Come un’ombra
Le speculazioni più ardite della teurgia cabbalistica di M. Idel sono forse quelle dedicate dallo
studioso al commento del Midrash ha-shekem; in particolare l’esegesi del brano, assai
fecondo, in cui si legge dell’invito del Signore a Mosè di annunciare a Israele che il nome
divino è Ehyè asher Ehyè: cioè, come tu sei con me, io sono con te.522
L’interpretazione di questo passo ha dato l’abbrivio a talune delle più estreme formulazioni
dottrinali di teurgia incrementativa, secondo cui, come è noto in termini generali, la stessa
potenza della Divinità dipende dal comportamento umano, riuscendone, in funzione di esso,
rafforzata o indebolita; assecondando questa nuova e più radicale lettura, l’attività di Dio
sarebbe addirittura l’ombra, il riflesso di quella dell’uomo. 523
Nella conosciuta prospettiva che vede Adamo responsabile della conservazione e del
mantenimento dell’universo e della “formazione” di alcuni aspetti del mondo in alto 524,
l’ermeneutica più spregiudicata del passo citato, ribaltando opposte concezioni di più agevole
comprensione, non solo suggerisce che la struttura antropomorfica divina è stata modellata
su quella umana525, ma lascia persino intendere che l’uomo deve essere considerato
archetipo dell’aspetto rivelato della Divinità. Sul piano ontologico, si arrischia poi, Adamo è
sostanza, il Dio-ombra è solo accidente 526. Infine la dottrina discussa, nella versione
influenzata da più tarde correnti neoplatoniche, consente di affermare, con un altro singolare
522
Scrive Idel (in Cabbalà, Nuove Prosp. cit., 166): “Nel Midrash apprendiamo che il Santo, sia benedetto, disse a
Mosè: “”Va’, annunzia a Israele che il mio nome è Ehyè asher Ehyè.” Che significa Eyè asher Ehyè? Come tu sei
con me, io sono con te. Similmente disse David: “”Il Signore è come l’ombra del tuo braccio destro.”” Che significa:
“”Il Signore è come la tua ombra””? Come l’ombra: Come la tua ombra sorride di rimando a te che le sorridi e
piange se tu piangi davanti a lei..”
523
Quanto alla teurgia incrementativa in genere, con particolare riferimento al rilievo dell’osservanza dei precetti, cfr.
M. Idel, op. ult. cit., 159.
524
Cfr., a tale proposito, gli ampi riferimenti nel cap. 3 della II sez.
525
Secondo l’interpretazione di Ibn Gabbay richiamata da Idel (in op. ult. cit., 167).
526
M. Idel, op. ult. cit., 167: “Dio è considerato come l’ombra della mano dell’uomo; quest’ultimo è la sostanza,
mentre l’””accidente”” è Dio o l’ombra.”
200
rovesciamento di più familiari concezioni, che le entità inferiori sono la radice e il modello
delle superiori527.
Questa fioritura di paradossi, vistosamente emblematici di quel movimento di pensiero
proprio della Cabbala, che con tanta frequenza ricorre anche nella produzione letteraria
borgesiana, può consentire di porre provvisoriamente fine a riflessioni già accennate 528,
utilizzando, fra gli altri, quale strumento esegetico, il testo mistico citato con la ricca
interpretazione derivatane. Si può vaticinare che se Dio è l’ombra dell’uomo e se, citando con
Idel il verso di Silesio, “Dio diviene ciò che io sono adesso e porta a sé la mia umanità 529”,
allora, forse semplificando colpevolmente il problema, la Divinità concepita da Borges non
può essere che lo specchio del suo autore, il riflesso del suo mondo 530. Parrebbe facile a
questo punto, avvalorando, con l’ausilio e l’autorevolezza della nuova ardita tesi mistica,
un’ipotesi già prospettata, concludere con la certa conferma, addirittura impreziosita dal
crisma della specularità, di quel rapporto di equivalenza tra l’uomo e Dio, nel segno forse
della debolezza “esistenziale” di entrambi: quel senso, cui si è alluso in precedenza 531, così
intonato anche all’accennata opera poetica di Borges. Non importa, o importa meno, come si
è detto, quali siano le forze, i poteri sovrani dei due poli in relazione; né, in fondo, esperti
527
Quest’ultima è la lettura di un Cabbalista del XVI secolo (Yehudà ben Y’aqov: cfr. Idel, op. ult. cit., 169). In ogni
caso Idel scrive anche che le interpretazioni più estreme non devono essere lette come un blasfemo sovvertimento
della concezione della divinità, ma vanno inquadrate diversamente: “Malgrado la grande differenza tra le varie
interpretazioni..l’uomo non si sostituisce a Dio e la gerarchia non è intesa come entità in sé che il cabbalista,
abusando dei propri poteri, attiva a proprio beneficio. Questi poteri sono un meccanismo per conseguire il fine
ultimo e per ricevere l’influsso dall’alto..” (Idel, op. ult. cit., 169).
528
Cfr. il precedente par. 6.3
529
M. Idel, op. ult.cit., 169.
530
Se Dio, secondo l’ardita interpretazione mistica proposta, è, per così dire, l’ombra dell’uomo, se è il riflesso della
sua attività, la questione si complica nel mondo della finzione letteraria: sarà la Divinità lo specchio dei personaggi
rappresentati o del loro autore –inventore? Semplificando forse colpevolmente il problema, nell’analisi testuale si è
immaginato che il personaggio protagonista del racconto – eroe dai mille volti - nella parte finale, sia anche
espressione diretta del mondo immaginario di Borges, sia in sostanza la “voce” dell’autore. Non mi pare quindi del
tutto arbitrario, in questa fase, fare riferimento diretto, nel rapporto speculare, al Borges scrittore.
531
Cfr. paragrafo precedente.
201
ormai nel navigare attraverso i meandri paradossali del pensiero del nostro autore, possiamo
temere che l’assegnazione all’uomo di taluni attributi straordinari, di regola esclusivamente
pertinenti all’Ente Supremo, possa validamente confutare l’ardita tesi: “La vita è troppo
povera per non essere anche immortale”532. Ebbene, questa enunciazione, quand’anche
purificata della sua aura provocatoria e della sua eleganza aforistica, a mio avviso neppure
scalfisce, anzi corrobora espressamente, non solo l’argomentazione dell’equivalenza –
specularità dei due enti, ma anche – e ciò non deve apparire un nuovo paradosso – quella
della possibile “debolezza” di Dio e dell’uomo: tradendo ogni contraria apparenza,
l’immortalità, se viene in considerazione come misera cosa, è infatti assai lontana dal
negarla!
Tuttavia questa riflessione, forse plausibile in generale, è per certi aspetti parziale, perché
non tiene conto fino in fondo dello scenario letterario che complica, arricchendolo, il quadro di
riferimento dell’analisi. Anche sotto tale profilo Idel, sviluppando il tema della specularità dei
due enti, offre uno spunto importante, pur implicitamente anticipato, in ambiti diversi e con
differenti sfumature di senso, nelle precedenti sezioni di questo lavoro.
J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol. I, 543-544.
532
202
Sempre Ibn Gabbay, il principale commentatore del Midrash ha-Shekem, precisa infatti che
l’influenza dell’uomo-archetipo sulla divinità (spinta, come accennato, fino a fare di
quest’ultima
l’ombra,
il
riflesso
dell’attività
umana)
può
essere
esercitata
efficacemente solo in virtù di un’immagine intermediaria che metta in relazione i due
poli: si tratta della Torah, che partecipando del mondo in alto e in basso, comune a
Dio e a Adamo, è il ponte tra i due regni 533.
Non è certo la prima volta che la mistica attribuisce questo compito connubiale al Testo Sacro
534
, polisemica cifra simbolica dell’Origine, Cuore della creazione, e dunque
espressione dei trentadue sentieri di sapienza535, preesistente all’Universo, pur
essendone paradossalmente parte, e, in ultima istanza, identico a Dio suo autore,
ma configurato secondo un aspetto antropomorfico 536: tale struttura, evidentemente,
ne asseconda la funzione di collegamento tra i due mondi.
D’altra parte se la Torah è anche, ma non solo, il libro per eccellenza, si è sottolineato che nel
pensiero e nell’opera di Borges scrittura – sogno – creazione sono tre diverse
espressioni di una realtà forse unica e indivisibile:
“Un libro, un sogno li avverte
che sono forme di un sogno già sognato
nelle terre di Bretagna.
Altro libro farà che gli uomini,
sogni essi pure, li sognino.” 537
533
534
M. Idel, op.ult.cit., 168.
Cfr. p.e. “I due principi del maschile e del femminile s’uniscono attraverso l’azione intermediaria della bet
all’inizio dela prima parola della Torà.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit. 211).
535
“Il valore numerico LB, cuore, che corrisponde a 32, porta alle trentadue vie nascoste della Sophia, per mezzo
delle quali il mondo è stato creato” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 210).
536
Cfr. M. Idel, op.ult.cit., 223. Secondo il Sefer ha-yihud, “la trascrizione fedele del rotolo della Torà equivale a
produrre Dio”. (op.ult.cit., 177)
.
537
J.L. Borges, Inferno, V, 129, da La cifra, in Tutte le opere cit., Vol.2, 1223.
203
Il testo in genere, prescindendo ora dalla sua sacralità 538, è dunque non solo il ponte tra Dio e
l’uomo, ma anche, se vogliamo, quello tra Borges e la mistica ebraica: i Cabbalisti e l’autore
argentino sono in fondo concordi nell’attribuire alla scrittura valenza demiurgica. Tuttavia nel
vasto armamentario di oggetti fantastici fluttuanti negli archivi borgesiani, particolare,
questo, determinante e tale da offrire spunti di riflessione forse meno ovvi, la geografia, il
territorio, la materia comune, la sostanza stessa dell’Universo, alla quale neppure Dio in
ultima istanza pare poter sfuggire, è spesso il sogno, scenario e sceneggiatura di ogni storia
possibile. Sognare – scrivere – creare, questa sembra essere la Parola, il geroglifico a tre
dimensioni di Borges: ma purtroppo essa non è una cifra univoca e il suo destino è la
disgregazione e lo smarrimento nei rivoli innumerevoli del Molteplice 539. Come sfuggire
dunque alla sua terribile complessità, come recuperarne la primordialità originaria, come
evitare l’irrimediabile degradazione dell’ineffabile Aleph nel discorso e nel Tempo, che
consuma lacera corrompe e distrugge?
V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
538
539
Sul punto si veda l’ampia trattazione nel cap.3) della II sezione.
Soprattutto nel cap. 5) di questa sezione mi sono soffermato sulla dissoluzione del movimento linguistico
originario, emblematico della creazione nel tempo, caratterizzata, secondo questa prospettazione, dalla scissione
dell’unità nel molteplice del divenire (inteso come allontanamento dall’origine, che, non appena conquistata, è già
perduta.). A questo destino forse non sfugge neppure la Torah. Ne sono testimonianza le inquietudini dei mistici che,
come è noto, al di là e al di sopra del testo corrente (storicamente variabile, per esempio, nell’ottica del Sefer Temunà)
hanno talvolta idealizzato l’esistenza di un testo primordiale, collocato in una dimensione sovratemporale, sottratto
alla lettura contingente e in sostanza non ancora disvelato, forse nell’attesa di una redenzione - rivelazione
messianica: ciò quasi a voler significare l’irrinunciabilità di una purezza originaria e incontaminata.
204
1) L’eternità in una passeggiata e in una madeleine
Mi sono illuso di trovare nel brano conclusivo di un noto “saggio” di Borges, Storia
dell’eternità,
una
delle
possibili
chiavi
ermeneutiche
di
quell’arcano
geroglifico
tridimensionale540 più volte affiorato costeggiando Le rovine circolari.
E’, lo confessa lo stesso scrittore, la descrizione di un’esperienza estatica.
Questo testo, decantato da ciò che appare contingente, potrebbe nobilitare, grazie al bello
stile che gli fa onore, un dissimulato manifesto della “mistica letteraria”, tanto sembra
espressione di un comune e ricorrente sentire; il movimento di pensiero non è infatti né
nuovo né inedito. Potrà invece suonare arbitrario il mio tentativo di accostare al nostro un
altro grande autore, pur assai lontano dall’argentino nella sintassi e nel pensiero: alludo
all’artista che nel primo novecento letterario ha teorizzato, secondo la mia personale
percezione, emozioni non troppo diverse in celebri lacerti di un’opera epocale.
L’esperienza interiore narrata da Borges, che forse mai come in questa occasione esibisce una
prosa spoglia di compiaciuti effetti, nasce da una passeggiata in un quartiere di Buenos Aires.
La casuale digressione, pur rammentando al narratore sensazioni già vissute nel passato,
diventa memorabile occasione per raccontare una parabola sull’Eternità 541.
540
Mi riferisco al “quesito” scaturito nel finale del capitolo precedente, che si lega alla ricerca di un terreno comune,
di una chiave di volta per il cui tramite sogno, creazione e scrittura, le tre connesse dimensioni di un geroglifico
ancora inesplorato, comuni all’opera di Borges e, come si è visto, almeno in parte, alla mistica ebraica, possono
trovare un destino, per così dire, più fermo e stabile.
541
Ecco il testo quasi integrale del brano: “Non mi resta che segnalare al lettore la mia teoria personale
dell’eternità..Desidero qui annotare un’esperienza che ho avuto qualche sera fa: minuzia troppo evanescente ed
estatica per essere chiamata avventura; troppo irragionevole e sentimentale per essere chiamata pensiero...
Così la rammento. Il pomeriggio che precedette quella sera, andai a Barracas: quartiere che io di solito non
frequento, e già il fatto che esso rimanesse così distante da quelli che io percorsi dopo, bastava a dare uno strano
sapore a quella giornata. La sera della quale non avevo destino alcuno; poiché faceva bello, dopo aver mangiato
uscii a camminare e a ricordare. Non volli dare una meta alla passeggiata: mi procurai una massima latitudine tra le
diverse probabilità, per non stancare l’aspettativa con l’obbligatoria previsione di una sola di esse...
..Una specie di gravitazione familiare mi portò verso certi quartieri, del cui nome vorrei sempre ricordarmi..Non
voglio alludere al mio quartiere, al preciso ambito dell’infanzia, bensì ai suoi ancora misteriosi dintorni: confine che
ho posseduto interamente nelle parole e poco nella realtà, vicino e mitologico a un tempo..La camminata mi lasciò
all’angolo di una strada. Aspirai notte, in serenissima vacanza di pensiero. La visione, niente affatto complicata,
sembrava semplificata dalla mia stanchezza. La sua stessa tipicità la rendeva irreale. Era una strada di case basse, e
205
La povertà delle cose intraviste in un serenissimo notturno accende l’estasi dello scrittore,
che trascende in felicità incontenibile e assoluta, ossia sciolta da ogni vincolo temporale,
sbocciata all’improvviso - un virgulto inatteso - dalla semplicità nuda ed essenziale, celata,
eppure mostrata, dalle case basse di Barracas, dal fico isolato che offre il riparo dell’ombra,
dal cortile misero, dalla luce intima effusa da un muro roseo.
Ecco dunque l’intuizione, la possibile immaginazione di eternità: essa si legge nella visione,
semplificata sino all’evanescenza, degli oggetti rappresentati, ridotti alla loro essenza non più
soggiogabile, in quanto non più narrabile: quelle povere cose, per così dire, “si raccontano”
quasi da sé, emergendo nei loro termini ultimi, al limite dell’ineffabile, in un momento unico e
non più ripetibile, estraneo al tempo discorsivo 542.
sebbene il primo significato fosse di miseria, il secondo era certo di felicità..Nessuna casa osava affacciarsi sulla
strada; il fico copriva d’ombra l’angolo; i cancelli – più alti della stirata linea dei muretti – sembravano foggiati
nella stessa sostanza infinita della notte..Sulla terra morbida e caotica, un muro roseo sembrava non ospitare luce di
luna, bensì effondere luce intima. Non si potrebbe nominare la tenerezza meglio che con quel rosa.
Rimasi a guardare quella semplicità. Pensai, probabilmente ad alta voce: Questo è lo stesso di trent’anni
fa...Immaginai quella data: epoca recente in altri paesi, ma ormai remota da queste mutevoli parti. Forse un uccello
cantava e provai per lui un affetto piccolo, della grandezza di un uccello..Il facile pensiero Sono nell’ottocento non
era più un gruppetto di parole approssimative, bensì aveva la profondità della realtà. Mi sentii morto, mi sentii
percettore astratto del mondo..Non supposi, no, di avere risalito le presuntive acque del tempo: piuttosto mi sospettai
in possesso del reticente o assente senso dell’inconcepibile parola eternità. Soltanto dopo riuscii a definire
quell’immaginazione.
La scrivo adesso così: Quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è semplicemente identica a quella che ci
fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire
questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro
del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo.” Cfr. J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1,
pp. 541-544.
La conclusione alla quale perviene Borges, peraltro, non deve essere intesa in modo assoluto, come una dottrina
metafisica. Scrive infatti lo scrittore argentino nel brano finale di questo “saggio – racconto” (op.ult.cit., 543-544):
“Traggo anticipatamente questa conclusione: la vita è troppo povera per non essere anche immortale. Ma non
abbiamo nemmeno la sicurezza della nostra povertà, poiché il tempo, facilmente confutabile nell’ambito dei sensi,
non è tuttavia confutabile in quello intellettuale, dalla cui essenza sembra insuperabile il concetto di successione.
Rimanga, dunque, come aneddoto emotivo l’intravista idea e come confessata indecisione di questo foglio il momento
vero di estasi e la possibile immaginazione di eternità di cui quella notte non fu per me avara”.
542
Sull’eternità come cristallizzazione del molteplice e come riconoscimento, per così dire, conchiuso, del futuro già
dato e del passato rimasto presente, cfr. P. Spinicci, Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, cit., pp. 22-24.
206
Non si tratta dunque, per Borges, di ripetizione - reiterazione di una passata esperienza;
l’estasi mistica pare sopprimere per un momento l’angoscia della circolarità, che aleggia
invece su Le rovine circolari:
“Quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è semplicemente identica a quella che
ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il
tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non
separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi,
bastano per disintegrarlo.”543
Dunque l’impossibilità di separare e di introdurre la differenza, da intendere in un senso forse
vicino a quello di differimento - differance attribuito al termine da Derrida544, disintegra
l’illusione del tempo.
Peraltro Borges si affretta a precisare che questa conclusione, lungi dal voler fondare una
metafisica,
è
valida
solo
se
limitata
alla
sfera
emotiva
dell’estasi 545:
ciò
allude
inequivocabilmente a una mistica letteraria. Manifesta inoltre, si potrebbe aggiungere,
un’esperienza
istantanea;
non
potrebbe
dunque
calarsi
inevitabilmente la condannerebbe a misurarsi con il Tempo
546
nel
discorso
narrativo,
che
.
La negazione della differenza tra i momenti, esplicito presupposto borgesiano di un
sentimento di eternità, sotto un altro profilo, non estraneo tuttavia a quello ora emergente,
echeggia altre riflessioni già abbozzate in questo lavoro nel trattare la complessa dialettica
tra realtà e immaginazione nel sogno: anche là si era detto dell’insensatezza di imporre un
limite netto tra i due mondi e dell’arbitrarietà di una tale pretesa. Si suggeriva piuttosto di
indovinare nella angosciosa libertà dell’immaginario la cifra simbolica più autentica
dell’universo onirico, illuminandone l’affinità con la creatività e con il momento dell’Origine 547.
543
J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 543.
544
Cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida cit., 87.
545
Cfr. parte finale della n. 558.
546
Suggerisce Paul Ricoeur che la temporalità non si lascia dire nel discorso diretto di una fenomenologia, ma
richiede il discorso indiretto della narrazione, nella forma del racconto storico o del racconto di finzione. Solo per
tramite dell’esperienza temporale che si organizza nel racconto quest’ultimo può diventare significativo, e ciò in
definitiva avviene con il contributo del lettore, del quale rifigura l’esperienza temporale. In questo modo il tempo è
referente della narrazione, mentre la funzione del racconto è di articolare il tempo in modo da conferirgli la forma di
un’esperienza umana. (Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, 1988).
547
Cfr. cap. 2) della III sezione.
207
Indubbiamente questo è un segno di contiguità tra la diade sogno - creazione, elementi,
insieme alla scrittura, del geroglifico da decriptare, e l’eternità, possibile terreno comune,
chiave d’interpretazione e unità conclusiva, per così dire, del nostro racconto.
Ma nel quadro d’insieme che si sta delineando neppure si deve trascurare la nuova nota
emotiva che fa riemergere l’inobliata dimensione mistica: quella felicità estatica che festeggia
il momento ineffabile della sospensione del tempo.
Il brano che celebra la madeleine più famosa del mondo letterario, quello in cui Marcel Proust
incomincia ad accarezzare, percependone valore e originalità, il significato universale della
sua opera, è, per certi aspetti, singolarmente vicino al testo “estatico” di Borges 548.
548
Ecco una parte consistente e significativa del celebre brano citato: “..Trovo del tutto ragionevole la credenza
celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un
animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci
troviamo a passare accanto all’albero o a entrare in possesso dell’oggetto ch ne costituisce la prigione...Così per il
nostro passato. E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta
nascosto al di là del suo dominio e della sua portata in qualche insospettato oggetto materiale...
...Mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che si ammobidisse un pezzetto di madeleine. Ma
nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii,
attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso..Di colpo mi
aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso
modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio quell’essenza non era dentro di me, io ero
quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove poteva giungermi una gioia così
potente?...Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo?..Cercare?
Di più: creare..Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna
prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità..
E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore era quello del pezzetto di madeleine ...che zia Léonie mi
offriva..E quando ebbi riconosciuto il gusto..(benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il
momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice), la vecchia casa grigia ..venne come uno
scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino...e, insieme alla casa, la città,..la piazza,
..le vie.., le strade..E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciottola di porcellana piena
d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e
colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro
giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole
abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è
uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”. M. Proust, Dalla parte di Swann, Milano, 1987, pp. 54-59.
208
Credo che l’accostamento non sia del tutto arbitrario e possa illuminare l’orizzonte di chiusura
di questo lungo percorso arricchendo di un nuovo senso, o forse solo di una più sicura
consapevolezza, l’ipotizzata unio mystica tra gli elementi in gioco.
E’ curiosa, intanto, l’affinità anche materiale tra le cose povere ed essenziali trascorse in
rassegna e poi cristallizzate da Borges nella sua passeggiata e quelle evocate dalla madeleine
assaporata da Proust.
La vecchia casa grigia di zia Léonie, le città, le piazze, le vie, i fiori della recherche sono di
nuovo le unità semplici che procurano a Marcel le stesse sensazioni estatiche provate da
Jorge e sono palesemente simili al muro roseo, al cortile, alle case basse di Barracas:
“Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove poteva giungermi una
gioia così potente?”549
Vertigine di immortalità e incontenibile felicità: i sintomi avvertiti dai due scrittori sono i
medesimi.
In più, nell’episodio della rievocazione di Combray affiorano almeno due caratteri assenti
nella digressione bonearense: curiosamente Proust qui sembra più borgesiano di Borges,
perché trasferisce la mistica dal piano emotivo e soggettivo dell’estasi, un profilo comune a
entrambi i testi, a quello oggettivo del contenuto dell’esperienza.
La credenza celtica nella presenza delle anime degli scomparsi o degli assenti negli oggetti
inanimati che le tengono prigioniere sino al momento - forse eternamente rimandato - in cui
il casuale incontro con quelle semplici cose finalmente emancipa gli spiriti catturati, è sì una
metafora del recupero del passato, negato all’intelligenza e alla memoria volontaria, ma è
anche, in un punto cruciale dell’opera, la confessione che solo attraverso uno slancio emotivo
– affettivo, inseparabile dalla mistica550, tale riscoperta si rende possibile. Questa prospettiva
d’altra parte, dopo avere aperto il celebre brano, quasi a volerne ribadire la tonalità cromatica
nel segno del mysterium, lo chiude:
“..Così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della
Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray
e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e
giardini, dalla mia tazza di tè.” 551
Dunque si potrebbe azzardare che tutto il mondo letterario della recherche si effonde da
quella tazza di tè: essa è, per così dire, l’Aleph di Proust, l’Origine, il luogo dove si trovano,
549
M. Proust, op.ult.cit., 57.
550
Cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., 4.
551
M. Proust, op.ult.cit., 59.
209
senza confondersi, tutti i luoghi della terra..Per la Cabala, ..la lettera (che) rappresenta l’En
Soph, l’illimitata e pura divinità.. 552
Dalla mistica alla letteratura: un passo, in questa fase finale del nostro percorso, sempre più
breve. Marcel incomincia qui a esplicitare ciò che il più ironico riservato e disilluso Jorge non
oserebbe mai dire.
“Da dove poteva giungermi una gioia così potente?...Poso la tazza e mi volgo verso il mio
spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo?..Cercare? Di più: creare. Eccolo
faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che solo lui può realizzare e far entrare,
poi, nel raggio della sua luce.” 553
Trovare la verità è compito dello spirito e la via non può essere che quella della creazione:
l’estasi dell’immortalità, la gioia profonda della riscoperta a nulla valgono se non si
accompagnano all’atto originario dell’immaginazione.
Ma in che modo realizzare questo compito impervio? Come saldare l’eternità con il Principio?
In un altro brano, forse meno celebre, della recherche, ci si avvicina alla rivelazione.
Come nell’episodio borgesiano, anche qui il narratore è a passeggio, sia pure in carrozza e
nella campagna francese.
Il piacere estatico, una vera ebbrezza, nasce – scrive Proust – dal prodursi di un pensiero
sprigionatosi subitaneo irresistibile, e già articolato in una bella frase, all’allontanarsi della
vista dei campanili di Martinville:
“Senza dire a me stesso che quanto stava nascosto dietro i campanili di Martinville doveva
essere qualcosa di analogo a una bella frase, poiché era sotto forma di parole capaci di
procurarmi piacere che la cosa mi era apparsa, chiesi al dottore una matita e della carta e, a
dispetto dei sobbalzi della carrozza, composi, per dare sollievo alla mia coscienza e obbedire
al mio entusiasmo, il breve pezzo seguente, che ho ritrovato più tardi e al quale ho apportato
solo lievi modifiche:...”
Il brano interessa meno del commento conclusivo di Marcel:
“Non mi è mai capitato di ripensare a questa pagina, ma quando, allora, in quell’angolo del
sedile dove il cocchiere del dottore era solito sistemare dentro un paniere il pollame
comprato al mercato di Martinville, ebbi finito di scriverla, mi sentii così felice, mi parve che
m’avesse così completamente liberato dei campanili e di quel che si nascondeva dietro di
loro, che, come fossi io stesso una gallina e avessi deposto un uovo, mi misi a cantare a
squarciagola”.554
552
J.L. Borges, L’aleph, da L’aleph cit. (Ed. Milano, 2003), pp. 161 e 169.
553
M. Proust, op.ult.cit., 56.
554
M. Proust, op. ult. cit., pp.220-222
210
In questo caso, dunque, l’esperienza estatica, la mistica dell’eternità, nasce non tanto
dall’apparizione di cose povere e essenziali e dall’inseparabilità o in-differenza dei momenti
che ne accompagnano l’epifania, non dallo sprigionarsi delle anime dei morti – o del passato dagli oggetti che il caso ci fa incontrare, ma dalla scrittura che irresistibilmente scaturisce
quando tutto ciò si allontana, si assenta; in altre parole, emana dallo Spirito al quale è
demandata, attraverso l’opera letteraria, la Creazione della verità.
Come è noto, è al compimento della cattedrale, ne Il tempo ritrovato, che i temi prima
sfiorati vengono approfonditi con maggiore consapevolezza.
Solo a questo punto Proust rende esplicito come la fuggitiva contemplazione d’eternità gli
abbia procurato, a rari intervalli, il solo piacere vero e fecondo della vita 555:
“Ricordai con piacere.. come già a Combray io fermassi con attenzione davanti alla mente
qualche immagine che aveva attratto con forza il mio sguardo, una nube, un triangolo, un
campanile, un sasso, sentendo che sotto quei segni c’era forse qualcosa d’affatto diverso che
dovevo sforzarmi di scoprire, un pensiero di cui essi erano la traduzione, al modo di quei
caratteri geroglifici che sembrano rappresentare solo oggetti materiali. Questa decifrazione
era difficile, certo; ma era la sola che desse qualche verità da leggere” 556.
.
555
M. Proust, Il tempo ritrovato, Milano, 1995, 225. Poco prima (p.220) scrive: “Sorvolavo rapidamente su tutto
questo, più imperiosamente sollecitato com’ero alla ricerca – ricerca le altre volte rimandata – della causa di tale
felicità, del carattere di certezza con cui essa s’imponeva. E la indovinavo, tale causa, paragonando fra loro quelle
diverse impressioni felici che avevano in comune il fatto ch’io le provavo tanto nel momento attuale quanto in un
momento lontano, rumore del cucchiaio sul piatto, dislivello delle selci, sapore della madeleine, sino a far rifluire il
passato nel presente, a non sapere con certezza in quale dei due mi trovassi; in verità l’essere che assaporava allora
in me quell’impressione la assaporava in ciò ch’essa aveva di comune in un giorno trascorso e ora, in ciò che aveva
di extratemporale; un essere che appariva soltanto quando, grazie a una di tali identità fra il presente e il passato, gli
era dato stare nel solo ambiente in cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori del tempo.”
Non siamo molto lontani dalla inseparabilità dei momenti temporali teorizzata da Borges nel brano letto in
precedenza. Trovo illuminante questo passaggio nel saggio di S. Beckett (Proust, Milano, 2004, 53) nella parte in cui
tratta dell’esperienza estatica immaginativa e simultaneament eempirica legata al recupero del passato: “Ma se
questa esperienza mistica comunica un’essenza extratemporale, se ne deduce che chi la riceve è in quel momento un
essere extratemporale. Di conseguenza, la soluzione proustiana consiste, per quanto si è detto, nella negazione del
Tempo e della Morte; la negazione della Morte, in ragione della negazione del Tempo. La Morte è morta in quanto il
Tempo è morto.” Chiave di interpretazione quanto mai spendibile a margine del racconto borgesiano commentato.
556
M. Proust, op. ult.cit., 229.
211
La decriptazione del segno, il disvelamento dell’altro universo celato dalle geometrie dei
campanili di Martinville o dal sapore della madeleine può riuscire solo per il tramite della
creazione di un’opera d’arte, già preesistente in quanto nascosta e necessaria, che noi
abbiamo il dovere di scoprire 557:
“La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente
vissuta, è la letteratura.”558
In conclusione, dalla contemplazione dell’eternità, custodita in pochi oggetti semplici ed
essenziali, e dall’immediato contestuale articolarsi della scrittura, intesa come scoperta
creativa di un mondo già esistente da tradurre in segni, nasce la felicità dell’estasi letteraria.
Né l’universo onirico resta estraneo a questo procedimento: il sogno emerge nella sua
dimensione di oblio, già affiorata altrove. 559
Proust è consapevole della possibilità di immaginare solo ciò che è assente 560: dunque le
condizioni per recuperare il passato e per creare nascono anche dall’allontanamento, dalla
smemoratezza, dallo smarrimento; infine, paiono generate da quella stessa negligenza
oscura, che, si era detto, libera le inconsapevoli emanazioni sefirotiche del Demiurgo
Sognatore di Borges. Come già azzardato a suo tempo, quando Dio ci abbandona crea,
quando l’uomo si abbandona crea. Forse qui sono tracciati i limiti insuperabili dell’atto
demiurgico di esclusiva pertinenza umana.
Sognare – creare – scrivere, il geroglifico a tre dimensioni potrebbe avere trovato la pietra di
Rosetta sub specie aeternitatis.
557
M. Proust, op.ult.cit., 232. Scrive poco più avanti Proust (p. 243): “..Io capivo che il libro essenziale, il solo libro
vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente del termine, inventarlo, bensì, visto che esiste già in ciascuno
di noi, tradurlo. Il dovere e il compito d’uno scrittore sono quelli d’un traduttore.”
558
M. Proust, op.ult.cit., 249.
559
Cfr. cap. 4) II sez.
560
“Tante volte nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso perché nel momento in cui la percepivo la mia
immaginazione, che era il solo organo di cui disponessi per godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa, in
virtù della legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente. Ed ecco che gli effetti di
questa dura legge erano stati improvvisamente neutralizzati, sospesi, da un meraviglioso espediente della natura, che
aveva fatto balenare una sensazione – rumore della forchetta e del martello, stesso titolo di libro, ecc. –
contemporaneamente nel passato, il che permetteva alla mia immaginazione di assaporarla, e nel presente, dove la
scossa effettiva data ai miei sensi dal rumore, dal contatto del tovagliolo ecc. aveva aggiunto ai sogni
dell’immaginazione ciò di cui essi sono abitualmente sprovvisti: l’idea d’esistenza.” (M. Proust, op.ult.cit., pp. 221222).
212
2) Una delle conclusioni possibili
Dico questo per molte ragioni.
La principale è che in nessun caso può darsi una sola “conclusione”. Ciò fra l’altro non
sarebbe, come oggi si dice, “politicamente corretto” proprio sul piano ermeneutico, che vive
di
inesauribile
pluralismo,
né
in
linea
con
il
pensiero
ebraico:
infatti
“le
porte
dell’interpretazione non sono mai chiuse”. 561
Il metodo di lavoro scelto – o meglio, formatosi – è poi infinitamente lontano da criteri
euclidei e non può quindi pervenire ad alcuna teoria more geometrico demonstrata.
Con lo scudo protettivo dei filosofi teoretici, ho piuttosto cercato di interrogare il testo:
quindi, per lo più, ho posto - mi sono posto - quesiti (pavento talora superflui) senza
presumere di avallare la plausibilità di risposte talvolta temerariamente azzardate. Tra l’altro,
ma sarebbe certo un fraintendimento, si potrebbe anche sospettare che, pur mimetizzate da
lussureggianti – nonché spesso logoranti - ramificazioni, sviamenti, digressioni, qua e là
affiorino riflessioni, tanto casuali quanto all’apparenza conclusive: queste sedimentazioni si
sono però spesso materializzate soprattutto – temo - per confutare tesi altrui, come non di
rado si usa per artificio dialettico. D’altra parte ciò può meglio riuscirmi per ovvia, quanto
indesiderata, deformazione professionale. Né, se qualche imprecisione spicca di tanto in
tanto, mi pare che una contenuta pseudoepigrafia possa essere del tutto bandita in
un’occasione di così irripetibile convergenza tra il mondo di Borges e la Cabbala.
Infine, e questo forse suona meglio, la circolarità della scrittura del nostro e della mistica
ebraica sembrano per definizione scoraggiare assunti definitivi. Testi aperti patiscono
conclusioni chiuse, per la contradizion che nol consente 562.
Tuttavia è innegabile - anche la tradizione vanta le sue buone ragioni - che debba di necessità
esibirmi in un modesto tentativo di offrire una chiave ermeneutica finale, ma non certo
risolutiva, che si appropri, inglobandole, delle “interpretazioni progressive” già sviluppate. Ciò
forse è un omaggio inconsapevole alle discutibili, ma affascinanti, “teorie del tutto” talvolta
assecondate dai filosofi della scienza. L’intento, assolutamente utopistico, sarebbe infatti
561
Scrive M. Giuliani (in Auschwitz cit., 185): “Nel giudaismo si può sempre aggiungere qualcosa. E’ sempre data la
possibilità di un davar acher, di un’altra e diversa interpretazione. Come insegnava Maimonide: “”Le porte
dell’interpretazione non sono mia chiuse.””
562
D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno, XXVII, 120.
213
quello di verificare la possibilità di riunificare, collocandoli in un orizzonte di senso condiviso,
gli elementi strutturali già analiticamente studiati.
In una prospettiva più modesta e realistica, emerge invece l’irriducibile ma benefica coazione,
comune anche ai tragediografi più noiosi e inconcludenti, a imbastire una qualsiasi scena
risolutiva che possa finalmente uccidere l’opera.
In breve dunque, questo capitolo tratterà definitivamente Le rovine circolari, mentre il
prossimo, senza appello, dovrà fatalmente ripercorrere l’itinerario concepito, nella speranza
che sintesi e ironia, patrimonio peculiare di Borges, ma, per mia inspiegabile vendetta o assai
più verosimile incapacità, quasi del tutto assenti in questo lavoro, accompagnino lo sforzo
conclusivo.
Ecco, la mia sensazione - di ciò e non di altro si tratta - forse arbitraria e certo confutabile,
ma incoercibile, è che Le rovine circolari e le poesie di Borges correlate al tema onirico,
centrale nel racconto commentato563, non possano essere compiutamente lette senza
ricorrere anche al brano della Storia dell’eternità564 citato all’inizio di questa sezione.
Mi pare che alla fine si debba ritornare nel territorio, già in parte esplorato, del sognocreazione, collocando anche l’orizzonte di senso di questo elemento strutturale del testo
borgesiano - come si è accennato in conclusione dello scorso capitolo - sub specie
aeternitatis.
Per chiarire meglio questo concetto, dopo avere attinto a Proust, che contribuisce, credo, a
saldare l’apparente frattura tra contemplazione dell’eternità, gioia estatica e creazione
letteraria, alludendo con più viva spregiudicatezza e minor “ritegno” dello scrittore argentino
alla percezione e contestuale risonanza scritta di tonalità mistiche affioranti nei momenti più
563
Se fosse ipotizzabile un sottogenere letterario onirico, come taluno correttamente prospetta (Le metamorfosi del
sogno nei generi letterari, a cura di S. Volterrani, Firenze, 2003) il racconto commentato potrebbe rientrarvi. Si tratta
di un ambito caro a Borges, che curò un antologia di sogni e nell’introduzione scrisse: “..I sogni costituiscono il più
antico e certo non il meno complesso genere letterario del mondo.” (J.L. Borges, Libro di sogni, Milano, 1999, 8).
564
J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 541-544.
214
significativi – e inscindibili - della vita e dell’arte 565, mi affido a un altro breve brano tratto da
un racconto di E.A. Poe:
“Coloro che sognano di giorno sono esperti di molte cose che sfuggono a chi sogna solo di
notte. In perlacee visioni balenano a costoro frammenti d’eterno e, allorché si riscuotono,
rabbrividendo si avvedono di aver sfiorato l’orlo del grande segreto. Hanno colto indizi della
conoscenza del bene, e anche più dei meri indizi della conoscenza del male.” 566
La fantasia di questo scrittore non si accontenta di attribuire all’universo dei visionari a occhi
aperti la fuggevole contemplazione dell’Eterno, ma ci suggestiona, persino, con l’eloquenza
dello stile, evocando l’inquietante baluginare, altrove assente, di una gnosi altrimenti
impervia.
Il rapporto tra sogno ed eternità non sfugge neppure a Valery, che, scandagliando le
profondità
estetiche,
ne
individua
il
senso
nella
possibilità,
propria
solo
della
rappresentazione onirica, di condensare l’infinito nel finito 567.
Ma sia Poe sia l’inesauribile saggista francese alludono, per così dire, a “sogni desti”, nei quali
sono impegnate, in un’attività mentale profondamente meditativa e assai concentrata, tutte
le facoltà intellettuali, tese a consegnare al pensiero, senza nulla disperdere, l’integrale
potenza dell’immagine: un ossimorico “sogno razionale”, spontaneamente capace, solo che lo
voglia, di connessioni, “creatore per eccellenza”568, assolutamente libero, come la poesia, ma
quanto la scrittura paradossalmente “imbrigliato” da una lucidità mai così vigile; un sogno,
565
In sostanza, come si è forse chiarito nel precedente capitolo, i brani della recherche citati, secondo la prospettiva
ermeneutica avanzata, completano, in un certo senso, la passeggiata bonearense di Borges, saldando alla mistica
dell’eternità la scrittura letteraria, esplicitamente elevata da Proust, così mi pare, al rango di vero e proprio elemento
strutturale di quel momento estatico, per quanto, tuttavia, l’opera artistica, secondo lo scrittore francese, possa
efficacemente assurgere alla creatività solo con il dolente recupero dell’assenza dell’oggetto rappresentato.
566
E.A. Poe, Eleonora, in I racconti, Torino, 1983, vol. II, 430.
567
Nel descrivere la sensazione di novità che emana dall’opera artistica di Eugène Delacroix, P. Valery, citato da A.
Mazzarella (in La potenza del falso cit., 210) scrive: “...Perché egli ci piace maggiormente? Si potrebbe dire che con
un’immaginazione più ricca, egli esprime soprattutto ciò che vi è di segreto nel cervello, l’aspetto stupefacente delle
cose, tanto la sua opera custodisce fedelmente l’impronta e l’umore della sua concezione. E’ l’infinito nel finito. E’ il
sogno! E con questa parola non intendo il cafarnao della notte, ma la visione generata da un’intensa meditazione, o,
nei cervelli meno fecondi, da un eccitante artificiale.”
568
A. Mazzarella, La potenza del falso cit., pp. 184-185. Il concetto è tratto dall’opera filosofica di Novalis.
215
infine, evocato quale implacabile eversore della sempre più fragile barriera eretta dal mondo
della cosiddetta “realtà”: argomento certo non nuovo di questa trattazione 569.
Tale ultimo versante mi pare puntualmente intuito da Roger Callois, che si propone, come
scrive Mazzarella, nel ruolo di interprete accorto e inquieto dei paradossi che il lavoro onirico
consegna alla veglia:
“Non è per gli aspetti che lo contrappongono alla realtà..che il sogno è temibile e insidioso,
ma al contrario, proprio per quegli aspetti che lo avvicinano alla realtà e che riescono alla
fine a gettare su di essa, di rimbalzo, un deciso sospetto di irrealtà.” 570
Anche con il conforto dei contributi ora evocati, che completano il quadro e arricchiscono di
inedite connessioni gli elementi di questa modesta fenomenologia, congiurandoli in un’unica
trama con l’assuefare pure il sogno, dopo la creazione e la scrittura, alle vertigini
dell’Eternità, è finalmente tempo di ritornare, forse per l’ultima volta, alle mai abbandonate
rovine circolari, per respirare nuovamente il sollievo, l’umiliazione e il terrore che
accompagnano la scoperta dell’uomo taciturno di consistere anch’egli, non diversamente dal
figlio, in mera parvenza, nell’evanescente proiezione onirica di un altro demiurgo a sua volta
sognato, e così - si presume - all’infinito.
Benché la lungamente protratta analisi del testo abbia lasciato trapelare un pluralismo
ermeneutico forse sin troppo lussureggiante, la percezione d’insieme predominante, ossia lo
sguardo sinottico gettato sia sul racconto sia sull’esegesi che si è sedimentata, sembra
piuttosto accompagnarsi a una sensazione di disagio, di fallimento, alla quale non è forse
estranea l’inquietante proposizione che conclude la narrazione, per la verità in linea con
l’angoscioso esergo571.
569
Cfr. partic. Cap.2) della III sez.: “Infatti quello che stiamo dicendo ora niente impedisce che ci sembri che ce lo
stiamo dicendo l’un l’altro anche nel sonno. E quando in sogno ci sembra di raccontare dei sogni è incredibile la
somiglianza di queste cose sognate con quelle vissute nella veglia”. (Platone, Teeteto, 158 c, in Tutti gli scritti cit.,
209).
570
A. Mazzarella, op. ult.cit., pp. 215-216.
571
Rispettivamente, la conclusione del racconto: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche
lui una parvenza, che un altro stava sognandolo. ” L’esergo: “And if he left off dreaming about you..” (J.L. Borges,
Le rovine circolari cit., in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 660 ss.)
216
Il mondo onirico, che è materia e forma 572, se vogliamo, de Le rovine circolari, ha la
straordinaria ambivalenza del pharmakon, termine bifronte che allude, sì, al rimedio
risanante, ma anche al sortilegio, alla magia, al veleno 573.
Come si è azzardato, il sogno è cifra della spettacolare libertà dell’immaginario, condensa
l’espressione più alta della creatività; non solo però di quella, così superbamente umana, che
talora svela con lucidità visionaria le vette dell’arte e della letteratura, sgombrate dalle
oscuranti nubi delle veglie amorfe e sterili574, ma anche dell’altra, più primordiale abissale e
inquietante vena demiurgica, che vivendo nella vertiginosa incertezza dell’interrogativo
teoretico di fondo (sogno o son desto?), annullata o ignorata la differenza tra reale e onirico,
si spinge imperiosa verso l’Origine, e addirittura aldilà di quella, nel luogo dell’angoscia che
precede ogni Inizio, infinitamente aperto alle innumerevoli possibilità destinate a sfumare nel
Nulla575.
Il sogno cosmico è indubbiamente libero, forse troppo - si è detto - di immaginare universi
fondandoli dal principio, perché per suo tramite l’individuo, senza freni, costituisce il rapporto
con sé stesso e con il mondo in una totalità esistenziale non scomponibile.
Tuttavia paradossalmente questa radicale e sfrenata libertà – ecco l’ambivalenza onirica – che
attribuisce al Dio di Borges, ma pure a ogni uomo, la facoltà di creare senza intenzionalità,
bensì solo sognando, con l’ausilio della magia - pharmakon del sonno, dell’assenza,
dell’abbandono, della distrazione, respinge ogni diligenza costruttiva, abiura ogni progetto
comune, distrugge ogni ordine, scavando solo l’abisso (o meglio ancora, innescando la mise
en abyme), spalancando la vertigine dell’umiliazione, e forse scatenando quel terrore non
dissociabile dall’eternità cui allude non solo il nostro autore nel finale del racconto, ma anche
il visionario Poe576.
572
Materia in quanto la narrazione si svolge interamente, dall’inizio alla fine, sul territorio onirico, teatro di ogni
evento. Forma perché la tonalità cromatica del racconto, il tema della creazione e quello affine della scrittura letteraria
alludono al sogno come espressione più intensa della libertà dell’immaginario.
573
Cfr. n. 344.
574
“Nel sogno si condensa la creatività che caratterizza il pensiero; l’impasto di inesauribili combinazioni alle quali
esso può dare luogo.” (A. Mazzarella, La potenza del falso cit., 185). L’altisonante metafora del disvelamento delle
vette artistiche, diradatesi le nubi che le nascondono, mi è suggerita dal concetto di creazione-scoperta-traduzione
illustrato, come si è visto poc’anzi, da M. Proust ne Il tempo ritrovato.
575
Si allude anche al pensiero di Kierkegaard (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia cit. III, 193).
576
Cfr. n. 583 (il brano in questione è quello tratto da Eleonora).
217
Ciò che sembra in conclusione connotare la narrazione, il senso di frustrazione e fallimento di
Ulisse-Sisifo, a quanto pare condiviso dalla stessa Divinità 577, nasce quindi dall’eccesso, dal
rovinoso moltiplicarsi degli universi e degli dèi; in definitiva sorge dalla ciclicità del tempo,
specchio abominevole dell’incessante fabbrica dei sogni, dalla dissoluzione dell’arché negli
Inizi infinitamente ripetuti, dalla negazione dell’apertura caotica verso l’Origine, possibile,
come si è rilevato578, solo ammettendo la creazione ex nihilo.
Questo quadro, tuttavia, ospita, insieme all’umiliazione per la deminutio ontologica dei
personaggi579, ormai accertati come mere parvenze, e accanto al terrore per la reiterazione
incessante, dal passato al futuro, delle vite e delle esperienze, anche, e ciò è singolare, il
sollievo finale di Ulisse–Sisifo, che non è, non può essere solo disdegnoso gusto o mero
compiacimento per la degradante condizione esistenziale che il sognatore condivide con tutto
il suo mondo, ma piuttosto trae origine, forse, dal solidale titanismo che unisce padre e figlio,
Uomo e Dio580, nel resistere a quella cieca forza che, si è detto 581, li vincola, come l’incatenato
Prometeo, alla irriducibile circolarità delle rovine. Una solidarietà che si nutre anche della
mutua condivisione del dolore, non solo paterno o filiale, ma universale, inseparabile dalla
scoperta dell’irrevocabile stato, comune a tutti gli esseri del cosmo, di eterni prigionieri nel
cerchio infuocato del tempio ripetutamente annientato 582.
577
Cfr. le ampie considerazioni svolte su questo specifico tema nel cap. 6.3) della IV sezione.
578
Cfr. n. 230 e inizio del cap. 4) della IV sez.
579
Secondo il citato S. Sosnowski (Borges y la Cabala, 66), l’umiliazione deriverebbe dalla tragica consapevolezza
della propria indifferenziazione, intesa come mancata individuazione, effetto dell’appartenenza all’infinita e
impersonale catena di sogni.
580
Si è detto, nel commento alla parte finale del racconto, che il testo lascia aperte diverse possibilità interpretative sia
sull’effettiva natura dello “straniero” sognatore nel rapporto con la creatura sognata, sia sul rapporto “invisibile” tra il
sognatore a sua volta sognato e la Divinità.
581
Ancora in 6.3) della IV sez.
582
Rammento l’Inno x. 129 del Rg Veda (6-7, in J. Miller, I Veda, Roma, 1976, 208:
6 “Chi sa la verità, chi può dire donde è originata, donde questa proiezione? Gli dei apparvero dopo nella creazione
di questo mondo.
7 Chi sa quindi come tutto ciò ebbe origine? Donde originò questa creazione, se l’ha causata o se no, Colui che nel
supremo empireo la sorveglia, Egli soltanto lo sa, oppure perfino Lui non lo sa!”
218
Possono, Dio e l’uomo, soffrire insieme? La mistica ebraica risponde che sì, è possibile: le
lacrime della Sheckinà sono il riflesso del pianto umano 583.
Ma quali sono i limiti, le regole, di questo gioco di specchi?
“Come un’ombra...Come tu sei con me, così io sono con te”.
Lo sconcertante midrash, arditamente commentato da Ibn Gabbai e in modo più cauto da
Idel584, può, con minima variante, essere anche letto, senza forse troppo sacrificare al senso,
“Come un sogno..Come tu sei con me, così io sono con te”: sappiamo che, secondo
l’interpretazione di Borges, le Sephirot emanate “involontariamente” da un’indifferente
Divinità sono simili nel loro distratto procedere ai pellegrinaggi onirici delle notti degli uomini
585
.
Se è così, se i due poli sono l’uno il riflesso dell’altro, allora, come nulla può impedire all’Ente
Supremo di sognare l’uomo, niente può escludere che Adamo, dopo avere orgogliosamente
divinato se stesso e i suoi mondi, possa in modo speculare fare Dio: esito, come è noto, che,
a certe condizioni, la mistica non nega. E può farlo sognando.
Ma qui si nasconde il pericoloso equivoco. Fare Dio obbedendo ai precetti e con lo studio della
Torah, intensificando l’intimo colloquio con la Divinità, che però presuppone, per così dire, un
armonico movimento comune e l’umile riconoscimento dell’Alterità del mondo in alto, è cosa
ben diversa dal blasfemo farsi Dio, ossia dalla portentosa metamorfosi che, in fondo, la
tracotanza del taciturno straniero del racconto presume di determinare.
L’ombra o il sogno di un uomo debole, di un delirante Narciso, vincolato alla circolarità del
tempo anche dalle catene generate dalla sua stessa hybris, inetto nel prendere coscienza dei
propri limiti, temerario nel perseguire indebiti obiettivi, può forse solo produrre un dio
altrettanto sventurato. In un universo in cui dominano l’equivoco della specularità e la
condanna della reiterazione, appare quindi meno ardito fissare il rapporto aritmetico tra le
forze umane e divine “intorno all’unità” .
Secondo questa prospettiva, che tuttavia paga un errore umano di calcolo, il fallimento
dell’uomo sembra trascinare quello della divinità. Per sottrarsi alla volontà cieca che potrebbe
irretire l’uno e l’altra, occorre sfuggire alle rovine circolari.
Ciò sembra possibile solo in virtù di un sacrificio, di una rinuncia, e, in definitiva, di un nuovo
paradosso, ossia di un gigantesco ridimensionamento.
583
Cfr. n. 430 e parte finale del cap. 5) della IV sez.
.
584
Cfr. M. Idel, Cabbalà, Nuove Prosp. cit., 166 e cap.6.4 della IV sez.
585
Cfr. cap.4) sez. II.
219
Si devono evidentemente abbandonare l’imitatio dei più grossolana e il desiderio di
onnipotenza, dai quali promanano solo la ripetizione e la mise en abyme e da cui non può
sortire che una divinità deludente quanto l’uomo che la prodiga, per volgere lo sguardo,
anche quello di Dio (come un’ombra..), se così si può dire, dal cielo, e dai deliri che talvolta
ispirano le torri di Babele, alla nostra terra, sino a raggiungere e catturare, per introiettarle,
gustarle con mistica devozione586, le cose prossime, che racchiudono, secondo il racconto di
Proust e dell’”altro” Borges, l’essenza dell’Eternità, trasformando l’umiliazione, che ossessiona
il sognatore del nostro racconto, in umiltà, sempre “terragna”, ma non più degradante 587.
Una parabola chassidica raccontata da Zimmer alla fine del suo Miti e simboli dell’India
insegna in fondo la stessa cosa: il tesoro cercato è spesso a portata di mano, ma per poterlo
trovare è talvolta necessario allontanarsi, intraprendere senza successo un lungo viaggio e
poi tornare a casa per scoprire dietro l’angolo il bene desiderato 588.
Questo però ancora non basta.
Solo la progressiva “formazione” del personaggio-uomo sempre più cosciente dei suoi limiti,
la sua crescita etica589, alla quale pure si è assistito, e, in definitiva, proprio quel frustrante
ma benefico itinerario di ricerca al quale si è poc’anzi alluso, possono forse alterare il
paritario rapporto di forze con la divinità, ripristinando l’auspicato squilibrio tra i due poli, e
ciò nella misura in cui la devozione mistica si fa autentica e l’esigenza di un “Dio personale”,
non più mero custode di segrete alchimie, si impone con maggior intensità 590.
586
Se l’approccio è estatico, le cose che, secondo le enunciazioni di Borges e Proust, dovrebbero avvicinare
all’eternità, non sarebbero solo da avvicinare , percepire, rappresentare, ma addirittura, per così dire, da inglobare,
“assaggiare”, “gustare”, come scrive G. Laras, trattando del collegamento intimo tra il mistico e la divinità (in La
mistica ebraica cit., pp. 2-3).
587
Cfr. la nota etimologica 489.
588
Cfr. H. Zimmer, Miti e simboli dell’India cit.,pp. 197-199.
589
Tema peraltro caro alla mistica ebraica. Scrive Scholem che l’unione con Dio “is in fact not at all the pantheistic
obliteration of the self within the divine mind wich he likes to call the Naught, but pierces through this state on to the
rediscovery of man’s spiritual identity. He finds himself because he has found God…After having gone through
devekut and union, man is still man nay, he has, in truth, only then started to be man, and it is only logical that only
then will he be called upon to fulfil his destiny in the society of men.” (G. Scholem, The Messianic Idea in Judaism
and Other Essays on Jewish Spiritually, New York, 1971, 227).
590
La circolarità alla quale si è più volte alluso nel seguire la vicenda del protagonista del racconto commentato è in
fondo strettamente legata a un’altra celebre metafora di Borges, il labirinto, su cui non ci si è soffermati perché forse
220
A tanto Le rovine circolari forse si avvicina, ma infine non approda.
Ecco allora in nostro soccorso, a spezzare specularità sterile e angosciosa ciclicità, dalle quali
ovviamente anche il mio testo, per evidente solidarietà, non è immune, sprigionarsi quel
barlume di eternità e di felicità dal muro roseo, dalle case basse e povere del quartiere di
Barracas, dai campanili di Martinville, dalla inesauribile tazza di tè di Cambray.
Modesti frammenti di realtà, minuzie evanescenti ed estatiche591: sono i gradini della scala di
Giacobbe che consentono di raggiungere mondi altrimenti inespugnabili, sono gli elementi
essenziali, gli atomi che cristallizzano il tempo, fugando l’inquietudine 592 che ne libera il
flusso, saldando fino all’inseparabilità i momenti vissuti per svelare la via estatica alla
possibile immaginazione di eternità 593.
Mi piace quindi immaginare che l’Odissea dell’uomo taciturno, cominciata nel notturno
profondo
di
un
itinerario
mistico
onirico 594,
presto
sfumato
con
l’incagliamento
dell’imbarcazione del benefattore Ra e con l’improduttivo sortilegio dell’opera al nero, possa
concludersi con una quieta evasione dalla circolarità delle rovine e la tranquilla passeggiata di
meno rilevante in relazione alla mistica ebraica di quanto non lo sia l’altra. Sembra però puntuale, a questo punto, nel
trattare la crescita, la formazione dell’eroe, ricordare ciò che scrive A. M. Pedullà (in Storia generale della letteratura
italiana a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, 2004, Vol. VI, pp. 310-311) a proposito del Labirinto del mondo
e paradiso dell’anima di Comenio: “La metafora del labirinto può indicare un processo circolare che può non avere
mai fine: il viaggio erratico di chi esplora continuamente le frequenti sorprese di un percorso il cui svolgimento si
attua passo dopo passo senza nessuna prefigurazione dell’approdo finale..La figura del labirinto si può considerare
la materializzazione del processo di iniziazione..Per raggiungere la meta, situata al centro del labirinto, si richiede
quindi un massimo di tempo e di fatica fisica, consistente nell’esperienza di essere sempre più vicini alla meta, che
appare talvolta a portata di mano, ma solo per tornare ad allontanarsi..Al centro del labirinto l’iniziando è solo con
la sua realtà interiore. Vi incontra se stesso, un principio divino, un Minotauro o qualsiasi altro simbolo di
“”centro””, che rappresenta il luogo o la possibilità di una conoscenza così fondamentale da richiedere un
mutamento di direzione radicale..Chi esce dal labirinto non è più il vecchio Adamo, ma un uomo rinato a una nuova
fase o piano dell’esistenza.”
591
J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 541.
592
Cfr. P. Spinicci, che sviluppa la nozione di tempo nelle Enneadi di Plotino, in Lezioni sul tempo, la memoria e il
racconto, cit., pp. 22-24.
593
594
J.L. Borges, op.ult.cit., 544.
Cfr. cap.1) della IV sez. e parte conclusiva dell’ultimo capitolo della sez. III, in cui immagino l’abbrivio del
viaggio legandolo a un sogno mistico presto svanito.
221
Prometeo liberato, di Ulisse – Jorge, nella sua pacificata Itaca bonearense; un altro notturno,
questa volta serenissimo, che consente finalmente all’eroe dai mille volti di celebrare la sua
unione estatica con l’Eterno, redimendolo dallo sforzo vano di Sisifo: non un lieto fine da film
hollywoodiano, non un’apoteosi sentimentale, credo, ma, assecondando Proust e la sua
credenza celtica595, la liberazione dello spirito del protagonista, attraverso la lettura del testo
in cui casualmente mi sono imbattuto, dalla prigionia della ripetizione alla quale era
condannato e che in fondo anch’io, lettore-interprete, ho condiviso.
Questa è tanto una postilla narrativa, un arbitrario, ma forse non del tutto incoerente,
tentativo di evadere dal cerchio infuocato delle rovine, quanto la prospettazione di un
possibile senso esegetico conclusivo, pertinente al versante teoretico letterario, o se si
preferisce, estetico, dell’analisi testuale.
Peraltro questi due profili, se pure son tali, secondo l’interpretazione avanzata sono così
profondamente correlati da rendere forse ridondante la distinzione.
Sono, si è detto, le cose semplici che, immediatamente tradotte nella bella frase di Proust,
celebrano, sub specie aeternitatis, il connubio tra mistica, vita e letteratura 596, tra il sognare,
il creare, lo scrivere.
La svolta è sorprendente: fallita la ricerca dell’Origine - in altre parole, sfuggita la cattura
dell’impercettibile aleph forse non pronunciabile da lingua umana - e vanificatasi, infine,
l’impervia inchiesta troppo fiduciosamente affidata al compito demiurgico dell’inesauribile
sognatore imbrigliato nell’Eterno Ritorno che gli è destinato, là dove l’epica Odissea di RaUlisse naufraga dissolvendosi nelle incessanti e vane fatiche di Sisifo, una modesta
passeggiata nei dintorni di casa rivela a Borges il tesoro597 che il lungo itinerario in quel paese
straniero gli aveva taciuto.
La condanna al tempo discorsivo che ineluttabilmente corrompe, disgregandolo nel
molteplice, il purissimo Aleph iniziale, non soltanto vieta all’idolatra della propria immagine
specchiata, a Narciso, un atto creativo efficace, ma preclude anche la possibilità stessa di
articolare un discorso sull’inenarrabile Principio, che si sottrae all’esperienza temporale e
595
Mi riferisco al celebre brano della madeleine riportato alla n. 564. La credenza celtica accennata ha molto in
comune con la dottrina indiana del Jainismo. Scopo della pratica religiosa giainista è infatti la liberazione dei Jiiva
(vite, anime, spiriti) dalla prigionia della a-jiva (materia). Cfr. Zimmer, Miti e simboli dell’India cit., 58.
596
Sui rapporti tra esperienza poetica e mistica in Borges, cfr. anche Vian, Invito alla lettura di Borges cit., 139.
597
Si allude alla parabola chassidica di cui alla n. 606.
222
quindi al racconto598. Solo un testo sacro e miracoloso antecedente all’Origine e dunque
assoluto599, in altri termini solo la Torah, forse potrebbe, o già ha potuto, raccontando se
stessa, narrare anche il primo istante della storia. In tutti gli altri casi sembra negata alla
scrittura la possibilità di cogliere e descrivere la creazione; l’attimo iniziale è inafferrabile e
indicibile: inesorabilmente trascorso quello, non resta che indossare gli abiti di Sisifo, il volto
paterno e meno trionfante di Ulisse 600, e risalire la corrente a ritroso per scoprire la sorgente
nascosta.
Malauguratamente l’imbarcazione, si sa, è ingovernabile. Il navigatore non può mai
interrompere il suo folle volo 601, l’agognata Itaca, ugualmente punto di origine e meta finale,
lo beffa senza posa, inibendogli insieme approdo e partenza.
I mondi di Barracas e Cambray appaiono per fortuna lontani dalle immensità in cui l’Origine
nasconde il suo volto ai naviganti.
L’aleph si effonde semplicemente dalla tazza di tè o dal fico che offre il riparo dell’ombra.
Quell’eternità602, che, manifestandosi nella sua immagine mobile, volteggiava lenta, circolare,
sanguinaria e angosciosa sulla scena delle rovine, qui lampeggia fugacemente, ma più
intensa familiare e vicina. Gli istanti vissuti non si ripeteranno all’infinito proprio perché di tali
momenti è proclamata l’inseparabilità (quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è
semplicemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza
somiglianze né ripetizioni, la stessa.)603, così come pare irreversibilmente rivendicata la
598
Cfr. n. 563.
599
Assoluto rispetto al tempo (che precede), e non tenuto quindi ad assecondarne le regole alle quali qualsiasi altro
testo è vincolato. Dall’attimo in cui la creazione dal nulla è oggetto di una storia, la libertà originaria dell’essere,
fondato sul nulla, si converte in necessità, che nega inevitabilmente la libertà originaria. Sul punto, cfr. anche S.
Givone, Storia del nulla, Bari, 2003, XVII (“..In questo orizzonte comune il fondamento dell’essere è il nulla, ma
proprio perché fondato sul nulla, l’essere è convertito nella libertà”..)
600
Ulisse figlio di Sisifo, cfr. n. 288.
601
Anche il canto dantesco di Ulisse allude, descrivendo il naufragio finale, alla circolarità, cifra, a mio avviso, del
folle volo: “Tre volte il fé girar con tutte l’acque” (Inferno, XXVI, 139, in La Divina Commedia cit., 239).
602
Mi riferisco, più propriamente, all’infinito ripetersi degli eventi legato alla circolarità temporale allusa nel racconto
commentato.
603
J.L. Borges, op.ult.cit., 543.
223
demolizione definitiva del muro - solo presunto, perché invisibile - che forse divide realtà e
sogno. Ecco dunque rivelarsi l’illusorietà del tempo, con la soppressione del differimento
differance di Derrida.
A questo punto forse si potrà dire, insieme a Yoram Kaniuk, che Dio non si trova come sono
in molti a pensare al principio della via, alla creazione, agli esordi, all’inizio, bensì nelle
conclusioni. Aspetta lì 604. Accanto al muro roseo, alle case basse, nei miseri cortili, si potrebbe
aggiungere, guardando lontano, verso un possibile orizzonte mistico. Forse qui l’aleph può
essere di tanto in tanto pronunciato e rappresentato 605.
Questo sguardo ormai pare racchiudere davvero tutto.
La letteratura, nella quale, scrive Proust, consiste la vera vita, paradossalmente sembra poter
“creare” con efficacia solo nel momento in cui si contraddice e quasi si azzera, negando il
tempo discorsivo del racconto per abbandonarsi ai rari bagliori di istanti sfolgoranti in cui
l’eterno, lasciata l’inquieta vertigine della ripetizione, si lascia immaginare nella luce onirica
più pura.
Se così stanno le cose, se questa fantasia estetica ha qualche fondamento, allora la poesia
dovrà rassegnarsi a non cantare la vicenda dell’origine, indicibile, perché il contrario
presupporrebbe l’impossibile conoscenza di un alfabeto estraneo all’esperienza temporale, la
sola per noi disponibile; potrà invece essere scritta la storia della fine, quando tutto il tempo
sarà trascorso davanti, per farci riconoscere – se qualcosa alludendovi, dice Proust, ci avrà
occasionalmente aiutato – l’inseparabilità degli istanti, borgesiana chiave rivelatrice delle
rappresentazioni identiche, negandone la successione secondo il ritmo familiare del “prima” e
del “poi”.
Nessuno possiede il linguaggio per descrivere l’Eternità, che precede l’inizio ed è tutta
contenuta nell’ineffabile En Soph: solo Essa - in quanto Dio - può raccontarsi guardando il
suo “specchio parlante”, o ancora meglio, il suo “doppio”, il Testo Sacro assoluto e fuori dal
tempo, l’Identico a Lei. L’estasi letteraria potrà, dell’Eterno, intravedere e rapire fugaci
riflessi, evocare il ricordo, immaginare il profilo assente 606.
604
Y. Kaniuk, Adamo risorto, Torino, 2002, 162.
605
Tale conclusione è, fra l’altro, coerente con il racconto di Borges L’aleph, in cui, come è noto, l’emblematica
lettera, che allude a En Soph, si rende “visibile” e in qualche modo rappresentabile (piccola sfera cangiante di
intollerabile fulgore) in uno scantinato. (Cfr op. ult. cit. in L’aleph, ed. Milano 2003, pp. 150 ss.).
606
Borges infatti, con il brano citato all’inizio di questa sezione, non presuma affatto di cogliere o descrivere
l’Eternità, ma solo si concede “un’immaginazione di eternità”.
224
In questa prospettiva olistica l’orizzonte dell’affabulazione e della mistica si incrocia dunque,
senza sovrapporsi interamente, con quello teoretico della produzione dell’opera d’arte.
Sogno scrittura e creazione, gli elementi che formano il geroglifico, si specchieranno insieme
nell’Eternità, solitamente oscura opaca invisibile come il cielo notturno delle città, inquinato
da un chiarore che nasconde, e potranno scoprire in quei riverberi estemporanei la loro
sorprendente identità. Ciò tuttavia potrà accadere solo quando la luce della coscienza avrà
svelato l’in-differenza, pur effimera, dei rari momenti in cui il tempo si dissolve. Borges
suggerisce questa strada607, Proust la porta a compimento. La nostra ermeneutica,
consapevole di godere dell’impunità del pluralismo che le è concesso, suggerisce senza
protervia altre possibili connessioni e distinzioni.
Questa,
impreziosita
da
così
unanimi
riflessi,
potrebbe
essere
l’affabulazione
provvisoriamente conclusiva.
Tuttavia, proprio ora, quasi all’apice dell’omogeneità, cementati con l’artificio della scrittura
tutti gli elementi congiurati, a un passo dall’irrevocabile conclusione, sorge un dubbio.
L’aggregazione prospettata si profila infatti troppo implacabile per essere davvero persuasiva.
Si prova attrazione ma anche timore per le teorie in cui quasi per magia tout se tient.
L’inquietudine non mi pare del tutto fugata.
L’istante straordinario della rivelazione nasconde in sé il terrore di una nuova avventura
solipsistica, che forse solo l’intimità di un sogno finalmente condiviso può scongiurare 608.
Quel momento, al pari degli altri, non può avere l’autorità per diventare risolutivo e finale.
Affermarlo significherebbe rinnegare il pluralismo ermeneutico al quale ci si è ispirati finora.
Si pongono di nuovo, e me ne dolgo, domande inquietanti. E allora, come Penelope, dopo
avere tessuto la tela di giorno, col favore della luce meno proterva della notte, mi accingo a
disfarla.
607
In uno dei suoi ultimi colloqui – conferenze, raccolti in J.L. Borges, Testamento poetico letterario, Firenze, 2004,
21), lo scrittore argentino, volendo evidenziare anche l’aspetto, per così dire, impersonale del sogno, così si esprime:
“Si sogna come si dice “”piove””: non c’è soggetto, c’è solo il verbo e il verbo c‘è perché viviamo, perché sogniamo.
Non c’è nessuna differenza tra le due attività: sognare è essenziale, forse è la sola cosa reale che ci sia. Il sogno che
cambia, che si sogna, che si meraviglia di sognare, tutto ciò si chiama filosofia, metafisica e anche poesia.”
608
La condivisione di una visione onirica è considerata dalla O’ Flaherty (in Dreams Illusions cit., 73) una via per
scongiurare the human terror of solipsism.
225
Ancora mi scuote l’interrogativo teoretico di fondo (sogno o son desto?) Se anche tale mitica
coscienza dell’inseparabilità dei vissuti fosse illusoria? La realtà del mondo, suggerisce
Popper, non è falsificabile609.
Oppure, se, ironicamente, proprio la privilegiata natura di quegli istanti rivelatori annunciasse
- compendiando in sé, ognuno, la storia di tutto l’accadere - quell’Eterno Ritorno dal quale il
Borges sognatore demiurgo, presumo, vuole fuggire 610?
Non rinnegherei, in definitiva, riconoscendone il pregio, quell’estasi prodigiosa, ma, ancora
ispirandomi a Penelope all’atto del riconoscimento di Ulisse, sarei cauto, in mancanza di
prove inconfutabili, nell’accreditarle carattere “reale” secondo il più ovvio senso comune,
inseparabile dall’orizzonte epistemologico dello scettico occidentale 611.
La mistica, inevitabilmente echeggiata dai brani di Proust e Borges, percorre, come si sa, vie
diverse da quelle di regola praticate.
Nessun passaggio è davvero negato, nessun itinerario è precluso; il nostro racconto ha
genesi onirica: la fuga notturna dell’anima, attraverso il sogno, aspira a coinvolgere e saldare
i due poli in cerca l’uno dell’altro, intelletto agente e immaginazione umana, in una circolarità
non cieca, né ripetitiva o distruttiva ma vivificante e feconda, orientata verso l’Eternità.
Questo scenario iniziale non è mai stato rinnegato e la luce onirica, medium e via maestra
609
610
Cfr. W.D. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., 198.
Nel commentare il pensiero di Nietzsche, in una prospettiva anche orientalistica, M. Montanari ritiene che il
concetto di Eterno Ritorno, secondo il pensatore tedesco, non alludesse al ripetersi infinito delle stesse circostanze,
bensì al fatto che “in ogni azione è compendiato tutto l’accadere.” (M. Montanari, Il Tao di Nietzsche, Milano, 2004,
129). Questa tesi, tuttavia, è altrove confutata. Prima di tutto dallo stesso filosofo tedesco, in così parlò Zaratustra,
III, 13 (“Tutte le cose ritornano, noi ritorniamo con esse, noi fummo già innumerevoli volte, e tutte le cose sono con
noi.”; cfr. Storia della filosofia cit. diretta da M. Dal Pra, Vol.9, 445). Inoltre l’argomento non è in ogni caso
risolutivo, se collocato nell’orizzonte di senso prescelto in questo lavoro. Qui si fa infatti più generico riferimento al
tempo ciclico, tema indubbiamente legato al racconto commentato, che prescinde dalla specifica concezione alla
quale si è ora fatto riferimento.
611
Come è stato corerttamente evidenziato (O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., 9), la nozione di senso comune non è
“naturale”, ma culturale, ed anche nel pensiero occidentale due orientamenti confliggono tra loro, quello del senso
comune nell’accezione platonica, da un lato, quello nell’accezione “scientifico empirista” di derivazione anglosassone
(di cui Locke e Hume sarebbero espressione emblematica). Più semplicemente qui si fa riferimento alla “realtà,” per
così dire, “solida”, pubblica, quale traspare dall’esperienza che sembra condivisa dai più, prescindendo
dall’interrogativo teoretico di fondo sulla’ultima cornice (sogno o son desto?)
226
della comunicazione tra Dio e uomo nella mistica ebraica, continua a effondere il suo chiarore
612
: d’altra parte, se l’eterno borgesiano rifulge quando il tempo si dissolve con l’annullamento
della successione tra gli istanti che sfilano dinanzi a noi, quale espressione della nostra
esistenza può interpretare questi attimi irripetibili meglio del sogno, nel quale le norme della
causalità e quelle “del prima e del poi” sono momentaneamente sospese?
Né
infine,
in
mancanza
di
certezze,
possiamo
assecondassero alcune linee del pensiero indiano
percorrere
altre
vie.
Se
infatti
si
613
, anche la distinzione tra la c.d. “realtà”
(che ben può essere “onirica” e quindi “illusoria” rispetto all’unica “realtà autentica” non
ingannevole e onnipervasiva del brahman) e il sogno (non una degradazione ontologica, ma
solo un altro livello di realtà, spesso non più menzognero della veglia, della quale può svelare
la natura non meno illusoria; un territorio mentale, per contro, più familiare al Dio
immateriale, che può condividere con gli uomini le proiezioni oniriche, per loro vocazione,
dunque, quasi “divine”) non sembrerebbe in grado di migliorare il nostro livello di
autoconsapevolezza614 in misura significativa. In un altro senso, la concezione dell’universo
elaborata da talune filosofie orientali attribuisce scarso rilievo sia ai nostri sforzi diretti ad
attribuire inconfutabile statuto “reale” al mondo a noi “esterno”, sia a quelli profusi in
direzione opposta per confermare la natura illusoria dei sogni 615.
In
definitiva,
percepiamo
l’esistenza
di
un
quadro,
che
noi
stessi,
benché
figure
rappresentate, in parte dipingiamo senza tuttavia vederne la cornice, né sapere se aldilà di
quella altri disegni e altri confini includano il primitivo e familiare scenario, cosicché il viaggio
intrapreso non è conoscibile in tutta la sua complessità. Nel medesimo tempo, però, la sua
stessa
indecifrabilità,
paradossalmente,
lo
semplifica:
comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto.”
616
Una
ambigua,
“realtà”,
qualunque
essa
sia,
sempre
“Temi
ma
Dio
e
sovrana,
osserva
sospesa
i
suoi
com’è
nell’indecidibilità del dilemma sogno o son desto, ci invita, per lo più, a intraprendere
612
Oltre alle considerazioni svolte nella parte finale del cap. 2) della terza sez. sul sogno mistico nell’ebraismo, cfr.
anche G. Laras, Immortalità e resurrezione cit., 64, luogo in cui si sviluppa il tema dell’acquisizione dell’Eternità
attraverso il pensiero delle cose eterne.
613
Operazione quasi imposta dall’analisi testuale del racconto borgesiano
614
Cfr. p.e., in W.D. O’ Flaherty Dreams Illusion cit., il capitolo Introduction: Trasformation and Contradiction, pp.
3-13.
615
W.D. O’ Flaherty, op.ult.cit., 119.
616
Qoelet, 12.13, in La Bibbia di Gerusalemme cit., 1356.
227
modeste navigazioni di piccolo cabotaggio, in cui le stelle possono sì orientarci, ma non
essere raggiunte.
L’illuminazione, proprio perché ci abbaglia con fugaci bagliori di Eternità, potrà forse infine
svelare che sì, siamo mere parvenze, siamo davvero la proiezione di un altro, o le vittime dei
mutevoli incantesimi di maya. Tuttavia non ne verrà umiliazione o terrore 617. Navigando senza
la tracotante ambizione di varcare i limiti 618, ma vigili, con lo sguardo attento alla volta
celeste, si cresce in modo forse lento ma equo. Si può, si deve lasciare senza troppo dolore il
rimpianto giardino d’infanzia, di specchi e di deliri, quel labirinto colmo di incanti – ogni
svolta sbagliata, ogni sosta perplessa è un incanto - che non abbiamo alcuna fretta di
spogliare dall’enigma - forse deludente - che ne protegge la bellezza, e che, svelato, la
corrompe. Il nostro immaginario, abbandonato il folle volo, potrà acquietarsi, senza però mai
rinunciare all’attesa del momento propizio della rivelazione. Svegliata dal lampo di Eternità,
proprio la coscienza del nostro fragile consistere in fantasmi onirici, la disillusa certezza della
nostra deprecabile impermanenza, potrà, di tanto in tanto, arrestare la ruota incessante dei
sogni ridondanti e abissali; tuttavia non sarà per cercare il nirvana e sfuggire al samsara619 o
all’Eterno Ritorno micidiale, ma perché anch’essa, la consapevolezza fuggevolmente
ridestata, sognerà a sua volta: non più altri uomini o universi, bensì il sogno senza limiti,
eppure non protervo, di Proust e Borges: i poveri cortili di Barracas, la stanza di Cambray, un
sogno di cose piuttosto semplici, eppure così grande e stupefacente, così vivido nel tracciare
un’ultima volta i profili già lontani dei campanili di Martiville, che l’immensa compagnia dei
sognatori, vivi e morti, assorta su un mare scintillante di luna, almeno per un istante cesserà
di sognare altro e si fermerà a guardarlo.
Così il nostro uomo taciturno, lo straniero, libererà l’imbarcazione incagliata e specchiandosi
in questa eternità povera e dimessa, che finalmente gli appartiene, potrà fare Dio620.
617
Finale del racconto commentato: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una
parvenza, che un altro stava sognandolo.” (J.L. Borges, Le rovine circolari, Ed. Torino 1995, 54).
618
“Dov’Ercole segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta” (D. Alighieri, Inferno, XXVI, 108-109,
in La Divina Commedia cit., 237.
.
619
Cfr. L. Beolchi, Introduzione alla filosofia indiana cit, pp. 214-215 e n. 495.
620
C. Mopsik, in Les grands textes cit. 591: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite comme
s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH. » (Ps., 119, 126).
228
3) Il percorso compiuto
Lo sguardo retrospettivo621 è spaventoso perché rivela l’assiduità con cui il mito platonicoaristotelico della “non contraddizione” è rinnegato. Sapendolo, ho cercato di navigare al
confine fra occidente e oriente622.
La rettilinea brevità, alla quale poco confidente mi accingo, è mezzo espressivo chiaramente
incongruo all’andamento circolare degli argomenti trattati.
La semplificazione623, convenzionalmente necessaria alla destinazione pratica di questo testo,
annienta le sfumature, la cui insignificanza è forse riscattata dal loro temerario e ostinato
riprodursi.
Bandite le divagazioni, relegate in nota le debite informazioni sulle fonti 624, si è dapprima
raccontato di un Borges “saggista”625 affascinato dalla Cabbala perché vi scorge procedimenti
ermeneutici evidentemente in linea con i propri.
Quali essi siano, è tanto facile arguirlo che presto il tema, ovvio e dibattuto, dell’analogia di
metodo tra mistica ebraica, in cui le porte dell’interpretazione sono sempre aperte 626, e
attività letteraria borgesiana, per ironica scelta mera affabulazione del già scritto 627
621
Le “conclusioni”, per così dire, “teoretiche” di questo lavoro sono probabilmente quelle accennate nel capitolo
precedente. Tuttavia ora l’ampiezza e la complessità dei temi trattati impongono di ripercorrere in breve il cammino
compiuto.
622
Alibi invocato soprattutto a titolo personale. Non mancano evidentemente, “tradimenti” anche nelle fonti reperite.
Tale prinicipio, come è noto, appare meno indiscutibile nel pensiero orientale. (Cfr. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit.,
pp. 180, 187).
623
Questo capitolo conclusivo sarebbe destinato, secondo tradizione, a sommario, per così dire, di quanto scritto. Il
taglio di questo lavoro rende particolarmente impervio l’obiettivo. In ogni caso, la necessaria semplificazione dei temi
svolti implica indebite generalizzazioni che non possono riflettere le complessità affiorate nel corso della trattazione.
624
Cfr. partic. n. 6,7,8 e 11.
625
Si è detto, soprattutto nella prima sezione di questo lavoro, della inadeguatezza di qualsiasi classificazione di
genere riferibile a Borges.
626
Cfr. n. 579.
627
Sulla presunta mancanza di novità o originalità degli scritti di Borges, cfr. le osservazioni critiche di Vian, Invito
alla lettura di Borges cit., 196. Scrive lo scrittore argentino: “Non ho difficoltà a riconoscere che ha (Borges, n.d.r.)
dato vita ad alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che vi è di buono non
appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio o alla tradizione”. (Borges e io, in L’artefice, da Tutte le
229
(sconfessata l’impossibile presunzione di originalità), è stato abbandonato628. Non un taglio
netto, però, perché l’oblio teorico è stato ampiamente confutato dalla discutibile “poiesis”
personale, che ha maldestramente preteso di evocare, attraverso la forma adottata nella
redazione di questo lavoro, proprio il tema eluso 629.
Apparente omissione – ribadisco, emendatasi in concreto - probabilmente colpevole: l’infinita
esegesi della Torah, un testo sacro eterno e originario, è - doverosamente rilevata qualche
generica analogia - cosa diversa dall’incessante ermeneutica dei classici (e non solo) della
opere cit., Vol.1, 1169).
628
E’ questo indubbiamente il tema più caro a chi si è occupato, soprattutto in Spagna e Argentina, dei rapporti fra
Borges e la Cabbala. In particolare molto si è scritto sull’analogia tra la Sacra Scrittura inteso come testo “dettato”
dallo Spirito Santo, rispetto al quale l’uomo svolge modesta opera di segretario-amanuense, e l’intertestualità che oggi
caratterizza la concezione postmoderna della letteratura, mero palinsesto in cui lo scritto prevale sullo scrittore, e nel
quale l’originalità dell’autore è ormai mito obsoleto [“La originalidad artistica es un fraude; el arte non es
espontaneo, està predestinado siempre; la postura clasica (la correcta), que es similar a la visiòn tradicional de las
Escrituras, es que la literatura debe ser un palinsesto..”]. (E. Aizenberg, Borges, el tejedor de l’Aleph cit., 71; cfr.
anche J. Kristeva, Semiotica I, Madrid, 1978, 71). Si tratta di argomenti di teoria letteraria intorno ai quali si è
dibattuto con molto acume. Sono stati accennati più volte in questo lavoro, ma non sviluppati particolarmente in
quanto già approfonditi dalla critica come meglio non si potrebbe. Basti pensare anche all’accennata interpretazione
midrashica del testo sostanzialmente proposta da Bloom e nucleo di un importante filone dell’ermeneutica letteraria
(che dunque farebbe propria di fatto una metodologia integralmente cabbalistica) sviluppatosi dopo la confutazione
del logocentrismo greco da parte di Derrida e la celebrazione della primazia del segno scritto, concetto essenziale
dell’ebraismo, sublimato dalla Torah e dall’esegesi rabbinica. Si è detto, giustamente, che Borges è stato antesignano
di questo procedimento, avendo creato un “genere” (affine appunto a quello cabbalistico in senso lato) in cui la
distinzione tra “testo narrativo” e “commento al testo” tende a estinguersi. (Cfr. E. Aizenberg, op. ult. cit., pp. 140149). A questo tema è connesso anche quello legato alla concezione della Bibbia come Testo Assoluto (su cui ci si è
intrattenuti nel cap.3 della II sez). Altro evidente parallelismo di natura metodologica, messo puntualmente a fuoco
dalla critica è l’uso della pseudoepigrafia da parte di Borges e dei Cabbalisti medievali.
629
Sul tentativo di rendere, in modo approssimativo, attraverso la scrittura il movimento di pensiero comune
all’ermeneutica ebraica e borgesiana, cfr. il cap. 1) della I sez. e n. 2.
230
letteratura630. Per mitigare le distanze concettuali, talvolta oscurate dalla critica 631, ho tentato,
senza pretese, di “narrare” di nuovo un racconto di Borges, Le rovine circolari, che tratta un
tema in un certo modo “biblico”, perché orientato verso il Principio e la creazione, pur mediati
dal sogno632.
Si è detto anche, sempre navigando in superficie, del paradosso, che sbalordisce nell’uno e
nell’altro movimento di pensiero: non ha sorpreso quindi la Cabbala borgesiana, così
fortemente orientata verso la gnosi dualistica633, né lo sbigottimento del nostro di fronte alla
Torah, un testo per definizione assoluto, in cui nulla può essere casuale 634: negarne la
prodigiosa natura, in definitiva, confuterebbe la genesi divina del libro.
Troppo fredda però è parsa l’enigmistica intellettuale della quale Borges pare compiacersi. Lo
scrittore è sì affascinato dalla miracolosa esistenza di un libro di siffatta provenienza e
630
“Del resto è lo stesso Borges ad affermare che ogni originalità è illusoria perché è troppo legata al presente, e
dunque al transitorio. Come dice lui stesso, reiterare l’idea e la forma che hanno resistito al tempo è il modo di
iscriversi nell’eternità dell’umanità purificata, quella che resiste al tempo e ai cambiamenti inevitabili che esso
comporta, quella dei classici e degli archetipi”. (Commento di A. Bertoli, in J.L. Borges, Testamento cit., 91).
631
Non si può quindi del tutto convenire con chi considera la stessa cosa, in sostanza, l’ermeneutica cabbalistica della
Bibbia e l’interpretazione dei classici. Nonostante talune indubbie analogie di ordine assai generale, le differenze, per
così dire, onotologiche tra un testo sacro, in tesi onnicomprensivo, originario e assoluto, e le opere letterarie che
persistono nel tempo (i classici) sono così profonde che un confronto (e un’analogia) attendibile tra i due ambiti mi
pare possibile solo là dove il testo (non sacro) presenti anche un’affinità, per così dire, tematica con la Torah (caso che
ritengo ricorra nel racconto di Borges commentato). In caso contrario davvero l’attività del critico letterario si
avvicinerebbe, come ha ipotizzato a Bloom, a quella del “teologo”, tesi certo suggestiva, ma in definitiva piuttosto
unilaterale. In questo senso mi paiono corrette le critiche di E. Aizenberg al geniale studioso americano, in op. ult.
cit., pp.140-149.
632
Impossibile immaginare un testo “più originario” della Bibbia, e in particolare del Genesi. Non solo perché, nei
contenuti, tratta il tema del Principio, ma anche in quanto si pone come palinsesto della Creazione, precedendo, in un
certo senso, il Mondo e rispecchiando in sé l’Eternità Divina, come si è cercato di scrivere nel precedente capitolo. Il
racconto di Boges scelto ambisce sviluppare un discorso, sia pure, a mio avviso, destinato alla frustrazione e alla
circolarità infeconda (cfr. considerazioni nel prec. capitolo), sull’Origine.
633
Cfr. J.L. Borges, La cabala, in Sette notti cit (Cap. 2 Sez. II). Sul tema gnostico e sui rapporti con il pensiero di G.
Scholem, cfr. cap.1) sez. II.
634
Cfr. J. L. Borges, Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334
231
complessità, necessariamente aperto, fino alla prolissità numerica, a qualsiasi domanda, ma
sembra anche assai poco incline a cogliere quel movimento di solidarietà e cooperazione tra
Dio e l’uomo, che sublima, nella Cabbala, un’ermeneutica altrimenti forse destinata a
esaurirsi senza trovare sbocchi fecondi.
Fin qui, dunque, i rapporti tra Borges e mistica ebraica paiono manifestarsi per un tratto in
superficie e per un altro in profondità. Da un lato si legge l’interesse dell’intellettuale, al quale
non è estranea, forse, una leggerissima punta di supponenza, per una dottrina sotto certi
aspetti sorprendente e curiosa; dall’altro, tentando un’immersione più ardita, si profilano, in
questa complessa relazione, talune linee, per così dire, strutturali, comuni ai due pensieri,
come l’ansiosa ricerca di un principio aldilà dell’Origine data, e la sorpresa per l’insperata
disponibilità di un testo (sacro) scritto, o anche di una sola parola, di una lettera, persino,
antecedente al Principio, quasi intollerabilmente gravida, in cui è compreso l’Universo intero e
si può leggere tutta la storia. Si tratta di uno snodo fondamentale, perché tale ultima
impagabile risorsa rileva sia sul piano squisitamente linguistico – semantico, esaltando la
sovrabbondante
“pienezza”
del
segno635,
sia
nell’ambito
della
metafisica
fantastica
(espressione ridondante per Borges), perché accentua la creatività-originarietà - da
intendersi come capacità di produrre veri e propri universi - dell’Aleph, cifra-Sephirà
profondamente emblematica nell’immaginario borgesiano 636.
Ma il versante forse più fecondo della relazione con la mistica ebraica si manifesta, secondo la
lettura prospettata in modo forse più approfondito, con il “consapevole fraintendimento” che
scaturisce dall’accoppiamento, di cui Borges è non volgare prosseneta, tra la Cabbala e il
sogno.
635
In Altre inquisizioni (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 1004), Borges, come si è
ricordato altrove, scrive di un idioma universale inventato dal (probabilmente) immaginario John Wilkins. E’ un
linguaggio in cui “ogni parola definisce se stessa” e “ciascuna delle lettere che compongono (le parole) è
significativa, come lo furono quelle della Sacra Scrittura per i cabalisti.” Sulle implicazioni della creatività della
scrittura e della parola, patrimonio ideale della mistica ebraica dal quale Borges ha ripetutamente tratto spunto (e tema
su cui ci si è spesso intrattenuti), cfr. le approfondite riflessioni di S. Sownowski, in Borges y la Cabala cit., in part.
pp. 1-26).
636
“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano
l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le
opere cit., Vol. 2, 369).
232
La lettura de Il golem di Meyrink, romanzo ovattato in un’ambigua bruma onirica 637, e
l’indubbia influenza delle filosofie indiane “idealistiche”, spesso affioranti nei suoi racconti e in
qualche saggio meno impegnativo scritto in collaborazione con altri 638, producono, insieme
alle indubbie conoscenze di mistica ebraica mediate da Scholem e in parte contaminate da
una radicalizzazione solipsistica dell’idealismo platonico639, quel singolare, ma affascinante,
melting pot narrativo, che trova ne Le rovine circolari una delle espressioni più felici.
Si è parlato di fraintendimento cosciente: ritengo che Borges, assai colto, ma non
condizionato da vincoli accademici che gli avrebbero imposto scrupoli e rigore, irretendone –
presumo - la vena creativa, abbia volontariamente mescolato le diverse letture, o non si sia
troppo preoccupato di delimitarle, traendo liberamente ispirazione dal suo enorme ma
sbrigliato patrimonio di conoscenze per dare vita a un nuovo immaginario filosofico e
teologico. In tale prospettiva le fonti originali, spesso mere informazioni enciclopediche,
offrono allo scrittore solo lo spunto per volgere in fiction metafisica quelle attraenti
argomentazioni e dottrine che, di regola, confutano il comune buon senso, disintegrando il
cosiddetto “realismo ingenuo”.
L’esito è curioso ma fecondo: le Sephirot, attraverso le quali opera la costante interazione tra
Dio e l’uomo, strumenti della creazione del macrocosmo e del microcosmo 640, diventano
637
Cfr. Cap.1) III sez. Quel romanzo inoltre introduce il tema strutturale del sogno nel sogno.
638
Cfr. J. L. Borges – A. Jurado, Cos’è il buddismo, Milano, 2003. L’influenza generica delle filosofie di origine
indiana e della complessa mitologia a queste connessa, è fortemente presente soprattutto nella concezione del sogno
cosmico, espressione della maya illusoria che tesse il mutevole ordito del mondo esterno. Strumento proficuo di
approfondimento di questi temi è il citato Dreams Illusions di W.D. O’Flaherty.
639
Tema costantemente presente sia nella narrativa di Borges (si pensi al celebre Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, da
Finzioni, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 631), sia nell’affabulazione metafisica; a tale proposito neppure la concezione
borgesiana della specularità del mondo sefirotico della Cabbala è estranea al platonismo (e ciò, si è detto, anche per
l’influenza di commentatori della mistica ebraica, come Serouya - cfr. n.11 - che hanno evidenziato soprattutto la
natura archetipa del mondo in alto rispetto al mondo in basso).
640
M. Idel, in Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 134 ss., prospetta tre soluzioni principali circa la natura delle
Sephirot attestata nelle opere dei Cabbalisti medievali: “Le Sefirot sono parte della natura divina e partecipano
dell’essenza divina (“”Sephirot come essenza””); 2) le Sefirot sono non divine in essenza, benché strettamente
connesse con la divinità, o come suoi strumenti per creare e governare il mondo, o come recipienti dell’influsso
divino, attraverso i quali esso si trasmette ai mondi inferiori; 3) le Sefirot sono l’emanazione divina all’interno della
realtà creata: costituirebbero pertanto l’elemento immanente della Divinità.” (Op. ult. cit., 135).
233
involontarie emanazioni di una Divinità distratta, simili, forse uguali, ai sogni degli uomini, ai
quali è d’altra parte attribuita una possibile “concorrente” funzione demiurgica produttiva di
una serie indefinita di proiezioni, irresponsabili fautrici di universi innumerevoli.
Al vertice di tale abissale catena potrebbe tuttavia ciecamente adoperarsi una Volontà, di
indole schopenaueriana, forse per certi aspetti assimilabile all’ebraico En Soph641.
L’introduzione del sogno e di una paralella divina negligenza nel processo creativo
emanazionista determina una svolta critica nella relazione tra Borges e la Cabbala. E’ in
sostanza la singolarità che modifica l’orizzonte di senso di tutti gli elementi entrati in scena: il
mondo onirico nel pensiero ebraico assolve sostanzialmente 642 una funzione, propriamente
mistica, di comunicazione intima tra l’uomo e la Divinità 643. Essa è sensibilmente diversa da
quella prospettata dallo scrittore, che, pur inserendo l’affabulazione teologica in una cornice
cabbalistica 644, in sostanza propone implicitamente una possibile contaminazione tra
neoplatonismo e mitologie cosmogoniche di estrazione induista, nelle quali spesso il gioco del
“dreamer dreamt” è strutturale645.
Da un lato la dimensione cosmica del sogno “creativo”, spalancando vortici abissali, sembra
accentuare la distanza fra l’uomo e Dio, prigionieri di un solipsismo non alleviato
dall’inesauribile vena demiurgica che forse condividono; dall’altro, le analoghe potenzialità
produttive accreditate alla Divinità e a Adamo - pur reciprocamente isolati - nel condiviso
processo emanazionistico, paiono attribuire loro caratteristiche non dissimili, diminuendo lo
scarto tra i due poli, accomunati dal frequentare un’analoga “strumentazione” demiurgica 646.
641
Cfr. n. 152 e 156.
642
Non è peraltro la sola funzione. Si pensi per esempio a quella predittiva, più squsitamente ermeneutica (cfr. cap. 2
della III sez.).
643
Cfr. parte finale del cap.2) sez. III.
644
Cfr. cap. 4) sez. II, La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki (in J. Alazraki, Borges and the
Kabbalah cit., pp. 54-61).
645
Cfr. p.e. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., pp. 3-13. Questa autrice, riferendosi a un passo della Brhadaranyaka
Upanishad (2.1.20), scrive (p.16): “The verb sri, used to express projection, means litteraly to “”emit”” (as semen or
word), and it frequently occurs in stories about the process of creation (sarga, from sri) in weach the creator emits the
entire universe from himself the way a spider emits a web”.
646
Proprio perché entrambi, secondo Borges, utilizzano il sogno per creare.
234
Il rapporto fra Dio e l’uomo, pur innegabilmente esistente, vive, in questa fase 647 dell’attività
letteraria borgesiana, di specularità e forse di competizione; di nuovo 648, esso non si fonda
affatto sulla cooperazione “costruttiva” immanente al pensiero ebraico, che esalta il reciproco
contributo nel processo di formazione dei due enti 649, né, tanto meno, mi pare, sulla
integrazione-indifferenziazione tra Assoluto umano e divino, tra anima universale e
individuale, tra brahman e atman: siamo lontanissimi così anche dal possibile shared dream,
comune a Dio e all’uomo, cui fra l’altro allude la O’ Flaherty nel prospettare i diversi livelli di
“realtà” delineati dal pensiero indiano 650.
Tuttavia proprio questa deviazione dalle dottrine ortodosse della cosmogonia ebraica
consente di verificare, anche considerando il contributo decisivo di alcuni esiti narrativi e
poetici, il rapporto tra Borges e la mistica a un diverso livello.
Chiave di questo passaggio è proprio il sogno, ambivalente cifra dell’immaginario, bifronte
come il greco pharmakon, rimedio e insieme veleno: da una parte esso è sia veicolo di un
viaggio altrimenti precluso verso l’Origine dell’esperienza creativa, sia forma e materia di
mondi innumerevoli forgiati dalla libertà dell’immaginazione, sfrenata fino all’angoscia,
inesorabile conseguenza delle infinite possibilità di scelta e d’altro canto espressione di
un’atroce indecidibilità, alla quale neppure riesce a sottrarsi la creazione letteraria 651;
647
Non mi riferisco a una fase temporale. Come già chiarito, la circolarità della produzione letteraria borgesiana
preclude una sequenza evolutiva, cronologicamente scandita, del suo pensiero. Alludo piuttosto alla fase definita, con
molta approssimazione, “saggistica”, tenuta distinta, con altrettanta arbitrarietà, da quella narrativa e poetica.
648
Si tratta di una conferma, rilevata ora in chiave “cosmogonica”, dell’assenza di una reale dimensione mistica, già
emersa, come accennato, nel commento del saggio Una rivendicazione della cabala.
649
Il tema, ampiamente trattato in questo lavoro nel cap. 3) della II sez., è stato approfondito soprattutto dalla mistica
teurgica di M. Idel, nel più volte rammentato Cabbalà Nuove Prospettive.
650
W.D. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., pp. 127 ss. In particolare, la condivisione del sogno di Rudra (211-213).
L’autrice evidenzia con molta attenzione proprio i rapporti tra gli universi onirici e i paradossi del “sognatore –
sognato”, soffermandosi sulla creazione di mondi immaginari e approfondendo il tema delle sovrapposizioni e delle
interazioni: “..We cannot live in someone’s world unless we can enter into someone else’s experiences”. (Op.ult.cit.,
238).
651
Cfr., oltre alle riflessioni sulla concezione di Foucault, sviluppate nel cap.2) della III sez., anche le citazioni dalle
opere di Poe, Valery e Callois, riferite nel precedente capitolo di questa sezione conclusiva. Si noti anche che nella
lingua egiziana la parola per “sogno” è reset, dal verbo res essere sveglio, vegliare, svegliarsi; il sonno è dunque
sentito come una porta che conduce al sogno, come un risveglio a un’altra realtà, coincidendo in modo sorprendente
235
dall’altra, è universo illusorio e ingannevole, se si confida nella priorità di una realtà “solida”
“pubblica” e permanente, qualitativamente differente dal mondo mentale e privato: se
dunque si crede, in definitiva, nell’esistenza di una barriera percepibile fra sonno e veglia,
della quale, evidentemente, la luce onirica è solo pallida ombra, e la fede nella sua disillusa
veridicità, degradante umiliazione.
Ma – si è detto - il sogno è - oltre a tutto ciò – anche una delle forme possibili della devequt
ebraica, l’itinerario mistico eccellente, o almeno, il più adeguato canale di comunicazione per
il cui tramite l’anima dell’uomo può, eludendo nottetempo le sentinelle del corpo
addormentato, aspirare a congiungersi con l’Intelletto Agente e con l’Eternità 652.
Ecco l’antinomia653- o meglio, il volontario fraintendimento – da cui nasce la mia
interpretazione, se pure l’uso di questo termine è corretto, del racconto Le rovine circolari:
come restituire o attribuire una dimensione mistica autentica – se ciò è possibile senza
troppo indulgere all’arbitrarietà – al rapporto fra Borges e Cabbala, o almeno, in che modo
verificarne l’eventuale esistenza654? Come far evolvere, in altre parole, un mero interesse
intellettuale per un certo meccanismo, uno stupore per l’inaudito, in una ricerca profonda e
sofferta? Come trasformare una storia di magia frustrata o l’esito angoscioso di un delirio di
onnipotenza inappagato (tale potrebbe anche sembrare il senso predominante del racconto)
in un percorso più accidentato e fecondo?
col concetto moderno della veglia cerebrale nel sonno”. Cfr. E. Bresciani, La porta dei sogni, Torino, 2005, 13.
652
Cfr. cap.2) sez. III.
653
Antinomia tra il sogno mistico ebraico e il sogno nelle altre accezioni – cosmiche e creative – importate da
esperienze culturali di diversa provenienza.
654
Naturalmente non è affatto necessario che “esista” una dimensione mistica nel rapporto fra Borges e Cabbala: può
ben bastare la relazione, per così dire, culturale, che la critica, come si è sottolineato, ha colto da tempo. Tuttavia ho
creduto opportuno, nel tentativo di offrire qualche spunto leggermente più innovativo, verificare a fondo la mera
“possibilità” di esistenza di un rapporto più decisamente orientato in senso mistico. Ovviamente per farlo ho cercato
di utilizzare strumenti ermeneutici pertinenti soprattutto, ma non solo, alla Cabbala, per “leggere” il racconto
cercando connessioni meno evidenti con il simbolismo del pensiero ebraico. Dato per scontato, in altre parole, il
patrimonio di conoscenze che Borges ha mediato da Scholem, ho cercato di evidenziare l’elaborazione, anche
inconsapevole, di questo materiale nell’opera esaminata.
236
Tentando – posso rispondere - di andare aldilà del testo commentato, con l’immaginare 655 un
viaggio, una peripezia, nella quale l’itinerario mistico ebraico, il complesso gioco onirico della
cosmogonia indiana e lo slancio creativo dell’artista sulle tracce del momento originario 656 - in
una parola, le diverse funzioni del sogno intrecciate dialetticamente - possano convergere
verso un orizzonte di senso comune e un territorio da condividere.
La contaminazione tra elementi disparati e l’eclettismo, d’altra parte, sono eminentemente
borgesiani. L’ermeneutica esasperata, benché ovviamente assai più concisa e stilisticamente
limpida di quella che ho proposto, anche.
Credo quindi che l’operazione intrapresa, alludo all’intenzione, non all’incerto esito, sia
compatibile con il movimento di pensiero sotteso ai due ambiti di questo studio.
Ecco così delinearsi l’intrico di temi che, racchiusi entro le cornici sfuggenti e irraggiungibili
della polisemia onirica della narrazione, si sono moltiplicati incessantemente intorno a Le
rovine circolari.
Il racconto a un primo sguardo non evoca affatto un viaggio, ma piuttosto l’iniziazione
“cabbalistica” alla magia demiurgica del personaggio che tiene la scena dall’inizio alla fine: un
lento e tribolato apprendistato finalizzato alla creazione di un uomo-figlio attraverso la
frenetica reiterazione di proiezioni oniriche; un percorso circolare concluso con la scoperta
umiliante che l’inconsistenza umbratile della creatura è condivisa dal padre, a sua volta il
sogno di un altro.
E’ facile rilevare in superficie la presenza di motivi tratti sia dalla mistica ebraica – mi riferisco
soprattutto alla procedura di animazione, che, sposandosi alle dottrine del Nome, evoca la
leggenda del golem657 – sia dalla mitologia indiana (alludo al mitema del “sognatore
655
Sono andato certo oltre le intenzioni dell’autore, ma, credo, senza usargli violenza, perché in fondo, senza certo
volerne emulare le gesta, ho assecondato la sua concezione di letteratura progressiva, non a caso coerente con le
procedure ermeneutiche cabbalistiche.
656
Tre diverse dimensioni di un unico elemento strutturale, ossia del sogno, nelle sue distinte – eppure convergenti –
peculiarità di sogno mistico, sogno cosmico e sogno creativo.
657
“Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così
inabile, rozzo ed elementare come quest’Adamo di polvere, era l’Adamo di sogno che le notti del mago avevano
fabbricato.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., da Finzioni cit., ed. Torino 1995, 52.
237
sognato”658 e, più in generale, alla facoltà di materializzare cose o persone attraverso la
proiezione onirica659, inquadrata nell’ortodossia dell’iniziazione rituale).
Tuttavia una lettura “statica” – peraltro, ritengo, abbastanza condivisa dalla critica 660 – che si
limiti a censire frettolosamente la presenza
di questi temi piuttosto ovvi 661, individuando
nella frustrazione del delirio di onnipotenza dell’uomo taciturno il motivo
centrale del
racconto, per quanto certamente plausibile, non renderebbe a mio avviso completa giustizia
al genio creativo di Borges.
Credo infatti che la sua opera, “aperta” per definizione e per scelta, intenda stimolare, se non
addirittura produrre, intense riletture, nelle quali nuove contaminazioni, connessioni e persino
fraintendimenti (nel senso precisato da H. Bloom) possano avere diritto di ospitalità.
Naturalmente, se questa spinta ermeneutica è condivisibile, non può stupire che la risonanza
emotiva dell’estasi mistica, pur esistente sub specie aeternitatis secondo l’interpretazione
proposta nei precedenti capitoli662, debba essere cercata e, in un certo modo, costruita, come
si è suggerito, ampliando l’indagine a altri testi borgesiani 663 e ricorrendo persino a autori
diversi.
Questa esigenza è infatti emersa non appena la narrazione è stata scandagliata in profondità
e gli elementi della Cabbala, insieme ad altri provenienti da territori culturali estranei
all’ebraismo, sono stati non solo censiti quali i più esotici arnesi dell’”officina” di Borges
658
Cfr. W. D. O’ Flaherty, Dreams Ilusion cit., pp. 252 ss.
659
Cfr. n. 450 sul rito di iniziazione nel Tantraloka. Il riferimento al sogno cosmogonico è costante nella filosofia e
nella mitologia indiana, costituendone uno dei motivi essenziali. Esplicito è H. Zimmer: “Il processo cosmico è la
materializzazione del sogno di Visnù.” (In Miti e simboli dell’India cit., 175).
.
660
Cfr. p.e. n. 508. Ma questa lettura è certo quella prevalente. Cfr. anche C. Vian (in Invito alla lettura di Borges cit.,
139): ”L’esperienza poetica diventa dunque una specie di succedaneo di quella mistica, come grandi e rari spiriti
avevano intuito (Holderlin) e ridetto i lirici pensanti del Novecento: e il poeta una sorta di eterodosso o eretico, il cui
vero compito sarà di ricreare l’universo – come fece il rabbino di Praga col suo “”golem”” –assumendo in certo
modo il ruolo di Dio che non esiste e inquietando l’uomo con le sue finzioni.”
661
Non ricordo, peraltro, di avere letto specifici riferimenti della critica a collegamenti tra la vicenda del protagonista
del racconto e le fonti indiane alle quali si lega il tema del “sognatore sognato”.
662
Cfr. cap. 1 e 2 di questa sezione conclusiva.
663
Alludo in particolare al brano riportato nel primo capitolo di questa sezione. (J.L. Borges, Storia dell’eternità, in
Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 541-544).
238
direttamente utilizzati come materiale letterario, ma, per quanto mi è stato possibile, sono
stati altresì estratti dal contesto dell’opera borgesiana o dalle fonti mistiche per essere
applicati come strumenti ermeneutici del testo: una volta varcati i ristretti limiti della mera
individuazione dei temi, molti spunti di riflessione hanno chiesto di essere verificati e
sviluppati alla luce di altri scritti, che consentissero, per così dire, di evadere dalla struttura
circolare del racconto, portandolo in un certo senso a compimento anche in virtù di
integrazioni extratestuali 664.
Per facilitare il mio compito ho cambiato il ritmo della storia, violentando forse colpevolmente
l’efficacia della sintesi borgesiana e così assecondando la lunga peripezia dell’uomo taciturno,
smarritosi nell’immaginario itinerario mistico inizialmente tracciato 665. La scrittura quindi è
maturata nel segno della formazione e crescita del protagonista, della sua inesauribile
664
L’interpretazione del testo in questione, in altre parole, ha richiesto, nell’ottica prospettata, di essere completata con
il contributo di altre opere (racconti e soprattutto poesie) dello stesso autore. Questa parte del lavoro è stata svolta
soprattutto nel cap.6, in particolare nel paragrafo 6.3.
665
Nel tentativo di verificare la presenza di una dimensione mistica nel rapporto tra Borges e Cabbala, ho fatto
precedere (cfr. parte conclusiva del cap.2 della III sez.) all’analisi testuale un breve brano “narrativo”, specularmente
reiterato nel corso del commento, quasi per rendere visivamente le situazioni di specularità e reiterazione in cui il
protagonista resta imbrigliato. Il brano sfuma nell’inizio del racconto Le rovine circolari per sottolineare la continuità
tra il sogno mistico nel pensiero ebraico e il tessuto onirico del racconto di Borges. Naturalmente si tratta di
un’evidente forzatura, di un’affabulazione arbitraria, forse utile però per rendere in modo plastico l’allontanamento
narcisistico dalla sorgente mistica, e poi il ritorno, attraverso percorsi alternativi (altri passaggi dell’opera borgesiana),
al sogno - uguale e diverso da quello originario - in cui la creatività desiderata vive la sua dimensione, l’unica magia
consentita all’uomo, nell’estasi letteraria.
Pe rendere più evidente questo rapporto tra inizio e fine della peripezia, riporto qui in nota sia la sequenza di brani
collegati che dà origine all’analisi del racconto, sia la conclusione del commento (la parte finale del precedente
capitolo):
“Questo (da riferire al viaggio onirico di Borges, n.d.r.) è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul
quale irrimediabilmente planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e
fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti.
Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in parte da un rozzo
specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se accanto, immobile, una pozza d’acqua se la
sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura?
“”Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma
pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti
villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal
greco, e dove la lebbra è infrequente.””
239
vocazione alla metamorfosi e dell’inesorabile specularità - circolarità della sua esperienza:
ora, poiché non avrebbe senso, ovviamente, ripercorrere quel viaggio - per quanto la
reiterazione, sensibilmente evocata attraverso la forma di questo lavoro, ma della quale già
ho abusato, sia forse l’elemento strutturale più pregnante del racconto - sembra opportuno
accennare solo ad alcune delle linee–guida assecondate.
Intanto il dinamismo ermeneutico al quale il commento si è ispirato ha trasformato il “mago
indiano” de Le rovine circolari, come è stato definito in genere dalla critica 666 e in qualche
passo dallo stesso autore667 (più significativamente compare anche come uomo taciturno o
straniero) nell’eroe dai mille volti: Ra, Ulisse, Prometeo, Platone, Narciso, Sisifo, Jorge Luis
Borges, il Marcel de La recherche, e tanti altri personaggi della letteratura e della mitografia.
Così facendo, da una parte ho voluto rendere omaggio a un “classico”, che, in quanto tale, si
arricchisce di nuovi significati a ogni lettura, compendiando virtualmente in sé tutte le grandi
opere che sono state scritte prima – e delle quali i “nomi” emblematici del mito sono potenti
“... Navigando senza la tracotante ambizione di varcare i limiti, ma vigili, con lo sguardo attento alla volta celeste, si
cresce in modo forse lento ma equo. Si può, si deve lasciare senza troppo dolore il rimpianto giardino d’infanzia, di
specchi e di deliri, quel labirinto colmo di incanti – ogni svolta sbagliata, ogni sosta perplessa è un incanto - che non
abbiamo alcuna fretta di spogliare dall’enigma - forse deludente - che ne protegge la bellezza, e che, svelato, la
corrompe. Il nostro immaginario, abbandonato il folle volo, potrà acquietarsi, senza però mai rinunciare all’attesa del
momento propizio della rivelazione. Svegliata dal lampo di Eternità, proprio la coscienza del nostro fragile consistere
in fantasmi onirici, la disillusa certezza della nostra deprecabile impermanenza, potrà, di tanto in tanto, arrestare la
ruota incessante dei sogni ridondanti e abissali; tuttavia non sarà per cercare il nirvana e sfuggire al samsara o
all’Eterno Ritorno micidiale, ma perché anch’essa, la consapevolezza fuggevolmente ridestata, sognerà a sua volta:
non più altri uomini o universi, bensì il sogno senza limiti, eppure non protervo, di Proust e Borges: i poveri cortili di
Barracas, la stanza di Cambray, un sogno di cose piuttosto semplici, eppure così grande e stupefacente, così vivido nel
tracciare un’ultima volta i profili già lontani del campanile di Martiville, che l’immensa compagnia dei sognatori, vivi
e morti, assorta su un mare scintillante di luna, almeno per un istante cesserà di sognare altro e si fermerà a guardarlo.
Così il nostro uomo taciturno, lo straniero, libererà l’imbarcazione incagliata e specchiandosi in questa eternità povera
e dimessa, che finalmente gli appartiene, potrà fare Dio”.
666
Cfr. p.e. E. Monegal, Borges, una biografia letteraria cit., 345. Questo scrittore più esattamente parla di sacerdote
indiano. Quasi tutti gli altri alludono alla magia e al mago indiano. Raramente (forse mai) ho però visto
approfondimenti sulle fonti indiane. D’altra parte, come si è sottolineato, anche per quanto riguarda i temi
cabbalistici, la critica si è in genere limitata a individuarli, senza approfondirne le implicazioni.
667
“In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio concentrico.” (J.L. Borges, Le rovine
circolari, ult. ed. cit.,54).
240
“agenti evocatori” ricchissimi di senso – per preparare il terreno al raffronto “agonistico”,
come ritiene Bloom668, con gli esiti degli autori futuri, che non potranno prescindere dal
“fraintendere” Borges; dall’altra ho dilatato la storia, frammentandone il testo e mascherando
il protagonista, per consentire la graduale formazione di un giudizio etico sul personaggio –
possibile, forse, solo rallentandone la vita669 - in modo da attestarne eventualmente una
progressiva e sofferta “crescita”, che rendesse plausibile la ricerca di una dimensione mistica:
essa, aldilà di qualsiasi implicazione sulla sua controversa definizione 670, mi pare presupponga
comunque, a ogni livello671, una partecipazione emotiva ben più intensa di quella che, quanto
all’atto d’autore produttivo del testo, pare alimentata solo dallo svago intellettuale finalizzato
al mero intrattenimento letterario672, e, quanto alla sua destinazione, sembrerebbe, alla
668
Cfr. H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia cit. Scrive Borges: “Il fatto si è che ogni
scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.”
(da Altre inquisizioni cit., in Tutte le opere, Vol. 1, 1009). Ancora: “Classico non è un libro (lo ripeto) che
necessariamente possiede questi o quegli altri meriti; è un libro che le generazioni degli uomini, spinte da diverse
ragioni, leggono con previo fervore e con una misteriosa lealtà.” (op.ult.cit., 1092).
669
Un racconto breve come Le rovine circolari non è altro che la rapida narrazione di una sequenza di eventi. Del tutto
estraneo alle sue finalità, del tutto avulso dalla sua struttura sarebbe ovviamente qualsiasi “approfondimento
psicologico” dei personaggi (stridente poi con lo stile borgesiano). Nella prospettiva di verifica dell’esistenza di una
dimensione cabbalistica – mistica – più profonda, invece una maggiore penetrazione di certi risvolti (non tanto
“psicologici”, quanto legati all’esplorazione interiore anche in virtù dell’affabulazione) sembra opportuna. Essa può
avere consistenza solo rallentando il ritmo del racconto e la vita del protagonista.
670
Intendo “mistica” nell’accezione più generica (infatti, come ha scritto G. Scholem in Le grandi correnti della
mistica cit., 17, il numero di definizioni della mistica è grande quanto il numero degli autori che ne hanno scritto).
Richiamo, per semplificare, la definizione di R. Goetschel (in La Cabbalà cit., 10): “La mistica designa generalmente
un cammino o una disciplina spirituale che porta l’uomo a un contatto diretto e, al limite, a una unione intima,
sperimentata, con Dio. La mistica scaturisce da una aspirazione a valicare i limiti dello spazio e del tempo ordinario
per poter realizzare una comunicazione con il divino.”
671
Dunque a livello di autore, testo e destinatario. Riterrei infatti che la dimensione mistica debba interessare tutte le
fasi della produzione del testo letterario, presupponendo una diversa e totalitaria chiave di interpretazione del codice.
672
Borges “giudica” la letteratura in modo “edonistico”, “vale a dire, .. secondo il piacere o l’emozione che mi dà.”
(Cfr. F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges cit., pp. 119-120). Nel Prologo del Manoscritto di Brodie (in Tutte
le opere cit., Vol.2, 369) scrive: “I miei racconti, come quelli delel Mille e una notte, vogliono distrarre o
commuovere, non persuadere”.
241
prima lettura, limitata a destare nel fruitore la sorpresa, pur angosciosa, per le vicende
originate da un curioso sogno abissale, del quale non si vede l’inizio né la fine.
Operazione, me ne rendo conto, certamente discutibile almeno sotto due profili.
Da una parte, perché la “finzione” può sembrare gratuita, non apparendo in alcun modo
necessitata: posso tuttavia eccepire che uno studio pur parziale sui rapporti fra Borges e
Cabbala – paradossalmente, proprio perché nulla l’impone – può “costringere” a immersioni
anche ardite e a divagazioni forse superflue, quando non ci si limiti a percepire la relazione
dall’interno del testo, nel suo apparire immediatamente manifesta, ma si utilizzi l’arsenale
simbolico arricchendo il tessuto narrativo per verificare se la nuova trama possa ridefinire il
senso o il movimento di pensiero dell’autore. Dall’altra, questa scelta può sembrare arbitraria
perché pare appellarsi a strumenti di interpretazione poco adeguati a un racconto e più
familiari, per esempio, al cosiddetto “romanzo di formazione” 673: oltretutto, come è noto,
Borges non ha mai amato questo genere letterario674.
L’obiezione sarebbe corretta se l’opzione non fosse intimamente legata alla tesi di fondo
prospettata675.
Non nego infatti che l’esegesi compiuta abbia dato corpo, in modo ovviamente informe,
attraverso il linguaggio che ne è l’essenza e la struttura 676, a un processo di “mitizzazione”, o,
673
Non tanto mi riferisco alla nozione “storica” di questo sottogenere letterario, quanto, più genericamente, alla
narrazione delle vicende che sottolineano l’evoluzione – crescita dll’eroe protagonista. (Cfr. la voce Romanzo in
Enciclopedia della letteratura, Milano, 1997, 908).
674
Borges ha sempre prediletto, non dico scrivere, ma anche leggere racconti rispetto ai romanzi, ritenendo fra l’altro
che i primi contengano tutto ciò che può caratterizzare i secondi, “con meno fatica per i lettori.” Inoltre il nostro,
ostentando non poca civetteria, ha confessato di essere troppo “pigro” per affrontare un genere letterario così
impegnativo. (Sorrentino, op. ult. Cit., 195). Lo stesso Borges, nella Premessa a Finzioni (in Tutte le opere cit., Vol.1,
621) scrive: “delirio faticoso e avvilente quello del compilatore di grossi libri, del dispiegatore in cinquecento pagine
d’un concetto la cui perfetta esposizione orale capirebbe in pochi minuti! Meglio fingere che questi libri esistano già,
e presentarne un riassunto, un commentario..Più ragionevole, più inetto, più pigro, io ho preferito scrivere, su libri
immaginari, articoli brevi”.
675
Alludo alla possibile esistenza di una dimensione mistica nell’opera borgesiana (aldilà dello scontato interesse
intellettuale per la Cabbala).
676
“Il mito è linguaggio”. La celebre affermazione di C. Lévi-Strauss è commentata nel bel saggio di M. Detienne
(voce Mito/rito, in Enciclopedia cit., Vol.9, pp. 348 ss.) che, del mito, mette in rilievo soprattutto il suo rapporto con il
logos e con l’interpretazione. In questo caso peraltro si coinvolge anche la scrittura, ossia un passaggio con
implicazioni ben diverse dall’oralità, punto di partenza dell’elaborazione del mito.
242
meglio ancora, se così ci si può esprimere, a una narrazione sub specie fabulae, de Le rovine
circolari.
L’operazione è però forse plausibile, perché, secondo il suo più autorevole studioso, la mistica
ebraica, a sua volta, sembra scontare, alle sue origini, un procedimento analogo 677, ossia,
pare presupporre una ripresa di esperienze mitiche.
In altre parole, ritengo che la ricerca di un’eventuale dimensione mistica (in particolare,
cabbalistica) nell’opera di Borges possa essere condotta in modo accettabile anche in virtù di
una riformulazione mitica del suo testo, rivelatrice di affinità altrimenti meno percepibili.
Naturalmente le categorie letterarie applicate, i “nomi” evocati, possono essere discutibili,
arbitrari, inconferenti; tuttavia, di nuovo, non voglio rivendicare i contenuti, “bensì i
procedimenti ermeneutici o crittografici che ad essa (nel mio caso, a questa interpretazione,
n.d.r.) conducono.678”
Attraverso questa finzione e la formazione/tras-formazione del protagonista de Le rovine
circolari, e per tramite della (tentata) “trasfigurazione cabbalistica” del racconto679, sono
677
Scrive infatti G. Scholem (in Le grandi correnti della mistica cit., 21): “In certa misura la mistica è quindi una
ripresa di esperienze mitiche, una ripresa a proposito della quale non può però essere trascurato il fatto che vi è una
sostanziale differenza tra un’unità che precede qualsiasi frattura e un’unità che viene ricostruita in un nuovo slancio
della coscienza.” La tesi non sembra condivisa da M. Idel, che, come rilevato altrove, ritiene che la mistica ebraica
nella sostanza si leghi, senza soluzione di continuità, al giudaismo rabbinico e sia espressione di un movimento di
pensiero esclusivamente riferibile al popolo ebreo.
678
J.L. Borges, Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334.
679
Non è certo una novità che l’ermeneutica possa assumere tonalità mistiche. Si legge nell’introduzione di G. Morra
all’opera di W. Dilthey, Ermeneutica e religione, Milano, 1992, 31: “In Paul Ricoeur le tematiche ermeneutiche
assumono fin dall’inizio una tonalità etico-religiosa. L’interpretazione non è semplice operazione teoretica, ma un
atto che impegna l’intera esistenza nel tentativo di pervenire, per suo tramite, non solo ad una comprensione
dell’altro, ma anche di se stesso.. E l’interpretazione non è solo una ricognizione del passato (archeologia), ma anche
una progettazione del futuro (teleologia)- e dato che il futuro appartiene ancora alla finitezza e alla colpa,
l’interpretazione deve aprire l’esistenza dell’uomo al futuro ultimo, al futuro senza più futuro (escatologia)”. Nel mio
lavoro esiste qualche modesto spunto in questa direzione; dovrebbe notarsi il tentativo di interpretare Borges non
tanto, e non solo, in relazione al censimento dei dati provenienti dall’arsenale mistico individuabili alla superficie del
testo, quanto di verficare, alla luce di essi e di altri indirettamente evocati, l’evoluzione futura del percorso
esistenziale del protagonista, “emanato” dall’immaginario dell’autore (operazione evidentemente resa ancor più
plausibile nel caso nostro dalla natura onirica della storia narrata).
243
emersi la drammaticità della frustrante reiterata circolarità delle esperienze 680 e il sentimento
della loro irreparabile onirica impermanenza, ma, insieme, anche la condivisione, maturata in
un complesso rapporto tra padre e figlio – figura anche di una possibile, e più profonda,
relazione tra l’uomo e la Divinità681 – di una sorte di tragica debolezza, eppure forse non più
solitaria, raccontata soprattutto dai miti di Prometeo e Sisifo.
Ecco quindi che il senso di doloroso e umiliante fallimento sorto dalla consapevolezza della
propria inconsistenza sembra trovare l’antidoto, il pharmakon, nello stesso veleno che l’ha
provocato: nel sogno, che trascende da inganno e illusione, da cifra simbolica dell’abissale
Eterno Ritorno, a momento ineffabile dell’estasi letteraria, vissuto nel fuggevole istante
dell’assenza, evocatrice delle negligenti divagazioni della Divinità demiurgica così prodiga di
universi sfuggiti, e nell’eternità del tempo perduto che riaffiora dopo l’allontanamento 682.
Ma proprio quell’attimo, nel quale si coglie l’inseparabilità dell’apparente ieri dall’apparente
oggi683, non è ridestato dal racconto dell’Origine, destinato solo a un Testo Sacro che la
680
La dottrina dei cicli mondiali o “schemittòth”, la cui fonte nel pensiero ebraico è rintracciabile nel Trattato di
Sahnedrin del Talmud, ed è poi sviluppata nel mistico Sefer Temunà, evoca, come sottolinea Scholem, il processo
perpetuo di rinnovata creazione del mondo (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 571). In sostanza, l’idea di
ciclicità è ciò che forse più accomuna il pensiero ebraico al pensiero indù. Ciò che mi preme sottolineare qui, tuttavia,
è che tale concezione non pare esclusivamente attribuibile, come si potrebbe immaginare, alle filosofie indiane.
681
Dunque, un primo e importante passo nella direzione di una crescita mistica del personaggio-autore, è stato a suo
tempo riscontrato già nel racconto commentato. Il quadro è stato poi completato con le “integrazioni extratestuali”
accennate nel par.6.3 della IV sez. e nei capp. 1 e 2 di questa.
682
A proposito del rapporto fra sogno ed eternità, scrive Borges (in Altre inquisizioni, da Tutte le opere, Vol.1, 927): “I
teologi definiscono l’eternità come il simultaneo e lucido possesso di tutti gli istanti di tempo e la dichiarano uno
degli attributi divini. Dunne, in modo sorprendente, suppone che l’eternità sia già nostra e che i sogni notturni la
confermino. In essi, secondo lui, confluiscono il passato immediato e l’immediato futuro..Dunne assicura che nella
morte apprenderemo l’uso felice dell’eternità. Riavremo tutti gli istanti della nostra vita e li combineremo a nostro
piacimento. Dio, i nostri amici, Shakespeare collaboreranno con noi. Di fronte a una tesi così bella, qualsiasi errore
commesso dall’autore appare trascurabile.” Tuttavia ritengo che non estranea all’accezione di eternità cui allude
l’estasi di Proust e Borges sia quella boeziana di plenitudo vitae, di massima fioriture e culmine della vita. In questo
senso R. Bodei (in Una scintilla di fuoco,Bologna, 2005, 83): “ L’eternità è quello zenit dell’esistenza in cui ciascun
ente raggiunge la propria perfezione, il proprio specifico fine, diventando cioè quel che può essere secondo le sue
possibilità”.
683
J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 543.
244
preceda; non è dunque la storia ciclica e frustrante de Le rovine circolari. E’ invece il
momento della riscoperta delle cose modeste, che radicano l’uomo alla terra; è il desiderio di
immortalarle per mitigarne, al loro dissolversi in lontananza, il senso di perdita, che ci
sorprende quando, accingendoci a rientrare nel porto dopo avventuroso errare, ci illudiamo
per qualche istante di essere stati traditi da un curioso inganno di luci o ci crediamo vittime di
uno scherzo crudele dell’immaginazione, perché, contro ogni attesa, non vediamo avvicinarsi
alla canoa i vividi contorni del nostro mondo consueto, ma sentiamo, avvertendo solo qualche
debole latrato nell’oscurità fluttuante tra i vapori notturni, che le nostre case, sfilando in
direzione opposta alla nostra, si stanno allontanando, e perciò non smettiamo di fissare con
apprensione la costa e non abbassiamo lo sguardo, finché, diradatasi con la foschia la
speranza di errore che ci teneva in vita, l’aurora delle aree dismesse – la prosaica aurora
dalle grigie dita - ci svela una spiaggia nuda, dove nessuno ci aspetta.
Ecco allora, a fugare la desolazione dei nostri mondi individuali, soccorrerci l’immaginazione
di un sogno condiviso – e che cos’è un mito, se non un sogno condiviso? 684 – in cui l’estasi
della semplicità sia parlata da un linguaggio comune, sia raggiungibile assecondando la
mappa di una navigazione poco ardimentosa ma tranquilla, nella quale ci conforti la casuale
sintonia delle radio di bordo, che, domate le gracchianti dissonanze perturbatrici del
millenario silenzio dei mari, consenta di tanto in tanto ai solitari argonauti, prodighi di
universi incompatibili, di ascoltare una voce sola per tutti 685.
684
Concezione più volta espressa da W.D. O’ Flaherty in Dreams Illusion cit. Il sogno condiviso preserva
l’osservatore dal pericolo del solipsismo (op.ul.cit., 285).
685
Con grande approssimazione, questa prospettiva finale “consolatoria” – nella quale la dimensione mistica si
esprime soprattutto attraverso il superamento della visione narcisistica o individuale (o, nella forma più radicale,
solipsistica) potrebbe essere espressa, in chiave narrativa, da un finale diverso del racconto che ho letto. Lo propongo
naturalmente come mera divagazione finale:
“Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e
senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro
stava sognandolo.
Tremante, lasciò quel luogo di rovine e ritornò alla canoa. La trovò intatta, ma avviluppata dai rovi che lunghi anni di
meditazione avevano infittito. Per qualche giorno si accanì nel districarla da quella selva ostinata.
Finalmente s’imbarcò. Giunto in mare aperto immaginò la sua casa, dove nessuno l’aspettava. Non appena
quell’immagine spoglia si fu formata, si trovò tra i piedi di un vivandiere nella sua vasta cucina. Quella magìa lo
indusse a pensare al figlio che aveva lasciato. Il ragazzo gli fu subito accanto. Allora smise di pensare e immaginare.
Troppo lo aveva fatto in quegli anni di esilio.
Trascorsero cinquant’anni tranquilli, in cui padre e figlio si dedicarono ai loro commerci, accumulando ricchezze.
245
Improvvisamente l’uomo taciturno – che aveva cessato di sognare da tempo – ebbe il desiderio di tornare in quel
lontano paese. Lasciò la casa e il figlio e si imbarcò.
Ormai vicino alla riva, quando la canoa stava per incagliarsi nel fango sacro e nel verdeggiare della selva intricata già
indovinava il movimento inquieto delle rovine circolari, vide che il mondo desiderato incominciava ad allontanarsi.
Pensò di avere già adempiuto ai suoi doveri in quel paese e che le correnti marine lo stessero guidando di nuovo verso
casa. Pensò anche, con pena, che era molto vecchio, e che forse si ingannava, perché, ricordò un verso di Eschilo, un
vecchio è meno saldo di un bambino e vaga confuso simile al fantasma di un sogno apparso nella luce del giorno.
Navigò senza sosta per molto tempo, finché finalmente incontrò in mezzo all’oceano chi lo stava sognando.
Era una donna. Pareva una ninfa, forse era Teti, la madre di un eroe greco, forse Eco, l’ostinata amica di Narciso. Lo
straniero le chiese un solo favore, che lei si compiacesse di non sognarlo più.
La donna non rispose; solo, lo pregò di smettere di sognarla.
A questo punto si raccontarono le vite vissute e immaginate, il figlio comune – anche lei aveva desiderato un figlio, lo
stesso figlio – e, dopo avere inciso la loro storia sulla parete di una grotta con una scheggia di ossidiana, senza
desiderare nulla, senza rimpiangere nulla, si avviarono insieme di nuovo verso il mare aperto, ben sapendo che il loro
sognatore si nascondeva in qualche angolo lontano del mondo per condividere quell’ultimo viaggio, per
accompagnarli, confortandoli con il racconto della loro intrecciata vicenda, senza tacere ciò che non sapevano né
avrebbero mai saputo, verso la spiaggia deserta che li stava aspettando .
246
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