Ciak! CINEFORUM A SCUOLA

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Ciak! CINEFORUM A SCUOLA
Ciak! CINEFORUM A SCUOLA
(a cura di Olinto Brugnoli)
MONSIEUR IBRAHIM E I FIORI DEL CORANO
regia: François Dupeyron – interpreti principali: Omar Sharif, Pierre Boulanger, Isabelle Adjani – colore –
Francia, 2003.
Tratto dall’omonimo racconto di Eric-Emmanuel Schmitt e presentato fuori concorso all’ultimo Festival di
Venezia, il film affronta, con linguaggio semplice e tradizionale e con grande levità, il tema del confronto non
solo tra generazioni diverse, ma anche tra culture e religioni diverse, risolvendolo –non senza un pizzico di
ingenuità e di utopia- sulla base di una visione unitaria (saper cogliere ciò che unisce e non ciò che divide) e
sostanzialmente universalistica. “Questo film –ha dichiarato Omar Sharif- vuole lanciare un messaggio di
tolleranza e di amore. Come prova l’amicizia nata, senza alcun ostacolo di religioni diverse, tra un
musulmano e un ebreo”.
La vicenda è ambientata nella Parigi degli Anni ’60. Mosè, detto Momo, è un adolescente che vive in rue
Bleue, situata un sobborgo multietnico della metropoli francese. Egli è di origine ebraica e vive praticamente
abbandonato a se stesso: la madre se n’è andata di casa quando lui era ancora piccolo e il padre lo
tiranneggia continuamente a causa dei soldi e lo rimprovera per i suoi gusti e per il suo comportamento. Il
problema principale con cui Momo deve farei conti è quello della sua sessualità prorompente, che viene
continuamente sollecitata da quel via vai di prostitute che egli ammira dalle finestre della sua abitazione. Un
giorno Momo rompe gli indugi e, dopo aver fatto a pezzi il suo vecchio salvadanaio, riesce ad avere il suo
primo rapporto con Silvy, una prostituta compiacente che chiude un occhio sulla sua età. Momo si reca
spesso a fare la spesa in una drogheria, gestita da Ibrahim, un anziano musulmano da tutti chiamato “l’arabo”
del quartiere, cui egli sottrae ogni tanto qualche scatoletta di nascosto, credendo di non essere visto. Poco
alla volta, però, Momo viene attratto dalla figura benevola del vecchio e si avvicina sempre di più a lui, sia sul
piano umano (l’amicizia, l’affetto), sia facendo tesoro degli insegnamenti ricchi di saggezza e di buon senso
che questi continuamente gli impartisce. In seguito all’abbandono da parte del padre –che vigliaccamente se
ne va di casa- e al suo successivo suicidio, Momo “rifiuta” anche la madre , che si fa viva troppo tardi, e
chiede ad Ibrahim di adottarlo come figlio. Ibrahim lo fa con grande gioia. Dopo aver acquistato una macchina
nuova fiammante e aver a fatica preso la patente, Ibrahim decide di fare un lungo viaggio con Momo: sarà per
lui l’occasione di rivedere il proprio Paese natale (il Corno d’Oro) e per Momo l’opportunità di ampliare le
proprie conoscenze e di capire meglio il senso della vita. In seguito ad un incidente stradale Ibrahim muore
serenamente, com’era sempre vissuto, lasciando tutti i suoi averi al “figlio” Momo. A distanza di anni
ritroviamo Momo che gestisce il negozio del ”padre”. Ora è lui ad essere considerato “l’arabo” del quartiere. È
lui il novello Ibrahim, perché ha ereditato non solo i beni materiali, ma anche il patrimonio di bontà e di
saggezza che il vecchio aveva dimostrato di possedere.
Il racconto procede con struttura lineare, con l’inserimento di tre brevissimi flashback che si riferiscono
all’infanzia di Momo e al salvadanaio che il padre gli aveva regalato. Dal punto di vista narrativo la vicenda
viene divisa in tre grosse parti cui fa seguito, per stacco, un epilogo che rappresenta un grosso salto
temporale in avanti.
PRIMA PARTE. Il film inizia con la presentazione del protagonista, Mosè (detto Momo), alle prese con le
sue preoccupazioni di iniziazione sessuale. Dandosi un tono da grande, egli fa le prove per abbordare, con il
massimo di disinvoltura possibile, qualche prostituta. Per riuscirci egli dovrà naturalmente rompere il
salvadanaio e mentire spudoratamente circa la sua età, affermando di avere compiuto sedici anni. È
significativo che quasi tutta questa prima parte si svolga dal punto di vista spaziale in tre ambienti ben definiti
che assumono anche un valore emblematico: la strada, con un piccola scalinata, è un microcosmo
eterogeneo di gente che va e che viene (all’interno del quale le prostitute occupano un peso particolare):
rappresenta la vita nei suoi multiformi, complessi e problematici aspetti; la casa di Momo, dalle cui finestre
il protagonista si affaccia alla vita, con il suo bagaglio di pulsioni, paure, aspirazioni ed in cui riceve gli
insegnamenti e la visione del mondo del padre; il negozio di Ibrahim, in cui Momo sempre più
frequentemente si rifugia e in cui si apre a nuove prospettive e a un nuovo senso della vita. Al centro
quindi c’è un ragazzo che si apre alla vita e che si trova a dover scegliere tra due modelli che sottendono due
concezioni della realtà radicalmente diverse.
A) Il padre. È costantemente triste e depresso e rientra a casa solo per trovare la cena pronta e per
riprendere e mortificare con le sue osservazioni i comportamenti di Momo. Il primo insegnamento che gli
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sentiamo dare al figlio in occasione del regalo del salvadanaio è quanto mai significativo :”I soldi sono fatti
per essere conservati, non per essere spesi”. In seguito lo sentiamo rimproverare il figlio per i soldi che
sono finiti e obbligarlo a segnare su un quaderno tutte le spese sostenute. Naturalmente si dimentica del
suo compleanno, gli impedisce di ascoltare la sua musica preferita e lo rimprovera perché non sa
consultare un dizionario. È arrivato al punto di inventarsi un altro figlio, Popol, che se ne sarebbe andato
via con la madre e che naturalmente possiede tutte le virtù che Momo non ha: un buon sistema per
argomentare contro di lui e fargli crescere i sensi di colpa. Momo cerca di difendersi come può,
prendendosi qualche piccola vendetta: tiene occupato il bagno quando il padre ne ha bisogno, gli prepara
da mangiare patè per gatti, ecc. Anche perché, quando tenta di sorridergli, il padre riesce solo a notare
una malformazione dei suoi denti. Dopo essere stato licenziato, il padre, sempre più depresso, lo
abbandona. Momo reagisce rabbiosamente accartocciando il cappello del padre. E quando verrà a
sapere della sua morte, si rifugerà da Ibrahim, rifiutandosi di andare a riconoscere il cadavere.
B) Ibrahim. Dopo la rottura del salvadanaio, che già di per sé rappresenta una trasgressione nei confronti
degli insegnamenti paterni, Momo va da Ibrahim per farsi cambiare gli spiccioli. Il vecchio, che conosce
bene il ragazzo lo guarda con tenerezza ed affetto. Egli sa benissimo che il ragazzo ogni tanto arraffa
qualche scatoletta, ma è comprensivo nei suoi confronti e fa finta di non accorgersene. Momo resta
profondamente stupito quando, dopo aver rubato una scatoletta e aver pensato tra sé e sé: ”Chi se ne
frega…tanto è arabo”, si sente rispondere: “Io non sono arabo, Momo. Vengo dal Corno d’Oro”. Il ragazzo
è incuriosito da quel tizio che, secondo lui, “può indovinare quello che pensi” e inizia a porgli una serie di
domande. Viene così a sapere che il Corno d’Oro è una regione che si estende dall’Anatolia fino alla
Persia; che Ibrahim non è arabo, ma musulmano; che per la gente del quartiere “arabo” vuol dire “bottega
aperta dalle otto del mattino fino a mezzanotte, e anche alla domenica”. Ibrahim dimostra una certa
ironia, raccontando una barzelletta, e ammette di essere sensibile al fascino femminile; fa la “cresta”
su una bottiglia d’acqua venduta ad un’attrice per rifarsi delle scatolette arraffate da Momo, ma quando
questi, vistosi scoperto, vuole pagarle, egli, con grande generosità afferma:” Tu non mi devi niente”.
Ibrahim è furbo e gli insegna i piccoli trucchi per ingannare il padre circa il mangiare. Ma la prima cosa
veramente importante che gli insegna è il sorriso. E di fronte alle osservazioni del ragazzo che obietta:
“Sorridere è una roba da ricchi…è roba da gente felice”, egli ribatte: “È proprio qui che ti sbagli. È
sorridere che rende felici. Prova e vedrai”. E Momo potrà constatare la forza di un sorriso (“È terribile un
sorriso”). Inoltre c’è una frase che Ibrahim pronuncia spesso: “Io so solo quello che dice il mio Corano”.
Solo nel finale si potrà capire il significato profondo di questa affermazione. Comunque fin d’ora si può
notare che il vecchio non dice “il Corano”, ma “il mio Corano”, facendo capire che ci sono vari modi di
interpretarlo; anche perché, aggiunge Ibrahim in un’altra occasione, “Se Dio vuole rivelarti la vita non ha
bisogno di un libro”, ed inoltre “Quando si vuole imparare qualcosa non si legge un libro, piuttosto si parla
con qualcuno”. E quando Momo rimane sorpreso perché lui, musulmano, beve degli alcolici, Ibrahim gli
rivela di essere un Sufi, cioè di appartenere a quella grande corrente mistica dell’Islam, la cui esperienza
spirituale tende a congiungersi con le esperienze mistiche universali delle diverse religioni. La curiosità di
Momo sale alle stelle. Ed eccolo consultare l’enciclopedia in cui apprende che il Sufismo è opposto al
legalismo e attribuisce una grande importanza alla “religione fondamentale”, essendo una sorta di
“religione interiore”. Nella mente del ragazzo, che evidentemente è un po’ confuso, nasce
immediatamente una sorta di giudizio: “Se essere legalisti vuol dire essere come lui (il padre), è troppo
triste. Preferisco essere contro il legalismo”. E quando il vecchio gli chiede che cosa significhi per lui
essere ebreo, Momo risponde: “Non lo so. Per mio padre vuol dire essere depresso tutto il giorno, per me
è una cosa che mi impedisce di essere qualcos’altro”. E nasce in lui il desiderio di leggere il Corano. Il
rapporto tra Momo e Ibrahim diventa sempre più forte ed intenso. Una domenica pomeriggio vanno a fare
una passeggiata insieme; si fanno una foto. E il vecchio gli fa scoprire la bellezza ( “La bellezza è
ovunque…ovunque tu guardi”), la gioia di vivere, la felicità di stare insieme, magari comperando un paio
di scarpe nuove o osservando la gente che cammina per le strade, che ride, che scherza.
SECONDA PARTE. Dopo essere stato abbandonato dal padre, Momo intensifica il suo rapporto con Ibrahim,
ne approfondisce l’amicizia e continua a ricevere i suoi insegnamenti. Anzi, ora che non è più ostacolato dal
padre, può anche metterli in pratica e verificarne la validità. “All’inizio è bello andare con le professioniste –gli
aveva detto un giorno Ibrahim- ma dopo, quando cominceranno le complicazioni, i sentimenti, imparerai ad
apprezzare le novizie”. Ed è quanto fa Momo con la ragazzina dai capelli rossi, che fino ad allora aveva
snobbato e di cui ora si innamora. Momo vive un momento di grande gioia e di esaltazione. Ma nella vita ci
sono anche le delusioni amorose e le gelosie. E ancora una volta interviene la saggezza di Ibrahim: “Non fa
niente. L’amore che tu provi per lei è tuo, appartiene a te… ciò che tu dai, Momo, è tuo, per sempre; ciò che
tieni è perso per sempre”. Inoltre anche le professioniste possono dare un po’ di calore e di affetto. Dopo aver
appreso del suicidio del padre, Momo –significativamente- ritinteggia le pareti di casa, e quando,
tardivamente, si presenta la madre a cercare il “suo” Mosè, egli nega la propria identità, affermando che
Momo è un diminutivo di Muhammed . Momo rifiuta le sue origini, il suo passato, la visione del mondo che gli
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era stata trasmessa dai genitori e sceglie un nuovo padre: Ibrahim, con la sua saggezza e il suo modo di
concepire la vita.
TERZA PARTE. Ma è venuto il tempo di uscire dal mondo ristretto di rue Bleue, per quanto significativo ed
emblematico possa essere. È venuto il tempo di ampliare le proprie conoscenze, di aprirsi ad un mondo più
vasto e complesso, di andare alla ricerca delle proprie origini e, probabilmente, del proprio destino. Ed ecco il
viaggio, dopo la parentesi dell’adozione, dell’acquisto dell’automobile e del superamento dell’esame di guida.
Momo saluta tutti, in modo particolare le prostitute, che lo hanno iniziato al sesso, e la ragazzina dai capelli
rossi, che gli ha fatto assaporare i primi sentimenti amorosi. Ed eccoli, il vecchio e il ragazzo, sotto cieli nuovi,
in Paesi diversi, che Ibrahim distingue –a seconda dello stato delle immondizie- in Paesi ricchi, come la
Svizzera; poveri, come l’Albania; e turistici e felici come la Grecia, dove la gente ha il tempo di fermarsi per
vederti passare, perché “è la lentezza il segreto della felicità”. Ci sono poi le varie religioni, diverse negli
aspetti esteriori (l’odore di incenso nella chiesa ortodossa, quello di candele nella chiesa cattolica e quello di
piedi nella moschea), ma accomunate dalla ricerca dell’Assoluto e da quell’esperienza mistica che, secondo
l’autore, costituisce la base di tutte le religioni.1 Esperienza mistica che trova una delle sue più alte
espressioni –sempre secondo l’autore- nei Dervisci danzanti, che Ibrahim mostra a Momo, osservando: “Il
cuore degli uomini è come un uccello rinchiuso in una gabbia: quando tu balli il cuore canta e poi sale in cielo.
Dio è là, nei loro cuori: è come una preghiera…pèrdono tutti i punti di riferimento, quella pesantezza che
chiamiamo equilibrio…diventano delle torce e bruciano in un grande fuoco”. Pregare è inoltre per Ibrahim
liberarsi dall’odio e vivere in pace e serenità con gli altri. E Momo impara la lezione: è significativo che egli
cerchi di comunicare con altri ragazzi, che pur non comprendono la sua lingua; che, prima di venire a
conoscenza dell’incidente occorso ad Ibrahim, tenti di ballare come i Dervisci (imitato dal bambino che lo
segue); che, prima di correre da Ibrahim, regali la macchina fotografica al bambino. L’incidente è un pretesto
narrativo per affrontare anche il tema della morte. Una morte che non deve fare paura, nella convinzione di
aver vissuto bene e “che tutti i fiumi si gettano nello stesso mare”. “Io non muoio –conclude Ibrahim- vado a
raggiungere l’Immenso”. La lettura del testamento rappresenta per Momo l’ultima rivelazione. Ibrahim lascia
tutti i suoi beni a Momo “perché -dice- mi ha scelto come padre e perché gli ho trasmesso tutto ciò che ho
imparato in questa vita. Ciò che dice il mio Corano, Momo, adesso lo saprai anche tu: è tutto ciò che c’è da
sapere”. Il ragazzo apre il Corano e vi trova dentro due fiori azzurri rinsecchiti. È chiaro il significato: la verità
non può essere racchiusa tutta in un libro che, se preso alla lettera, può anche portare a forme di legalismo o
di fondamentalismo, (“Non si può capire tutto con la testa”), ma dall’incontro tra il libro (la parola) e la vita
(la storia), che consente di penetrare lo spirito del libro alla luce del rapporto con gli altri e dell’intima unione
con Dio, che alberga nel cuore degli uomini.
EPILOGO. È il punto d’arrivo strutturale di tutto il film . Momo ha ereditato il negozio di Ibrahim e di fronte a
un ragazzino che ruba una scatoletta fa finta di non vedere. E ripete le stesse parole che Ibrahim gli aveva
detto tanti anni prima: “Aspetta… io non sono arabo, Momo”. L’identificazione è avvenuta pienamente: Momo
è diventato il novello Ibrahim.
L’IDEA CENTRALE raccoglie e sintetizza tutti gli elementi tematici fin qui rilevati: gli autentici valori umani e
religiosi sono “contagiosi” e hanno la capacità di plasmare i giovani, rendendoli capaci di vivere una vita in
pienezza e in armonia con se stessi, con gli altri e con Dio: una vita felice, di cui si sanno apprezzare gli
aspetti positivi e gioiosi.
A livello di valutazione si può osservare come non tutto il materiale narrativo sia in funzione tematica e come
il regista indulga a qualche concessione spettacolare. Inoltre il film non vuole essere un trattato di filosofia o di
teologia, con tutto il rigore e la profondità che ciò esigerebbe: certe affermazioni possono sembrare un po’
ingenue o semplicistiche e non sostenute da argomentazioni sufficientemente fondate. Tuttavia l’opera ha il
grande pregio di far riflettere sul senso della vita, alla luce di una saggezza e di certi valori di cui è importante
tenere conto.
Lo Sportello attivato presso l’Ufficio per l’Irc per rispondere a quesiti e avere informazioni
precise sul concorso, i documenti per partecipare etc., grazie alla disponibilità del prof.
Diego Peron, sarà attivo fino alla metà di gennaio. Chi avesse domande o volesse delle
delucidazioni potrà chiamare tutti i giovedì pomeriggio dalle 15.30 alle 17.30.
1
Si veda, in proposito, l’interessante libro: A. NEWBERG – E. d’AQUILI – V. RAUSE, Dio nel cervello, Mondadori,
2002, che sostiene appunto tale tesi.
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