1/20 L`intima relazione tra il sesso e la morte nella
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1/20 L`intima relazione tra il sesso e la morte nella
Roberto Weitnauer Stesura: 10 marzo 2002 (47542 battute) www.kalidoxa.com Versione d’origine pubblicata, diritti ceduti a terzi L’intima relazione tra il sesso e la morte nella biosfera Non è in genere noto che tra la riproduzione sessuale e la morte per senescenza intercorra un’intima relazione evolutiva. A morire di vecchiaia sono infatti solo gli organismi sessuati, mentre i batteri sono virtualmente eterni. L’evoluzione delle specie riposa sull’accumulo di varianti genetiche che in ultima istanza provengono dalle mutazioni, ovvero da errori accidentali di duplicazione del DNA. I batteri dispongono di una riserva di varianti che è correlata unicamente alla loro grande diffusione e alla loro notevole prolificità. La riserva è minima in termini relativi, poiché gli errori sono molto rari e le varianti negative vengono subito eliminate; nel corso degli eoni essa è però risultata sufficientemente nutrita in termini assoluti per garantire a questi organismi semplici una serie di alternative genetiche utili alla sopravvivenza nell’ambiente mutevole. Gli organismi pluricellulari sono più delicati e non altrettanto prolifici. Le sole mutazioni non bastano alle loro esigenze di adattamento ambientale. Per essi l’evoluzione ha sviluppato un apparato in grado di conservare più a lungo le mutazioni accidentali, incrementando così la riserva di variabilità genetica. Questo apparato è costituito dai processi di riproduzione sessuale che si legano indissolubilmente alla morte per senescenza. Nella competizione per l’accaparramento delle risorse la possibilità delle nuove leve di accedere alla riproduzione è cruciale per il mantenimento della specie. Infatti, l’eliminazione per raggiunti limiti di età dei soggetti più anziani permette ai giovani competitori di accoppiarsi più facilmente, apportando nella popolazione le loro novità genetiche. Se i vecchi continuassero a riprodursi indefinitamente metterebbero in circolazione un ceppo di geni sostanzialmente conservativo, a detrimento della riserva di variabilità genetica. La morte: la fine di un consumo energetico La letteratura sull’amore è altrettanto nutrita di quella sulla morte. Già nel mito e nella tragedia dell’antichità greca questo binomio era dominante; si tratta della nota contrapposizione tra ‘éros’, l’amore, e ‘thanatos’, l’istinto di autodistruzione e di morte. I richiami alla passione si sono spesso intrecciati con quelli al delitto o al sacrificio. Meno si è narrato della fine per cause naturali. Eppure, anch’essa ha rilevanti risvolti sessuali. L’affermazione appare bizzarra, ma se la esaminiamo in ottica biologica scopriamo un significato della morte per senescenza tanto importante quanto solitamente sconosciuto. 1/20 Prima di entrare nel merito della questione è però d’uopo intendersi meglio sulla nozione di morte biologica. Interpretare la morte come la cessazione della vita non fa altro che spostare il problema sul concetto di vita. Da un punto di vista biochimico la vita è un insieme di reazioni che comportano un consumo di energia. Un’aliquota energetica viene prelevata dallo smantellamento di molecole complesse per poi essere in parte persa nell’ambiente in forma di calore e in parte indirizzata verso la sintesi di altre macromolecole, un poco come accade in un sistema di contrappesi in cui la massa maggiore vince l’attrito e può far salire quella minore. L’attività globale che scaturisce dai due fronti prende il nome di metabolismo. La morte diventa così la terminazione del metabolismo. Tuttavia, per meglio avviarci alla comprensione del tema introdotto, conviene cercare di operare qualche riduzione di significato anche sul concetto di metabolismo. Abbiamo considerato che il consumo energetico è cruciale in questo contesto. Dobbiamo intenderlo come un mero trasferimento di energia da una parte all’altra dello spazio, nel pieno rispetto delle leggi fisiche. Flussi energetici incanalati: le strutture dissipative Fondamentale è il secondo principio della termodinamica. Esso dice in sostanza che l’energia dell’universo si disperde inesorabilmente. È il semplice effetto statistico di un cosmo disordinato formato da innumerevoli parti che incessantemente scambiano interazioni. Quando le casualità sono tali da innescare flussi di energia locali particolarmente intensi si parla di “strutture dissipative”. Se ne conoscono dei più svariati tipi, dal mulinello che si forma sullo scolo della vasca da bagno, ai sistemi atmosferici, a certi ‘loop’ elettronici, alle celle convettive nei fluidi, alle reazioni chimiche pulsanti, eccetera. I fisici sono soliti alludere anche al cosiddetto caos organizzato, sottintendendo la circostanza che una struttura dissipativa è in grado di sostentarsi nel disordine dell’ambiente, differenziandosi da esso e traendo da esso il modo per autoregolarsi, pur reagendo in maniera imprevedibile. Il notevole effetto di adattamento è però subordinato a una condizione caratteristica. È infatti necessario che viga un forte squilibrio, ovvero che vi sia una sufficiente differenza energetica ai capi della struttura. In tal modo essa viene così a costituirsi come una specie di ponte che consente un flusso riequilibrante. Si osservi d’altronde che la struttura dissipativa si sorregge solo fintantoché perdura quel medesimo squilibrio energetico. In particolare, ciò avviene mediante una serie di retroazioni (‘feedback’), laddove un effetto in uscita dal sistema diventa causa stimolante in ingresso. La retroazione, come si può dimostrare anche matematicamente, è un fenomeno che tipicamente esalta piccole variazioni locali, inserendole poi in un gioco complessivo di parti. È così che l’energia del mondo si scava dei comodi canali entro cui fluire veloce. La vita è una condizione squilibrata A questo punto occorre fare una considerazione essenziale: le creature viventi sono strutture dissipative, peraltro le più complesse che si conoscano. Esse corrispondono 2/20 dunque a delle specie di dispositivi di dispersione locale. Il metabolismo, ricco di processi retroattivi, è insomma una forma particolarmente sofisticata di dissipazione. Si crede comunemente che la vita sia sinonimo di equilibrio, ma la realtà è piuttosto diversa. L’omeostasi (equilibrio apparente) di un organismo biologico dipende da una condizione d’instabilità energetica protratta, come avviene per tutte le strutture dissipative. La breve digressione qui esposta ci consente una prima fondamentale valutazione scientifica della fine di ogni individuo biologico. Possiamo infatti interpretare la morte come la cessazione di uno squilibrio locale. Quando il metabolismo perde colpi con l’avanzare dell’età l’organismo viene minato dal disordine ambientale, perché il flusso energetico incanalato che lo contraddistingue si affievolisce sino a confondersi con la grande e incoerente dispersione termodinamica dell’universo circostante. La morte è insomma un po’ come un mulinello che non riesce più a sostentarsi e si dissolve nell’uniformità dell’acqua. Così, le modalità secondo cui gli organismi nascono, si sviluppano, si mantengono, invecchiano e infine scompaiono è una questione di bilanci e flussi energetici in un universo retto dal caos. Il mondo esiste dopotutto perché in esso si sposta l’energia presente sin dall’epoca del ‘Big Bang’. La vita e la morte non sono che speciali manifestazioni nel gioco dell’energia cosmica che si disperde indefinitamente nello spazio. La materia animata implica la riproduzione Fatte queste precisazioni, non si può negare che le interpretazioni termodinamiche date, per quanto ineccepibili nella loro sostanza, ci lascino un po’ a bocca asciutta relativamente al tema dell’invecchiamento e della successiva morte. Se un mulinello d’acqua e un organismo vivente sono entrambi strutture dissipative, è anche vero che il salto di complessità dall’uno all’altro si accompagna a delle caratteristiche salienti. In effetti, il discorso sulle strutture dissipative non distingue tra materia animata e inanimata. Nel regno della vita si delinea un fenomeno davvero molto particolare e inesistente altrove: la riproduzione. Un mulinello d’acqua può fondersi con un altro, come fa uno spermatozoo con un ovocita; oppure può dividersi in due, al pari di molte cellule batteriche o anche di tessuti. Tuttavia, parlare in questi casi di riproduzione sembra poco ragionevole. Sebbene il processo di rigenerazione biologica sia anch’esso un aspetto peculiare della dissipazione energetica, non possiamo dimenticare la sua attinenza in ogni essere vivente col corredo genetico, cioè con i caratteri ereditari. Una spiegazione della senescenza e della morte biologica che si richiami al genoma è senz’altro più vicina alle nostre esigenze di comprensione. Come inoltre vedremo più sotto, il connubio tra ‘éros’ e ‘thanatos’ (tra amore e morte), di cui si diceva in apertura, gioca qui un ruolo critico. Interpretato in termini biologici, esso non è infatti altro che una relazione evolutiva tra la durata della vita di una specie e la riproduzione sessuale la quale esercita un condizionamento comportamentale che si trasforma all’interno della nostra cultura nel riferimento al concetto di amore, così importante nei secoli e anche nell’esistenza quotidiana. 3/20 Il concetto della successione delle generazioni In che modo dunque il sesso e la morte per vecchiaia sono biologicamente connessi ai geni? Una risposta su due piedi lascerebbe il tempo che trova, perché la questione tocca alcune corde profonde dell’evoluzione. Per risolvere il nostro problema occorre pazientare un po’, cercando dapprima di definirlo meglio. Lo faremo distinguendo la riproduzione degli organismi unicellulari dalla riproduzione di quelli pluricellulari, quali ovviamente noi umani siamo. Quando avremo un quadro sufficientemente nitido delle due strategie riproduttive potremo dare una risposta coerente al nostro quesito. Anticipiamo subito comunque che la morte per senescenza e la riproduzione mediante accoppiamento sono fenomeni che riguardano solo le specie pluricellulari. Le forme di vita unicellulari, come protozoi e soprattutto batteri, sono infatti virtualmente eterne, per quanto possa apparire curioso. Il fatto è che per esse il significato di generazione è piuttosto difforme da quello che attribuiamo normalmente agli alberi genealogici delle famiglie umane. Per un biologo la generazione coincide essenzialmente con una ripetizione o ricostituzione del codice genetico di un sistema vivente. Possono aversi quindi generazioni di singole cellule che si dividono, come pure generazioni di individui pluricellulari che lasciano una discendenza. Inoltre, un tipo di generazione comprende l’altra. Infatti, è necessario che le cellule di un embrione seguano una via generativa, affinché si costituisca un soggetto che poi possa a sua volta mettere al mondo dei figli. Batteri immortali e popolazioni pluricellulari variegate Si diceva che gli esseri unicellulari sono virtualmente immortali. Un batterio muore solo per ingiurie, quali radiazioni, squilibri termo-chimici, tossine, virus o predatori. Esso può talora incistarsi e sopravvivere alle avversità per centinaia di anni, mentre in condizioni normali si scinde in due organismi identici anche più volte in un’ora. In un certo qual modo, un batterio non invecchia mai, per il semplice fatto che si rinnova prima, diventando i suoi figli e quindi rinnovando la propria vita. I sistemi pluricellulari sono più fragili di quelli unicellulari. Per una creatura di questo tipo conservare un bilancio funzionale, ossia un’omeostasi, implica una complessità biochimica che di per sé stessa pone problemi di sussistenza. In effetti, in tutti gli organismi compositi, anche i più semplici, l’armoniosa cooperazione tra le varie attività metaboliche e le varie cellule è limitata nel tempo. Quando gli scompensi prevalgono sulle correzioni sopraggiunge inesorabilmente la morte. Usufruendo della riproduzione sessuale, le creature pluricellulari godono tuttavia di una sofisticata opportunità di adattamento generazionale all’ambiente. In verità, la via sessuata non risulta obbligata per ogni specie pluricellulare; vi sono peraltro alcuni protozoi che conoscono processi sessuati rudimentali. Tuttavia, le creature più evolute sono obbligate a riprodursi mediante incroci, attestando che il sesso è un frutto dell’evoluzione che compensa la fragilità dovuta alla complessità. Il punto è che gli incroci fruttano alla specie sessuata una vasta gamma di geni e di caratteristiche somatiche, il che le consente di destreggiarsi in ambienti 4/20 imprevedibilmente mutevoli. Sappiamo bene difatti che, per quanto possano assomigliare ai genitori, i figli sono sempre individui geneticamente riassortiti. La discendenza di un ceppo batterico è invece connotata da una sostanziale fissità. Le due modalità riproduttive corrispondono a due strategie evolutive; la differenza tra di esse risulta cruciale nell’economia del nostro discorso. Vediamo meglio quali sono le strategie in oggetto. La vita intesa come un investimento a rischio Per fare un parallelo di comodo, immaginiamo un ‘broker’ che investa per il proprio cliente su più titoli finanziari, al fine di usufruire sempre di una riserva di capitale al cospetto delle insidie del mercato. In questo modo le perdite di un settore in recessione possono compensarsi con titoli relativi ad attività più redditizie. La distribuzione del rischio finanziario è una strategia conservativa tipica nella finanza. Essa si contrappone alla speculazione, laddove gli sforzi d’investimento sono piuttosto concentrati, con tutti i pericoli che ciò comporta. La riproduzione sessuale è un poco come quel broker, mentre il mercato finanziario corrisponde all’ambiente e i titoli riflettono i geni. Grazie al sesso, una specie dispone di maggiori riserve ereditarie, cioè di geni più differenziati. Così, l’estinzione della specie a causa di un disadattamento generalizzato del genoma è resa meno probabile, allo stesso modo in cui è meno probabile il tracollo finanziario di un portafoglio di titoli variegati. I batteri di una colonia sono invece altrettanti cloni, ossia risultano geneticamente identici, dal momento che si riproducono per semplice scissione binaria, vale a dire mediante una netta divisione cellulare (mitosi) con annessa duplicazione del corredo genetico. Pertanto, ciascuno di essi è ugualmente adattato o, viceversa, ugualmente esposto alle insidie esterne. Qui il broker, per continuare col parallelo, specula e punta tutto su un unico settore in forte crescita: il tipo di ambiente biologico che prevale in un certo momento. Quando però il vento del mercato muta radicalmente, ovvero quando l’habitat subisce qualche sconvolgimento, le perdite possono risultare ingenti. La robustezza degli organismi rudimentali Eppure, tornando alla biologia, non si può certo sostenere che i batteri subiscano serie minacce di estinzione. Tutt’altro. Essi sono gli organismi più numerosi e arcaici che esistano sul pianeta e ciò testimonia della loro resistenza da oltre tre miliardi di anni a questa parte. Metà della biomassa terrestre è batterica. In effetti, queste cellule rudimentali autonome sono sopravvissute, mantenendo senza troppi problemi una considerevole stabilità genetica e fisiologica. Evidentemente, pur speculando, il broker dei batteri non ha sbagliato. Questo si deve a tre fattori primari che occorre brevemente elencare. Il termine “ambiente” restituisce un significato immediato e piuttosto evidente. Tuttavia, l’ambiente è un’entità molto articolata le cui caratteristiche salienti dipendono dal modo in cui lo si osserva. In altre parole, ciò che per una specie può essere una variazione brusca e importante dell’habitat per un’altra può riflettere un 5/20 mutamento lieve. Tutto dipende dalle relazioni tra l’organismo e ciò che lo circonda. L’ambiente corrisponde insomma a un concetto relativo. La biosfera terrestre è andata incontro a radicali cambiamenti nel corso della sua evoluzione. Varie specie si sono estinte, mentre nuove hanno fatto la loro comparsa. Molte colonie di batteri sono invece rimaste invariate sino a oggi, perché quei cambiamenti non hanno interessato i loro habitat oppure perché non sono risultate discriminanti per il loro adattamento. Ricordiamo anche che una forma di vita rudimentale è in linea di massima più robusta di una complessa. La grande diffusione dei batteri In secondo luogo, gioca un ruolo la grande diffusione dei batteri, prodottasi poco dopo le prime mosse della vita sul globo. Così, per quanto i cambiamenti ambientali possano essere risultati qui e là pronunciati, nicchie adatte alla sopravvivenza dei vari tipi di batteri sono rimaste comunque usufruibili. Questa salvezza non è mancata nemmeno durante lo sconvolgimento terrestre più drammatico che è probabilmente coinciso con l’introduzione dell’ossigeno nell’atmosfera, verificatasi con l’avvento degli organismi fotosintetici che lo rilasciavano come prodotto di scarto (al pari delle piante oggi). L’ossigeno ha agito da potente tossico nei confronti dei primi batteri, fino a quel momento abituati a vivere e riprodursi in sua assenza. La maggior parte è effettivamente perita a seguito dell’avvelenamento, ma non sono venute meno le nicchie anossiche (come i fondali marini) dove queste specie arcaiche hanno potuto perpetuarsi sino ai giorni nostri. Ad esempio, il pericoloso batterio del botulino è un discendente di quelle vite primitive e lo si può trovare nei barattoli sotto vuoto. Di batteri anaerobici è ancora pieno il mondo. L’accumulo di mutanti Infine, veniamo alla terza considerazione, la più importante. Le colonie batteriche sono estremamente fertili. In condizioni ottimali un individuo si scinde circa ogni venti minuti, dando corpo a una colonia di 70 miliardi di unità in sola mezza giornata. Il gran numero di riproduzioni non è di per sé una garanzia di sopravvivenza. Infatti, nell’eventualità di condizione ambientali ostili tutti i membri della popolazione con il codice genetico originario soccomberebbero in massa. Tuttavia, la fecondità implica un fattore cruciale: un superiore accumulo di mutanti, cioè di soggetti che presentano qualche differenza genetica rispetto a tutti gli altri cloni. Le mutazioni sono errori accidentali di duplicazione del corredo genetico che occorrono quando l’organismo si divide. Si tratta di anomalie alquanto rare, valutabili intorno a un caso su un miliardo di replicazioni. Tuttavia, per quanto visto, dopo mezza giornata sono in media già 70. Ne derivano batteri modificati che la maggior parte delle volte non riescono ad adattarsi al mondo esterno. Una minima porzione delle mutazioni risulta però benefica e può promuovere variazioni o aggiunte che si dimostrano adattive. Gli errori di replicazione dei geni sono in effetti il motore primo dell’evoluzione. L’intera biosfera deriva dopotutto dai batteri. 6/20 La costante presenza di alcuni mutanti all’interno della specie funge da risorsa in caso di sconvolgimenti dell’habitat. Abbiamo infatti stabilito che l’ambiente è un concetto relativo, non assoluto. Questo significa che i soggetti disadattati potrebbero diventare favoriti nel momento in cui i vincoli esterni virano. In altre parole, ciò che in determinate condizioni è una tara genetica si tramuta imprevedibilmente in un vantaggio vitale. La riserva di variabilità genetica Tra i batteri l’investimento genetico viene concentrato tutto su un unico fronte, con i rischi che ciò comporta per quasi tutti i membri della nutrita colonia. Eppure, grazie all’elevato tasso di rigenerazione e agli errori accidentali di replicazione del genoma, la popolazione batterica può mantenere un sufficiente capitale di geni differenti che possono talora tornare utili per cambiare rotta, ricostituendo velocemente un nuovo ceppo dopo la moria generalizzata. L’evoluzione ha agito in maniera così raffinata che molte colonie batteriche si riproducono più velocemente quando l’ambiente diviene sfavorevole. La conseguenza è ovviamente un superiore accumulo di mutanti potenzialmente vantaggiosi per assicurarsi una discendenza. In definitiva, i batteri sono alquanto fissi, ma non per questo sono privi di una plasticità di adattamento genetico. Tecnicamente si dice che, grazie ai loro mutanti, possono contare su una sufficiente riserva di variabilità genetica. Tale risorsa, se paragonata al numero di membri di una popolazione, è molto più nutrita nelle specie sessuate che pure hanno velocità di crescita decisamente minori. Come si accennava, gli incroci tra i genitori producono un assortimento genetico nei figli che è completamente sconosciuto tra i batteri o i protozoi asessuati. Nella successione delle generazioni si delinea su una base ereditaria comune una variabilità diffusa che lavora proficuamente per la plasticità di adattamento. Ed è proprio questa circostanza che determina ricadute caratteristiche sulla durata di vita. Lo si capisce se s’indaga sulle particolarità dei meccanismi sessuali. Cellule somatiche e germinali Come si accennava poc’anzi, le mutazioni genetiche sono il motore dell’evoluzione. Esse occorrono ovviamente anche negli organismi che si rigenerano per accoppiamento. A risultare discriminanti per l’adattamento ambientale della specie non sono però le mutazioni che interessano le cellule somatiche, cioè quelle che formano l’individuo, bensì le mutazioni che compaiono nelle cellule riproduttive, dette anche gameti. È infatti dalla fusione dei gameti (spermatozoi maschili e ovociti femminili) conseguente alla fecondazione che deriva il nascituro. Tra i batteri la distinzione tra unità germinali e somatiche non ha senso, dato ch’essi sono costituiti da un’unica cellula. Un’alterazione accidentale durante la generazione delle cellule germinali, detta “meiosi”, ha quindi ricadute sull’assetto ereditario di una nuova generazione. Come nel caso dei batteri, la modifica può essere positiva o negativa, a seconda che l’ambiente caotico e imprevedibile la premi o la condanni. Nel primo caso la 7/20 selezione naturale decreta la comparsa di caratteri modificati o aggiuntivi, sino a formare una sequela che porta negli eoni a una specie nuova. Nel secondo caso la selezione sentenzia inesorabilmente l’inadeguatezza del soggetto che manifesta il carattere mutato; quest’ultimo deve perciò considerarsi come una tara che tende a scomparire dalla popolazione con la morte dei portatori. Come tra breve vedremo, è però cruciale che non lo faccia subito. Doppio corredo cromosomico Nelle cellule eucariote (dotate di nucleo) degli organismi superiori (dai protozoi in su), a differenza di quelle batteriche (procariote), il genoma, cioè il DNA, non è distribuito come un unico filamento attorcigliato nello spazio cellulare (citoplasma), bensì è organizzato in porzioni modulari compattate, i cosiddetti “cromosomi”. L’evoluzione ha stabilito questo stato di cose, soprattutto perché dividere un genoma molto arricchito, e quindi molto sviluppato in lunghezza, è più complicato che procedere a una divisione di singole porzioni strutturate di DNA. Il numero di cromosomi dipende da specie a specie. Di solito, esso cresce con la complessità dell’organismo, ma questa non è affatto una regola. Per esempio, le farfalle hanno un genoma più semplice di quello umano, tuttavia possiedono ben 500 cromosomi, contro i 46 umani. I cromosomi possono dividersi in due gruppi: quelli di origine materna e quelli di origine paterna. Le cellule del corpo di un individuo sessuato contengono dunque un duplice corredo ereditario. Per essere più precisi, gli animali hanno cellule somatiche diploidi e cellule germinali aploidi, mentre nelle piante la situazione è ribaltata. Rimanendo per semplicità al caso degli animali, questo vuol dire che le cellule degli ovociti e degli spermatozoi hanno un corredo genetico singolo, ossia hanno una sola serie di cromosomi (nell’uomo sono 23). Tutte le altre cellule del corpo hanno doppio corredo genetico, ovvero ogni cellula possiede due serie cromosomiche (quindi nell’uomo ci sono 23 coppie, ossia 46 cromosomi). Infatti, i gameti si fondono all’atto della fecondazione, danno luogo a un’unica cellula integrata (zigote) in cui sono presenti i corredi femminile e maschile, originariamente separati. Da quel momento si sviluppa per duplicazioni successive un embrione che cresce sino allo stadio adulto, costituendosi di cellule somatiche diploidi, contenenti sia i caratteri ereditari femminili che quelli maschili. I geni omologhi, cioè quelli che si corrispondono per la medesima funzione sui due corredi interfacciati, vengono detti “alleli”. L’eccezione in questo affascinante fenomeno di accrescimento è costituita appunto dai gameti. In essi non sussistono alleli, ma solo geni singoli presenti su cromosomi singoli. Miscugli casuali La riproduzione sessuale implica un miscuglio dei tratti del padre e della madre. Tuttavia, i geni sono identità biologiche confinate, corrispondenti a delle sequenze chimiche (nucleotidiche) ben precise sul materiale che compone il materiale ereditario, ossia il DNA. Questo significa che a mescolarsi non sono le qualità dei singoli geni, bensì il loro assortimento. Ciascun figlio deve possedere lo stesso tipo di 8/20 geni dei genitori, ma non possiede gli stessi geni, altrimenti sarebbe un clone, come avviene nei batteri. Ogni discendente possiede i cromosomi caratteristici della sua specie, ma su di essi possono essere presenti geni del tutto particolari, ciò che gli conferisce un’individualità inconfondibile. Metà dei geni sono paterni e l’altra metà sono materni. La distribuzione dei geni sui cromosomi avviene durante la meiosi. Si tratta di processi di assortimento che sono in larga parte governati dal caso, proprio come succede per le mutazioni. In particolare, durante la meiosi i processi della ricombinazione e del crossing over sono in grado di dare origine a un numero straordinariamente elevato (calcolabile specie per specie) di gameti geneticamente diversi. Altrettanto straordinario è il numero di possibili fusioni tra i diversi spermatozoi e gli ovociti. Infine, molto nutrita è anche la quantità di differenti accoppiamenti tra organismi che possono occorrere in una popolazione sessuata. Si comprende che se le mutazioni accidentali sono il motore primo dell’evoluzione, la riproduzione sessuale lavora su questa base, aggiungendo ulteriori variabilità che dobbiamo interpretare alla stregua di tentativi di adattamento. Entrare nel dettaglio di come si sviluppi la meiosi esula dagli intenti di questo articolo, ma alcuni ragguagli sono d’obbligo. Geni recessivi e dominanti Durante la meiosi alcune cellule capostipiti diploidi dell’organismo vengono tramutate per successive riduzioni del corredo ereditario in cellule aploidi: gli spermatozoi nel maschio, gli ovociti nella femmina. La meiosi e la fecondazione sono le due facce di una stessa medaglia. La prima dimezza il corredo genetico, la seconda lo raddoppia. La riproduzione sessuale è permessa da questo ciclo di continua alternanza tra cellule diploidi e aploidi, somatiche e germinali. Com’è ben noto, le strutture e le funzioni di un organismo dipendono dai suoi geni; questi vengono letti, decodificati e tradotti in istruzioni biochimiche. Da ogni gene viene ottenuta una proteina che, insieme alle altre, va a regolare il metabolismo di una forma vivente. Dobbiamo quindi arguire che in un organismo sessuato vi siano proteine che dipendono da istruzioni genetiche materne e altre che dipendono dalla lettura del corredo maschile. In effetti, è così, ma non per ogni gene. Sussistono infatti geni dominanti e geni recessivi. In una coppia di alleli il gene dominante è quello che s’impone sull’altro, ovvero quello che viene letto e tradotto di preferenza. Accade così che l’allele recessivo non trovi espressione a livello somatico. In altre parole, un carattere materno o paterno, a seconda dei casi, viene sì regolarmente trasmesso nel patrimonio ereditario del discendente mediante l’accoppiamento dei genitori, ma poi resta silente, cioè non concorre a stabilire funzioni biologiche attive. Questo è un punto cruciale. Tare potenzialmente utili all’adattamento Una colonia di batteri è contraddistinta da un unico corredo ereditario e quindi ciascun gene non può che esprimersi. Questo fatto comporta che le eventuali tare 9/20 vengano quasi subito eliminate dalla popolazione. Viceversa, nel caso di tare recessive negli organismi sessuati, cioè tare presenti sull’allele che non si esprime, l’eliminazione non avviene. L’individuo è portatore del difetto, ma non lo evidenzia a livello somatico e quindi non viene punito dalla selezione naturale. La tara si manifesta solo allorquando l’aleatorietà che contraddistingue gli accoppiamenti fa in modo che sia il padre che la madre ne siano portatori. In questa evenienza, chiamata “omozigosi”, gli alleli sono identici e quindi si esprimono a livello somatico. In tutti gli altri casi la tara, recessiva rispetto ad altri geni omologhi distribuiti nella popolazione, ha l’agio di essere trasmessa nella discendenza senza troppi problemi di adattamento. Ricapitolando, gli alleli che dovessero dimostrarsi a lungo dannosi al cospetto dell’ambiente vengono gradualmente eliminati attraverso i casi di omozigosi. Ma la recessività consente comunque una permanenza più duratura dei geni tarati all’interno della specie. Ciò ha un indubbio risvolto adattivo. Infatti, ricordando ancora che gli umori bizzarri dell’ambiente possono trasformare un tratto consolidato in uno svantaggio e una tara in un beneficio, comprendiamo che il meccanismo sessuale è capace di stabilire nel tempo una cospicua riserva di variabilità genetica. Essa è sempre proficua per promuovere l’evoluzione nell’eventualità di scombussolamenti dell’habitat, minacciosi soprattutto per creature composite e complesse. I gameti, un frutto della specializzazione Lo sviluppo degli organismi pluricellulari ha comportato in centinaia di milioni di anni una specializzazione sempre più spinta e delicata delle cellule, riunite inizialmente in ammassi simili a quelli batterici e man mano integratesi sinergicamente in sistemi sempre meglio organizzati. La cooperazione si è spinta sino al punto da rendere le cellule mutuamente legate, ossia incapaci di vivere autonomamente fuori dal contesto collettivo. In principio sono rimaste indipendenti alcune cellule della società che, nel momento in cui la collaborazione iniziava a sfaldarsi, si staccavano dal contesto globale per andare a fondare nuove colonie strutturate. Queste unità migranti affrontavano quindi con successo il problema della limitazione temporale delle collettività, ciò che poi è l’invecchiamento. Esse sono state le antesignane delle cellule germinali. Per quanto abbiano mantenuto una relativa indipendenza, anche queste cellule, come tutte le altre, sono oggi il frutto di un’estrema specializzazione. Possiamo dire in un certo senso che i problemi posti agli organismi dall’aumento della complessità causato dalla specializzazione cellulare sono stati brillantemente risolti dall’evoluzione attraverso la specializzazione medesima. Il processo della meiosi con cui vengono formate le cellule riproduttive non è infatti altro che una raffinata specializzazione della più arcaica divisione cellulare (mitosi) che ha permesso ai primi batteri di colonizzare il pianeta. Gli organismi competono per le risorse 10/20 Giunti fin qui, possiamo finalmente affrontare il nostro quesito principale: quale relazione evolutiva fondamentale intercorre tra la morte per senescenza e la sessualità? Una riposta l’abbiamo appena trovata, considerando che fin dai primi sistemi pluricellulari in via di formazione le cellule riproduttive servivano per continuare la specie, eventualmente in presenza di maggiori alimenti, costituendo sistemi sociali ex novo, prima che la collettività iniziasse a manifestare segni di cedimento, estinguendo la genia. Tuttavia, questa spiegazione è solo la punta di un iceberg. Le implicazioni evolutive della riproduzione sessuale sono infatti molto più profonde e interessanti. Esse emergono in maniera pregnante se ci riallacciamo alla riserva di variabilità genetica su cui abbiamo appena discusso. Nella fattispecie, l’accumulo di una scorta di geni diversi nella specie sessuata e la durata di vita di una generazione sono legate alla competizione che s’instaura tra i membri sessuati. Gli organismi viventi lottano per le risorse (cibo, spazio, luce, ecc.) che devono considerarsi sempre limitate. Più essi sono numerosi all’interno di una data popolazione, meno facile è per chiunque accaparrarsi ciò che offre l’ambiente; maggiori difficoltà sussistono quindi nella sopravvivenza e nella riproduzione. Il risultato che dobbiamo attenderci è la morte di alcuni organismi della specie sovraffollata. Ciò vale tanto per sistemi unicellulari quanto per organismi compositi più evoluti. Le risorse influiscono sulla dinamica delle popolazioni Se le risorse ambientali si rinnovano, tipicamente se si tratta di alimenti, le loro variazioni risultano connesse con quelle della specie che ne usufruisce. A una crescita della popolazione corrisponde una diminuzione degli alimenti e viceversa. Il processo è evidentemente a feedback ed è una delle tante condizioni retroattive che interessano la biosfera, come si accennava all’inizio. Nella dinamica delle popolazioni sono ad esempio ben note le oscillazioni articolate (anche caotiche) che hanno luogo nel rapporto tra il numero delle prede e quello dei predatori. Abbiamo visto che in alcuni casi di habitat ostile i batteri si riproducono più velocemente, costituendo nella colonia una maggiore scorta di mutanti potenzialmente adattivi. Si tratta tuttavia di processi particolari che di solito riguardano aggressioni ambientali, più che una condizione d’inedia protratta. In genere, i batteri che nella competizione non riescono ad alimentarsi semplicemente non si replicano, s’incistano o muoiono, lasciando maggiori disponibilità ai superstiti. Tra il tasso di proliferazione e la morte dei batteri sussiste un bilancio dinamico che dipende da come variano le risorse disponibili. La morte incrementa la riserva di variabilità genetica Per le specie sessuate la condizione di fondo non può essere diversa. Anche qui il rapporto tra nascite ed eliminazioni è condizionato da quanto l’ambiente mette a disposizione degli organismi. In questo caso il decesso colpisce tuttavia in maniera differenziata. Sappiamo che i batteri non invecchiano, mentre le forme sessuate lo fanno. Ebbene, la morte per senescenza costituisce un importante fattore di 11/20 modulazione demografica della specie evoluta. Il punto è che in un ambiente depauperato la competizione protratta degli anziani ostacolerebbe la riproduzione delle nuove leve e quindi l’apporto di novità nella discendenza. Infatti, i soggetti con una lunga vita alle spalle, già molte volte accoppiatisi, determinerebbero con i loro incroci la continua messa in circolazione di uno stesso ceppo di geni. Il minore accoppiamento dei competitori giovani, che in virtù della riproduzione sessuale possiedono configurazioni ereditarie rinnovate, circoscriverebbe insomma la formazione di riserva di variabilità genetica che, come sappiamo, è critica per fronteggiare i capricci dell’habitat. La scomparsa dei più vecchi può allora conferire un beneficio adattivo alla specie. Essa sottrae un’aliquota della competizione, stabilizzando il bilancio tra il consumo di risorse e la numerosità della popolazione. Ma nel contempo, pur limitando la popolazione, essa assicura il mantenimento di una certa riserva di variabilità genetica, importante per contrastare la fissità genetica in una popolazione biologicamente complessa e più fragile. In questo bilancio gioca un ruolo anche l’intervallo di maturazione sessuale, giacché esso influisce sulla quantità di accoppiamenti nella collettività nel corso del tempo; sussiste peraltro una certa correlazione tra la durata di vita e il tempo richiesto per la maturazione. Infine, conta la prolificità della specie, poiché una figliolanza elevata incrementa anch’essa la riserva di variabilità. L’evoluzione diversifica le longevità Come tuttavia è logico aspettarsi, c’è il rovescio della medaglia. Ambienti rigidi puniscono infatti una variabilità intrinseca eccessiva. In queste condizioni, all’opposto di prima, la rivalità dei maturi ben inseriti nell’habitat argina la diversificazione genetica e quindi la diffusione dell’eventuale disadattamento. Bisogna quindi aspettarsi che il carattere mutevole o fisso dell’ambiente decreti il limite oltre il quale un soggetto può definirsi anziano e non ha più grandi successi riproduttivi. S’intuisce in definitiva come la durata della vita, l’intervallo di maturazione, i limiti dell’età riproduttiva, la prolificità, la rischiosità di mutamento ambientale, il tasso di mortalità accidentale e anche il comportamento sessuale risultino condizionati dalle qualità dinamiche del mondo in cui vivono le specie. Ognuna di esse ha modulato questi fattori nel corso dell’evoluzione, in funzione delle opportunità e dei vincoli esterni. Ad esempio, i topi domestici vivono 2 anni, alcuni pappagalli raggiungono i 100 anni, le tartarughe anche i 150 e le sequoie giganti addirittura migliaia. Ma con quali strumenti l’evoluzione ha potuto controllare queste durate? Come abbiamo visto in principio, l’energia del mondo si disperde. Ogni organismo è soggetto a inesorabile degrado. Radicali liberi e agenti fisici usuranti minano il sostentamento biologico. Con l’avanzare dell’età le cellule somatiche vanno incontro a scompensi, il codice genetico accumula errori, la cooperazione segna il passo, malattie e tumori diventano più frequenti. Certamente, la durata della vita è una 12/20 questione di resistenza dell’omeostasi metabolica di fronte ai disturbi del mondo esterno caotico. Eppure, l’evoluzione ha saputo mettere in piedi dei dispositivi biochimici stupefacenti in grado di riparare ai guasti e ovviare al deperimento. Non possiamo di sicuro ammettere che simili processi possano raggiungere nella biosfera una sofisticazione tale da determinare una resistenza biologica illimitata all’usura. Tuttavia, è indubbio che certe specie invecchiano prima di altre, il che fa pensare che la portata dei dispositivi biochimici di autoconservazione sia anch’essa regolata dall’evoluzione. Gli errori e il logorio servono all’adattamento Una condizione simile vale senz’altro per le mutazioni genetiche. Come si è appurato, gli errori accidentali di duplicazione del codice ereditario sono rarissimi. La macchina replicativa ha una precisione tecnicamente superlativa. Questo risultato viene raggiunto attraverso una serie di dispositivi biologici di controllo che, ove sia richiesto, possono restaurare nel vero senso della parola un genoma duplicato in maniera imperfetta. Ma cosa succederebbe se tali processi di aggiustamento genetico non perdessero mai un colpo? La risposta è semplice: non si verificherebbero mutazioni. I batteri sarebbero allora costretti a rimanere per sempre identici a sé stessi. Gli organismi sessuati potrebbero invece contare su una relativa variabilità delle loro configurazioni ereditarie, ma il corpo totale dei geni popolazionali si conserverebbe inalterato e non potrebbe accogliere reali novità. In altre parole, all’evoluzione verrebbe meno il suo motore primario. È pertanto cruciale che i sistemi di restauro non abbiano un’efficienza totale. Ecco perché la selezione deve mantenere nell’omeostasi un’aliquota residua di errori replicativi. Possiamo ragionevolmente pensare che questa considerazione abbia carattere generale e valga anche per il controllo del logorio cellulare. Una certa usura sarebbe insomma necessaria per permettere all’organismo d’invecchiare e rispondere in tal modo alle esigenze di adattamento collettivo. Ma, se le cose stanno in questi termini, chi stabilisce il grado di efficienza dei meccanismi di restauro? La risposta è abbastanza scontata: i geni. Addirittura, potremmo ritenere ch’essi siano responsabili di una vera e propria programmazione della fine della vita. Dobbiamo dunque pensare a una regolazione ereditaria, cioè a dei geni che programmano la morte? Cellule che si suicidano Esperimenti su colture di cellule animali hanno in effetti mostrato la presenza di una sorta di limitatore biologico. La proliferazione è tanto più limitata quanto più il tessuto di provenienza è vecchio. In vitro si osserva che dopo una certa aliquota di divisioni le cellule sembrano suicidarsi, un fenomeno noto come “apoptosi”. Ricerche condotte su invertebrati, moscerini e topi illustrano che eliminando alcuni geni coinvolti nella crescita si ottengono generazioni più durature. Anche la longevità degli umani è chiaramente correlata alla storia familiare, oltre che al sesso (le donne vivono di più). 13/20 Le modalità con cui le cellule si estinguono sistematicamente sono identiche per una larghissima parte di organismi pluricellulari evoluti e arcaici. Questo schema di base conservatosi nel tempo è un ulteriore sintomo della presenza di geni di morte programmata che hanno saputo imporsi e conservarsi durante l’evoluzione. Quando tuttavia parliamo di programma di morte dovremmo circostanziare il nostro discorso e non pensare solo alla limitazione dell’età massima. Ad esempio, si sa che l’apoptosi contrasta gli spunti proliferativi dei tumori, cioè di cellule mutate che iniziano a crescere in modo egoistico, senza rispettare le regole della cooperazione sociale e quindi danneggiando i tessuti in cui pervengono. L’apoptosi agisce persino durante le prime fasi di vita degli organismi superiori. La morte interviene nello sviluppo dei mammiferi per eliminare le cellule soprannumerarie del sistema immunitario e del sistema nervoso. Così, il modellamento dell’animale adulto assomiglia all’opera dello scultore che per far emergere la forma finale deve scartare parecchio materiale. Uno stesso processo di morte programmata lavora dunque una volta per eliminare taluni soggetti anziani e una volta per proteggere il metabolismo di quelli giovani. Per converso, sono persino stati individuati geni che predispongono a maggiori rischi di patologie in età adulta, ma che sono proficui nella vecchiaia. Tutto questo può apparire bizzarro, ma non è altro che l’indizio di una modulazione articolata che illustra come il ruolo dei geni possa sensibilmente dipendere dalle condizioni in cui vengono a operare. Se i geni di morte cellulare sono stati selezionati dall’evoluzione è per il loro ruolo complessivo, non solo per gli effetti più immediati che riusciamo a riscontrare con i nostri studi. Un complesso tiro alla fune Quanto le argomentazioni sul controllo genetico della vita possano essere relativizzate è attestato dal fatto che sussistono pure geni che allungano la vita. È questo il caso di alcuni geni chiamati in causa nel trasporto dei grassi e nelle diete ipocaloriche, benefiche dai vermi ai mammiferi. Analisi compiute su ultranovantenni hanno segnalato la presenza di settori alquanto affini sul cromosoma numero 4. Ultimamente si è scoperto che anche la resistenza delle estremità dei cromosomi (telomeri) è indice di durata delle cellule ed è una caratteristica ereditaria. S’intuisce quindi che i geni di morte, oltre a ricoprire ruoli dipendenti dal contesto, riflettono solo un aspetto della longevità. Ma il fattore più importante da considerare a questo riguardo è il fatto che i ricercatori hanno scoperto che esistono veri e propri geni di sopravvivenza che ostacolano l’esecuzione delle istruzioni di morte. In loro assenza il tasso di estinzione delle cellule sarebbe eccessivo e andrebbe a detrimento dell’omeostasi globale. L’effetto mitigante dei geni della sopravvivenza è stato dunque anch’esso ben conservato dai processi evolutivi. I programmi di morte e quelli di sopravvivenza s’interfacciano, non solo regolando l’omeostasi di un individuo nel corso della sua vita e nelle varie situazioni ambientali, ma anche controllando la longevità delle varie generazioni di una specie. La grande parte di questi meccanismi resta sconosciuta, il che ci deve ricordare che 14/20 difficilmente sarà possibile prevedere il momento della morte per senescenza di un individuo evoluto sulla sola scorta di un’analisi genetica. Le istruzioni dei geni di morte e di sopravvivenza influiscono sul metabolismo come se prendessero parte a un tiro alla fune. Ne deriva un controllo complesso, influenzato da vari fattori metabolici e vincoli dell’habitat. Come al solito, nulla è semplice nella biosfera dove tutto è mobile e connesso, fuori e dentro gli organismi. Occorre a tal proposito rammentare che i singoli geni non lavorano in splendido isolamento. Essi interagiscono tra loro e con l’ambiente imprevedibile. Negli ultimi cento anni la vita media umana si è nettamente allungata, in virtù del benessere. Ciò indica che il programma di morte e di sopravvivenza può essere influenzato dall’esterno. Esso non funziona quindi, per fare un esempio spiccio, come le centraline delle auto che, tramite una segnalazione sul cruscotto, ci dicono quando dobbiamo procedere all’esecuzione del tagliando, con tutte le sostituzioni che questo comporta. Oltre la somma delle parti Le macchine, di qualunque tipo esse siano, non sanno ereditare, né riprodursi. Il logorio di una macchina, ossia il suo invecchiamento, non determina alcuna ricaduta positiva sul funzionamento di altre macchine. Le macchine non dipendono dalle imperscrutabili casualità ambientali. Nelle macchine non capita che ciò che accade a scala piccola possa influire su ciò che accade a grande scala e viceversa, condizione peraltro caratteristica delle strutture dissipative di cui si diceva all’inizio. Le mutazioni sono un esempio eccellente di come minimi accidenti del microcosmo possano avere ripercussioni marcate sull’adattamento e sull’evoluzione di un’intera specie. Nessuna macchina conosciuta ha un funzionamento la cui integrità dipende da casualità ambientali. Qualunque progetto o qualunque programma tecnico di controllo (come il software) implica l’esecuzione rigida di un certo numero di cicli e non ha quindi risorse funzionali al di fuori di uno schema ripetitivo. Come sappiamo, la riserva di variabilità genetica dipende dall’accumulo di mutazioni: un modo di fare tesoro delle accidentalità esterne al cospetto di altre accidentalità. Il sesso è un’invenzione della biosfera che consente di tenere elevata tale risorsa e sfruttarla in modo proficuo nell’ambito di popolazioni complesse e delicate che risentono maggiormente degli umori ambientali. La strategia della morte per vecchiaia fa parte di quella invenzione che circa seicento milioni di anni fa, nel periodo geologico del Cambriano, determinò l’esplosione della biodiversità, a partire da organismi unicellulari rudimentali. Le macchine sono la semplice somma delle loro parti. Mutazioni, ereditarietà, occasionalità ambientali, sesso e morte concorrono a rendere un organismo, una specie o l’intero regno vivente qualcosa che trascende decisamente la somma delle parti. 15/20 La morte, un sacrifico che si eredita Possiamo in definitiva considerare la morte per vecchiaia come uno dei frutti caratteristici dell’evoluzione. Alcune cellule di un organismo superiore vengono sacrificate sistematicamente in favore della sopravvivenza del sistema biologico complessivo. Ma quest’ultimo è comunque destinato a morire, proprio per via di quegli stessi meccanismi di controllo cellulare che lo tengono in vita e gli permettono di riprodursi. Di nuovo, il sacrifico di alcuni individui serve per il mantenimento della popolazione. D’altronde, anche le popolazioni muoiono, a vantaggio di altre popolazioni. La biosfera intera può essere intesa alla stregua di un sistema di morte e di sopravvivenza, una specie di omeostasi a scala enorme che dissipa energia. La strategia della morte riguarda solo la metà della biomassa totale del pianeta. Organismi semplici e asessuati come i batteri non invecchiano mai. Eppure, le specie sessuate sono derivate proprio dai batteri per successive mutazioni. La vita è un processo ereditario tanto su scala generazionale, quanto su quella evolutiva. La complessità della biosfera dipende molto dalla retroazione che, come sappiamo, è tipica delle strutture dissipative. In questo processo che torna continuamente su sé medesimo il passato lascia tracce durature. “Ereditarietà” è appunto il termine che utilizziamo a questo riguardo quando studiamo il regno della materia vivente. Ed è sull’ereditarietà che hanno agito congiuntamente il sesso e l’invecchiamento. L’ambiente logorante porta alla senescenza, ma a una velocità controllata anche dal genoma. Siamo insomma al cospetto di programmi innati, dipendenti forse da pochi geni, attivabili dalle imperscrutabili pressioni ambientali e da esse ben selezionati negli eoni. È tramite il patrimonio ereditario che le specie sessuate calibrano la durata di vita, adeguandosi al mondo che abitano. Qualche genetista ipotizza che la durata massima di vita sia per l’uomo circa 120130 anni, ma che la medicina possa aiutarci a superare la media di 100 anni in piena salute. Quali minacce ambientali dovremmo temere per la maggiore fissità genetica che gli anziani causerebbero a lungo termine in società a basso tasso riproduttivo? Impossibile dirlo. Non dobbiamo d’altronde scordare la nostra cultura, una manifestazione evolutiva unica nel regno vivente. Essa è alla base di uno scambio informativo che, come il sesso, rende la specie più flessibile. Si tratta di un’altra forma di ereditarietà. Il valore adattivo dei soggetti anziani non è oggi molto di moda nelle nostre collettività, ma alcuni antichi popoli ben lo conoscono. Stiamo parlando di esperienza e saggezza. Roberto Weitnauer 16/20 3 immagni di spermatozoo che penetra nell’ovocita: 1) http://www-biology.ucsd.edu/classes/bimm110.SP07/images/fertilization2.jpg 17/20 2) http://www.scienceclarified.com/images/uesc_05_img0247.jpg 3) http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_04.jpg 18/20 Grafica semplificata della meiosi, il processo che ricombina i caratteri ereditari e porta alla formazione delle cellule germinali; nella figura è riportato il processo tipico che si produce negli animali; nelle piante la condizione è diversa, ma i principi sono analoghi (i bastoncini sono cromosomi): Tratto da: http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_01.jpg http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_02.jpg 19/20 Filmati inerenti la meiosi: Alla data di presentazione di questo scritto a Kalidoxa l’autore rileva a titolo d’esempio che filmati interessanti sulla spermatogenesi e la meiosi sono disponibili ai seguenti indirizzi: http://www.csam.montclair.edu/~smalley/meiosis.mov http://www.bio.davidson.edu/misc/movies/MEIOSIS.MOV http://youtube.com/watch?v=POpbN6RHOO0 http://www.mc.maricopa.edu/~reffland/anthropology/anthro2003/origins/movies/meiosis.mov http://www.biologia-it.arizona.edu/cell_bio/tutorials/meiosis/graphics/meiosis1.mov http://www.biologia-it.arizona.edu/cell_bio/tutorials/meiosis/graphics/meiosis2.mov http://www.scienceman.com/scienceinaction/movies/meiosis2.mov http://intro.bio.umb.edu/111-112/111F98Lect/meiosis.mov http://www.digitalfrog.com/resources/archives/meiosis.mov Democrito di Abdera, il più famoso atomista (visse circa 90 anni a cavallo del V e IV secolo a.C. e fu produttivo fino all’ultimo): http://www.hypatia-lovers.com/images/Democritus.jpg 20/20