1/20 L`intima relazione tra il sesso e la morte nella

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1/20 L`intima relazione tra il sesso e la morte nella
Roberto Weitnauer
Stesura: 10 marzo 2002
(47542 battute)
www.kalidoxa.com
Versione d’origine pubblicata, diritti ceduti a terzi
L’intima relazione tra il sesso e la morte nella biosfera
Non è in genere noto che tra la riproduzione sessuale e la morte per senescenza
intercorra un’intima relazione evolutiva. A morire di vecchiaia sono infatti solo gli
organismi sessuati, mentre i batteri sono virtualmente eterni.
L’evoluzione delle specie riposa sull’accumulo di varianti genetiche che in ultima
istanza provengono dalle mutazioni, ovvero da errori accidentali di duplicazione del
DNA. I batteri dispongono di una riserva di varianti che è correlata unicamente alla
loro grande diffusione e alla loro notevole prolificità. La riserva è minima in termini
relativi, poiché gli errori sono molto rari e le varianti negative vengono subito
eliminate; nel corso degli eoni essa è però risultata sufficientemente nutrita in
termini assoluti per garantire a questi organismi semplici una serie di alternative
genetiche utili alla sopravvivenza nell’ambiente mutevole.
Gli organismi pluricellulari sono più delicati e non altrettanto prolifici. Le sole
mutazioni non bastano alle loro esigenze di adattamento ambientale. Per essi
l’evoluzione ha sviluppato un apparato in grado di conservare più a lungo le
mutazioni accidentali, incrementando così la riserva di variabilità genetica. Questo
apparato è costituito dai processi di riproduzione sessuale che si legano
indissolubilmente alla morte per senescenza.
Nella competizione per l’accaparramento delle risorse la possibilità delle nuove
leve di accedere alla riproduzione è cruciale per il mantenimento della specie.
Infatti, l’eliminazione per raggiunti limiti di età dei soggetti più anziani permette ai
giovani competitori di accoppiarsi più facilmente, apportando nella popolazione le
loro novità genetiche. Se i vecchi continuassero a riprodursi indefinitamente
metterebbero in circolazione un ceppo di geni sostanzialmente conservativo, a
detrimento della riserva di variabilità genetica.
La morte: la fine di un consumo energetico
La letteratura sull’amore è altrettanto nutrita di quella sulla morte. Già nel mito e
nella tragedia dell’antichità greca questo binomio era dominante; si tratta della nota
contrapposizione tra ‘éros’, l’amore, e ‘thanatos’, l’istinto di autodistruzione e di
morte. I richiami alla passione si sono spesso intrecciati con quelli al delitto o al
sacrificio. Meno si è narrato della fine per cause naturali. Eppure, anch’essa ha
rilevanti risvolti sessuali. L’affermazione appare bizzarra, ma se la esaminiamo in
ottica biologica scopriamo un significato della morte per senescenza tanto importante
quanto solitamente sconosciuto.
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Prima di entrare nel merito della questione è però d’uopo intendersi meglio sulla
nozione di morte biologica. Interpretare la morte come la cessazione della vita non fa
altro che spostare il problema sul concetto di vita. Da un punto di vista biochimico la
vita è un insieme di reazioni che comportano un consumo di energia. Un’aliquota
energetica viene prelevata dallo smantellamento di molecole complesse per poi essere
in parte persa nell’ambiente in forma di calore e in parte indirizzata verso la sintesi di
altre macromolecole, un poco come accade in un sistema di contrappesi in cui la
massa maggiore vince l’attrito e può far salire quella minore.
L’attività globale che scaturisce dai due fronti prende il nome di metabolismo. La
morte diventa così la terminazione del metabolismo. Tuttavia, per meglio avviarci
alla comprensione del tema introdotto, conviene cercare di operare qualche riduzione
di significato anche sul concetto di metabolismo. Abbiamo considerato che il
consumo energetico è cruciale in questo contesto. Dobbiamo intenderlo come un
mero trasferimento di energia da una parte all’altra dello spazio, nel pieno rispetto
delle leggi fisiche.
Flussi energetici incanalati: le strutture dissipative
Fondamentale è il secondo principio della termodinamica. Esso dice in sostanza
che l’energia dell’universo si disperde inesorabilmente. È il semplice effetto statistico
di un cosmo disordinato formato da innumerevoli parti che incessantemente
scambiano interazioni. Quando le casualità sono tali da innescare flussi di energia
locali particolarmente intensi si parla di “strutture dissipative”. Se ne conoscono dei
più svariati tipi, dal mulinello che si forma sullo scolo della vasca da bagno, ai
sistemi atmosferici, a certi ‘loop’ elettronici, alle celle convettive nei fluidi, alle
reazioni chimiche pulsanti, eccetera.
I fisici sono soliti alludere anche al cosiddetto caos organizzato, sottintendendo la
circostanza che una struttura dissipativa è in grado di sostentarsi nel disordine
dell’ambiente, differenziandosi da esso e traendo da esso il modo per autoregolarsi,
pur reagendo in maniera imprevedibile. Il notevole effetto di adattamento è però
subordinato a una condizione caratteristica. È infatti necessario che viga un forte
squilibrio, ovvero che vi sia una sufficiente differenza energetica ai capi della
struttura. In tal modo essa viene così a costituirsi come una specie di ponte che
consente un flusso riequilibrante.
Si osservi d’altronde che la struttura dissipativa si sorregge solo fintantoché
perdura quel medesimo squilibrio energetico. In particolare, ciò avviene mediante
una serie di retroazioni (‘feedback’), laddove un effetto in uscita dal sistema diventa
causa stimolante in ingresso. La retroazione, come si può dimostrare anche
matematicamente, è un fenomeno che tipicamente esalta piccole variazioni locali,
inserendole poi in un gioco complessivo di parti. È così che l’energia del mondo si
scava dei comodi canali entro cui fluire veloce.
La vita è una condizione squilibrata
A questo punto occorre fare una considerazione essenziale: le creature viventi sono
strutture dissipative, peraltro le più complesse che si conoscano. Esse corrispondono
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dunque a delle specie di dispositivi di dispersione locale. Il metabolismo, ricco di
processi retroattivi, è insomma una forma particolarmente sofisticata di dissipazione.
Si crede comunemente che la vita sia sinonimo di equilibrio, ma la realtà è piuttosto
diversa. L’omeostasi (equilibrio apparente) di un organismo biologico dipende da una
condizione d’instabilità energetica protratta, come avviene per tutte le strutture
dissipative.
La breve digressione qui esposta ci consente una prima fondamentale valutazione
scientifica della fine di ogni individuo biologico. Possiamo infatti interpretare la
morte come la cessazione di uno squilibrio locale. Quando il metabolismo perde colpi
con l’avanzare dell’età l’organismo viene minato dal disordine ambientale, perché il
flusso energetico incanalato che lo contraddistingue si affievolisce sino a confondersi
con la grande e incoerente dispersione termodinamica dell’universo circostante.
La morte è insomma un po’ come un mulinello che non riesce più a sostentarsi e si
dissolve nell’uniformità dell’acqua. Così, le modalità secondo cui gli organismi
nascono, si sviluppano, si mantengono, invecchiano e infine scompaiono è una
questione di bilanci e flussi energetici in un universo retto dal caos. Il mondo esiste
dopotutto perché in esso si sposta l’energia presente sin dall’epoca del ‘Big Bang’. La
vita e la morte non sono che speciali manifestazioni nel gioco dell’energia cosmica
che si disperde indefinitamente nello spazio.
La materia animata implica la riproduzione
Fatte queste precisazioni, non si può negare che le interpretazioni termodinamiche
date, per quanto ineccepibili nella loro sostanza, ci lascino un po’ a bocca asciutta
relativamente al tema dell’invecchiamento e della successiva morte. Se un mulinello
d’acqua e un organismo vivente sono entrambi strutture dissipative, è anche vero che
il salto di complessità dall’uno all’altro si accompagna a delle caratteristiche salienti.
In effetti, il discorso sulle strutture dissipative non distingue tra materia animata e
inanimata.
Nel regno della vita si delinea un fenomeno davvero molto particolare e inesistente
altrove: la riproduzione. Un mulinello d’acqua può fondersi con un altro, come fa uno
spermatozoo con un ovocita; oppure può dividersi in due, al pari di molte cellule
batteriche o anche di tessuti. Tuttavia, parlare in questi casi di riproduzione sembra
poco ragionevole. Sebbene il processo di rigenerazione biologica sia anch’esso un
aspetto peculiare della dissipazione energetica, non possiamo dimenticare la sua
attinenza in ogni essere vivente col corredo genetico, cioè con i caratteri ereditari.
Una spiegazione della senescenza e della morte biologica che si richiami al
genoma è senz’altro più vicina alle nostre esigenze di comprensione. Come inoltre
vedremo più sotto, il connubio tra ‘éros’ e ‘thanatos’ (tra amore e morte), di cui si
diceva in apertura, gioca qui un ruolo critico. Interpretato in termini biologici, esso
non è infatti altro che una relazione evolutiva tra la durata della vita di una specie e la
riproduzione sessuale la quale esercita un condizionamento comportamentale che si
trasforma all’interno della nostra cultura nel riferimento al concetto di amore, così
importante nei secoli e anche nell’esistenza quotidiana.
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Il concetto della successione delle generazioni
In che modo dunque il sesso e la morte per vecchiaia sono biologicamente connessi
ai geni? Una risposta su due piedi lascerebbe il tempo che trova, perché la questione
tocca alcune corde profonde dell’evoluzione. Per risolvere il nostro problema occorre
pazientare un po’, cercando dapprima di definirlo meglio. Lo faremo distinguendo la
riproduzione degli organismi unicellulari dalla riproduzione di quelli pluricellulari,
quali ovviamente noi umani siamo. Quando avremo un quadro sufficientemente
nitido delle due strategie riproduttive potremo dare una risposta coerente al nostro
quesito.
Anticipiamo subito comunque che la morte per senescenza e la riproduzione
mediante accoppiamento sono fenomeni che riguardano solo le specie pluricellulari.
Le forme di vita unicellulari, come protozoi e soprattutto batteri, sono infatti
virtualmente eterne, per quanto possa apparire curioso. Il fatto è che per esse il
significato di generazione è piuttosto difforme da quello che attribuiamo
normalmente agli alberi genealogici delle famiglie umane.
Per un biologo la generazione coincide essenzialmente con una ripetizione o
ricostituzione del codice genetico di un sistema vivente. Possono aversi quindi
generazioni di singole cellule che si dividono, come pure generazioni di individui
pluricellulari che lasciano una discendenza. Inoltre, un tipo di generazione
comprende l’altra. Infatti, è necessario che le cellule di un embrione seguano una via
generativa, affinché si costituisca un soggetto che poi possa a sua volta mettere al
mondo dei figli.
Batteri immortali e popolazioni pluricellulari variegate
Si diceva che gli esseri unicellulari sono virtualmente immortali. Un batterio
muore solo per ingiurie, quali radiazioni, squilibri termo-chimici, tossine, virus o
predatori. Esso può talora incistarsi e sopravvivere alle avversità per centinaia di
anni, mentre in condizioni normali si scinde in due organismi identici anche più volte
in un’ora. In un certo qual modo, un batterio non invecchia mai, per il semplice fatto
che si rinnova prima, diventando i suoi figli e quindi rinnovando la propria vita.
I sistemi pluricellulari sono più fragili di quelli unicellulari. Per una creatura di
questo tipo conservare un bilancio funzionale, ossia un’omeostasi, implica una
complessità biochimica che di per sé stessa pone problemi di sussistenza. In effetti, in
tutti gli organismi compositi, anche i più semplici, l’armoniosa cooperazione tra le
varie attività metaboliche e le varie cellule è limitata nel tempo. Quando gli
scompensi prevalgono sulle correzioni sopraggiunge inesorabilmente la morte.
Usufruendo della riproduzione sessuale, le creature pluricellulari godono tuttavia
di una sofisticata opportunità di adattamento generazionale all’ambiente. In verità, la
via sessuata non risulta obbligata per ogni specie pluricellulare; vi sono peraltro
alcuni protozoi che conoscono processi sessuati rudimentali. Tuttavia, le creature più
evolute sono obbligate a riprodursi mediante incroci, attestando che il sesso è un
frutto dell’evoluzione che compensa la fragilità dovuta alla complessità.
Il punto è che gli incroci fruttano alla specie sessuata una vasta gamma di geni e di
caratteristiche somatiche, il che le consente di destreggiarsi in ambienti
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imprevedibilmente mutevoli. Sappiamo bene difatti che, per quanto possano
assomigliare ai genitori, i figli sono sempre individui geneticamente riassortiti. La
discendenza di un ceppo batterico è invece connotata da una sostanziale fissità. Le
due modalità riproduttive corrispondono a due strategie evolutive; la differenza tra di
esse risulta cruciale nell’economia del nostro discorso. Vediamo meglio quali sono le
strategie in oggetto.
La vita intesa come un investimento a rischio
Per fare un parallelo di comodo, immaginiamo un ‘broker’ che investa per il
proprio cliente su più titoli finanziari, al fine di usufruire sempre di una riserva di
capitale al cospetto delle insidie del mercato. In questo modo le perdite di un settore
in recessione possono compensarsi con titoli relativi ad attività più redditizie. La
distribuzione del rischio finanziario è una strategia conservativa tipica nella finanza.
Essa si contrappone alla speculazione, laddove gli sforzi d’investimento sono
piuttosto concentrati, con tutti i pericoli che ciò comporta.
La riproduzione sessuale è un poco come quel broker, mentre il mercato
finanziario corrisponde all’ambiente e i titoli riflettono i geni. Grazie al sesso, una
specie dispone di maggiori riserve ereditarie, cioè di geni più differenziati. Così,
l’estinzione della specie a causa di un disadattamento generalizzato del genoma è resa
meno probabile, allo stesso modo in cui è meno probabile il tracollo finanziario di un
portafoglio di titoli variegati.
I batteri di una colonia sono invece altrettanti cloni, ossia risultano geneticamente
identici, dal momento che si riproducono per semplice scissione binaria, vale a dire
mediante una netta divisione cellulare (mitosi) con annessa duplicazione del corredo
genetico. Pertanto, ciascuno di essi è ugualmente adattato o, viceversa, ugualmente
esposto alle insidie esterne. Qui il broker, per continuare col parallelo, specula e
punta tutto su un unico settore in forte crescita: il tipo di ambiente biologico che
prevale in un certo momento. Quando però il vento del mercato muta radicalmente,
ovvero quando l’habitat subisce qualche sconvolgimento, le perdite possono risultare
ingenti.
La robustezza degli organismi rudimentali
Eppure, tornando alla biologia, non si può certo sostenere che i batteri subiscano
serie minacce di estinzione. Tutt’altro. Essi sono gli organismi più numerosi e arcaici
che esistano sul pianeta e ciò testimonia della loro resistenza da oltre tre miliardi di
anni a questa parte. Metà della biomassa terrestre è batterica. In effetti, queste cellule
rudimentali autonome sono sopravvissute, mantenendo senza troppi problemi una
considerevole stabilità genetica e fisiologica. Evidentemente, pur speculando, il
broker dei batteri non ha sbagliato. Questo si deve a tre fattori primari che occorre
brevemente elencare.
Il termine “ambiente” restituisce un significato immediato e piuttosto evidente.
Tuttavia, l’ambiente è un’entità molto articolata le cui caratteristiche salienti
dipendono dal modo in cui lo si osserva. In altre parole, ciò che per una specie può
essere una variazione brusca e importante dell’habitat per un’altra può riflettere un
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mutamento lieve. Tutto dipende dalle relazioni tra l’organismo e ciò che lo circonda.
L’ambiente corrisponde insomma a un concetto relativo.
La biosfera terrestre è andata incontro a radicali cambiamenti nel corso della sua
evoluzione. Varie specie si sono estinte, mentre nuove hanno fatto la loro comparsa.
Molte colonie di batteri sono invece rimaste invariate sino a oggi, perché quei
cambiamenti non hanno interessato i loro habitat oppure perché non sono risultate
discriminanti per il loro adattamento. Ricordiamo anche che una forma di vita
rudimentale è in linea di massima più robusta di una complessa.
La grande diffusione dei batteri
In secondo luogo, gioca un ruolo la grande diffusione dei batteri, prodottasi poco
dopo le prime mosse della vita sul globo. Così, per quanto i cambiamenti ambientali
possano essere risultati qui e là pronunciati, nicchie adatte alla sopravvivenza dei vari
tipi di batteri sono rimaste comunque usufruibili. Questa salvezza non è mancata
nemmeno durante lo sconvolgimento terrestre più drammatico che è probabilmente
coinciso con l’introduzione dell’ossigeno nell’atmosfera, verificatasi con l’avvento
degli organismi fotosintetici che lo rilasciavano come prodotto di scarto (al pari delle
piante oggi).
L’ossigeno ha agito da potente tossico nei confronti dei primi batteri, fino a quel
momento abituati a vivere e riprodursi in sua assenza. La maggior parte è
effettivamente perita a seguito dell’avvelenamento, ma non sono venute meno le
nicchie anossiche (come i fondali marini) dove queste specie arcaiche hanno potuto
perpetuarsi sino ai giorni nostri. Ad esempio, il pericoloso batterio del botulino è un
discendente di quelle vite primitive e lo si può trovare nei barattoli sotto vuoto. Di
batteri anaerobici è ancora pieno il mondo.
L’accumulo di mutanti
Infine, veniamo alla terza considerazione, la più importante. Le colonie batteriche
sono estremamente fertili. In condizioni ottimali un individuo si scinde circa ogni
venti minuti, dando corpo a una colonia di 70 miliardi di unità in sola mezza giornata.
Il gran numero di riproduzioni non è di per sé una garanzia di sopravvivenza. Infatti,
nell’eventualità di condizione ambientali ostili tutti i membri della popolazione con il
codice genetico originario soccomberebbero in massa. Tuttavia, la fecondità implica
un fattore cruciale: un superiore accumulo di mutanti, cioè di soggetti che presentano
qualche differenza genetica rispetto a tutti gli altri cloni.
Le mutazioni sono errori accidentali di duplicazione del corredo genetico che
occorrono quando l’organismo si divide. Si tratta di anomalie alquanto rare, valutabili
intorno a un caso su un miliardo di replicazioni. Tuttavia, per quanto visto, dopo
mezza giornata sono in media già 70. Ne derivano batteri modificati che la maggior
parte delle volte non riescono ad adattarsi al mondo esterno. Una minima porzione
delle mutazioni risulta però benefica e può promuovere variazioni o aggiunte che si
dimostrano adattive. Gli errori di replicazione dei geni sono in effetti il motore primo
dell’evoluzione. L’intera biosfera deriva dopotutto dai batteri.
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La costante presenza di alcuni mutanti all’interno della specie funge da risorsa in
caso di sconvolgimenti dell’habitat. Abbiamo infatti stabilito che l’ambiente è un
concetto relativo, non assoluto. Questo significa che i soggetti disadattati potrebbero
diventare favoriti nel momento in cui i vincoli esterni virano. In altre parole, ciò che
in determinate condizioni è una tara genetica si tramuta imprevedibilmente in un
vantaggio vitale.
La riserva di variabilità genetica
Tra i batteri l’investimento genetico viene concentrato tutto su un unico fronte, con
i rischi che ciò comporta per quasi tutti i membri della nutrita colonia. Eppure, grazie
all’elevato tasso di rigenerazione e agli errori accidentali di replicazione del genoma,
la popolazione batterica può mantenere un sufficiente capitale di geni differenti che
possono talora tornare utili per cambiare rotta, ricostituendo velocemente un nuovo
ceppo dopo la moria generalizzata.
L’evoluzione ha agito in maniera così raffinata che molte colonie batteriche si
riproducono più velocemente quando l’ambiente diviene sfavorevole. La
conseguenza è ovviamente un superiore accumulo di mutanti potenzialmente
vantaggiosi per assicurarsi una discendenza. In definitiva, i batteri sono alquanto
fissi, ma non per questo sono privi di una plasticità di adattamento genetico.
Tecnicamente si dice che, grazie ai loro mutanti, possono contare su una sufficiente
riserva di variabilità genetica.
Tale risorsa, se paragonata al numero di membri di una popolazione, è molto più
nutrita nelle specie sessuate che pure hanno velocità di crescita decisamente minori.
Come si accennava, gli incroci tra i genitori producono un assortimento genetico nei
figli che è completamente sconosciuto tra i batteri o i protozoi asessuati. Nella
successione delle generazioni si delinea su una base ereditaria comune una variabilità
diffusa che lavora proficuamente per la plasticità di adattamento. Ed è proprio questa
circostanza che determina ricadute caratteristiche sulla durata di vita. Lo si capisce se
s’indaga sulle particolarità dei meccanismi sessuali.
Cellule somatiche e germinali
Come si accennava poc’anzi, le mutazioni genetiche sono il motore
dell’evoluzione. Esse occorrono ovviamente anche negli organismi che si rigenerano
per accoppiamento. A risultare discriminanti per l’adattamento ambientale della
specie non sono però le mutazioni che interessano le cellule somatiche, cioè quelle
che formano l’individuo, bensì le mutazioni che compaiono nelle cellule riproduttive,
dette anche gameti. È infatti dalla fusione dei gameti (spermatozoi maschili e ovociti
femminili) conseguente alla fecondazione che deriva il nascituro. Tra i batteri la
distinzione tra unità germinali e somatiche non ha senso, dato ch’essi sono costituiti
da un’unica cellula.
Un’alterazione accidentale durante la generazione delle cellule germinali, detta
“meiosi”, ha quindi ricadute sull’assetto ereditario di una nuova generazione. Come
nel caso dei batteri, la modifica può essere positiva o negativa, a seconda che
l’ambiente caotico e imprevedibile la premi o la condanni. Nel primo caso la
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selezione naturale decreta la comparsa di caratteri modificati o aggiuntivi, sino a
formare una sequela che porta negli eoni a una specie nuova. Nel secondo caso la
selezione sentenzia inesorabilmente l’inadeguatezza del soggetto che manifesta il
carattere mutato; quest’ultimo deve perciò considerarsi come una tara che tende a
scomparire dalla popolazione con la morte dei portatori. Come tra breve vedremo, è
però cruciale che non lo faccia subito.
Doppio corredo cromosomico
Nelle cellule eucariote (dotate di nucleo) degli organismi superiori (dai protozoi in
su), a differenza di quelle batteriche (procariote), il genoma, cioè il DNA, non è
distribuito come un unico filamento attorcigliato nello spazio cellulare (citoplasma),
bensì è organizzato in porzioni modulari compattate, i cosiddetti “cromosomi”.
L’evoluzione ha stabilito questo stato di cose, soprattutto perché dividere un genoma
molto arricchito, e quindi molto sviluppato in lunghezza, è più complicato che
procedere a una divisione di singole porzioni strutturate di DNA.
Il numero di cromosomi dipende da specie a specie. Di solito, esso cresce con la
complessità dell’organismo, ma questa non è affatto una regola. Per esempio, le
farfalle hanno un genoma più semplice di quello umano, tuttavia possiedono ben 500
cromosomi, contro i 46 umani. I cromosomi possono dividersi in due gruppi: quelli di
origine materna e quelli di origine paterna. Le cellule del corpo di un individuo
sessuato contengono dunque un duplice corredo ereditario.
Per essere più precisi, gli animali hanno cellule somatiche diploidi e cellule
germinali aploidi, mentre nelle piante la situazione è ribaltata. Rimanendo per
semplicità al caso degli animali, questo vuol dire che le cellule degli ovociti e degli
spermatozoi hanno un corredo genetico singolo, ossia hanno una sola serie di
cromosomi (nell’uomo sono 23). Tutte le altre cellule del corpo hanno doppio
corredo genetico, ovvero ogni cellula possiede due serie cromosomiche (quindi
nell’uomo ci sono 23 coppie, ossia 46 cromosomi).
Infatti, i gameti si fondono all’atto della fecondazione, danno luogo a un’unica
cellula integrata (zigote) in cui sono presenti i corredi femminile e maschile,
originariamente separati. Da quel momento si sviluppa per duplicazioni successive un
embrione che cresce sino allo stadio adulto, costituendosi di cellule somatiche
diploidi, contenenti sia i caratteri ereditari femminili che quelli maschili.
I geni omologhi, cioè quelli che si corrispondono per la medesima funzione sui due
corredi interfacciati, vengono detti “alleli”. L’eccezione in questo affascinante
fenomeno di accrescimento è costituita appunto dai gameti. In essi non sussistono
alleli, ma solo geni singoli presenti su cromosomi singoli.
Miscugli casuali
La riproduzione sessuale implica un miscuglio dei tratti del padre e della madre.
Tuttavia, i geni sono identità biologiche confinate, corrispondenti a delle sequenze
chimiche (nucleotidiche) ben precise sul materiale che compone il materiale
ereditario, ossia il DNA. Questo significa che a mescolarsi non sono le qualità dei
singoli geni, bensì il loro assortimento. Ciascun figlio deve possedere lo stesso tipo di
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geni dei genitori, ma non possiede gli stessi geni, altrimenti sarebbe un clone, come
avviene nei batteri.
Ogni discendente possiede i cromosomi caratteristici della sua specie, ma su di essi
possono essere presenti geni del tutto particolari, ciò che gli conferisce
un’individualità inconfondibile. Metà dei geni sono paterni e l’altra metà sono
materni. La distribuzione dei geni sui cromosomi avviene durante la meiosi. Si tratta
di processi di assortimento che sono in larga parte governati dal caso, proprio come
succede per le mutazioni.
In particolare, durante la meiosi i processi della ricombinazione e del crossing over
sono in grado di dare origine a un numero straordinariamente elevato (calcolabile
specie per specie) di gameti geneticamente diversi. Altrettanto straordinario è il
numero di possibili fusioni tra i diversi spermatozoi e gli ovociti. Infine, molto nutrita
è anche la quantità di differenti accoppiamenti tra organismi che possono occorrere in
una popolazione sessuata.
Si comprende che se le mutazioni accidentali sono il motore primo
dell’evoluzione, la riproduzione sessuale lavora su questa base, aggiungendo ulteriori
variabilità che dobbiamo interpretare alla stregua di tentativi di adattamento. Entrare
nel dettaglio di come si sviluppi la meiosi esula dagli intenti di questo articolo, ma
alcuni ragguagli sono d’obbligo.
Geni recessivi e dominanti
Durante la meiosi alcune cellule capostipiti diploidi dell’organismo vengono
tramutate per successive riduzioni del corredo ereditario in cellule aploidi: gli
spermatozoi nel maschio, gli ovociti nella femmina. La meiosi e la fecondazione sono
le due facce di una stessa medaglia. La prima dimezza il corredo genetico, la seconda
lo raddoppia. La riproduzione sessuale è permessa da questo ciclo di continua
alternanza tra cellule diploidi e aploidi, somatiche e germinali.
Com’è ben noto, le strutture e le funzioni di un organismo dipendono dai suoi geni;
questi vengono letti, decodificati e tradotti in istruzioni biochimiche. Da ogni gene
viene ottenuta una proteina che, insieme alle altre, va a regolare il metabolismo di
una forma vivente. Dobbiamo quindi arguire che in un organismo sessuato vi siano
proteine che dipendono da istruzioni genetiche materne e altre che dipendono dalla
lettura del corredo maschile. In effetti, è così, ma non per ogni gene. Sussistono
infatti geni dominanti e geni recessivi.
In una coppia di alleli il gene dominante è quello che s’impone sull’altro, ovvero
quello che viene letto e tradotto di preferenza. Accade così che l’allele recessivo non
trovi espressione a livello somatico. In altre parole, un carattere materno o paterno, a
seconda dei casi, viene sì regolarmente trasmesso nel patrimonio ereditario del
discendente mediante l’accoppiamento dei genitori, ma poi resta silente, cioè non
concorre a stabilire funzioni biologiche attive. Questo è un punto cruciale.
Tare potenzialmente utili all’adattamento
Una colonia di batteri è contraddistinta da un unico corredo ereditario e quindi
ciascun gene non può che esprimersi. Questo fatto comporta che le eventuali tare
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vengano quasi subito eliminate dalla popolazione. Viceversa, nel caso di tare
recessive negli organismi sessuati, cioè tare presenti sull’allele che non si esprime,
l’eliminazione non avviene. L’individuo è portatore del difetto, ma non lo evidenzia a
livello somatico e quindi non viene punito dalla selezione naturale.
La tara si manifesta solo allorquando l’aleatorietà che contraddistingue gli
accoppiamenti fa in modo che sia il padre che la madre ne siano portatori. In questa
evenienza, chiamata “omozigosi”, gli alleli sono identici e quindi si esprimono a
livello somatico. In tutti gli altri casi la tara, recessiva rispetto ad altri geni omologhi
distribuiti nella popolazione, ha l’agio di essere trasmessa nella discendenza senza
troppi problemi di adattamento.
Ricapitolando, gli alleli che dovessero dimostrarsi a lungo dannosi al cospetto
dell’ambiente vengono gradualmente eliminati attraverso i casi di omozigosi. Ma la
recessività consente comunque una permanenza più duratura dei geni tarati
all’interno della specie. Ciò ha un indubbio risvolto adattivo. Infatti, ricordando
ancora che gli umori bizzarri dell’ambiente possono trasformare un tratto consolidato
in uno svantaggio e una tara in un beneficio, comprendiamo che il meccanismo
sessuale è capace di stabilire nel tempo una cospicua riserva di variabilità genetica.
Essa è sempre proficua per promuovere l’evoluzione nell’eventualità di
scombussolamenti dell’habitat, minacciosi soprattutto per creature composite e
complesse.
I gameti, un frutto della specializzazione
Lo sviluppo degli organismi pluricellulari ha comportato in centinaia di milioni di
anni una specializzazione sempre più spinta e delicata delle cellule, riunite
inizialmente in ammassi simili a quelli batterici e man mano integratesi
sinergicamente in sistemi sempre meglio organizzati. La cooperazione si è spinta sino
al punto da rendere le cellule mutuamente legate, ossia incapaci di vivere
autonomamente fuori dal contesto collettivo.
In principio sono rimaste indipendenti alcune cellule della società che, nel
momento in cui la collaborazione iniziava a sfaldarsi, si staccavano dal contesto
globale per andare a fondare nuove colonie strutturate. Queste unità migranti
affrontavano quindi con successo il problema della limitazione temporale delle
collettività, ciò che poi è l’invecchiamento. Esse sono state le antesignane delle
cellule germinali. Per quanto abbiano mantenuto una relativa indipendenza, anche
queste cellule, come tutte le altre, sono oggi il frutto di un’estrema specializzazione.
Possiamo dire in un certo senso che i problemi posti agli organismi dall’aumento
della complessità causato dalla specializzazione cellulare sono stati brillantemente
risolti dall’evoluzione attraverso la specializzazione medesima. Il processo della
meiosi con cui vengono formate le cellule riproduttive non è infatti altro che una
raffinata specializzazione della più arcaica divisione cellulare (mitosi) che ha
permesso ai primi batteri di colonizzare il pianeta.
Gli organismi competono per le risorse
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Giunti fin qui, possiamo finalmente affrontare il nostro quesito principale: quale
relazione evolutiva fondamentale intercorre tra la morte per senescenza e la
sessualità? Una riposta l’abbiamo appena trovata, considerando che fin dai primi
sistemi pluricellulari in via di formazione le cellule riproduttive servivano per
continuare la specie, eventualmente in presenza di maggiori alimenti, costituendo
sistemi sociali ex novo, prima che la collettività iniziasse a manifestare segni di
cedimento, estinguendo la genia.
Tuttavia, questa spiegazione è solo la punta di un iceberg. Le implicazioni
evolutive della riproduzione sessuale sono infatti molto più profonde e interessanti.
Esse emergono in maniera pregnante se ci riallacciamo alla riserva di variabilità
genetica su cui abbiamo appena discusso. Nella fattispecie, l’accumulo di una scorta
di geni diversi nella specie sessuata e la durata di vita di una generazione sono legate
alla competizione che s’instaura tra i membri sessuati.
Gli organismi viventi lottano per le risorse (cibo, spazio, luce, ecc.) che devono
considerarsi sempre limitate. Più essi sono numerosi all’interno di una data
popolazione, meno facile è per chiunque accaparrarsi ciò che offre l’ambiente;
maggiori difficoltà sussistono quindi nella sopravvivenza e nella riproduzione. Il
risultato che dobbiamo attenderci è la morte di alcuni organismi della specie
sovraffollata. Ciò vale tanto per sistemi unicellulari quanto per organismi compositi
più evoluti.
Le risorse influiscono sulla dinamica delle popolazioni
Se le risorse ambientali si rinnovano, tipicamente se si tratta di alimenti, le loro
variazioni risultano connesse con quelle della specie che ne usufruisce. A una crescita
della popolazione corrisponde una diminuzione degli alimenti e viceversa. Il processo
è evidentemente a feedback ed è una delle tante condizioni retroattive che interessano
la biosfera, come si accennava all’inizio. Nella dinamica delle popolazioni sono ad
esempio ben note le oscillazioni articolate (anche caotiche) che hanno luogo nel
rapporto tra il numero delle prede e quello dei predatori.
Abbiamo visto che in alcuni casi di habitat ostile i batteri si riproducono più
velocemente, costituendo nella colonia una maggiore scorta di mutanti
potenzialmente adattivi. Si tratta tuttavia di processi particolari che di solito
riguardano aggressioni ambientali, più che una condizione d’inedia protratta. In
genere, i batteri che nella competizione non riescono ad alimentarsi semplicemente
non si replicano, s’incistano o muoiono, lasciando maggiori disponibilità ai superstiti.
Tra il tasso di proliferazione e la morte dei batteri sussiste un bilancio dinamico che
dipende da come variano le risorse disponibili.
La morte incrementa la riserva di variabilità genetica
Per le specie sessuate la condizione di fondo non può essere diversa. Anche qui il
rapporto tra nascite ed eliminazioni è condizionato da quanto l’ambiente mette a
disposizione degli organismi. In questo caso il decesso colpisce tuttavia in maniera
differenziata. Sappiamo che i batteri non invecchiano, mentre le forme sessuate lo
fanno. Ebbene, la morte per senescenza costituisce un importante fattore di
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modulazione demografica della specie evoluta. Il punto è che in un ambiente
depauperato la competizione protratta degli anziani ostacolerebbe la riproduzione
delle nuove leve e quindi l’apporto di novità nella discendenza.
Infatti, i soggetti con una lunga vita alle spalle, già molte volte accoppiatisi,
determinerebbero con i loro incroci la continua messa in circolazione di uno stesso
ceppo di geni. Il minore accoppiamento dei competitori giovani, che in virtù della
riproduzione
sessuale
possiedono
configurazioni
ereditarie
rinnovate,
circoscriverebbe insomma la formazione di riserva di variabilità genetica che, come
sappiamo, è critica per fronteggiare i capricci dell’habitat.
La scomparsa dei più vecchi può allora conferire un beneficio adattivo alla specie.
Essa sottrae un’aliquota della competizione, stabilizzando il bilancio tra il consumo
di risorse e la numerosità della popolazione. Ma nel contempo, pur limitando la
popolazione, essa assicura il mantenimento di una certa riserva di variabilità genetica,
importante per contrastare la fissità genetica in una popolazione biologicamente
complessa e più fragile.
In questo bilancio gioca un ruolo anche l’intervallo di maturazione sessuale,
giacché esso influisce sulla quantità di accoppiamenti nella collettività nel corso del
tempo; sussiste peraltro una certa correlazione tra la durata di vita e il tempo richiesto
per la maturazione. Infine, conta la prolificità della specie, poiché una figliolanza
elevata incrementa anch’essa la riserva di variabilità.
L’evoluzione diversifica le longevità
Come tuttavia è logico aspettarsi, c’è il rovescio della medaglia. Ambienti rigidi
puniscono infatti una variabilità intrinseca eccessiva. In queste condizioni,
all’opposto di prima, la rivalità dei maturi ben inseriti nell’habitat argina la
diversificazione genetica e quindi la diffusione dell’eventuale disadattamento.
Bisogna quindi aspettarsi che il carattere mutevole o fisso dell’ambiente decreti il
limite oltre il quale un soggetto può definirsi anziano e non ha più grandi successi
riproduttivi.
S’intuisce in definitiva come la durata della vita, l’intervallo di maturazione, i
limiti dell’età riproduttiva, la prolificità, la rischiosità di mutamento ambientale, il
tasso di mortalità accidentale e anche il comportamento sessuale risultino
condizionati dalle qualità dinamiche del mondo in cui vivono le specie. Ognuna di
esse ha modulato questi fattori nel corso dell’evoluzione, in funzione delle
opportunità e dei vincoli esterni. Ad esempio, i topi domestici vivono 2 anni, alcuni
pappagalli raggiungono i 100 anni, le tartarughe anche i 150 e le sequoie giganti
addirittura migliaia. Ma con quali strumenti l’evoluzione ha potuto controllare queste
durate?
Come abbiamo visto in principio, l’energia del mondo si disperde. Ogni organismo
è soggetto a inesorabile degrado. Radicali liberi e agenti fisici usuranti minano il
sostentamento biologico. Con l’avanzare dell’età le cellule somatiche vanno incontro
a scompensi, il codice genetico accumula errori, la cooperazione segna il passo,
malattie e tumori diventano più frequenti. Certamente, la durata della vita è una
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questione di resistenza dell’omeostasi metabolica di fronte ai disturbi del mondo
esterno caotico.
Eppure, l’evoluzione ha saputo mettere in piedi dei dispositivi biochimici
stupefacenti in grado di riparare ai guasti e ovviare al deperimento. Non possiamo di
sicuro ammettere che simili processi possano raggiungere nella biosfera una
sofisticazione tale da determinare una resistenza biologica illimitata all’usura.
Tuttavia, è indubbio che certe specie invecchiano prima di altre, il che fa pensare che
la portata dei dispositivi biochimici di autoconservazione sia anch’essa regolata
dall’evoluzione.
Gli errori e il logorio servono all’adattamento
Una condizione simile vale senz’altro per le mutazioni genetiche. Come si è
appurato, gli errori accidentali di duplicazione del codice ereditario sono rarissimi. La
macchina replicativa ha una precisione tecnicamente superlativa. Questo risultato
viene raggiunto attraverso una serie di dispositivi biologici di controllo che, ove sia
richiesto, possono restaurare nel vero senso della parola un genoma duplicato in
maniera imperfetta.
Ma cosa succederebbe se tali processi di aggiustamento genetico non perdessero
mai un colpo? La risposta è semplice: non si verificherebbero mutazioni. I batteri
sarebbero allora costretti a rimanere per sempre identici a sé stessi. Gli organismi
sessuati potrebbero invece contare su una relativa variabilità delle loro configurazioni
ereditarie, ma il corpo totale dei geni popolazionali si conserverebbe inalterato e non
potrebbe accogliere reali novità. In altre parole, all’evoluzione verrebbe meno il suo
motore primario. È pertanto cruciale che i sistemi di restauro non abbiano
un’efficienza totale. Ecco perché la selezione deve mantenere nell’omeostasi
un’aliquota residua di errori replicativi.
Possiamo ragionevolmente pensare che questa considerazione abbia carattere
generale e valga anche per il controllo del logorio cellulare. Una certa usura sarebbe
insomma necessaria per permettere all’organismo d’invecchiare e rispondere in tal
modo alle esigenze di adattamento collettivo. Ma, se le cose stanno in questi termini,
chi stabilisce il grado di efficienza dei meccanismi di restauro? La risposta è
abbastanza scontata: i geni. Addirittura, potremmo ritenere ch’essi siano responsabili
di una vera e propria programmazione della fine della vita. Dobbiamo dunque
pensare a una regolazione ereditaria, cioè a dei geni che programmano la morte?
Cellule che si suicidano
Esperimenti su colture di cellule animali hanno in effetti mostrato la presenza di
una sorta di limitatore biologico. La proliferazione è tanto più limitata quanto più il
tessuto di provenienza è vecchio. In vitro si osserva che dopo una certa aliquota di
divisioni le cellule sembrano suicidarsi, un fenomeno noto come “apoptosi”.
Ricerche condotte su invertebrati, moscerini e topi illustrano che eliminando alcuni
geni coinvolti nella crescita si ottengono generazioni più durature. Anche la longevità
degli umani è chiaramente correlata alla storia familiare, oltre che al sesso (le donne
vivono di più).
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Le modalità con cui le cellule si estinguono sistematicamente sono identiche per
una larghissima parte di organismi pluricellulari evoluti e arcaici. Questo schema di
base conservatosi nel tempo è un ulteriore sintomo della presenza di geni di morte
programmata che hanno saputo imporsi e conservarsi durante l’evoluzione. Quando
tuttavia parliamo di programma di morte dovremmo circostanziare il nostro discorso
e non pensare solo alla limitazione dell’età massima.
Ad esempio, si sa che l’apoptosi contrasta gli spunti proliferativi dei tumori, cioè
di cellule mutate che iniziano a crescere in modo egoistico, senza rispettare le regole
della cooperazione sociale e quindi danneggiando i tessuti in cui pervengono.
L’apoptosi agisce persino durante le prime fasi di vita degli organismi superiori. La
morte interviene nello sviluppo dei mammiferi per eliminare le cellule
soprannumerarie del sistema immunitario e del sistema nervoso. Così, il
modellamento dell’animale adulto assomiglia all’opera dello scultore che per far
emergere la forma finale deve scartare parecchio materiale.
Uno stesso processo di morte programmata lavora dunque una volta per eliminare
taluni soggetti anziani e una volta per proteggere il metabolismo di quelli giovani. Per
converso, sono persino stati individuati geni che predispongono a maggiori rischi di
patologie in età adulta, ma che sono proficui nella vecchiaia. Tutto questo può
apparire bizzarro, ma non è altro che l’indizio di una modulazione articolata che
illustra come il ruolo dei geni possa sensibilmente dipendere dalle condizioni in cui
vengono a operare. Se i geni di morte cellulare sono stati selezionati dall’evoluzione
è per il loro ruolo complessivo, non solo per gli effetti più immediati che riusciamo a
riscontrare con i nostri studi.
Un complesso tiro alla fune
Quanto le argomentazioni sul controllo genetico della vita possano essere
relativizzate è attestato dal fatto che sussistono pure geni che allungano la vita. È
questo il caso di alcuni geni chiamati in causa nel trasporto dei grassi e nelle diete
ipocaloriche, benefiche dai vermi ai mammiferi. Analisi compiute su ultranovantenni
hanno segnalato la presenza di settori alquanto affini sul cromosoma numero 4.
Ultimamente si è scoperto che anche la resistenza delle estremità dei cromosomi
(telomeri) è indice di durata delle cellule ed è una caratteristica ereditaria.
S’intuisce quindi che i geni di morte, oltre a ricoprire ruoli dipendenti dal contesto,
riflettono solo un aspetto della longevità. Ma il fattore più importante da considerare
a questo riguardo è il fatto che i ricercatori hanno scoperto che esistono veri e propri
geni di sopravvivenza che ostacolano l’esecuzione delle istruzioni di morte. In loro
assenza il tasso di estinzione delle cellule sarebbe eccessivo e andrebbe a detrimento
dell’omeostasi globale. L’effetto mitigante dei geni della sopravvivenza è stato
dunque anch’esso ben conservato dai processi evolutivi.
I programmi di morte e quelli di sopravvivenza s’interfacciano, non solo regolando
l’omeostasi di un individuo nel corso della sua vita e nelle varie situazioni ambientali,
ma anche controllando la longevità delle varie generazioni di una specie. La grande
parte di questi meccanismi resta sconosciuta, il che ci deve ricordare che
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difficilmente sarà possibile prevedere il momento della morte per senescenza di un
individuo evoluto sulla sola scorta di un’analisi genetica.
Le istruzioni dei geni di morte e di sopravvivenza influiscono sul metabolismo
come se prendessero parte a un tiro alla fune. Ne deriva un controllo complesso,
influenzato da vari fattori metabolici e vincoli dell’habitat. Come al solito, nulla è
semplice nella biosfera dove tutto è mobile e connesso, fuori e dentro gli organismi.
Occorre a tal proposito rammentare che i singoli geni non lavorano in splendido
isolamento. Essi interagiscono tra loro e con l’ambiente imprevedibile.
Negli ultimi cento anni la vita media umana si è nettamente allungata, in virtù del
benessere. Ciò indica che il programma di morte e di sopravvivenza può essere
influenzato dall’esterno. Esso non funziona quindi, per fare un esempio spiccio, come
le centraline delle auto che, tramite una segnalazione sul cruscotto, ci dicono quando
dobbiamo procedere all’esecuzione del tagliando, con tutte le sostituzioni che questo
comporta.
Oltre la somma delle parti
Le macchine, di qualunque tipo esse siano, non sanno ereditare, né riprodursi. Il
logorio di una macchina, ossia il suo invecchiamento, non determina alcuna ricaduta
positiva sul funzionamento di altre macchine. Le macchine non dipendono dalle
imperscrutabili casualità ambientali. Nelle macchine non capita che ciò che accade a
scala piccola possa influire su ciò che accade a grande scala e viceversa, condizione
peraltro caratteristica delle strutture dissipative di cui si diceva all’inizio.
Le mutazioni sono un esempio eccellente di come minimi accidenti del
microcosmo possano avere ripercussioni marcate sull’adattamento e sull’evoluzione
di un’intera specie. Nessuna macchina conosciuta ha un funzionamento la cui
integrità dipende da casualità ambientali. Qualunque progetto o qualunque
programma tecnico di controllo (come il software) implica l’esecuzione rigida di un
certo numero di cicli e non ha quindi risorse funzionali al di fuori di uno schema
ripetitivo.
Come sappiamo, la riserva di variabilità genetica dipende dall’accumulo di
mutazioni: un modo di fare tesoro delle accidentalità esterne al cospetto di altre
accidentalità. Il sesso è un’invenzione della biosfera che consente di tenere elevata
tale risorsa e sfruttarla in modo proficuo nell’ambito di popolazioni complesse e
delicate che risentono maggiormente degli umori ambientali.
La strategia della morte per vecchiaia fa parte di quella invenzione che circa
seicento milioni di anni fa, nel periodo geologico del Cambriano, determinò
l’esplosione della biodiversità, a partire da organismi unicellulari rudimentali. Le
macchine sono la semplice somma delle loro parti. Mutazioni, ereditarietà,
occasionalità ambientali, sesso e morte concorrono a rendere un organismo, una
specie o l’intero regno vivente qualcosa che trascende decisamente la somma delle
parti.
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La morte, un sacrifico che si eredita
Possiamo in definitiva considerare la morte per vecchiaia come uno dei frutti
caratteristici dell’evoluzione. Alcune cellule di un organismo superiore vengono
sacrificate sistematicamente in favore della sopravvivenza del sistema biologico
complessivo. Ma quest’ultimo è comunque destinato a morire, proprio per via di
quegli stessi meccanismi di controllo cellulare che lo tengono in vita e gli permettono
di riprodursi. Di nuovo, il sacrifico di alcuni individui serve per il mantenimento della
popolazione. D’altronde, anche le popolazioni muoiono, a vantaggio di altre
popolazioni.
La biosfera intera può essere intesa alla stregua di un sistema di morte e di
sopravvivenza, una specie di omeostasi a scala enorme che dissipa energia. La
strategia della morte riguarda solo la metà della biomassa totale del pianeta.
Organismi semplici e asessuati come i batteri non invecchiano mai. Eppure, le specie
sessuate sono derivate proprio dai batteri per successive mutazioni. La vita è un
processo ereditario tanto su scala generazionale, quanto su quella evolutiva.
La complessità della biosfera dipende molto dalla retroazione che, come sappiamo,
è tipica delle strutture dissipative. In questo processo che torna continuamente su sé
medesimo il passato lascia tracce durature. “Ereditarietà” è appunto il termine che
utilizziamo a questo riguardo quando studiamo il regno della materia vivente. Ed è
sull’ereditarietà che hanno agito congiuntamente il sesso e l’invecchiamento.
L’ambiente logorante porta alla senescenza, ma a una velocità controllata anche
dal genoma. Siamo insomma al cospetto di programmi innati, dipendenti forse da
pochi geni, attivabili dalle imperscrutabili pressioni ambientali e da esse ben
selezionati negli eoni. È tramite il patrimonio ereditario che le specie sessuate
calibrano la durata di vita, adeguandosi al mondo che abitano.
Qualche genetista ipotizza che la durata massima di vita sia per l’uomo circa 120130 anni, ma che la medicina possa aiutarci a superare la media di 100 anni in piena
salute. Quali minacce ambientali dovremmo temere per la maggiore fissità genetica
che gli anziani causerebbero a lungo termine in società a basso tasso riproduttivo?
Impossibile dirlo.
Non dobbiamo d’altronde scordare la nostra cultura, una manifestazione evolutiva
unica nel regno vivente. Essa è alla base di uno scambio informativo che, come il
sesso, rende la specie più flessibile. Si tratta di un’altra forma di ereditarietà. Il valore
adattivo dei soggetti anziani non è oggi molto di moda nelle nostre collettività, ma
alcuni antichi popoli ben lo conoscono. Stiamo parlando di esperienza e saggezza.
Roberto Weitnauer
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3 immagni di spermatozoo che penetra nell’ovocita:
1)
http://www-biology.ucsd.edu/classes/bimm110.SP07/images/fertilization2.jpg
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2)
http://www.scienceclarified.com/images/uesc_05_img0247.jpg
3)
http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_04.jpg
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Grafica semplificata della meiosi, il processo che ricombina i caratteri ereditari e
porta alla formazione delle cellule germinali; nella figura è riportato il processo
tipico che si produce negli animali; nelle piante la condizione è diversa, ma i principi
sono analoghi (i bastoncini sono cromosomi):
Tratto da:
http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_01.jpg
http://www.progettogea.com/gea/evoluzione-umana/img/image_03_03_02.jpg
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Filmati inerenti la meiosi:
Alla data di presentazione di questo scritto a Kalidoxa l’autore rileva a titolo
d’esempio che filmati interessanti sulla spermatogenesi e la meiosi sono disponibili ai
seguenti indirizzi:
http://www.csam.montclair.edu/~smalley/meiosis.mov
http://www.bio.davidson.edu/misc/movies/MEIOSIS.MOV
http://youtube.com/watch?v=POpbN6RHOO0
http://www.mc.maricopa.edu/~reffland/anthropology/anthro2003/origins/movies/meiosis.mov
http://www.biologia-it.arizona.edu/cell_bio/tutorials/meiosis/graphics/meiosis1.mov
http://www.biologia-it.arizona.edu/cell_bio/tutorials/meiosis/graphics/meiosis2.mov
http://www.scienceman.com/scienceinaction/movies/meiosis2.mov
http://intro.bio.umb.edu/111-112/111F98Lect/meiosis.mov
http://www.digitalfrog.com/resources/archives/meiosis.mov
Democrito di Abdera, il più famoso atomista (visse circa 90 anni a cavallo del V e
IV secolo a.C. e fu produttivo fino all’ultimo):
http://www.hypatia-lovers.com/images/Democritus.jpg
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