I Gattò di Grazia Leone

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I Gattò di Grazia Leone
I Gattò di Grazia Leone
Giovedì 10 Febbraio 2011 00:00
Si parla ancora nel paese, favoleggiando, di una certa Grazia Leone che, da morta, è divenuta
leggenda e le cui ricette scritte vengono ancora passate di mano in mano per essere copiate.
Alla bravura eccezionale per la confezione di ogni tipo di dolce locale, aggiungeva una
conoscenza e un'abilità culinaria e organizzativa di prim'ordine che lei saggiamente sfruttava.
Non c'era festa familiare degna di rispetto, sia battesimo, sposalizio o anche, e ne parlerò dopo,
veglia funebre in cui non si ricorresse alla bravura di Grazia
La ricordo bene perchè la vidi all'opera per il matrimonio di zia Elvira e di zio Lillino. Era,
Grazia, una donna di media statura, con un viso dai lineamenti classici, un naso dritto, una
bocca ben disegnata e due bande di capelli quasi del tutto bianchi, accostate al viso e raccolte
in crocchia. Grosse buccole di corallo ondeggiavano sullo scialle a frange nero, incrociato sul
davanti della tradizionale gonna lunga a pieghe larghe. Arrivava, si copriva con un larghissimo
grembiule bianco, rimboccava le maniche e dava subito istruzioni alle due o tre ragazze che
aveva come collaboratrici. Bastava che Grazia venisse all'alba del giorno precedente alla data
stabilita perchè, dopo un'intera giornata di lavoro, in cui non voleva assolutamente nessuno
attorno, essa uscisse dalla cucina, lasciando pronte, odorose, perfette, le vivande la cui scelta
aveva preventivamente programmato con la padrona di casa. Era un numero imprecisato di
polli, lepri, tacchini, conigli, farciti, in salsa e allo spiedo, erano arrosti morbidi, ragù profumati,
verdure e ortaggi appassiti in brasature perfette. Erano torte fantasiose, colorate e soffici farcite
al caffè o al cioccolato e, persino, torte "mariage" con la loro guarnizione di confetti e fiori di
zucchero che in paese chiamavano "gattò" con evidente richiamo al termine francese.
A quei tempi le feste si svolgevano in casa e il banchetto di nozze che il padre della sposa a un
numero notevole d'invitati, si svolgeva in una o più stanze della casa, preventivamente vuotate
e in cui si apprestava l'ininterrotto tavolo a ferro di cavallo, rallegrato da ciuffi di velo e fiori
bianchi.
Lì faceva ingresso il corteo, di ritorno dalla chiesa, mentre un'orchestrina di quattro o cinque
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elementi, in genere strumenti ad arco, sistemata in una stanza adiacente, intonava la marcia
nuziale di Mendelssohn e suonava, in seguito, durante il pranzo e dopo. Il pranzo durava fino a
pomeriggio inoltrato e, dopo la partenza degli sposi che avveniva con gran chiasso e saluti dai
balconi, con lancio dei confetti, dopo che il "landò" li aveva prelevati con le loro valigie e le
poche persone che li acompagnavano alla stazione, si dava inizio al ballo che si protraeva sino
a notte.
Dalle finestre soalancate, nelle notti d'estate, sfociava sulla via la luce e l'aria fumosa delle
stanze, oltre all'eco delle voci degli strumenti. Sulle tende gonfiate dalla brezza, si disegnavano
come ombre cinesi le sagome delle coppie allacciate in movimento o le rapide, mutevoli figure
della chiassosa, alletgra quadriglia. Qualche monello sedeva sul marciapiede di fronte e i rari
passanti levavano lo sguardo al riquadro luminoso della finestra poi proseguivano col passo
ritmato, solitario, perso nel silenzio notturno.
il pranzo nuziale durava. ripetuto, per tre giorni, durante i quali gli invitati sedevano ancora a
tavola per festeggiare le nozze senza gli sposi e danzavano sino a sera. Spesso si leggeva a
tavola il telegramma che gli sposini inviavano al padre e a tutti e i commenti salaci e affettuosi
affogavano nell'enesimo brindisi che augurava per loro, felicità e salute
Del matrimonio di zia Elvira ricordo la lunga serie di carrozze, "landò" e due cavalli, neri, lucidi e
scoperti, col cocchiere in tuba, che ci accompagnarono in chiesa, l'odore intenso da star male,
delle tuberose che ornavano l'altare e che erano arrivate in due ceste da Roma, il velo
lunghissimo e soffice della sposa, lo zio Lillo, sempre allegro che, per sdrammatizzare il
momento solenne, ci faceva dei cenni sino all'altare, tutto elegante nel suo abito nero col
farfallino e la mia preoccupazione per il primo invito a ballare che ricevetti da un ragazzo e che,
per una bambina (allora eravamo bambine) di dodici anni che stava sbocciando nella donna,
rivestì un'importanza angosciante.
Grazie era presente anche nei battesimi dove si offriva un solo pranzo anche se lautoe nei
funerali perchè è uso che i parenti più prossimi, di ritorno dalle esequie, trovino a casa un
delicato ristoro a base di brodo, carne lessa e arrosto e cibi leggeri offerti a turno per tre giorni
consecutivi, dai parenti o dagli amici più cari. Avevo modo d'imbattermi soesso in Grazia perchè
accompagnavo zia Francesca e Rosetta nelle visite che zia riteneva doveroso fare alle varie
"comari" conoscenti, in occasione di nascite, matrimoni, esequie.
Marise Pallottino Di Leo, Al di là della piana fra gli ulivi Nuova Impronta 1991, pp. 76-78
I Gattò di Grazia Leone
Si parla ancora nel paese, favoleggiando, di una certa Grazia Leone che, da morta, è divenuta
leggenda e le cui ricette scritte vengono ancora passate di mano in mano per essere copiate.
Alla bravura eccezionale per la confezione di ogni tipo di dolce locale, aggiungeva una
conoscenza e un'abilità culinaria e organizzativa di prim'ordine che lei saggiamente sfruttava.
Non c'era festa familiare degna di rispetto, sia battesimo, sposalizio o anche, e ne parlerò dopo,
veglia funebre in cui non si ricorresse alla bravura di Grazia.
La ricordo bene perchè la vidi all'opera per il matrimonio di zia Elvira e di zio Lillino. Era, Grazia,
una donna di media statura, con un viso dai lineamenti classici, un naso dritto, una bocca ben
disegnata e due bande di capelli quasi del tutto bianchi, accostate al viso e raccolte in crocchia.
Grosse buccole di corallo ondeggiavano sullo scialle a frange nero, incrociato sul davanti della
tradizionale gonna lunga a pieghe larghe. Arrivava, si copriva con un larghissimo grembiule
bianco, rimboccava le maniche e dava subito istruzioni alle due o tre ragazze che aveva come
collaboratrici. Bastava che Grazia venisse all'alba del giorno precedente alla data stabilita
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perchè, dopo un'intera giornata di lavoro, in cui non voleva assolutamente nessuno attorno,
essa uscisse dalla cucina, lasciando pronte, odorose, perfette, le vivande la cui scelta aveva
preventivamente programmato con la padrona di casa. Era un numero imprecisato di polli, lepri,
tacchini, conigli, farciti, in salsa e allo spiedo, erano arrosti morbidi, ragù profumati, verdure e
ortaggi appassiti in brasature perfette. Erano torte fantasiose, colorate e soffici farcite al caffè o
al cioccolato e, persino, torte "mariage" con la loro guarnizione di confetti e fiori di zucchero che
in paese chiamavano "gattò" con evidente richiamo al termine francese.
A quei tempi le feste si svolgevano in casa e il banchetto di nozze che il padre della sposa a un
numero notevole d'invitati, si svolgeva in una o più stanze della casa, preventivamente vuotate
e in cui si apprestava l'ininterrotto tavolo a ferro di cavallo, rallegrato da ciuffi di velo e fiori
bianchi.
Lì faceva ingresso il corteo, di ritorno dalla chiesa, mentre un'orchestrina di quattro o cinque
elementi, in genere strumenti ad arco, sistemata in una stanza adiacente, intonava la marcia
nuziale di Mendelssohn e suonava, in seguito, durante il pranzo e dopo. Il pranzo durava fino a
pomeriggio inoltrato e, dopo la partenza degli sposi che avveniva con gran chiasso e saluti dai
balconi, con lancio dei confetti, dopo che il "landò" li aveva prelevati con le loro valigie e le
poche persone che li acompagnavano alla stazione, si dava inizio al ballo che si protraeva sino
a notte.
Dalle finestre soalancate, nelle notti d'estate, sfociava sulla via la luce e l'aria fumosa delle
stanze, oltre all'eco delle voci degli strumenti. Sulle tende gonfiate dalla brezza, si disegnavano
come ombre cinesi le sagome delle coppie allacciate in movimento o le rapide, mutevoli figure
della chiassosa, alletgra quadriglia. Qualche monello sedeva sul marciapiede di fronte e i rari
passanti levavano lo sguardo al riquadro luminoso della finestra poi proseguivano col passo
ritmato, solitario, perso nel silenzio notturno.
il pranzo nuziale durava. ripetuto, per tre giorni, durante i quali gli invitati sedevano ancora a
tavola per festeggiare le nozze senza gli sposi e danzavano sino a sera. Spesso si leggeva a
tavola il telegramma che gli sposini inviavano al padre e a tutti e i commenti salaci e affettuosi
affogavano nell'enesimo brindisi che augurava per loro, felicità e salute
Del matrimonio di zia Elvira ricordo la lunga serie di carrozze, "landò" e due cavalli, neri, lucidi e
scoperti, col cocchiere in tuba, che ci accompagnarono in chiesa, l'odore intenso da star male,
delle tuberose che ornavano l'altare e che erano arrivate in due ceste da Roma, il velo
lunghissimo e soffice della sposa, lo zio Lillo, sempre allegro che, per sdrammatizzare il
momento solenne, ci faceva dei cenni sino all'altare, tutto elegante nel suo abito nero col
farfallino e la mia preoccupazione per il primo invito a ballare che ricevetti da un ragazzo e che,
per una bambina (allora eravamo bambine) di dodici anni che stava sbocciando nella donna,
rivestì un'importanza angosciante.
Grazie era presente anche nei battesimi dove si offriva un solo pranzo anche se lautoe nei
funerali perchè è uso che i parenti più prossimi, di ritorno dalle esequie, trovino a casa un
delicato ristoro a base di brodo, carne lessa e arrosto e cibi leggeri offerti a turno per tre giorni
consecutivi, dai parenti o dagli amici più cari. Avevo modo d'imbattermi soesso in Grazia perchè
accompagnavo zia Francesca e Rosetta nelle visite che zia riteneva doveroso fare alle varie
"comari" conoscenti, in occasione di nascite, matrimoni, esequie.
Marise Pallottino Di Leo, Al di là della piana fra gli ulivi Nuova Impronta 1991, pp. 76-78
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