programma di sala

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programma di sala
PROSA
2005-2006
venerdì 17, sabato 18 marzo - ore 21
domenica 19 marzo - ore 15,30
TEATRO ARIOSTO
Una produzione
Teatro Eliseo - Teatro Stabile di Roma
Roberto Herlitzka, Milena Vukotic
LASCIAMI ANDARE MADRE
musikdrama di Lina Wertmüller e Helga Schneider
tratto dal libro
Lasciami andare, madre di Helga Schneider (Adelphi Edizioni)
impianto scenico e costumi Enrico Job
musiche Italo Greco e Lucio Gregoretti
luci Jurai Saleri
aiuto regista Cinzia Gangarella
regia Lina Wertmüller
LASCIAMI ANDARE, MADRE
Musikdrama di LINA WERTMÜLLER e HELGA SCHNEIDER
Nel 1998 la scrittrice Helga Schneider, residente in Italia già da qualche decennio, decide, su
sollecitazione di un'anziana viennese — e della RAI, che sta preparando un documentario su
un precedente libro dell'autrice — di far un'ultima visita alla propria madre, un ex membro delle
SS che sta trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza in una struttura pubblica situata nella
provincia di Vienna.
Helga Schneider ha rivisto la madre per la prima volta nel 1971, a distanza di 28 anni da quando
la donna aveva abbandonato il marito e i due figli, Helga di 4 anni e Peter di 19 mesi, a Berlino
durante la guerra, per diventare guardiana nei campi di sterminio Ravensbrück e AuschwitzBirkenau. Ignara della verità sul suo criminale passato Helga, si era recata all'incontro ricolma
di curiosità e speranza di ricominciare un rapporto con una madre a lungo sognata e desiderata,
ma l'incontro si era consumato in circa 40 minuti lasciando la figlia delusa, sconcertata e shoccata.
La madre, dopo averla messa brutalmente al corrente del suo infimo passato, oltre tutto per nulla
pentita, aveva invitato Helga a indossare la sua vecchia uniforme da SS, volendole inoltre regalare
dei gioielli sottratti agli ebrei e trafugati a Birkenau.
Ora, nel nuovo incontro, che sarà l'ultimo, Helga intende avere dalla madre alcune risposte
risolutive: ha bisogno di sapere come sono andate veramente le cose. Solo così riuscirà a
rielaborare l'immagine della madre e liberarsi "da quel fantasma onniassente e onnipresente"
che per tutta la vita ha occupato con dolore e enormi conflitti la sua mente.
L'incontro tra le due donne evolverà in uno scontro duro e drammatico, e molto diverso da come
Helga l'aveva previsto.
“Lasciami andare madre”, musikdrama di Lina Wertmüller e Helga Schneider, che ha debuttato
nella primavera del 2004 al Piccolo Eliseo di Roma con grande consenso di critica e strepitoso
successo di pubblico, è la storia di Helga Schneider, bambina abbandonata e ora scrittrice
affermata. L’abbandono da parte della madre è l’inizio della sua desolatissima infanzia, era il
1943. La storia dell’ultimo incontro, quasi sessant’anni dopo quel crudele abbandono, Helga la
rivive in un delirio notturno. Riemergono frammenti del passato, i personaggi della sua infanzia,
ma soprattutto lei, la madre cattiva che l’abbandonò.
Nello spettacolo Roberto Herlitzka è nei panni della madre, ex SS, che abbandona i due figli
piccoli per seguire la sua “fede” nazista.
Milena Vukotic veste i panni dell’autrice, che rivede la madre per la seconda volta dopo l’abbandono;
un incontro atroce, un misto di emozioni e riluttanza, una madre che la chiama insieme “topolino
e scatola vecchia”, una nazista convinta di aver agito bene anche a distanza di tanti anni da quei
terribili avvenimenti.
La scena è di Enrico Job, un grande orologio senza lancette, all’interno del quale recitano gli
attori, mentre un pendolo scandisce un tempo non tempo.
«In seguito alla decisione di trarre un'opera teatrale dal mio libro Lasciami andare, madre, si presentò
un punto essenziale sul quale Lina Wertmüller e io avremmo dovuto accordarci: la scelta della
struttura nella quale collocare una trama caratterizzata da una drammaticità dura e implacabile,
una sorta di monito contro gli autoritarismi, il fanatismo ideologico e ogni forma, vecchia o nuova,
di razzismo e antisemitismo. Ciò che io immaginavo era una sceneggiatura di moderato realismo,
mentre Lina tendeva a un allestimento più metaforico con l’aggiunta di una sottile vena grottesca;
linea d'altronde a lei congeniale che nel suo lavoro di regista le è sempre valsa l'unanime approvazione
di pubblico e critica.
In principio ci trovammo su due sponde opposte, tuttavia accomunate da un'unica determinazione:
trovare un punto di congiunzione fra le nostre idee e farle confluire in un'opera di cui sentivamo
entrambe il potente richiamo. Richiamo e insieme scommessa: quella di stimolare la curiosità,
l'emozionalità, il senso critico e la riflessione del pubblico. Cosa ardita in tempi in cui i media ci
bombardano, in un'escalation ormai insopportabile, di cronache, immagini e accadimenti sempre
più orribili e allarmanti col risultato di affievolire la nostra capacità di attenzione e demotivare lo
sforzo di analizzare i fatti per comprenderli. Per comprendere questo mondo, questa società e
questa umanità.
Ma il progetto, approvato fin dall'inizio da tutte quelle persone che alla fine rendono possibile la
messinscena di un'opera teatrale, ci aveva troppo profondamente stimolate e coinvolte: alla fine
Lina e io costruimmo il nostro ponte venendoci incontro a metà.
Per il resto, noi non dovevamo ricostruire una memoria, perché un'autentica memoria era già pronta
nel mio testo Lasciami andare, madre, un piccolo libro che ha imboccato la grande strada verso il
mondo intero. Un libro testimonianza di un'epoca, quella del nazismo tedesco, in cui "le madri non
erano più madri dei loro figli", come scrisse Charlotte Delbo, deportata ad Auschwitz-Birkenau. Ma
io, che vissi da bambina nella Berlino capitale del Terzo Reich, potrei aggiungere che durante la
guerra di Hitler nemmeno gli uomini, richiamati al fronte, erano più padri per noi figli, le nostre case
non erano più dimore protettive e serene, la nostra Heimat era in briciole e perfino il cielo era
diventato un nemico dal quale piovevano bombe che annientavano uomini e cose; che uccidevano.
Ma era soprattutto "la distruzione del materno, la sofferta e definitiva constatazione che il nazismo
ha distrutto nel profondo, fino a rompere il ciclo della riproduzione biologica e psichica degli affetti
tra genitori e figli, il legame viscerale e ideale tra una figlia, ormai cresciuta e divenuta da tempo a
sua volta madre, e una madre, che ha vissuto la vita per la causa hitleriana con una cieca fedeltà
all'ordine delle SS" (come scrisse Frediano Sessi in un' efficace recensione del mio libro), che Lina
e io volevamo focalizzare nella nostra opera, mettendo in guardia dalla forza seduttiva di un Male
che, come un virus solo assopito, potrebbe risvegliarsi sviluppando di nuovo tutto il suo potere
devastante. Come mi disse, un giorno a Venezia, il grande e stimatissimo Mario Rigoni Stern: "Non
dobbiamo abbassare la guardia, può succedere di nuovo."
Naturalmente siamo consapevoli del rischio che corriamo con questo musikdrama dall'impatto forse
duro e sconcertante, ma tutti noi, che abbiamo aderito con entusiasmo a questo progetto, siamo
disposti a correrlo fino in fondo per dividere infine successo o insuccesso, gratificazione o disillusione,
approvazione o rifiuto.
Giulio Nascimbeni scrisse sul “Corriere della Sera” parole intense sul mio libro, ma Lina e io siamo
convinte che calzino perfettamente anche al nostro lavoro teatrale: "Un brivido profondo percorre
le ultime righe come un'insanabile sensazione di irrealtà. Il libro arriva da tenebre mai superate,
da nebbie invincibili che assediano la memoria. Lo si legge trattenendo il respiro.»
Helga Schneider
«Una signora bionda dagli occhi azzurri, dall’aria molto composta
e civile, i cui libri sono documenti doloranti dell’orrore di una
terribile esperienza. Adelphi, casa editrice sempre attenta alle
testimonianze dei nostri tempi, ma anche molto legata alla qualità
letteraria delle novità che pubblica, ha scoperto il talento di
narratrice di Helga Schneider.
Già nel Rogo di Berlino, ma soprattutto in Lasciami andare,
madre, Helga, con i suoi romanzi autobiografici, ci immerge in
una sorta di seduta psicoanalitica, ci fa rivivere i dolori e i terrori
della sua infanzia travolta dall’orrore della guerra. Priva d’affetti,
Helga ha vissuto la cosa che più temono i bambini: l’abbandono.
Nonostante quei primi passi mossi tra morte, fame, violenza e
dolore, resiste fortissimo, in lei, il desiderio d’amore. Molto colpita
dall’incontro con Helga, le proposi di portare in teatro il più
tremendo dei suoi libri. Lei accettò volentieri e subito ci mettemmo
a trasporre teatralmente il racconto. Questo libro sta riscuotendo
un grandissimo successo in tutta Europa a cominciare dalla
Germania. Sentivo che in questa storia-confessione c’era una
grande possibilità teatrale. Ogni storia è come se avesse un
suo particolare DNA, e questa, per svilupparsi sulle scene, è
come avesse bisogno di una concezione teatrale solo sua. I
personaggi sono vari ma tutti dentro la mente di Helga. Una
mente sconvolta, nei deliri notturni, dall’attrazione e dalla
repulsione di un appuntamento fatale: quello con sua madre.
La grande protagonista del dolore dell’infanzia. Madre che ha
il coraggio di lasciare una bambina che l’implora piangendo
disperata: “Non mi lasciare mamma... Mammina... Mutti!... Non
mi lasciare... Non mi lasciare!” La bambina si attacca alla madre
con le manine, gliele infila nei biondi capelli, cerca di trattenerla
in tutti i modi, ma la madre, con fredda determinazione, stacca
a una a una tutte le dita della piccola Helga dai suoi capelli e
implacabilmente se ne va. Era il 1943; già la gloriosa, vittoriosa
guerra lampo di Hitler si stava trasformando nella tragica ritirata
di Russia, la Germania cominciava a doversi riflettere nello
specchio della disfatta. Il padre in guerra, la madre andata via
così, Helga e il suo fratellino di pochi mesi rimangono soli.
L’abbandono, il più tremendo degli abbandoni, è l’inizio di questa
desolatissima infanzia. Da quel “non mi lasciare, mammina” a
questo “lasciami andare, madre” sono passati 60 anni, 60 anni
di vite sempre lontane, e tanto differenti. La storia dell’ultimo
incontro con la madre, Helga la rivive in un delirio notturno.
Riemergono frammenti del passato, i personaggi di ciò che è
stato, ma soprattutto lei, la madre cattiva che l’abbandonò.
“Perché?... Non mi lasciare, Mutti... Perché vai via?... Non mi
lasciare Mutti... Perché?” La risposta all’antica domanda, a quel
perché, non è nessuna di quelle che Helga, poi, da grande
aveva immaginato: ma sì, un amore... Le donne si innamorano!
Una passione travolgente come il fato, un misterioso destino
che aveva strappato sua madre a lei. Quando se la ritrova
davanti novantenne, fragile, già quasi morta, Helga scopre
invece la vera ragione di quella fuga. Sì, era un amore, più che
un amore, una passione; più che una passione, una fede fanatica
in Adolf Hitler. Sua madre era fuggita per correre in aiuto con
tutta se stessa all’uomo del destino, il grande Führer era in un
momento difficile e aveva bisogno dell’aiuto totale del suo popolo,
e lei, sua madre, era corsa con orgoglio e con fede a chiedere
l’onore di far parte delle SS. Ormai, la madre – scomparsa due
anni fa – è un essere annebbiato, che vive un non-tempo,
alternando momenti di coscienza a momenti di lontananza,
momenti di veglia a momenti di sonno. Ma una parte del cervello
di lei è vigile, presente, lucidissima. Ed è questo che attira
Helga. Il bisogno di capire, il bisogno di accettare come madre
quella specie di mostro. L’attrazione per quell’abisso d’orrore
la spinge, in quell’incontro, a chiedere a sua madre ragioni
dettagliate della partecipazione attiva e fanatica al più orrendo
dei crimini: il genocidio nei campi di sterminio nazisti. Attrazione
e repulsione e anche, un sorprendente, inaccettabile barlume
di tenerezza per quell’essere perduto nel male, che è sua
madre, la sua cattiva, feroce, terrorizzante madre, che adesso
la supplica di darle un po’ d’affetto, di chiamarla “mammina”.
Una madre che ha passato varie turbe psichiche prima di
arrivare a un ricovero in parte dovuto all’età e in parte a veri
e propri disturbi mentali. C’erano anni in cui si aggirava per
Vienna ordinando una piccola bara bianca per una bambina –
forse lei, Helga – oppure comprando quintali di pane o di
zucchero, o ancora buttando via tutti gli oggetti e i ricordi di
casa. Una forma di nevrosi, di pazzia eccitata da una coscienza
vigile e ancora fiammeggiante di una fede fanatica.
In mezzo alla farragine di tutti questi ricordi, emerge anche il
dato allarmante dell’Associazione per i Camerati in Camicia
Bruna, un’organizzazione che si occupa degli ex nazisti in tutto
il mondo e che li finanzia provvedendo ai loro bisogni. Una
quantità enorme di danaro, la cui equivoca provenienza è molto
probabilmente legata a tutti i capitali confiscati agli ebrei durante
le persecuzioni. Quindi, l’incontro-delirio-interrogatorio è per
Helga un affacciarsi sull’orrore. Orrore al quale vorrebbe sottrarsi,
ma che irrimediabilmente l’affascina, con la forza di una irresistibile vertigine sul ciglio di quell’abisso del male. È una
testimonianza dolorante altamente drammatica, ma necessaria
affinché quell’abominio non si sbiadisca nella memoria, perché
le nuove generazioni non dimentichino, perché le mostruosità
dell’ultimo secolo non si ripetano. Il genere umano ha scritto
la sua storia tra ferocia, violenza e massacri, sempre spinto al
male nel nome di qualche bene, in nome della pace, di un dio,
di un ideale. Tutti sogni nel nome dei quali si sono sempre
giustificate sanguinose lotte per il potere. In nome di un mondo
migliore gli esseri umani hanno spesso costruito mondi peggiori.
In questo Novecento che doveva essere epoca di raggiunte
civiltà, il mondo ha pagato tributi di dolore e di ferocia mai
raggiunti prima. Quello che di dolore e morte è stato prodotto
dall’essere umano, aiutato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, è stato un tragico primato dell’ultimo secolo. Bisognerebbe essere molto diffidenti verso coloro che ci propongono
mondi migliori.
Helga sente chiaramente il fanatismo illusorio nelle parole
deliranti della madre, mentre osa sostenere che Adolf Hitler
era uomo inviato dalla provvidenza e aveva un grande progetto
per migliorare il mondo. In una storia di così grande tensione,
in un delirio così appassionato, è stata forse un’idea dirompente
quella di inserire della musica. Quello che io chiamo musikdrama
è un tipo di spettacolo che non ha niente a che vedere con il
musical all’americana e tanto meno con la commedia musical.
In qualche modo si potrebbe ricollegare a certi spettacoli
musicali europei di varia natura, come quelli francesi della
commedia del genere Irma la douce, o anche con il grande
teatro tedesco di Brecht-Weill. Ma, a differenza di questi, qui
non ci sono songs o canzoni determinate, ma solo brandelli di
poesia su musica in una sorta di recitar-cantando che si insinua
tra le pieghe narrative del dramma. Non è stato facile il lavoro
con Italo Greco e Lucio Gregoretti, i due musicisti, perché
eravamo sempre attanagliati dalla paura di spezzare il filo rosso
della tensione, con l’intervento della musica e del canto. Ci
rassicurava però l’idea che la musica è stata la prima, antica
espressione della tragedia. In questo caso sono gli stessi attori
che a volte, recitando, passano al canto e alla musica, con un
risultato espressivo che ci pare interessante. Forse ci si potrebbe
vedere un vago collegamento col mondo del cabaret, che ha
saputo essere, infatti, anche profondamente drammatico.
Insomma, si tratta di un esperimento che ci ha appassionato
tutti, compresi gli attori, chiamati a un’insolita avventura.
Il primo problema era il ruolo della madre. La vecchissima
madre, ruolo di grande difficoltà; e nella mia testa è subito
venuto il nome di Roberto Herlitzka, che è uno dei più interessanti
e singolari attori del nostro teatro, un uomo di grande profondità
e intelligenza, con un quoziente di sangue ebreo, un uomo che
è stato sempre attratto da imprese difficili. Con me ha fatto
anche un personaggio totalmente grottesco e comico, con
grande divertimento, nel film Notte d’estate con profilo greco...
Interpretare una vecchia nazista ultranovantenne è certamente
una singolare sfida e Roberto l’ha accettata volentieri. Mentre
per la parte di Helga, ho chiamato un’attrice fisicamente
lontanissima dalla vera Helga: non è bionda, non ha gli occhi
azzurri, è una brunetta magra, nervosa e intellettuale: si potrebbe
ipotizzare una sua discendenza da quella tradizione di attrici
come la Galli, la Morelli, che lavorano con una sensibilità a
punta di penna. Parlo di Milena Vukotic, che cominciò tanti
anni fa con me, come una delle sorelline di Gianburrasca, e
che da allora ha fatto una bellissima carriera teatrale e cinematografica, passando dalla commedia alla tragedia, da Buñuel
e Fellini, a Fantozzi, senza perdere nulla della sua forza. Inoltre
nasce da una famiglia di musicisti ed è cresciuta in un mondo
musicale, essendo lei stessa, oltre che attrice, anche musicista
e ballerina. E tutto questo esperimento sarà messo nelle mani
di Enrico Job. Certo, non sta bene parlare con ammirazione
della propria famiglia, ma solo lui, dopo aver progettato grandissimi spettacoli come l’Orestea di Ronconi, Verso Damasco
o I giganti della montagna di Missiroli, ha poi realizzato, in spazi
piccolissimi, scene di immensa suggestione come Il pellicano
o Il padre o anche Aspettando Godot. E anche il nostro spazio
sarà limitato, astratto e mentale. Quindi ci serve tutto l’aiuto di
Job. Eccoci qua, tutti catturati per questa difficile prova. Tra
“non mi lasciare, mammina” e “lasciami andare, madre”, con
la speranza che anche voi veniate catturati da questa favola
nera e, purtroppo, vera.»
Lina Job Wertmüller
Lina Wertmüller, nata a Roma, frequenta i corsi di regia dell’Accademia Pietro Sharoff. Dopo il diploma
lavora in teatro con Garinei e Giovannini ed è aiuto regista di Giorgio De Lullo. Nei primi anni 60 lavora in
Rai, dove è stata regista della prima edizione della celebre trasmissione Canzonissima e del Giornalino
di Gianburrasca, primo musical-comedy televisivo (1965). Nel 1963 collabora con Fellini come aiuto regista,
per il film Otto e mezzo. Lo stesso anno vede il suo esordio dietro la macchina da presa con I basilischi.
Con Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), si impone all’attenzione di un più vasto pubblico e lancia
la coppia Giancarlo Giannini Mariangela Melato. Con loro farà: Film d’amore e d’anarchia (1973), Tutto a
posto (1974) e Travolti da un insolito destino... (1974). Con Pasqualino Settebellezze (1975), interpretato
da Giannini, raggiunge il successo internazionale conquistando il mercato americano, e ottiene – prima
donna in assoluto – la nomination all’Oscar. A teatro ha scritto e diretto fra gli altri: Due più due non fa
più quattro (1968) e L’esibizionista. Nel 1987 debutta anche nella lirica, al San Carlo di Napoli, con la
Carmen di Bizet. Nel 1990 gira Sabato, domenica e lunedì con Sophia Loren e nel 1992 Io speriamo che
me la cavo, con Paolo Villaggio. Nel 1996, la Wertmüller torna sul grande schermo con due pellicole: Ninfa
Plebea, tratto dal romanzo di Domenico Rea, e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e
di politica. L’ultimo lavoro per il cinema è Fernando e Carolina (1998). È molto attiva anche in campo
televisivo, con i documentari: Una domenica sera di novembre (1980), Vivaldi (1992), The Russian Soul
(1993). Nel 1989 ha diretto Il decimo clandestino, uno degli episodi della serie televisiva Amori. Nel 1988
è stata nominata Commissario Straordinario del Centro Sperimentale di Cinematografia, incarico che ricopre
tutt’ora. Moglie dello scenografo cinematografico e teatrale Enrico Job, Lina Wertmüller ha pubblicato anche
romanzi, tra cui Essere o avere, ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento e Avrei
voluto uno zio esibizionista. L’ultimo successo cinematografico è Francesca e Nunziata (2001).
Martedì 4, mercoledì 5, giovedì 6, venerdì 7,
sabato 8, domenica 9 aprile - ore 21
TEATRO CAVALLERIZZA
Teatro del Carretto
BIANCANEVE
di
Jacob
e
Wilhelm Grimm
Nicoletta Menconi,
Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani
attrice Maria Teresa Elena
creatore dei pupazzi e scene Graziano Gregori
regia Maria Grazia Cipriani
animatori dei pupazzi