Commemorazione dei defunti

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Commemorazione dei defunti
Commemorazione di tutti i fedeli defunti
2 novembre
Is 25,6a.7-9; Sal 25; Rm 8,14-23; Mt 25,31-46
Prima Lettura Is 25,6a.7-9
In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di
grasse vivande. Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio
asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo
popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il
Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il
nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».
Seconda Lettura Rm 8,14-23
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto
uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per
mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli
di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle
sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non
siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è
protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua
volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà
liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti
che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che
possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del
nostro corpo.
Vangelo Mt 25,31-46
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli
angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà
gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla
sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in
eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno:
“Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da
bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai
ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico:
tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a
quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato
da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete
visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero
o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico:
tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno:
questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
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La prima lettura (Is 25,6a. 7-9) ci parla del banchetto escatologico imbandito da Dio sul monte Sion.
Nell'antichità, l'inaugurazione di una capitale o l'intronizzazione di un nuovo re venivano festeggiati con
fastosi banchetti. L’oracolo qui riportato annuncia l’intronizzazione del Signore come re in Sion. Dio
protegge il povero dalla mano dei tiranni e non permette che essi prevalgano. È lo stesso «Signore degli
eserciti» che, dopo essere stato proclamato re davanti agli anziani e aver manifestato la sua gloria, prepara il
banchetto escatologico a cui invita tutti i popoli. Ora il Signore imbandisce un banchetto per segnalare
l'inaugurazione del suo regno universale. Gli invitati sono tutti i popoli; le vivande sono il banchetto della
vita senza limitazioni; i doni offerti agli invitati sono tre: la conoscenza di Dio (significata nella scomparsa del
velo che copre il volto dei popoli), la vittoria sulla morte e un regalo personalizzato, cioè la consolazione di ogni
persona. L'universalità è forse il tratto più sottolineato in questo passo. Non ci sarà più l'oppressione e
l'arroganza, ma la pace e la libertà: «l'inno dei tiranni si spegne» (25,5).
Is 25,6: Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un
banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di
vini raffinati (wü`äSâ yhwh(´ädönäy) cübä´ôt lükol-hä|`ammîm Bähär hazzè mišTË šümänîm
mišTË šümärîm šümänîm mümuºHäyìºm šümärîm müzuqqäqîm, lett. «E farà Adonay (delle) schiere per tutti
i popoli nel monte questo un banchetto di (cibi) grassi, banchetto di vini invecchiati, (cibi) grassi con midollo, vini invecchiati
decantati»).
- Preparerà il Signore degli eserciti (wü`äSâ yhwh(´ädönäy) cübä´ôt). Dio è presentato come
yhwh(´ädönäy) cübä´ôt
«Signore degli eserciti», appellativo che si addice a un re che ha sottomesso i
malvagi e ha salvato i giusti.
- su questo monte (Bähär hazzè). Di quale monte si parli non è specificato, ma vi è un antecedente in 24,23 e
una ripresa conclusiva in 27,13: è il monte Zion, a cui il profeta associa la parola di salvezza che esce da
Gerusalemme (2,3). Conviene sottolineare l'effetto retorico della costruzione letteraria, in cui prima si
espone un enunciato: «un banchetto di carni grasse, un banchetto di vini invecchiati», e poi si specifica,
ripetendola, l'affermazione generale: «carni grasse con il midollo, vini invecchiati e decantati». Questo stile è
tipico di Isaia, che nei capp. 24-27 fa un uso massiccio della ripetizione.
Har Zion «monte Sion» è un'altura di 765 metri sul livello del mare, sulla quale è nato il nucleo originario
dell'attuale città di Gerusalemme (in ebr. Yerushalaim; in arabo al-Quds, «la (città) santa» o Ūrshalīm). Il
monte Sion si trova a Sud-Est dell'attuale Gerusalemme nella zona chiamata Città di David, che si estende a
Sud dalla valle del fiume Hinnon, detta Geenna, fino ad Est ove c'è la valle del fiume Cedron. La
popolazione cananea dei Gebusei vi fondò un villaggio, il cui nome potrebbe essere stato già la variante
locale di Gerusalemme, sebbene alcuni fanno derivare la paternità di questo appellativo al re Davide.
Gerusalemme deriverebbe dalle radici ur, «altura» e shlm, «pace»: quindi monte (poi città) della pace. Il
nome di Sion, nella Bibbia, spesso è rappresentato da figure femminili (Bat Zion, «figlia di Sion»). Durante
la diaspora ebraica è stato trasfigurato nella Terra Promessa, mentre il Sionismo ha reso più pragmatico
questo sogno romantico. Per i cristiani il monte Sion è il luogo del Cenacolo, che però si trova a Sud-Ovest
dell'attuale Gerusalemme, sul monte Gareb al di fuori della Città di David. Nel IV sec. il monte di Gareb è
stato rinominato dai cristiani la «Nuova Sion», ovvero il centro del nuovo popolo di Dio. Per tale motivo i
cattolici chiamano «Monte Sion o Sion Cristiano» il monte di Gareb su cui sorge il Cenacolo. Sul monte
sorge anche la Basilica della Dormizione di Maria e la presunta Tomba di Davide.
- un banchetto (mišTË). Il motivo del banchetto escatologico appare per la prima volta nella Bibbia ebraica
in questo oracolo che, a partire dai racconti della creazione, vuole elaborare una visione della storia in cui la
vittoria finale di Dio sulle potenze del male risulti evidente. Ciò rappresenta il ritorno all'armonia delle
origini. Poter invitare molti è segno di potere e di ricchezza. Il Signore invita al suo banchetto tutti i popoli.
Sarà un banchetto sontuoso, raffinato e regale, che si celebrerà sul Monte del Signore. Gli aggettivi in rima
descrivono l'abbondanza: mišTË šümänîm … šümänîm mümuºHäyìºm … müzuqqäqîm, «un banchetto
di grasse [vivande], … eccellenti, … succulenti … raffinati». A Qumran si celebrava questo banchetto nel
pasto della comunità (1QSa II,11-21), a cui erano ammessi solo i figli della luce, cioè i membri della stessa
comunità. Il banchetto preparato da Dio si distingue per la sua assoluta gratuità, come è detto della
Hokmâ «sapienza» di Dio: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,5). «Quanti si
nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,21).
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Anche nei Vangeli si parla del banchetto escatologico: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e
dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno
cacciati fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,11-12). La dimensione universale di questo
banchetto è sottolineata per ben cinque volte: kol-hä|`ammîm, «tutti i popoli» (vv. 6-7), Kol-haGGôyìm
«tutte le nazioni» (v. 7), Kol-Pänîm «ogni volto» (v. 8), Kol-hä´äºrec «tutta la terra» (v. 8).
25,7: Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e
la coltre distesa su tutte le nazioni (ûbilla` Bähär hazzè Pünê|-hallô† hallô† `al-Kolhä|`ammîm wühammassëkâ hannüsûkâ `al-Kol-haGGôyìm, lett. «E distruggerà nel monte questo faccia il
coprente il velo su tutti i popoli e la coperta stesa su tutte le nazioni»).
- strapperà (ûbilla`). Il senso fondamentale del verbo bala (qui al pièl «intensivo attivo»), ripreso anche nel v.
8, è «inghiottire, divorare, annientare». Ma, avendo per oggetto un velo, è preferibile tradurre con
«spogliare», anche quando l'oggetto diventa la morte, quasi che questa venga spogliata della sua forza o,
come dice Paolo, del suo pungiglione (cf 1Cor 15,55-56). L'apostolo trasforma il verbo attivo del testo
ebraico: Billa` hammäºwet läneºcaH, «[Dio] ingoierà la morte per sempre» (Is 25,8) in una più energica
formulazione al passivo: κατεπόθη ὁ θάνατος εἰς νῖκος, «La morte è stata inghiottita nella vittoria» (1Cor
15,54). La versione CEI traduce con «strappare» (il velo) in 25,7 e con «eliminare» (la morte) in 25,8, usando
due verbi diversi per tradurre l'unico verbo ebraico: bala. In 25,7 riscontriamo il passaggio dalla descrizione
del cibo abbondante a quella del velo-coperta e della morte. Il soggetto delle azioni non sono mai gli invitati
al banchetto, ma sempre e solo Dio. Cibandosi al suo banchetto, Dio distrugge ciò che è di impedimento
per gli invitati: il velo, la coperta, la morte. Si tratta del velo e della coperta che coprono la faccia di chi fa il
lutto per la morte di qualcuno. Velo, coperta e lacrime esprimono bene la forza invincibile della morte che
nessuno è riuscito a vincere e che, unica, potrebbe impedire la partecipazione al banchetto escatologico. Il
testo presenta con molta efficacia un’umanità in lutto perenne.
25,8: Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni
volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il
Signore ha parlato (Billa` hammäºwet läneºcaH ûmäHâ ´ádönäy yhwh(´élöhîm) Dim`â më`al
Kol-Pänîm wüHerPat `ammô yäsîr më`al Kol-hä´äºrec Kî yhwh(´ädönäy) DiBBër, lett. «Distruggerà la
morte per sempre e pulirà Signore Adonay lacrima da su ogni faccia e insulto popolo suo toglierà da su tutta la terra, poiché
Adonay parlò»).
- Eliminerà la morte per sempre (Billa` hammäºwet läneºcaH). Quello precedente era in certo modo un dono
negativo. Ora il re supera ogni limite: annichilisce la morte, maledizione originale dell'uomo (Gen 3), perché
i convitati vivano per sempre con lui. Che la morte non faccia più paura o che non causi più dolore è
significato dall'asciugamento delle lacrime, un motivo che sarà ripreso anche in Ap 21,4: «E asciugherà ogni
lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono
passate». Nel suo banchetto il re fa dei regali. Il primo è la sua presenza: prima i popoli non vedevano il
Signore perché erano come ciechi; ora il Signore in persona apre i loro occhi perché lo possano conoscere.
A differenza di tutti i popoli, per Israele si aggiunge la vergogna, «l'ignominia», poiché, anche se popolo di
Dio, non è escluso dalla dipendenza dalla morte. Dio «inghiotte» (billa) definitivamente la morte (mäºwet). In
Es 15,12: Stendesti la destra: li inghiottì la terra, la terra è sinonimo dello sheol che inghiotte l’esercito egiziano.
In Nm 16,31-32 si legge: la terra spalancò la bocca e li inghiottì […], la gente che apparteneva a Core. Il motivo della
terra che inghiotte è segno della morte definitiva nello sheol: si passa dalla terra dei viventi agli inferi. In
Ger 51,34 la distruzione di Gerusalemme e l’esilio sono tratteggiati con l’immagine della voracità di
Nabucodònosor, che divora, inghiotte, si sazia degli abitanti della città: «Mi ha divorata, mi ha consumata,
Nabucodònosor, re di Babilonia, […] mi ha inghiottita come fa il drago». Anche in Gio 2,1 il pesce inghiotte il
profeta. La morte appare come il potere di una bestia che inghiotte e uccide. Solo Dio può liberarci da essa.
Dio distrugge definitivamente tutto ciò che minaccia la vita dell’umanità, per permettere a tutti di
partecipare alla gioia del banchetto che egli ha preparato.
- il Signore ha parlato (yhwh(´ädönäy) DiBBër). Tipica espressione profetica che assicura la vicinanza di Dio
al suo popolo. La parola di Dio introduce nella storia di dolore e di morte dei popoli qualcosa di
totalmente nuovo. La sua regalità si manifesta sul monte del Tempio, da dove invita tutti i popoli al
banchetto escatologico. Egli, re dell’universo, salva tutti inghiottendo le forze ostili alla vita e
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permettendo di accedere a quel banchetto di vita in cui egli ristabilisce un rapporto di comunione non
solo con Israele, ma con tutti i popoli.
25,9: E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci
salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per
la sua salvezza, (wü´ämar Bayyôm hahû´ hinnË ´élöhêºnû zè qiwwîºnû lô wüyô|šî`ëºnû zè
yhwh(´ädönäy) qiwwîºnû lô nägîºlâ wüniSmüHâ Bîšû`ätô, lett. «E dirà nel giorno quello: «Ecco Dio
nostro questo, sperammo in lui affinché salvi noi. Questi (è) Adonay, sperammo in lui, esultammo e gioimmo in salvezza sua»).
Vittoria sulla morte (25,6-10a). Non a caso, l'apocalisse isaiana (capp. 24-27) trova nella
nostra pericope il suo apice, il suo massimo livello «rivelativo»: l'annuncio della risurrezione. Dalla
distruzione della «cittadella fortificata» (25,2) si passa a «questo monte» (25,6), cioè a Gerusalemme dove si
imbandisce un banchetto. È questo il «centro della terra» (24,13), perché è qui che convergono «tutti i
popoli» (cf Is 2; 25,6-7) per un banchetto straordinariamente abbondante. Questo passo, importante dal
punto di vista teologico, suscita tre domande: quale banchetto, quale velo, quale morte?
Quale banchetto? Si tratta di un banchetto o di una strage? Infatti, questo banchetto di carni grasse ha
fatto facilmente pensare a una carneficina. Tutta la tradizione ebraica lo interpreta in questo modo,
nell'ambito dell'aggressione delle genti contro Gerusalemme. Si tratta di quel filone profetico che parte da Is
17 e 29, passa per i Salmi di Zion e approda alla guerra di Gog e Magog (cf Ap 20,8).
Gog e Magog sono leggendarie popolazioni dell'Asia centrale, citate nella tradizione biblica e poi in quella
coranica, quali genti selvagge e sanguinarie, fonte di incombente e terribile minaccia. La prima citazione di
Magog, nella Bibbia ebraica, è nella tavola delle Nazioni in Gen 10,2, dove Magog è il capostipite di un
popolo o di una nazione, ma può anche essere il nome della nazione, ovvero la terra di Gog; infatti Dio
ripete varie volte ai personaggi "sarai una nazione". Gog viene citato in 1Cr 5,3-4 come discendente di
Ruben (primo figlio di Giacobbe). Nel Milione di Marco Polo (1254-1324) Gog e Magog sono regioni del
Tenduk. La prima è abitata da una tribù chiamata Gog, la seconda dai Tartari. Il nome Gog è stato anche
identificato come crittogramma di Babele o di Babilonia.
Questa interpretazione si fonda sulla metafora biblica del «bere» associato alla coppa del castigo (cf Abd
1,16; Zc 12,2; Is 51,17). Ma questa interpretazione oggi convince poco. Il nostro testo è coerente con il
pellegrinaggio delle genti a Gerusalemme (Is 2); in tal senso l'immagine del banchetto si attiene alla
condivisione della Legge che esce da Sion. Se invece volessimo considerare un vero banchetto, dovremmo
pensare a un banchetto regale o a un banchetto sacrificale. In questo senso, l'ipotesi più verosimile è un
sacrificio di comunione, che si poteva offrire solo nel Tempio di Gerusalemme.
Quale velo? Solitamente si dice che questo è il velo del lutto, perché chi è in lutto in genere si copre la
faccia (cf 2Sam 15,30; 19,5). Perciò togliere il velo sarebbe l'equivalente di asciugare le lacrime dagli occhi. Ma
è più probabile che si tratti del velo della non conoscenza del Dio di Israele. Isaia parla di cecità spirituale
che colpisce lo stesso Israele che non comprende (cf 29,10), ma colpisce soprattutto le nazioni, avvolte da
nebbia fitta: Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli (60,2). In questo caso Is 25,7 è da
considerare un testo «apocalittico», confermato da Is 2,3: Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul
monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.
Quale morte? Rimane il problema principale: Is 25,8 annuncia un superamento della morte, ma in
quali termini? Una certa cautela effettivamente si impone, perché il testo può riflettere antiche concezioni
mitologiche. 1) mäºwet «morte» in ebraico è maschile, e molto spesso viene personificata come un flagello
(cf Os 13,14) o come un pastore (Sal 49,15). 2) Nel pantheon semitico Mot, «Morte», è un dio che ha
«ingoiato» Ba'al, prima di essere ucciso da Anat. La strana espressione del nostro testo (che si potrebbe
anche leggere «ingoiare Mot») potrebbe dipendere da questa mitologia. Detto ciò, nella tradizione ebraica,
la morte è sempre il complemento oggetto del verbo «ingoiare» (bala) con Dio come soggetto sottinteso, e
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può voler dire qualcosa come: «Dio spoglierà la morte del suo potere». È questa già un'affermazione della
risurrezione dei morti? Le versioni greche fanno un passo avanti, perché invertono l'ordine della frase e
considerano la morte come il soggetto. La versione greca di Teodozione ha la formulazione più incisiva:
«La morte è stata ingoiata per la vittoria». In sintesi, possiamo affermare che Is 25,8 forse non è ancora un
annuncio esplicito della risurrezione, ma per Paolo (cf 1Cor 15,54) lo è diventato in maniera irreversibile (A.
Mello, Isaia, san Paolo 2012).
Il NT cita l'oracolo di Is 25 in 1Cor 15,54: "La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua
vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?"; Ap 7,17: «Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»; Ap 21,4: «E
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima
sono passate». In nessuno dei tre testi troviamo un riferimento al banchetto. Tutti e tre riprendono invece
l’annuncio della vittoria di Dio sulla morte, che sarà definitiva alla fine dei tempi, quando il nostro corpo
verrà trasformato nella risurrezione e la morte sarà inghiottita completamente. Sarà la manifestazione del
regno di Dio, quello che Is 25 aveva annunciato con l’immagine del banchetto escatologico, luogo di vita e di
comunione piena con il Signore.
La seconda lettura (Rom 8,14-23) è una delle pagine più toccanti della Lettera ai Romani che ci offre il
canto allo Spirito Santo unitamente alla descrizione tragica della condizione umana. Rm 8,1-30 è il luogo
classico per la mistica cristiana, a cui hanno attinto i maggiori teologi che si sono dedicati alla conoscenza
dello Spirito Santo. Anche il cosmo testimonia la tensione di ogni essere verso il centro di tutto che è Dio.
La natura attende avidamente, quasi a capo eretto (v. 19), l’apparizione della nuova umanità composta dai
figli di Dio. Non ci sarà più un Adamo cieco e malvagio, un tiranno che «sottomette alla caducità» le realtà
terrestri, usandole come strumenti di morte o di egoismo, ma sulla terra vivrà un uomo libero e figlio di
Dio (v. 21), il nuovo Adamo, inaugurato da Cristo. Paolo usa l'immagine del parto per descrivere la natura
e l’umanità in attesa del Regno in cui «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). «Passa certamente l’aspetto di
questo mondo deformato dal peccato. Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova in cui abita la
giustizia e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono dal cuore degli
uomini... E sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta quella realtà che Dio ha creato appunto per l’uomo»
(Gaudium et Spes, 39).
Rom 8,14: [Fratelli] tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio
(ὅσοι γὰρ πνεύματι θεοῦ ἄγονται, οὗτοι υἱοὶ θεοῦ εἰσιν).
- quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio (ὅσοι γὰρ πνεύματι θεοῦ ἄγονται). Paolo qui descrive la nuova
condizione dei credenti: con il dono dello Spirito essi sono diventati figli di Dio.
8,15: E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete
ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!» (οὐ
γὰρ ἐλάβετε πνεῦμα δουλείας πάλιν εἰς φόβον ἀλλὰ ἐλάβετε πνεῦμα υἱοθεσίας ἐν ᾧ κράζομεν• ἀββα ὁ
πατήρ).
- figli adottivi (υἱοθεσίας). La traduzione del sostantivo υἱοθεσία, huiothesía «figli adottivi» che la CEI ci offre
per distinguere la figliolanza divina di Cristo da quella dei credenti è infelice. In realtà, l’istituzione
giuridica greco-romana della “figliolanza” non distingue la condizione del figlio di sangue da quello
acquisito, poiché con l’adozione, il secondo ha tutti i diritti del primo, senza alcuna differenza. Pertanto,
se da un lato, è vero che Gesù Cristo è Figlio di Dio da sempre (v. 3), mentre i credenti lo diventano con il
dono del suo Spirito, dall’altro la nuova identità è talmente reale al punto che ci abilita a partecipare della
stessa eredità di Cristo.
- per mezzo del quale gridiamo (ἐν ᾧ κράζομεν). La partecipazione della figliolanza di Cristo è espressa con la
condivisione del suo grido: «Abbà! Padre!». La stessa invocazione si trova in Mc 14,36 in occasione della
preghiera di Gesù nell’orto degli Ulivi: E diceva: Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!
Si tratta di uno degli ipsissima verba Jesu che appartiene al livello più arcaico della cristologia
neotestamentaria (cf J. Jeremias, 1900-1979) e che attesta la particolare relazione che lega Gesù al Padre. La
formula riportata è aramaica, con la traduzione greca destinata alle comunità cristiane della diaspora.
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- Abbà! Padre! (ἀββα ὁ πατήρ). Spesso si sostiene che la novità consista nell’audacia di Cristo nel riconoscere
Dio come “papà”, ma «abbà» non è detto soltanto dal bambino verso il genitore bensì anche dall’adulto; e sia
nell’AT sia nei manoscritti di Qumran, Dio è invocato come “padre” e “madre”. Pertanto la novità
cristologica non riguarda l’audacia nell’invocare Dio come padre, bensì nel tipo di figliolanza in gioco:
quella di Cristo non è una figliolanza adottiva ma è, per Paolo, persino eterna; e quella dei credenti
diventa una figliolanza che li colloca sullo stesso piano di Cristo.
8,16: Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio (αὐτὸ τὸ
πνεῦμα συμμαρτυρεῖ τῷ πνεύματι ἡμῶν ὅτι ἐσμὲν τέκνα θεοῦ).
- Lo Spirito … attesta (τὸ πνεῦμα συμμαρτυρεῖ). Qual è la relazione tra lo Spirito e la figliolanza divina dei
credenti? In pratica, si è prima figli di Dio e quindi si riceve il dono dello Spirito, o viceversa? Poiché nessun
uomo è figlio di Dio da sempre, se non Gesù Cristo, ma tutti siamo creati da Dio e chiamati a diventare suoi
figli (cf Ef 1,3-14), lo Spirito precede e non succede al dono della figliolanza, anzi, quelli che sono guidati dallo
Spirito di Dio, questi sono figli di Dio (v. 14). La stessa precedenza è ricalcata in Gal 4,6: E che voi siete figli lo
prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abba! Padre!». Nello sviluppo
della figliolanza divina, occuperà un ruolo particolare la figliolanza d’Israele, alla quale Paolo accennerà in
Rm 9,1-29.
8,17: E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero
prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (εἰ δὲ τέκνα καὶ
κληρονόμοι• κληρονόμοι μὲν θεοῦ, συγκληρονόμοι δὲ Χριστοῦ, εἴπερ συμπάσχομεν ἵνα καὶ
συνδοξασθῶμεν).
8,18: Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria
futura che sarà rivelata in noi (Λογίζομαι γὰρ ὅτι οὐκ ἄξια τὰ παθήματα τοῦ νῦν καιροῦ πρὸς τὴν
μέλλουσαν δόξαν ἀποκαλυφθῆναι εἰς ἡμᾶς, lett. «Ritengo infatti che non degne le sofferenze del presente tempo in
rapporto alla che sta gloria per essere rivelata in noi»).
- le sofferenze del tempo presente (τὰ παθήματα τοῦ νῦν καιροῦ). Benché i credenti siano stati liberati dalla
legge dello Spirito, continuano a sperimentare le sofferenze e la morte; come queste si possono conciliare con
la libertà cristiana dal peccato e dalla morte? Come le sofferenze si possono conciliare con la gloria futura
(Rm 5,2)? Paolo risponde riconoscendo il valore positivo dei παθήματα (πάθημα, ατος, τό), delle
«sofferenze» che consentono la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. Le sofferenze ci
incamminano verso la partecipazione alla gloria che Dio rivelerà in e per noi. In questa paradossale
relazione tra le sofferenze e la gloria, l'espressione οὐκ ἄξια … πρὸς non ha tanto valore comparativo: «non
sono paragonabili», quanto di contrasto: «non si oppongono a». Le sofferenze di cui si parla non si
riferiscono soltanto a quelle dei credenti ma anche a quelle della creazione e ai gemiti dello Spirito. La
δόξα «gloria» è la presenza piena e permanente di Dio nella storia della salvezza.
8,19: L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di
Dio (ἡ γὰρ ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως τὴν ἀποκάλυψιν τῶν υἱῶν τοῦ θεοῦ ἀπεκδέχεται, lett. «La infatti
attesa impaziente della creazione la rivelazione dei figli di Dio aspetta ansiosamente»).
- L’ardente aspettativa della creazione (ἡ γὰρ ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως). Che cosa intende Paolo con κτίσις
«creazione»? Agostino (354-430) osservava che «tutto il capitolo otto è oscuro perché non è sufficientemente
chiaro cosa intenda l'Apostolo con creatura». L'interpretazione più accreditata è quella cosmologica, che
meglio si contestualizza nel genere apocalittico che caratterizza questi versi. Il creato condivide il destino
dell'umanità, nel bene e nel male, provocando una specie di personificazione della creazione: essa è come
una persona ridotta in condizioni di schiavitù, con la ferma speranza di essere liberata. Questo processo
viene qualificato con un termine utilizzato soltanto da Paolo: ἀποκαραδοκία, apokaradokía, «ardente attesa,
attesa impaziente», che in greco esprime la condizione di una persona che protende il capo in avanti per
attendere con ansia gli esiti degli eventi. Come una persona umana, la creazione attende la rivelazione dei
figli di Dio che si compirà soltanto con la piena realizzazione della gloria. L'unico parallelo neotestamentario
di apokaradokía (Fil 1,20) evidenzia come l'attesa della creazione è carica di speranza, analoga a quella di
Paolo stesso, in situazione di prigionia.
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8,20-21: La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per
volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà
liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di
Dio (τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, οὐχ ἐκοῦσα ἀλλὰ διὰ τὸν ὑποτάξαντα, ἐφ’ ἐλπίδι 21ὅτι καὶ
αὐτὴ ἡ κτίσις ἐλευθερωθήσεται ἀπὸ τῆς δουλείας τῆς φθορᾶς εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς δόξης τῶν τέκνων
τοῦ θεοῦ, lett. «Alla infatti vanità la creazione fu sottomessa, non volendo, ma a causa dell'avente sottomesso con speranza
21
che anche stessa la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per la libertà della gloria dei figli di Dio»).
- La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità (τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, lett. «Alla infatti vanità la
creazione fu sottomessa»). L'apocalittica giudaica si sofferma volentieri sulle prime pagine della Genesi, che
parlano di Adamo e del suo peccato (cf 4Esdra; 2Baruc). Paolo sembra condividere questa tradizione per
sottolineare la situazione negativa nella quale si trova la creazione e la futura liberazione che condividerà
con la libertà della gloria dei figli di Dio. Innanzitutto, Dio ha sottomesso la creazione alla ματαιότης,
«vanità», come dimostra il passivo divino ὑπετάγη, hypetágē, ind. aor. pass. di ὑποτάσσω, «assoggetto,
sottometto». A questa prima sottomissione si riferisce anche la narrazione di Gen 3,17: «Maledetto sia il suolo
per causa tua...». In tal modo, la creazione condivide la situazione negativa nella quale si trovano tutti gli
esseri umani; poiché «si sono perduti nei loro vani ragionamenti» (ἐματαιώθησαν, emataióthēsan, Rm 1,21),
anche la creazione è stata sottomessa alla vanità, alla caducità (ματαιότητι, mataiótēti).
- per volontà di colui che l’ha sottoposta (διὰ τὸν ὑποτάξαντα). Oltre alla sottomissione da parte di Dio, vi è
un'altra causa che sottopone la creazione alla caducità, alla vanità: l'uomo. Il verbo usato è lo stesso:
ὑποτάσσω «sottometto, sottopongo». Nonostante la sottomissione sofferta della creazione, Paolo
sottolinea comunque che Dio l'ha sottomessa nella speranza di liberarla da questa condizione di
schiavitù che condivide con gli esseri umani.
- nella speranza (ἐφ’ ἐλπίδι). Proseguendo nella rilettura delle prime pagine della creazione, si può notare che
Paolo inserisce l'elemento nuovo della speranza (ἐλπίς, ίδος, ἡ) di cui non si parla in Gen 2-3. In questo
sguardo sul futuro disegno divino, prosegue la personificazione della creazione: essa è come uno schiavo che
sarà «liberato... per la libertà» (ἐλευθερωθήσεται … εἰς τὴν ἐλευθερίαν). Da una parte, la schiavitù della
creazione si identifica con l'ineluttabile corruzione, dall'altra, la libertà si identifica con la gloria dei figli di
Dio alla quale parteciperà la stessa creazione.
8,22: Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino
ad oggi (οἴδαμεν γὰρ ὅτι πᾶσα ἡ κτίσις συστενάζει καὶ συνωδίνει ἄχρι τοῦ νῦν, lett. «Sappiamo infatti che
tutta la creazione geme insieme e soffre insieme fino a ora»).
- la creazione geme e soffre le doglie del parto (ἡ κτίσις συστενάζει καὶ συνωδίνει). I verbi, all'ind. pres.,
συστενάζω «gemo, sospiro assieme» e συνωδίνω «soffro insieme le doglie, sono insieme in travaglio» sono
verbi tipici di Paolo che insiste sul senso della partecipazione, della condivisione mediante il prefisso συν-.
Perciò tutta la creazione con-geme e con-soffre con l'umanità, esclusi i credenti di cui parlerà nei versi
successivi. Anche il motivo del parto (ὠδίν), come simbolo della sofferenza umana e del creato, è tipico
dell'apocalittica giudaica. La creazione non geme e non soffre soltanto per conto proprio ma geme e soffre
con i credenti e lo Spirito. Di certo Paolo non sta elaborando una teologia dell'ecologia, ma vuole solo
rassicurare i credenti che le loro sofferenze sono simili a quelle di tutta la creazione e non compromettono la
partecipazione alla gloria finale.
8,23: Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (οὐ μόνον δὲ ἀλλὰ
καὶ αὐτοὶ τὴν ἀπαρχὴν τοῦ πνεύματος ἔχοντες, [ἡμεῖς] καὶ αὐτοὶ ἐν ἑαυτοῖς στενάζομεν υἱοθεσίαν
ἀπεκδεχόμενοι, τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ σώματος ἡμῶν, lett. «non solo però, ma anche quelli la primizia dello Spirito
aventi, noi anche stessi in noi stessi gemiamo insieme figliolanza aspettando ansiosamente, la redenzione del corpo di noi»).
- aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (υἱοθεσίαν ἀπεκδεχόμενοι, τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ
σώματος ἡμῶν, lett. «figliolanza aspettando ansiosamente, la redenzione del corpo di noi»). Qui Paolo passa a parlare
del gemito di coloro che posseggono τὴν ἀπαρχὴν τοῦ πνεύματος «la primizia dello Spirito», in attesa della
υἱοθεσία, huiothesía, «figliolanza». Paolo sembra contraddirsi rispetto a quanto ha appena sostenuto in Rm
8,14-17, ove la υἱοθεσία sembra un dato scontato. Dunque, la figliolanza divina è un dono che abbiamo
ricevuto (v. 15), oppure è qualcosa che dobbiamo ancora attendere? Per chiarire il senso di questa riflessione
è necessario prendere in considerazione la tensione tra l'apocalittica e l'escatologia paolina. Notiamo che
anche nei confronti della giustizia si verifica la stessa tensione tra la nostra giustificazione passata, per mezzo
7
della fede in Cristo (cf Rm 5,1), e la speranza della giustizia (cf Gal 5,5). Per Paolo rimane vero che siamo stati
giustificati e posti nella nuova condizione di figli di Dio; ma la giustificazione e la figliolanza non sono
ancora piene, perché continuiamo a vivere, come tutti gli altri, nella carne mortale (cf Rm 7,24). Il verbo
ἀπεκδεχόμενοι, part. pres. pass. di ἀπεκδέχομαι, «aspetto pazientemente, con ansia» esprime bene l'attesa
della redenzione del nostro corpo, di fronte al mistero della sofferenza, anche se abbiamo la primizia dello
Spirito. In questa tensione tra la figliolanza nello Spirito e l'attesa della futura figliolanza, che si
identifica con la partecipazione alla gloria, trova spazio quella parte del tragico umano che ha ancora
qualcosa da dire anche ai credenti e che rimane in parte irrisolto anche per quanti sono stati liberati dallo
Spirito. La tensione tra l'apocalittica e l'escatologia è causata dallo stesso Spirito, definito come ἀπαρχή
«primizia». Anche questo termine è tipico di Paolo, che lo usa 7 volte su 9 nel NT. A prima vista, il sostantivo
aparché sembra richiamare il contesto cultuale delle primizie offerte al Signore (cf Dt 26,1-15). A ben vedere,
in questi versi manca del tutto l'orizzonte cultuale; mentre le primizie sono offerte al Signore, lo Spirito è
la primizia donata da Dio a noi. Altrove, Paolo preferirà definire lo Spirito come ἀρραβών, ῶνος, ὁ
«caparra», in vista del dono finale nell'incontro con Cristo (cf 2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14). Nel trattare della
risurrezione dei corpi Paolo ha applicato la stessa metafora a Cristo, la primizia (cf 1Cor 15,20.23); e la
pienezza del raccolto sarà la risurrezione del nostro corpo spirituale (cf 1Cor 15,44).
Il canto dello Spirito è canto di liberazione e di vittoria, di fronte alla situazione tragica
dell’io e della Legge, descritta a fosche tinte in Rm 7,7-25: una sorta di canto esodale, analogo a quello di
Israele nel deserto. Guidati dallo Spirito, i credenti si pongono in cammino verso la mèta della partecipazione
alla gloria divina. Lo Spirito ha realizzato una duplice liberazione: verso l’io e verso la Legge. Nei
confronti dell’io, compie una liberazione dalla funzione accusatrice della Legge, dallo strapotere del peccato
e della morte ineluttabile. Anche nei confronti della Legge, lo Spirito realizza una liberazione: la sua
strumentalizzazione sinistra, compiuta dal peccato, lascia il posto alla sua “giusta esigenza”, quella del bene,
della giustizia e della santità.
Spesso stentiamo a comprendere l’importanza dello Spirito nella vita cristiana. Sembra appannaggio
di alcuni gruppi e associato ad alcuni sacramenti, mentre permea l’esistenza di tutti i credenti. La prima
parte del canto (Rm 8,1-17) descrive le principali azioni dello Spirito:
a) libera dal potere del peccato e della morte (non in senso metaforico ma reale);
b) agisce nella lotta contro la sarx (carne) che anche i credenti devono sostenere nella loro condizione
viatoria;
c) dona la figliolanza divina (υἱοθεσία) che pone i credenti nella stessa condizione di Cristo, per renderli
partecipi della sua stessa eredità;
d) libera dall’angoscia umana, dall’incapacità di compiere il bene: non si è più schiavi ma liberi;
e) agisce di fronte alle sofferenze umane e alla morte fisica che raggiungono i credenti.
Il vangelo (Mt 25,31-46) ci presenta Gesù, Figlio dell'uomo, che interviene alla fine della storia come
melech «re», ro'è «pastore» e shofet «giudice» dell' am ha-Shem «popolo di Dio». Cristo è raffigurato come il Re
Messia, il cui compito è rendere giustizia ai suoi fedeli e condannare gli empi (cf Sal 72). Egli è presentato
anche come il pastore che separa le pecore e le capre nei vari stazzi per la notte: è, quindi, la guida del suo
gregge. Ma, al di là delle immagini del re, del giudice e del pastore, appare in modo evidente l'oggetto del
giudizio ultimo: è l'amore per i «fratelli più piccoli». «Nell'economia generale del discorso matteano sulla
parusia, la descrizione finale del giudizio universale si presenta come completamento della descrizione
della venuta del Figlio dell'uomo che ha costituito il centro del discorso (24,29-31), ma anche come punto
culminante della lunga sezione parenetica (24,36-25,30), che si basa tutta sulla prospettiva del giudizio ed è
così orientata verso questo quadro grandioso» (J. Dupont, 1915 - 1998).
Mt 25,31-33: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui,
siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le
pecore alla sua destra e le capre alla sinistra (ὅταν δὲ ἔλθῃ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἐν τῇ δόξῃ
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αὐτοῦ καὶ πάντες οἱ ἄγγελοι μετ' αὐτοῦ, τότε καθίσει ἐπὶ θρόνου δόξης αὐτοῦ• 32καὶ συναχθήσονται
ἔμπροσθεν αὐτοῦ πάντα τὰ ἔθνη, καὶ ἀφορίσει αὐτοὺς ἀπ' ἀλλήλων, ὥσπερ ὁ ποιμὴν ἀφορίζει τὰ
πρόβατα ἀπὸ τῶν ἐρίφων, 33καὶ στήσει τὰ μὲν πρόβατα ἐκ δεξιῶν αὐτοῦ, τὰ δὲ ἐρίφια ἐξ εὐωνύμων).
- il Figlio dell'uomo (υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου). L'immagine del Figlio dell'uomo che viene sulle nubi del cielo è
ripresa da Dn 7,13; la presenza degli angeli è ripresa da Zc 14,5: «Verrà allora il Signore mio Dio, e con lui tutti i
suoi santi» (Zc 14 è un capitolo che ha influenzato molto l'escatologia matteana; cf 1Ts 3,13). Si noterà che il
Figlio dell'uomo viene presentato come il re/giudice/pastore, e non solo come un avvocato presso Dio: gli
angeli santi sono i suoi assistenti nel giudizio (cf 13,41) mentre siede sul suo trono di gloria, cioè sul seggio
giudiziale. Da tempo si discute sul genere letterario di Mt 25,31-46: è una parabola o non lo è? Di certo è
una scena giudiziaria. Il tribunale è presieduto dal Figlio dell'uomo, il quale premia alcuni e condanna altri.
- Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli (συναχθήσονται ἔμπροσθεν αὐτοῦ πάντα τὰ ἔθνη). Il verbo
συναχθήσονται, ind. fut. di συνάγω «raccolto, convoco, raduno, riunisco» è un passivo divino: Dio (o il
Figlio dell'uomo con i suoi angeli) radunerà i popoli. L'espressione greca πάντα τὰ ἔθνη, pánta tà éthnē
normalmente viene tradotta «tutti i popoli» (compreso Israele). Ma in molti passi (cf 4,15; 6,32; 10,5.18;
12,18.21; 20,19.25; 21,43; 24,7.9.14; 28,19) Matteo usa il neutro plurale ἔθνη, éthnē (sing. ἔθνος, ους, τό) o
pánta tà éthnē per indicare i goim, i «pagani». Anche tra questi ci sono i δίκαιοι «giusti» (v. 37) ai quali l'ultimo
giudizio apre la via alla salvezza.
- Egli separerà gli uni dagli altri (ἀφορίσει αὐτοὺς ἀπ' ἀλλήλων). Il raduno escatologico degli eletti viene
presentato in termini di separazione personale, come suggerito dal cambiamento di genere grammaticale:
Mentre πάντα τὰ ἔθνη, pánta tà éthnē «tutti i popoli» è neutro plurale, ἀφορίσει αὐτοὺς ἀπ' ἀλλήλων
aphorísei autoùs ap'allélōn, lett. «li separerà gli uni dagli altri» è plurale maschile. Il giudizio finale, pertanto,
pur essendo universale, rimane un giudizio personale, ognuno dovrà rendere conto delle proprie azioni.
- il pastore separa le pecore dalle capre (ὁ ποιμὴν ἀφορίζει τὰ πρόβατα ἀπὸ τῶν ἐρίφων). L'esito del giudizio si
trasforma in separazione, come ὁ ποιμὴν «il pastore» separa τὰ πρόβατα «le pecore» (bianche e più
bisognose di riparo durante la notte) ἀπὸ τῶν ἐρίφων (ἔριφος, ου, ὁ) «dai capri» (neri e più robusti, cf Ez
37,16-17). Questo è l'unico elemento parabolico del racconto, che l'evangelista aveva già proposto con la
separazione del grano dalla zizzania o dei pesci buoni da quelli cattivi nel c. 13.
25,34-36: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché
ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero
straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in
carcere e siete venuti a trovarmi” (τότε ἐρεῖ ὁ βασιλεὺς τοῖς ἐκ δεξιῶν αὐτοῦ• δεῦτε οἱ εὐλογημένοι
τοῦ πατρός μου, κληρονομήσατε τὴν ἡτοιμασμένην ὑμῖν βασιλείαν ἀπὸ καταβολῆς κόσμου. 35ἐπείνασα
γὰρ καὶ ἐδώκατέ μοι φαγεῖν, ἐδίψησα καὶ ἐποτίσατέ με, ξένος ἤμην καὶ συνηγάγετέ με, 36γυμνὸς καὶ
περιεβάλετέ με, ἠσθένησα καὶ ἐπεσκέψασθέ με, ἐν φυλακῇ ἤμην καὶ ἤλθατε πρός με).
- il re (ὁ βασιλεὺς). Il Figlio dell'uomo che siede in giudizio è chiamato «il re». Questo titolo porta avanti il
motivo della regalità di Gesù che era cominciato nel racconto dell'infanzia (cf 1,1.20; 2,2.13-14) e verrà
ripreso in chiave sarcastica nel racconto della passione (cf 27,11.29.27.42). Qui vediamo Gesù come re in tutta
la sua gloria, senza ironia né segretezza.
- alla sua destra (ἐκ δεξιῶν αὐτοῦ). Nella cultura egiziana la destra rappresentava la parte più prestigiosa;
nella cultura araba i giuramenti si fanno con la mano destra; nella Bibbia è alla destra del re (o di Dio) il
luogo più onorevole. La destra è associata alla fortuna, a ciò che è giusto e forte, mentre la sinistra implica
difficoltà (cf Giudice Ehud, in Gdc 3), sfortuna, presagi negativi. Nella Bibbia si parla della yümî|nkä, «tua
destra» (di Dio) per indicare l’autorità, la potenza o la gloria stessa di Dio: «La tua destra, Signore, è gloriosa
per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico» (Es 15,6); «Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena
nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,11); «Oracolo del Signore al mio signore: «Siedi alla mia
destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (110,1). Secondo il neuropsicologo F. Fabbro (1956 -)
la valutazione positiva del lato destro e della mano destra nascerebbe dalla tendenza universale delle madri
a tenere il neonato con il braccio sinistro, in modo che la destra del piccolo si trovi vicino al cuore. Queste
precoci esperienze inciderebbero sulla vita successiva dell'individuo, che tenderà così a considerare
l'emispazio destro come fonte di protezione e quello sinistro come insicuro e infido.
- benedetti del Padre mio (οἱ εὐλογημένοι τοῦ πατρός μου) Il Figlio dell'uomo giudica e i giusti acquistano il
diritto di partecipare alla gioia eterna del regno del Padre.
- fin dalla creazione del mondo (ἀπὸ καταβολῆς κόσμου). È un'espressione semitica che può implicare due
concetti. 1) Quello di creazione, per cui il sintagma ἀπὸ καταβολῆς κόσμου indica l'inizio dell'atto creativo
9
divino. Giuseppe Flavio (33-100 d.C.) usa il termine καταβολή proprio nel senso di «inizio». A partire da
questa idea, si può notare anche che il sintagma ha qualche collegamento con le parabole della semina,
perché alla lettera καταβολή implica l'idea di «piantare», «mettere giù» un seme (anche quello dell'uomo);
ecco perché qualcuno ha tradotto il sintagma presente anche in 13,35 con «piantare il seme della razza
umana». La Hokmâ «Sapienza» è stata creata fin dalla creazione del mondo (cf Prv 8,22-31). In seguito tale
origine è stata attribuita alla Torah (cf m.'Abot 5,6). «Sette cose hanno preceduto la creazione del mondo: la
Torah, il trono della Gloria, il giardino di Eden, la Geenna, il pentimento, il Tempio e il Nome del Messia»
(Midrash Tehillim a Sal 90 § 12,196a). 2) Più convincente è intendere l'espressione nel senso di «porre le
fondamenta» della creazione (e della vita che è in essa), al modo in cui un architetto ha cura di «tutta la
costruzione» (cf 2Mac 2,29) di una casa nuova. D'altra parte, secondo A. Mello la «fondazione» non
alluderebbe alla creazione, quanto piuttosto all'inizio del regno di Dio nella storia, ovvero alla storia della
salvezza inaugurata da Abramo, Sara e Isacco.
- ero in carcere (ἐν φυλακῇ ἤμην). Questa voce non compare negli elenchi ebraici della gemilut chasadim, delle
opere buone, principalmente perché la prigionia era raramente praticata tra i Giudei (che non usavano
costruire prigioni).
25,37-39: Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti
abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti
abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai
ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?” (τότε ἀποκριθήσονται αὐτῷ
οἱ δίκαιοι λέγοντες• κύριε, πότε σε εἴδομεν πεινῶντα καὶ ἐθρέψαμεν, ἢ διψῶντα καὶ ἐποτίσαμεν; 38πότε
δέ σε εἴδομεν ξένον καὶ συνηγάγομεν, ἢ γυμνὸν καὶ περιεβάλομεν; 39πότε δέ σε εἴδομεν ἀσθενοῦντα ἢ
ἐν φυλακῇ καὶ ἤλθομεν πρός σε;).
- i giusti (οἱ δίκαιοι). Sono quelli che si trovano alla destra del Figlio dell'uomo, simboleggiati dalle pecore. Il
triplice πότε «quando?» delle loro domande (vv. 37, 38, 39) indica che non riescono a capire come possano
aver compiuto tali atti di misericordia verso il Figlio dell'uomo. La fede operosa può essere anche implicita,
come è attestato da quei giusti che ignorano di servire Cristo negli ultimi e nei «fratelli più piccoli». Le
«opere di misericordia» sono le stesse raccomandate nell'Antico Testamento e dal giudaismo: gemilut
chasadim, lett. «il dono della gentilezza amorevole». Gesù aggiunge la visita ai prigionieri, mentre non
accenna alla sepoltura dei morti. Nell'ebraismo, il più alto livello di gemilut chasadim è quello di partecipare
a un servizio funebre, perché i morti non hanno la possibilità di ripagare la gentilezza. Dio è stato il primo a
praticare la sepoltura dei morti: [Mosè] fu sepolto [da Dio] nella valle, nella terra di Moab (Dt 34,6). L'amore
rimane la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo, in attesa della sua venuta definitiva.
25,40-46: E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo
di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno
alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete
e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno:
“Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in
carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto
quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se
ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (καὶ ἀποκριθεὶς ὁ
βασιλεὺς ἐρεῖ αὐτοῖς• ἀμὴν λέγω ὑμῖν, ἐφ' ὅσον ἐποιήσατε ἑνὶ τούτων τῶν ἀδελφῶν μου τῶν
ἐλαχίστων, ἐμοὶ ἐποιήσατε. 41Τότε ἐρεῖ καὶ τοῖς ἐξ εὐωνύμων• πορεύεσθε ἀπ' ἐμοῦ [οἱ] κατηραμένοι εἰς
τὸ πῦρ τὸ αἰώνιον τὸ ἡτοιμασμένον τῷ διαβόλῳ καὶ τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ. 42ἐπείνασα γὰρ καὶ οὐκ
ἐδώκατέ μοι φαγεῖν, (καὶ) ἐδίψησα καὶ οὐκ ἐποτίσατέ με, 43ξένος ἤμην καὶ οὐ συνηγάγετέ με, γυμνὸς
καὶ οὐ περιεβάλετέ με, ἀσθενὴς καὶ ἐν φυλακῇ καὶ οὐκ ἐπεσκέψασθέ με. 44τότε ἀποκριθήσονται καὶ
αὐτοὶ λέγοντες• κύριε, πότε σε εἴδομεν πεινῶντα ἢ διψῶντα ἢ ξένον ἢ γυμνὸν ἢ ἀσθενῆ ἢ ἐν φυλακῇ
καὶ οὐ διηκονήσαμέν σοι; 45τότε ἀποκριθήσεται αὐτοῖς λέγων• ἀμὴν λέγω ὑμῖν, ἐφ' ὅσον οὐκ ἐποιήσατε
ἑνὶ τούτων τῶν ἐλαχίστων, οὐδὲ ἐμοὶ ἐποιήσατε. 46καὶ ἀπελεύσονται οὗτοι εἰς κόλασιν αἰώνιον, οἱ δὲ
δίκαιοι εἰς ζωὴν αἰώνιον).
- a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (ἑνὶ τούτων τῶν ἀδελφῶν μου τῶν ἐλαχίστων). L'aggettivo
ἐλάχιστος, eláchistos «minimo, più piccolo» è il superlativo di μικρός, mikrós «piccolo». In altri testi di
Matteo sembra che per «fratelli più piccoli» si intendano i cristiani (cf Mt 10,40-42; 18,6.14). Se qui Matteo
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intende parlare dei cristiani, allora il Figlio dell'uomo identifica se stesso con questi cristiani e i pagani
saranno giudicati «giusti» o «maledetti» in base a come questi si sono comportati nei loro confronti. Il
giudizio finale, secondo Matteo, è dunque un giudizio universale in cui i più bisognosi vengono
riconosciuti come un "sacramento" della presenza del Figlio dell'uomo.
- nel fuoco eterno (εἰς τὸ πῦρ τὸ αἰώνιον). L'aggettivo αἰώνιον, aiónion («supplizio eterno... vita eterna», v. 46) è
detto del mondo che verrà. Alla base dell'espressione c'è la visione apocalittica ebraica del tempo: «mondo
presente» (ha-’olam ha-ze) e «mondo futuro» (ha 'olam havà'), tipica del movimento enochico.
- ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare (42ἐπείνασα γὰρ καὶ οὐκ ἐδώκατέ μοι φαγεῖν). La struttura
della scena è semplice. Dopo la presentazione (25,31-33) del giudice e degli imputati: πάντα τὰ ἔθνη «tutti i
popoli», il narratore descrive il giudice che si rivolge agli εὐλογημένοι «benedetti» e spiega perché essi siano
stati invitati a condividere con lui la sua beatitudine (25,34-36). Quando questi chiedono spiegazioni in
merito (25,37-39), il re spiega che nel fare opere di misericordia (cüdäqâ) anche a «uno solo di questi miei
fratelli più piccoli» l'hanno fatto a lui stesso (25,40). La stessa trafila è seguita per i κατηραμένοι «maledetti».
L'ultimo versetto (25,46) riassume il procedimento giudiziario: i malvagi sono destinati alla punizione eterna
e i giusti alla vita eterna.
Questa scena di giudizio è collocata da Matteo dopo tre parabole che parlano della venuta del Figlio
dell'uomo. In ogni caso, tutti sanno che alla fine il padrone/sposo verrà, per quanto la sua venuta possa
essere dilazionata. Nel frattempo si richiede una costante vigilanza. In questa verifica/esame il servo
malvagio, le vergini stolte e l'amministratore timoroso/pigro ne escono bocciati; il servo fidato, le vergini
sagge e gli amministratori intraprendenti invece sono promossi. Tuttavia, la chiave di tutto il brano è data
dal duplice dialogo simmetrico, che presenta ogni volta tre momenti:
a) dichiarazione della sentenza (vv. 34-36 e 41-43)
b) risposta dei benedetti (vv. 37-39) o dei maledetti (v. 44)
c) giustificazione della sentenza (vv. 40 e 45).
Nella dichiarazione del Re e nella risposta dei giudicati viene ripetuto per ben quattro volte lo stesso elenco
di sei opere di misericordia. Da ciò si evince che il giudizio si fonda su un criterio tipicamente ebraico: la
ghemilut chasadim «le opere di misericordia», che nel giudaismo viene considerata una imitatio Dei.
«Rabbi Chama' bar Chanina' dice: 'Voi seguirete il Signore vostro Dio' (Dt 13,5). Può un uomo seguire
veramente Dio, quando nello stesso libro è detto che il Signore tuo Dio è un fuoco che consuma? Ma ciò
significa che si deve seguire la condotta di Dio. Come Dio ha vestito quelli che erano nudi [Adamo ed
Eva], vesti anche tu quelli che sono nudi; come Dio ha visitato gli ammalati [Abramo], tu pure visita gli
ammalati; come Dio ha consolato gli afflitti [Isacco], consola anche tu gli afflitti; come Dio ha seppellito i
morti [Mosè], tu pure seppellisci i morti" (Sotà 14a).
Il Figlio dell'uomo, il giudizio dei pagani e i «piccoli» (25,31-46). L'intera sezione dell'ultimo
discorso di Gesù (24,1-25,46) si chiude con l'imponente scena del giudizio finale, che non ha paralleli in
nessun altro vangelo. Sono le ultime parole di Gesù in Matteo: dopo questa scena, infatti, ha inizio il
racconto della passione. Protagonista della scena è il «Figlio dell'uomo», del quale Matteo ha già parlato in
diverse occasioni; qui lo si raffigura «seduto», come già per il giudizio delle tribù di Israele (cf 19,28), e come
Gesù dirà più avanti, rispondendo a Kaifa, in 26,64: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra
della Potenza e venire sulle nubi del cielo.
Da tempo si è notata la somiglianza tra la figura del Figlio dell'uomo in Matteo e quella presente nel
Libro delle parabole di Enoch: «chi scrisse il Nuovo Testamento ha applicato alla figura di Gesù parte della
dottrina del Libro delle parabole» (Paolo Sacchi, Firenze 1930 -, professore di Filologia biblica all'Università di
Torino e fondatore della rivista Enoch nel 1979). Il brano che più si avvicina alla descrizione del giudizio
finale di Matteo è quello in cui si legge che «una metà di tutti i re, i potenti, gli eccelsi e quelli che
posseggono la terra guarderà l'altra metà, si spaventeranno e abbasseranno le loro teste e li prenderà pena
nel vedere quel Figlio dell'uomo seduto sul trono della sua gloria» (1Enoch 52,5). In questo testo (databile
all'epoca erodiana) il Figlio dell'uomo - diversamente dal libro di Daniele - è anche giudice. Così Matteo
raggiunge il suo scopo di «rivelare l'identità di Cristo, non solo come profeta, Maestro, Figlio di Dio, e Figlio
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di David, ma anche come Figlio dell'uomo escatologico nelle cui mani è il giudizio del mondo» (L.W.
Walck).
Se da un lato l'evangelista attinge da un testo apocrifo, dall'altro, in maniera originale, mostra Gesù,
Figlio dell'uomo, giudice e Re che si considera presente nei più piccoli: «ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare», oppure «non mi avete dato da mangiare». Questo crea un effetto di sorpresa sia in quelli che gli
hanno usato misericordia, sia in quelli che gliel'hanno negata (cf A. Mello, 1951 -, docente di AT presso lo
SBF di Gerusalemme). Nell'AT il giorno del Signore è decretato da Dio stesso; nel NT invece è il Figlio
dell'uomo che interviene in questo giudizio, Figlio che si dichiara presente nei ἀδελφοί μου ἐλάχιστοι
«fratelli più piccoli» (25,40).
A questa interpretazione "universalista" di Mt 25,31-46, oggi si contrappone, da parte di alcuni
studiosi (D.J. Harrington) un'interpretazione diversa, fondata sulla terminologia usata da Matteo. La vera
crux interpretum di questo testo riguarda l'identificazione delle pecore e dei capri. Nonostante una prassi
interpretativa consolidata che prende l'avvio dai Padri della Chiesa, e che porta a definire la scena come il
giudizio «universale», a partire dal XVIII secolo vengono sottolineati i tanti e buoni indizi nel testo per
ritenere che anziché di un giudizio per tutta l'umanità, il testo implichi un giudizio solo per i pagani (cf
28,19: Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli). Questa interpretazione è presente anche nel cosiddetto
Vangelo ebraico di Matteo di Shem Tov, dove è chiaro che il giudizio riguarda solo i pagani.
La successione di un giudizio prima per i giudei e poi per i gentili si trova nelle fonti rabbiniche:
«R. Hanina bar Papa [disse] così: In tempi a venire, il Santo, benedetto Egli sia, prenderà un rotolo della
Torà e dirà: "Chi l'ha seguita, venga a prendere il suo premio". Poi tutte le nazioni si raduneranno, nella
confusione, come sta scritto...» (bTalmud, 'Avoda Zara 2b).
L'antica aspettativa cristiana di un giudizio distinto per i Giudei e per i pagani affondava le sue
radici nella tradizione ebraica. Rifacendosi ad Ez 39,21: «tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatto», e a
Gioele 3, il tema di un giudizio distinto compare spesso negli scritti ebraici apocalittici:
«Nella nona settimana il giusto giudizio sarà rivelato a tutto il mondo» (1Enoch 91,14); «egli [= il Messia]
giudicherà popoli e nazioni nella sapienza della sua giustizia» (Salmi di Salomone 17,29); «egli, mio Figlio,
condannerà le nazioni riunite per la loro empietà» (4Esdra 13,33-49); «il Signore prima giudica Israele per
il male che ha commesso e poi farà lo stesso per tutte le nazioni» (Testamento di Beniamino 10,8-9); «Ogni
nazione che non ha conosciuto Israele e che non ha calpestato sotto i piedi il seme di Giacobbe vivrà...
Tutte quelle invece che hanno dominato su di te o ti hanno conosciuto saranno consegnate alla spada»
(2Baruc 72,4-6).
La norma in base alla quale i pagani saranno giudicati sarà dunque il modo in cui hanno trattato
Israele. Del giudizio di Israele (e non della Chiesa o dei cristiani), ovvero delle sue dodici tribù, Gesù ha già
parlato in 19,28, rispondendo alla domanda di Pietro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il
Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni
a giudicare le dodici tribù d’Israele». Paolo dal canto suo attesta: Tribolazione e angoscia su ogni uomo che opera il
male, sul Giudeo, prima, come sul Greco; 10gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo, prima, come
per il Greco (Rm 2,9-10; cf Ap 7,4.9). L'idea di un giudizio distinto tra i Giudei e i pagani si trova anche
altrove nel Nuovo Testamento. Allusioni si trovano in 1Cor 6,2-3: «i santi giudicheranno il mondo»; in 1Pt 4,17:
«È giunto infatti il momento in cui ha inizio il giudizio a partire dalla casa di Dio; e se incomincia da noi, quale sarà la
fine di coloro che rifiutano di credere al vangelo di Dio?».
La caratteristica principale del giudizio del Figlio dell'uomo in Matteo è data dal criterio con cui
le nazioni straniere saranno valutate. In un testo apocrifo, 2Baruk 72, è scritto che il giudizio avverrà sulla
base di come le nazioni si sono comportate verso Israele:
«Dopo che saranno venuti i segni che prima ti ho detto, quando saranno turbati i popoli e sarà venuto il
tempo del mio Unto, egli chiamerà tutti i popoli e ne farà vivere alcuni e altri ne ucciderà... Ogni popolo che
non conoscerà Israele e che non avrà calpestato il seme di Giacobbe, esso vivrà... Tutti coloro, invece, che
avranno dominato su di voi o che vi avranno conosciuto, tutti costoro saranno consegnati alla spada».
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Tenendo presente che l'apocrifo è databile verso la fine del I secolo d.C., si comprende il tono di
condanna verso coloro che hanno distrutto Gerusalemme e il suo tempio; primo fra tutti l'imperatore di
Edom/Roma. Nel primo vangelo i «piccoli» (25,40.45) sono gli ebrei credenti in Gesù Messia, chiamati i suoi
«fratelli» (25,40; cf Mt 12,49- 50) e che sono (saranno) i «cristiani».
Il principale significato della scena di Mt 25 è un appello alla vita del credente. Dopo avere
sottolineato come la vigilanza messianica abbia un carattere eminentemente pratico, fattivo (parabola dei
talenti), adesso Matteo specifica quali sono gli ambiti in cui essa deve esercitarsi: è il comandamento
dell'amore verso il prossimo, vertice e compendio di tutta la Torà, che si manifesta particolarmente nelle
opere di misericordia verso i più bisognosi. Alla fine del mondo, cristiani e non cristiani, saranno giudicati
tutti sull'amore. Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha
adempiuto la Legge … qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te
stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità (Rm 13,8-10).
La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine nel X secolo nel
monastero benedettino di Cluny. Papa Benedetto XV (1854-1922), al tempo della prima
guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in
questo giorno.
«La liturgia cristiana dei funerali è una celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore. Nelle esequie la
Chiesa prega che i suoi figli, incorporati per il battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte
alta vita e, debitamente purificati nell’anima, vengano accolti con i santi e gli eletti nel cielo, mentre il corpo
aspetta la beata speranza della venuta di Cristo e la risurrezione dei morti».
Nella nostra vita noi pensiamo di non avere mai abbastanza: viviamo protesi verso un continuo «domani»,
dal quale ci attendiamo sempre «di più»: più amore, più felicità, più benessere. Viviamo sospinti dalla
speranza. Ma in fondo a tutto il nostro stordirci di vita e di speranza si annida, sempre in agguato, il
pensiero della morte: un pensiero a cui è molto difficile abituarci, che si vorrebbe spesso scacciare. Eppure la
morte è la compagna di tutta la nostra esistenza: addii e malattie, dolori e delusioni ne sono come i segni
premonitori.
La morte: un mistero
La morte resta per l’uomo un mistero profondo. Un mistero che anche i non credenti circondano di rispetto.
Essere cristiani cambia qualcosa nel modo di considerare la morte e di affrontarla? Qual è l’atteggiamento
del cristiano di fronte alla domanda sul senso ultimo dell’esistenza umana? La risposta si trova nella
profondità della nostra fede. La morte per il cristiano non è il risultato di un gioco tragico e ineluttabile da
affrontare con freddezza e cinismo. La morte del cristiano si colloca nel solco della morte di Cristo: è un
calice amaro da bere fino in fondo perché frutto del peccato; ma è pure volontà amorosa del Padre, che ci
aspetta al di là della soglia a braccia aperte: una morte che è una vittoria vestita di sconfitta; una morte che
è essenzialmente non-morte: vita, gloria, risurrezione.
Come tutto questo avvenga di preciso non lo possiamo sapere. Non è dell’uomo misurare l’immensità delle
promesse e del dono di Dio. Il commiato dei fedeli è accompagnato dalla celebrazione eucaristica che è
ricordo della morte di Gesù in croce e pegno della sua risurrezione. Uno dei prefazi rivela un accento di
umana soavità e di divina certezza: «In Cristo rifulge a noi la speranza della beata risurrezione, e se ci
rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore,
la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata
un’abitazione eterna nel cielo».
Possiamo fare qualcosa per i defunti? Essi non sono lontani da noi: appartengono tutti alla comunità degli
uomini e alla Chiesa, sia quelli che sono morti nell’abbraccio di Dio, come pure tutti coloro dei quali solo il
Signore ha conosciuto la fede. La preghiera per i defunti è una tradizione della Chiesa.
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