De genere

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De genere
ACHAB - Rivista di Antropologia
Numero XIII - giugno 2008
Direttore Responsabile
Matteo Scanni
Direzione editoriale
Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi
Redazione
Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini,
Sara Zambotti
Progetto Grafico
Lorenzo D'Angelo
Referente del sito
Antonio De Lauri
Tiratura: 500 copie
Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano
Bicocca. Questo numero è parzialmente finanziato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane
per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano Bicocca.
Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005
Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono
invitati a contattarci.
La Rivista si riserva di corrispondere agli eventuali aventi diritto, che ne facciano richiesta, le relative
spettanze in relazione all'uso di materiale pubblicato in questo numero.
* Immagine in copertina di Federica Riva
Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori,
scrivete a: [email protected]
ACHAB
In questo numero...
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Le donne musulmane hanno veramente bisogno di essere salvate?
Riflessioni antropologiche sul relativismo culturale e i suoi altri
di Lila Abu-Lughod
Dossier: De genere
10
Introduzione: Il Seminario
di Barbara Pinelli e Claudia Mattalucci
13
Non rompere il cristallo
Voci di donne e uomini attorno alla delicatezza
di Paola Abenante
20
L’interrelazione tra mobilità e immobilità nell’A.A.H.H. 11 di Luglio
di Sara Bramani
26
Tu, oggi, non puoi entrare
Tabu mestruali nel gorovodu, in Togo e Bénin
di Alessandra Brivio
32
La seduzione sulla montagna
di Arianna Cecconi
38
Lesbiche e trans FtM, contese all'incrocio fra identità di genere e orientamento sessuale
di Helen Ibry
45
In between
Rappresentazioni artistiche della diaspora ebraico – israeliana attraverso
una prospettiva di genere
di Fiammetta Martegani
51
Leadership femminili, desideri e strategie d’inclusione
I percorsi associativi di due gruppi di donne migranti a Milano
di Laura Menin
57
Dubri
Movimento e pratiche della ritualita in un rituale religioso
di Federica Riva
62
Osservazioni sulla costruzione del genere nelle pratiche di produzione radiofonica
di Sara Zambotti
67
“Literatura sucia” y “graffiti de amor.”
di Abel Sierra Madero
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ACHAB
Le donne musulmane hanno veramente bisogno
di essere salvate?
Riflessioni antropologiche sul relativismo culturale e i suoi altri
di Lila Abu-Lughod*
Qual è l'etica dell'attuale "Guerra al Terrorismo", una guerra che
si giustifica con l'apparente intenzione di liberare, o salvare, le
donne afgane? L'antropologia ha qualcosa da offrire alla nostra
ricerca di una presa di posizione ideale nei confronti di questo
fondamento logico per muovere guerra?
La domanda di apertura del titolo del mio saggio è stata in
parte dettata dal modo in cui ho personalmente vissuto la
risposta alla guerra americana in Afganistan. Come molti
colleghi il cui lavoro si è concentrato sulle donne e sulle
questioni di genere in Medio Oriente, fui tempestata dalle
richieste di intervenire, non solo nei programmi notiziari, ma
anche nei diversi dipartimenti universitari, specialmente in
quelli che si occupano di studi di genere. Come mai questo
non mi ha fatto piacere, proprio a me che sono una studiosa
che ha dedicato più di venti anni della sua vita a questo
soggetto e che ha delle relazioni personali complesse con
questa identità? Sarebbe potuta essere un'occasione per
diffondere il verbo, disseminare il mio sapere e correggere i
malintesi. L'urgente ricerca di conoscenza sulle nostre sorelle
"women of cover" (come il Presidente George Bush le ha così
mirabilmente definite) è lodevole e, quando proviene dai
programmi di studio sulle donne dove il "femminismo
transnazionale" è stato preso sul serio, risponde a una certa
qual onestà (v. Safire 2001).
Il mio disagio mi ha portata a riflettere sul perché, come
femministe in o dell'Occidente, o semplicemente come
persone che hanno a cuore le vite delle donne, dobbiamo
essere cauti nei confronti di questa risposta agli eventi e alle
conseguenze dell'11 settembre 2001. Voglio mettere in
evidenza come questa ossessione per la condizione delle
donne musulmane si collochi in un campo minato - una
metafora che è per di più tristemente appropriata per un paese
come l'Afganistan, con il più alto numero di mine pro capite. Spero di farmi strada tra queste mine usando la sensibilità
dell'antropologia, disciplina il cui compito è stato di
comprendere e gestire la differenza culturale. Allo stesso
tempo, voglio rimanere critica riguardo la complicità
dell'antropologia nella reificazione della differenza culturale.
Spiegazioni culturali e mobilitazione delle donne
È più semplice capire perché si dovrebbe essere scettici nel
concentrare l'attenzione sulla "donna musulmana" se si comincia
con la reazione pubblica americana. Analizzerò due
manifestazioni di questa reazione: alcune conversazioni che ebbi
con un cronista della PBS NewHour with Jim Lehrer e il discorso
radiofonico della First Lady Laura Bush alla nazione il 17
novembre 2001. La presentatrice dello show NewsHour mi
contattò inizialmente per vedere se ero disposta a fornire qualche
informazione generale per inquadrare un pezzo sulle donne e
l'Islam. Le chiesi sarcasticamente se avesse fatto qualche rassegna
sulle donne in Guatemala, Irlanda, Palestina o Bosnia quando lo
show si era interessato alle guerre in quelle zone; ma alla fine
assentii a dare un occhio alle domande che intendeva porre ai
partecipanti. Le domande erano disperatamente generali. Le
donne musulmane credono "x"? Le donne musulmane sono "y"?
L'Islam permette "z" alle donne? Le chiesi: se si sostituissero
"cristiano" o "ebreo" laddove si ha "musulmano", queste domande
avrebbero senso? Non pensavo mi avrebbe richiamata. Invece mi
richiamò, due volte, una prima volta relativamente all'idea di un
pezzo sul significato del ramadan e la seconda riguardo le donne
musulmane in politica. La prima, in risposta al bombardamento e
l'altra in seguito agli interventi di Laura Bush e Cherie Blair,
moglie del primo ministro britannico.
Ciò che colpisce riguardo a queste tre idee per dei nuovi
programmi è il ricorso consistente al culturale, come se sapere
qualcosa sulle donne e l'islam o sul significato del rituale religioso
servisse a capire il tragico attacco al World Trade Center di New
York e al Pentagono, o come l'Afganistan sia finito sotto il
governo dei talebani, o che interessi potrebbero avere alimentato
l'America e altri interventi nella regione negli ultimi ventocinque
anni, o che ruolo abbia lo storico supporto americano dato a
gruppi conservatori per minare i sovietici, o perché le caverne e
i bunker in cui Bin Laden stava per essere gassato "vivo o morto",
come il presidente Bush annunciò in televisione, furono
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sovvenzionati e costruiti dalla CIA.
In altre parole, la domanda da porsi è perché conoscere la
"cultura" della regione, ed in particolare le sue credenze religiose,
e il modo in cui le donne sono trattate, sia più urgente che
esplorare la storia dello sviluppo di regimi repressivi nella regione
e il ruolo dell'America in questa storia. Avevo l'impressione
che questa cornice culturale avrebbe precluso una seria analisi
delle radici e della natura della sofferenza umana in questa
parte del mondo. Invece di spiegazioni politiche e storiche,
agli esperti fu chiesto di darne di cultural-religiose. Invece di
domande che avrebbero potuto fare luce sulle
interconnessioni globali, ci furono presentate quelle che
servivano a dividere artificialmente il mondo in emisferi
separati, ricreando una geografia immaginaria dell'Occidente
contro l'Oriente, di noi contro i musulmani, di culture nelle
quali le First Lady fanno discorsi contro altre culture in cui le
donne girano silenziosamente avvolte nei burqa.
La cosa che mi premeva maggiormente comprendere era perché
le donne musulmane in generale, e le donne afgane in particolare,
fossero così cruciali in questa spiegazione culturale che invece
ignorava l'intricato sistema in cui tutti siamo coinvolti, in
modalità a volte sorprendenti. Perché questi simboli femminili
stavano per essere mobilitati in questa "Guerra contro il
Terrorismo" in un modo che non aveva precedenti in altri
conflitti? Il discorso radiofonico tenuto il 17 novembre da Laura
Bush mette in luce la funzione politica che si persegue con una
simile mobilitazione. Da una parte, il suo intervento demoliva
importanti distinzioni che si sarebbero dovute mantenere. C'era
un costante scivolamento tra i "talebani" e i "terroristi", tanto da
diventare quasi la stessa parola - una sorta di mostruosa identità
inter-connessa: i talebani-e-i-terroristi. Inoltre confondeva le
cause per cui in Afghanistan le donne sono soggette a una
continua malnutrizione, povertà e cattiva salute con le cause, ben
diverse, della loro recente esclusione dal lavoro e dall'istruzione
sotto il regime talebano, e confondeva inoltre queste cause con la
gioia di sfoggiare unghie smaltate. D'altra parte, il suo discorso
cristallizzava divisioni abissali, innazitutto tra "le persone civili di
tutto il mondo", i cui cuori si spezzano per le donne e i bambini
afgani, e i talebani-e-i-terroristi, quei mostri culturali che
vogliono, come lei sosteneva, "imporre a tutti noi il loro mondo".
Rivelatorio rispetto agli intenti, il discorso utilizzava la causa
delle donne per sostenere il bombardamento americano e
l'intervento in Afganistan e per fornire una giustificazione alla
"Guerra al Terrorismo" di cui la questione delle donne era
presumibilmente un punto caldo. Come Laura Bush sosteneva:
"Grazie alle nostre recenti vittorie militari in gran part e
dell'Afganistan, le donne non sono più segregate nelle loro case.
Possono ascoltare la musica e impartire insegnamenti alle loro
figlie senza il terrore di essere punite... . La lotta contro il
terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne"
(U.S. Government 2002).
Queste parole risuonano in maniera ossessionante nelle orecchie
di chiunque abbia studiato la storia coloniale. Molti tra coloro che
hanno fatto ricerca sul colonialismo inglese in Sud Asia hanno
notato come la questione delle donne sia stata sfruttata nelle
politiche coloniali; esempio ne sia come la pratica del sati
(l'usanza delle vedove di immolarsi sulle pire funerarie del
marito), i matrimoni precoci e ad altre usanze fossero usate per
legittimare la dominazione. Come Gayatri Chakravorty Spivak
(1988) ha cinicamente affermato: uomini bianchi che salvano
donne di colore da uomini di colore. L'archivio storico è pieno di
simili esempi, incluso il Medio Oriente. In Turn of the Century
Egypt, quello che Leila Ahmed (1992) ha chiamato "femminismo
coloniale" si dava da fare. Si trattava di una preoccupazione
interessata in modo selettivo alla sofferenza delle donne egiziane,
che si concentrava sul velo come un segno di oppressione ma che
non dava alcun supporto all'educazione delle donne, una
preoccupazione professata ad alta voce dallo stesso gentiluomo
inglese, Lord Cromer, che a casa si opponeva al diritto di voto
delle donne. La sociologa Marnia Lazreg (1994) ha offerto alcuni
esempi vividi di come il colonialismo francese ha incorporato le
donne alla propria causa in Algeria. Scrive:
Probabilmente l'esempio più evidente della riappropriazione
coloniale delle voci delle donne e della repressione di quelle tra
loro che avevano iniziato a prendere le donne rivoluzionarie...
come modelli non indossando più il velo, furono gli eventi del 16
maggio 1958 [proprio quattro anni prima che l'Algeria
finalmente conquistasse la sua indipendenza dalla Francia dopo
una lunga e sanguinosa lotta e 130 anni di controllo francese
(NdA)]. Quel giorno fu organizzata una manifestazione dai
generali francesi insubordinati per mostrare la loro
determinazione a mantenere l'Algeria francese. Per provare al
governo francese che gli algerini erano d'accordo con loro, i
generali avevano fatto arrivare in autobus qualche migliaio di
nativi dai villaggi vicini, assieme alle loro donne che furono
solennemente svelate da quelle francesi. Riunire gli algerini e
fargli fare dimostrazioni di lealtà per la Francia non era in sé un
avvenimento inusuale durante il periodo coloniale. Ma togliere il
velo alle donne durante una cerimonia ben allestita aggiungeva
all'evento una dimensione simbolica che drammatizzava la
caratteristica costante dell'occupazione francese in Algeria: la
sua ossessione per le donne. [Lazreg 1994: 135].
Lazreg (1994) dà anche degli esempi memorabili del modo in cui
la Francia aveva inizialmente cercato di trasformare le donne e le
ragazze arabe. L'autrice fornisce una descrizione di alcune
rappresentazioni durante le cerimonie di premiazione alla Muslim
Girls' School ad Algeri nel 1851 e nel 1852. Nella prima scenetta,
scritta da "una signora francese di Algeri", due ragazze arabe
algerine rammentano il loro viaggio in Francia usando le seguenti
parole:
Oh! Francia protettrice: Oh! Francia ospitale! ...
Nobile terra, dove mi sentii libera
Sotto cieli cristiani pregando il nostro Dio: ...
Dio ti benedica per la felicità che ci porti!
E tu, madre adottiva, che ci insegnasti
Che abbiamo una parte di questo mondo,
Noi ti serberemo affetto per sempre! [Lazreg 1994: 68-69]
Queste ragazze sono state preparate per invocare il dono di una
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parte di questo mondo, un mondo dove la libertà regna sotto cieli
cristiani. Non è il mondo che i talebani-e-i-terroristi vorrebbero
"imporre a tutti noi".
Proprio come poco fa ho sostenuto, bisogna essere cauti quando
delle icone culturali ben definite sono attribuite a narrative
storiche e politiche confuse, e così bisogna anche essere diffidenti
quando Lord Cromer nell'Egitto governato dagli inglesi, le
signore francesi in Algeria e Laura Bush, tutti appoggiati da
truppe militari, sostengono di stare salvando o liberando le donne
musulmane.
portatili". Ovunque velarsi significa appartenere ad una
particolare comunità e a condividere un'etica della vita in cui le
famiglie sono componenti fondamentali nell'organizzazione delle
comunità e la casa è associata con l'inviolabilità delle donne.
La domanda ovvia che segue è questa: se questo fosse il caso,
perché dovrebbero diventare improvvisamente indecenti? Perché
dovrebbero improvvisamente buttare al vento i segni distintivi
della loro rispettabilità, simboli, siano essi il burqa o altri modi di
coprirsi, che dovrebbero assicurargli la protezione nella sfera
pubblica dalle molestie di estranei, comunicando a tutti che
nonostante si muovano in un contesto pubblico sono ancora nello
spazio inviolabile delle loro case? In modo particolare quando si
tratta di modi di vestirsi che sono diventati così convenzionali che
la maggior parte delle donne presta poca attenzione al loro
significato.
Per fare alcune analogie, di cui nessuna perfetta, perché siamo
sorpresi dal fatto che le donne afgane non gettano via i loro burqa
quando sappiamo perfettamente bene che non sarebbe appropriato
indossare dei pantaloncini all'opera? Nello stesso momento in cui
le discussioni sul burqa delle donne afgane stavano infuriando,
una mia amica fu rimproverata dal marito per avere accennato al
fatto di volere indossare un abito con i pantaloni in occasione di
un matrimonio di classe: "sai bene che non si indossano pantaloni
in un matrimonio WASP ", le ricordò. I newyorkesi sanno che le
belle donne hasidiche acconciate, che sembrano così alla moda
accanto a i loro austeri mariti con i soprabiti e i cappelli neri,
indossano parrucche. Questo perché la credenza religiosa e le
consuetudini comunitarie riguardo a ciò che è appropriato
richiedono che si coprano i capelli. Come gli antropologi sanno
perfettamente bene, gli individui indossano vestiti appropriati alla
comunità sociale in cui vivono e sono condizionati da modelli
socialmente condivisi, da credenze religiose e ideali morali, a
meno che non trasgrediscano deliberatamente o non siano in
condizione di permettersi un vestiario adeguato. Se si pensa che
le donne americane hanno un'infinita possibilità di scelta per
vestirsi, tutto quello che si deve fare è ricordare l'espressione, "la
tirannia della moda".
Quello che è successo sotto i talebani è che una modalità
regionale di coprirsi o velarsi, associata ad una certa classe
rispettabile ma non elitaria, fu imposta a tutti come
"religiosamente" appropriata, anche se precedentemente c'erano
stati diversi stili, popolari o tradizionali, con differenti gruppi o
classi - diverse modalità di rappresentare il decoro delle donne o,
in tempi più recenti, la devozione religiosa. Nonostante non sia
un'esperta dell'Afganistan, immagino che la maggioranza delle
donne rimaste in Afganistan, da quando i talebani assunsero il
controllo, furono quelle provenienti dalle campagne e le meno
educate, di famiglie poco ambienti, dal momento che furono le
uniche che non riuscirono a sfuggire la sofferenza e la violenza
che ha caratterizzato la recente storia dell'Afganistan. Se liberate
dalla costrizione di indossare il burqa, la maggioranza di queste
donne avrebbero scelto altri copricapi modesti, come tutte quelle
che vivevano nelle vicinanze e non erano sotto il dominio
talebano - la loro controparte rurale hindu nel nord dell'India (che
Politiche del velo
Vorrei adesso osservare più da vicino quelle donne afgane che
Laura Bush sosteneva gioissero della loro liberazione da parte
degli americani. Questo comporta una discussione sul velo, o sul
burqa, dal momento che è centrale nella preoccupazione
contemporanea riguardo le donne musulmane. Si getteranno così
le basi per una discussione su come gli antropologi, le
antropologhe femministe in particolare, hanno a che fare con il
problema della differenza nel mondo globale. Per concludere,
ritornerò sulla retorica di salvare le donne musulmane e offrirò
un'alternativa.
È senso comune che la prova definitiva dell'oppressione delle
donne afgane sotto i talebani-e-i-terroristi è quello di essere
costrette ad indossare il burqa. I liberali qualche volta confessano
di essere sorpresi che nonostante l'Afganistan sia stato liberato dai
talebani non sembra che le donne buttino via i loro burqa.
Qualcuno che abbia lavorato in paesi musulmani deve chiedersi
perché questo è così sorprendente. Ci si aspetta che una volta
"liberate" dai talebani vogliano "ritornare" alle magliettine sopra
l'ombelico e ai bluejeans, o spolverare i loro vestiti di Chanel.
Bisogna essere più sensibili riguardo all'abbigliamento delle
"women of cover", e forse c'è anche bisogno di fare il punto
riguardo al velo.
Innanzitutto, si dovrebbe ricordare che i talebani non hanno
inventato il burqa. Era una modo locale di coprirsi che le donne
Pashtun di una particolare regione adottavano quando andavano
in giro. I Pashtun sono uno dei diversi gruppi etnici in Afganistan
e il burqa era una delle molte forme di coprirsi nel subcontinente
e nel sudovest asiatico che si è trasformata in una convenzione
che simbolizza la modestia e la rispettabilità delle donne. Il burqa,
come altri modi di "coprirsi", ha in molti contesti marcato una
separazione simbolica tra la sfera maschile e quella femminile,
come parte della generale associazione delle donne con la
famiglia e la casa e non con lo spazio pubblico in cui gli stranieri
si mescolavano.
Venti anni fa, l'antropologa Hanna Papanek (1982), che lavorò in
Pakistan, descrisse il burqa come un "isolamento portatile". Notò
che molti lo vedevano come un'invenzione liberatoria perché
permetteva alle donne di uscire dalla loro segregazione,
osservando al contempo le prescrizioni morali basilari di separare
e proteggere le donne dagli uomini non imparentati. Da quando
mi imbattei nella sua espressione "isolamento portatile",
incominciai a pensare queste vesti avvolgenti come "dimore
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coprono le loro teste e velano le loro facce ai simili) o le sorelle
musulmane in Pakistan.
Persino The New York Times ha pubblicato un articolo sulle
donne afgane rifugiate in Pakistan che mirava ad istruire i lettori
relativamente a questa varietà locale (Fremson 2001). L'articolo
descrive e ritrae qualsiasi cosa, dal recente burqa-icona con le
fessure per gli occhi ricamate, che una donna Pashtun spiegava
essere il vestito appropriato per la sua comunità, agli ampi veli
chiamati chador, ad il nuovo vestito islamico battezzato hijab da
chi lo indossa. Coloro che generalmente indossano questo nuovo
abito islamico sono generalmente studentesse indirizzate a
carriere professionali, specialmente in medicina, esattamente
come le loro controparti egiziane o malesi. Una di quelle che
indossava gli ampi veli era una preside di scuola; l'altra era una
povera commerciante ambulante. Le parole della giovane
commerciante erano, "se lo facessi [indossare il burqa] i rifugiati
mi prenderebbero in giro perché il burqa è per 'le donne di buona
famiglia' che stanno a casa" (Fremson 2001: 14). Si mette qui in
luce lo status locale associato al burqa - è per donne rispettabili
che vengono da buone famiglie che non sono costrette a vivere
facendo le commercianti ambulanti.
Il giornale inglese The guardian pubblicò un intervista nel
gennaio 2002 alla Dr. Suheila Sikkiqi, uno stimato chirurgo che
ha il grado di luogotenente generale nei corpi paramedici afgani
(Goldenberg 2002). Una donna sulla sessantina che veniva da una
famiglia altolocata e che, come sua sorella, aveva studiato.
Differentemente dalla maggior parte delle donne della sua classe,
lei scelse di non andare in esilio. È presentata nell'articolo come
"la donna che si oppose ai talebani" perché si rifiutò di indossare
il burqa. Ne aveva fatto una condizione per ritornare al suo posto
di direttore del maggior ospedale quando i talebani arrivarono
all'inizio del 1996; appena otto mesi dopo fu licenziata assieme
alle altre donne. Siddiqi è descritta come magra, elegante e sicura
di sé. Eppure più avanti nell'articolo si nota come i suoi grigi
capelli vaporosi sono coperti da un velo trasparente. Nonostante
si sia rifiutata di indossare il burqa, infatti, non aveva alcun
problema ad indossare lo chador o il velo.
Infine, bisogna prendere in considerazione un punto cruciale
riguardo al velo. Non ci sono solo differenti modi di coprirsi, che
hanno diversi significati nelle comunità in cui sono messi in
pratica, ma anche l'atto di coprirsi in sé non deve essere confuso,
o inteso, come un'incapacità di agire. Come ho sostenuto nella
mia etnografia su una comunità beduini in Egitto tra la fine degli
anni '70 e degli '80 (1986), tirarsi il velo nero sulla faccia di fronte
ad anziani stimati è considerato un atto volontario fatto da donne
che sono profondamente attente alla loro condotta morale e ad
avere un senso dell'onore legato alla famiglia. Uno dei modi di
mostrare la loro condizione è quello di coprirsi le facce in
determinati contesti. Sono loro a decidere nei confronti di chi è
appropriato velarsi.
Per citare un caso decisamente differente, il vestito islamico
moderno, che molte donne istruite nel mondo musulmano hanno
incominciato ad indossare dalla metà del 1970 in poi, simboleggia
pubblicamente la devozione religiosa e può essere letto come un
segno della ricercatezza colta urbana, una sorta di modernità (e.g.,
Abu-Lughod 1995, 1998; Brenner 1996; El Guindi 1999;
MacLeod 1991; Ong 1990). Come Saba Mahmood (2001) ha così
brillantemente mostrato nella sua etnografia sulle donne nei
movimenti politici legati alle moschee in Egitto, questo nuovo
tipo di vestito è anche percepito, da molte delle donne che
l'adottano, come parte di uno strumento corporeo per coltivare la
virtù, il risultato del loro desiderio proclamato di essere vicino a
Dio.
Due punti emergono da questa discussione decisamente
fondamentale sui significati del velo nel mondo musulmano
contemporaneo. Innanzitutto, bisogna abolire l'interpretazione
riduttiva del velo come la quintessenza della schiavitù delle
donne, anche qualora si sia contrari alla sua imposizione, come in
Iran o con i talebani. (Si deve ricordare che i moderni stati della
Turchia e dell'Iran hanno all'inizio del secolo scorso abolito il velo
e preteso che gli uomini, eccetto gli ecclesiastici, di adottare abiti
occidentali). Cosa si intende per libertà se si accetta la premessa
fondamentale che gli uomini come esseri sociali, crescono
necessariamente all'interno di certi contesti sociali e storici ed
appartengono a determinate comunità che modellano i loro
desideri e la loro comprensione del mondo? Denunciare
semplicemente il burqa come un'imposizione medioevale non è
forse una grossa violazione delle ragioni proprie delle donne su
quello che stanno facendo? In oltre, si deve fare attenzione a
ridurre le diverse situazioni e l'atteggiamento di milioni di
musulmane a un singolo capo di vestiario. Forse è tempo di
abbandonare l'ossessione occidentale per il velo e concentrarsi su
qualche problema serio per il quale le femministe ed altri
dovrebbero invece essere coinvolti.
In definitiva, l'importante problema politico ed etico che il burqa
solleva è come rapportarsi all'"altro" culturale. Come si deve
trattare la differenza senza accettare la passività sottesa al
relativismo culturale per cui gli antropologi sono giustamente
famosi - un relativismo che sostiene che è la loro cultura e che non
è affar mio giudicare o interferire, ma solo provare a capire. Il
relativismo culturale è certamente un miglioramento rispetto
all'etnocentrismo e al razzismo, all'imperialismo culturale e
all'arroganza che lo sottende; il problema però è che è troppo tardi
per non interferire. Le forme di vita intorno al mondo sono già il
prodotto di una lunga storia di interazioni.
Voglio esplorare la questione della donna, del relativismo
culturale e del problema delle differenza da tre prospettive.
Innanzitutto, voglio considerare come le antropologhe femministe
(soprattutto quelle intrappolate in questa imbarazzante relazione,
come Strathern [1987] ha sostenuto) devono comportarsi con
questi intimi compagni politici. Mi sono spesso sentita combattuta
quando ricevevo le petizioni via posta elettronica che circolavano
negli ultimi anni in difesa delle donne afgane sotto i talebani. Non
condividevo il dogmatismo dei talebani; non sostengo
l'oppressione delle donne. Ma l'origine di questa campagna
mediatica mi preoccupava. Generalmente non mi trovo in
compagnia di simili celebrità holliwoodiane (vedi Hirschkind and
Mahmood 2002). Non ho mai ricevuto una petizione da parte di
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queste donne per difendere il diritto delle donne palestinesi alla
sicurezza contro il bombardamento israeliano o gli abusi
quotidiani ai checkpoint, per chiedere agli Stati Uniti di
riconsiderare il loro supporto per un governo che li ha spogliati,
privati del lavoro e dei diritti di cittadinanza, negato le libertà più
basilari. Forse però alcune di queste stesse persone potrebbero
firmare petizioni per salvare le donne africane dall'amputazione
dei genitali, o le donne indiane dal divenire corredi funerari. Ad
ogni modo, non penso che sarebbe stato talmente facile mobilitare
così tante donne americane ed europee se non si fosse trattato di
uomini musulmani che opprimevano donne musulmane, "women
of cover" verso le quali possono essere dispiaciute e nei confronti
delle quali possono sentirsi compiaciutamente superiori. La diva
televisiva Oprah Winfrey ospiterebbe le "Donne in nero", il
gruppo di donne pacifiste di Israele, come fece la RAWA,
l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell'Afghanistan, cui
fui anche attribuito il premio Galmour Magazine di donne
dell'anno? Chi siamo per fare dei "Reality Tours" post-talebani
come quelli pubblicizzati su internet dal Global Exchange per
marzo 2002 con il titolo "Coraggio e tenacia: una delegazione di
donne in Afghanistan"? La logica di un tour da 1400 dollari è che
"con la rimozione del governo talebano, le donne afgane, per la
prima volta negli ultimi dieci anni, hanno l'opportunità di
reclamare i diritti umani fondamentali e determinare il loro ruolo
di cittadine alla pari, partecipando alla ricostruzione della loro
nazione." L'obiettivo del tour, per celebrare la Settimana
Internazionale della Donna, è "sviluppare una consapevolezza
delle preoccupazioni e delle problematiche che le donne afgane
incontrano così come testimoniare il cambiamento delle
condizioni politiche, economiche e sociali che hanno creato
nuove opportunità per le donne dell'Afghanistan" (Global
Exchange 2002).
Essere critici nei confronti di questa celebrazione dei diritti delle
donne in Afghanistan non significa giudicare ogni organizzazione
locale di donne, come la RAWA, i cui membri hanno
coraggiosamente lavorato dal 1977 per un Afghanistan laico e
democratico in cui i diritti umani delle donne fossero rispettati
contro i regimi conservatori supportati dall'Unione Sovietica,
dagli Stati Uniti, dall'Arabia Saudita e dal Pakistan. La loro
documentazione degli abusi ed il loro lavoro nelle cliniche e nelle
scuole è stato estremamente importante.
Si tratta anche di non biasimare le campagne che denunciano le
agghiaccianti condizioni cui i talebani sottopongono le donne. La
campagna Feminist Majority ha aiutato a bloccare un accordo
segreto su un oleodotto tra i talebani e la multinazionale
statunitense Unocal, che stava andando avanti con il supporto
dell'amministrazione americana. Le campagne femministe
occidentali non devono essere confuse con le ipocrisie del nuovo
femminismo coloniale di un presidente repubblicano che non è
stato eletto per le sue posizioni progressiste sulle questioni
femministe o di un'amministrazione che ha minimizzato il
terribile record di violenze sulle donne da parte degli alleati degli
Stati Uniti nell'Alleanza del Nord, come hanno documentato, tra
gli altri, Human Rights Watch e Amnesty International. Stupri e
aggressioni erano diffusi durante il periodo degli scontri che
devastarono l'Afghanistan ben prima che i talebani arrivassero per
restaurare l'ordine.
L’importante, comunque, è suggerire che bisogna osservare da
vicino ciò che si sostiene (e cosa non si sostiene) e pensare
attentamente al motivo. Come si dovrebbe gestire la problematica
politica ed etica di trovarsi d'accordo con coloro con cui
normalmente non si è? Non so quante femministe che si
compiacciono di salvare le donne afgane dai talebani si battano
anche per una redistribuzione globale della ricchezza o
contemplino la possibilità di ridurre drasticamente i loro consumi
affinché gli africani o le donne afgane possano avere una qualche
possibilità di ottenere ciò che credo debba essere un diritto
universale: il diritto alla libertà dalla violenza strutturale
dell'ineguaglianza globale e dalle devastazioni della guerra, il
diritto quotidiano di avere abbastanza da mangiare, avere case per
le proprie famiglie in cui vivere e prosperare, avere possibilità di
fare vite dignitose affinché i loro figli possano crescere ed avere
la forza e la sicurezza di scegliere, all'interno delle loro comunità
e con chi vogliano, stili di vita che potrebbero benissimo
includere il cambiamento nei modi in cui queste comunità sono
organizzate.
Sospettare questi intimi compagni è solo un primo passo; non ci
darà un modo di pensare più positivo su cosa fare o da che parte
stare. Per questo abbiamo bisogno di affrontare due questioni
principali. Innanzitutto, l'accettazione della possibilità della
differenza. Si tratta solo liberare le donne afgane per renderle
simili a noi o potremmo dover riconoscere che anche dopo la
"liberazione" dai talebani, potrebbero volere cose differenti da
quelle che noi vorremmo per loro? Cosa facciamo per questo? In
secondo luogo, è necessario essere vigili rispetto alla retorica di
salvare le persone, per cogliere ciò che è sotteso nei nostri
atteggiamenti.
Ancora, quando parlo di accettare le differenze, non sto
insinuando che ci si dovrebbe rassegnare ad abbracciare un
relativismo culturale che giustifichi qualsiasi cosa che succede
altrove come "tipico della loro cultura". Ho già discusso il
pericolo di queste spiegazioni "culturali": le "loro" culture sono
parte della storia e di un mondo interconnesso esattamente come
lo sono le nostre. Ciò che sto sostenendo è la fatica di riconoscere
e rispettare le differenze, esattamente come prodotti di storie
diverse, come espressioni di desideri differentemente strutturati.
Noi possiamo volere la giustizia per le donne ma possiamo
accettare che potrebbero esserci idee differenti riguardo alla
giustizia e che queste donne diverse potrebbero volere, o
scegliere, futuri diversi da quelli che noi consideriamo migliori
(vedi Ong 1988)? Dobbiamo considerare che queste donne
potrebbero essere richiamate all'attenzione dell'umanità, così per
dire, per mezzo di un linguaggio differente.
I rapporti della conferenza di pace di Bonn tenutasi alla fine di
novembre per discutere la ricostruzione dell'Afghanistan
rivelarono differenze significative tra le poche donne afghane
femministe e attiviste presenti. La posizione della RAWA era di
rifiutare qualsiasi approccio conciliatore nei confronti del
6
ACHAB
governo islamico. Secondo un rapporto che lessi, la maggior parte
delle donne attiviste, specialmente quelle che vivono in
Afghanistan, coscienti delle realtà del terreno, concordavano sul
fatto che l'islam sarebbe dovuto essere il punto di partenza per la
riforma. Fatima Galiani, un consigliere statunitense di una delle
delegazioni, affermava "se io oggi vado in Afghanistan e chiedo
alle donne di appoggiarmi con la promessa di portar loro la laicità,
queste mi manderanno sicuramente all'inferno". Invece, secondo
un rapporto, la maggior parte di queste donne si inspiravano nella
loro lotta per l'eguaglianza ad un posto che potrebbe sembrare
sorprendente: consideravano l'Iran come il paese in cui le donne
ottenevano vittorie in un contesto islamico, in parte attraverso un
movimento femminista filo-islamico che sfidava le ingiustizie e
reinterpretava la tradizione religiosa.
La situazione in Iran è essa stessa soggetto di un 'acceso dibattito
tra i circoli femministi, specialmente tra le femministe iraniane in
Occidente (per esempio, Mir-Hosseini 1999, Moghissi 1999,
Najmabadi 1998, 2000). Non è chiaro se e in che modo le donne
abbiano ottenuto vittorie o se i grandi progressi nel campo
dell'alfabetizzazione, della riduzione del tasso di natalità, della
presenza delle donne nel campo professionale e nel governo, edun
fiorente femminismo in aree culturali quali la scrittura e la regia,
si abbiano grazie o malgrado alla costituzione di una Repubblica
islamica. Anche il concetto di un femminismo islamico è in sé
controverso. Si tratta di un ossimoro o si riferisce ad un
movimento possibile, formato da donne coraggiose che vogliono
una terza via?
Una delle cose riguardo alle quali è necessario essere il più attenti
possibile quando si pensa al femminismo del terzo mondo e al
femminismo in diverse parti del mondo musulmano, è come non
cadere nella polarizzazione che pone il femminismo dalla parte
dell'Occidente. Ho scritto riguardo al dilemma incontrato dalle
femministe arabe quando le femministe occidentali intraprendono
campagne che espongono le prime all’accusa di tradimento da
parte di conservatori di vario tipo, sia islamici che nazionalisti.
(Abu-Lughod 2001) Come alcuni, tra cui Afaseneh Najmabadi,
sostengono, non solo è sbagliato guardare la storia in modo
semplicistico, in termini di un'opposizione putativa tra Islam e
Occidente (come oggi sta succedendo negli Stati Uniti ed è
successo parallelamente nel mondo musulmano), ma è anche
strategicamente pericoloso accettare questa opposizione culturale
tra Islam e Occidente, tra fondamentalismo e femminismo, perché
le numerose persone che nei paesi musulmani stanno cercando di
trovare alternative alle ingiustizie attuali, quelli che potrebbero
voler rifiutare di fare un taglia e incolla da differenti storie e
culture, coloro che non accettano che essere femminista significhi
essere occidentale, saranno sotto pressione nel scegliere, proprio
come lo siamo noi: siete con noi o contro di noi?
Quello che voglio ricordare è di essere coscienti delle differenze,
rispettosi delle strade altrui verso un cambiamento sociale che
potrebbe offrire alle donne vite migliori. Può esistere una
liberazione che sia islamica? E, inoltre, è la liberazione stessa un
obiettivo per cui tutte le donne o la gente si batte?
L'emancipazione, l'eguaglianza e i diritti sono parte di un
linguaggio universale che dobbiamo usare? Per citare Saba
Mahmood, che scrive sulle donne che cercano di diventare pie
musulmane in Egitto,
"il desiderio di libertà e liberazione è un desiderio storicamente
situato, la cui forza motivazionale non può essere assunta a priori
ma si deve riconsiderare alla luce di altri desideri, aspirazioni e
capacità che ineriscono in un soggetto culturalmente e
storicamente situato" (2001:223).
In altre parole, altri desideri possono essere più significativi per
gruppi di persone differenti? Vivere in famiglie vicine? Vivere in
modo pio? Vivere senza guerra? Io ho lavorato sul campo in
Egitto per più di 20 anni e non posso pensare ad una singola
donna che conosco, dalla più povera contadina alla più educata
cosmopolita, che sia mai stata invidiosa delle donne statunitensi,
donne che loro tendono a percepire come prive di comunità,
vulnerabili alle violenze sessuali ed alla sregolatezze sociali,
guidate dal successo individuale piuttosto che dalla moralità, o
stranamente irrispettose di Dio.
Mahmood (2001) ha fatto notare una cosa inquietante che accade
quando qualcuno sostiene il rispetto di altre tradizioni. Lei nota
che sembra esserci una differenza nelle richieste politiche fatte a
coloro che lavorano su o stanno cercando di capire musulmani e
islamici e coloro che lavorano su progetti laico-umanisti. Lei, che
studia il movimento religioso in Egitto, è consistentemente spinta
a denunciare tutti i danni causati dai movimenti islamici nel
mondo, altrimenti viene accusata di essere un apologeta. Ma non
sembra mai esservi una richiesta parallela per quelli che studiano
l'umanesimo laico ed i suoi progetti, nonostante le terribili
violenze che gli sono state associate negli ultimi due secoli dalle
guerre mondiali al colonialismo, dai genocidi allo schiavismo. è
necessario riporre poca fiducia nell'umanesimo laico così come
nell'islamismo, ed è invece necessario aprire la mente alle
complesse possibilità' di progetti umani, intrapresi in una
tradizione come nell'altra.
Oltre la retorica della salvezza
Torniamo, infine, al mio titolo: "Le donne musulmane hanno
bisogno di essere salvate?" La discussione su cultura e velo e su
come si possano attraversare le secche della differenza culturale
dovrebbe porre l'auto-compiacimento di Laura Bush per il giubilo
delle donne afgane liberate sotto una luce differente.
È profondamente problematico dipingere la donna afgana come
qualcuno che ha bisogno di essere salvato. Quando si salva
qualcuno si sottintende che lo si sta salvando da qualcosa. Lo si
sta anche salvando per qualcosa. Quali violenze implica questa
trasformazione e quali presunzioni sottendono alla superiorità di
ciò per cui lo si sta salvando?
I progetti di salvare altre donne dipendono da e rinforzano il
senso di superiorità degli occidentali, una forma di arroganza che
merita di essere sfidata. Tutto ciò che si deve fare per apprezzare
la qualità condiscendente della retorica della salvezza delle donne
è immaginare di usarla oggi negli Stati Uniti nei riguardi dei
gruppi svantaggiati come le donne afro-americane o le donne
della classe operaia. Adesso le consideriamo come sofferenti di
7
ACHAB
una violenza strutturale. Siamo diventati politicizzati per quanto
riguarda la razza e le classi ma non per quanto riguarda la cultura.
Come antropologi, femministe o cittadini preoccupati, dobbiamo
essere cauti nel calarci nei panni di quelle donne missionarie
cristiane del XIX secolo che dedicarono le proprie vite a salvare
le loro sorelle musulmane. Uno dei miei documenti preferiti di
quel periodo è una raccolta chiamata Nostre sorelle musulmane, i
verbali di una conferenza di donne missionarie tenutasi al Cairo
nel 1906 (Van Sommer e Zemmer, 1907). Il sottotitolo del libro è
Un grido di bisogno dalle terre del buio interpretato da coloro
che l'hanno sentito. Parlando dell'ignoranza, della reclusione,
della poligamia e del velo che importunavano le vite delle donne
nel mondo musulmano, le donne missionarie parlavano della loro
responsabilità nel fare sentire queste voci di donne. Come afferma
l'introduzione,
"loro non piangeranno mai per se stesse poiché sono sotto il
giogo di secoli di oppressione" (Van Sommer e Zemmer,
1907:15).
"Questo libro" - così comincia - "con la sua triste e reiterata
storia di ingiustizia e oppressione è un'accusa ed un appello...È
un appello alla femminilità cristiana a corre g g e re queste
ingiustizie ed illuminare questo buio attraverso il sacrificio e il
supporto" (Van Sommer e Zemmer, 1907:5).
Oggi si possono sentire strani echi dei loro scopi virtuosi, anche
se il linguaggio è laico, negli appelli non a Gesù' ma ai diritti
umani o all'Occidente liberale. Il persistente valore di tale
linguaggio simbolico e tali sentimenti può essere visto nel loro
schierarsi per cause umanitarie assolutamente buone. Nel febbraio
2002, ricevetti un invito ad un ricevimento in onore di un network
medico-umanitario internazionale chiamato Médecins du
Monde/Medici del mondo (MdM). Sotto il patrocinio
dell'Ambasciatore degli Stati Uniti, il capo della delegazione della
Commissione Europea alle Nazioni Unite ed un membro del
Parlamento Europeo, il cocktail era per la presentazione di una
mostra fotografica sotto il banale titolo di "Donne afghane: dietro
il velo". L'invito era rilevante non solo per la vivace fotografia di
donne in svolazzanti burqa che camminavano attraverso le aride
montagne dell'Afghanistan ma anche per la didascalia di cui vi
cito un passaggio:
Per 20 anni MdM si è battuto senza tregua per aiutare coloro che
sono più vulnerabili. Tuttavia, sempre più spesso, dei veli coprono
le vittime della guerra. Quando i talebani andarono al potere nel
1996, le donne afgane divennero senza volto. Svelare la faccia
di una (donna) mentre riceveva cure mediche significava
raggiungere una sorta di intimità, trovare un breve spazio di
libertà segreta e recuperare un poco della sua dignità. In un
paese in cui le donne non hanno accesso alle cure mediche di
base perché non hanno il diritto di apparire in pubblico, dove le
donne non hanno il diritto di eserc i t a re la medicina, il
programma di MdM restò in piedi come tenace memento dei
diritti umani....Per favore, unitevi a noi nell'aiutare ad alzare il
velo.
Nonostante non possa qui riprendere la questione delle fantasie di
intimità legate al togliere il velo, fantasie reminiscenti
l'ossessione coloniale francese così brillantemente smascherata da
Alloula in The Colonial Harem (1986), posso chiedere perché
progetti umanitari e discorsi sui diritti umani nel XXI secolo
abbiano bisogno di basarsi su tali costruzioni delle donne
musulmane.
Non potremmo lasciare i veli e le vocazioni di salvare gli altri
dietro di noi ed invece preparare la nostra comprensione sul modo
in cui rendere il mondo un posto più giusto? La ragione per cui il
rispetto della differenza non deve essere confuso con il
relativismo culturale è che ciò non preclude il domandarsi come
noi, che viviamo in questa privilegiata e potente parte del mondo,
possiamo analizzare le nostre proprie responsabilità per le
situazioni in cui altri, in posti lontani, si sono trovati. Noi non
siamo fuori dal mondo, a vigilare su questo mare di benedetta
povera gente, che vive nell'ombra, o velo, di culture oppressive;
noi siamo parte del mondo. Gli stessi movimenti islamici sono
comparsi in un mondo formato dall'intenso impegno delle potenze
occidentali nelle vite dei medio-orientali.
Un approccio più produttivo, mi sembra, è quello di chiedersi
come possiamo contribuire a rendere il mondo un posto più
giusto. Un mondo non organizzato in base a forze armate
strategiche ed esigenze economiche; un luogo in cui certi tipi di
forze e di valori che noi riteniamo ancora importanti possano
avere un interesse e dove ci sia la pace necessaria per le
discussioni, i dibattiti e le trasformazioni che avvengono nelle
comunità. Dobbiamo domandarci a quale genere di condizioni del
mondo possiamo contribuire per far si che tali volontà popolari
non vengano (sovra)determinate dalla schiacciante sensazione di
sentirsi indifesi di fronte alle forme di ingiustizia globale.
Laddove cerchiamo di essere attivi negli affari di posti lontani,
possiamo fare lo stesso con lo spirito di supportare quelli i cui
obbiettivi nelle proprie comunità sono di rendere le vite delle
donne (e degli uomini) migliori (come Walley ha sostenuto
riguardo alle pratiche di mutilazione genitale in africa [1997])?
Possiamo usare un linguaggio più egualitario di alleanze,
coalizioni e solidarietà al posto che la salvezza?
Anche la RAWA, l'ormai celebre Revolutionary Association of
the Women of Afghanistan (Associazione rivoluzionaria delle
donne dell'Afghanistan), che era così strumentale nel portare
all'attenzione delle donne statunitensi gli eccessi dei talebani, si è
opposta sin dall'inizio ai bombardamenti statunitensi. Non ci
vedeva la salvezza delle donne afgane ma sofferenze e perdite
maggiori. Si è a lungo appellata al disarmo ed alle forze di pace.
I portavoce rimarcano i pericoli di confondere i governi con le
persone, i talebani con afgani innocenti che saranno i più
danneggiati. Essi ricordano ripetutamente al pubblico di osservare
da vicino i modi in cui le politiche sono state organizzate intorno
a interessi petroliferi, all'industria delle armi, e al traffico
internazionale di droga. Non sono ossessionati dal velo, anche se
sono i femministi più radicali che lavorano per una democrazia
laica in Afghanistan. Sfortunatamente, solo i loro messaggi sugli
eccessi dei talebani sono stati sentiti, anche se il loro criticismo
nei confronti di quelli al potere in Afghanistan ha incluso regimi
precedenti. Un primo passo nel sentire il loro messaggio più
8
ACHAB
ampio, è quello di rompere con il linguaggio di culture aliene, o
per capirle o per eliminarle. Il lavoro missionario e il femminismo
coloniale appartengono al passato. Il nostro compito è di
analizzare criticamente cosa possiamo fare per aiutare a
creare un mondo in cui quelle povere donne afgane, per le
quali "i cuori di quelle nel mondo civilizzato si spezzano"
, possano avere vite sicure e dignitose.
(Traduzione di Luigi Achilli)
*Lila Abu Lughod, Dipartimento di Antropologia, Columbia
University, New York, NY 10027
Versione originale:.
Lila Abu-Lughod (2002) "Do Muslim Women Really Need
Saving?", Anthropological Reflections on Cultural Relativism
and Its Others, American Anthropologist, 104 (3), 783–790.
Note
Ringraziamenti. Voglio ringraziare Page Jackson, Fran MasciaLees, Tim Mitchell, Rosalind Morris, Anupama Rao, ed il
pubblico del simposio "Reagire alla guerra" sponsorizzato dal
Columbia University's Insitute for Research on Women and
Gender (in cui presentai una versione precedente) per gli utili
commenti, referenze, appunti ed incoraggiamenti.
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ACHAB
D oss i e r
De genere
Introduzione
Il seminario
di Claudia Mattalucci e Barbara Pinelli
Questo dossier è nato da un’esperienza seminariale di quasi due
anni tenutasi presso l’Università di Milano-Bicocca, che ha
coinvolto dottorande/i, docenti, assegniste e laureate in
antropologia con il desiderio di mettere in comune i propri
percorsi di studio e di ricerca e di ragionare insieme su che cosa
significasse assumere una prospettiva di genere. Con scadenza
quindicinale abbiamo errato attraverso la letteratura
antropologica e la critica femminista, discutendo a partire da
testi di volta in volta proposti dalle/i partecipanti. Tre incontri
hanno accolto un’iniziativa più formale pensata per i dottorandi
in Antropologia della contemporaneità e delle converg e n z e
culturali in cui, sempre a partire da alcune letture, abbiamo
discusso di “genere e istituzioni”, “genere e riproduzione” e
“genere e lavoro”. Ad eccezione di questi incontri la
partecipazione al seminario è stata quasi esclusivamente
femminile. Per leggere questo dato è d’obbligo tenere presente
che la scelta tra le iniziative proposte in università dipende,
oltre che dall’interesse, da impegni lavorativi, di ricerca e
familiari. Ci è tuttavia sembrato che la selezione sia stata
ugualmente orientata da una precomprensione diffusa che
identifica ancora il genere con un tema più che con una
prospettiva e assegna l’interesse per il genere a soggetti altri
rispetto al maschile.
Coinvolte e forse conquistate dalle parole dei nostri incontri,
abbiamo spesso sovrapposto ricerche, libri, esperienze,
passioni individuali e condivise. All’inizio infatti avevamo
chiaro solo qualche punto di partenza. Ci interessava quello
spazio da cui ogni persona, partendo dall’esperienza del suo
genere e del suo corpo sessuato, legge e accede al mondo.
Cercavamo uno strumento per guardare sotto alla realtà delle
nostre ricerche; per interrogarci su quello spazio posizionato,
fisico e sociale, da cui si guarda il mondo e da cui, viceversa, il
mondo guarda a noi. Più di una sensibilità, qualcosa che ci
tocca da vicino, che tocca da vicino le nostre ricerche, le
esperienze di campo, la nostra scrittura. Qualcosa da cui non si
può prescindere, o comunque di non trascurabile. Un punto di
partenza per noi obbligatorio che ci avrebbe portate altrove.
Dire angolatura, luogo specifico o posizionamento non
significa dire immobilità. Piuttosto eccentricità. Il soggetto
eccentrico, caro alla riflessione femminista, è un “soggetto che
contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo
interpellano, e al medesimo tempo soggiace e sfugge alle
proprie determinazioni sociali. Un soggetto capace di
d i s a ffiliarsi dalle sue stesse appartenenze e conoscenze
acquisite” (de Lauretis 1999:8), critico verso le posizioni
dominanti e minoritarie con pretese egemoniche.
Genere non è un concetto lineare, che lascia tranquillo il
mondo. Al contrario, fa emergere le gerarchie di posizioni e le
subalternità. Abbiamo ripensato al genere come pensiero della
differenza o della costruzione della differenza; ancora di più,
come modo per comprendere come queste differenze, una volta
assunta forma reale, si esprimano in gerarchie. Abbiamo
discusso di come la prospettiva di genere guardi al potere quasi
sempre da posizioni subalterne o marginali, senza confonderle
con posizioni di vittime. Come sguardo sul mondo, questa
prospettiva è consapevole che il potere dipende sempre da che
parte lo si guarda. Come metodologia, consente di cogliere
aspetti del potere sconosciuti a chi guarda le sue dinamiche solo
dalla parte del dominio. “Questo mio modo di vedere il mondo
è sconosciuto agli oppressori”, scriveva bell hooks (1998:68), e
anche a chi, pur andando a cercare nel margine, rimane
coinvolto solo dalla prospettiva dell’oppressore. Il genere,
infine, è anche una grammatica, perché è attento ai modi di
rappresentare e costruire categorie, consapevole che queste
operazioni sono sempre operazioni di potere.
Abbiamo dedicato molto tempo alla decostruzione del termine
genere. Ci siamo ripetute che genere è cosa ben diversa da
donna/donne, ed è invece un sistema di relazioni, un principio
strutturante il mondo, un elemento imprescindibile nella
costruzione delle soggettività. Abbiamo ripreso fra le mani
scritti quasi classici come il testo Chandra Mohanty (1988) e
visto che la subalternità, come il potere, non è una categoria ma
una stratificazione di posizioni e che il potere risulta
diversamente distribuito anche fra soggetti marginali. Esistono
10
ACHAB
D oss i e r
De genere
diversi modi di essere soggetti femminili e disparità di potere
fra donne. La stessa relazione fra antropologhe e soggetti della
ricerca che si instaura sul campo ne è testimone. Autrici come
Gayle Rubin (1975) e Judith Butler (1996) ci hanno aiutate ad
includere tra gli assi di discriminazione non solo la razza, la
classe sociale, il capitale economico e simbolico ma anche
l’orientamento sessuale e ad interrogarci sull’instabilità e
sull’inconsistenza delle categorie di maschile e del femminile.
Abbiamo letto Barbara Duden (2003) e fatto amara chiarezza
sulle tirannie che toccano da vicino i nostri corpi e le nostre vite
di donne nelle società in cui viviamo. Abbiamo inoltre discusso
di posizionamento, agency, resistenza, rituale, ripetizione,
soggetto, corpi, corpi naturali e corpi culturali, poteri,
complicità e collusioni, pratiche, parole, scostamenti fra
discorsi e pratiche. Ad ogni incontro si riproponevano in chiave
diversa questi e altri temi, che chiedevano di aggiungere
elementi per definirli oppure, al contrario, una chiusura
semantica, una sintesi. Spesso, ad un certo punto della
discussione, qualcuna sosteneva che forse quel concetto era
meglio fermarlo, provare a definirlo. Capire quale pezzo stava
aggiungendo alla nostra volontà, e forse difficoltà, di definire
cosa significa avere una prospettiva di genere. Piene di
interrogativi sui luoghi sociali, politici e anche fisici che noi, i
nostri corpi occupiamo e che, a loro volta, le donne e gli uomini
coinvolti nelle nostre ricerche oppure incontrati nella
letteratura occupano, abbiamo poi compreso che non solo
cercavamo il significato del genere come prospettiva, ma che ci
chiedevamo cosa questa prospettiva ci avrebbe fatto vedere, e
in che modo ci avrebbe portate a rimettere in discussione la
teoria. E noi, cosa avremmo voluto restituire una volta fatta
nostra questa chiave di lettura? Quello che cercavamo era una
metodologia di ricerca che non spogliasse le persone delle loro
d i fferenze e storicità, capace di accettare al contrario le molte
identità e frizioni, pronta a riconoscere le differenze senza
eliderle o gerarchizzarle. Una metodologia in grado di
accompagnarci in un’avventura della contraddizione e della
complessità. Questo punto è importante per capire il contributo
che a nostro avviso l’antropologia - e ancor più nello specifico
il sapere etnografico – dà agli studi di genere, e viceversa per
comprendere che cosa una prospettiva di genere restituisce a
chi, nelle vesti di antropologa o di antropologo, cerca di
comprendere pezzi di mondo e le dinamiche delle sue
gerarchie.
Per la sua natura metodologica, l’etnografia guarda sotto ai
linguaggi dominanti (Hodgson 2001). Le relazioni che si
costruiscono sul campo e il materiale esistenziale a cui si
accede grazie a queste relazioni fanno scoprire esperienze,
parole e pratiche con cui donne e uomini sfidano le reti di
potere in cui sono coinvolte. Così, raccontano le antropologhe
femministe, l’etnografia diventa un “prisma attraverso cui
accedere e analizzare le voci, le esperienze, l’agency spesso
mute delle donne” (Hodgson 2001:17). L’etnografia non parla
della donna come categoria astratta, come un fantasma svuotato
della sua materialità e della sua storia. Parla invece di quella
donna, o di quelle donne o quegli uomini, che con le loro storie
reali e i loro corpi vivono l’esperienza di essere soggettività di
genere come qualcosa di non innocuo. Per questo motivo
abbiamo pensato di restituire, e anche di restituirci, attraverso
la scrittura alcune delle nostre esperienze etnografiche. Nello
scrivere di discorsi religiosi (Paola Abenante), rituali
(Alessandra Brivio; Federica Riva), simbolismi della natura e
del corpo (Arianna Cecconi), migrazioni (Sara Bramani; Laura
Menin), tecnologie (Sara Zambotti), arte (Fiammetta
Martegani) e retoriche di genere (Helen Ibry) ognuna è stata
pronta a cogliere il potere nelle sue diverse epifanie che le
soggettività coinvolte nelle ricerche vivevano, incorporavano,
combattevano. Questa attenzione alle manifestazioni più o
meno immediatamente visibili del potere non si è però espressa
in una narrativa della vittimizzazione delle donne incontrate.
Questa nota è importante per comprendere l’analitica del potere
e il processo di costruzione delle soggettività che abbiamo
lentamente messo a punto nei nostri incontri, senza arrivare ad
un loro completamento e lasciandole piene di dubbi e
sfumature. Nelle pagine che seguono è assente uno sguardo
romantico sulla resistenza - una parola oggi spesso abusata,
lasciata priva di una genealogia teorica e vuota di materiale
esistenziale come di esperienza. Vi è, invece, attenzione alle
soggettività, alle forme di complicità oppure di collusione al
potere, di modi di maneggiarlo, raggirarlo, subirlo. Vi sono, più
semplicemente, nomi di persona e pratiche di vita quotidiana
che mostrano il funzionamento della gerarchie.
Come donne e come antropologhe siamo consapevoli che il
potere prima di produrre forme di sovversione e resistenze,
produce marginalità. Poi la marginalità si fa o può diventare
resistente, o meglio può cercare modi, vie, pratiche, parole,
silenzi che rimuovono la subalternità, o che tentano di farlo. E
a chi sta sul campo, tocca coglierle e registrarle. Questa
metodologia si arricchisce di un doppio livello di analisi che
lega il potere alla marginalità e la marginalità alla resistenza.
Così intesa, l’analisi di genere più che parlare di forme di
resistenza e di a g e n c y, non perde di vista il funzionamento della
relazione di dominio, e anzi la esplora mostrandone la sua
dimensione più processuale e pervasiva. Carica anche delle
nostre letture e delle singole esperienze di ricerca, questa
metodologia definisce le soggettività come appartenenti ad un
genere, ma soprattutto come dipendenti dalle relazioni che si
instaurano fra generi diversi. Nello specifico di queste ricerche,
modi e livelli di socializzazione fra donne e relazioni fra ambiti
maschili e femminili hanno un peso importante. Nonostante,
inoltre, il genere sia considerato imprescindibile nel processo di
costruzione delle soggettività, altri assi di differenza vengono a
definirle. Multipositioned gendered subjectivity, è la giusta
espressione inglese a noi quasi intraducibile. Significa che ogni
soggettività assume simultaneamente e nella sua storia diverse
identità fra loro anche contraddittorie, e diversi assi di
differenza, pratiche e discorsi la attraversano e ne definiscono i
posizionamenti. Occupa, inoltre, una posizione meno chiara e
netta rispetto all’asse potere/resistenza. E’ un soggetto meno
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ACHAB
Do s si e r
De genere
puro, dice de Lauretis. Meno puro perché la relazione fra
egemonico e subalterno non è dicotomica, né polarizzata.
Consapevole che stare a margine, significa anche stare al centro
di qualcosa d’altro. Il potere diventa un sistema di oppressioni
concatenate e la soggettività di cui parliamo non è una
soggettività coesa, ferma in una posizione o in un’identità,
priva di potere. E’, al contrario, eccentrica e in possesso di un
suo sguardo sul mondo, anche quando è marginale. Allora, è
importante cogliere non solo la dimensione processuale del
potere e della costruzione delle soggettività, ma leggere come
processuale la relazione fra i due al fine di coglierne le
sfumature, i momenti di rottura, di collusione e ambiguità; i
modi con cui a vicenda si riassorbono, mostrandosi sotto altri
aspetti, senza polarizzarsi sugli estremi dominio/resistenza
I testi che seguono sono delle etnografie. Con un linguaggio
vicino all’esperienza parlano di poteri e delle loro
manifestazioni, di marginalità e sovversioni che le persone
vivono e producono per via della sessuazione dei loro corpi, dei
discorsi sui corpi e delle retoriche sui generi spesso nascoste
nei fili egemonici di altri discorsi. In alcuni casi sono il risultato
di ricerche di donne sulle donne. In altri, le autrici, prendendo
spunto dal seminario, hanno invece cercato di rileggere alcuni
elementi della propria esperienza di campo in una prospettiva
di genere. Tappe di un percorso che intendiamo portare avanti,
sono un primo tentativo di tradurre in scrittura etnografica la
riflessione collettiva sulla metodologia. Parlano di donne ma
non si fermano a questo. La prospettiva di genere va, infatti, a
cercare i segni tangibili delle esperienze, le contraddizioni e le
rotture delle soggettività e dei poteri; sa che la dinamica
gerarchica del genere, che include anche il suo sovvertimento,
è tradotta in discorsi a volte acclamati e più spesso sussurrati; è
nelle dinamiche più invisibili, nelle trame della vita quotidiana
e negli spazi più intimi.
[email protected]
[email protected]
Bibliografia
Butler Judith, 1996, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli; ed. or. 1993, Bodies that Matter: on the
Discoursive Limits of Sex, London, Routledge.
de Lauretis Teresa, 1999, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli.
Duden Barbara, 2003(2), Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, Torino, Bollati Boringhieri.
Hodgson Dorothy L., a cura, 2001, Gendered Modernities. Ethnographic Perspectives, New York, Palgrave.
hooks bell, 1998, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli; ed. or. 1991, 1992, 1994, 1996.
Mohanty Chandra Talpade, 1988, "Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses", Feminist Review, 30, pp 61-88.
Rubin Gayle, 1976, “Lo scambio delle donne: una rilettura di Marx, Engels,Lévis-Strauss e Freud”, in: DWF, pp. 23-63; ed. or. "The
Traffic of Women: Notes on the Political Economy of Sex" in R. R. Reiter, 1975, Toward an Anthropology of Women, p. 157-210.
Rubin Gayle, Butler Judith, 1994, "Sexual Traffic: An Interview," Differences, 6, "More Gender Trouble: Feminism Meets Queer
Theory", pp. 62-99.
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ACHAB
Do s si e r
De genere
Non rompere il cristallo
Voci di donne e uomini attorno alla delicatezza
di Paola Abenante
Un tempo un uomo cantava al Profeta, la pace sia con Lui, e la voce dell'uomo era piena di grazia, e il Profeta,
la pace sia con Lui, disse: abbassa la voce cantante, non rompere il cristallo1.
Un hadith attribuito al Profeta durante un viaggio nel deserto: la
carovana procede ritmata dal passo del cammello e
dall'inshad/canto di una bella voce. Il profeta teme che la forza
della voce del cantante possa frantumare come un cristallo la
delicata anima delle donne che lo accompagnano.
Un cenno alla delicatezza della donne, che si incorpora in una
convinzione naturalista: la donna è raqiqa, delicata.
L'aggettivo è sempre presente nelle parole dei confratelli e delle
consorelle che ho frequentato al Cairo nel corso della mia ricerca
sul sufismo egiziano2. Le retoriche sulla delicatezza definiscono
lo sguardo sulla donna e della donna, il ruolo del femminile nel
percorso sufi e la natura, tabia, del femminile.
Sulla delicatezza femminile, suggerita dal testo sacro, si
costruiscono discorsi che diventano senso comune e si intrecciano
con gli eventi della vita quotidiana, dando vita a pratiche e ad
azioni individuali per gestire la forza e la debolezza del
femminile3 nei rapporti sociali.
Il senso della delicatezza
Associata all'emotività femminile, la raqiqa è un indice della
necessità da parte dell'uomo di prendersi cura della donna, in
quanto l'uomo è un essere più razionale, dotato di più aql/
ragione. La donna, delicata, è maggiormente esposta al pericolo
materiale e spirituale perciò, in alcune interpretazioni radicali, è
aura, ovvero 'da nascondere', e va nascosta nella sua materialità.
Il corpo deve essere protetto con indumenti che coprano ogni sua
visibile debolezza, la voce il più possibile dissimulata.
Dal punto di vista sufi la raqiqa è piuttosto un dono di spiritualità.
La maggiore emotività femminile favorisce l’elevazione
spirituale ed è segno di un corpo interiore più sensibile rispetto a
quello maschile4. La tradizione sufi considera l'emotività come il
fondamento del cammino del mistico verso Allah, un percorso che
progredisce attraverso stadi sempre più alti di amore, mahabba. Il
rapporto con il creato è un rapporto di amore che procede
attraverso diversi stadi emotivi: miil, ovvero la predisposizione
nei confronti dell'amato; raghba il desiderio della presenza fisica;
thalab, la richiesta della presenza; ualh, la confusione mentale a
causa del costante pensiero rivolto verso l'amato; shawq, il
desiderio carico di ansia; hawa, la 'caduta' nel sentimento di
amore che porta con sé debolezza d'animo; shaghaf, la passione
che implica l'immedesimazione nei desideri dell'amato; gharam
ovvero l'amore incondizionato e infine 'ashq che implica
l'immedesimazione completa nell'amato. Tutti questi stadi
dell'amore sono presenti nella dimensione batini, ovvero
interiore, di ogni donna e uomo, pur essendo attenuati e a volte
nascosti dagli interessi sollecitati e coltivati nel mondo esteriore e
materiale dello zahir. Il cuore infatti, sede dell'amore, viene velato
dalle nafs, le anime che patiscono il materiale e attraverso cui la
donna e l'uomo si relazionano al mondo esterno. Le nafs sono
sette anime che ogni bambino sviluppa con la crescita, nel suo
relazionarsi col mondo esteriore, fenomenico e visibile, fatto di
materia e razionalità, lo zahiri5. Queste anime appesantiscono il
corpo poiché indirizzano tutta l'attenzione dell'individuo verso
scopi materiali, sollecitando le passioni corporee, i desideri o
shahawat: così il corpo si materializza nei bisogni della vita
quotidiana. La materialità del corpo costituisce un ostacolo per il
raggiungimento dell'elevazione spirituale, un ostacolo
all'emotività pura e slegata dalle passioni terrene e corporee.
La donna possiede, secondo un senso comune sotteso
dall'interpretazione del Corano, una maggiore predisposizione alla
vita emotiva perché solitamente è meno impegnata nel mondo del
lavoro e il suo h a l, ovvero la sua 'intenzione' può concentrarsi
sull'emotività piuttosto che sul mondo esteriore e sui bisogni materiali.
La donna inoltre, in quanto madre, ha in sé la predisposizione
all'immedesimazione completa, lo ‘ashq, nel creato. Dal punto di vista
delle donne e degli uomini stessi con cui ho parlato, questo significa
una predisposizione maggiore all'interiorità, al batini.
Attraverso questo discorso sull'invisibile e sull'interiore, che si
incarna nella raqiqa, i confratelli che ho frequentato ri-articolano
due concezioni predominanti nel discorso musulmano: il
significato della differenza fisica e naturale tra uomo e donna,
suggerita dalla tradizione religiosa e l'importanza del
disciplinamento corporeo nella formazione del musulmano
virtuoso. Dal punto di vista islamico il concetto di uguaglianza
tra uomo e donna non ha senso. Sulla base di alcuni versetti del
Corano e di numerosi hadith della sunna6, uomo e donna vengono
concepiti come due esseri alternativi, dal punto di vista naturale,
tabia, e dunque dal punto di vista dei loro ruolo sociali.
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ACHAB
Do s si e r
De genere
Sulla scorta di alcuni hadith, molti commentatori religiosi hanno
fondato una diffusa concezione per cui la donna è caratterizzata
da una sfera emotiva decisamente predominante rispetto a quella
razionale dell'aql.7"Le donne sono state create dalle costole" e
"sono come costole"8
sono solo due modi differenti per dire la stessa cosa. Il Profeta ha
usato una parabola per spiegare la delicatezza della natura della
donna, mettendo in evidenza che dovrebbe essere trattata in
accordo con la sua natura. La sua costituzione delicata ed emotiva
dovrebbe essere sempre tenuta a mente. Per via della debolezza
fisica, della delicatezza emotiva e della vulnerabilità delle donne,
gli uomini sono incaricati di esserne i guardiani.
"Men are appointed guardians over women, because the men
which Allah has made excel others, and because the men spend
their wealth. So virtuous women are obedient and safeguard, with
Allah's help, matters the knowledge of which is shared by them
with their husbands"9
La particolare concezione della dimensione interiore ed emotiva
della religione che si ritrova nella confraternita sufi che ho
frequentato durante questo ultimo anno al Cairo, inverte tale
dicotomia maschile-razionale versus femminile-emotivo,
cercando di sviluppare il lato emotivo e delicato dell'uomo. Una
mia conversazione con Issam, un giovane ma esperto sufi di 35
anni, a proposito di film che abbiamo visto insieme, esprime il
punto di vista di un uomo che ha sviluppato le sue sensibilità. Il
film Heya Fauda, diretto da un famoso regista egiziano, tratta la
storia di un poliziotto corrotto, che usa violenza a una donna di
cui è inverosimilmente innamorato e che da tempo lo rifiuta. Dal
film, mi dice Issam, si può comprendere come anche un uomo sia
capace di grandi sentimenti, ma anche come la materialità delle
sue passioni e gli obblighi sociali lo distolgano dal coltivarli nella
maniera corretta. Il risultato spesso si risolve in una esternazione
sbagliata di tali sentimenti. Issam mi rivolge così un invito alla
riflessione che sul momento mi lascia piuttosto perplessa. Solo
più tardi comincio a comprendere, seppure non a giustificare. Mi
spiega che non posso comprendere il significato del film se
ragiono esclusivamente sullo svolgimento lineare della trama. La
materialità degli eventi, il lato maddi, come mi dice, si può
seguire solo con la ragione, tuttavia questa non può portarmi alla
comprensione del significato profondo. Devo cogliere i segni, mi
spiega, che il protagonista lancia e che sono simboli di una
dimensione emotiva forte e ancora informe. Se il sentimento di
questo poliziotto corrotto fosse compreso e nutrito con gli
strumenti adeguati prevarrebbe sulle esigenze materiali
dell'uomo. L'obiettivo di ogni uomo è di liberarsi della propria
predominante materialità -che, attraverso uno slittamento
semantico, rappresenta anche la materialità del pensiero
razionale- e di aumentare le propria sensibilità emotiva. Ogni
mezzo è valido, compreso l'amore per una donna, per nutrire il
proprio panorama emotivo. L'emotività infatti è il fondamento
del cammino del mistico verso Allah e il discepolo, in particolare
se uomo, deve lottare per liberarsi dalle anime passionali che
rendono pesante la materia del corpo. Il materiale è il maddi che
si può comprendere attraverso la logica della parola; l'emotivo è
invece il manaui, l’immateriale, che segue una logica simbolica
dove gli eventi si comprendono empaticamente e in cui la vita
sociale procede per assonanze emotive.
Questo discorso sull'interiorità assume il suo significato
particolare nel contesto storico-politico attuale del Cairo, dove è
in corso una battaglia simbolica sulle forme della fede
musulmana. Non è questo il luogo per spiegare a fondo il contesto
sociale ma basteranno alcuni cenni per chiarire i riferimenti
concreti di questo discorso sull'interiorità e per comprendere
come si inserisca nel discorso, attualmente molto diffuso nella
sfera pubblica egiziana, riguardante il disciplinamento corporeo
del musulmano vistuoso.
L'insistenza sulla dimensione interiore/batini della fede assume
senso in contrapposizione alla definizione di una fede ostentata,
eccessiva ed esteriore e che i miei interlocutori definiscono
wahabita, in senso denigratorio. Nella società egiziana
contemporanea domina una concezione sunnita, o wahabita
secondo i sufi, dell'islam. Parte delle concezioni di questa forma
di islam vengono dall'esterno e hanno preso piede stabilmente
nella società e nella sfera pubblica egiziana a partire dagli anni
'70, ovvero da quello che viene definito il periodo Saudita. Una
forma di islam, questa, molto legata al disciplinamento esteriore
del corpo che avviene attraverso il rispetto rigido delle norme
rituali obbligatorie e super-erogatorie( volontarie); legata a
un'accortezza alla forma visibile della virtù musulmana, espressa
in particolare dagli indumenti e dalla distinzione nel
comportamento di genere. In alcune delle sue inflessioni più
radicali si oppone strenuamente al sufismo e alle sue
manifestazioni, in quanto forma eterodossa della religione. La
contrapposizione tra le due forme di islam si sviluppa attorno alla
dimensione corporea che diventa il sito su cui si pongono e si
negoziano i confini della legalità e della moralità delle pratiche
religiose10.
Shaykh Ali, un sufi che a lungo si è dedicato a spiegarmi la storia
della confraternita, è molto chiaro nel definire l'inutilità di alcune
pratiche legate a una forma esteriore e superficiale di religiosità:
… una volta parlavo con un wahabi. Gli ho detto che la sua
barba lunga era solo una forma di sunna shakliyya. Lui mi ha
risposto che lo aiutava a tenersi lontano dalle donne e dal
peccato… così gli ho risposto: in questo modo adori la tua barba,
non Allah. (enta keda btobood el daqn, msh Allah) [intervista a
Shaykh Ali, 01/2007] Questa citazione suggerisce come il
disciplinamento del corpo, in questo caso esemplificato dalla
barba lunga, elemento della sunna del Profeta quindi
comportamento consigliabile per il musulmano virtuoso, sia
considerato da Shaykh Ali uno strumento che distoglie dal vero
obiettivo della fede. È solo sunna shakliyya dice, in senso
denigratorio. Ovvero è solo una sunna legata all'apparenza, cui
non corrisponde un grado equivalente di elevazione spirituale.
Questo discorso dell' islam wahabi colonizza progressivamente la
sfera pubblica, guadagnando spazio e potere nella formazione
della moralità pubblica egiziana; la confraternita si posiziona in
questo contesto rifiutando, da un punto di vista discorsivo, la
dimensione esteriore della religione, definita in maniera
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ACHAB
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De genere
peggiorativa come shakliyya, dell'apparenza, e che si concretizza
nel disciplina visibile del corpo, a vantaggio della dimensione
interiore e emotiva, il batin, considerata come la vera dimensione
morale dell'islam.
Contemporaneamente, un secondo discorso di potere si interseca
al discorso wahabi: il discorso di potere dello stato. In relazione a
quest’ultimo, il discorso sull’interiorità veicola una seconda
necessità di distinzione da parte della fede sufi, oltre alla
distinzione sopracitata nei confronti del wahabismo. Il sufismo,
infatti, ha subito dagli anni '70 in poi una stretta normalizzatrice
da parte dello stato. Il governo di Sadat ha imposto norme allo
svolgimento dei rituali sufi per venire incontro alla nuova
moralità pubblica che cominciava a diffondersi attraverso la
da'wa (predicazione) sunnita/wahabita. La stretta legale e la
diffusione della moralità wahabita in molti ambienti della società
egiziana hanno indotto le confraternite sufi a dissimulare le
proprie pratiche. Di fronte alla necessità di dissimulare
socialmente la pratica della propria fede sufi, la confraternita
che ho maggiormente seguito ha sviluppato una retorica che,
appoggiandosi alla dicotomia zahir/batin, esteriore/interiore,
lega l'esteriore, il corporeo, la manifestazione visibile della
fede, allo zahir, considerandolo l'aspetto più superficiale
dell'islam. Per i confratelli, evitare lo zahir, il visibile e
materiale, risponde a una duplice esigenza di distinzione e di
inclusione: distinzione rispetto al wahabismo e inclusione
nella normalità imposta dallo stato attraverso la
dissimulazione delle proprie pratiche, considerate talvolta
eterodosse e immorali.
L'intrecciarsi di questi discorsi e di queste rappresentazioni
politico-religiose può essere letto attraverso una prospettiva
di genere, dove il genere diventa, in senso più ampio, uno
strumento con cui cogliere i rapporti di forza, al di là
dell'esclusivo gioco di potere eventualmente presente fra i
sessi ma che ad esso si sovrappone: l'aql, il razionale, il
maschile, il materiale, la logica della parola si sovrappongono
o meglio si confondono inscindibilmente con la sfera pubblica
e con l'islam pubblicamente diffuso e accettato, quello
sunnita/wahabita, il quale si incarna nella forma visibile del
corpo esteriore; l'emotivo, l'irrazionale, il femminile e
l'immateriale e il simbolico costruiscono la sfera interiore,
batini, sacra dell'islam sufi, la quale si dispiega invece in un
corpo interiore fatto di emotività. In questo rapporto di forza
i confratelli ripropongono tutti i rischi e la forza dirompente
propria della femminilità in molta tradizione testuale
islamica: in particolare il rischio per il sufismo di essere
definito impuro e viceversa la forza dettata dalla sua
pericolosità rispetto all'ordine sociale acquisito. Il sufismo
propone una manifestazione della religiosità che mette in
discussione le basi materiali e corporee e di genere della forma
religiosa.
Voci di uomini e il racconto della delicatezza
La raqiqa femminile, simbolo dell'interiorità e dell'emotività,
sembra acquisire, nell'ambito dei discorsi della confraternita, una
valenza simbolica che rovescia i rapporti di forza nelle relazioni
di genere.
Il discepolo sufi deve liberarsi della propria dimensione razionale
per giungere a comprendere le verità della fede. Per raggiungere
la haqiqa, la verità, il discepolo attraversa, a un livello simbolico,
una femminilizzazione in quanto inverte le dicotomie interioreesteriore, privato-pubblico, emotivo-razionale che si richiamano
tutte alla dicotomia fondamentale del femminile e del maschile
secondo molti dei commentatori del Corano11.
Contemporaneamente il discorso sulla donna attribuisce al
femminile una naturale e maggiore predisposizione al cammino
spirituale in quanto la donna è r a q i q a, delicata. La stessa
tradizione islamica viene ripresa e ri-articolata in maniera opposta
rispetto alle interpretazioni considerate dai miei interlocutori
come radicali: la debolezza, l'emotività della donna, piuttosto,
rappresentano il suo elemento di forza, in quanto le permettono di
essere naturalmente predisposta verso l'abbandono della
componente razionale a vantaggio di quella emotiva.
La donna e il femminile nel sufismo hanno, a parole, un grande
vantaggio. Ma ancora una volta siamo nel regno del discorsivo e
delle rappresentazioni. Nella concretezza delle pratiche la
differenza di genere si re-incarna. Il corpo, nonostante sia negato
dalla retorica sufi, non scompare nella pratica, piuttosto
acquisisce una posizione diversa e attorno ad esso si costruisce un
discorso alternativo rispetto alla tradizione islamica diffusa dal
wahabismo: da corpo materiale, maddi, diventa corpo interiore,
manaui, intangibile tuttavia importantissimo. Inoltre se
tralasciamo i discorsi con cui la confraternita rappresenta la
propria forma di fede e consideriamo le pratiche quotidiane, il
corpo diventa il luogo in cui si articola nuovamente quella
d i fferenza di genere che sembra invece essere sfumata nei
discorsi. La seguente descrizione delle pratiche legate al rituale
principale della confraternita servirà proprio a re-incorporare
questi discorsi.
Il rituale collettivo del giovedì, la hadra, rappresenta il momento
culminante del percorso di avvicinamento agli Shaykh, i maestri
della confraternita. Ogni settimana i confratelli praticano il dhikr,
ovvero la ripetizione del nome di Allah. Gli uomini si dispongono
a ferro di cavallo attorno ad un cantante (munshid) che intona le
qasaid, poesie mistiche scritte dal santo della confraternita, e ad
un uomo preposto a ritmare, attraverso il battito delle mani, il
canto del munshid e il dhikr corale che si leva dalle voci degli altri
uomini. Il dhikr è associato a dei movimenti del busto che oscilla
lateralmente e frontalmente. Le voci, i corpi, le mani, la
respirazione seguono un ritmo crescente che culmina in un battito
specifico e che conduce i partecipanti nel wagd, ovvero
nell'estasi. Lo scopo della hadra è di dare accesso, a coloro che vi
partecipano, al mondo del batin, dell'interiorità.
Le donne, in una stanza separata, ascoltano il suono della hadra e
pronunciano il dhikr a bassa voce dal fondo delle loro sedie. La
hadra rappresenta il climax della vicinanza agli Shaykh in quanto
il canto chiama, letteralmente, gli Shaykh per nome, invitandoli a
presiedere con il loro spirito al rituale. Così ciascuno confratello
ha la possibilità di gustare la vicinanza fisica degli Shaykh e
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ACHAB
D o ss i er
De genere
procedere speditamente nella via della scienza mistica tramite
l'incorporazione della baraka (grazia) dei santi.
Tuttavia la gestione di questo rituale deve essere attentamente
controllata, altrimenti rischierebbe di complicare notevolmente la
posizione pubblica della confraternita. È necessario che i
confratelli, così scrive lo Shaykh nello statuto della confraternita,
non si lascino andare a manifestazioni emotive non controllate
che potrebbero generarsi attraverso la hadra. La hadra ha infatti
come scopo di alleggerire la materialità del corpo attraverso la
sollecitazione della natura emotiva dei partecipanti: la hadra parla
al cuore e permette ai partecipanti di separare lo spirito sottile
dalla carne passionale. Lo spirito si eleva dal corpo ma questa
elevazione deve rispettare le norme e la guida dei direttori della
hadra e dello Shaykh. Sconsigliati se non riprovati, sono gli stati di
hal, ovvero di estasi con perdita di coscienza. Le donne, che per loro
natura, hanno un corpo più leggero e una sfera emotiva più forte, non
devono partecipare attivamente alla hadra ma limitarsi ad ascoltarla,
altrimenti si verificherebbe una separazione definitiva e pericolosa
dello spirito dal corpo. Da questo abbandono non controllato agli
stati emotivi derivano malattie dell'anima di varia entità: l'anima
potrebbe abbandonare il corpo per un periodo oppure
definitivamente, facendo 'impazzire' il fedele, oppure un eccesso
di ritualità non guidata dallo Shaykh potrebbe portare i praticanti
in contatto con i jinn12: il mondo del batin è estremamente ampio
e vario, popolato da entità spirituali di varia natura e non tutte
facilmente gestibili. Se il rapporto con il mondo del batin non è
attentamente regolato e guidato da un esperto, sempre uomo, può
aprire porte che una persona poco esperta non saprebbe gestire e
può anche capitare che venga posseduta da un jinn.
Dunque è proprio quando rientra il corpo che si manifesta nuovamente
il luogo dove si articola il potere della fede maschile sulla fede
femminile. La donna ha un percorso diverso rispetto a quello
dell'uomo all'interno della confraternita. Il suo percorso prevede
un numero inferiore di litanie da pronunciare e una dipendenza
dal marito nella gestione di tali litanie. La sua presenza al rito
settimanale, la hadra, non è indispensabile. La donna infatti ha
naturalmente un corpo più leggero e la hadra è un processo di
alleggerimento dei corpi: Mohamed, un insegnante all'interno
della confraternita, mi dice che gli uomini hanno bisogno di
defatigare il corpo per poter concentrarsi sui sentimenti, invece la
donna è naturalmente predisposta al pensiero emotivo. Il praticare
fisicamente la hadra potrebbe risultare addirittura nocivo per le
donne. La hadra ha infatti delle limitazioni concrete alla
partecipazione femminile: la donna può solo assistere da seduta,
la sua voce nel pronunciare il dhikr deve essere bassa, le è
interdetto di cantare pubblicamente, e in ultimo non deve chiudere
gli occhi quando partecipa al rito. Coloro che lo fanno sbagliano,
mi dice Mohamed, nel tentativo di imitare gli uomini.
C'è un rischio molto forte che si perdano nel mondo dei sensi.
Mi sono chiesta cosa potesse rappresentare questo rischio nella
vita quotidiana e nel corso dei miei incontri con Issam, ho avuto
una risposta che mi ha aiutata a rileggere alcuni eventi cui avevo
assistito. Issam mi dice che le donne non possono eccedere nella
vita spirituale, altrimenti corrono il rischio di abbandonare i
propri obblighi domestici per rimanere nella dimensione interiore
del batin. Il rischio è che prendano possesso della sfera
dell'immaginario, legata inscindibilmente alla crescita emotivospirituale.
Gli stadi di amore del discepolo sufi sono infatti in relazione
reciproca con la costruzione di un corpo interiore che è fatto di
nuove capacità sensoriali acquisite dal cuore e che espandono lo
spazio del sé, aprendolo all'immaginario. Questo corpo spirituale
è costituito da nuovi sensi spirituali: ogni qualvolta una nafs,
anima passionale e legata alla materia, abbandona il corpo, viene
sostituita da una nuova capacità sensoriale. Al primo livello di
amore il discepolo perde la nafs amara (che impartisce ordini) e
comincia ad acquisire, progressivamente le diverse abilità della
basira, l'occhio interiore. I diversi gradi di manifestazione sono:
ilhaam, la capacità di prevedere il fututro; manaam, la capacità di
vedere in sogno; tanuiir, kashf, fatah qarib, fatah mubiin and
fatah mutlaq che sono tutti livelli successivi di 'visione' attraverso
cui il discepolo riesce a cogliere il significato interiore-batini di
ciò che gli accade attorno. A un più alto livello di amore il
discepolo perde la nafs alluama (la nafs che dà vita al senso di
colpa) e acquisisce la samia, l'abilità di sentire con le orecchie del
cuore. Poi la nafs el mulhama (orgoglio) cede il posto alla
capacità della mutakallima, ovvero un parlare guidato dalle
emozioni. Nel momento in cui le nafs-anime passonali
abbandonano il corpo, che quindi si allontana dalla materialità dei
bisogni esteriori, gli aggettivi sensoriali come la basira (la
capacita visionaria) e la samia ( la capacità di ascoltare con le
orecchie del cuore) prendono il loro posto e completano il corpo
interiore del discepolo, ampliandone le capacità sensoriali e
ampliando di conseguenza lo spazio immaginario del sé. Tutte
queste nuove abilità sono in relazione direttamente proporzionale
con i livelli di mahabba: più alto il grado di amore, maggiore
diventa la capacità di vedere attraverso la basira, di sentire
tramite la samia e così via.
La donna, avendo una maggiore predisposizione all'emotività, in
quanto raqiqa, acquisisce più velocemente e stabilmente questi
sensi spirituali. La capacità femminile di avere visioni e
percezioni spirituali non è ostacolata dalla materialità degli
impegni mondani e lavorativi, così mi dice Issam, dunque la
donna ha un rapporto più continuo con la sua dimensione batini,
interiore. L'uomo al contrario è continuamente distratto dagli
obblighi mondani dunque continuamente riportato alla materialità
dell'esistenza esteriore. Per evitare però il rischio che questo
contatto costante col mondo spirituale, cui la donna ha accesso, la
allontani dai suoi doveri sociali di madre e di moglie, la gestione
della ritualità è dunque per lo più responsabilità degli uomini.
Voci di donne e la pratica della delicatezza
Allo stesso tempo, le pratiche legate alla gestione di questo nuovo
corpo interiore danno accesso a uno spazio dell'immaginario
spirituale che apre nuove possibilità di azione. Se ancora una
volta è l'aql (razionalità) maschile che decide i limiti della
progressione femminile e gestisce materialmente i tempi dei riti e
la fruizione dei testi scritti delle litanie, lo spazio orale o meglio
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ACHAB
D oss i e r
De genere
sensoriale, costruito attorno al corpo interiore, è fluido e aperto
alla contrattazione grazie alla sua immaterialità. Nella pratica
della ritualità, al di fuori dei contesti più strutturati, a volte alcune
donne trovano uno spazio di agency e di rovesciamento del
discorso maschile. La storia di Lamia, che racconto brevemente
qui di seguito, ne è un esempio.
Lamia è una donna di 43 anni, entrata nella confraternita da ormai
20 anni. Siamo diventate nel tempo molto amiche e mi racconta
di come abbia perso il marito due anni fa, a causa di un tumore e
di come sia solitaria la vita di una donna senza amore. Spesso al
suo ritorno dalla scuola in cui insegna musica ci troviamo a
guardare assieme film romantici e a parlare di come il suo cuore
si stia nuovamente riempiendo di amore e di come il suo senso di
solitudine stia cedendo il passo alla forza di questo sentimento.
Desidera, mi dice, sposarsi con Ahmed, un confratello molto
legato alla tariqa. Il suo amore e la sua scelta sono però osteggiati
dalla famiglia di Lamia e in modo particolare dalla madre, che da
sempre ha organizzato le relazioni sociali di tutti e tre i suoi figli.
Il netto disaccordo della madre di Lamia è dovuto
principalmente a motivazioni economiche: Ahmed è un uomo
divorziato, con due figli a carico, che non offre alcuna
garanzia e soprattutto nessuna dote.
La situazione non sembra trovare soluzione ma dopo poco scopro
che Lamia e Ahmed hanno organizzato un matrimonio per la
settimana successiva. Lamia mi descrive alcuni dei suoi sogni,
luogo di ingresso per lei e per coloro che possiedono la basira,
all'interno del mondo interiore. Durante i suoi sogni Lamia ha
avuto un contatto diretto e ravvicinato con gli Shaykh. Ha parlato
con loro, raccontando i problemi che negli incontri 'dal vivo' non
era riuscita a raccontare. Gli Shaykh, e in particolare Siti Nadia,
con cui Lamia ha un legame di amore molto forte, le hanno
risposto distintamente in sogno di non preoccuparsi, di seguire il
suo cuore poiché il matrimonio sarebbe stato una benedizione per
la confraternita in quanto avrebbe unito due persone che offrono
molti servizi alla confraternita e che assieme, i due, avrebbero
moltiplicato esponenzialmente la loro utilità. Dopo una settimana
Lamia e Ahmed si sposano con il consenso dello Shaykh; Lamia
ha trovato il coraggio di opporsi al volere della madre oltre che
alla norma consuetudinaria della dote. Attraverso le capacità
visionarie del suo nuovo corpo interiore ha sovvertito un rapporto
di forza sociale molto radicato, quello con la madre, oltre che una
norma sociale, morale e religiosa. Nell'ambito della confraternita
il matrimonio viene silenziosamente accettato.
Sulla scorta di questo come di altri esempi, si potrebbe ipotizzare
che all'interno della realtà costruita attorno alla cosmologia
spirituale si dispieghi, per Lamia, uno spazio in cui si costruisce
un'estetica della persona, nel senso di una rappresentazione di sé,
quasi di 'resistenza'. La cosmologia spirituale, incarnata nel corpo
interiore e nei suoi sensi, si presenta dunque come spazio
strutturato che fornisce i quadri concettuali per parlare di relazioni
di vicinanza, di amicizia, di amore - nei confronti degli Shaykh
come dei confratelli-, che subiscono delle censure sociali nella
vita quotidiana. Inserisco il termine 'resistenza' fra virgolette
poiché il comportamento assunto da Lamia non resiste o contrasta
con il discorso religioso costruito attorno alla femminilità.
Piuttosto Lamia inserisce le sue azioni all'interno del discorso
stesso sulla delicatezza e si rappresenta completamente all'interno
di quel ruolo/immagine di sé promosso dal modello della
delicatezza sufi. È grazie alla delicatezza del suo essere donna che
Lamia ha acquisito le capacità sensoriali e visionarie per
comunicare con gli Shaykh e con la sua dimensione emotiva, in
maniera conforme al discorso religioso della confraternita.
Infine, vorrei mettere in evidenza alcuni elementi che emergono
dall'intrecciarsi di voci, pratiche e rappresentazioni della raqiqa.
La raqiqa è un dono del carattere femminile sufi che però sembra
andare oltre le distinzioni di sesso e di genere. Taglia
trasversalmente il ruolo di donna, di figlia, di moglie, di fedele.
Rappresenta un fulcro attorno a cui si dispiegano rapporti di
potere che prendono in prestito il linguaggio e le pratiche di
genere, così come il genere è inteso attraverso la tradizione
testuale islamica. Nello spazio della sfera pubblica la raqiqa è un
elemento di debolezza politica di fronte all'avanzare dell'islam
wahabi ma allo stesso tempo di sovversione. Il sufismo
rappresenta l'elemento debole, privato, invisibile che però è
sovversivo in quanto si richiama pericolosamente
all'amore/mahabba. E l'amore è la retorica principale del carattere
nazionale dell'islam egiziano, così come lo percepiscono molte
delle persone che ho intervistato.
" L'islam in ogni paese ha delle radici - mi dice un giorno
Mohamed, sufi fuoriuscito dalla struttura delle confraternite, e
ormai autodidatta in segreto- in Egitto l'islam è entrato e si basa
sulla mahabba" [intervista a Mohamed, 02/2008].
Sovversivo ancora perché dà spazio a percezioni e usi del corpo
che sono al limite della legalità e moralità della shari 'a, così
come sono interpretate e definite dalle attuali strutture di potere.
Nello spazio della confraternita la raqiqa è un discorso e una
pratica. Le voci femminili e maschili si sovrappongono nel
definire i termini del discorso sulla delicatezza. Sia le donne che
gli uomini affermano l'emotività, la debolezza fisica, la minore
razionalità propria del carattere femminile, e sia le donne che gli
uomini agiscono seguendo il desiderio di incorporare queste
caratteristiche. Nelle pratiche, di fronte a questo desiderio, queste
stesse donne e questi stessi uomini si trovano a dover affrontare
situazioni conflittuali con varie strutture di autorità: quella statale
e della sfera pubblica, nel caso della condizione pubblica della
confraternita cui ho fatto riferimento; quella dell'istituzione
familiare, come nel caso di Lamia.
"Tuttavia questi conflitti non esistono solo come una forma di
resistenza all'autorità maschile, e pertanto non possono essere
compresi solo come tali." 13
Questi conflitti non possono essere compresi nei termini di una
politica femminista di liberazione. Per comprendere il significato
della raqiqa è necessario invece svincolarsi, come suggerisce
l'antropologa S. Mahmood, da una interpretazione binaria delle
pratiche della delicatezza nei termini di resistenza e
subordinazione. Perché questa coppia non è
"sufficientemente attenta a motivazioni, desideri e scopi che non
sono necessariamente compresi in questi termini."14
17
ACHAB
D oss i e r
De genere
Le donne e gli uomini della confraternita incarnano la raqiqa, a
differenti livelli, e la agiscono nel rispetto del rapporto di
subordinazione e di complementarità che la delicatezza incarna
nei confronti della forza maschile dello stato e dell'aql/razionalità.
Non c'è un tentativo volontario di emancipazione dai rapporti di
potere. Tuttavia, nello spazio bianco che esiste tra la parola
delicatezza e le pratiche sensoriali che nascono attorno alla
delicatezza, si articola la possibilità di declinare questo discorso
sul femminile sufi in maniera che il batin, l'interiore, abbia una
ripercussione sullo zahir, la vita sociale.
[email protected]
Note
1. Hadith numero 5857 tratto dalla collezione Sahih al-Bukhari.
Gli hadith sono i detti del Profeta.
2. La tariqa Burhaniyya è la confraternita che ho maggiormente
seguito nel corso della mia ricerca al Cairo, che si è svolta nel
2007-2008 ed è tuttora in corso. Questa confraternita è di origine
sudanese e la famiglia degli Shaykh che la dirige è sudanese. Si è
diffusa ampiamente in Egitto negli anni 70-80 ed è diffusa anche
in molti contesti europei. È molto diffusa negli ambienti della
medio-bassa borghesia e molti dei confratelli lavorano come
dipendenti statali.
3. Per femminile si intende la particolare concezione della donna
presente in molta della tradizione testuale mistica islamica e in
particolare nell'ambito di una confraternita sufi presso la quale ho
svolto la mia ricerca di campo.
4. Il corpo interiore è il corpo b a t i n i, ovvero il corpo
spirituale che è complementare al corpo esteriore e
materiale o zahiri. La dimensione del batin, come spiega
Ibn 'Arabi nelle sue Futuhat al Makkiyya, ospita un livello
intermedio di esistenza tra lo zahir, che è la
manifestazione fenomenologica del divino, ovvero il
mondo materiale come noi lo percepiamo, e il livello più
alto della luce divina. Chodkiewicz M., (a cura di), I b n
'Arabi. Les illuminations de la Mecque, Albin Michel,
Paris 1997; Corbin H. L ' i m m a g i n a z io n e c rea t r ic e . Le
ra d i c i d e l s u fi s mo , L at e rza , R o m a-B a ri 2 0 0 5 .
5. Il corpo interiore di ogni essere umano, secondo la tradizione
sufi, è composto di uno spirito, ruh, e di sette anime, nafs
appunto, che velano il cuore impedendogli di comunicare con lo
spirito. Le nafs sono propriamente dei veli che oscurano la
capacità visionaria e spirituale del cuore, ombrandolo di nero. Si
acquisiscono nel corso dell'esistenza per via del rapporto carnale
e passionale che si ha con il mondo. Attraverso la ritualità, i
discepoli progressivamente 'svelano' il cuore da questa anime,
liberandosi contemporaneamente dalle passioni carnali.
6. La sunna è la collezione dei detti e dei fatti del Profeta, che
incarnano l’esempio della virtù musulmana.
7. Valerie J. Hoffman-Ladd Polemics on the segregation and
modesty of women in contemporary Egypt “Int. J. Middle East
Stud.” 19, 1987; 23-50
8. Collezione di hadith Sahih al-Bukhari, volume 7, libro 62,
n . 113 Corano 4:35
9. Molte parte del regolamento sufi, promulgato dal Consiglio
Nazionale Sufi, dietro approvazione del governo, riguarda i
confini che le confraternite devono rispettare nella pratica dei
rituali, nella vicinanza fisica fra uomini e donne, nella stessa
espressione fisica e visibile del e pubblica del sufismo in
occasione delle celebrazioni annuali dei Santi.
Cfr. Luizard J P. Comment rationaliser l'irrationnel ou le droit
positive au secours de la mystique organisée, 1991, 5 “EgypteMonde Arabe”, Cedej, Cairo e Abenante P. La tariqa Burhaniyya:
una via dell'islam in Italia, in " Afriche e Orienti ", 3 (2004),
pp.163-171 e Misticismo islamico: riflessioni sulle pratiche di
una confraternita contemporanea, in " Meridiana ", 52 (2005),
pp.65-94
10. Lo stesso antropologo A. Hammoudi nota questa inversione
simbolica della mascolinità attraverso il percorso sufi. Poiché lo
studio di Hammoudi si svolge in un contesto completamente
diverso, non intendo porlo come esempio significativo di una
universalità di tale processo, quanto piuttosto dell'inversione
maschile femminile come strumento affermato nella retorica sufi
seppur utilizzato in maniere differenti e contestuali. Abdellah
Hammoudi Master and disciple. The cultural foundations of
Moroccan authoritarianism Univ. of Chicago Press, Chicago
1997
11. I jinn sono spiriti malevoli o benevoli che appartengono,
secondo il Corano, al panorama cosmologico dell'islam. Si
suddividono in diverse tipologie che sarebbe in questa sede
troppo lungo enumerare.
12. Mahmood S., Feminist Theory, Embodiment and the docile
Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival,
“Cultural Anthropology” 2001, 16(2), 202-236; cit. pag 208,
traduzione dell'autore
13. Ibid.
Bibliografia
Abenante P. 2004 La tariqa Burhaniyya: una via dell'islam in Italia, in " Afriche e Orienti ", 3
Abenante P. 2005 Misticismo islamico: riflessioni sulle pratiche di una confraternita contemporanea, in " Meridiana ", 52
18
ACHAB
Dossier
De genere
Abu-Lughod L. 2007 Sentimenti Velati. Onore e poesia in una società beduina Le Nuove Muse, Torino
Chodkiewicz M. 1997 (a cura di), Ibn 'Arabi. Les illuminations de la Mecque, Albin Michel, Paris
Corbin H. 2005 L'immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, Roma-Bari
Delong Bas N.J. 2004 Wahhabi Islam: from revival and reform to global jihad Oxford Univ. Press, NY
Hammoudi H. 1997 Master and disciple. The cultural foundations of Moroccan authoritarianism Univ. of Chicago Press, Chicago
Hoffman V.and Ladd J. 1987 Polemics on the segregation and modesty of women in contemporary Egypt “Int. J. Middle East Stud.”
19
Luizard J P. 1991 Comment rationaliser l'irrationnel ou le droit positive au secours de la mystique organisée, “Egypte-Monde Arabe”
5, Cedej, Cairo
Mahmood S. 2005 Politics of Piety Princeton Univ. Press, New Jersey
Mahmood S. 2001 Feminist Theory, Embodiment and the docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival, “Cultural
Anthropology” 16(2)
Moghissi H. 1999 Feminism and Islamic Fundamentalism, Zed Books, London
Cairo: manifestazione contro le parole del ministro Farouk Hosni
che nel novembre 2006 ha affermato:
hijab "is a step backward for Egyptian women" - La traduzione delle scrittte è “LHijab (il velo) è
un obbligo proprio come la salata (la preghiera quotidiana) eil digiuno (del ramadan)”
19
ACHAB
D o s si e r
De genere
L’interrelazione tra mobilità e immobilità
nell’Insediamento umano 11 di Luglio
di Sara Bramani
I n t roduzione: “Quien no quiere irse?” (Chi non vuole
andarsene?)
Una figura altrettanto paradigmatica e contemporanea del
“multiple passport holder” ( possessore di molteplici passaporti) è
quella del soggetto “stocked withouth passport” (“bloccato in
luoghi particolari”); figura, la prima, descritta dall’autrice A. Ong
nel suo testo Flexible Citizenship: The Cultural Logic of
Transnationality1.
Si può pensare ad esse quali figure paradigmatiche ai due estremi
di un’asse teorico che congiunge la “dimensione” della mobilità a
quella dell’immobilità? La questione non è semplice e così
formulata rischia di riproporre una lettura dicotomica di queste
dimensioni e di altre ad esse direttamente correlate quali: la
relazione tra locale/globale, quella tra esclusione/inclusione,
passività/ azione, centro/periferia e tradizione/modernità.
Le rappresentazioni antropologiche “dell’altro” in quanto
soggetto “aderente” a un territorio delimitato sono state oggetto di
una revisione critica all’interno della disciplina; revisione che va
posta in relazione agli importanti mutamenti avvenuti e in corso a
livello globale tra i quali il “fenomeno” dell’emigrazione
transnazionale.
Ma “l’aderenza” del soggetto a un territorio delimitato non è solo
una distorsione nelle pratiche di rappresentazione dell’altro
esotico o ancora lontano; il sogno naif dell’etnografo nello spazio
e nel tempo del suo lavoro di campo. E’ piuttosto la condizione
strutturale di molti che, per differenti ragioni storico-contestuali,
percepiscono, articolano e vivono la “localizzazione” come
impossibilità di cambiamento. Il termine “localizzazione” traduce
in questo caso la percezione di immobilità dei soggetti in
riferimento alle opzioni di cambiamento pensabili e praticabili.
“Quien no quiere irse?” (“chi non vuole andarsene?”) è una
domanda retorica formulata spesso con ironia e che non richiede
da parte dell’interlocutore risposta alcuna.
E’ questa una questione ricorrente che articola la percezione di
immobilità a quella di mobilità quale misura delle distanze, reali
e/o immaginarie, che separano dal cambiamento desiderato e dai
luoghi che simboleggiano questa possibilità di cambiamento.
La percezione di immobilità, di essere bloccati in luoghi
particolari, costruisce questi ultimi in rapporto a ciò che si muove,
si modifica e cambia. “Mira! Ellos han levantado su casa,
comprado su carro……….” (“guarda! Loro hanno tirato su la loro
casa, hanno comprato la loro macchina….”). Attraverso l’analisi
di storie di vita femminili raccolte in un insediamento umano di
Año Nuevo (AN), il tentativo sarà quello di problematizzare
questi nodi teorici proponendo una lettura del luogo dal quale i
soggetti articolano la loro percezione di immobilità.
Lettura della mobilità quindi dal punto di vista di coloro che non
possono muoversi e che per tale motivo si percepiscono come
esclusi dal “palcoscenico” del mondo. Ma queste storie di vita
sono anche storie di mobilità dal momento che il luogo, dal quale
e attraverso il quale si raccontano, è l’ultima tappa di un percorso
di mobilità che l’ha reso pensabile e praticabile.
Una delle vie più comuni di accesso femminile al mercato del
lavoro è stata, come lo è ancora, il lavoro domestico trovato
attraverso le reti familiari che, se da un lato consentono il
movimento, dall’altro producono immobilità.
E’ sufficiente soffermarsi sui verbi utilizzati nelle narrazioni delle
loro storie di mobilità per avvicinarci alla comprensione della
tensione viva e costante che le donne esprimono e avvertono tra
le opzioni di cambiamento praticabili e i vincoli che queste
producono.
Possiamo osservare per esempio come nella storia di Maria i verbi
che connotano il movimento eterodiretto si susseguono senza
interruzione fino all’assunzione del ruolo di madre: “mi portò”
(a Lima) lo zio, fratello del padre, che vive in AN e presso il quale
ha svolto “ogni tipo di servizio domestico”; “mi consegnò a 11
anni” alla madre che non poteva accoglierla per il rifiuto del suo
nuovo compagno. “Mi raccolsero” i religiosi per la strada e a 15
anni “mi consegnarono” alla Signora A., che la allevò “come
fossi sua figlia”. In tutta questa eterodirezionalità, dice M.,
bisogna farsi voler bene : “Io sempre mi sono fatta voler bene: mi
alzavo sempre prima di tutti e andavo a letto per ultima”.
L’interesse di queste narrazioni risiede anche nella possibilità di
pensare ad esse come a “preistorie” del processo di mobilità
transnazionale in corso che ci raccontano e fanno luce, da un
contesto e una posizione specifica, su processi che solo di recente
sono stati inseriti “nell’agenda globale”.
La mobilità è innanzitutto una risorsa posseduta e distribuita in
modo diseguale. Qual è la soggettività dell’essere incastrati in
luoghi particolari? Esiste una coscienza politica della differenza
nel possesso di questa risorsa?
Si tratterà qui di approfondire tali questioni a partire dal vissuto,
dalle percezioni, dalle rappresentazioni di donne che non solo
20
ACHAB
Dossier
De genere
vivono ai margini di una globalità tutta da definire ma che inoltre,
si sentono bloccate in un contesto e in una posizione dove, per
usare l’espressione di una di loro, Angelica, “ non cambia mai
niente”.
1. “Al otro lado de la Tupac” ( all’altro della Tupac)
Il contesto nel quale ho raccolto le storie di vita di soggetti
femminili è quello dell’insediamento umano (A.A.H.H.) dell’11
di Luglio, settore di Año Nuevo, municipalità di Comas, Lima
metropolitana.
Questa è una definizione amministrativa che partecipa alla
costruzione del luogo nei termini sequenziali con i quali si è di
fatto costituita l’urbe ed è generalmente utilizzato in riferimento
ad insediamenti sorti ai margini di invasioni e/o urbanizzazioni
che hanno ottenuto un riconoscimento statale, o lo stanno per
ottenere, attraverso il processo di titolazione.
L’11 di Luglio è il nome dato al luogo che corrisponde alla
data dell’invasione avvenuta nel 1982. Un gruppo di giovani
“alojados” (“alloggiati”) nella parte già costituitasi di Año
Nuevo decisero di occupare la parte immediatamente adiacente ai
comitati vicinali 38 e 101 che, per ubicazione geografica,
segnavano il limite territoriale tra il Pueblo Joven di Año Nuevo
e le parti “libere” a ridosso delle montagne circostanti.
La categoria di “alojados” è rilevante nel contesto ad oggetto e
traduce la condizione di tutti coloro che, per ragioni economiche
e carenze infrastrutturali urbane, vivono presso la casa dei parenti
in attesa di trovare una sistemazione indipendente. In questo caso,
come in molti altri, si trattava per lo più di coppie ospiti dai
genitori di uno dei due coniugi.
Uno dei criteri più diffusi per l’assegnazione del “lote”, ovvero il
pezzo di terra sul quale edificare la casa è stato ed è quello di
possedere una famiglia già costituita. E’ questo un criterio che
possiede ovvie ragioni pratiche e che al tempo stesso traduce un
valore sociale assegnato al tipo di “unione” rappresentato dalla
coppia (eterosessuale) con figli.
Sia la scarsità economica che la carenza di infrastrutture sono
condizioni che hanno inciso non solo sul tipo di sviluppo urbano
(invasioni) ma anche sui modelli di residenza dei soggetti. La
coabitazione di tre o quattro nuclei familiari differentemente
interrelati tra loro è infatti la norma nel contesto di Año Nuevo e
non certo per scelta elettiva.
Spesso i genitori assegnano ai figli che formano la loro famiglia
una parte di eredità, costituita appunto dalla casa, affinché la
edifichino nel tempo e ne facciano la loro dimora. Le difficoltà
connesse al risparmio e quindi alle capacità economiche di
investire nei materiali necessari alla costruzione si riflettono nelle
abitazioni che si presentano in generale come inconcluse o forse
sarebbe più appropriato definirle in formazione.
In effetti una delle caratteristiche che più hanno colpito il mio
sguardo fin dall’inizio del lavoro di campo è stata proprio questa
incompletezza delle abitazioni e del contesto più in generale.
Le strade non sono nella maggior parte dei casi pavimentate e la
polvere e la sabbia del deserto ricoprono ogni corpo immobile e
mobile. I secondi piani delle abitazioni sono spesso aperti, con i
pilastri che sembrano sorreggere il cielo, in attesa di essere
terminate. I materiali delle case, in particolare quelle ubicate a
ridosso delle montagne, sono spesso provvisori come del resto
sono provvisori molti spazi che cambiano di luogo a seconda
delle esigenze e degli interessi della popolazione locale. Alcuni
spazi di interesse pubblico sono in permanente stato di
costruzione in attesa di trovare i fondi e i finanziamenti necessari
al proseguimento dei lavori.
Nell’11 di Luglio mancano i servizi di acqua e fognatura mentre i
cavi elettrici e del telefono formano trame aeree che si intrecciano
le une nelle altre e che sono oggetto di furto costante lasciando
intere aree regolarmente senza servizio. Il servizio di raccolta dei
rifiuti, per inciso uno dei problemi maggiori in questo contesto, è
garantito secondo una periodicità del tutto irregolare che
favorisce uno smaltimento d’emergenza che di fatto ricopre gli
spazi non edificati.
Arrampicandosi lungo i sentieri costruiti dal passaggio continuo
e ripetuto degli abitanti è possibile osservare e ripercorrere
storicamente i processi sociali che hanno caratterizzato le varie
fasi dello sviluppo urbano. Più si sale, più la carenza di
infrastrutture e le condizioni abitative peggiorano
progressivamente. Più si sale, più è possibile cogliere la centralità
che il principio dell’auto-organizzazione riveste e ha rivestito
nello sviluppo urbano esente da pianificazione statale.
Se il paesaggio è fisicamente verticale, verticale è anche la
modalità più diffusa di percepirlo e di percepirsi all’interno di
esso. Dire che si abita in un insediamento umano equivale a
posizionarsi soggettivamente in un contesto denso di
rappresentazioni conflittuali che evocano, da un lato il sacrificio,
la lotta, la conquista di uno spazio “proprio” e dall’altro la carenza
e l’insufficienza dei mezzi atti a garantirselo.
Da un lato l’orgoglio con il quale si narrano gli eventi precedenti
e successivi all’occupazione dell’area, la conoscenza capillare di
una mappa (i soggetti e i luoghi) che collettivamente va
costruendosi anche in rapporto alle zone circostanti, la percezione
espressa in tante narrazioni di un divenire storico di cui si è parti
integranti.
Dall’altro lato, la caratterizzazione negativa di cui gli
insediamenti sono oggetto in quanto luoghi “malsani” sia da un
punto di vista ambientale che sociale. La percezione di essere ai
margini di un centro che continua a essere distante sia a livello
temporale che spaziale e il desiderio frustrato di cambiamento che
a livello del discorso assume, non a caso, un carattere spaziale.
“Hablan de nosotros como ratas” (“parlano di noi come ratti”) mi
dice Angelica riferendosi alla considerazione che “los de abajo”
(“coloro che vivono nelle parti basse”) hanno nei confronti degli
abitanti dell’11 di Luglio.
Sebbene da 3 anni a questa parte il Pueblo Joven di Año Nuevo
sia stato integrato in un unico settore a livello municipale e
metropolitano, rendendo la distinzione tra le differenti aree e
denominazione inessenziale da un punto di vista amministrativo,
gli attori sociali continuano a percepirsi come appartenenti a
contesti differenti e spesso contrapposti in termini di bisogni,
diritti e doveri.
21
ACHAB
Dossier
De genere
L’avenida Tupac Amaru, che taglia orizzontalmente la parte nord
della metropoli congiungendola alle zone centrali, è uno tra una
lunga serie di riferimenti spaziali che fungono da simboli di
d i fferenziazione economica e sociale e da termini di
comparazione per chi, vivendo più in alto, guarda verso il basso
per misurare e dare un senso alle condizioni “infrastrutturali”
nelle quali vive, come pure una direzione “materiale” ai propri
desideri.
“Al otro lado de la Tupac” (“all’altro lato della Tupac”) è
un’espressione diffusa nelle narrazioni che ho raccolto e che
rende conto in modo molto chiaro di una percezione dello spazio
altamente stratificato e gerarchizzato.
Una gerarchia e una stratificazione che possiede i suoi confini
reali e immaginari: dove inizia un comitato e finisce l’altro, dove
inizia e finisce una zona, settore o insediamento, dove inizia e
finisce il pericolo, dove inizia e finisce il contesto in cui la
conoscenza di soggetti e luoghi consente di non guardarsi alle
spalle e sentirsi al sicuro, dove inizia e finisce la possibilità di
usufruire di beni e servizi, dov’è rilevante o utile la categoria di
vicino, dove è possibile e proficuo affidarsi alla fiducia di una
serie di presupposti condivisi e in definitiva a un “noi” agito
piuttosto che pensato.
Non sono cose di poco conto, come è dimostrato dalla
impermeabilità di alcuni contesti, dallo sforzo richiesto per
oltrepassare la ferraglia che protegge ogni “bene”, dal tempo
necessario per abbassare, e comunque mai completamente, la
“guardia”, dallo slittamento continuo tra i posizionamenti che i
soggetti assumono per stabilire un terreno comune di dialogo.
Mi sono soffermata su questi aspetti ed elementi del contesto al
fine di situare la storia di Rubyla che inserirò qui di seguito.
La scelta di lavorare sulle storie di vita e di mobilità/immobilità
femminile nell’insediamento umano dell’11 di Luglio prende
avvio, come abbiamo visto, da itinerari differenziati attraverso i
quali ho cercato, in una prima fase, di comprendere le
conseguenze a livello locale di alcuni dei processi definiti, a
livello teorico, attraverso il concetto di “globalizzazione” e in
particolare il processo della migrazione transnazionale.
2. La storia di Rubyla
La storia di Ruby è esemplare rispetto a molte dimensioni e livelli
di analisi rilevabili in riferimento all’interrelazione tra le
dimensioni della mobilità e dell’immobilità. Qui, come del resto
in molte altre storie, non si riscontra la presunta stabilità che
secondo la letteratura caratterizzerebbe la famiglia in area andina.
Ruby, figlia di una donna molto giovane, non conoscerà mai il
padre e verrà allevata dalla nonna fino alla morte di quest’ultima,
quando suo zio (fratello della madre) la porterà a Lima dove lui
viveva da tempo.
Lo zio, dice Ruby, non era il primo ad essere venuto a Lima, “si
sono calati uno con l’altro e piano piano sono venuti tutti”.
Ruby stabilisce in questo modo un interessante parallelo tra
questo modello di mobilità e quello utilizzato attualmente verso
l’estero:
“E’ uguale a come fanno ad andare in Italia o in Argentina”, dice
Ruby, raccontando di una cugina “disperata per andarsene” in
Argentina che ha lasciato la figlia di tre mesi con la madre
indebitandosi per poter viaggiare.
Ora, dice Ruby, “vorrebbe tornare ma è incastrata, le persone che
le hanno prestato i soldi vengono a cercarla. Ha un lavoro ma ci
vuole un po’ di tempo prima che riesca a restituire e non ha
ancora ricevuto il primo stipendio. “Noi le abbiamo detto di
resistere se no che senso ha che è andata?” .
Questione interessante e proiettiva il cui costo materiale (il debito
contratto) converte mobilità in immobilità (è incastrata) e il cui
costo affettivo ed emotivo (la figlia di tre mesi) si traduce in
valore di “resistenza” che i familiari consigliano con lo sguardo
puntato oltre la situazione presente.
L’espressione “disperata per andarsene” è comunemente
associata alla mobilità femminile qualora il movimento comporti
l’affidamento, la cura e l’allevamento della prole alla madre e più
raramente ad altre familiari.
E’ interessante soffermarsi anche su come nasce questo progetto
di mobilità collettivo. Questo nasce infatti all’incontro tra
differenti traiettorie di mobilità che si generano una con l’altra e
che producono e riproducono sia specifiche continuità che
cambiamento e innovazione.
Ed è una zia emigrata da tempo in Italia e tornata per le vacanze
che rende fattibile il progetto argentino. Lavorare e guadagnare in
un contesto estero accessibile alle risorse disponibili per poter
risparmiare la quantità di denaro sufficiente per raggiungere un
altro contesto estero al momento solo più desiderabile.
In questo caso L’Italia, in particolare la città di Firenze, dove la
zia tornerà una volta terminate le sue vacanze. In quanto opzioni
e progetti condivisi all’interstizio tra differenti traiettorie di
mobilità e tra la dimensioni del reale e dell’immaginario, essi
implicano e presuppongono pratiche e relazioni sociali concrete.
Era la figlia di Ruby che avrebbe dovuto viaggiare ma è incinta e
“non ha potuto andare”. Prima di tornare alla sua storia di
mobilità Ruby pone un’altra questione fondamentale e aperta: “
Chi è che non vuole andarsene? Qui in Perù siamo sfruttati.”
La Lima che Ruby incontra a sei anni è quella di Barrios Altos,
urbanizzazione consolidata il cui contesto le rimarrà come
termine di comparazione rispetto a quello da cui si racconta e nel
quale vive. E’ anche quella dell’ambito familiare attraverso il
quale il movimento dalla provincia si fa possibile e che la riceve
al suo interno. Qui Ruby vivrà l’ambiguità dei legami che la
uniscono ai membri del nucleo familiare che lei esprime
raccontando del trattamento differenziale ricevuto rispetto a
quello dei suoi cugini in merito allo studio e al lavoro domestico.
La iscrivono alla primaria ma non le consentono di proseguire
negli studi: “Io avrei voluto, volevo studiare infermeria ma non
ebbi questa libertà di andare a lavorare fuori. Essendo come una
figlia dovevo obbedire. Solo con uno sguardo ti dicevano quello
che dovevi fare. I miei cugini sì hanno potuto studiare. Rimasi con
loro fino ai 18 anni e non fu grazie a loro che aprii gli occhi”.
Questo movimento o gesto di “aprire gli occhi” è un’altra cornice
ricorrente nelle narrazioni femminili raccolte e viene quasi
sempre associata a una figura esterna alla famiglia che appoggia
22
ACHAB
D o s si e r
De genere
senza chiedere nulla in cambio. Qui Ruby la definisce quale
protettrice che non solo le insegnerà un mestiere ma anche le
proporzionerà i contatti necessari per esercitarlo (costura).
Iniziazione al mondo del fuori identificato con il lavoro e reso
possibile da una relazione esterna a quelle del gruppo familiare
nel quale si continua comunque a risiedere e a corrispondere al
ruolo che in questo si ricopre.
“Io continuavo ad occuparmi della casa e dei miei cugini…..”
coltivando, con ciò che definirei lavoro di straforo, il proprio
progetto di indipendenza e autonomia qui, come in molti altri casi,
associato al possesso e dominio di un mestiere.
L’incontro e l’unione con il partner, ma in definitiva l’assunzione
del ruolo di madre, interrompono il processo di
individualizzazione riportando Ruby tra le pareti domestiche
dello zio: “Ho sofferto molto e l’unico desiderio che avevo era
andarmene di casa. A loro non piaceva mio marito, non gli
volevano bene, lo buttarono fuori di casa e volevano mandarmi a
lavorare come domestica crescendo loro mia figlia. Mio marito
era un irresponsabile, beveva molto e non mi portava a casa il
diario2”.
Lo zio si stufa e allontana il marito dalla sua casa: protezione e
ingerenza, appoggio e obbedienza in una trama intricata di
relazioni gerarchiche dove le categorie età, sesso, grado di
parentela sono interconnesse e rinforzano una con l’altra lo stato
di soggezione.
E il progetto di indipendenza si fa casa e Ruby attende fino a
quando il processo di invasione dell’11 di Luglio non lo rende
agibile e vi si unisce “per vivere da sola nella mia casa e sentirmi
libera dalla mia famiglia. Ho dovuto afferrarmi a mia figlia e fino
a che non ha terminato la media, ho lavorato come cuoca, in
pulizie, curando i bambini, come volontaria.”
Ora Ruby vende pane e camminando con il suo cesto carico
percorre tutta la montagna guadagnando tre soles per ogni 100
panini venduti dalle tre del mattino, ora in cui raccoglie il pane
alla panetteria insieme agli altri canastero s, come vengono
chiamati i venditori ambulanti di pane, fino alle 10/11 della stessa
mattina.
Ruby produce in questo modo un circuito di scambio che dalla
vendita, passando per il credito, arriva fino al trueque ( baratto):
“ Ci sono persone che non pagano per 15 giorni e allora faccio
trueque e se non possono pagarmi in denaro mi danno una
gallina, riso, zucchero. Tutto ciò che mi può servire per la casa.”
E’ preoccupata per la concorrenza sul prezzo che alcune
panetterie “clandestine” stanno praticando ( 8 soles al posto di 10
per 10 panini) e sulle conseguenze che questa disuguaglianza di
prezzi, come lei la definisce, ha sui suoi guadagni già insufficienti
per coprire le spese.
Il marito, dopo la nascita del primo figlio di sua figlia, è tornato
ma non trova lavoro nel suo mestiere di muratore: “Ora è qui
stabilmente come se fosse l’uomo della casa. Perché si sente così?
Perché non è stato così prima? mai ho potuto contare sul suo
appoggio. Dov’era lui quando io ho cresciuto mia figlia?”
Risposta della stessa Rubyla: “Lui è il padre di mia figlia”.
Ruby continua a guardare in basso mentre racconta di quanto sia
contenta di aver finalmente costituito una famiglia con la nascita
della nipote: “Ora ci sono i natali, i compleanni, le feste”.
Ruby non è soddisfatta ed esprime questa insoddisfazione nel
desiderio di una casa nella parte bassa “dall’altro lato della
Tupac”, ritornando con il pensiero all’urbanizzazione del suo
incontro con Lima e alla casa di un’altra zia che vive in zona
Retablo: “Che bello che è li”.
Desiderio condiviso dalla figlia e per la realizzazione del quale “Il
progetto è quello che vada. Speriamo, dipende tutto da Dio, con
la salute si lavora e si può fare denaro. Se vedo che in un altro
paese è meglio per lei a buona ora.”
Ruby e io conversiamo sul significato di alcuni termini
(provinciano, serrano, cholo) e sul loro utilizzo, lei non ha
mantenuto alcun legame con il suo luogo di origine dove, dopo
averlo lasciato a 6 anni, non ha più fatto ritorno, “sono passati
tanti anni, come sarà adesso?”.
Il costo per il trasporto è troppo alto e qui mi pare come se
l ’ A rgentina e l’Italia siano distanze immaginate secondo
parametri del tutto differenti.
Turismo/lavoro: scopo e utilità differenti senza contare che sono
le relazioni il motore del movimento e relazioni vive con il luogo
Ruby non ne ha per nulla. E nel mezzo di questo discorso sul
posizionamento e sulle eso ed endo-definizioni di soggetti e
situazioni Ruby prende posizione e dice: “Nonostante la faccia
che ho3 non si presti ad essere limeña, Io sono venuta qui da
piccola, sono cresciuta con questo cibo, con tutte queste cose e mi
sento limeña. Mio figlio è un po’ scuro (moreno) e quando era
piccolo si metteva il borotalco e poi diceva: adesso sono bianco.
Io ridevo e lui mi chiedeva perché non era venuto fuori con il
colore della nonna che è bianca.”
Arriva una vicina e Ruby mi informa che lei è di Ayacucho e
mentre la conversazione si estende al vicinato come di consueto e
una vicina commenta che le differenze tra qui e la sierra si sono
assottigliate e che se non lavori non mangi, la vicina di fronte
arriva piangendo chiedendomi se posso aiutarla a mettersi in
comunicazione via internet con il figlio che è in viaggio per
l’Argentina. E’ spaventata perché lo ha sognato mentre si trovava
in difficoltà.
Intrecci narrativi: ¿Donde está Lima?
La scelta di occuparmi delle narrazioni femminili nel contesto
dell’11 di Luglio rappresenta una svolta e allo stesso tempo un
approdo del mio lavoro di ricerca.
Il primo tentativo di lettura di queste narrazioni femminili è stato
quello di ricostruire Lima attraverso le traiettorie di mobilità di
queste donne. Sono emersi in questa analisi aspetti contraddittori,
percezioni differenziali a seconda delle temporalità e spazialità in
gioco nelle narrazioni che spero queste narrazioni aiutino ad
esplorare.
La metropoli limeña in questi racconti, memorie e riflessioni,
emerge quale contesto investito da importanti processi storici di
cui non si è sempre consapevoli e che nella maggior parte dei casi
non si sa dominare.
Lima appare come un percorso verso la conquista di una stabilità
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ACHAB
Dossier
De genere
che assume la forma di una casa e di un lavoro attraverso la lotta
e l’invenzione. E’ il luogo dove si è materializzata la stabilità a
prezzo di grandi sforzi, è il luogo del desiderio ( miglioramento
condizioni ambientali e abitative) ed è anche il luogo da dove se
si potesse ci si allontanerebbe.
La narrazione di sé inizia quasi sempre in un’altrove dove il
processo di socializzazione passa attraverso e si costituisce per
mezzo del lavoro e del legame con la terra: il tempo della semina
e della raccolta, i rituali religiosi connessi alla nascita, alla
crescita , alla morte e alle festività dei santi. Legami fondamentali
e fondanti che si ritrovano non a caso nel linguaggio utilizzato dai
soggetti per esprimere i valori da loro percepiti come essenziali
(condivisione, appoggio, lotta, sofferenza, etc).
Legami ed esperienze da non disgiungere dalle relazioni a queste
inerenti; ed è forse a partire da questo che è possibile dare senso
a una certa cosmologia dove il passaggio dall’uno all’altro dei
campi di relazioni rappresentabili e rappresentati si fa incerto e
questi si associano ed evocano uno con l’altro pur senza
confondervisi totalmente (famiglia, lavoro, mobilità,
organizzazione, per citarne solo alcuni). E’ in questa cornice di
interpretazione che si può provare a comprendere come i campi di
relazioni si fanno valori e i valori campi di relazioni e come sia
difficile stabilire ciò che venga prima e ciò che né derivi.
Interrelazioni complesse dove le continuità e le discontinuità,
come del resto le dinamiche di inclusione e di esclusione, non
sono analizzabili in quanto alternative una all’altra o quali opzioni
che si escludono a vicenda ma piuttosto quali fattori, strategie,
meccanismi, tattiche compresenti in interrelazioni complesse e
agiti dai soggetti in riferimento a dei contesti di interazione di
volta in volta specifici.
Ma è poi Lima il centro di questi percorsi? O è forse il percorso
in sé che si fa centro rispetto al desiderio quale motore dell’azione
che identifica movimento (mobilità) con miglioramento?
Mi sorprendono le continuità di fatto e le discontinuità dichiarate
a partire da elementi semplici e essenziali. Gli stessi dai quali si
parte e si arriva: l’acqua per cercare la quale si scava un pozzo di
50 metri al paese “dove non cresceva più nemmeno un filo
d’erba”. L’acqua che da 20 anni ancora manca, dice Mercedez
riferendosi all’11 di Luglio dove ora vive: “E’ da 20 anni che
siamo qui e non abbiamo ancora né acqua né fognature”.
Le distanze che invece di ridursi si fanno più riconoscibili: tra O.
e Lima e tra Lima e un altrove che è desiderio di futuro. A O. gli
infermi muoiono nella dimenticanza, qui nell’11 Luglio “i politici
una volta eletti si dimenticano di noi”.
L’ emigrazione è per Mercedez una superazione (superarse) che
rappresenta inoltre il filo della narrazione di sé , è il coraggio e il
valore che spinge ad avanzare: “Uscire dal mio paese era un
avanzamento”. E’ innanzitutto una geografia di movimento
maschile, i fratelli che vanno e vengono contrattati per la
fabbricazione del carbone e la determinazione perché si faccia
opzione femminile: “Non era costume lasciare andare le donne
sole”.
E’ Sechura, un piccolo centro urbano bruciato dal sole e dalla
polvere, teatro di una festività religiosa alla quale si è portate e
che allarga l’orizzonte del paese natale e fa nascere l’idea di
conoscere, scappare. “Ricordo ancora quel buco nella pietra dove
ci riparavamo dal vento e dalle botte per il conteggio del numero
dei capi di bestiame che a volte non tornavano”. Ma come?
Come domestica, attraverso uno zio che fa da ponte verso una zia
che vive in città. E’ Piura, esperienza scioccante per l’assenza di
riferimenti altri da quelli familiari che oltre a consentire il
movimento appaiono nel racconto di Mercedez quali motori e
freni all’azione.
E’ la necessità di guadagnarsi l’affetto dei cugini cucinando
lavandogli i vestiti, pulendogli l’abitazione, facendo
commissioni. “Mi stancavo molto: lavoravo dalle sei della
mattina alle undici della notte.”
E’ la zia di Mercedez che si fa ponte per altri movimenti
prestandola all’amica (“mi chiese in prestito”) e il cui raggio
d’azione lascia Piura sullo sfondo per attraversare un confine
(commerci tra Lima ed Ecuador).
“Uscire dal paese è avanzare”, ripete Mercedez con lo sguardo
rivolto verso il basso. Ma questo avanzamento per Mercedez è
anche una fuga dalla violenza del marito di sua zia e un
nascondersi dall’esito di questa violenza che porta in grembo. Un
avanzamento interrotto dall’infermità della madre che la riporta
ad Olmos. Un luogo questo che funge da connessione stabile tra
le mutevoli circostanze della vita e le relazioni di lavoro. E poi
M. ritorna a Lima, lasciando la figlia alla madre guarita, allo
scopo di garantirle un’eredità: “Bisogna rimanere vigili”.
La terra e la casa quali eredità da lasciare perché non c’è altro da
lasciare. I figli che non possono continuare a studiare, le mani che
sono rimaste troppo a lungo nell’acqua e che ora fanno male:
lavando, stirando, pulendo, cucinando e ora cucendo per conto
terzi perché mancano o si pensa manchino i requisiti per arrivare
direttamente alla fonte.
La figlia rimasta al paese diventa motore di ulteriori percorsi di
mobilità: la casa del fratello che si offre di accoglierla, l’acquisto
del terreno nell’11 di Luglio, Chiclayo, poi Chimbote e di nuovo
Lima. Non la Lima delle case belle, dell’illusione di possederne
una uguale, ma la casa nell’A.A.H.H. 11 de Julio dove le relazioni
a ffettive, economiche, sociali si sovrappongono e sono
indispensabili per ottenere risorse necessarie. E da qui il coraggio,
la lotta, la speranza, il desiderio si assumono come valori che
consentono di valutare il proprio essere andata in riferimento a
coloro che sono rimasti e a coloro che, presenti all’interazione, si
spera continuino ad andare. “La mia vita è migliore perché loro
vivono- i fratelli- in una provincia dove a 4 km non c’è luce, non
c’è acqua, non c’è niente. Magari riuscissero ad andarsene di
qua – i suoi figli- spero che abbiano questa fortuna.”
Lima per Rosa è solo il nome di una città lungo il mare, quando
non si sa ancora cosa sia né una né l’altro. La geografia storica e
sociale conta relativamente ai nodi presenti che rendono possibile
il movimento di Rosa in uno spazio che a 8 anni è ancora
irrappresentabile.
Movimento eteroregolato dal padre incapace, date le risorse
disponibili, di farsi carico dei figli in conseguenza della
disgregazione familiare e che utilizza il legame con la madrina
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ACHAB
Dossier
De genere
della figlia quale meccanismo di riorganizzazione del gruppo
familiare. “Dalla notte alla mattina mi ritrovai a Lima”.
E’ questa una cornice ricorrente che esprime l’assenza totale di
controllo esercitato dal soggetto in riferimento alla propria
esperienza di mobilità: movimenti fisici lungo la direttrice di
relazioni che hanno una storia che spesso non si conosce e alla
quale non si ha spesso partecipato ma di cui si è la continuazione
incarnata.
Affidata per lavorare nella casa della madrina come domestica
dovrà attendere di lavorare in casa di estranei, ancora come
domestica, per potersi sentire come in famiglia. Il Lavoro
domestico diventa qui mezzo e strumento di autonomia con tutte
le contraddizioni inerenti a questo tipo di relazione di lavoro.
Sono queste delle contraddizioni per altro già vissute nella
differenza dei diritti e doveri tra sé e i coetanei della famiglia,
nella condivisione di una routine familiare in condizione di
subordinazione oltre che di dipendenza (età, sesso, ruolo). E Lima
è Monte rico dove vive “la jente de plata”. La gente di denaro,
gente che “mi dava perfino le mance per uscire”.
Maria è orgogliosa di poter lasciare ai figli la sua eredità: la casa.
La casa che da esito orgoglioso della sua storia di mobilità diviene
al tempo stesso fattore di immobilità: “Mi piacerebbe chiudere gli
occhi e mi dico rimarrò così ma ai miei figli dico che devono
lavorare per sobresalir. La nostra vita è stata molto triste, vorrei
che loro avessero un lavoro, una casa costruita. Lavorare per
riempire la pancia non è sufficiente. La situazione la vedo male
perché non abbiamo un lavoro sicuro. Se troveranno un lavoro
stabile possono andare da un’altra parte in un posto migliore.” E
mentre il figlio di M. esprime la percezione del luogo quale
temporaneo, M. conclude “Io rimarrò qui, non posso obbligarli a
restare, questa è la mia eredità.”
La casa è un elemento e un simbolo centrale in questi molteplici
tentativi di situarsi all’interstizio tra dinamiche esogene ed
endogene che spesso è difficile controllare o com-prendere.
E così che Lima pare a volte la ricorrenza di questo ritornare alla
(casa), crocevia di itinerari controllabili e incontrollabili, che ne
fa il luogo dell’amore e della nascita e il desiderio/necessità di
uno spazio nostro. Spazio da conquistare, spazio per cui lottare,
spazio di comunità come processo che passa attraverso
l’invasione, la difesa del terreno, l’acquisizione della legittimità
indiscussa dello stesso, il lavoro collettivo per renderlo agibile e
per garantirsi i servizi che ne consentano l’abitabilità.
Lavoro collettivo, faenas, aiuto reciproco e unità diventano
strumenti di lotta essenziali, valori agiti piuttosto che pensati
nelle continuità e discontinuità delle proprie esperienze passate e
necessità presenti. Comunità, vicinato e famiglia, nel farsi
dell’urbanizzazione si scontrano con lo stato e allo stesso tempo
ne ottengono legittimità (come un timbro solenne su giochi ormai
conclusi) attraverso relazioni clientelari e personalistiche.
Molti invasori, dice per esempio Elena, sono andati “adelante”.
“Avanti”, ovunque questo sia, come la parte bassa che vede dal
rialzo con gradini attraverso il quale si accede alla sua porta.
Guarda in basso e nomina le opere che occupano spazi un tempo
vuoti: campi sportivi, parrocchia, parchi.
A volte vorrebbe andarsene ma senza il denaro sa che dovrebbe
iniziare tutto da capo, tornare indietro non è un’opzione
percorribile.
In alto, qui, dalla posizione dalla e nella quale articola il suo
discorso mancano molte cose. Alcune di esse essenziali (servizio
di acqua e fognature). I cambi, nodo concettuale e materiale a
partire dal quale si vive e si pensa alla propria posizione in
relazione al mondo, sono lenti. C’è la percezione che questi
avvengano a un ritmo troppo lento rispetto a come dovrebbero.
L’esterno è spesso una relazione d’appoggio poco chiara e
trasparente come sono oscuri i canali e i processi decisionali. Il
futuro è incerto e l’elezione del “nuovo” presidente ricorda la
penuria e la sofferenza.
Il racconto del presente è assorbito dal lavoro (una bottega
domestica e i lavori di bordato che svolge in casa), dai desideri
irrealizzabili (la figlia che non ha risorse per poter continuare a
studiare), dai risparmi impossibili e dai conti frustranti.
Ed è da qui, da questo ingresso panoramico sul mondo
circostante, che la modernità viene percepita come cambiamento
che il paese sperimenta per intermedio di (è qualcosa di esterno)
“computer, moneta più forte, strade e la tecnologia riduce i posti
di lavoro”, che Elena esprime in modo assolutamente chiaro la
sua percezione di “immobilità” (esclusione): “ la tecnologia è un
cambio per chi può permetterselo, io non ho nemmeno il
computer figurati internet.” E più avanti aggiunge: “Io rimango
con la voglia e basta”.
Elena è orgogliosa della loro conquista, che è anche la sua
conquista (la sua casa): oggetto materiale e sensoriale a partire dal
quale loro diventano noi e loro .
“Noi (che) viviamo in uno stato di povert à” (immobilità/
relazione ai cambiamenti), “loro (che emigrano) “e se gli va bene
mandano i soldi alla loro famiglia, tirano su la loro casa e se ci
sanno fare investono in un commercio”.
Ed è qui che l’emigrazione continua ad essere una questione di
famiglia (o una nuova conquista?).
Ma a ben vedere non si tratta di un’alternativa ma piuttosto, come
rivelano le narrazioni di queste donne, dell’interrelazione
complessa tra Stato – Nazione, regime familiare e sistema
economico globale.
[email protected]
Note
1 A. Ong, Flexible citizenship. The cultural logic of
transnationality, Paperback, 1998.
2 Con il termine “diario” si suole definire la quantità di denaro
che l’uomo porta a casa dal lavoro giornaliero o, a seconda,
settimanale.
3 Qui Ruby si riferisce sia alla fisionomia del suo volto che al
colore scuro della sua pelle.
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ACHAB
D o ss i er
De genere
Tu, oggi, non puoi entrare
Tabu mestruali nel gorovodu, in Togo e Bénin
di Alessandra Brivio
Gli studi che si sono occupati delle interdizioni a cui le donne
sono sottoposte durante il ciclo mestruale, si sono
prevalentemente espressi in termini di "tabu", cioè delle
restrizioni imposte alle donne e di "sporco" e "impuro" quindi di
contaminazione simbolica.
Cercherò di mostrare, nelle pagine che seguono, come i tabù
relativi al sangue mestruale non siano portatori di significati
univoci. Innanzitutto uomini e donne possono avere opinioni
molto differenti rispetto alle prescrizioni che entrambi devono
rispettare. Analizzando il caso specifico di un vodu detto
gorovodu, cercherò di mostrare come i significati attribuiti al
sangue mestruale siano condizionati e mutino a seconda delle
contingenze storiche e sociali.
Il sangue mestruale è oggetto di maggiori attenzioni e si connota
come liquido inquinante, all'interno di questo ordine vodu, sia a
causa del suo specifico percorso storico, che delle sue peculiarità
di culto antistregoneria.
L'epistemologia che sottoscrivono gli aderenti al vodu è
estremamente fluida e i significati come le pratiche sono soggette
a cambiamenti anche notevoli da un "couvant" - cioè gruppo di
persone che si raccolgono attorno a un voduno (o houno) e a un
insieme di vodu - all'altro. Esiste una forte competizione tra i
diversi voduno che devono, attraverso le loro attitudini personali
- poteri mistici, carisma, coraggio, fantasia e creatività -, essere in
grado di trattenere nella loro sfera d'influenza sia i vodu che i
fedeli. Per tale motivo risulta sempre difficile e pericoloso fare
delle generalizzazioni, assumendo i significati come universali.
"La forza e l'immanenza" (Augé 1982) sono gli elementi
costitutivi di questa religione, che quindi non lascia spazio ai
dogmatismi. Nell'ampio e complesso panorama dei vodu1
africani, il gorovodu (vodu della noce di cola) o tron2 ha uno
statuto differente acquisito grazie alla sua storia relativamente
recente. Al suo interno trovano posto diverse divinità o vodu che,
prima di giungere in questa regione e assumere una nuova
identità, fecero un lungo e complesso percorso geografico e
storico.
I detentori del culto, diffuso sia in città che nelle campagne,
affermano che il loro vodu è straniero perché arriva dal Ghana. Lo
scambio di divinità tra le diverse popolazioni che si affacciano sul
Golfo di Guinea ha una lunga e incessante tradizione. Ma il
gorovodu, oltre a provenire dal Ghana, è considerato un vodu
hausa3, poiché "la sua origine" è situata al nord, nella regione
della savana.
Si tratta di un fenomeno che interessò, a partire dai primi anni del
secolo scorso, un'ampia regione, dalla Costa d'Avorio fino alla
Nigeria, e vide un "esercito" di divinità, originarie della regione
oggi al confine tra costa d'Avorio, Ghana e Burkina Faso,
viaggiare verso la costa grazie alle loro peculiarità di culti
guaritivi e antistregoneria (Field 1940, Ward 1956, Goody 1957,
McCaskie 1981e 2005, Parker e Allman 2005).
Si creò una prima rete di scambi rituali e di commercio di oggetti
sacri tra il nord e il sud dell'attuale Ghana, soprattutto tra gli
asante, ma la voce di queste nuovi e potenti risorse mistiche si
diffuse anche in Togo e in Bénin. La gente iniziò quindi a
viaggiare da est verso ovest, alla ricerca di una soluzione più
efficace ai loro problemi.
Il gorovodu si diffuse ed ebbe successo nei differenti contesti
sociali soprattutto perché rappresentava una risposta ai problemi
di infertilità e di mortalità infantile.
In alcune sue forme, ad esempio in Nigeria negli anni '50,
indirizzò la sua forza contro i culti tradizionali, soprattutto quelli
controllati dalle donne, e quelli, come le maschere Gelede,
percepiti essere espressione dei poteri occulti femminili e quindi
della stregoneria. Fu un periodo violento, di forti conflitti sociali,
durante il quale si cercò, anche con la forza, di controllare il ruolo
femminile all'interno della società (Morton 1956, Matory 1994).
In altri contesti, come quello beninese e togolese, non sembra4 che
il conflitto fu così esasperato da trasformare le cerimonie in vere
ordalie nelle quali le donne erano costrette, anche contro la loro
volontà, ad ammettere di appartenere alla stregoneria.
Il gorovodu è un culto che, ancora oggi la continua a esercitare
una funzione antistregoneria. Questa è comunemente considerata
una peculiarità femminile, anche se nessuno esclude che gli
uomini possano "averla"5.
Per i sacerdoti del gorovodu, i sofo, il sangue mestruale è una vera
minaccia. La loro principale preoccupazione nel momento in cui
mi consentivano di entrare in un altare era la possibilità che fossi
mestruata. I sofo mi apparivano quasi minacciosi
nell'interrogarmi sul mio stato fisico, cosa che non era mai
successa negli altari degli altri vodu. Temevano che io potessi
mentire ed entrare nonostante l'interdizione.
La loro enfasi su questo argomento mi colpì innanzitutto per
l'insolita incursione nella mia intimità e in secondo luogo perché
mi sembrava che l'idea di impurità e di sporco che essi
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ACHAB
Dossier
De genere
associavano alla donna, durante il ciclo mestruale, rappresentasse
una categoria che si opponeva in modo eccessivamente
dicotomico all'idea di pulito che imputavano al loro vodu.
L'ambiguità, bisogna ricordare, è una delle chiavi attraverso cui
cercare di comprendere il mondo vodu che racchiude, sintetizza e
supera al suo interno gli opposti: bene - male, maschile femminile, materiale - immateriale.
I sofo non erano tanto preoccupati per la mia incolumità fisica
quanto per quella dei loro vodu: il gorovodu è un vodu "propre",
pulito, essi ripetevano, e non ama il sangue delle mestruazioni,
che è diverso, "esce in modo strano", è sporco. Il loro linguaggio
evocava in modo esplicito idee di "purezza e pericolo" (Douglas
1966)6.
Le opposte categorie di sporco e pulito non si coniugavano con il
linguaggio abitualmente parlato dal vodu e soprattutto con quello
di una società che non condivide una visione dicotomica del reale
e una concezione del corpo basata sull'opposizione tra spirito e
materia quali categorie fisse e impermeabili. Piuttosto vi è
normalmente un'associazione complessa di questi termini, che si
definiscono anche secondo logiche e strategie che potremmo
definire situazionali.
In un contesto culturale come quello dell'Africa occidentale e più
specificatamente tra i praticanti il vodu, l'"individuo" è percepito
come un'entità aperta, multipla, in relazione con altre entità
visibili o invisibili, e soprattutto non è l'esclusivo proprietario del
proprio corpo e degli organi e fluidi che lo compongono. Il corpo
è sempre collocato in uno spazio ai limiti tra l'individuale e
l'appartenenza a differenti discorsi collettivi.
Nel cercare di trovare una risposta alle ragioni di questo tabu, e
ricordando che è sempre stata una visione prevalentemente
maschile quella che ha definito il mestruo come inquinante e che
raramente gli etnologi hanno interrogato le donne su ciò che esse
pensassero del loro ciclo mestruale (Gottlieb 1988:31), ritenni
necessario parlare proprio con le donne di questo argomento.
Bella, una giovane trosi7 mi spiegava in questi termini i divieti del
gorovodu:
"Non si può venire (all'altare) con le mestruazioni, devi ben lavare
i vestiti che hai messo durante quel periodo, prima di ritornare,
perché poi devi essere pulita. Non puoi neppure, in quel periodo,
mangiare la carne degli animali sacrificati per il vodu, perché se
lo fai il tuo sangue non si fermerà mai più.
Se vuoi vedere cosa succede ed entrare nell'altare…allora puoi
entrare, ma a tuo rischio… perché tu entri e poi magari inizierai
ad avere mal di pancia, ti sdrai per riposarti, ma poi continui ad
avere mal di pancia (ad avere le mestruazioni) fino a morire. Non
è stato il vodu a ucciderti, ma tu stessa che non hai rispettato le
sue regole."8
Il sangue mestruale era definito inizialmente da Bella in termini
di sporco. Le adepte e le trosi del gorovodu accettavano quindi
questa idea, ma ciò non significava che esse si considerassero
effettivamente in uno stato di impurità; riconoscevano invece lo
statuto ambiguo del loro sangue rispetto a quello di cui si nutrono
abitualmente i vodu.
Vi era quindi un'inversione di prospettiva, poiché dal punto di
vista femminile, era il sangue sacrificato ai vodu che poteva
interferire con il loro sangue, causando delle mestruazioni
perpetue, che in una specie di "ipersimbolizzazione della fertilità"
(Gottlieb 1988: 68) le rendevano sterili.
Le donne stavano lontane dall'altare per proteggere la loro fertilità
e in termini più generali la loro vita, e non dovevano essere
sottoposte a coercizione o a domande inquisitorie, come nel mio
caso di donna straniera ed esterna al culto9.
Il sangue - hou in ewe e fon -, non solo quello mestruale, ha uno
statuto ambiguo e polisemico, essendo al contempo simbolo di
morte e di vita, liquido invisibile, nascosto all'interno del corpo, e
visibile, ma solo nel momento della morte10. Il sangue è l'alimento
preferito dei vodu, ed è essenziale al mantenimento di un rapporto
proficuo tra visibile e invisibile.
Nelle sue ambivalenze è l'elemento più prossimo all'essenza
impalpabile e contraddittoria del vodu stesso. Anch'esso, come il
sangue, si palesa, si rende visibile attraverso la morte, ma l'uomo
lo venera in quanto strumento invisibile di vita e di rigenerazione.
Come il sangue, il suo stato è simile a quello di un fluido in
continuo movimento; il vodu scorre come un'energia in infiniti
luoghi differenti, ma non perciò perde le sue potenzialità.
La prossimità tra vodu e sangue è testimoniata dall'uso, anche se
poco frequente, della parola hou come sinonimo di vodu e
dall'etimologia della parola houno11, utilizzata, soprattutto tra gli
ewe, per definire i sacerdoti del vodu. Houno significa la madre
(no) del sangue (hou), dove l'inversione di genere da madre a
padre - gli houno sono prevalentemente uomini - rende evidente
la necessità di incorporare, in questo ruolo, entrambe le identità
maschile e femminile12. Gli uomini e le donne devono essere
intercambiabili anche nel loro ruolo di "contenitori" della divinità,
infatti durante la possessione rituale si trasgrediscono sia i limiti
tra il mondo visibile e invisibile che quelli tra i generi. Gli adepti
che vanno in trance sono definiti vodussi, cioè "spose del vodu".
Ma la loro identità di genere viene, nel momento della
possessione, cambiata dalla divinità, che a sua volta non ha una
chiara identità sessuale. Non esiste quindi differenza tra uomini e
donne come "spose" del vodu e la fusione tra divinità e uomodonna, annulla ogni confine di genere.
Il sangue nel vodu non è stato simbolizzato, come nel
cristianesimo. Il sangue versato come sacrificio necessario a
salvare l'uomo, non può essere evocato come un'idea, ma deve
essere vissuto come un'esperienza sensibile.
Gli animali in quasi tutti i sacrifici vodu vengono sgozzati e
sottoposti a una morte lenta, che metta in scena le ambiguità del
sangue; esso, fluendo inesorabilmente al di fuori del corpo
dell'animale, mostra agli uomini il passaggio dalla vita alla morte,
palesando la sua stessa funzione.
Le donne perdono sangue, quindi possiedono un fluido che si
mette in competizione con quello degli animali, essenziale alla
vita dei vodu, in qualche modo prossimo ai vodu.
Il sangue mestruale è lo strumento del potere femminile che, nella
sua forma più violenta e pericolosa, diviene stregoneria. La
comune credenza secondo cui è più facile che le donne anziane
siano delle streghe, aze, deriva dal fatto che esse, avendo superato
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il periodo fecondo, sono in grado di trattenere il loro sangue,
quindi energia vitale, ase13, al loro interno.
Il sangue spesso viene citato nelle canzoni dedicate alle Gelede e
nei versi in cui si parla delle aze; esse lo usano per le attività
quotidiane, si lavano e lavano i vestiti, dimostrando di essere in
grado di controllarne e manipolarne il flusso vitale, creando
disordine e esibendo la loro capacità di sprecare e controllare
l'energia. Alle streghe viene offerto olio di palma, poiché il suo
colore rosso, può renderlo un sostituto del sangue e quindi placare
i loro desideri di morte.
Secondo le concezioni e gli usi locali il sangue mestruale può
avere anche valenze positive14. Innanzitutto è il liquido della
procreazione che contribuisce alla nascita dell'uomo e, restando
nella sfera dei poteri magici, può essere utilizzato per fare
pozioni, filtri d'amore e, ad esempio, aggiunto nel sugo della
carne o del pesce, può aiutare le venditrici ambulanti ad acquisire
un sempre maggior numero di clienti.
Tra gli Ashanti, secondo quanto scrisse Rattray, le interdizioni a
cui erano sottoposte le donne mestruate erano molto rigide, dato
che si riteneva che esse potessero togliere potere agli stool (seggi)
degli antenati; la punizione per chi infrangeva le regole era la
morte. Ma allo stesso tempo il sangue, percepito quindi come
estremamente pericoloso e "inquinante", veniva utilizzato da
alcuni preti asante per realizzare dei kunkuma, "il più potente
suman15 in Ashanti" (Rattray, 1927:13).
Il gorovodu si pone oggi, rispetto agli altri vodu cosiddetti
"ancestrali" o "tradizionali", come un vodu "moderno" che cerca,
facendo proprio un discorso che si intesse di implicazioni
politiche, di porsi al di sopra di tutti gli altri vodu.
La pulizia, l'ordine e la facilità d'accesso al culto sono dei valori
associabili alla società "moderna" e che i fedeli del gorovodu
cercano di incorporare. I vodu "classici" sono spesso considerati
un retaggio del mondo contadino, o in ogni caso identificati con
una fetta di popolazione meno "evoluta".
La categoria di pulito, attribuita al gorovodu, deve essere
compresa secondo un'epistemologia propria di uno specifico
panorama storico. Esso è un vodu "moderno", straniero e pulito
in opposizione ai cosiddetti vodu autoctoni o "tradizionali",
accusati in determinati momenti storici e politici di essere troppo
vicini alla stregoneria, sporchi, selvaggi e primitivi.
Il gorovodu ha fatto proprio un'estetica che privilegia l'ordine e la
pulizia. Gli altari sono ampi, luminosi e accoglienti. Le abitazioni
delle singole divinità sono squadrate e costruite in cemento; in
molti casi rivestite di piastrelle bianche, espressione di modernità
e progresso.
Gli "oggetti" (Augé 1988) gorovodu hanno superfici uniformi,
rese splendenti dalla costante sovrapposizione di strati di sangue
che viene omogeneamente distribuito su di essi in modo che essa
appaia compatta, nera e luminosa.
L'estetica "dell'ordine" di questi altari può essere meglio
compresa se confrontata all'estetica "del disordine" tipica degli
altari vodu, dove prevale un caos apparente, la sovrapposizione
materica, la metamorfosi delle forme, e gli ambienti sono
generalmente bui, piccoli o poco accoglienti.
La storia di questo vodu e il suo percorso geografico sono quindi
elementi essenziali per comprenderne i cambiamenti
epistemologici che sembrano aspirare a una semplificazione dei
significati16. Il gorovodu rivendica un'origine che si spinge al
nord, un nord che può andare ben oltre le regioni della savana per
arrivare fino alle rive del Giordano e alla Mecca. I riferimenti alla
religione musulmana sono molteplici ed espliciti.
Secondo Agbassi Agbeko, una delle rare donne sofo, che acquisì
il vodu quando era ancora in età fertile, l'interdizione per le donne
mestruate, ad entrare nel tempio, sarebbe solo l'acquisizione di
una pratica straniera e relativamente recente:
"è un divieto che interessa solo questi vodu perché loro sono
puliti. E' la stessa interdizione che hanno i musulmani e il vodu ci
è stato dato dagli hausa, quindi ha le stesse abitudini. Se vieni a
pregare e hai le mestruazioni, le tue preghiere non funzioneranno
e il vodu ti renderà malata."17
Anche Adzrobassa, una trosi di circa cinquant'anni, che
frequentava il medesimo "couvant" di Bella, raccontandomi di
sua sorella, che divenne sofo da giovane, mi disse:
"Un tempo la legge non era così rigida e si poteva diventare sofo
anche da giovani. Lei (la sorella) aveva un bosofo18 e quando
aveva le mestruazioni era lui ad entrare nell'altare. Poi lei si
purificava. Bastava mettere le mani nell'acqua che c'è all'ingresso,
la stessa cosa che bisogna fare se si tocca un cadavere. Ora la
regola è un po' più difficile e rigida."19
Sia Agbassi che Adzrobassa accettavano le regole del loro vodu,
soprattutto perché se così non avessero fatto si sarebbero
ammalate; esse non consideravano però la donna mestruata come
impura. Le regole inoltre apparivano come "novità" legate
all'origine "hausa", quindi straniera, della divinità o a un
irrigidimento avvenuto negli ultimi anni, che esse accettavano
proprio per rispetto delle peculiarità del loro vodu.
L'idea di sporco è un concetto che il gorovodu ha mutuato sia
dalla religione musulmana che da quella cristiana, con cui i suoi
fondatori, all'inizio secolo, si confrontarono. Come nella
moschea, prima di entrare nell'altare bisogna togliersi le scarpe e
lavarsi le mani nell'acqua, ma nel caso del gorovodu è un'acqua
arricchita di atike, erbe cariche di potere mistico.
Il gorovodu, soprattutto negli ultimi anni, è divenuto il vodu
"pulito" che, anche grazie a questa sua caratteristica, sembra
riscuotere un maggiore interesse da parte di chi, pur appartenendo
a una famiglia di tradizione vodu, si è allontanato dalla sua
pratica.
Prima di arrivare tra gli ewe del Togo e i fon del Bénin, le divinità
fecero molta strada, caricandosi di precetti, pratiche e immagini
mutuate da genti straniere quali i popoli della savana, gli ashanti
e gli anlo, ma anche i predicatori cristiani d'inizio secolo. Le
interdizioni riassumono quindi un insieme di significati che si
sono andati stratificando nel tempo e di cui, in parte, si è persa
memoria.
Come ricordava Adzrobassa, la donna dopo le mestruazioni si
deve purificare, come quando ha toccato il corpo di un morto.
Esistono infatti interdizioni, comuni alla pratica dei popoli di
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lingua ewe, che regolano i fluidi e i contatti che possono
avvenire tra di essi. Una donna fertile deve purificarsi dopo
aver toccato il corpo di un morto, poiché altrimenti il contatto
con la morte causerebbe le mestruazioni perpetue e quindi
l'infertilità (Fiawoo 1974: 272).
Tra gli anlo ewe del Ghana, verso la fine dell'800, i fluidi prodotti,
sia dagli uomini che dalle donne, erano considerati delle sostanze
potenzialmente pericolose. Si credeva, ad esempio, che se due
uomini avessero dormito con la stessa donna il loro sperma si
sarebbe unito e ciò avrebbe portato a risultati fatali. Il mestruo,
inoltre, aveva il potere di togliere la virilità agli uomini, di rubare
potere agli oggetti caricati spiritualmente e di aggravare gli
ammalati (Greene 2002: 88). Alcune di queste precauzioni sono
ancora oggi ritenute valide20, almeno tra gli ewe del Togo.
Pur essendo un'interdizione meno enfatizzata, è vietato, anche per
i fedeli del gorovodu, entrare nell'altare subito dopo aver avuto un
rapporto sessuale, perché sul corpo potrebbero ancora esserci
tracce di sperma; esso, come il sangue, interferisce con la forza
del vodu o è vulnerabile ad esso.
Solo nelle società cosiddette "avanzate", il susseguirsi delle
generazioni e il ciclo della vita è considerato un fenomeno che "ha
luogo "naturalmente"" (Marglin, Mishra 1992:31). In altri
contesti, invece, il sangue mestruale e lo sperma, in quanto fluidi
riproduttivi, sono sovente oggetto di rappresentazioni e pratiche
da parte degli uomini e delle donne che percepiscono lo scorrere
della vita anche come un prodotto delle loro stesse attività.
Si tratta di liquidi corporei dotati di una forza loro propria,
spesso indipendente dalla persona da cui fuoriescono. La loro
funzione e il loro valore cambia a seconda del contesto e delle
relazioni in atto. Il problema non è quindi legato al solo sangue
mestruale, ma a un insieme di liquidi corporei, carichi di potere
generativo, la cui essenza potrebbe reagire in modo catastrofico
con quella, altrettanto materiale dei vodu. Non esiste quindi una
condanna assoluta dei liquidi in quanto tali, ma la
consapevolezza, quasi chimica, che le relazioni e interazioni tra
gli elementi sono estremamente delicate.
Come i vodu sono delle realtà complesse, costituite a partire
dall'accumulo sapiente di materie vegetali, organiche e minerali,
così l'uomo, entità tutt'altro che unitaria, si pone in una relazione
di omologia rispetto alle divinità. Lo sperma e il mestruo sono i
componenti dell'uomo che più lo avvicinano alle forze
dell'invisibile, ed è in base a questa constatazione che la loro
essenza assume una valenza ambigua. Tenendo in considerazione
tali concezioni e ricordando che il vodu, in quanto religione politeista
è particolarmente aperto a incorporare senso, è più facile
comprendere come le interdizioni relative al sangue mestruale si
siano arricchite di una valenza contaminante, soprattutto grazie alla
retorica del "pulito", che il gorovodu ha fatto propria.
Uomini e donne percepiscono le interdizioni legate al sangue
mestruale secondo prospettive differenti, che possono mutare
negli anni e secondo il contesto sociale di riferimento.
Per gli uomini, i sofo in particolare, la donna mestruata è sporca
e quindi non deve avvicinarsi, perché ciò potrebbe "rovinare" i
vodu. Per le donne non avvicinarsi al vodu significa agire per il
proprio bene, garantire e preservare la propria fertilità ed essere in
sintonia con la divinità a cui ci si è affidate.
La sua origine di culto antistregoneria ha sicuramente esasperato,
rispetto agli altri vodu, il timore del sangue mestruale, che è
divenuto oggi un precetto espresso in termini di sporco e pulito.
La posizione della donna nella società dei paesi africani che ho
preso in considerazione, nonostante le forme di estrema violenza
nelle quali i rapporti di genere possono sfociare, non è comunque
di semplice esclusione o sfruttamento. Le regole e i tabù che le
società hanno elaborato attorno alla donna sono state
generalmente percepite come oppressive e discriminanti nei suoi
confronti e, essendo stati analizzati soprattutto in contesti sociali
non occidentali, sono divenuti un simbolo "dell'arretratezza dei
meno sviluppati" (Marglin, Mishra 1992: 23).
Le pratiche e le interdizioni, così come la paura delle streghe,
mettono piuttosto in luce l'incessante interrogarsi sui temi che
riguardano l'uomo, la donna e la loro collaborazione nel
fondamentale compito di garantire il susseguirsi delle
generazioni.
L'idea di sporco, legata al sangue mestruale non è quindi assoluta
e tanto meno una percezione naturale; la donna non è sporca né
impura, ma è produttrice di un fluido molto potente.
Il sangue ha un'agentività che prescinde dal volere della donna,
ma ella può essere in grado di controllarlo e manipolarlo, se ne ha
la capacità e la necessità.
E' questo il punto critico: l'appropriazione che la donna può fare
dei propri liquidi escludendo l'uomo dal controllo dei fluidi e
della loro combinazione.
Sicuramente oggi è più difficile cogliere l'uniformità e la coerenza
di alcuni significati, per cui anche il sangue mestruale, come molti
altri aspetti della vita e dei rapporti umani, si è appesantito di
immagini e pratiche disturbanti, che si esprimono attraverso un
linguaggio meno aperto alle mediazioni. Il sangue mestruale nel
gorovodu sembra aver perso parte della sua polisemicità e tende
ad essere interpretato secondo le più semplici categorie di sporco
e pulito, ma nelle parole delle donne mantiene la complessità dei
suoi significati che si inscrivono in un discorso attento agli
elementi e equilibri cosmici.
[email protected]
Note
(*)L'articolo è frutto di ricerche svolte nell'ambito del progetto
inter-universitario MEBAO, Missione Etnologica in Bénin e
Africa Occidentale, diretto Alice Bellagamba, finanziato dal
Ministero degli A ffari Esteri - Direzione Generale per la
Promozione e la Cooperazione Culturale (DGPCC) e cofinanziato
dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione "Riccardo
Massa" dell'Università di Milano-Bicocca
1. Nelle seguenti pagine utilizzerò come sinonimi "vodu" e
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"divinità", anche se questa traduzione può risultare fuorviante.
Spiegare e definire il vodu in termini coerenti o almeno
comprensibili alla logica occidentale è stato un obbiettivo che ha
segnato profondamente gli studi relativi alla religione
"tradizionale" di quest'area. I primi missionari, così come i primi
amministratori, nel migliore dei casi, videro nei vodu degli angeli,
dei santi o comunque degli intermediari tra gli uomini e Dio, che
essi identificarono con Mawu, uno dei vodu di Abomey.
Definire il corpus dei vodu, come un pantheon (Herskovits 1933;
Le Hérissé 1911; Augé 1988) è stato un altro approccio che, se ne
ha facilitato la comprensione, ha creato ulteriori possibilità di
malinteso, così come i molteplici tentativi di classificazione e
numerazione.
Non cercherò quindi di dare una definizione di vodu, sperando
che alcuni suoi significati e implicazioni possano emergere dalle
pagine che seguono.
Mi riferisco al vodu africano cioè quello praticato nel Bénin e
Togo meridionale e in una piccola area del Ghana, a est del fiume
Volta. Il culto degli orisha, che appartiene invece ai popoli di
lingua yoruba, ha un legame molto stretto con i vodu. Molti di essi
sono infatti degli orisha yoruba che furono incorporati durante le
migrazioni, le guerre e le conquiste che agitarono i popoli della
regione.
2. Tron è una parola ewe che viene, come nel caso di "vodu"
tradotta con "divinità"..L'utilizzo della parola testimonia che le
divinità, originarie del nord, furono poi assemblate ed ebbero
grande successo tra gli anlo-ewe dell'attuale Ghana e proprio da
qui si diffusero in Togo e Bénin.
3. Gli "hausa" sono musulmani e il termine viene usato in Africa
occidentale per definire genericamente chiunque pratichi l'islam.
4. I documenti d'archivio e i testi scritti prevalentemente da
missionari dell'epoca mettevano in luce la sua valenza sincretica
e le possibili implicazioni politiche piuttosto che la valenza
antistregoneria. Cessou (1936) missionario a Lomé, volendo
evidenziare la corruzione morale che il nuovo culto implicava,
riportò, ad esempio, casi di mogli che, protette dal vodu,
riuscivano ad avvelenare il marito, complice il loro amante.
5. Esiste una stregoneria mercificata che tutti, uomini e donne,
possono comprare per conquistare potere economico, sociale o
politico. La stregoneria che si tramanda di generazione in
generazione è invece esclusivamente femminile. In lingua fon ed
ewe si chiama aze, in nago-yoruba àjé. Le aze si nutrono di carne
umana e di sangue, oppure d'olio rosso di palma, che
metaforicamente sostituisce il sangue.
La letteratura antropologica, soprattutto quella relativa alle
popolazioni di lingua yoruba è ricca di riferimenti alle àjé.
Secondo le concezioni locali praticamente ogni donna è
potenzialmente una àjé, "perché le madri controllano il sangue
delle mestruazioni", è un flusso energetico che unisce tutte le
donne rendendole potenzialmente raggiungibili dal potere mistico
delle madri, cioè le streghe. Le madri sono delle figure importanti
nella mitologia yoruba e legate soprattutto al culto delle Gelede.
La funzione principale di questo culto era quello di placare Iyanla.
L'identificazione di Iyanla non è univoca, in alcune aree ella è la
moglie di Obatala, la prima donna dell'universo yoruba, ma più in
generale racchiude in se i principali attributi delle divinità
femminili e spesso viene identificata con la Grande Madre
chiamata anche Onile cioè "la padrona della terra".
La sua identità è legata alle divinità dell'acqua Yemoja (madre di
tutte le acque), Olokun (dea del mare), Osun (dea del fiume
Osun); ha gli stessi poteri di Ile (Terra) e Oduduwa - la dea della
terra - perché rende feconda la vita, l'umanità e la civiltà; talvolta
è Odu - la fondatrice della stregoneria.
6. La dicotomia puro e impuro ha caratterizzato molti studi che si
sono concentrati sui tabu legati alle mestruazioni. Secondo il
modello teorico proposto dalla Douglas (1966) una sostanza è
ritenuta inquinante in base a una percezione condivisa di
anomalia rispetto a un dato ordine o sistema culturale. Per cui un
inquinante è, allo stesso tempo, il prodotto e la minaccia a uno
specifico ordine sociale. In quanto tale esso diviene oggetto a
proibizioni volte a garantirlo e proteggerlo.
Il sangue mestruale, se si assume che il corpo fisico sia una
metafora del corpo sociale, ben incarna questa teoria, soprattutto
se interpretato come anomalia simbolica, come un liquido fuori
posto: un sangue sporco. Sempre in questa prospettiva si sono
situati gli studi ( Rosaldo e Atkinson 1975) che hanno associato il
sangue mestruale all'esclusione femminile da tutte le attività che
comportano contatto con il sangue come la caccia, i sacrifici o
l'esecuzione di scarificazioni.
7. La trosi - moglie del tron - cioè della divinità, è un'iniziata che
va in trance e durante la possessione vede e parla con gli occhi e
la bocca della divinità che in quel momento incarna.
8. Intervista del 2 settembre 2006, Klikamé-Lomé
9. Esistono molte regole a cui i fedeli del gorovodu devono
sottostare, come ad esempio il divieto di rubare o di mangiare la
carne di maiale. Le regole non sono universali per tutti i
"couvant", ma vi sono sfumature differenti che ciascuna comunità
fa proprie. Il non rispetto delle regole, provocando l'ira del vodu,
comporta un intervento patogeno dello stesso, che causerà la
malattia o un'altra forma di disordine all'interno della vita
dell'individuo.
10. Come scrive Camporesi, riferendosi alle concezioni delle
antiche culture greche ed ebraiche esisteva un "enigma del
sangue". Il sangue è un "liquido in perenne movimento, interno e
invisibile, linfa vitale per la pianta uomo come l'acqua lo è per i
vegetali, il sangue possedeva una potente carica metaforica
coagulante simboli ora terrifici ora salvifici connessi all'immagine
nera della dissoluzione e della morte o a quella positiva della
rigenerazione e della vita" (Camporesi 1997:5).
11. E' un sinonimo di voduno ed anche di sofo - che significa
sacerdote in twi-.
12. Come evidenzia Nadia Lovell (2002), in ambiente ewe
ouatchi, il sangue di una persona è dato dalla madre, mentre le
ossa dal padre, per cui il sangue designa sempre l'appartenenza
matrilineare. Nel caso dei sacerdoti vodu essi sono
metaforicamente e fisicamente imbevuti del sangue delle
antenate. Hounka - la corda di sangue - è il termine utilizzato per
designare chi diviene fedele di un vodu. Ricordando che anche i
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De genere
vodu sono hou, cioè sangue, secondo la Lovell si può identificare
hunka, come il meccanismo attraverso cui si commemorano le
antenate donne: i vodu servono a commemorare la componente
femminile dell'individuo mentre quella maschile, gli antenati,
vengono ricordati singolarmente, citandone il nome, nelle
occasioni cerimoniali (2002: 41-47)
13. L'ase è la forza vitale che appartiene alle divinità, agli
antenati, agli uomini, ma anche alle piante, alle rocce, alle
canzoni, alle preghiere e alla parole. Solo l'ase permette che la
vita proceda e che avvengano dei cambiamenti; essa ha una
valenza mistica e religiosa così come politica e sociale, essendo
un segnale di potere, forza e autorità
14. Come mette in luce la Gottlieb (1988) i "tabu mestruali" pur
essendo in qualche misura universali, come le mestruazioni
stesse, hanno significati ambigui e spesso multivalenti: possono
limitare le azioni delle donne oppure quelle delle persone o delle
cose che le circondano (1988:7-10).
Infatti il sangue mestruale può anche essere percepito come un
simbolo positivo di fertilità, come mostra ad esempio la Hanssen
(2002) per i Baul del Bengala indiano e la Gottlieb (1988) per i
Beng della Costa d'Avorio. Anche in occidente, nell'Italia del
1500 la donna durante il ciclo mestruale, fu liberata dalla
macchia dell'impurità. Il mestruo divenne un privilegio,
assumendo un segno decisamente positivo: un dono divino che
aiutava a regolare l'equilibrio fisico e psicologico della donna
(Camporesi 1997: 94-95)
15. Suman: talismani e amuleti
16. Uno dei due ordini in cui oggi si divide il gorovodu, il tron
kpeto deka (divinità della pietra uno), rivendica un primato in
questo ambito rispetto al suo corrispettivo, il tron kpeto ve
(divinità della pietra due). In esso, ad esempio, l'assenza di
trance viene spiegata come una maggiore forma di controllo e di
ordine corporei.
17. Intervista del 7 settembre 2006 a Keghe - Lomé
18. Si tratta dell'aiutante del s o f o, cioè colui che sta
effettivamente sempre a disposizioni della gente che arriva
all'altare. Sofo, di solito, interviene solo per casi gravi e
importanti.
19. Intervista del 5 settembre 2006 a Klikamé-Lomé
20. Secondo un bokono di Afagnan, il divieti relativi al mestruo
sono validi per tutti i vodu, ma egli sottolinea anche altri divieti:
"le donne con le mestruazioni non possono entrare negli altari.
La donna non può entrare anche dopo aver partorito, per tre
mesi. Se entri o fai scappare il gbogbo che lavora con il vodu,
oppure può succedere che non potrai mai più avere figli. Rischi
di distruggere la forza del vodu. E' un sangue che non è normale,
un sangue sporco, un sangue che esce in modo differente, non
piace ai vodu. Non puoi entrare anche se hai avuto dei rapporti,
sei sporco di sperma e non ti sei lavato." (intervista dell'11
settembre 2006 ad Afagnan,Togo)
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La seduzione sulla montagna
di Arianna Cecconi
“Mi perseguitava nei miei sogni, con gli occhi marroni, come questa ragazzina bianca.
assomigliava a zio Santiago, era bianco, ben gringo.
Tutte le notti mi perseguitava nella casa di sopra, lassù mi perseguitava”.1
In questo articolo nato da un’etnografia sulle Ande Peruviane, mi
sono avvicinata ad una prospettiva di genere attraverso l’analisi
delle rappresentazioni e delle pratiche che circolano attorno alla
“seduzione”, un’esperienza dove uomini, donne, divinità, sogni,
e corpi partecipano.
Ho esplorato la seduzione sia attraverso le storie di vita, che
attraverso le “narrazioni oniriche” di donne di diff e r e n t i
generazioni che vivono nelle comunità campesine (Chiwa, e
Contay)2 in cui si è svolta questa ricerca, iniziata nell’agosto
2004,3 nella regione di Ayacucho, 4 sulle Ande Peruviane.
Sia a Chiwa che a Contay mi sono trovata a vivere in famiglie di
donne sole che avevano perso il marito,5 e anche quando andavo
a far visita nelle altre case del villaggio erano soprattutto le donne
che incontravo.6 Data la maggior facilità che ho avuto
nell’accedere alle parole delle donne, ho così deciso di
avvicinarmi alle esperienze, e alle rappresentazioni della
seduzione attraverso il loro sguardo.
Nella letteratura antropologica che si è occupata del contesto
andino viene spesso evocata la complementarietà tra il maschile
ed il femminile come essenziale nella costruzione dell’idea di
persona, ed è la coppia la dimensione in cui ogni individuo trova
la sua completezza (Arnold, 1997). Anche nelle rappresentazioni
della “natura” e delle “divinità” la coppia è una dimensione
centrale, i luoghi hanno una connotazione sessuale, vi sono
montagne maschio e montagne femmina (Bernard, 1991), ed in
generale ogni forma vivente è vista all’interno di una prospettiva
sessuata, e deve essere accompagnata dal suo corrispettivo per
essere “completa”7. Nonostante alcune recenti analisi
etnostoriche sulla “androginia”8 presente in alcuni miti andini
abbiano evidenziato la presenza di categorie di genere preispaniche che destabilizzano la divisione dicotomica,9 la
categorizzazione di molte entità, piante, frutti, semi, luoghi, in
maschili o femminili, è un aspetto costantemente evocato nelle
narrazioni degli abitanti di entrambe le comunità campesine.
La formazione della coppia avveniva fino a poco tempo fa molto
precocemente, e già a partire dai quattordici anni le ragazze
avevano un compagno, e i primi figli, ma oggi questa situazione
sta cambiando, e l’età del matrimonio si è posticipata. Come in
passato anche oggi i primi innamoramenti e corteggiamenti
avvengono generalmente nella solitudine degli altipiani, lontano
dal villaggio, e dallo sguardo degli adulti. I giovani si incontrano
mentre pascolano gli animali, e lì cominciano giochi di seduzione,
che a volte diventano veri e propri incontri sessuali. Secondo
Isbell (1978) non vi è nel contesto andino una stigmatizzazione
della libertà sessuale delle giovani, ed anche nelle frequenti
situazioni in cui le ragazze restino incinte, il figlio verrà allevato
nella famiglia estesa della madre, senza che questo le pregiudichi
definitivamente la possibilità di sposarsi successivamente. La
libertà sessuale che caratterizza l’adolescenza si interrompe
invece non appena si forma una coppia ufficiale; il matrimonio
implica generalmente la regola di residenza virilocale,10 e nei
primi anni la coppia si trasferisce nella casa dei genitori del
marito, e solo successivamente formerà un nucleo autonomo. Nel
corso di questa ricerca ho parlato di matrimoni con donne di
differenti generazioni e i loro racconti sono molto diversi. Le
narrazioni di donne che oggi sono nonne nella comunità,
evocano perlopiù matrimoni obbligati, decisi dalle famiglie, e
le loro descrizioni ruotano attorno all’idea di rantikuy” (che
indica l’azione di “scambio e vendita”), di engaño (inganno),
di “apay” (rapire).
“(..)Quando io ero ragazzina mia madre mi ha venduto e mi ha
fatto sposare con la forza, mi ha chiuso in casa bevendo alcool e
chicha11. (..) così era prima, ora dipende dalla tua decisione, i
genitori non ti vendono (..)”12
Le donne delle nuove generazioni scelgono invece per lo più
liberamente il futuro compagno, eppure anche nei loro discorsi la
parola “engaño” continua a rappresentare un aspetto centrale
attraverso cui descrivono le relazioni con gli uomini. Se oggi
l’engaño non sembra dipendere più dalle costrizioni famigliari, il
far ubriacare le giovani in occasione delle feste comunitarie è
considerata una strategia di seduzione-engaño spesso utilizzata
dagli uomini, così come le ragazze raccontano come essi spesso
le “engañano” con false promesse di matrimonio solo per avere
delle relazioni sessuali. Penelope Harvey (1994) in una ricerca
sulle relazioni di genere in alcune comunità campesine della
regione del Cuzco evidenzia come le donne non ammettano quasi
mai di avere avuto una relazione sessuale e usino spesso il verbo
“engañar” per alludere ad essa13.
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ACHAB
D oss i e r
De genere
La parola “engaño” sembra evocare quindi una sorta di passività
delle donne, come se le giovani non scegliessero liberamente il
compagno o una relazione sessuale, ma fossero indotte da una
serie di circostanze (ubriacatura, false promesse, costrizioni
fisiche). Ma accanto a queste strategie discorsive dove le donne si
auto-rappresentano come prede “ingenue” del desiderio, ho
spesso assistito nel corso delle feste comunitarie a giochi di
seduzione dove le giovani attraverso il ballo, il canto e gli sguardi
sono al contrario le attive protagoniste del gioco seduttivo. La
paura di essere engañate da false promesse, la paura di rimanere
incinte di un compagno che poi le abbandoni sono comunque due
aspetti che ricorrono frequentemente nei discorsi delle donne di
differenti generazioni.
La seduzione è anche un aspetto centrale che caratterizza le
relazioni con le divinità, e nel corso di questa etnografia ho spesso
incontrato narrazioni mitiche, o racconti di sogni e visioni in cui
l’Apu,14 (la divinità della montagna), o i gentiles (antenati) si
manifestano agli abitanti della comunità per “engañarlos” sedurli.
A Contay le seduzioni dell’Apu vengono in alcuni casi raccontate
come una sorta di leggenda, come storie che si dice siano successe
ad una parente, ad una vicina (un modello narrativo attraverso cui
si tramandano generalmente i racconti e i miti popolari), ma in
altri casi vengono invece descritte come esperienze vissute in
prima persona, esperienze accadute davvero, che si
contrappongono al “cuentu” (racconto). L’incontro con l’Apu può
avvenire in sogno o venire descritto come una visione
sperimentata dalla giovane da sveglia, mentre si trovava sola sulla
montagna pascolando i suoi animali; bisogna infatti tenere
presente che a Contay l’attività della pastorizia è affidata
soprattutto alle donne, e in passato come oggi, fin da piccole le
ragazze trascorrono giornate o anche intere settimane in una
choza (capanna) lontano dal villaggio, da sole o accompagnate dai
fratelli più piccoli, per controllare gli animali. Questa esperienza
di prolugata solitudine sulla montagna sembra influire sulla
frequenza degli incontri onirici e visionari con l’Apu. Se i giovani
“umani” sono descritti come esperti “nell’arte di engañar”,
secondo le interpretazioni locali l’Apu in quanto divinità si può
avvalere di molte più strategie, e di veri e propri incantesimi
(encantos); potrà apparire nei sogni o nella solitudine della
montagna nelle sembianze di un giovane gringo, blancon
(bianco), o di un militare15 che seduce con lusinghe e promesse.
“E il signore aveva la sua camicetta, ed il capello pettinato
all’indietro, mi chiamava dal fondo della grotta (machay) e
sicuramente se io fossi stata più vicina o lui fosse stato più vicino
mi avrebbe nascosto (pakaruanman), in questo stesso luogo (la
grotta) mi avrebbe nascosto. Così sono le nostre montagne. Anche
il nostro Antarcacca16 paka17 (nasconde)” (Flora, 25 anni,
comunità di Contay).
Secondo le interpretazioni locali, le seduzioni della divinità (come
le seduzioni umane) possono avere differenti conseguenze:
portare al matrimonio, ad una gravidanza, ma anche alla malattia,
18 e persino alla morte19.
Le donne di Contay raccontano che se la ragazza20 accetta il
corteggiamento della divinità potrà diventare ricca (ovvero
possederà molti animali), ma non dovrà mai sposarsi, e in alcuni
casi sparirà per sempre dalla comunità. L’Apu oltre alla fedeltà
impone il silenzio “non devi raccontarlo a nessuno”, e se la donna
romperà il patto, lui potrà punirla con la malattia o in alcuni casi
con la morte. Come quella ragazzina che aveva raccontato alla sua
famiglia di aver incontrato sulla montagna una bel gringo, e che
se ne sarebbe andata via con lui, ma che non ha fatto in tempo a
realizzare il suo sogno, perché il giorno dopo i militari (durante
l’epoca della violenza) gli hanno sparato un colpo dietro la nuca:
“è che quando uno fa il patto con l’Apu non deve dirlo a nessuno”
commenta Eudelia, reinterpretando questo episodio di violenza,
così quotidiano in quegli anni, come il castigo della montagna per
aver svelato il segreto. Anche la scomparsa di alcune giovani o
bambini sulla montagna può venir spiegata facendo riferimento
alla seduzione della divinità.
C’è poi una donna che vive in una casa fuori dal villaggio non ha
marito né figli, ed in compenso possiede una gran quantità di
pecore, e di lei si commenta che sia una sposa dell’Apu.
Se nell’organizzazione e nella struttura della comunità campesina
la coppia è un’istituzione fondamentale, l’anormalità degli
individui “incompleti” viene a volte spiegata e “normalizzata”
all’interno di un universo mitico: attraverso narrazioni che,
facendo allusione alla divinità della Montagna, ricostruiscono
l’essenzialità della coppia. Oggi le giovani solteras (non sposate)
sono sempre più numerose ed in genere la loro scelta è associata
ai progetti lavorativi nelle città; di loro non si dice che siano le
spose della montagna, ma “l’anormalità” di coloro che hanno
scelto di non formare una coppia e vivono isolati, continua a
suscitare sospetti. La seduzione dell’Apu viene evocata anche per
spiegare altri tipi di anormalità presenti nel contesto comunitario,
come la “locura” (pazzia).21 Le espressioni medio-traumado
(mezzo-traumatizzato), opa (sordo-muto, o ritardato) vengono
spesso usate per descrivere un malessere provvisorio o
permanente, che può generare la perdita della parola, e che può
essere causato dall’incontro con l’Apu. Anche l’anormalità di una
gravidanza, o la precoce mortalità di un neonato possono venir
attribuiti all’intervento sessuale della divinità della montagna. In
alcuni casi viene descritto come una sorta di vento (aire)22, che
penetra il corpo della donna che si è addormentata sulla
montagna, fecondandola senza che lei se ne accorga, mentre in
altri casi la gravidanza sembra essere generata da un atto sessuale
avvenuto in sogno.
Se nei casi di quelle che vengono considerate le “spose dell’Apu”
o di coloro che sono definite “medias loquitas” (mezze-pazze,
tonte, ritardate) sono gli altri che costruiscono narrazioni al “posto
loro”, vi sono molti casi in cui i riferimenti agli incontri sessuali
con la montagna vengono utilizzati in prima persona dalle donne
stesse, per giustificare delle condotte personali, come nel caso
delle gravidanze illegittime. Per una donna attribuire una
gravidanza ad un sogno o ad un incontro sessuale con l’Apu può
rappresentare anche una forma di agency, che le consente di
giustificare una condotta altrimenti difficilmente accettabile
all’interno del contesto famigliare e della comunità.23 La pratica
dell’aborto viene in questi casi tollerata e l’abbandono del
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De genere
neonato, “dejarlo morir” (lasciarlo morire), diventa una sorta di
morte naturale, dal momento che si dice che i figli dell’Apu o dei
gentiles nascono morti o sono destinati ad una vita brevissima.
Le gravidanze attribuite alle seduzioni dell’Apu possono essere
interpretate anche come modalità per esteriorizzare il senso di
colpa di fronte alla perdita reale o all’abbandono di figli sulla
montagna,24 non va infatti dimenticato che si tratta di zone dove
la mortalità infantile è molto elevata.
L’Apu viene rappresentato come una entità pericolosa che può
nascondere le giovani, farle impazzire ed anche ucciderle, ma al
tempo stesso come uno “sposo” potente che le riempirà di
ricchezze: questi diversi aspetti che caratterizzano la stessa
divinità rivelano un’ambiguità intrinseca al potere, che
impedisce di parlare dell’Apu nei termini di un giudizio
manicheo buono-cattivo (Earls 1973, Gose, 1986, Ricard 2004).
Quando l’Apu viene associato al maligno, al pericolo, i racconti
delle sue seduzioni si trasformano in una sorta di monito che
spaventa le giovani affinché non abbiano relazioni con
sconosciuti incontrati sulla montagna. In altri casi invece alcune
ragazze che hanno confidato ai famigliari il loro incontro con
l’Apu, ricordano di essere state sgridate dagli stessi genitori
proprio per aver raccontato, perchè se non l’avessero fatto
avrebbero forse potuto ricevere doni e ricchezze. Quando
Vitalicia, una campesina di Contay, viveva da sola nella choza,
racconta che l’Apu per tre volte l’aveva visitata di notte,
bussando alla sua porta. Per farsi aprire, le aveva promesso
che le avrebbe procurato acqua per irrigare il suo campo,
seminarlo e farvi crescere ogni tipo di verdura:
“Vitalicia, aprimi la porta! Da quì uscirà molta acqua ..vuoi
vacche? Vuoi pecore? Io ti farò una cequia (canale d’irrigazione
dell’acqua), ci saranno verdure, ci sarà un giardino pieno di
verdure..aprimi la porta!..25 io non dicevo nulla, stavo zitta..solo
il mio cagnolino diceva hiii..hiii…Io non gli ho aperto, ma lui
continuava a chiamarmi dalla porta “Aprimi! Aprimi!” io non
gli aprivo ma ero bagnata di sudore”.
Il terzo giorno Vitalicia era andata a casa dello zio, e gli aveva
raccontato26 che un uomo veniva la notte e le diceva di aprirgli
la porta e che lei aveva avuto paura, ma lo zio invece di
confortare la nipote, l’aveva rimproverata dicendo che quel
signore poteva essere l’Apu, e che se lei lo avesse ricevuto
avrebbe sicuramente avuto molte pecore e vacche, come la
signora Isabella di cui si diceva fosse la moglie dell’Apu27. “Se
non avessi parlato..se te ne fossi stata zitta e tranquilla, ti
avrebbe dato vacche e pecore..Isabella dicevano che aveva
molte pecore perché era stata con Urqu (l’Apu)”.
Le parole dei famigliari che sgridano le figlie per aver svelato
l’incontro con l’Apu, possono venire comprese se si tiene
presente la pratica precedentemente evocata del “tratanakuy”,
dei matrimoni organizzati, in cui le figlie venivano “entregade”
(consegnate-vendute) ad uomini spesso più vecchi di loro, ma
che occupavano uno status socio-economico superiore.
Far dialogare alcune narrazioni di sogni con le testimonianze
della storia “diurna” delle donne di Contay ha consentito da un
lato di poter meglio contestualizzare alcune trame oniriche, e
dall’altro di riflettere sulle molteplici articolazioni tra la “vita
diurna” e la “vita notturna”, tra la storia presente e passata degli
abitanti di Chiwa e Contay. L’esplorazione delle manifestazioni
oniriche dell’Apu e della sua “icona” è diventata occasione per
riflettere anche su alcune rappresentazioni del potere e della
violenza che circolano nell’immaginario notturno e che sono
intimamente legate al tema della seduzione. Le peculiari vestigia
di alcuni personaggi, la cui presenza è attestata storicamente
(hacendados, preti, militari), sembrano essere state incorporate
dentro l’ icona onirica dell’Apu. In alcuni casi la sua seduzione
viene descritta come violenta e queste narrazioni oniriche non
possono non essere messe in relazione con gli abusi che
avvengono nel contesto comunitario, che caratterizzavano
spesso una pratica degli hacendados28 e, durante la guerra, dei
militari29, violenze di cui tutti sono a conoscenza ma di cui non
si parla esplicitamente.30 Se a Contay molte donne raccontano di
aver sperimentato in sogno la seduzione o le violenze dell’Apu
(nelle sembianze di un militare), nessuna ha mai raccontato di
essere stata vittima di un abuso sessuale reale: le narrazioni
riguardano sempre conoscenti, e famigliari. Le violenze
sessuali rappresentano spesso un “segreto pubblico”
(Taussig, 1987), destabilizzato da figli illegittimi, da alcune
rare testimonianze e anche da questi sogni dove l’Apu si
manifesta nelle sembianze di quegli stessi personaggi di
potere che hanno segnato la storia di questi luoghi.
Che il potere rappresenti anche un oggetto erotico è una tematica
che è stata esplorata da differenti discipline. Oltre che riflettere e
rispecchiare abusi o episodi di violenza, i sogni seduttivi
dell’Apu sembrano a volte parlare anche del desiderio di alcune
donne di incontrare un uomo che viene da fuori e che potrà
cambiare la loro vita. Spesso le giovani di Contay descrivono il
loro fidanzato ideale secondo un canone estetico (un giovane
gringo, alto) e sociale in cui generalmente non rientrano i loro
coetanei che vivono nella comunità. L’ambiguità che caratterizza
le rappresentazioni dell’Apu sembra riflettere l’ambiguità che
caratterizza anche alcuni personaggi umani che detengono il
potere. Un qualsiasi straniero, gringo, uomo ricco ed anche un
militare, possono essere descritti come figure pericolose o
abusanti, ma al tempo stesso attrattive in quanto rappresentano
ed incarnano una possibilità di ascesa sociale, esercitando quindi
un ambiguo potere seduttivo. Evocare la categoria di ambiguità
non significa affatto minimizzare il problema della violenza.
Quando una giovane campesina sperimenta il desiderio di
sedurre il gringo, l’hacendado, il militare ecc.., si è comunque
autorizzati a parlare di “violenza” in relazione alle strutture di
dominio e alla disuguaglianza implicita nei rapporti di forza
presenti in questo contesto. Nella relazione tra una giovane
campesina ed un apu (hacendado, militare, ecc..) è evidente una
dissimmetria e disuguaglianza di potere che può manifestarsi a
differenti livelli (forza fisica, potere materiale, potere culturale).
Anche se la giovane può sperimentare una situazione ambigua, e
non è quindi solo spaventata ma anche attratta dal gringo-apuhacendado-militare, la disuguaglianza di potere tra i due soggetti
autorizza l’uso del termine “violenza simbolica” nell’accezione
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proposta da Bourdieu (1977). Farmer fa inoltre notare l’ipocrisia
della nozione di “sesso consensuale”, in contesti sociali in cui le
scelte non sono libere, ma limitate dalle condizioni di povertà, di
razzismo, e di violenza politica (Farmer , 2004).
Inizialmente quando mi avvicinavo alle narrazioni di queste
seduzioni oniriche cercavo di comprendere se esse fossero
sperimentate solo “oniricamente” o rappresentassero invece
una modalità di parlare di violenze subite, di giustificare
episodi accaduti, ma nel corso della ricerca mi sono accorta
come le molteplici connessioni tra le narrazioni mitiche, le
narrazioni dei sogni, i corpi, la storia, le violenze, le pratiche
e le strategie sociali si compenetrassero: se da un lato sarebbe
riduttivo demistificare queste narrazioni oniriche e leggerle
soltanto come un riflesso della “realtà”, o interpretarle
attraverso una prospettiva funzionalista, dall’altro sarebbe
ugualmente limitante considerarle delle narrazioni di sogni
che non hanno alcun legame con le pratiche sociali e con la
storia di queste montagne.
Le seduzioni dell’Apu possono essere analizzate da diversi punti
di vista e prospettive, se da un lato sembrano rappresentare una
forma d’incorporazione delle narrazioni mitiche che circolano nel
contesto comunitario, dall’altra é importante analizzare l’uso
sociale di questi racconti. In alcuni casi sembrano testimoniare la
violenza e il controllo sociale che le donne subiscono nel contesto
comunitario, in altri casi sembrano rappresentare delle modalità
attraverso cui le donne rendono visibili pratiche abusive, parlano
dei propri desideri e giustificano condotte illegittime, ovvero
attraverso cui sfuggono a quello stesso controllo sociale che
regola la vita comunitaria: i figli attribuiti all’Apu possono essere
sia il frutto di abusi sessuali, che di rapporti illegittimi scelti dalle
donne liberamente.
Con queste riflessioni non voglio affatto sottovalutare il problema
della violenza che molte donne vivono nel contesto comunitario,
ma al tempo stesso credo sia importante non cadere nella
reificazione della generica categoria “donna del Terzo Mondo”,
considerata il prototipo della vittima per eccellenza31 (Mohanty,
2003). Questa categoria non aiuta a comprendere la specificità dei
contesti locali e alcune strategie messe in atto dalle donne, in
questo caso attraverso le narrazioni oniriche. Le donne non sono
solo “engañate” dagli uomini della comunità , né sono solo
vittime della seduzione dell’Apu, in alcuni casi la divinità della
Montagna diventa complice dei loro desideri, della loro libertà
sessuale, e dei loro sogni.
Note
1."Me perseguía en mis sueños, con ojos marrones, como esta niña
blanca, se parecía a tío Santiago, era blanco, bien gringo, El era muy
parecido a el, todas las noches me persigue ,en la casa de arriba, allí
me perseguía.
2. Entrambe le comunità sono state molto colpite dalla violenza,
entrambe sono di piccole dimensioni (Contay ha circa 200 abitanti,
mentre Chiwa solo una trentina di famiglie). La maggior parte degli
abitanti si dedicano all'agricoltura e alla pastorizia, perlopiù come
forme di sussistenza famigliare.
3. La ricerca si è articolata in tre periodi di permanenza sul campo,
tre mesi nel 2004, otto mesi nel 2005, e sette mesi nel 2006.
4. Situata nelle Ande sud-centrali questa regione è stato l'epicentro di
un conflitto armato (1980-1992) tra il movimento rivoluzionario
Sendero Luminoso, e le Forze Armate (FFAA), una guerra civile che
ha causato 70 mila vittime, per lo più campesinos della regione di
Ayacucho.
5. Spesso mi veniva da pensare che gli uomini fossero effettivamente
di meno, una percezione non del tutto falsa visto che in entrambe le
comunità vi sono delle spiegazioni a questa predominanza
femminile. A Chiwa le donne più anziane raccontano che molti
uomini del villaggio sono morti per la loro febbre dell'oro. Circa
quarant'anni fa era venuto nella comunità un prete che aveva
convinto le autorità comunali a scavare sotto l'altare della chiesa
perché lì avrebbero trovato l'oro. Tutti gli uomini di Chiwa che hanno
lavorato come peones per scavare sotto l'altare sono morti, uno ad
uno…e l'oro non è mai apparso. A Contay invece la minoranza degli
uomini viene spiegata soprattutto in relazione alla guerra.
Nell'Informe finale della Comisión de la Verdad risulta che furono gli
uomini le principali vittime, e sono soprattutto le donne che si
trovano oggi a fare i conti con la memoria della violenza, e con il
processo di riconciliazione.
6. Il fatto che fossi una "donna soltera" (non sposata) rappresentava
inoltre un elemento insolito, e tra le varie fantasie che gli abitanti
delle comunità avevano rispetto alla mia presenza, veniva
ripetutamente evocata l'idea che fossi in cerca di marito. Per non
alimentare possibili malintesi, ho così preferito mantenere relazioni
soprattutto con le donne, e incontrare gli uomini sempre attraverso la
mediazione femminile.
7. In quechua la coppia viene definita warmi-qari, un'espressione
generata dall'unione stessa della parola "qari" uomo, e "warmi"
donna, ed è importante sottolineare che nonostante l'importanza della
simbologia del maschile e del femminile, non esiste nella lingua
quechua una differenziazione linguistica di genere.
8. L'antropologa Isbell analizzando alcuni miti andini d'origine,
appartenenti al manoscritto di Huanrochirí, sostiene che
"l'androginia" (una entità tanto maschile quanto femminile e
considerata riproduttiva), è una categoria fondamentale nel sistema di
genere delle Ande. Essa non rappresenterebbe soltanto una
"complementarietà" finale, ma al contrario l'androginia dovrebbe
pensarsi come una totalità più grande della somma delle sue parti. Per
un approfondimento di questo tema si rimanda al testo di Isbell B.,
"De inmaduro a duro: lo simbólico femenino y los esquemas andino
de género", in Arnold D., (editora), Mas alla del silencio: las
fronteras de género en los Andes, Ilca, La Paz, Bolivia, 1997, pp.
253-300).
[email protected]
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9. A Contay vi è una donna di circa settant'anni, che sembra ancor
oggi perturbare le classificazioni di genere. I comuneros dicono
infatti che sia mezzo donna e mezzo uomo, alludendo non ad un
ermafroditismo nel corpo, quanto piuttosto ad una oscillazione
sessuale legata alla temporalità. Dicono che in alcuni mesi è donna ed
in altri diventa uomo, di nascosto la chiamano machorra, e in molte
occasioni le persone mi hanno sconsigliato di andare a parlare con lei
perché avrebbe potuto essere pericoloso.
10. Il matrimonio è spesso un'occasione in cui si rinforzano alleanze
tra le famiglie, si effettuano trasferimenti di terra, e rappresenta una
sorta di patto economico.
11. La chicha è una bevanda tradizionale delle regioni andine,
ottenuta dalla fermentazione del mais.
12. "Cuando era chica mi madre me vendió y por la fuerza me hizo
casar, me encerró en mi casa tomando trago,chicha..(..) así era
antes, ahora no es así es tu decicion nomás, los padres ya no te
venden".
13. L'espressione "me engaño" allude implicitamente all'avere avuto
una relazione sessuale. In molte etnografie sull' "amor andino" viene
spesso evocato come il gioco di seduzione prenda spesso la forma di
una sorta di lotta, dove la resistenza attiva delle donne è vista come
un'espressione di desiderio.
14. Se oggi le donne di Chiwa e Contay vengono visitate in sogno sia
dalle divinità appartenenti al pantheon cristiano, che a quello andino,
sono solo queste ultime ad essere protagoniste dei sogni sessuali, e
nessuna donna mi ha mai raccontato di essere stata sedotta in sogno
da un Santo. Gli appetiti sessuali sembrano quindi una prerogativa
delle divinità autoctone, dell'Apu e dei gentiles (antenati).
15. Le stesse persone possono sognare l'Apu sia nella forma di un
condor, un animale molto importante nella mitologia andina, sia nelle
sembianze di un gringo (un uomo bianco, ben vestito) o di un
militare, e queste diverse immagini vengono interpretate come una
manifestazione della stessa divinità, ed attivano una risposta rituale.
Le peculiari vestigia di alcuni personaggi, la cui presenza è attestata
storicamente (hacendados, preti, militari), sembrano essere state
incorporate dentro l' "icona onirica" dell'Apu.
16. Ogni comunità campesina ha il proprio Apu di riferimento, e
Antarcacca è il nome dell'Apu di Contay.
17. Il verbo quechua "pakaruanman" (nascondere) è usato spesso in
relazione alla divinità della montagna: l'Apu ti nasconde, e ti fa
scomparire. Nelle narrazioni viene spesso evocata una vera e propria
porta che si apre sulla montagna, una porta che si materializza
all'improvviso, e da cui si può intravedere l'interno della montagna
(ukhupi), spesso descritto come un palazzo meraviglioso dentro cui
vi è frutta di ogni tipo, ricchezze, e che alcuni descrivono come una
città.
18. Se la sessualità e la seduzione sembrano rappresentare fin
dall'epoca pre-ispanica una delle possibili modalità di relazione tra le
divinità e gli umani, è difficile stabilire se la connessione tra la
sessualità onirica e la malattia sia una interpretazione autoctona, o se
invece sia frutto dell'influenza della morale insegnata dai missionari,
e del processo di colpevolizzazione della sessualità messo in atto dal
Cristianesimo (Le Goff, 1985).
19. In alcuni casi la causa di questi sogni viene considerata il fatto di
essersi addormentati o seduti in alcuni posti considerati "incantati" e
pericolosi. L'attacco della Montagna sul corpo della persona
prenderà quindi la forma onirica di un tentativo di seduzione, o di una
molestia sessuale da parte di un gringo. Questi sogni vengono
interpretati come una manifestazione del daño dell'Apu (che si
manifesta come una malattia), ed attivano alcune pratiche rituali,
come portare una offerta rituale ( pagapu) nel luogo da cui si pensa
essere stati attaccati.
20. Come si è precedentemente accennato ogni montagna viene
differenziata attraverso una prospettiva sessuata; l'Apu non è solo una
divinità maschile, vi sono anche Apu che appaiono nelle sembianze
di una donna per sedurre i comuneros uomini, ma in questa ricerca
mi sono avvicinata prevalentemente alle narrazioni delle donne.
21. Anche in molte società amazzoniche viene documentata la
presenza di una varietà di spiriti che seducono in sogno, o nella
solitudine della foresta, generando forme distinte di pazzia, o
mutismo (Taylor 1993, Perrin 1998, Severi 1988) Fantasmi sessuali
che perturbano la realtà con azioni patogene che si inscrivono nei
corpi di coloro che li incontrano.
22. L'Apu può manifestarsi non solo attraverso sembianze umane,
ma anche attraverso un fumo, o vapore che esce dalla terra.
23. L'antropologo Flores Ochoa (1987) è stato uno dei primi a dare
una spiegazione funzionalista di queste gravidanze attribuite a cause
soprannaturali, che riguardano soprattutto due categorie di donne, le
giovani non sposate, e le vedove: e concludeva la sua analisi
esortando gli etnologi a domandarsi se le credenze che essi
incontrano e analizzano sono davvero "reali" o se non si tratta,
piuttosto, di strumenti efficaci di controllo sociale, dove l'entrata in
scena, dell'Apu o dell'antenato consente di spiegare un
comportamento deviante. L'antropologo Ricard (2004) si spinge oltre
la spiegazione funzionalista mostrando come, sebbene in molti casi
né le donne né i comuneros credono che il responsabile "di fatto"
della gravidanza sia il gentiles o l'Apu, al tempo stesso pensano che
in linea teorica avrebbero potuto esserlo. Se venisse negata la
possibilità di queste gravidanze soprannaturali, non ci sarebbe più
ragione di credere nelle entità del sistema religioso andino. Dal punto
di vista della collettività è necessario sostenere la possibilità (teorica)
di una gravidanza "soprannaturale" e quindi dell'esistenza di entità di
un mondo altro, perché se così non fosse, si arriverebbe alla
distruzione di tutto un sistema di credenze che servono a pensare il
mondo. Le idee religiose (di cui fanno parte sia i gentiles che l'Apu)
appartengono infatti ad un universo di idee che non può venir messo
in discussione dall'esperienza. Questa distinzione tra la responsibilità
"di fatto" della gravidanza e la possibilità "di diritto" rende possibile
da un lato l'utilizzo di un episodio mitico per legittimare una condotta
illegittima, ma dall'altro non nega l'efficacità della credenza nell'Apu
e nella sua possibilità di manifestarsi agli umani (Ricard, 2004).
24. Analizzando le narrazioni delle gravidanze attribuite a cause
soprannaturali, da un punto di vista psicologico, Brunel sostiene che
esse possano avere anche la finalità di alleggerire le donne dal senso
di colpa nei casi della morte di figli piccoli. Brunel G., "La
enfermedad como seduccion real o como sueño: el caso del soq'a
andino", in Antropologica, año 1986, IV, n. 4, Pucp, Lima
25. "Chay yakullamanta chuqpaspaykim yardinata, Tarpunki
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llapachan, miranqa, kaymi hacienda kanqa".
26. Come è successo alle altre donne che hanno svelato la segretezza
dell'incontro, da quando Vitalicia parlò con lo zio, il misterioso
giovane notturno non è più apparso.
27. "Isabel nirqa Ciertucho imaya kakun, cabra ovejaspam karqa,
chaysi orqoan kasqa, chaysi portiqiasqa cabrata ovejata".
28. Fino agli anni Cinquanta, nelle zone rurali del territorio peruviano
vigeva il regime latifondista. Venivano chiamate haciendas le grandi
proprietà terriere che non solo durante il Virreinato, ma anche
nell'epoca della Repubblica rappresentavano la colonna vertebrale
del territorio peruviano. Questo regime latifondista metteva in atto
forme di sfruttamento feudale che si manifestavano attraverso il
lavoro gratuito dei campesini sia in faenas (corvée) agricole (
semina, e raccolto), sia presso la casa dell'hacendado.
29. Nel teatro della guerra gli abusi sessuali hanno rappresentato una
pratica generalizzata, ma la Commissione della Verità, nel tentativo
di portare alla luce gli innumerevoli casi di violazione perpetrati
dall'esercito, si è trovata di fronte al silenzio delle donne e
all'impossibilità di verbalizzare quello che era successo.
30. Condivisa è infatti l'idea che nell'epoca della hacienda potessero
accadere simili violenze dimostrate anche dai numerosi figli
illegittimi generati da queste unioni tra hacendados e campesine. La
possessione sessuale era un'ulteriore dimostrazione del potere e della
dominazione che i latifondisti esercitavano sugli abitanti delle
comunità e secondo l'antropologa Valérie Robin (2002) si può anche
comprendere come l'impotenza dei campesinos di evitare gli abusi
perpetrati sulle loro spose-figlie, e di fare giustizia (dato lo stretto
legame che vincolava le autorità giudiziarie ai latifondisti), avrebbe
portato ad una sorta di procedimento negazionista. Vi era
un'obbligata e tacita complicità delle famiglie di fronte a queste
violenze. Le storie che parlano delle aggressioni sessuali notturne
dell'Apu o degli antenati (gentiles), secondo Robin, sembrano
evocare in forma allusiva gli abusi realmente commessi dai
latifondisti.
31. Al tempo stesso come sottolinea Mohanty l'auto rappresentazione
vittimistica viene oggi utilizzata dalle "donne del terzo mondo" per
beneficiare dei piani di aiuto umanitario, ma questo non significa che
si tratti solo di vittime senza nessuna capacità d'azione.
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37
ACHAB
Do s si e r
De genere
Lesbiche e trans FtM
Contese all'incrocio fra identità di genere e orientamento sessuale
di Helen Ibry
Durante la ricerca sul campo per la mia tesi di laurea condotta
nella comunità lesbica fiorentina nel 2004 ho potuto osservare
l'incontro fra questa e la soggettività trans FtM (female to male da femmina a maschio) che si è rivelato occasione di confronto e
attrito fra costruzioni identitarie differenti. I corpi, i generi, le
sessualità di questi soggetti si sono trovati al centro di una
battaglia discorsiva. Ritengo interessante questo confronto perché
ha messo in luce le contraddizioni di alcune costruzioni teoriche
e ha ribadito la centralità dell'intreccio fra sessualità e genere.
Cercherò di mostrare la complessità delle identificazioni di
genere, sesso e orientamento sessuale e i vari piani in cui
essenzialismo e costruzionismo sono stati utilizzati.
In questo articolo intendo delimitare l'analisi a un preciso evento
e a due gruppi di soggetti che si sono confrontati, eterogenei al
loro interno ma uniti dalla loro collocazione identitaria come
lesbiche o come FtM. Utilizzo queste due categorie in quanto è
così che si sono contrapposte mettendo parzialmente in secondo
piano le specificità individuali.
Dal 4 al 6 giugno 2004 a Firenze si è svolto il "Polispazio Queer",
una rassegna di cultura lesbica e queer organizzata dalla rete
Lespride che ha visto la partecipazione di circa 800 persone.
All'interno del "Polispazio" uno dei temi di maggiore rilievo è
stato l'incontro con alcuni soggetti FtM, realizzato utilizzando
diversi canali di espressione: una rassegna di video, due
presentazioni di libri alla presenza di autori e autrici, dibattiti,
spettacoli di teatro. Ho scelto questo momento sia per la ricchezza
dei posizionamenti e delle interpretazioni che sono emerse, sia
perché i soggetti che hanno partecipato a quella stagione di
confronto lo ricordano come uno dei momenti di maggiore
rilevanza per la sua intensità e per l'ampia partecipazione
nazionale. Ad ogni modo le osservazioni e le opinioni qui
riportate sono venute chiarificandosi in me anche grazie ad altre
occasioni di incontro in cui sono stata coinvolta.
Lespride era una rete nazionale di gruppi, associazioni e singole
lesbiche che si era costituita nel 2003 con l'intento di promuovere
iniziative a favore della visibilità politica e culturale del lesbismo
in occasione della manifestazione del Pride del 2004 che si
sarebbe svolta in Toscana. Gli scopi di Lespride erano:
l'organizzazione di eventi a tematica prevalentemente lesbica, la
promozione della produzione culturale lesbica in tutte le comunità
LGTQ (lesbica, gay, transgender, queer) e all'esterno di esse, la
critica all'eterosessualità obbligatoria, l'affermazione e
l'empowerment della soggettività lesbica, lo scambio e l'incontro
fra le diverse soggettività del movimento lesbico e con altre
soggettività del movimento LGTQ. Al di là di queste priorità
comuni, le componenti di Lespride non erano affatto omogenee
fra loro, i posizionamenti identitari, personali, politici erano
talvolta molto differenti, ma molti dei riferimenti teorici erano
condivisi. Fra questi troviamo alcune delle teoriche che hanno
decostruito nell'ultimo secolo i concetti di sesso e genere e che
sono divenute di riferimento per i movimenti lesbici, femministi,
queer e transgender: De Beauvoir (1949), di cui è nota
l'affermazione "donna non si nasce, lo si diventa", ripresa poi da
molte/i altre/i studiose/i, fra cui le antropologhe femministe;
Rubin (1975), che attraverso il concetto di sex-gender system non
si limita a indicare che il genere è costruito dalla cultura, ma che
anche il sesso biologico viene da questa plasmato; Laqueur
(1992) e Kessler (1996), che affermano il carattere culturale
dell'importanza data al sesso biologico come supposta base di una
differenza imprescindibile e origine di un destino sociale; Rich
(1985), che propone di valorizzare il continuum lesbico, ovvero
tutte le "esperienze in cui si manifesta l'interiorizzazione di una
soggettività femminile" (ivi, p. 26), che comprendono quindi
anche quei rapporti privilegiati fra donne in cui non vi è stata o
non è stata desiderata una relazione sessuale, e che ha sostenuto il
potenziale sovversivo del rapporto lesbico proprio perché
costituisce un radicale atto di resistenza e di rifiuto del patriarcato,
il cui meccanismo fondante è l'eterosessualità obbligatoria;
Wittig (1980), che sottolinea come una delle caratteristiche
fondanti del genere "donna" sia l'orientamento eterosessuale, che
implica subordinazione all'uomo, e afferma quindi che "le
lesbiche non sono donne" (ivi, p. 72); De Lauretis (1999), che ha
posto il concetto di "soggetto eccentrico", cioè marginale, decentrato, che attraversa coscientemente i confini di identità,
comunità, corpi e discorsi; Butler, che definisce il genere come
"un'imitazione per la quale non esiste l'originale" (1993, p. 313),
come una performance, una "ripetizione ritualizzata di
convenzioni sociali" che "producono retroattivamente l'illusione
che ci sia un'essenza stabile" (1999, p. 18).
Questi riferimenti teorizzano che la lesbica avrebbe il potere di
decostruire il genere femminile, ma se indubbiamente per molti
aspetti la lesbica si è ribellata al ruolo di genere, molti altri suoi
comportamenti vi sono comunque riconducibili, come
conseguenza di una socializzazione ricevuta costantemente fin
dalla nascita (Gianini Belotti, 1973; Saraceno, 2003). Harding
(1991) ritiene, inoltre, che il lesbismo crei una discontinuità
rispetto ai meccanismi della misoginia anche femminile, che è
una delle espressioni delle società patriarcali.
38
ACHAB
Do s si e r
De genere
La maggior parte delle lesbiche di Lespride erano da tempo attive
nel movimento lesbico femminista radicale: si tratta di soggetti
che riflettono e producono movimento quotidianamente a livello
personale, teorico e politico, come intellettuali e/o militanti. In
Lespride la parola lesbica1 è stata marcatamente utilizzata per
affermare il proprio posizionamento: insieme alla volontà di
destrutturare le costr(u/i)zioni sottese a ogni identità, vi era la
scelta di appropriarsi di quella lesbica per posizionarsi
attivamente nel proprio contesto sociale, coscienti delle specifiche
dinamiche di potere che lo contraddistinguono.
I soggetti FtM con cui si è stabilito il confronto erano parte del
Coordinamento Nazionale FTM, una rete supportata
dall'associazione Crisalide Azione-Trans, che "fornisce
informazioni, supporto organizzativo, di consulenza e counselling
a persone geneticamente femmine in transizione verso il maschile
(transessuali, transgender2) o la cui identità di genere sessuale non
rientri in alcun stereotipo culturale né maschile né femminile
(intersessualismo, androginia, travestitismo, ecc.)"3. Si tratta di
soggetti più giovani politicamente, anch'essi con scelte identitarie
differenti fra loro, che maneggiavano eterogenee concezioni
teoriche del fenomeno transgender e che hanno scelto
l'autorganizzazione in un soggetto politico autonomo e visibile.
Il concetto di transgender è utilizzato per indicare il superamento
del binarismo sessuale e di genere e della loro presunta necessaria
coerenza: "transgender è infatti una visione del continuum
comportamentale che esiste tra le due polarità. […] legittimare
tutte queste possibili forme di espressione della propria sessualità
significa in sostanza negare che ne possa esistere una ufficiale
[…][e] anche negare che ne possa esistere soltanto una di
alternativa, inufficiale, ribelle." (Velena, 1998, p. 238); anche
Rothblatt (1997) propone il paradigma del "continuismo sessuale"
come superamento di quello del "dimorfismo sessuale". In
quest'ottica diversi FtM si sono rifatti anche alle teorie sulla
performatività del genere (Butler) e alle teorie queer.
La nozione di transessualismo, invece, riconduce all'interno del
modello binario di genere ed è da più parti (Saraceno, 2003; Roen,
2002; Nardacchione, 2000; Nicotra, 2006) riconosciuta come
prodotto del recente sviluppo delle tecnologie mediche che hanno
reso possibile il "cambiamento di sesso”4 . È comune tra i soggetti
trans la descrizione di sé come "uomini intrappolati in corpi di
donne" o "uomini nati nel corpo sbagliato": questo "errore di
natura" viene riparato attraverso un cambiamento del corpo per
renderlo conforme all'identità di genere (Legge 164/1982). Se
questa definizione ha avuto il merito di decriminalizzare
comportamenti e soggetti non convenzionali dal punto di vista del
genere, ne ha anche rigidamente incanalato i percorsi. Sovente i
soggetti con un'identificazione di genere incerta raccontano di
conformarsi alle richieste del sistema medico e psichiatrico per
dare senso alla propria storia, omettendo ciò che potrebbe
indebolire il buon esito della richiesta di transizione. Anche per
questa ragione e per aprire a una definizione più flessibile dei
generi, il movimento trans chiede da tempo una legge che
consenta il cambiamento dei dati anagrafici senza l'obbligo della
"riattribuzione chirurgica del sesso".
Fatte queste sintetiche premesse di presentazione dei due principali
gruppi di soggetti presenti al "Polispazio Queer", mi rivolgo ora
all'analisi di quel che è accaduto in particolare durante il dibattito
"Transgenderismo FTM nell'attualità". Ritengo che in quell'occasione
siano entrati in contatto due mondi identitari ed esperienziali che,
seppur eterogenei al loro interno, hanno irrigidito nel confronto le
proprie affermazioni teoriche e politiche. Questo meccanismo è stato
osservato anche per altri fenomeni di costruzione identitaria, quale
quella etnica, "costrutto culturale mediante il quale un gruppo produce
una definizione di sé e/o dell'altro collettivi […] autoattribuendosi una
omogeneità interna e una diversità rispetto ad altri"; infatti l'identità
etnica "non è pensabile se non in maniera contrastiva e contestuale"
(Fabietti, 1995, p. 18, 43). I rapporti fra identità esperita, identità
esternata e identità imposta dall'esterno sono utili per interpretare sia i
processi creatisi nel confronto fra lesbiche e FtM, sia quelli interni a
ciascuna delle due comunità e le loro relazioni con l'esterno.
Nodale nel confronto è stata la ricerca degli elementi comuni alle due
esperienze e di quelli divergenti. Sia gli FtM sia le lesbiche sono
individui nati femmine e quindi socializzati, più o meno rigidamente,
al genere femminile; entrambi hanno patito una forte insofferenza a
tale ruolo sociale - questo non vale per tutte le lesbiche, ma per molte
- con la conseguente ricerca di soluzioni alternative di vivibilità, tra cui
spesso un'assunzione di caratteri socialmente considerati maschili.
Molte lesbiche riconducono questo fenomeno al rifiuto di un
ruolo socialmente inferiore e vincolato a un maschio, lo
interpretano come una possibilità per differenziarsi e farsi
riconoscere come soggetti eroticamente desideranti altre donne e
come uno strumento di difesa dai maschi.
A differenza delle lesbiche, che collocano al centro della propria
costruzione identitaria il desiderio per un'altra donna, gli FtM
vivono come cruciale il bisogno di riconoscimento di sé come
maschi e uomini. Per questa ragione i percorsi a cui questi
soggetti danno vita sono differenti. Molti FtM assumono
caratteristiche comportamentali tipiche del genere maschile e
intraprendono processi di modifica del proprio corpo: assunzione
di ormoni con conseguente sviluppo dei "caratteri sessuali
secondari" maschili (peli, abbassamento della voce, modifica
della localizzazione dei grassi), mastectomia, isterectomia,
falloplastica o clitoridoplastica. Molti però scelgono solo alcune
di queste procedure - per esempio solo ormoni e riduzione del
seno o solo interventi demolitivi e non ricostruttivi - grazie alle
quali sovente riescono a "passare"5 da uomini. Il raggiungimento
di tale obiettivo spesso è sufficiente a soddisfare il bisogno di
identità ricercata, non vengono quindi intrapresi gli interventi di
maggiore pericolosità o quelli che diminuirebbero, o
annullerebbero, la sensibilità erogena. In altri casi invece la
presenza nel proprio corpo di organi e funzioni specificamente
femminili è insopportabile e conduce alla scelta degli interventi
chirurgici più invasivi6.
Sulla scorta di queste narrazioni di sé e di queste esperienze di
vita sono risultati centrali nella discussione i seguenti quesiti:
quali aspetti del proprio corpo determinano l'appartenenza all'uno
o all'altro genere? E dunque quali tratti bisogna modificare perché
si possa parlare di "cambiamento di sesso"? Il sesso, quindi, è una
39
ACHAB
Do s si e r
De genere
questione di organi genitali esterni, come suggeriscono gli studi
sulle persone intersessuate che subiscono irreversibili interventi
alla nascita per adattare organi genitali ambigui al sesso più
"probabile"? O è una questione di "caratteri sessuali secondari"
visibili, come suggerisce lo straniamento che ci provoca la vista
di individui che non riusciamo bene a collocare nell'uno o
nell'altro genere? O di organi genitali interni? O di ormoni? O di
cromosomi (sono note numerose varianti oltre ai più comuni xx e
xy)? O forse più probabilmente si tratta di genere biologizzato?
Non bisogna dimenticare che vi è anche una vasta realtà di
persone che, scontente del loro essere uomini o donne, ricorrono
all'endocrinologia e alla chirurgia per accentuare i caratteri del
proprio sesso/genere secondo lo stereotipo estetico occidentale. Si
può parlare allora di transessualismo MtM, da maschio a
supermaschio, e di transessualismo FtF, da femmina a
superfemmina (Nardacchione, 2000). Questi esempi non fanno
che confermare che i generi sono una costruzione. Così
l'espressione FtF (o MtM) è talvolta utilizzata, in modo diverso,
anche da alcune lesbiche (e gay) per riferirsi al loro percorso
dall'iniziale rifiuto del genere femminile (o maschile), al quale
venivano socializzate essendo nate femmine (o maschi), al
successivo avvicinamento a quel genere secondo proprie
elaborazioni. Inoltre, va notato che l'obbligo di legge di asportare
i propri organi genitali - per gli FtM quelli interni - impone la
sterilità. Viene così socialmente esorcizzata la minaccia costituita
dall'esistenza di persone che possano decidere liberamente delle
proprie capacità riproduttive al di fuori dei ruoli "naturali".
Durante il dibattito sono emersi anche altri nodi: la forte richiesta
di legittimazione dell'esperienza FtM, il bisogno degli FtM di
differenziarsi dalle lesbiche, con le quali dicono di essere spesso
stati "confusi", la critica di alcune lesbiche all'essenzialismo di
alcuni FtM, la complessità delle identificazioni di genere e delle
loro incorporazioni, la difficoltà di un reciproco riconoscimento
critico delle identità sessuali e di genere.
In Italia il fenomeno FtM è poco conosciuto7 e molto recente è
una sua organizzazione associativa. Una delle ragioni potrebbe
risiedere nelle differenze peculiari del genere di partenza
(femminile) a cui queste persone sono state socializzate, per il
quale la proiezione nello spazio pubblico non è considerata
prioritaria, oppure nella diversa attenzione sociale di cui godono
i nati maschi, rispetto alle nate femmine, storicamente oggetto di
diniego. Ma potrebbe anche esserci una diversità legata al genere
di elezione, in quanto il genere maschile rappresenta la neutralità
che rende possibile l'invisibilità, al contrario di quello femminile
(per le trans MtF) che è quello che la nostra cultura
spettacolarizza. Questi processi di survisibilizzazione e al tempo
stesso di invisibilizzazione delle donne sono alcuni dei
meccanismi che operano nell'androcentrismo (Busoni, 2000)8. La
seguente è l'opinione di un FtM che era presente al dibattito:
trovo che ci sia sicuramente una ragione di tipo culturale: chi
nasce donna è destinata a identificarsi con un ruolo subalterno,
in cui la rinuncia all'affermazione di sé, dei propri bisogni e
urgenze diventa abitudine, routine, carattere [cioè un dato socioculturale]. Poi sicuramente possiamo appellarci a una
spiegazione di tipo biologico. Chi ha vissuto la transizione, sia in
un senso che nell'altro, sa esattamente quale differenza intercorra
tra ciò che gli ormoni femminili e maschili determinano in termini
di stati d'animo, modi di reazione, intensità nella capacità di
affermare i propri bisogni. […] [C'è un altro aspetto più
psicologico]: credo che sia in qualche modo più semplice
spogliarsi di un privilegio, piuttosto che da non privilegiati
permettersi di assumerlo. […] per me personalmente questo è
stato il nodo cruciale: affrontare il senso di colpa che assale
l ' o p p resso, o meglio l'oppressa, quando si identifica con
l'oppressore. (Cangelosi, 2004, p. 24-25).
Emerge qui un altro nodo cruciale: il rapporto con il femminile e
con il maschile, con i significati sociali che essi ricoprono e con i
modi in cui lesbiche e FtM li hanno rielaborati. Molti FtM hanno
riferito un senso di tradimento vissuto dalle lesbiche nei loro
confronti, in quanto invece di spazzare via i condizionamenti
negativi che il patriarcato applica al femminile, essi ne
rappresenterebbero un'incarnazione. Cangelosi e altri hanno
rifiutato questa interpretazione e hanno affermato di essere
coscienti dei rapporti di potere fra i generi, ma di voler essere
uomini "nuovi"9 :
se il femminismo è nato per ripensare il femminile in opposizione
a un maschile violento, coercitivo, da mettere in discussione, è
come se nel vissuto mio e di altri, questa premessa venisse portata
alla sua naturale conseguenza: quegli uomini a cui chiedeva di
essere diversi, di imparare a rispettare il femminile, quegli uomini
a cui chiederlo siamo anche noi. (Cangelosi, 2004, p. 25).
Molti, però, non hanno un precedente percorso femminista e
hanno utilizzato per la descrizione di sé il linguaggio medico della
disforia di genere richiedendo un'accettazione incondizionata
della loro scelta di vita sulla base dell'accoglimento della
sofferenza che essa ha causato. Proprio questa differenza di
linguaggi è emersa chiaramente nel dibattito e ha causato non
poche incomprensioni. Tale concezione, infatti, secondo cui
l'identità di genere e l'orientamento sessuale sarebbero due aspetti
distinti dell'identità di una persona, è incompatibile con il
femminismo costruzionista, a cui si rifanno molte lesbiche, che
considera l'orientamento sessuale una caratteristica utilizzata
dalla tradizione socio-culturale occidentale per la strutturazione
dell'identità di genere: l'eterosessualità obbligatoria e l'omofobia
sono fondanti per la costruzione della maschilità e della
femminilità. Come mostrano, convincentemente, alcuni studi
antropologici (per es. Blackwood e Wieringa, 1999), identità di
genere e orientamento sessuale sono categorie cognitive
culturalmente connotate e di complessa lettura, così come lo sono
i loro intrecci o la loro netta disgiunzione.
È stato interessante osservare come le affermazioni di alcune
teoriche hanno assunto valenze diverse a seconda del tipo di
appropriazione che ne è stata fatta: per esempio "donna non si
nasce, lo si diventa" di De Beauvoir è stata utilizzata per
affermare che il genere è una costruzione culturale, ma anche per
asserire che anche il sesso lo è, cioè da una parte per dichiarare il
rifiuto di una femminilità patriarcale e valorizzare una differente
femminilità che includa anche caratteristiche "maschili", dall'altra
40
ACHAB
Do s si e r
De genere
per sostenere il rigetto del femminile e un'assunzione decisa del
maschile. Similmente, una duplice lettura è stata fatta della
provocatoria affermazione "le lesbiche non sono donne" di Wittig,
includendola da un lato nel pensiero femminista radicale,
dall'altro nella riflessione transgender e facendone ricadere il
significato o solo sulle costruzioni di genere o anche su quelle
strettamente connesse ai corpi. Considero questo fenomeno
cruciale nei meccanismi di costruzione identitaria qui descritti.
Secondo Butler,
la concezione che il desiderio di diventare un uomo o un
transuomo o di vivere da transgender sia motivata da un ripudio
della femminilità, presuppone che ogni persona che nasce con
un'anatomia femminile sia per ciò stesso in possesso di una
appropriata femminilità. (2005, p. 7).
Tale assunto è confutato dai numerosi studi sulla costruzione del
genere. Proprio a questo proposito secondo la teorica lesbica
Borghi, presente al dibattito, il romanzo Stone Butch Blues di
Leslie Feinberg (2004)10, opera centrale nel confronto che sto
descrivendo,
si muove sulle tracce di un dibattito tra comunità lesbiche,
talvolta cruento, sulla (presunta) naturalità del femminile, dove
essere nata donna costituisce l'invalicabile fro n t i e r a
dell'appartenenza di genere. Mentre comprendo l'inquietudine, e
persino la paura, che può suscitare un* trans rispetto alla
convinzione di stampo irigariano del radicamento di una donna
nella propria differenza sessuale11, resto convinta dell'illusione
della verità che comporta l'inscrizione (e descrizione) del sesso
biologico, e considero il genere una tecnologia rispetto alla quale
l'autodeterminazione trans rappresenta un cosciente gesto di
riappropriazione autoriale. (Borghi, 2004, p. 28).
Pur condividendo tale posizione, vedo il rischio di una lettura
del genere come di qualcosa che sia modificabile a piacimento.
Al contrario, la presa di coscienza dei processi sociali, culturali
e psicologici attraverso cui si strutturano i generi non porta alla
possibilità di scardinarli in toto. Ad ogni modo anche Butler ci
dice che:
il desiderio transessuale di diventare uomo o donna non può essere
liquidato come un semplice desiderio di conformarsi per stabilire
delle categorie identitarie. […] può trattarsi di un desiderio di
trasformazione in sé e per sé, una ricerca di identità come esercizio
trasformativo, un esempio di desiderio stesso come attività
trasformativa. […] [Non bisogna inoltre] dimenticare che i rischi di
discriminazione, di perdita di lavoro, di molestie pubbliche e di
violenza aumentano per coloro che vivono apertamente come persone
transgender. (Butler 2005, p. 6-7).
Koths, un trans FtM, riconosce la non accettazione lesbica del
rifiuto FtM del femminile come se questo significasse il rovescio
dell'identità lesbica costruita dal pensiero lesbo-femminista e la
totale svalorizzazione del corpo femminile; ma Koths sostiene
che vi sia anche un sentimento di competizione:
molti ftm affermano di aver vissuto un certo grado di ostilità
quando frequentavano spazi lesbici; […][perché vi è] uno
strisciante risentimento della butch12 basato sull'idea che gli ftm
abbiano scelto di lasciarsi alle spalle una certa mascolinità
femminile allo scopo di assicurarsi le comodità di un "esser
maschio non-ambivalente"; […] [si tratterebbe di] un sentimento
di competizione non-amichevole verso forme alternative di
mascolinità; […][ma] la transessualità non è un'inevitabile
progressione dell'essere butch. (Koths, 2004, p. 21-22).
Alcune lesbiche hanno raccontato che durante il loro percorso di
ricerca identitaria si sono interessate alla possibilità FtM per poi
scartarla; alcune hanno dichiarato un forte desiderio di
conoscenza di essa, perché avrebbe potuto offrire nuove letture
del proprio vissuto; per altre, invece, si trattava di una scelta
lontanissima dalla propria esperienza.
Una redattrice della rivista lesbica "Towanda!" nell'editoriale del
n. 14, Attratte dall'altro sesso. Butch, transgender, FtM. Mezzo
secolo di transiti, ha dichiarato:
"intendevamo capire quanto le lesbiche siano attratte dalla
maschilità, sia come tratto evidente nella donna che amano, sia
per se stesse, tanto da scegliere di essere butch o perfino FtM"
(Giansiracusa, 2004, p. 3).
Ella considera dunque gli FtM come espressione di una delle tante
forme di mascolinità femminili. Si delinea qui una netta
contrapposizione relativa all'interpretazione del vissuto lesbico e
FtM: alcune lesbiche riconducono gli FtM all'insieme delle molte
esperienze di mascolinità vissute da soggetti nati femmine,
mentre diversi FtM rifiutano questa associazione e si considerano
afferenti alla categoria altra dei transessuali; alcune lesbiche si
considerano portatrici di rielaborazioni della mascolinità, oltre
che della femminilità, e su questo fondano una somiglianza con
gli FtM, invece alcuni FtM collocano le lesbiche all'interno della
categoria donne e non ricercano con esse alcuna vicinanza.
Dato che la maggior parte degli FtM è eterosessuale, cioè sceglie
come oggetto del desiderio le donne, alcune lesbiche li hanno
considerati delle lesbiche che hanno portato più in là il rifiuto del
genere femminile radicato nel corpo, ovvero molte li hanno
considerati comunque delle donne. Altre lesbiche, invece, hanno
preferito accogliere per la soggettività FtM il paradigma
biologistico e dualistico della "disforia di genere" poiché
rifiutavano una posizione radicalmente transgender che avrebbe
comportato il "rischio" di essere confuse con gli FtM da parte
della società. Dal canto loro gli FtM hanno rivendicato una
differenza a partire da un desiderio13 diverso, un bisogno di
riconoscimento nel genere maschile, il quale è spesso però
rielaborato soggettivamente, come si evince dalla seguente
affermazione: "Daniele: non ritengo il fatto di avere un fallo
condizione necessaria, e spesso nemmeno sufficiente, a dirsi
uomini" (Poidimani, 2006, p. 86). Questo posizionamento si
scontra però spesso con le concezioni dell'identità maschile che
hanno molti uomini eterosessuali e gay: è emersa dai discorsi
degli FtM una difficoltà a interagire con questi soggetti sia perché
non desiderano adeguarsi a modelli di complicità fra uomini
basati sulla misoginia, sia per la mancanza del pene. D'altronde,
però, è proprio il riconoscimento non ambiguo nella categoria
'uomo' che consente agli FtM di accettarsi e riconsiderare anche
altri aspetti del proprio sé, infatti Daniele afferma: "una volta che
socialmente sei accettato come maschio, allora puoi permetterti di
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ACHAB
Do s si e r
De genere
inventare il tuo maschile", "la terapia ormonale ti consente di non
violentarti troppo [cioè dover dimostrare attraverso il
comportamento la propria mascolinità], di rilassarti perché è il tuo
corpo che parla per te" (ivi, p. 99).
Durante il dibattito, oltre alle teorie, anche la storia è diventata
terreno di battaglia per ricondurre a sé fenomeni di discostamento
dal genere femminile e rafforzare la propria costruzione
identitaria; ci si sono contesi soggetti nati femmine che in passato,
così come nel presente, hanno scelto di vivere mascolinizzandosi:
lesbiche, butch, trans FtM, drag king, donne in abiti maschili
(travestite), donne soldato, vergini, donne che hanno vissuto
senza sposarsi (zitelle), personaggi di romanzi. Va ricordato che
dal suo emergere fino agli anni '50 il concetto di 'lesbica' era
strettamente legato all'assunzione di caratteri maschili e che
questo modello è stato modificato dalla seconda ondata del
femminismo. Dunque, prima degli anni '50 sarebbe stato molto
difficile utilizzare i parametri sociali e culturali interpretativi
all'interno dei quali si muovono oggi lesbiche e FtM14.
Sulla scorta degli studi storici e antropologici che si sono occupati
di fenomeni di gender-crossing si può affermare che le forme che
questi hanno assunto nel tempo e nelle culture sono estremamente
variegate e fortemente connesse al proprio peculiare contesto
sociale15, dunque chiedersi quale identità assumerebbero oggi
soggetti vissuti nel passato o in altri presenti, difficilmente può
portare a una risposta anche perché, almeno per quel che riguarda
altre epoche storiche, è raro poter sapere quale descrizione di sé
facessero questi soggetti. Ad ogni modo tale quesito è rilevante
perché può essere considerato parte integrante della ricerca di
affermazione identitaria dei soggetti di oggi attraverso dei
tentativi di risignificazione delle molte forme di mascolinità
femminili e la ricerca di confini, magari frastagliati, fra queste,
confini necessari per classificare il mondo e orientarsi in esso. Ma
cosa dovremmo porre alla base di tali classificazioni?
L'autodeterminazione dei soggetti? Il loro scopo dichiarato o non
dichiarato?
Per Bolin (1987) è rilevante l'analisi dei cambiamenti di status e
ruolo sociale che il travestitismo-transgenderismo ha
determinato; Nicotra fa presente che "nelle molteplici
ricostruzioni storiche sul cambio di genere e di sesso, […]
sembrerebbe che una delle principali motivazioni delle donne che
sceglievano una vita da uomo era quella di potersi sottrarre alla
posizione femminile di svantaggio e aprirsi una via per poter
accedere agli stessi privilegi e opportunità offerte agli uomini"
(2004, p. 16-17).
La ricerca di confini rischia di rifarsi a una concezione dualistica
dei generi e delle sessualità in qualche modo essenzialista anche
perché utilizza dicotomie tipiche del modello patriarcale per
descrivere corpi che proprio sul transito cercano di costruire la
pratica e il senso della propria vita. Ciò nonostante, secondo
l'antropologo Valentine (2002), non bisogna dimenticare che la
separazione tra genere e sessualità è una distinzione per la quale
si è dovuto lottare e che è stata ed è ancora necessaria per
affermare il diritto alla differenza, sia lesbica sia transessuale
FtM.
Secondo l'antropologo Hekma (2000), nonostante le diversità
culturali e storiche, si possono riconoscere alcune tipologie
prevalenti di relazioni omoerotiche: quelle strutturate sul genere,
in cui una delle due partner assume il ruolo di genere opposto,
venendo a occupare nuove (terze) posizioni di genere; quelle
basate sulla differenza di età; quelle egualitarie, tipiche del nostro
secolo; quelle fondate sulla differenza di classe. Sulla base di
questa griglia e cosciente del fatto che le interpretazioni
dell'antropologo/a possono non essere condivise dai soggetti
osservati, Hekma riconduce le lesbiche al modello egualitario e
gli FtM a quello stabilito sulla contrapposizione di genere.
Seguendo Hekma, forse potremmo sostenere che il confronto
"Transgenderismo FTM nell'attualità" ha mostrato la presenza di
una sorta di sincretismo culturale in cui convivono più di una
delle tipologie individuate. Tuttavia tale modellizzazione,
sebbene importante come strumento di analisi, pone alcuni
problemi: Hekma sceglie di tenere come dato fisso il sesso di
nascita dei soggetti e colloca anche i soggetti transgender in una
classificazione delle tipologie di relazioni sessuali fra persone
dello stesso sesso, catalogando dunque i fenomeni di
transgenderismo come parte di quelli relativi all'omosessualità.
Questa identificazione è molto distante da quella di molti soggetti
trans di oggi che ritengono la propria esperienza profondamente
diversa da quella delle e degli omosessuali, anche se va tenuto in
considerazione che la separazione fra identità di genere e
orientamento sessuale è culturalmente connotata e altrove è
(stata) concepita diversamente. Ad ogni modo, dove dovremmo
collocare soggetti che si riconoscono come FtM, ma scelgono
uomini come loro partner sessuali?16 Lo stesso Hekma afferma
che l'antropologia non dovrebbe limitarsi allo studio delle forme
sociali, ma anche occuparsi delle molte espressioni individuali
delle regole culturali osservando ogni soggetto nel continuo
rapporto dialettico fra l'interpretazione del proprio sentire e i
discorsi socialmente disponibili.
Il dibattito "Trasgenderismo FTM nell'attualità" si è concluso
senza il raggiungimento di una sintesi condivisa fra le varie
posizioni, ma con la consapevolezza della necessità di continuare
a discuterne.
Note
1. L'appropriazione della parola lesbica è di per sé un atto di
separazione che ha identificato una pratica politica ripresa dal
movimento femminista denominata separatismo. Il separatismo
lesbico nasce nella seconda metà degli anni '70 dall'esigenza di
affermare l'identità lesbica, organizzandosi in gruppi indipendenti
con politiche e linguaggi autonomi, da una parte rispetto alle
donne eterosessuali femministe, che invece prediligevano una
[email protected]
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De genere
politica comune di genere, spesso ignorando la differenza legata
all'orientamento sessuale, dall'altra rispetto ai gruppi gay che
invece, sotto l'ombrello dell'orientamento omosessuale,
concepito però dal punto di vista maschile, non contemplavano la
differenza femminile (Danna, 2000; Fiocchetto, 1992).
2. Il termine transessuale si riferisce generalmente a una persona
che sceglie di intraprendere un percorso di adeguamento
chirurgico e ormonale del sesso anatomico all'identità di genere;
il termine transgender "comprende una realtà ricca e variegata
che spazia dai travestiti o cross-dresser e include anche quelle
persone che vivono le loro esperienze come esponenti di altro
sesso senza aver alterato le funzioni biologiche del proprio corpo,
soggetti che vivono in un continuum lui/lei non marcatamente
definibili ma che sperimentano, nel loro percorso di vita,
alternativi ruoli di genere. Include anche persone che hanno
usufruito dell'attribuzione di sesso parziale senza sottoporsi a tutti
gli interventi chirurgici di demolizione e/o (ri)costruzione, e quei
soggetti che invece hanno optato solo per le terapie ormonali."
(Nicotra, 2006, p. 57).
3. Testo tratto da un volantino del Coordinamento Nazionale
FTM: http://ftminfoline.tripod.com/coordinamento_ftm.htm
4. Le persone trans sarebbero portatrici di "disturbi dell'identità
di genere" e di "disforia di genere", secondo la terminologia
utilizzata rispettivamente dall'American Psychiatric Association
(DSM IV), dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD 10) e
dalla letteratura psicologica.
5. "Passare", come l'inglese passing, si riferisce alla pratica
attraverso cui un soggetto cerca di convincere gli altri di essere
portatore di determinate caratteristiche identitarie. Camaiti
Hostert (1996) sostiene peraltro che il passing non sia solo una
pratica mimetica, ma anche di dissolvimento identitario.
6. Per un'articolata presentazione delle esperienze e scelte di vita
e dunque per il ventaglio dei diversificati posizionamenti
soggettivi FtM cfr. Nicotra (2006) e Poidimani (2006).
7. Per una ricostruzione storica del fenomeno vedi Nicotra (2004,
2006).
8. Tali affermazioni sono solo mie ipotesi, ma potrebbe essere
interessante in futuro approfondirle osservando come siano
intrecciate nei soggetti trans, in modi diversi, alcune modalità
comportamentali connesse al genere (sessualità, autorizzazione
alla presa di parola in pubblico, modalità relazionali, ecc.).
8. Vedi ad es. il titolo dello spettacolo teatrale "One new man
show. Atto unico per solo uomo nuovo" di Matteo Manetti e
Davide Tolu.
9. Leslie Feinberg è un noto attivista transgender statunitense,
scrittore di saggi e romanzi, sindacalista socialista attivo nel
movimento operaio internazionalista e impegnato per i diritti
delle comunità LGBT, delle donne e dei neri.
10. Non è un caso che, negli anni novanta, il movimento lesbico
italiano fu parimenti (o forse anche maggiormente) scosso dalle
richieste di riconoscimento come donne da parte delle trans MtF.
In quel caso la resistenza da parte delle lesbiche era motivata,
oltre che dalla diffidenza verso una femminilità non biologica,
anche dalla volontà di difendere gli spazi femminili conquistati
con fatica sottraendoli al pervasivo e universalistico
protagonismo maschile.
11. Butch: lesbica mascolina. Femme: lesbica femminile. Stone
butch: lesbica di pietra, dura. Per approfondire cfr. Nestle (1985)
e Feinberg (2004). "la butch funziona da paradosso irrisolto, da
punto cieco dell'eterosessualità di cui imita e deforma il maschile;
rappresenta una pratica contra-sessuale [vedi Preciado, 2002] di
risignificazione del corpo perché rivela il sistema sesso-genere
come un sistema di scrittura, una tecnologia di inscrizione dei
corpi e delle istituzioni sui corpi." (Borghi, 2004, p. 29).
12. Il termine desiderio è correntemente utilizzato dal movimento
femminista e lesbico e mette al centro dell'agire del soggetto il "partire
da sé" che intreccia la dimensione personale e quella politica.
13. Per dei lavori di ricostruzione storica dell'amore fra donne in
occidente cfr. Faderman (1981), Fiocchetto (1987), Danna
(1994), Bonnet (1995), Lupo (1998).
14. Infatti nell'ambito di studi su società non occidentali si è
cercato di utilizzare terminologie (same-sex identities and
desires, third gender, third sex, female same-sex relations, ecc.)
che evitino di rendere invisibile a livello transculturale l'ampia
varietà di generi, trasgressioni sessuali, identità sessuali e i loro
significati (Herdt, 1997; Lewin e Leap, 1996, 2002; Bisogno e
Ronzon, 2007).
15. A questo proposito vedi l'interessante lavoro di Arfini (2007)
che ha riletto i molteplici transiti nella vita di un trans FtM gay
attraverso il fondo di archivio che egli ha lasciato
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Do s si e r
De genere
In between
Rappresentazioni artistiche della diaspora ebraico – israeliana
attraverso una prospettiva di genere
di Fiammetta Martegani
Un uomo su una barca a remi attraversa un breve tratto di mare
per raggiungere una piccola isola rocciosa situata di fronte al
quartiere di Jaffa, storico quartiere multietnico di Tel Aviv, su cui
sventola una bandiera israeliana, che l’uomo decide di sostituire
con un albero di ulivo. (fig.1)
L’uomo in questione, dal fisico forte e asciutto, la canottiera
bianca con la pelle scurita dal sole, corrisponde ai canoni
dell’“uomo nuovo”, il pioniere giunto in Palestina per rinnovare
se stesso e fondare lo Stato di Israele: “the New Jew: brave,
standing tall, always ready to defend his community with pride;
the antithesis of the stereotype of the Diaspora Jew, the success
story of Zionism” (Mayer, 2000, p.298). L’ulivo invece, storico
simbolo di pace a partire dalla sua citazione biblica, è la pianta
antica e preziosa che cresce naturalmente in questo territorio da
ben prima della nascita dello Stato d’Israele, oltre ad essere anche
l’albero che in numerosi documentari vediamo i soldati israeliani
sradicare dai territori occupati. (fig.2)
L’opera d’arte descritta, A Declaration, è una video-installazione
Partendo dal presupposto che non esiste un’esperienza universale
della “diaspora ebraico-israeliana”, né che esiste, a priori,
un’“identità diasporica ebraico-israeliana”, questo lavoro si
propone tuttavia di individuare alcune peculiarità nella
rappresentazione e nell’auto-rappresentazione della propria
esperienza di yeridah, attraverso l’analisi delle opere di alcune
artiste di origine ebraico-israeliana.
La scelta di adottare in questo tipo di analisi una prospettiva di
genere, analizzando opere di artiste che al centro delle loro opere
scelgono di esplorare il complesso rapporto tra genere e
israelianità, nasce da una duplice specificità legata al contesto
artistico israeliano: se infatti le dinamiche di genere hanno
fortemente influenzato la costruzione dell’identità nazionale
israeliana, e con essa la propria rappresentazione artistica, va
inoltre sottolineato come nell’arte israeliana contemporanea,
soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’arte quotato a livello
internazionale, il numero di artiste israeliane donne supera di gran
lunga, soprattutto in termini di percentuali rispetto al mercato
globale dell’arte, il numero di artisti israeliani uomini,
determinando una sorta di processo di contro-discorso e di controegemonia al femminile dell’arte israeliana, il cui percorso storico
era invece stato fortemente caratterizzato da un’egemonia
marcatamente declinata al maschile, sia dal punto di vista della
produzione che dei prodotti.
Nel tentativo di condurre una breve analisi di genere sull’attuale
panorama della rappresentazione e auto-rappresentazione
dell’esperienza della yeridah, ho voluto fare particolare
Fig. 1 Yael Bartana, Declaraion, 2006 (particolare)
girata nel 2006 da Yael Bartana, artista ebraico-israeliana ormai di
fama internazionale, che attualmente ha lasciato Israele per vivere
ad Amsterdam, descrivendo un nuovo ma sempre più frequente
movimento di tipo diasporico: la yeridah, vale a dire il
movimento diasporico da Israele verso l’esterno, in
contrapposizione alla aliyah, ovvero il ben più noto e consueto
movimento diasporico dall’esterno verso Israele.
fig. 2 Yael Bartana, Declaraion, 2006 (particolare)
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D o s si e r
De genere
riferimento al significativo saggio “Daugters of Sunshine” del
2000 di Irit Rogoff, nata e cresciuta in Israele, titolare della
cattedra di Art History and Visual Culture al Goldsmiths College
di Londra, dove attualmente lavora e vive, come lei stessa
afferma, l’esperienza della diaspora delle diaspore.
La sua ricerca etnografica si è concentrata principalmente sulle
diverse immagini che hanno rappresentato (e in parte tuttora
rappresentano) la donna israeliana, più precisamente: la donna
ebraico-israeliana e di origini europee (in ebraico ashkenaz),
all’interno della cultura immaginaria israeliana e soprattutto in
rapporto all’ideologia sionista. Attraverso questa specifica chiave
di lettura di genere Rogoff cerca di tracciare alcune coordinate,
per meglio comprendere i processi di costruzione e quindi di
decostruzione dell’identità ebraico-israeliana, pur nelle sue
diverse e ricchissime sfaccettature.
Inanzitutto Rogoff mette in luce come l’immagine della donna
israeliana inizi ad essere costruita proprio in Europa, agli albori
del movimento sionista, quando “the earliest images show
pioneer women who had immigrated from Eastern Europe at the
turn of the century, performing both private and public chores,
laundering the clothes and breaking up stones for the paving of
roads and building of houses” (Rogoff, 2000, p.172). Ciò che
viene sempre mostrato in questo tipo di rappresentazioni è
l’immagine di una donna attiva, produttiva, eroica e combattente,
simbolo della conquista della terra, della patria e della nazione,
simile ai suoi coetanei maschi nei doveri da svolgere e nei valori
da difendere e diffondere, in netta contrapposizione invece a una
rappresentazione del femminile più sensuale, nonché spesso
stereotipizzata, solitamente adoperata per rappresentare invece il
corpo “altro” della donna mediorientale e di origine non
ashkenaz. Rogoff sottolinea come questo tipo di rappresentazione
di tipo “orientalista”, espressione di una prospettiva
essenzialmente colonialista che tende a riprodurre la donna come
passiva, silenziosa, immobile, fonte di desiderio e di sensualità
romantica, venga spesso utilizzata per rappresentare in generale,
e non soltanto al femminile, il popolo palestinese in particolare e
più in generale il corpo sociale appartenente al mondo e alla
cultura araba “altra”, “as a constant disruptive ‘other’ against
which the center could define itself .” (Rogoff, 2000, p.170).
Simili modalità di rappresentazione tendono infatti ad esaltare in
maniera lampante il carattere dominante, moderno, e di matrice
euro-centrica, peculiare al processo di costruzione dell’ideologia
sionista: “white, Eurocentric, bourgeois and masculine assumes
itself to be norm and the measure of what is to be Israeli” (Rogoff,
2000, p.163). In quasi tutte le sue raffigurazioni – “women
laundering and breaking stones for road paving, women posturing
as soldiers and modeling swim wear” (Rogoff, 2000, p.163) – la
donna israeliana viene dunque solitamente rappresentata “come
un uomo”, o meglio, “desessualizzata” e assimilata al corpo
sociale (maschile) israeliano: “their bodies are veiled beneath
layers of functional clothing, their sexual identity negated,
subjugating themselves to their duties.” (Rogoff, 2000, p.173).
Per meglio comprendere la costruzione peculiarmente maschile
del corpo sociale israeliano risulta in tal senso paradigmatica la
complessa analisi svolta nel 2001 da Mira Weiss nella sua
etnografia dal significativo titolo Chosen Body, dove Weiss
definisce la “cultura del corpo eletto” come uno dei processi
peculiari nella costruzione della nazione e dello Stato di Israele.
L’ipotesi di Weiss è che la società israeliana abbia messo in atto
una vera e propria opera di regolazione dei corpi come parte del
processo di formazione della propria identità collettiva. Il
perdurante coinvolgimento di Israele nel conflitto armato coi
vicini arabi, infatti, avrebbe fatto sì che si formasse una società
profondamente preoccupata dei propri confini territoriali così
come dei confini del proprio corpo. Secondo Weiss, sin dalle
origini della nazione, il corpo d’Israele è stato per ciò regolato in
modo da configurare una “nuova persona”, e prima della nascita
dello stato di Israele nel 1948 questa “nuova persona” era
declinata secondo il modello del “pioniere” (halutz): secolare,
forte, virile, sano e fisicamente perfetto, dal corpo unico,
collettivista, intercambiabile e “scelto” (Weiss, 2004, pp. 97 112).
Adi Nes, uno dei più quotati artisti israeliani contemporanei,
notoriamente e dichiaratamente omosessuale, attingendo proprio
da questo tipo di immaginario fortemente stereotipizzato, ne
propone una forte critica, come appare in modo piuttosto
provocatorio nel suo lavoro, dove l’argomento privilegiato è
sempre quello dell’esperienza militare, declinata esclusivamente
e rigorosamente al maschile, nonostante in Israele, come noto, il
servizio militare sia inderogabilmente obbligatorio anche per le
donne. Ciò a cui Nes tende infatti fare riferimento in modo
decisamente critico è la forte relazione tra senso di appartenenza
e mascolinità, strettamente legati non soltanto all’esperienza
dell’esercito ma soprattutto all’esperienza dell’israelianità. In tal
senso risulta paradigmatica l’opera Untiled del 1995 (fig.3),
rivisitazione della Pietà di Michelangelo, in cui la figura della
Madonna che conforta Gesù morente viene sostituita da quella di
un soldato ferito, stretto fra le braccia di un compagno. In questa,
come in gran parte delle sue opere, l’artista sceglie sempre di
trasformare un’immagine “reale”, “plausibile”, tratta da uno dei
tanti momenti di vita quotidiana nell’esercito, e di trasferirli in un
contesto mitologico, dalla coreografia studiata a tavolino, come
accade ad esempio anche nella rivisitazione dell’Ultima cena di
Leonardo: Untitled, 1999 (fig.4), dove ciò che a prima vista
sembrerebbe una raffigurazione diretta di un momento di vita
quotidiana, si propone in realtà, in modo al tempo stesso ironico
e critico, sensuale e provocatorio, di demistificare il mito della
costruzione “militaresca” del corpo sociale israeliano, come
succede in modo assolutamente provocatorio nell’opera Untitled
del 1996 (fig.5), che ritrae un nerboruto soldato in posa plastica,
intento a mostrare la propria massa muscolosa.
Quanto questo tipo di rappresentazioni quanto ha influenzato la
costruzione dell’identità israeliana nelle donne di origine ebraicoisraeliana, e soprattutto, nelle loro auto-rappresentazione
artistica?
In questo complesso gioco delle parti, secondo Rogoff la donna
israeliana si sarebbe di fatto trovata in una paradossale situazione
di esistenza: al tempo stesso colonizzante e colonizzata,
46
ACHAB
Do s si e r
De genere
Israeli State.” (Rogoff, 2000, p.177 ).
Nel corso del 2007, avendo lavorato per alcuni mesi come ufficio
stampa di A.M.A.T.A. (Amici del Museo di Arte di Tel Aviv)
Onlus, ho avuto occasione di entrare in contatto diretto con tre
artiste di origine ebraico-israeliana che attualmente vivono e
lavorano in Italia.
Tutte e tre sono arrivate in Italia inizialmente per ragioni legate
allo studio dell’arte. Tarin si poi è spostata e ormai vive in Italia
da 11 anni. Michal vive in Italia da due anni e non sa ancora se
restare o tornare in Israele. Noga, essendo arrivata in Italia a 18
anni e avendo scelto di fare obiezione di coscienza nei confronti
dell’esercito, scelta tutt’altro che semplice e soprattutto con non
poche conseguenze di carattere ostracizzante, probabilmente in
Israele non farà mai ritorno.
Tre diverse esperienze di yeridah e tre diversi modi di
Fi g. 3 - Adi Nes, Untiled, 199 5
rappresentarla, attraverso le proprie performance artistiche.
dominante e dominata: “the State of Israel, founded on a rhetoric Secondo Michal Blumenfeld, nata a Bersheva nel 1976, e giunta
of socialist equality, has been continuously shaker by accusations nel 2006 a Roma, dove tutt’ora vive e lavora, questa situazione di
of racial discrimination
ambivalenza, di conflitto
against Sephardic Jews and
interiore,
peculiare
by gnawing voices insisting
all’esperienza della yeridah,
on recognition for the
è qualcosa di quasi
Palestinians. The situation
“ineliminabile” come cerca
of women, who has started
di spiegare: “Abbiamo
out as supposedly equal
sempre il peso della storia
partners in the radical
sulle spalle. Anche se non si
social
experiment
of
vuole, non si può scappare
Zionism, has remained
mai completamente da
sadly unevolved. (…) The
Israele e dalla sua storia,
feminine subject positions
dove presente e passato
within it are simultaneously
continuano a convivere
colonized and marginalized
assieme. Israele infatti è un
both in relation to dominant
paese
assolutamente
ideology an the ensuant internal Fig. 4 - Adi Nes, Unti t led ( L ’ultima cena), 1999 giovane e proiettato verso il futuro,
contradictions of its own gender
mentre la tradizione ebraica invece
specific identity” (Rogoff, 2000, pp.166, 174 ). Rogoff sottolinea è inestricabilmente legata al passato. Ciò provoca una scissione
come questa
situazione di
della personalità e la continua
ambivalenza,
peculiare
nella
ricerca di un equilibrio all’interno
costruzione dell’identità della
di questo conflitto, che nella
donna israeliana, non faccia che
costruzione dell’identità ebraicoriprodursi ed autoalimentarsi in
israeliana diventa un tema
modo
pervasivo,
anche,
ridondante: l’eterno conflitto tra
paradossalmente, qualora si scelga
presente e passato, Israele e
di lasciare Israele, attraverso quel
Palestina, identità maschile e
tipo di esperienza che Rogoff
identità femminile. Io ho cercato di
chiama la
“diaspora della
risolverlo cercando proprio di
diaspora”, la y e r i d a h: “perhaps
attingere al passato per proiettarmi
those of us who occupy positions of
nel futuro”, come avviene ad
clearly articulated ambivalence:
esempio, secondo Michal, nella
(…) ‘the Diaspora’s diaspora’ to
sua opera del 2006 The Hebrew
coin a phrase. Nowhere are these
Lesson (fig.6), in cui quattro volti
contradictions are ambivalent states
di donne appartenenti a quattro
more clearly visible than in the
generazioni sottolineano il ruolo
Fig. 5 - Adi Nes, Unti l ed, 1996
conditions of femininity within the
centrale delle donne nella
47
ACHAB
Do s si e r
De genere
trasmissione rigorosamente matrilineare della cultura e
dell’identità ebraica. Il ricorso all’alfabeto ebraico, metafora della
parola come condizione indispensabile per la possibilità di
costruire una memoria collettiva, ma anche, e al tempo stesso, per
la possibilità di dialogo e quindi di cambiamento, nel lavoro di
Michal risulta centrale, come vediamo anche nell’opera del 2005
The Lost Couple (fig.7): “L’opera di Adamo ed Eva e l’albero
della conoscenza con le 22 lettere dell’alfabeto ebraico appese tra
i rami al posto della frutta indica che tutto è possibile e che
attraverso la parola si può creare un dialogo con l’altro (…)
sempre attraverso il rispetto e il riconoscimento delle due
identità” (Blumenfeld, 2006). Secondo Michal, questa necessità
di trovare armonia all’interno del conflitto, sia esso conflitto
interiore, tra maschile e femminile o tra israeliani e palestinesi,
diventa un aspetto dominante nella costruzione dell’identità
diasporica ebraico-israeliana: “Il tema della coppia, tema
privilegiato nelle mie opere, non è qualcosa che rimanda a una
visone romantica dell’amore tra uomo e donna, ma al contrario è
il tentativo di superare ogni rigida dicotomia, a partire da quella
tra maschile e femminile. Adamo ed Eva infatti dopo essere stati
cacciati dal Paradiso Terrestre non hanno più trovato equilibrio e
sono entrati una sorta di loop negativo, come quello in cui si
trovano attualmente israeliani e palestinesi. La mia idea è invece
quella di provare, attraverso l’esperienza della coppia, di cui
Adamo e Eva sono un’icona, come yin e yang, a costruire un
nuovo spazio in cui l’armonia prevalga su ogni altro sistema
egemonico, e in quanto tale necessariamente squilibrato.”
La necessità di costruire un terzo spazio come spazio di dialogo,
risulta centrale anche nel lavoro di Tarin Gartner, nata nel 1974 a
Gerusalemme e giunta nel 1997 a Milano, dove da allora vive e
lavora.
Attraverso le proprie opere, al centro delle quali domina sempre
la propria esperienza corporea, Tarin cerca infatti di sottolineare
come confini e muri possano essere attraversati, se non nella
realtà, quanto meno tramite l’immaginazione e la sua
rappresentazione attraverso immagini.
Come spiega Tarin, “l’idea di utilizzare il mio corpo per cercare
di varcare i confini nasce dal tentativo di usare me stessa per
creare un ponte non solo tra il mio paese di origine e i paesi con
cui si trova in conflitto, ma anche tra me e i fruitori della mie
opere, cercando di dimostrare, attraverso il mio esempio, che la
possibilità di varcare confini e creare un dialogo è possibile”.
Così nell’opera del 2003 Ghesner (fig.8) Tarin, tra gli spazi vuoti
delle pietre della costa di Rosh Hanikra, al confine con il Libano,
vi costruisce sopra, utilizzando il proprio corpo, un ponte,
metafora della volontà dell’artista di poter mettere in relazione
terre divise dall’arbitrarietà dei confini.
Il tema dell’attraversamento dei confini nel lavoro di Tarin risulta
assolutamente centrale, come accade anche nel lavoro del 2003
Gvulot + Tarin (fig.9), dove Gvulot in ebraico significa “confine”.
In quest’opera un’istantanea rappresenta l’alto filo spinato che
divide il territorio di Israele da quello del Libano, immagine a cui
Tarin applica con delle calamiti una serie di sovra-immagini che
la auto-ritraggono in un paesaggio tipicamente mediterraneo,
come se l’artista volesse comunicarci il suo sogno di un mondo in
cui il Mediterraneo riesca finalmente a scardinare i confini
costruiti forzosamente dagli uomini in una natura che invece non
li concepisce.
Fi g. 7 - M ic hal Bl umenfeld, The Lost Couple, 2005
Fig. 8 - Tarin Gartner, Ghesner, 2003
Fig. 6 - Michal Blumenfeld, The Hebrew Lesson, 2006
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D oss i e r
De genere
Anche per Tarin, vivendo a cavallo tra due “mondi”, la condizione
di “scissione” all’interno della sua esperienza di yeridah risulta
Fig 9 - Tarin Gartner, Gvulot + Tarin , 200 3
dominante: “Vivo un forte dualismo. Talvolta mi sembra di
condurre una doppia vita. (…) Non è facile vivere lontana, ho un
forte senso di responsabilità nei confronti di Israele e verso al mia
famiglia. E’una posizione che comporta una piccola sofferenza
continua, ma che mi da la forza di fare sempre di più” (Hands Up,
2006).
In tal senso, l’opera d’arte come forma di resistenza risulta
particolarmente paradigmatica nel lavoro di Noga Ingbar, nata nel
1984 a Tel Aviv e giunta nel 2002 a Milano, dove tutt’ora vive e
lavora.
Noga si interroga su cosa abbia significato per lei scegliere di
lasciare Israele e trasferirsi in Italia. Come lei stessa afferma: “a
volte vivo tormentata dall’idea di non essere rimasta in Israele, di
non stare lavorando lì, per aiutare il mio Paese ad uscire dal vicolo
cieco in cui ormai si sta chiudendo sempre di più. A volte però mi
sembra che ciò che riesco a produrre attraverso il mio lavoro
artistico, anche riguardo alla costruzione e alla decostruzione
della mia identità di israeliana, non sarebbe mai stato possibile se
non avessi lasciato Israele, un paese costruito attraverso la
diaspora e in cui la dimensione diasporica risulta da sempre
dominante. A volte definirei la mia esperienza diasporica qui in
Italia come una sorta di ‘auto-diaspora’, e in effetti anche ciò che
faccio col mio lavoro in qualche modo nasce dall’esigenza di
ricostruire e al tempo stesso decostruire le origini centro-europee
della diaspora ebraica in Israele”.
Le opere di Noga ripercorrono infatti anni e memorie del secolo
scorso attraverso la re-interpretazione di figure estrapolate da un
archivio fotografico che Noga ha raccolto in diversi anni di
lavoro. Le fotografie utilizzate sono spesso ritratti di gruppo, posti
su uno sfondo che varia di volta in volta dalla tela grezza, alla
ripetizione in pattern, a giornali israeliani bilingue degli anni ‘60
e ‘70, fortemente legati al movimento di contestazione pacifista,
come accade ad esempio nell’opera 1915 1944 1967 (fig.10), in
cui sullo sfondo di una serie di carte geografiche che descrivono
l’espansione dello Stato di Israele, viene “ri-editata” la foto di un
gruppo di presunti pionieri, e in Pioneers (fig.11), dove in netto
contrasto con l’immagine di sfondo che ritrae un uomo
“tipicamente mediorientale” troviamo un altro gruppo di presunti
pionieri “tipicamente ashkenaz”. Nel lavoro di Noga risulta
decisamente significativo il processo di raccolta di foto d’epoca a
cui l’artista spesso attinge da un repertorio prevalentemente
“centroeuropeo”, in particolar modo appartenete alla Germania
del periodo nazista, sia perchè, dal punto di vista spaziotemporale, epicentro dell’esperienza diasporica ebraica verso
Israele, sia perché, come sottolinea Noga stessa, nella costruzione
sionista dello Stato d’Israele, il pioniere, l’“uomo nuovo”, era
inequivocabilmente ashkenaz (Ingbar, 2007).
Noga, che pur di non prendere parte dell’esercito ha scelto, come
lei stessa afferma, l’esperienza dell’“auto-diaspora”, nelle sue
opere attinge dunque al materiale prodotto dalla retorica
“pionieristico-militaresca” peculiare alla costruzione dello Stato
di Israele, proprio per decostruire, attraverso il suo lavoro
artistico, la propria “israelianità”.
Anche nel lavoro di Noga il processo di costruzione e
decostruzione della propria identità di israeliana della diaspora
tende dunque a trovarsi in quello spazio in between, per usare le
parole di Bhabha, quel third place, lo spazio della negoziazione,
Fi g. 10 - Noga I ngbar, 1915 1944 1967 , 2006
in cui ogni formazione discorsiva si imbatte nei confini dislocati,
d i fferenziati, della rappresentazione del gruppo che li ha
determinati, in luoghi d’enunciazione nei quali i limiti e le
limitazioni del potere sociale sono affrontati con un rapporto
conflittuale. (Bhabha, 1994, p. 46 nell’ed.it) È l’identità culturale
ad emergere sempre in questo contraddittorio e ambivalente
spazio nel quale colonizzatore e colonizzato tessono relazioni di
interdipendenza e costruiscono mutuamente la propria
soggettività.
Come sottolinea Pandolfi, lo slittamento teorico da Said a Bhabha
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ACHAB
D os si e r
De genere
Fig. 11, Noga Ingbar, Pioneers , 2006
sembra di particolare importanza: se infatti Said costruisce ancora
per coppie antinomiche, Bhabha per slittamenti. Ma in questo
spostamento si annida una strategia di radicalità che può essere
ancora più corrosiva: mostrare come i veli della seduzione si
aggroviglino intorno alla soggettività del colonizzatore e del
colonizzato insieme; mostrare come il gioco degli specchi fra le
due posizioni, producendo nuove fantasie e desideri, possa
rendere molto più complessi i rapporti di potere (Pandolfi, 1990,
pp. 18 -19 nell’ed.it.), siano essi tra dominante e dominato,
israeliano e palestinese, uomo e donna.
Lo spazio prodotto attraverso i diversi lavori delle artiste che
vivono l’esperienza della yeridah risulta in tal senso uno spazio in
between, in cui le diverse protagoniste, attraverso l’uso del proprio
corpo, individuale e femminile, e la decostruzione del corpo
(collettivo e maschile) israeliano, tentano di sovvertire
antagonistiche opposizioni binarie fra dominanti e dominati,
israeliani e palestinesi, maschile e femminile, permettendo così
l’emergere di un terzo spazio, come spazio di resistenza.
E forse un giorno, per concludere con le parole di Bhabha,
“esplorando questo Terzo Spazio, potremo eludere la politica delle
dicotomie e apparire come gli altri di noi stessi” (Bhabha, 1994, p.
60 nell’ed.it)
[email protected]
Bibliografia
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50
ACHAB
D o ss i er
De genere
Leadership femminili,
desideri e strategie d’inclusione
I percorsi associativi di due gruppi di donne migranti a Milano*
di Laura Menin
Negli ultimi decenni, i processi di globalizzazione e di
ristrutturazione dell'economia fordista hanno contribuito a
definire nuovi accessi e traiettorie di mobilità femminile, al tempo
stesso, hanno creato e consolidato forme d'immobilità ed
esclusione. I recenti paradigmi socio-antropologici per leggere le
migrazioni contemporanee si sono rivelati attenti alla dimensione
multi-situata e transnazionale delle relazioni sociali e
dell'esperienza quotidiana dei soggetti migranti (Basch et al.,
1994:7) e ciò ha talvolta condotto alcuni studiosi ad enfatizzare la
natura contro-egemonica delle pratiche di attraversamento dei
confini fra due o più stati-nazione. Molte studiose femministe
hanno invece reagito rispetto all'approccio transnazionale1 con un
senso di ambivalenza, soprattutto quando conduce ad una
celebrazione acritica della fine dello stato-nazione, che oscura la
natura politica ed esclusiva su cui continuano a fondarsi la
cittadinanza e i confini nazionali (Salih, 2003; Yeoh 2005: 60-71).
Il transnazionalismo sembra offrire un modello teorico utile ad
articolare la complessità delle esperienze e delle pratiche di
mobilità poiché supera una visione dicotomica dei processi
migratori intesi come frattura, prodotta da una sorta di
nazionalismo metodologico (Wimmer, Glick-Schiller 2002:301),
fra paese d'origine e contesto d'approdo. D'altra parte, una lettura in
chiave liberatoria, progressista e resistenziale di questi fenomeni
rischia di censurare come il differente posizionamento che i soggetti si
trovano ad occupare all'interno di molteplici assi di discriminazione e
microstrutture di potere partecipi a plasmarne le scelte, i desideri e gli
immaginari, ma anche a definire diverse strategie per far fronte a
condizioni di (im)mobilità.
Tra gli anni '80 e '90, la nascita di uno sguardo attento alle
asimmetrie e specificità di genere nello studio dei processi
migratori ha contribuito a ridefinire categorie d'analisi e
riformulato interrogativi teorici, spostando l'interesse verso
dimensioni precedentemente poco esplorate: la rilevanza
dell'appartenenza di genere nel dare forma al progetto e
all'esperienza migratoria, ma anche come soggettività, relazioni
di potere e rappresentazioni del sé e del corpo siano rinegoziate
e contestate nei percorsi di mobilità di uomini e donne (Willis,
Yeoh 2000). Una maggiore attenzione ai molteplici fattori che
regolano l'accesso alla mobilità internazionale e alle dinamiche
sessuate dei processi di inclusione ed esclusione dei soggetti
nel mercato globale2 ha inoltre contribuito a problematizzare il
ruolo cruciale che uomini e donne migranti svolgono
all'interno dei più ampi processi di riformulazione dei confini
dello stato-nazione nel paese d'origine, quanto nel contesto
d'approdo (Basch et al. 1994, 1995, Ongaro 2001).
In questo articolo esploro alcuni dei presupposti e delle forme
attraverso le quali due gruppi di donne migranti si organizzano
per far fronte alle difficoltà incontrate durante il loro percorso
d'inserimento lavorativo a Milano. Il capoluogo lombardo e la sua
provincia, dove risiede quasi la metà della popolazione straniera
presente nella regione (388.950 su una presenza che oscilla fra
838.000 e 882.000, ISMU 2006), è da oltre trent'anni un luogo in
cui s'intrecciano molteplici progetti e traiettorie di mobilità. La
storia articolata dei transiti di migranti e di rifugiati nel territorio
si mescola infatti a percorsi d'emigrazione-immigrazione
regionale, nazionale e internazionale. Gli sviluppi delle diverse
forme associative riflettono queste complessità, che sono legate,
oltre alle specificità del contesto di partenza e d'approdo,
all'interrelazione fra soggetti istituzionali, politiche locali e
nazionali3.
A partire dall'esperienza della Filipino Women's League for
P ro g ress e Donne in Cammino, due associazioni nate
dall'iniziativa di alcune donne immigrate di diverse nazionalità
che ho incontrato durante il mio lavoro di ricerca nell'ambito del
progetto "Partecipazione migrante nella provincia di Milano"4,
cerco di far emergere come l'idea di una supposta linearità
materiale e simbolica nei percorsi migratori dalle "periferie" verso
un "centro", che informa alcune narrative emancipazioniste di cui
sono oggetto le donne del "terzo mondo" (Amos, Parmar, 1984;
Mohanty 1986), riproduca gerarchie di tempi e luoghi,
censurando altre storie e tradizioni di modernità. La pluralità dei
desideri e delle attese che prendono forma all'interno dei diversi
ambiti associativi svela infatti anche le profonde ambiguità e le
tensioni in cui si muovono le donne che accedono alla mobilità
internazionale e alla "modernità occidentale".
Il mio scopo è dare visibilità ai significati e alle strategie
identitarie che sembrano sottese alla decisione dei due gruppi di
dare vita ad un'associazione di/per sole donne. A quali forme di
discriminazione si sentono soggette le donne migranti che ho
incontrato? Quali risorse mobilitano e quali strategie attivano per
contrastare posizioni di subalternità sociale e simbolica? Desidero
inoltre riflettere sulle soggettività plurali che le donne
51
ACHAB
Do s si e r
De genere
rivendicano, a partire dalle logiche di inclusione che sembrano
definire i confini dei due gruppi, ma anche dei linguaggi che
hanno usato per descrivere alcuni vissuti quotidiani, parlare di sé
e dell'associazione.
Essendomi presentata come una giovane ricercatrice interessata a
incontrare persone immigrate che facessero parte di reti
associative per raccoglierne il punto di vista, ma pur sempre
nell'ambito di una ricerca promossa da un ente pubblico, mi sono
inevitabilmente posizionata, insieme alle mie interlocutrici,
all'interno di una specifica cornice politica, istituzionale e
discorsiva, la quale costituisce al tempo stesso il limite e la
prospettiva dalla quale mi sono mossa. Credo, infatti, che ciò
abbia contribuito a definire il contesto dei nostri incontri e a dare
forma ai contenuti delle nostre conversazioni. Alcune donne
hanno forse interpretato lo spazio dell'intervista come la
possibilità di descrivere le attività e i progetti dell'associazione di
cui fanno parte. Altre, nel ripercorrerne gli sviluppi, hanno
enfatizzato la positività della propria esperienza associativa, per
poi spigarmi che per certi aspetti le socie perseguono obiettivi
diversi per il futuro o le molteplici difficoltà di ottenere
finanziamenti e credibilità dinnanzi alle istituzioni italiane.
Le donne manager della Filipino Women's League for Progress
Le isole Filippine hanno una lunga tradizione e cultura di
mobilità, in parte legata al passato coloniale del paese. Durante gli
anni '70, i flussi migratori si sono moltiplicati, diramandosi, oltre
a Stati Uniti, Australia e Canada, verso l'Asia Meridionale, il
Medio Oriente e l'Europa, fino a toccare anche nazioni come
l'Italia. Le diverse strutture religiose hanno svolto un ruolo
cruciale sia nel creare e consolidare catene migratorie, definendo
canali informali di reclutamento e inserimento lavorativo di
donne soprattutto nell'ambito del lavoro di cura, sia nel
promuovere momenti di aggregazione e socialità (Lainati 2000;
Andall 2000). Nella città di Milano, dove gli uomini e le donne
provenienti dalle Filippine rappresentano uno fra i gruppi
nazionali numericamente più rilevanti (33.050, Ismu 2006),
l'associazionismo costituisce una realtà complessa che
attraversa svariati ambiti e assume forme diverse, come band
rock giovanili, gruppi informali, chiese pentecostali o
associazioni di rappresentanza. L'esperienza della Filipino
Women's League for Pro g ress (FWLP) si situa dunque in un
contesto variegato e in divenire.
La FWLP è una Organizzazione non governativa nata a Milano
nel 2004 dall'iniziativa di un gruppo di donne filippine laureate
per far fronte alla condizione lavorativa in cui si trovano,
all'interno di un mercato che le include principalmente nel lavoro
di cura. Le storie di vita di alcune delle donne filippine che ho
incontrato sono attraversate da periodi più o meno lunghi di
clandestinità, prima di poter ottenere un permesso di soggiorno.
Altre si sentono sfruttate dalle famiglie italiane dove lavorano e
lamentano di non ricevere uno stipendio adeguato o in nero, che
le costringe a vivere quotidianamente in una situazione di
precarietà e di invisibilità. Joanna, presidentessa dell'associazione
in Italia da sette anni, ritiene che una simile condizione di
marginalità gravi ancor di più sulle donne con una formazione
superiore e un'esperienza lavorativa qualificata che avevano
sperato di poter investire in un progetto migratorio all'estero5.
Una volte giunte in Italia, però, scoprono spesso una realtà
piuttosto diversa da quella immaginata.
When we arrived here in Italy, we saw the situation of Filipino
women, doing job come domestica. Tante filippine che dice: "I am
so tired of doing domestic job […] our brains do not work with
domestica, solo per pulire, cleaning, washing, taking care of
elderly". [...] Women think: "Facciamo di più, because we studied
at the University. We should think more, use our brains more!"6.
La FWLP è ora composta da 65 socie che si incontrano la prima
domenica di ogni mese nei locali noleggiati presso la Chiesa di
Santa Maria del Carmine o in altre parrocchie milanesi, dato che
l'associazione non dispone di una sede propria, né la possibilità di
pagare un affitto. In questi anni, si sono impegnate in un lavoro di
auto-formazione ed ora le donne esperte in ambito giuridico e
commerciale stanno studiando le leggi italiane per capire come
modificare lo statuto dell'associazione e darsi una forma che
consenta loro di operare in altri settori, ottenere un mutuo e
avviare un'attività commerciale. Il gruppo vorrebbe aprire
un'agenzia di viaggi, attiva fra Filippine, Italia, Stati Uniti e
Canada, perché, come mi ha spiegato Joanna, "We women should
do business here, because the other Blacks, the Africans, the
Chinese, they are making their business, so, why Filipinos can't
do their own business?". Il desiderio di trasformare gli aspetti di
dipendenza e di marginalità nelle loro vite, attraverso la
definizione di una nicchia etnica del mercato del lavoro in cui
inserirsi, offre alle donne filippine la possibilità di accedere a
spazi di autonomia economica, interiore e sociale. D'altra parte, si
muove all'interno e rischia di rafforzare le dinamiche che
producono forme di esclusione o di inclusione parziale.
Quando ho chiesto a Joanna i motivi per cui hanno deciso di non
coinvolgere gli uomini che spesso, pur avendo una formazione
elevata, sono impiegati in ambiti dequalificati, mi ha risposto con
un tono di meraviglia e ovvietà che questi non sono considerati
partner affidabili e desiderabili, "We think that women can do
better then men. In Filipinas women are a little bit active and they
think better. Men parla, parla, drinking, in giro, oh no!". Ha poi
aggiunto che anche nelle Filippine le donne sono ritenute più
attive e capaci, poiché migrano per prime e, tramite le rimesse
inviate, sostengono gli studi dei figli e la quotidianità delle
famiglie rimaste a casa. Eppure, l'immagine di donna forte,
indipendente e capace, che traspare dalle parole di Joanna non è
priva di tensioni e ambivalenze. L'idea di donna che si prende
cura degli altri, perchè più responsabile e intraprendente rispetto
agli uomini, si mescola infatti a vissuti di marginalità e di
tristezza. La consapevolezza di vivere una situazione lavorativa
percepita come inadeguata rispetto alle proprie competenze e
attese si acuisce nei momenti di solitudine e nostalgia, rendendo
ancor più manifesti gli esiti dolorosi della dislocazione dei legami
affettivi. Alcune donne scelgono di ricostruire una vita affettiva in
Italia, dimenticando (forget) la famiglia lasciata a casa. Per
cercare di far fronte e di arginare situazioni difficili e
52
ACHAB
Do s si e r
De genere
comportamenti ritenuti inadeguati, descritti da Joanna come
aspetti della disgregazione sociale e della perdita di valori
"filippini e cristiani" legati alla mobilità, il gruppo vorrebbe
creare un programma di formazione morale (value formation)
rivolto alle donne e ai coniugi. I membri delle famiglie
ricongiunte si trovano spesso sole nel lavoro di ricomposizione di
una quotidianità a Milano dopo anni di separazione e di
sperimentazione, non priva di contraddizioni, di diversi ruoli di
genere. Lontane da "casa", le filippine svolgono un ruolo
economico cruciale, che trasforma gli immaginari e le relazioni
con i membri della famiglia estesa. In patria, dove il "sacrificio"
delle donne alla nazione le spinge oltre i suoi confini, sono
costruite retoricamente come moderne eroine della mobilità
globale, sebbene coesistono, in realtà, rappresentazioni molteplici
della mobilità femminile, che rivelano i costi materiali e simbolici
di pratiche che implicano la trasgressione di ruoli, comportamenti
e spazi di genere considerati appropriati (Perrenas 2006: 95-115).
In Italia, invece, le donne filippine impiegate come domestiche
accedono in molti casi ad una precaria autonomia materiale e
decisionale. Il contesto d'intimità lavorativa in cui si trovano
coloro che sono occupate a tempo pieno nelle case, dove svolgono
un lavoro invisibile, manipolano corpi e riproducono relazioni,
rende incerta sensazione e la capacità di agire un ruolo attivo nella
propria vita. Gli incontri legati alla celebrazione di festività
nazionali o religiose sono narrati come temporalità sospese, spazi
per sé in cui potersi svagare, alleggerite del senso di amarezza che
avvolge la vita quotidiana. "E' la nostra consolazione, mi ha detto
Joanna, dimentichiamo le nostre preoccupazioni, il nostro lavoro
nelle case".
Per quanto il nome dell'associazione richiami immagini di
"emancipazione" e "progresso" per tutte le filippine, in realtà,
coloro che sono prive di una formazione superiore sono escluse
dal gruppo perché le socie della FWLP ritengono che la loro
presenza rallenterebbe il lavoro di auto-formazione. "We want to
train the other women, but not the all other women can be a
trainer", mi ha spiegato Joanna, aggiungendo che solo dopo aver
avviato un'attività commerciale progettano di coinvolgere le altre,
offrendo loro una formazione professionale nell'assistenza agli
anziani o nel settore dei servizi, come cameriere o bariste. Si tratta
di una scelta provvisoria e pragmatica, ma che può forse
esprimere anche il desiderio di creare, consolidare o conservare
una leadership socio-economica rispetto alla più ampia
popolazione di migranti filippini. Ciò genera infatti anche critiche
e incomprensioni perché è considerata da molti elitaria ed
esclusiva. Questo aspetto ritorna nella volontà del gruppo di
organizzare incontri di lettura e studio della Bibbia riservate alle
sole socie, per rispondere al desiderio di confrontarsi con "altre
donne intelligenti" con cui poter scambiare pensieri e riflessioni,
riaffermando così i confini materiali e simbolici che le separano
dalla più ampia "comunità" filippina milanese.
Al momento del mio incontro con Joanna, alcune donne stanno
iniziando a lavorare come assicuratrici e contabili in piccole
imprese italiane, mentre la maggioranza continua a svolgere il
lavoro di domestica.
Donne in cammino: pratiche di relazione e risorse culturali
Donne in cammino è un'associazione no profit nata nel 2002
dall'iniziativa di Marisa, una donna brasiliana di ascendenza
italiana che, dopo varie esperienze presso enti e cooperative
italiane, ha deciso di dare vita lei stessa ad un'associazione
insieme ad un gruppo di donne straniere. Si tratta di donne
laureate, ma che in molti casi non sono mai riuscite a trovare
lavoro in Italia, se non in ambiti marginali o considerati
dequalificati. Insieme a loro e ad alcune donne italiane, Marisa ha
creato una "banca del tempo", che è arrivata a coinvolgere circa
87 famiglie sul territorio, tramite il passaparola fra le residenti del
quartiere di Milano in cui lei vive. Le donne hanno iniziato a
riunirsi di casa in casa per bere insieme il caffè, scambiare
esperienze o organizzarsi nella gestione dei figli e degli impegni
quotidiani e, quando è diventato difficile gestire gli incontri nelle
case, alcune di loro hanno deciso di costituire un'associazione
formale. Grazie ad un bando comunale, sono poi riuscite ad
ottenere una sede a Milano. Marisa ha offerto alle dieci donne
straniere che hanno condiviso con lei il progetto una formazione
nell'ambito dell'intercultura, grazie ad una lunga esperienza
professionale costruita, tra Brasile e Italia, attraverso percorsi di
studio e lavoro come psicomotricista, pedagogista ed educatrice.
Le donne hanno allora cominciato proporre attività di educazione
interculturale nelle scuole milanesi7 e, a poco a poco, hanno
avviato altri progetti e coinvolto donne migranti di varie
nazionalità. Oltre alla formazione e ai progetti nelle scuole,
l'associazione organizza corsi di chitarra, lingua cinese, italiano
per donne straniere, giornate di pulizia delle strade o di lettura di
poesie, attività ricreative rivolte in particolare agli abitanti del
quartiere per creare momenti d'incontro e di conoscenza
reciproca. In alcuni casi, l'associazione, ora registrata all'Albo
Provinciale, è riuscita ad accedere a dei fondi comunali per
finanziare i propri progetti.
Durante il nostro incontro presso la sede dell'associazione, ho
chiesto a Marisa le ragioni per cui hanno creato un'associazione
di/per donne e lei mi ha risposto:
Non era una cosa non agli uomini, però c'era una fotografia di
Salgano che mi ha molto colpito. E' una donna che cammina con
un cesto sulla testa, non so se hai presente, c'è il vento e ci sono
degli alberi di olive, lei va. E io ho detto dentro di me: "Donne in
cammino!". Io voglio trovare le altre donne che camminano, che
generano, perché io sono donna, e portare la famiglia, gli uomini
[…] Come si può creare una politica, fare tutte queste cose, in
una politica che non è per le donne, che ti vieta? Questo può
essere qua, con questa mentalità, ma per le altre donne che
vengono da un altro paese…Io vengo dal Brasile, ci sono i
movimenti, c'è un po' di ribellindia, hai capito?8
Nella narrazione di Marisa, il desiderio di creare spazi di incontro
e pratiche di relazione fra donne s'intreccia ad una critica di
genere alla politica italiana, che considera per molti aspetti
lontana dall'esperienza di molte donne migranti, delle quali
sottolinea piuttosto l'attivismo e l'apertura mentale. Costruendole
come soggetti forti, intraprendenti e ribelli, Marisa dà voce ad un
contro-discorso che rovescia certe retoriche emancipazioniste di
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ACHAB
Do s si e r
De genere
cui sono oggetto le donne straniere, spesso immaginate come
soggetti passivi e tradizionali da aiutare. Al tempo stesso, nel
momento in cui le descrive come portatrici di peculiari saperi ed
esperienza, evocando "qualità femminili" di creatività e
generatività, mette in secondo piano le profonde differenze che
esistono fra le donne immigrate.
L'associazione nasce con l'obiettivo di coinvolgere al suo interno
donne migranti laureate, per "tenere insieme le persone che sono
tra virgolette a rischio […] perché sono persone che hanno una
formazione e non riescono ad inserirsi". Per quanto negli ultimi
anni la loro attività si sia concentrata sul lavoro di educazione
interculturale nelle scuole, il progetto iniziale mirava infatti a
riunire e consolidare un gruppo di "donne che potessero
recuperare la loro forza all'interno del territorio". In realtà,
collaborano come educatori e animatori interculturali anche
alcuni uomini immigrati di diverse nazionalità, anch'essi con
un'istruzione superiore, i quali partecipano ad estendere e
riformulare i confini immaginati del gruppo.
La conversazione con altri membri dell'associazione svela però
ulteriori dimensioni, punti di vista e aspettative legate alla
partecipazione all'interno di questa realtà. Le donne e l'uomo che
ho incontrato in occasione di una riunione interna mi hanno
raccontano di essere entrate in contatto con l'associazione
attraverso Marisa o una rete di conoscenti che conduceva a lei.
Tramite il lavoro con l'associazione, mi hanno detto di aver avuto
la possibilità di dare un nuovo significato alla propria vita,
tessendo relazioni e condividendo dei progetti, ma anche di aver
avuto l'occasione di conoscere meglio se stesse e la "propria
cultura". Descrivendo l'esperienza di educazione interculturale
nelle scuole, molte hanno sottolineato l'importanza e l'utilità della
presenza di una persona che "rappresenta proprio la sua cultura".
Una donna d'origine russa, inoltre, mi ha spiegato che "c'è
bisogno proprio di questa autenticità che può dare solo la persona
che viene da un paese diverso". Da queste parole, traspare il
desiderio di alcune di definire e rivendicare la specificità di una
nuova figura professionale attiva nell'ambito della mediazione
interculturale. Ciò rivela un' appropriazione attiva dei linguaggi
culturalisti che abitano le politiche e i discorsi pubblici sulla
diversità culturale, ma se da un lato, ciò consente di articolare
esperienze e dar voce ad alcuni vissuti personali, dall'altro finisce
col proporre un'immagine dei migranti come "portatori di
cultura". In altre parole, la rivendicazione di forme di autenticità
culturale legate all'appartenenza nazionale, che esprime una
strategia di visibilità e una richiesta di riconoscimento della
propria professionalità, risponde in modo efficace ai paradigmi
della multiculturalità, i quali rischiano di restituire una visione
statica delle culture e delle identità
Soggettività plurali e strategie associative
Dal confronto fra le due realtà associative emergono alcune
analogie che riguardano in primo luogo i limiti che molte donne
straniere incontrano nell'accesso ad un mercato occupazionale
etnicizzato e marcato in termini di genere, che le situa
principalmente nel lavoro di cura o in ambiti marginali, proprio
per il fatto di essere donne e di essere straniere.
La situazione descritta da Joanna mette in luce le ambiguità delle
politiche di genere che regolano il sistema sanitario, sociale e
occupazionale italiano, le quali favoriscono il ritorno del lavoro di
cura tra le mura domestiche e la sua delega alle donne migranti. Il
lavoro di cura, che si svolge spesso in un contesto di
deregolamentazione, risulta funzionale a sanare in modo
informale i vuoti del sistema di welfare locale e nazionale9.
Le narrazioni e i vissuti evocati dalle persone che ho incontrato
svelano anche l'ambivalenza di molte retoriche emancipazioniste
di cui sono oggetto le donne, le quali celebrandone l'ingresso
nello spazio pubblico e produttivo - pensato in contrapposizione
con quello privato, dove si manipolano i corpi e si nutrono le
relazioni -, trascurano che per molte ciò non comporta una
ridistribuzione di genere del lavoro domestico, ma le costringe ad
un doppio lavoro o alla sua delega ad altre donne. L'esperienza
della mobilità internazionale non produce necessariamente esiti
"emancipatori" o "liberatori" nell'esistenza di queste donne, e
comunque non in modo lineare e privo di tensioni e ambiguità. Le
catene di delega transnazionale della cura (Salazar Perrenas
2000), prodotte dalla divisione internazionale del lavoro
riproduttivo, offrono una prospettiva utile per osservare le
dinamiche complesse che producono o consolidano gerarchie di
etnia, nazione, classe sociale e forme di etnicizzazione delle
relazioni di potere fra donne.
Entrambi i gruppi, che sono espressione di una élite culturale,
nascono dal desiderio di far fronte a questa situazione,
coinvolgendo una specifica tipologia di persone, le donne
migranti laureate. La scelta, che mostra i limiti impliciti della
categoria "donna migrante", se intesa come un'entità monolitica e
non intrecciata contestualmente ad altri posizionamenti (Brah,
Phoenix, 2004), non definisce a priori le risorse che i due gruppi
attivano. Pur facendo riferimento, nelle pratiche e nei discorsi,
alle categorie di "genere" e di "etnia" o "cultura", le strategie e le
modalità con cui decidono di mobilitare il capitale simbolico di
cui dispongono sono diverse, ne configurano la forma e ne
definiscono le specificità.
Le donne della FWLP rifiutano il ruolo di 'domestiche della
globalizazzione' (Salazar Parrenas 2001) e cercano di promuovere
attività che consentano loro di spendere altrove le risorse
professionali costruite prima di migrare, attraverso i percorsi di
studio e di lavoro. Dal momento che il mercato occupazionale
etnicizza il loro accesso al lavoro, la strategia delle donne
filippine della FWLP sembra essere quella di definire una
"nicchia etnica", cioè uno spazio vuoto del mercato italiano in cui
inserirsi ed etnicizzarlo a loro volta. Le socie di Donne in
Cammino, invece, re-inventano una professionalità a Milano,
attraverso percorsi formativi svolti in Italia. Alcune delle donne
che ho incontrato, narrando la propria esperienza all'interno
dell'associazione come un percorso di conoscenza interiore ed una
riscoperta delle risorse etniche e culturali che "naturalmente"
possiedono, costruiscono l'appartenenza nazionale come un
elemento di autenticità culturale, che diviene una risorsa
spendibile nell'ambito dell'intercultura e dalla mediazione
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D os si e r
De genere
culturale. Queste pratiche generano però esiti complessi e
contraddittori poiché se da un lato offrono alle donne spazi di
agentività, possibili percorsi di autonomia materiale e simbolica,
dall'altro consolidano strategie di inclusione parziale che
riproducono forme di etnicizzazione e auto-etnicizzazione.
In queste pagine, ho descritto le strategie dei due gruppi in modo
lineare, pur consapevole della parzialità del mio sguardo e dei
molteplici punti di vista che coesistono in entrambe le
associazioni. Desideravo soprattutto provare a riflettere sui
complessi immaginari e sulle strategie identitarie che orientano
alcune pratiche dell'associarsi in due gruppi di donne. In questa
prospettiva, la categoria di "donne migranti" sembra occultare,
più che svelare le diverse posizioni e i vissuti, che sono l'esito
dell'incontro di memorie, appartenenze nazionali e di classe, con
le specificità del contesto di approdo. Definendosi come
lavoratrici e professioniste, le persone che ho incontrato
rivendicano altre soggettività oltre a quelle in cui sono spesso
collocate, mentre lo spazio dell'associazione diviene il luogo in
cui articolare ed esprimere il desiderio di un ruolo attivo nel paese
in cui vivono, facendosi portatrici di istanze di partecipazione e di
cittadinanza. Entrambi i gruppi, non cercano solo di definire altri
canali d'inserimento lavorativo, ma radicano la propria azione
all'interno di legami di solidarietà e amicizia, per condividere
progetti e tempo libero, ma anche i vissuti di tristezza e di
nostalgia, ricollocando il proprio sé in una rete di relazioni.
Legami, reti associative e azioni di mutuo aiuto, lungi dall'essere
la "naturale" espressione di una comune appartenenza etnica,
nazionale o di genere, comportano forme di stratificazione interna
e la parziale esclusione di altri e altre. Le progettualità alla base
delle scelte d'inclusione e delle pratiche dell'associarsi in entrambi
i casi sembra dunque collocarle al di là delle rigide categorie di
"gruppo etnico" e "gruppi di donna", nelle quali una parte della
letteratura italiana sul tema dell'associazionismo migrante tende
ad iscrivere e interpretare queste realtà.
Note
straniero in Italia, per il quale si rimanda ad es. a Pietro Basso,
Fabio Perocco, Gli Immigrati in Europa. Diseguaglianze,
razzismo, lotte, Franco Angeli, Milano, 2003. Sulla relazione fra
politiche locali, immigrazione e associazionismo a Milano si
rimanda invece a Tiziana Caponio Tiziana Caponio, Policy
Networks and Immigrants' Associations in Italy: The Cases of
Milan, Bologna and Naples in “Journal of Ethnic and Migration
Studies”, Vol. 31, No. 5, 2005, pp. 931-950 e al volume Città
italiane e immigrazione. Discorso pubblico e politiche a Milano,
Bologna e Napoli, Il Mulino, Bologna 2006.
4. L'indagine, che si proponeva di esplorare le forme delle
partecipazione istituzionale e dell'associazionismo immigrato
nella provincia di Milano, si è svolta tra aprile e giugno 2007.
Essa si basa su interviste semi-strutturate e in profondità
realizzate con attivisti/attiviste e soci/socie di associazioni di
Milano e Provincia. I nomi delle persone a cui fanno riferimento
i frammenti di interviste riportate sono pseudonimi.
5. Rachel Salazar Parrenas ha messo in luce che molte delle
donne filippine occupate nel lavoro di cura in Italia e negli Stati
Uniti appartengono alla classe media e che nel paese d'origine
erano impiegate come insegnanti, professioniste, piccole
imprenditrici. La scelta di migrare è spesso legata al
mantenimento della propria posizione socio-economica e della
propria famiglia, minacciata dalla crisi economica. Si veda
Caring for the Filippino Family: How Gender Differentiates the
Economic Cause of Labour Migration, “Women and Migration in
Asia”, Vol. 4, Anuja Agrawal 2006.
6. Tutte le citazione sono tratte da una lunga intervista realizzata
con Joanna il 15/05/07.
7. I percorsi educativi proposti dall'associazione hanno come
obiettivi la decostruzione di stereotipi e pregiudizi, la promozione
dell'accoglienza e la conoscenza delle "culture altre", la
sensibilizzazione sui temi e valori della cittadinanza interculturale
* La ricerca è stata svolta all'interno del progetto "Partecipazione
Migrante" del CREAM (Centro Ricerche Etno-antropologiche di
Milano) dell'Università Bicocca di Milano sotto la direzione di
Alice Bellagamba e Mauro Van Aken. Il progetto è stato
finanziato dalla Provincia di Milano - Assessorato Pace,
partecipazione, sport, idroscalo e cooperazione internazionale.
Sono molto grata alle persone che hanno preso parte alle tante
discussioni che hanno attraversato lo spazio del seminario e che
durante il lavoro di revisione dei testi mi hanno offerto commenti,
critiche e suggerimenti.
1. Linda Basch et al., hanno definito transnazionalismo come "the
process by which immigrants forge and sustain multi-stranded
social relations that link together their societies of origin and
settlement. […] An essential element of transnationalism is the
multiplicity of involvements that transmigrants sustain in both
home and host society", Nation Unbound: Transnational
Projects, Postcolonial Predicments and Deterritorialized NationS t a t e s, New York: Routledge, p. 7. Si veda anche Steven
Vertovec, Robin Cohen, Migration, Diaspora and
Transnationalism, Edward Elgar Publishing, Cheltenham and
Northampon 1999.
2. Patricia Pessar e Sarah Mahler, ad esempio hanno elaborato il
concetto di "geometrie di genere del potere", a partire dalla
nozione di "power geometry of time-space compression" proposta
da Doreen Massey (1994), attraverso il quale la geografa ha
messo in luce come le particolari condizioni che hanno generato
la compressione spazio-temporale, al contempo definiscano i
margini delle reali possibilità di accesso al flusso di informazioni
e alla mobilità delle persone, situandole all'interno di reti di potere
asimmetriche.
3. Non è possibile ripercorre qui la storia dell'associazionismo
[email protected]
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De genere
e multietnica, la conoscenza e la valorizzazione delle differenze
(dal sito web www.donneincammino.org).
8. Tutte le citazioni fanno riferimento ad un'intervista realizzata
con Marisa presso la sede dell'associazione il 14/05/07. Le
citazioni di altri membri sono state raccolte in un secondo
momento, nell'ambito dello stessa giornata in cui si svolgeva una
riunione interna.
9. Sul tema del lavoro di cura in Italia e dell'associazionismo si
rimanda ad es. a Jacqueline Andall, Gender, Migration and
Domestic Service. The politics if Black Women in Italy, Aldershot,
Ashgate 2000; relativamente al contesto milanese esiste una
recente indagine della Camera di Commercio di Milano "Donne
immigrate e lavoro di cura", Milano 2006
Bibliografia
Valeie A., Pratibha P. Challenging Imperial feminism, "Feminist Review", N.17, 1984, pp. 3-19
Jacqueline A. Gender, Migration and Domestic Service. The politics if Black Women in Italy, Aldershot, Ashgate 2000
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Do s si e r
De genere
Dubri
Movimento e pratiche della località in un rituale agricolo1
di Federica Riva
Introduzione all'etnografia
A ritroso, ripensando ai periodi di ricerca di campo presso alcuni
villaggi himalayani di Tehri Garhwal, India nord occidentale, mi
sono resa conto di come l'esperienza etnografica sia stata prima di
tutto un processo di "apprendistato ecologico".
La partecipazione ad alcune pratiche agricole (quelle che
richiedevano un lavoro intensivo e meno compromettenti per il
raccolto), il muovermi in verticale imparando a non guardare in
basso, tagliare l'erba sui pascoli non terrazzati, il rispetto dei
confini, la consapevolezza dei pericoli e delle azioni azzardate, le
modalità di partecipazione in cucina, l'adeguamento alla
disponibilità stagionale delle risorse collettive, mi facevano
perdere il senso delle domande antropologiche che erano il
motivo per cui mi trovavo lì. Mi confondevo nei piccoli e
ripetitivi gesti quotidiani imitando, per quanto mi era possibile, le
pratiche esperte delle donne che mi davano ospitalità. Il mio aiuto
era gestito dalle donne a me più intime che mi indirizzavano
secondo le priorità di cooperazione collettiva nella gestione
dell'abitare quotidiano; gli scambi di lavoro e l'aiuto tra donne è
infatti una risorsa sempre più essenziale che deve essere
collettivamente ben giocata e in modo assolutamente mutuale2.
Lottavo con me stessa per riuscire ad andare oltre; inseguivo
"l'eccezione al quotidiano"e spazi di parola con interlocutori/trici
a ffinché mi restituissero un senso esplicito e comunicabile
dell'agri-cultura come un orizzonte interpretativo della
quotidianità. E della fatica. Nonostante la predisposizione teorica
ad un approccio ecologico all'antropologia3 , l'immersione
etnografica e il mio apprendistato a svolgere compiti ordinari
a volte mi sembravano proprio fine a se stessi.
La possibilità di testualizzare l'esperienza etnografica durante
il seminario di genere mi ha fatto riportare l'evento
eccezionale che volevo analizzare (Dubri, il pellegrinaggio
della divinità locale in occasione del raccolto dei monsoni) ad
una ordinarietà quasi corporea, a percezioni che mi
sembravano mute, ad una serie di ragionamenti pratici
irriflessi e alle tecniche del vivere quotidiano che mi
imponevano un coinvolgimento attivo con l'ambiente.
La mia stessa dimensione corporea di partecipazione all'ambiente
si è infranta in un caleidoscopio di posizionamenti. Quello che è
rimasto sono una serie di relazioni ritenute appropriate tra
persone e ambiente a cui si è intrecciati attraverso le azioni
sviluppate al suo interno e che ne fanno "the environment of a
way of acting" (Wittgenstein1979:7)
Movimenti divini e gastro-politiche della località
Per "j a a t", pellegrinaggio, non bisogna intendere solo un
movimento verso la divinità, uno spostamento fisico-spirituale,
un'ascesa-ascesi verso il sacro che consenta una comunione con il
divino. Spesso i pellegrinaggi che caratterizzano le aree
himalayane sono un percorso, yatra,compiuto dagli abitanti delle
montagne con la divinità localmente venerata; mossa su di un
palanchino (palki) la divinità transita all'interno della propria area
di influenza che di solito si estende a 4-5 villaggi. Naag Devta (la
divinità serpente, una forma di Shiva) "arriva" (Devta andi) per
celebrare Toulu in beisaak4, periodo primaverile quando è pronto
il grano e le varietà di miglio e verso la fine del periodo
monsonico, nel mese di badon, per Dubri che anticipa i raccolti
principali di riso, miglio e legumi. L'arrivo della divinità al
villaggio propizia l'abbondanza del raccolto, bateru. La stessa
parola viene usata sia come sinonimo della festività che per
indicare la generosità della famiglia nell'ospitalità e offerta di
cibo.
"Bateru kalya?", "ne hai avuto/mangiato in abbondanza?" La
nozione di produttività agricola, infatti, non risponde a parametri
puramente quantitativi; comprende, piuttosto, un senso
immateriale di supporto comunitario, meljot. Il cibo indica e
costruisce relazioni sociali, è un potente mezzo di contatto tra
persone e gruppi, gli è riconosciuta la capacità di rendere
omogenei gli esseri umani che entrano in contatto attraverso la
sua condivisione (Hansen 2006). Le precedenze nel ciclo di
distribuzione e i diritti-doveri di ospitalità regolano le transazioni
appropriate e spesso esemplificano relazioni di solidarietà o
rivalità, di esclusione, gerarchia o intimità tra persone.
(Appadurai 1981) . Nel contesto hindu del Garhwal, proprio per
compensare le qualità omologanti del cibo, saper mangiare nel
modo, tempo, posizione e contesti appropriati significa
riconoscere le differenze di status, le differenziazioni di genere e
generazionali nonché le relazioni opportune tra persone. Ma
soprattutto significa sapersi posizionare in modo socialmente
accettabile5. Per questo l'abbondanza di cibo, la sua preparazione
e la consumazione collettiva nel giorno di arrivo di Naag Devta è
un atto "gastro-politico" di costituzione di relazioni sociali
inclusive. Intorno alla condivisione di cibo, di cui Naag devta
risulta l'unico ospite onorato, si costituisce una collettività come
comunità di pratica agricola, una relazione collettiva con
l'ambiente montano come luogo di sussistenza. La trasformazione
dell'ambiente in cibo attraverso la produzione agricola implica
una relazione "appropriata" e quindi "fertile" di uomini e donne
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Do s si e r
De genere
con la terra. In quanto trasformazione dell'ambiente, il raccolto è
frutto di una cooperazione umana e divina e con l'arrivo di Naag
Devta, il cibo è prasaad, dono divino. Per questo motivo il cibo,
al centro del pensiero tassonomico e morale della vita quotidiana,
diventa anche, nel suo riferimento alla cooperazione divina alle
pratiche umane, un elemento rituale centrale nella costituzione
della collettività agricola dove temporaneamente si sospendono le
sue qualità di segmentazione e differenziazione sociale. La
capacità della divinità di fornire un'identità pubblica ad un gruppo
si fonda quindi su una relazione collettiva con l'ambiente che è
prasaad . L'abbondanza, bateru, sta nelle relazioni feconde di
cooperazione tra uomini/donne, divinità e località.
Momenti di r i cerca di campo
L'utero della terra
A Dubri, il pellegrinaggio di Naag Devta prende la forma di una
staffetta il cui percorso è contrattato di anno in anno creando, così,
una circolarità nelle precedenze dell'arrivo della divinità nei
rispettivi villaggi. Un palanchino costituito da due legni lunghi
circa due metri su cui è riposta l'effige (nishan) della divinità,
consente il movimento di Naag Devta insieme agli uomini, che
"vanno a prenderla" per portarla al proprio villaggio. Il
palanchino, afferrato ai quattro pali che ne costituiscono
l'estremità, consente lo spostamento della divinità nello spazio ma
anche il movimento su se stessa in una danza (Nag Devta nach
raha hai, Naag Devta balla) che esprime la benevolenza divina
(Nag Devta kush hai, è contenta). Mentre il movimento viene
affidato agli uomini, alle donne compete il "ruolo gestazionale"
(Bourdieu 1999) di preparazione del terreno per il passaggio della
divinità. Dai confini verso il centro del villaggio (chonri), le
donne versano a terra il panchamirt, un liquido costituito da
cinque elementi: burro, urina di mucca, miele, yogurt, latte. La
preparazione del luogo di arrivo di Naag Devta viene invece
affidato all'ouji della casta degli harijan, figura centrale in ogni
momento rituale della collettività. Gli ouji scandiscono i tempi
cruciali della collettività con il suono del dol (tamburo):
quotidianamente accompagnano i movimenti del sole all'alba e al
tramonto, fiancheggiano il palanchino degli sposi durante il barat
(processione) matrimoniale, annunciano l'inizio della primavera,
ma soprattutto con i loro suoni ritmici "fanno ballare la divinità"
dal momento in cui esce dal tempio fino a quando ci ritorna. Per
giorni si può seguire il percorso di Naag Devta attraverso le
mulattiere che portano da un villaggio all'altro solo ascoltando le
direzioni sonore del dol. Durante il festival di dubri, per una
settimana, si costituisce un vero paesaggio sonoro che conferisce
un senso di connessione ai villaggi in cui Naag Devta transita.
Per Dubri, l'ouji prepara un buco di un metro di diametro che
viene riempito di coltivi prossimi alla raccolta: jhangora, mandua,
(due qualità locali di miglio), mais e verdure. Ci si riferisce al
buco come alla "pancia della terra", al suo "utero (cok) che afferra
(pakadna) i raccolti". La terra, infatti, non rimane sostanza inerte
nelle forme di interazione che ne assicurano la fecondità; si tratta,
piuttosto, di un soggetto attivo nel processo di produzione, che ha
preferenze, diete appropriate, appetititi, capacità di afferrare o
meno i raccolti, che è debole o forte, che ha bisogno di riposare.
Quindi la preparazione dell' "utero che afferra i coltivi" da parte
dell'ouji, serve a ribadire il ruolo attivo della terra nel processo di
relazioni feconde della collettività con la località. Dall'"utero" che
viene richiuso e ricoperto di terra e pietre, sbucano le coltivazioni
a stelo lungo, come il mais, la jhangora e la mandua. Le donne,
riunite intorno al luogo dove sono trattenuti i coltivi offrono i
simboli culinari del festival a Naag Devta: puri, pakore, dahi e
subzi. E' il movimento della divinità su se stessa, la sua danza che
dà inizio al momento di competizione maschile nel cercare di
"tirare fuori" (nikalna) dalla pancia della terra quanto più raccolti
è possibile, propiziazione all'abbondanza del raccolto effettivo
che avverrà dopo 15-20 giorni. I raccolti sono pronti, peda ho gea,
letteralmente "sono nati" da una relazione legittima con il locale.
Qualità terrene, residenza e fecondità
Secondo l'agronomia sostanzialista che caratterizza l'agricoltura
nei villaggi del Garhwal, la terra conferisce le proprie qualità o
proprietà alla coltivazione che deve essere predisposta a
riceverle. Qualità che fluiscono all'uomo attraverso la catena di
processi implicati nella produzione di cibo. La specificità del cibo
connesso al contesto ecologico, infatti, diventa spesso un
elemento di identità collettiva e di distinzione sociale, simbolo di
uno stile di vita, rehen sehen, di un "modo di risiedere", di abitare
il territorio come risorsa primaria. L'immaginario culinario viene
spesso connesso ad un immaginario di relazione spaziale
(Feldman P. 2006)6.
È come se il cibo, le pratiche quotidiane e le forme di
collaborazione (tra uomini e donne di diverse caste, generazioni
ed estrazioni sociali, con la terra e Naag Devta) che sono
implicate nella sua produzione fossero alla base
dell'interiorizzazione del luogo da parte degli abitanti e del
processo stesso di divenire i luoghi. Performare lo scambio rituale
di cibo-prasad durante Dubri, apparentemente incuranti delle
differenziazioni sociali, ribadisce che il villaggio, l'individuo e la
comunità sono elementi di un'unità bio-morale, nonostante le
differenze di casta, classe, genere o generazionali . Come sostiene
William Sax, in Garhwal " by working collectively , mixing and
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sharing food, and especially through their rituals, villages
constitute themselves as biomoral entity" (Sax, 2002, p.49). La
performance rituale che precede il raccolto, riafferma che terra e
abitanti (umani, animali, divini, demoniaci) sono parte di un
sistema interattivo di scambio e che la co-partecipazione
all'ambiente tramite pratiche agricole costituisce un elemento
distintivo della comunità pahari (della montagna). La molteplicità
delle prospettive viene facilmente omessa nelle espressioni rituali
collettive che si fondano appunto sull'ideologia agnatizia
dominante che la comunità condivida una cultura omogenea, uno
sguardo comune sul locale e identiche pratiche di relazione al
luogo di residenza. L'autenticità di una cultura condivisa si fonda,
infatti, sulla naturalizzazione di un rapporto con il territorio che
nel Garhwal significa appartenenza al luogo di residenza
patrivirilocale. Nel caso dell'uomo, questo luogo coincide con lo
spazio dei propri antenati, con il proprio luogo natale, nonché con
quello che sarà il luogo per la propria discendenza maschile.
Per quanto riguarda la donna sposata, invece, lo spazio sociale
appropriato coincide con l'abbandono (mai così totalizzante e
definitivo come gli uomini amano rappresentare) dei luoghi
legati alla propria infanzia e il contenimento nello spazio7 del
marito. L'affacciarsi ad un nuovo paesaggio naturale e sociale
e cercare di farne parte attraverso l'abilità nelle pratiche
quotidiane può, infatti, essere considerato il vero rito di
iniziazione della donna all'età adulta.
Alcuni attribuiscono la definizione di Dubri al rituale che
precede il raccolto nel periodo monsonico ad un'erba delle
colline himalayane, dublu gaas. Proprio per la sua capacità di
attecchire e facilità nel riprodursi, la dublu gaas assume un
valore simbolico e viene utilizzata in molti rituali di
propiziazione all'abbondanza ed alla fertilità. Viene donata
alla nascita di un figlio maschio che, differenza delle figlie
femmine, continuerà la relazione della discendenza paterna
con il luogo di residenza; ma è anche shaguun8, un elemento
rituale di buon auspicio per una relazione di appartenenza
feconda al territorio, che accompagna le attività di ogni
periodo di raccolta agricola.. A Dubri, ognuno si porta a casa
un ciuffetto dublu gaas, insieme ai raccolti ottenuti dall'"utero
della terra".
C'è un detto garhwali che dice "gaanth gaanth se sab aur se
barti dublu gaas hoti hai, usi prakaar tu (stri) hamko maatrgotra aishvarya se vismrat karo", "come la dublu gaas cresce
da ogni nodo, cosi' tu (donna) diffondi la discendenza con
prosperità". Il riferimento è alla donna come dublu gaas:
condizione per la fecondità "legittima"consiste nel "mettere
le radici a terra" e diffondere il gotra (lignaggio) del marito
attraverso nuova prole. Le donne sono rappresentate come
l'anello di continuità con il locale e la tradizione; consentono,
e non solo simbolicamente, che la comunità famigliare
rimanga legata al territorio e che venga rafforzata dalle
relazioni comunitarie all'interno del villaggio. Sono loro le
principali addette ai lavori agricoli che seguono l'aratura, alle
attività quotidiane per la sussistenza e alla cura del bestiame.
La massiccia emigrazione maschile verso i centri urbani in
cerca di lavoro salariato, infatti, ha fatto sì che
progressivamente, nel corso degli ultimi 30 anni, le donne
siano state gli effettivi residenti dei villaggi himalayani. Sono
loro, inoltre, che mantengono vive le relazioni di
cooperazione (padyiaal, scambio di lavoro) all'interno della
comunità agricola durante i periodi di intenso lavoro.
Il radicamento, la stabilità, i legami con la località e la
fecondità legittima sono ciò che fa di un "essere femminile"
una "devi" (la stessa parola viene usata sia per la divinità
femminile che nomignolo post-maritale per la donna). La
donna diventa tale nel momento in cui "si sposa al luogo di
residenza" sancito dalle alleanze matrimoniali delle rispettive
famiglie; diventa devi con l'entrata nello spazio del marito,
consentendo una discendenza legittima e la continuità di una
relazione del lignaggio maschile con il territorio
.
Pratiche della località
Nelle rappresentazioni dominanti di Dubri, la donna, come la
dublu gaas, è immobile, anello di radicamento al luogo, che
attecchisce dove la metti. D u b r i, descritta dagli
informatori/trici come performance di radicamento al
territorio, di relazione feconda, legittima ed esclusiva al luogo
di residenza, ci indica anche come la trasformazione radicale
della donna, il suo processo di enskilment 9, sia condizione
necessaria alla riaffermazione di una cultura omogenea della
località. Trasformazione che viene rappresentata come un
viaggio, esistenziale oltre che geografico, senza ritorno,
allontanamento definitivo dai luoghi della propria
fanciullezza, dagli spazi affettivi prematrimoniali, dal
contesto ecologico del villaggio di origine.
Il rapporto tra suocere e nuore10, espressione del potere e dei
conflitti generazionali tra donne all'interno della famiglia, può
essere considerato emblematico a tal riguardo. Parlando con le
donne che hanno figli maschi sposati (e che hanno quindi tutte le
carte in regola per esibire il loro pieno radicamento al luogo di
residenza) viene spesso riferito di come le loro bhwari (nuore)
non sappiano "fare niente", di come debbano imparare tutto ciò
che la renderà, nel tempo, una brava sposa, madre ed
eventualmente suocera. Il riferimento alla mancanza di'"abilità"
nei lavori agricoli e routine quotidiane, è particolarmente
significativo, infatti, nel definire ciò che, nell'ottica della suocera,
ancora manca alla giovane sposa per radicarsi definitivamente al
locale, ad una nuova geografia condivisa nel villaggio del marito.
La negoziazione dell'appartenenza della donna allo spazio
avviene, quindi, attraverso quella che viene rappresentata come
iniziazione alle pratiche agricole. Queste affermazioni sono da
inserire nel contesto sociale dei villaggi himalayani dove il ruolo
delle donne in agricoltura è centrale per la sussistenza della
famiglia. Il valore culturale cruciale assunto dal lavoro agricolo fa
sì che la partecipazione ad una comunità agricola femminile e
l'alleggerimento della mole di lavoro delle altre donne della
famiglia, sia l'espressione di "radicamento" effettivo della
giovane sposa. L'uscita dal luogo natale viene quindi
rappresentata, questa volta secondo l'ottica dominante
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rappresentata dalle suocere, con l'acquisizione dal nulla di abilità
che sanciscono una nuova relazione, culturalmente mediata, con
lo spazio.
Eppure le bambine, sin da tenera età, rappresentano un aiuto
spesso indispensabile nelle famiglie pahari. Collaborano con la
madre nella raccolta del foraggio per gli animali, nella sarchiatura
del terreno dopo l'aratura; sanno riconoscere le piante utili da
quelle dannose e sono spesso abili nella mondatura e nella
macinazione manuale dei grani; sono un prezioso sostituto in
cucina, nella pulizie e nell'accudire i bambini più piccoli durante i
periodi di intenso lavoro agricolo che tengono la madre lontana da
casa dall'alba fino al calare del sole. Le loro abilità nello specifico
contesto rurale himalayano sono considerate un elemento non da poco
nelle contrattazioni matrimoniali, a volte più dell'educazione
scolastica.
La loro incapacità esibita dalle suocere, sembra essere, quindi, una
vera e propria costruzione culturale. Si sancisce, ancora una volta, che
il divenire donna ha origine da un vuoto, da una cancellazione. Inoltre,
la sua appartenenza al (viri)locale deve essere inaugurata con il
radicamento esclusivo nello spazio del marito e con la condivisione
assoluta dei codici culturali che lo governano. Si esorcizza, in questo
modo, il movimento della sposa come relazione tra luoghi che la
collocherebbe sempre un po' anche "altrove".
Una posizione eccentrica quella della donna che, se ammessa
socialmente nella forma di pubblico rituale, farebbe infrangere
l'illusione di una cultura autentica ed esclusiva basata sul virilocale.
Riconoscere alle donne la loro condizione di migranti, infatti,
significherebbe anche riconoscere la natura ibrida della relazione al
locale che si fa punto di incontro tra luoghi ed appartenenze diverse.
Altri momenti connessi al rituale della raccolta ci suggeriscono la
natura ambigua della posizione femminile rispetto alla località; ci
raccontano del legame tra i due luoghi che, in una prospettiva
femminile11, sembra inalienabile, anzi, sembra essere condizione
stessa del vivere un luogo, il locale in quanto donna.
Si parla di amicizia (dosti) di Naag Devta con la dhyiaani (figlia
sposata) e della sua contentezza (kushi) se le viene concesso di tornare
alla mait (casa natale) durante i festival, In realtà questo viene riferito
da informatori/trici solo in seguito ad una mia domanda diretta ("le
dhyiaani tornano a casa per D u b r i?"). Le riposte mettevano in
evidenza il fatto che fosse di buon auspicio che soprattutto le giovani
spose tornassero alla propria casa natale. Nello stesso tempo, però, ci
tenevano a precisare la non obbligatorietà di questo ritorno (se non
vanno non ci sarà maledizione-dos-da parte della divinità). Sancendo
la marginalità della visita alla casa natale rispetto alla riuscita della
performance rituale, rendono questo momento di celebrazione di una
prospettiva femminile sul locale contingente alle volontà individuali e
quindi innocuo per quanto riguarda le politiche dominanti di genere.
La celebrazione di Dubri, seguendo il movimento di Naag Devta,
avviene in giorni diversi in ogni villaggio. E' proprio la scansione
temporale che consente la celebrazione (questa volta non pubblica) da
parte delle donne di un legame con uno spazio anteriore, di una
geografia emozionale originaria che non viene mai rimpiazzata
completamente dall'ordine sociale di residenza virilocale. Dalle donne
giovani l'arrivo di Naag Devta alla loro mait viene spesso descritto
come il momento più emozionante dei giorni di festival, a cui mi
veniva richiesto di partecipare seguendole nel loro viaggio di ritorno,
in giornata e a piedi. In questa occasione la donna diviene spesso
ospite informale del rituale pubblico. Dopo la distribuzione e lo
scambio rituale collettivo di cibo-prasad, la dhyiani si ritrova con la
propria madre, spose di fratelli, nipoti, zie, cugine intorno al chulla
(fuoco per cucinare), nello spazio interno della propria geografia
d'origine. La condivisione di chai (thè) e ancora cibo è un momento di
intimità tra donne in cui ci si scambia informazioni, si racconta di
distanze, nostalgie e relazioni tra famiglie.
E' un rituale informale femminile ai margini della performance rituale
pubblica che ci suggerisce come la donna non smetta mai di essere
dhyiaani (figlia sposata) per la propria famiglia natale e come la
relazione tra luoghi sia alla base di una relazione femminile con la
località.
[email protected]
Note
1.La ricerca è stata svolta all'interno del dottorato in
Antropologia della Contemporaneità dell'Università di Milano
Bicocca e nell'ambito del Progetto Ev-K≈-CNR - Ricerche
Scientifiche e Tecnologiche in Himalaya e Karakorum, grazie al
contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Ministero
degli Affari Esteri. I periodi di ricerca di campo sono stati
compresi tra dicembre 2001 e settembre 2006, svolti sia in
internship con il Research Foundation for Science Technology
and Ecology a Dehra Doon che presso alcuni villaggi di Jaunpur
Block, distretto di Tehri Garhwal, Uttarakhand, India NordOccidentale.
Il processo di elaborazione testuale del materiale etnografico è
coinciso con il seminario permanente di antropologia di genere
presso l'Università di Milano Bicocca.
2. La preferenza per famiglie nucleari rispetto a quelle allargate
(dove c'era una suddivisione delle mansioni), l'emigrazione
maschile di figli e mariti, la crescente scolarizzazione anche delle
ragazze, hanno reso quasi esclusivo il ruolo delle donne singole
come responsabili della sussistenza quotidiana.
3. Cfr. Ingold 2001.
4. Secondo il calendario garhwali che viene utilizzato sia per
scandire i momenti rituali che per le attività agricole, beisaak è il
periodo tra il 15 aprile e il 15 di maggio mentre badon spazia tra
il 15 agosto e il 15 settembre.
5. La condivisione appropriata del cibo ha costituito un momento
importante della mia educazione alla località durante i periodi di
ricerca etnografica. "Jutthu" è l'espressione che viene usata
quando si superano i confini dell'intimità fisica tra persone in
legami inappropriati; è da quel divieto che sono stata educata a
relazioni di cibo più o meno appropriate anche se non fisse,
quanto, piuttosto, variabili nel tempo e circostanze.
6. La mandua e jhangora, (detti anche mota anaag, grani grossi)
due tipi di miglio che richiedono poca acqua e sono resistenti alle
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De genere
difficili condizioni atmosferiche montane, sono il simbolo di
un'alimentazione che è diventata rappresentativa anche di un
modo di essere e di vivere il territorio impervio del Garhwal.
Colture tradizionali che hanno svolto un ruolo importante per la
sicurezza alimentare delle famiglie pahari, mandua e jhangora,
nonostante l'elevato valore nutritivo, hanno subito una
svalutazione progressiva con la rivoluzione verde. Spesso
sostituite con colture considerate più "produttive"(high value cash
crop) in quanto commerciabili sul mercato e rispondenti ai gusti
alimentari di potenziali clienti delle pianure, il grano e il riso sono
diventati indici di benessere economico e di un'alimentazione
"moderna". L'associazione delle colture tradizionali di mandua e
jhangora ad una realtà sociale arretrata e stile di vita arduo, si può
riscontrare anche in alcune canzoni popolari note nell'area di
Tehri Garhwal. La Kuder Geet (tipologia di canzone che racconta
la nostalgia -khud- per la persona amata che si trova lontano o per
la casa natale che si deve lasciare col matrimonio) ci può fornire
alcuni indicatori di come le gerarchie "colturali"e alimentari
intervengano nelle relazioni tra persone della montagna e persone
della pianura. Nella seguente canzone, una ragazza di Rishikesh
(città in riva al Gange, situata nella pianura adiacente alle
montagne) chiede di non essere data in sposa ad un pahari;
denigra lo stile di vita delle famiglie che abitano le montagne
facendo riferimento ai loro costumi alimentari:
Caro padre, quali sono i costumi sociali
Dove cerchi un compagno di vita per me?
Che vestiti vestono là?
Che cibo mangiano?
Vestono sari di lana E mangiano jhangora e mandua
Non ci andrò mai là Caro padre, non ci andrò mai là
Al di fuori dell'ideologia modernista, ancora oggi mangiare roti di
mandua o jhangora è sinonimo di una relazione di radicamento
alla terra del Garhwal.
7. Sax, come essere inseriti nello spazio di qualcun altro significa
esserne subordinato (Sax 1990, p.496)
8. Durante il mundi, la mondatura del grano,per esempio, un
ciuffo di questa erba viene fatto sbucare da un cono fatto con
escrementi di mucca (anch'essi , insieme all'urina di mucca,
considerati un elemento rituale purificatore) e posto in cima al
giogo intorno cui vengono fatti ruotare i buoi
9. Tim ingold, 2001
10. Si mette in evidenza come l'ideologia dominante non sia
supportata necessariamente ed esclusivamente dagli uomini
11. Come ho già messo in evidenza con il riferimento alla
relazione sasu-bhwari (suocera-nuora), non si può parlare di una
prospettiva monolitica di uomini o donne sulla località. Piuttosto,
è il posizionamento individuale (età, abilità, carattere, specificità
della proprio ruolo nella configurazione parentale, complicità con
le altre donne della famiglia allargata, presenza nel nucleo
famigliare di altre donne con maggiore autorità o di spose più
giovani, presenza di figli maschi, casta, proprietà famigliari etc; )
che influenza il modo di abitare lo spazio di residenza e di vivere
il legame con la famiglia di origine e le relazioni con il proprio
villaggio natale. Così, anche la prospettiva maschile è
profondamente influenzata da una serie di variabili che
definiscono la specificità del legame individuale con il territorio.
Quando parlo di discorso dominante, non lo faccio coincidere con
le storie di uomini quanto alla legittimazione sociale del
predominio maschile.
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Wittgenstein, L 1979, Remarks on Frazer's Golden Bough, Atlantic Highlands NJ, Humanities Press
61
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Do s si e r
De genere
Osservazioni sulla costruzione del genere
nelle pratiche di produzione radiofonica
di Sara Zambotti
Since technology and gender are both socially constructed and socially pervasive,
we can never fully understand one without also understanding the other
(Lohan & Faulkner: 2004, 319)
Il dibattito pubblico in Italia intorno al rapporto tra media e genere
si anima spesso nei programmi televisivi e sui quotidiani intorno
alle rappresentazioni del "femminile" e del "maschile": in breve,
intorno ai "modelli" di genere forniti dai media considerati come
agenzie culturali e, particolarmente in Italia, come "formative".
Sul versante invece dei media intesi come organizzazioni, alcune
recenti ricerche sociologiche hanno indagato il ruolo del genere
soprattutto nelle dinamiche organizzative e nella divisione del
lavoro all'interno di Radio Rai (cfr. Rella, Cavarra: 2004) e
all'interno dell'emittente pubblica francese (Glevarec: 2001)
attraverso una compresenza di metodologie quantitative e
qualitative. Prendendo in esame il primo di questi contesti (Radio
Rai) propongo qui alcune considerazioni sulla dinamica di genere
basate su un'osservazione etnografica condotta all'interno delle
redazioni di alcuni programmi in una prospettiva che analizza i
prodotti mediatici a partire dalla complessità dei contesti in cui
essi sono ideati.
La mia osservazione è contestualizzata all'interno degli spazi di
lavoro di Radio Rai, in particolare negli studi e nelle redazioni di
alcuni programmi del secondo e terzo canale della radio pubblica
a Roma e a Milano dove lavoro dal 2004. E' indubbio che tale
posizionamento (essere parte attiva nei processi stessi di cui
parlo) influenza la mia scrittura, la mia riflessione e i vincoli che
delimitano il mio sguardo. Così i materiali di ricerca non sono
solo gli incontri, gli ascolti e le osservazioni ma la trasformazione
stessa della mia "performatività" di genere. Infatti, il linguaggio,
il verbale e il non verbale del ricercatore reagiscono al contesto e
la lettura di questi adattamenti (delle incorporazioni e dei limiti di
questa incorporazione) è un altro campo di segni in cui leggere
l'azione della dinamica di genere.
Spostandoci così dal piano di un'analisi delle rappresentazioni, si
tratta in queste pagine di considerare la costruzione sociale del
genere in relazione alle dinamiche di divisione del lavoro, ovvero
come l'attribuzione di diversi ruoli professionali a uomini e donne
e la loro interconnessione producano specifiche e diverse
relazioni di genere. In particolare, mi propongo di analizzare
come una differenzazione di genere si produca nel contesto
osservato a partire dalla convergenza tra aspetti micro e macro
strutturali, quali: le trasformazioni dei regimi contrattuali da
dipendenti a precari, la conseguente individualizzazione del
lavoro e il cambiamento dei mezzi di produzione da analogici a
digitale. Si osserveranno in primo luogo le relazioni di genere nel
rapporto tra conduttori e redazione come esempio di una visione
complementare di specificità maschili e specificità femminili e in
secondo luogo si osserveranno le nuove pratiche di produzione
digitale come ambito in cui si sta sviluppando una diversa agency
femminile e, per concludere, si analizzerà come questa nuova
soggettività si pone in relazione a una dimensione di appartenenza
a una collettività di pari. In questo caso si intende capire come e
quanto questa soggettività femminile si percepisce come parte di
una formazione collettiva di donne che condividono lo stesso
ambito di lavoro e lo stesso regime di lavoro precario e
individualizzato, quali sono dunque le pratiche attraverso cui si
produce un senso di appartenenza e di riconoscimento. Questo
tipo di analisi muove dall'ipotesi teorica che esista una relazione
significativa tra la rilevanza della differenza di genere nelle
pratiche produttive di programmi radiofonici e le rappresentazioni
di genere presenti nei messaggi veicolati. Quindi, secondo
l'ipotesi qui proposta, l'organizzazione dei processi produttivi
finirebbe per iscrivere una traccia nei testi realizzati e nei
"modelli" di genere proposti.
Le dimensioni in cui la radio viene raccontata, agita e percepita
dalle persone che la abitano, e che propongo qui di analizzare
come percorsi in cui rilevare la dinamica di genere, sono lo spazio
fisico (in particolare qui parlerò della "palestra" e degli studi di
registrazione), le tecnologie (i computer, i software, i microfoni,
etc.), le figure professionali (gli autori, i tecnici, i redattori, i
conduttori) e le competenze in cui è convenzionalmente diviso il
lavoro radiofonico. Tutti questi elemementi (che Askew e Mill
categorizzano come Technologies, Contexts and Texts, cfr. Askew
e Mill: 2002) cristallizzano alcuni degli aspetti che vengono
convenzionalmente osservati nell'analisi antropologica dei media.
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De genere
In particolare, volendo delineare "l'articolazione dei rapporti di
forza" (Gramsci 2001: 1563) nell'ambito della relazione tra ruoli
professionali e uso dei mezzi di produzione all'interno di Radio
Rai rilevo come primo aspetto la ricorrenza di una distinzione
nella prassi (non esplicitata ufficialmente) tra mansioni femminili
e mansioni maschili. In secondo luogo, osservo come la
condivisione di un inquadramento professionale e di uno spazio
fisico di lavoro nell'ambito del settore produttivo del "montaggio"
porta allo sviluppo di particolari relazioni tra pari in assenza di
momenti istituzionalizzati di aggregazione.
Conduttori e redazioni: una relazione di complementarietà?
All'interno delle varie fasi della produzione radiofonica è
riconoscibile una differenziazione tra competenze e ruoli
professionali tra uomini e donne a cui corrisponde una
conseguente diversificazione tra salari e riconoscimenti all'interno
dell'azienda. Da un punto di vista delle differenze di ruolo, il
maschile e il femminile si associano prevalentemente alla
separazione tra lavoro autoriale e lavoro redazionale laddove il
primo è il lavoro creativo di invenzione e di scrittura e il secondo
è l'ambito esecutivo e organizzativo. In prevalenza, "l'idea" è
maschile, maschile è più spesso anche la voce radiofonica mentre
il lavoro di esecuzione, organizzazione, reperimento delle risorse
è femminile. Il lavoro redazionale si muove intorno all'idea
autoriale, la intuisce, la sviluppa e le da sostanza (attraverso la
ricerca di materiali di rassegna stampa, il reperimento di contatti
per possibili interviste e un lavoro di tipo burocratico). Questi
sono gli aspetti immediatamente osservabili che emergono da una
prima descrizione della divisione del lavoro. In particolare, il dato che
mi sembra più lampante è la scarsa presenza di donne "al microfono",
ovvero di donne che agiscono nel ruolo più visibile ed esposto al
pubblico. Perché non riesce a svilupparsi una performatività
femminile diffusa di "conduzione" dei programmi? Riguardo a questo
punto, le colleghe esprimono pareri diversi: "le donne non si
autorizzano a certi ruoli artistici (in particolare quelli maggiormente
esposti come il conduttore, il comico, l'attore, etc.) in quanto donne".
L., una redattrice, per esempio, a questa obiezione risponde "perché il
microfono è potere". Il problema è mettere a fuoco come determinate
prerogative continuano nel tempo ad essere connotate secondo una
differenza di genere. Si può analizzare questa ricorrenza parlando di
subalternità di ruolo della donna rispetto al modello performativo
maschile? Mi riferisco qui al saggio Assenza della donna dai momenti
celebrativi della manifestazione creativa maschile di Carla Lonzi
scritto nel contesto del movimento femminista italiano all'inizio degli
anni settanta in cui si contestava il paradigma della complementarietà
tra maschile e femminile nella produzione artistica.
La creatività maschile ha come interlocutore un'altra creatività
maschile, ma come cliente e spettatrice di questa operazione mantiene
la donna il cui stato esclude la competitività. La donna è condizionata
in una categoria che garantisce a priori al protagonista della
creatività l'apprezzamento dei suoi valori. (Cfr. Lonzi: 1971, 63)
L'analisi proposta da Lonzi sembra in parte congruente al dato
etnografico, lo inquadra in una distinzione tra ricorrenza di ruoli
femminili ("redazionali") e ruoli maschili ("di conduzione") che
risultano complementari e differenziati in termini di
riconoscimento sociale (visibilità), di riconoscimento aziendale
(salari) e di identificazione soggettiva (ovvero quanto la
soggettività è sollecitata, accolta e riconosciuta nelle diverse
mansioni). Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, la
performance al microfono è direttamente identificata con la
personalità del suo attore mentre il lavoro redazionale è concepito
come svolgimento di una serie codificata di mansioni meno
"soggettivizzate" ma più standardizzate. Questo è da ricondurre
alla tipologia di programmi di RadioRai dove la relazione tra
ascoltatori e radio è pensata come una relazione di intimità, di
riconoscibilità, in cui si tende ad "affezionare" il pubblico ai
conduttori radiofonici. "Lo scopo della radio è quello di far ridere
chi è bloccato nelle code del traffico", mi disse uno dei
responsabili dei programmi. Da ciò ne deriva una grande
"soggettivizzazione" della performance del conduttore, che
diventa così riconoscibile dal suo timbro di voce, dal suo
carattere, dalle caratteristiche della sua ironia. Esiste certamente
una tecnica, una ritualità che restano tuttavia celate per lasciar
spazio alla costruzione di un tono "colloquiale", immediato,
informale e spontaneo di persone che "chiaccherano" che ha come
obiettivo la "fidelizzazione" del pubblico. Il lavoro di redazione,
invece, è percepito come un ambito di maggiore sostituibilità
perchè le competenze sono più esecutive e quindi più facilmente
trasmissibili e meno spazio è lasciato all'espressione della
soggettività di chi le svolge.
Un ambito interessante per analizzare come la congiuntura tra
lavoro esecutivo, precarietà contrattuale e trasformazioni delle
infrastrutture tecnologiche della produzione ha aperto un nuovo
spazio alla costruzione di una competenza "al femminile" e di una
relazione diversamente complementare tra competenze maschili e
femminili è quello della tecnologia.
La palestra: quando l'esistenza di uno spazio comune
permette lo sviluppo di relazioni orizzontali
Se parlando di genere, si individuano gli snodi e le pratiche in cui
la differenza viene costruita ed articolata, un aspetto interessante
ed immediatamente osservabile è il richiamo a universi
dicotomici maschili/femminili nei nomi di alcuni strumenti.
[…] the artifact itself, or its representation through instruction
manuals, advertisements, marketing, or the media, can often be
shown to incorporate configurations of the user, including gender
scripts […] (Bray: 2007, 42).
Ma la tecnologia non dovrebbe essere neutra? Parrebbe di no. Per
esempio, i registratori, i microfoni, le casse, i mixer che
compongono il materiale necessario per registrare, modificare e
diffondere il suono (operazioni base contenute nell'insieme più
ampio del processo produttivo radiofonico) sono collegati tra loro
da cavi che trasportano il suono. Questi cavi, si dice, "entrano" ed
"escono" e le loro estremità vengono chiamate "maschio" o
"femmina" dove la presa femmina è bucata e quella "maschio" è
invece dotata di estremità combacianti. Se possiamo ricostruire un
immaginario simbolico nelle fattezze delle forme tecnologiche, in
questo caso abbiamo a che fare con la relazione tra due entità
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De genere
materialmente diverse e complementari, che funzionano nella loro
unione: la differenza dell'uno è in funzione dell'altra, non c'è
gerarchia tra i due elementi, come due pezzi di un puzzle, come i
poli positivo e negativo di una pila.
Tuttavia, recenti ricerche femministe nell'ambito dei STS
(Sciences and Technologies Studies) propongono un approccio
antropologico allo studio della tecnologia che non si ferma a
considerare quest'ultima come una "metafora" ma che va ad
analizzare come differenziazioni di genere vengano costruite
attraverso le pratiche di uso degli strumenti tecnologici. La
tecnologia è in questo senso il risultato di pratiche sociali in cui i
mezzi di produzione si trovano a giocare un ruolo importante
nella configurazione dei rapporti tra i generi, in termini di
definizione di competenze, di ruoli professionali e quindi di
relazioni di potere. Tra queste studiose, Bray scrive: One
fundamental way in which gender is expressed in any society is
through technology. Technical skills and domains of expertise are
divided between and within the sexes, shaping masculinities and
femininities. (Bray: 2007, 44). Da questo punto di vista, il
tecnologico non è per forza un campo di analisi sempre
pertinente, ma certamente lo è nell'ambito della radio in quanto
combinazione tra voce e tecnologia, in cui la distinzione tra i vari
ruoli professionali è basata sulla interconnessione tra pratiche
ideative, "autoriali" e mezzi tecnici per produrle. La domanda
iniziale è quindi ripostulata come segue: osservando le pratiche e
i discorsi che si sviluppano nell'ambito dell'uso delle tecnologie di
produzione radiofonica, quali diversi posizionamenti di genere
emergono?
Anche la produzione radiofonica di Radio Rai si è via via
digitalizzata, questo significa che il lavoro di montaggio e
confezione di un programma preregistrato vengono assemblati
attraverso un software digitale. L'introduzione di questa
strumentazione negli anni novanta ha modificato radicalmente il
processo produttivo comportando una ridefinizione delle pratiche
di lavoro, dei ruoli professionali, dei salari e degli aspetti
simbolici implicati nella vita quotidiana di questo microcontesto
(inserito nel più vasto ambito di una "precarizzazione"
progressiva dei regimi di lavoro). Quando entrai per la prima
volta in Rai nel 2003, questo software era ancora una relativa
novità di recente introduzione (due o tre anni). Allora la
maggioranza di coloro che lavoravano nei programmi si era
formata in un contesto produttivo diverso, analogico, che
prevedeva una distinzione tra lavoro ideativo (autoriale) dei
contenuti (competenza degli autori) e lavoro tecnico (ovvero tutte
le operazioni che riguardavano il trattamento del suono:
montaggio, registrazione etc): competenza dei tecnici. Il lavoro di
montaggio e pulitura dei suoni era allora affidato alla figura
professionale dei tecnici che operavano su nastro magnetico
andando a tagliarlo e incollarlo. Con l'introduzione delle nuove
infrastrutture digitali poi, riprendendo il "taglia e incolla" dei
programmi di scrittura (come Word), il software audio in
questione è intuitivamente utilizzabile da parte di chi è già
familiarizzato con la pratica di scrittura digitale. Tuttavia, il
trattamento della qualità del suono è rimasto materia di lavoro del
tecnico tanto da non essere previsto dalle possibilità di editing di
questi software. La divisione del lavoro, così, è rinforzata anche
dalla sua traduzione negli "script" (cfr. Latour: 2006) di un mezzo
le cui possibilità creative sono così ritagliate a misura delle
mansioni richieste al suo utente.
Quando il software venne introdotto, si dovette procedere a una
ri-qualificazione del personale. A coloro che erano abituati a
scrivere i testi e "ad andare in voce" fu impartito un corso per
imparare a usare il nuovo linguaggio provocando reazioni
contrastanti. "Mi rifiuto di fare il corso e toccare quella macchina.
Questo è solo un modo per l'azienda di tagliare i costi e mandare
a casa un bel po' di tecnici", mi disse uno dei responsabili dei
programmi, assunto in Rai da molti anni. Fu certamente un
momento di ridefinizione delle professionalità che provocò molte
critiche pubblicate anche sui quotidiani nazionali (cfr. Paolo
Fabbri su L'Unità tra gli altri). Anche G., una regista che lavora
presso Radio Rai da una decina di anni, considerata una delle più
competenti, propone spesso una lettura "sindacale" della
questione descrivendo l'informatizzazione come una
dequalificazione sia del lavoro che del prodotto. Dal suo punto di
vista, di persona che del lavoro tecnico fa una competenza di cui
andare fiera e che ha vissuto la transizione dal "vecchio" regime
analogico al "nuovo" regime digitale, forte è la contraddizione
delle nuove leve giovanili disposte a lavorare "sottopagate" pur di
ottenere un contratto: "in questo modo, se tutti accettano certe
condizioni di lavoro, l'azienda non cambierà mai la sua politica:
un tempo questo era un mestiere serio, oggi è lavoro per giovani
manipolabili." Il cambio di infrastruttura tecnologica è avvenuto
infatti contemporaneamente a un cambio nelle politiche del
lavoro dell'azienda che non assume più nuovo personale
dipendente ma ha introdotto tipologie di contratti individuali a
tempo determinato. Questa prassi ha reso anche in Rai difficile
per i nuovi lavoratori a contratto lo sviluppo di una formazione
collettiva che possa operare sul piano sindacale.
Da un altro punto di vista, questa importante informatizzazione di
parti del processo produttivo ha portato anche a un avvicinamento
tra lavoro ideativo e lavoro tecnico, riportando nelle mani di chi
lavora all'interno delle redazioni mezzi più intuitivi e accessibili.
Questa trasformazione assume oggi caratteristiche interessanti
relativamente alla dinamica di genere. Se come scrive Bray,
infatti, il computer è generalmente associato a pratiche connotate
come maschili, il suo uso all'interno del processo produttivo
radiofonico lo rende oggi tecnologia prettamente femminile e
generazionalmente connotata (cfr. Bray: 2007).
Perché, chi usa questo software? Se il tecnico dell'epoca
"analogica" era prevalentemente un uomo (per quanto questo non
fosse esplicitato come condizione di accesso al lavoro) a cui era
riconosciuta una professionalità precisa, chi oggi utilizza il
software compie una serie di operazioni che non sono più così
facilmente definibili attraverso le vecchie categorie di
riferimento. Certo è che dal lavoro quasi artigianale, riservato a
pochi, a cui si accedeva attraverso un apprendistato e a cui
corrispondeva un regime contrattuale da dipendente a tempo
indeterminato, si è passati a procedure decisamente più semplici,
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De genere
spesso trasmesse tra colleghi in via informale e che possono
quindi essere svolte da personale meno "specializzato" e, di
norma nel contesto da me osservato, prevalentemente femminile
e precario. Il cambiamento è quindi radicale sia in termini
generazionali, di genere, di status contrattuale, di competenze, di
salari e di apprendistato.
Anche in termini spaziali, il lavoro di montaggio e post
produzione avviene in un locale appartato rispetto agli studi di
registrazione. Questo spazio è chiamato "palestra" ed è
frequentato soprattutto da giovani donne che ne possiedono la
chiave. Dato che il personale tecnico rimasto attivo è ancora
prevalentemente interno (cioè dipendente dell'azienda) mentre chi
usa il nuovo software appartiene alla nuova generazione dei
contratti precari, è uso tra i tecnici definire la palestra come il
luogo "degli esterni", in cui loro non hanno motivo di entrare (il
loro regno, invece, sono gli studi da cui parte il segnale di
trasmissione dei programmi). Il tecnico svolge quindi un lavoro
che percepisce come residuale, in via di estinzione. Come
sosteneva G., anche i tecnici con cui ho avuto modo di parlare si
lamentano di essere stati relegati a una mera funzione di
"schiacchia bottoni". Da una parte percepiscono il lavoro svolto
dalle nuove figure redazionali che accedono al montaggio digitale
come un'intromissione in un ambito produttivo storicamente di
loro competenza, dall'altra lamentano un conseguente disinvestimento da parte dell'azienda nell'ambito della cura della
qualità del suono e dei montaggi.
La palestra diventa così uno spazio connotato al femminile, in cui
entrano ed escono quella decina di giovani donne che svolgono
queste mansioni all'interno dei programmi prodotti nella sede di
Milano. Lo spazio è ristretto con tre postazioni computer
individuali. All'interno di ogni redazione è di solito solo una
persona delegata all'utilizzo di questa macchina, questo fa sì che
la piccola comunità che si crea "nella palestra" sia al riparo da
sovrapposizioni di ruoli in quanto ognuno afferisce a un
programma diverso. In genere il tipo di operazioni di montaggio
che si svolgono in questo settore sono: la confezione dei file
destinati al podcast, il montaggio di spot ed interviste e il
montaggio di trasmissioni pre-registrate. Chi compie queste
operazioni è in genere o il/la regista o un/una redattore/redattrice.
Il femminile e il carattere generazionale sono così caratteristiche
abbastanza visibili di una tipologia di lavoro considerato di
"gavetta", esecutivo, scarsamente responsabilizzato in
un'accezione comune di un pubblico che ama la radio perché
parlata, perché voce amica piuttosto che amare la materialità del
suono e la sua qualità. L'aspetto generazionale è senz'altro
connesso alla novità di questo settore professionale che nasce
come bacino di assunzioni a tempo determinato escludendo così
le generazioni più adulte che hanno regimi contrattuali più
tutelati. A diversi regimi contrattuali corrispondono infatti diverse
età anagrafiche: i dipendenti sono i più anziani, per lo più
impiegati nei settori amministrativi o nel settore editoriale come
responsabili dei programmi (oltre ai quadri dirigenti), i TD
(tempo determinato) sono in genere persone che hanno circa 40
anni e che hanno contratti di 9 mesi con un'interruzione di 3 che
permette loro di maturare una serie di diritti che a volte fanno
valere in cause all'azienda (che, se vengono vinte, portano
all'assunzione a tempo indeterminato), le SCRITTURE sono
invece i nuovi contratti per le generazioni più giovani che vanno
di fatto a svolgere lavori che per gestione del tempo e presenza
nell'azienda sono simili alle prassi lavorative dei dipendenti ma
che, con una evidente contraddizione, vengono inquadrati come
liberi professionisti (senza assicurazione e tutele per i giorni di
malattia, per la maternità o le ferie) . Lo spazio comune della
palestra crea di fatto la possibilità di una comunicazione
trasversale, che supera i confini dei quattro muri delle redazioni in
cui ogni programma lavora (in genere, infatti, ad ogni redazione
corrisponde un programma ed una stanza). Questo porta allo
sviluppo di amicizie, collaborazioni e senso di appartenenza a una
piccola comunità trasversale che, in mancanza di questo spazio,
probabilmente non avrebbe occasione di incontrarsi. Questo
riconoscimento e questa complicità si basa così sulla condivisione
di uno stesso status basato sul ruolo professionale in
u n ' o rganizzazione gerarchica. Questa comunità si riconosce
simile al suo interno soprattutto in relazione a pratiche maschili
gerarchicamente superiori da molti punti di vista e con cui stenta
a mettersi in contraddizione. Questa la tipologia di discorsi che è
possibile fare dentro la palestra. S., F., I., alcune delle mie
colleghe, a più riprese mi hanno espresso che non accettano certe
condizioni di lavoro (precario e considerato sottopagato) perché è
un lavoro dentro il contesto di Radio Rai. Un giorno E. venne a
fare un colloquio di presentazione. Giovane regista teatrale donna
in un ambiente fortemente maschile, E. venne a presentarsi a un
dirigente della radio. Era il suo primo ingresso in Rai e ricordo
che definì la struttura "di una tristezza ospedaliera". E' in effetti
rilevante quanto ci si possa identificare e affezionare a un posto di
lavoro precario e difficilmente spendibile altrove per la ricaduta
simbolica di essere parte di questo grande carrozzone
"ospedaliero".
I rapporti che si sviluppano all'interno di questo spazio si basano
dunque sulla condivisione iniziale di una condizione strutturale
che non è tuttavia omogenea in termini di salari ma certamente lo
è per tipologia di contratto, età, ruolo professionale e spesso per
una concordanza di progettualità, ansie per il futuro, senso di
incertezza e investimento nel lavoro. In mancanza di momenti
collettivi istituzionalizzati e di identità collettive fornite dalla
struttura (che siano momenti di formazione aziendale o
sindacale), la palestra è un luogo in cui nell'informalità si sviluppa
un "movimento di congiuntura": ovvero "occasionale, immediato,
quasi accidentale" (Gramsci 2001: 1579). Lo scambio si basa
anche su consigli su come usare i macchinari andando così a
colmare un vuoto di formazione istituzionale. Questo sapere è
personale, non codificato, costruito giorno per giorno nella
pratica. Si condividono anche pettegolezzi, battute, scherzi sul
"maschile" dato che ognuna di queste redattrici o registe si
confronta al di fuori di questo spazio con i suoi "uomini al
microfono", ovvero i conduttori delle trasmissioni in cui lavora.
La relazione con una performatività maschile è presente per tutte,
è una congiuntura che crea comunanza e riconoscimento perché
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nelle chiacchere si costruiscono per il gusto di farlo somiglianze
di atteggiamento da parte dei conduttori uomini che assumono
così anch'essi una connotazione di genere, vengono accostati
dentro la categoria del maschile in un parlarsi che si muove dentro
le pratiche classificatorie dicotomiche.
Gli spazi in cui analizzare la costruzione del genere all'interno
dell'universo organizzativo di Radio Rai non si limitano
unicamente a una ricognizione di come i diversi ruoli
professionali sono diversamente ricoperti da uomini e donne ma
possono estendersi anche al racconto delle pratiche di
femminilizzazione di queste divisioni, al modo in cui queste
differenze/somiglianze sono percepite e praticate dagli attori
sociali che abitano questi spazi. Il rapporto con le tecnologie,
inoltre, è un ambito importante di sviluppo di un senso di
riconoscimento connotato nei discorsi "al femminile", uno spazio
"storicamente" di appartenenza maschile ma che in seguito alle
trasformazioni dei regimi lavorativi ha subito una relativa
dequalificazione in qualche modo connessa a un accesso più
diffuso delle donne.
[email protected]
Note
coinvolgono aspetti quali il desiderio, l'identificazione/rifiuto, le
emozioni, il senso di sè. Guardato da questa prospettiva, il media e la
sua relazione con il "genere" diventa prima di tutto una pratica di
interpretazione (spesso partecipata con altri soggetti) non isolabile dal
suo contesto sociale e politico (cfr. Abu-Lughod: 2002; Mankekar:
2002).
3. "In the 1970s computers were thought of as "information
technologies" and coded male; it was widely assumed that women
would have problems with them. By the 1990s computers had also
become "communication technologies"; now it was presumed that
womed would engage with them enthusiastically." (Bray: 2007, 43)
4. Nella sede di RadioRai di Milano, per esempio, due sono le donne
che svolgono questa mansione a fronte di una decina di uomini.
5. Diversa la distinzione se penso al terzo canale, dove la forza
produttiva è meno giovane in relazione a un prodotto culturale "più
alto" e un pubblico più adulto, anche qui le differenze di genere ed età
si configurano diversamente.
6. Gramsci distingue in queste pagine "movimenti organici" e
"movimenti di congiuntura", i primi hanno si svolgono su un orizzonte
temporale più lungo e portano allo sviluppo di una critica sociale che
"investe i grandi aggruppamenti" e che può portare ad effettiv
icambiamenti strutturali della società. I movimenti di congiuntura sono
invece "danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per
giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità
responsabili immediatamente" (Gramsci: 1579).
1. Inoltre, se si considerano i media come processi circolari di
produzione/ricezione di significati come invita a fare Stuart Hall (Hall:
2006, 43), la portata analitica di una distinzione tra ambiti di
produzione e ambiti di ricezione non sembra essere più così ricca.
Coloro che lavorano nelle fasi produttive sono infatti a loro volta lettori
e spettatori continuamente esposti alla lettura di segni mediatici e di
volta in volta modificano, rifiutano, accettano il significato proposto
producendone uno nuovo, orginale. Nell'ambito della produzione
radiofonica qui analizzata emerge inoltre come un programma
radiofonico sia la confezione in un linguaggio specifico di discorsi
prodotti o da altre testate mediatiche (attraverso il lavoro di rassegna
stampa dei giornali o attraverso il riferimento a programmi televisivi)
o attraverso l'intervista a terzi, pratiche che di fatto implicano una
ricezione, un ascolto, una reinterpretazione.
2. Nell'ambito del recente sviluppo di ricerche etnografiche attente al
ruolo delle tecnologie comunicative, antropologhe come Purnima
Mankekar e Lila Abu-Lughod propongono analisi del rapporto tra
genere e media in contesti come l'Egitto e l'India contemporanei in cui
mettono in relazione la ricezione di testi mediatici con altre traiettorie
che influenzano la vita quotidiana dei soggetti: la religione, il lavoro,
le scelte migratorie, i legami familiari, l'amore e l'amicizia. In entrambe
queste due intense e complesse etnografie il mezzo è inserito in
pratiche di ricezione indagate come momenti di costruzione del sé che
Bibliografia
Abu-Lughod, L. Egyptian Melodrama- Technology of the Modern
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Rella, P. e Cavarra, R., a cura di, Il genere della radio. Carriera,
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66
ACHAB
“Literatura sucia” y “graffiti de amor.”*
di Abel Sierra Madero.
A Roberto Zurbano y para Adriana, siempre.
Pobres palabras escondidas temblando en lo invisible ¿quién las paga?
¿Será porque son piedras lanzadas al rostro de lo eterno? ¿Porque son la elocuencia del silencio,
la rebeldía de lo que muere, el eco anticipado del grito de mañana?
Luis Rogelio Nogueiras
Desde entonces prohibieron dibujar lo que sentía el alma para cuidar y encadenar la calma, y como no le dejaron sitios donde
dibujar su dolor se rayó su cuerpo con un tatuaje de amor.
Carlos Varela
La ciudad oculta.
Si Pedro Juan Gutiérrez se hubiera dedicado a la sociología o a la
antropología, seguramente sería él y no yo el autor de estas
páginas, que se deben fundamentalmente a una inesperada,
insoportable y mundana necesidad fisiológica de caminante
citadino en una plomiza tarde de septiembre, luego de un par de
cervezas
en
un
tugurio
del
Vedado
habanero.
Justo en la calle L, entre 15 y 17, divisé, desesperado, a una
anciana obesa, que somnolienta y cabeceante, se apostaba frente
a un pasillo y sobre las piernas dejaba entrever un plato plástico
con algunas monedas, imagen elocuente de que estaba próximo a
un baño público. El lugar había desempeñado durante los ochenta
un papel importante en la alimentación de muchos habaneros, que
aún recuerdan con nostalgia aquel sitio que pertenecía a una
cadena de restaurantes estatales especializados en comida avícola,
rápida, y que llevaban morbosa y metonímicamente el nombre de
“Pio Pío”.
Cuando me disponía veloz a alcanzar los sanitarios, la anciana me
interpeló bruscamente, indicándome que estos se encontraban
ocupados por otros “orinantes”. Desconsolado, me detuve a
esperar no menos de quince minutos. Al ver mi rostro y paseitos
ansiosos, la vigilante sanitaria tuvo un arranque histérico y
comenzó a vociferar; lanzaba improperios de manera estridente a
los que se encontraban en el baño, que al oírla, salieron
despavoridos ante los embates de la anciana que amenazaba con
llamar a la Policía. Los tres sujetos pasaron ante mis ojos
rápidamente, cabizbajos, pero con una mirada que transmitía una
complicidad mutua, portadores de un “secreto” que habían
compartido en el interior del baño, y que me dispuse a descifrar
inmediatamente, aunque ya resultaba un tanto predecible.
El lugar, de una fetidez insoportable, con un ventanuco mugriento
y sin luz artificial, olía a azufre y a metano, a semen y sudor
cristalizado, a sexo furtivo y anónimo. Era una especie de marcaje
territorial hecho por “animales tropicales” citadinos. Las paredes,
p e rgaminos transtextuales de hormigón, caóticamente
emborronadas, descubrían una anónima y clandestina comunión
de “escritores” que se mueven entre prácticas sexuales
“periféricas”, públicas y privadas al mismo tiempo, y formas
escriturales marginales de flujo y reflujo, en el centro de una
ciudad que los desconoce. Esa comunidad abierta de
grafo/hablantes -acostumbra-da al ir y venir de los transeúntes-,
en la que se entremezclan diversas profesiones, clases y grupos
sociales, dejaba entrever una serie de identidades en pugna y
sociabilidades
atraídas
por
el
contacto
físico.
Mudo y atónito testigo, me sobrecogieron las historias y
narrativas que albergaba aquel sitio. Cuántas tintas y rasguños,
cuántos sueños, humedades fugaces, lágrimas, guiños, muecas,
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gemidos y jadeos, pulsiones, frases entrecortadas, trazos sin
censura, iconos, falos erectos y burbujeantes, represiones,
complicidad, cuántos gritos y cuánto silencio. Aquel baño era una
especie de confesionario post-moderno, como si fuese el único
lugar donde estos escritores se encontraran a sí mismos, libres
para expresar sus más íntimos deseos y fantasías.
Ante tantas dudas e interrogantes, sólo tenía la certeza de que
detrás de cada trazo había disímiles y fragmentadas narrativas e
historias de vida que confluían en ese baño día tras día, y que el
sitio estaba cargado de códigos compartidos que lo habían
convertido de lugar fisiológico/evacuativo en un espacio de
confluencias, encuentros y desencuentros, sociabilidad, rituales,
discusiones políticas en torno a la sexualidad e intercambios
sexuales de muchos, muchísimos sujetos, que hacen del baño, siguiendo a Mark Auge- un “lugar antropológico”1. O sea, un
territorio con rasgos identitarios, relacionales e históricos,
cargado de sentido por aquellos que lo habitan por diversos
motivos o necesidades y que es, al mismo tiempo, principio de
inteligibilidad
para
aquel
que
lo
observa.
La noción de lugar antropológico esbozada por Auge se articula o
se adecua perfectamente con el sitio que he venido describiendo.
Como otros lugares, el baño brinda y devela para cada uno de los
que lo frecuentan un conjunto de posibilidades, de reglas y de
prohibiciones, cuyo contenido es a la vez espacial y social. Un
lugar –señala Auge- “donde los itinerarios individuales se cruzan
y se mezclan, donde se intercambian palabras y se olvida por un
instante la soledad”2. Aquel palimpsesto caótico, era el soporte de
una “mensajería delirante”3 , graffitera, de tipo sexual, efímera y
transitoria, marginal -paralela a los códigos lingüísticos y
estéticos de los canales de comunicación tradicionales y a las
editoriales oficiales- una literatura descarnada en forma de
lexemas, sintagmas, mensajes dialógicos y performativos
dirigidos a lectores asiduos o potenciales; pintada y repintada una
y otra vez, capa tras capa por las brochas de instituciones
sanitarias, y que a personas de sensibilidad media, propensas al
rubor y al asco, pudiera resultar obscena, sucia.
Los términos literatura sucia o “realismo sucio” fueron
clasificaciones que la crítica literaria española de los setenta les
adjudicó a escritores como Charles Bukowski, autor de libros
como La máquina de follar y Erecciones, eyaculaciones,
exhibiciones. Tales calificativos tienen que ver con la concepción
higiénica y pudorosa que ha predominado en la estilística del
canon literario occidental tradicional y con las nociones de alta o
baja cultura, lo letrado o lo iletrado; con creencias, códigos o
prejuicios institucionalizados sobre lo sucio, lo limpio, lo bueno,
lo malo, lo impropio, lo abyecto, lo obsceno, lo marginal;
concepción en la que subyacen valoraciones que abarcan no sólo
la literatura sino todas las relaciones sociales y que le reduce
posibilidades de desarrollo a temáticas culturales alternativas
respecto de lo considerado como la verdadera cultura.
El uso de vocablos que aluden de manera descarnada a la realidad
en relación con lo sexual, la raza o las clase sociales producen
cierta molestia, porque subvierte o quebranta las fronteras
simbólicas históricas de lo público y lo privado, lo expresable y lo
impronunciable, sedimentadas en nuestro imaginario colectivo.
Así, se construyeron representaciones en torno a "palabras
sucias", prácticas sexuales “sucias” y “aberradas”, "gestos
groseros", desterrados a una dimensión subcultural de lo bajo y lo
escatológico; tales representaciones cuestionan no sólo el habla
de determinados sectores, sino su propia identidad socio-cultural.
Al tiempo que avanzaba en la investigación y reflexionaba en
torno a estas cuestiones literarias, la idea de visitar la azotea de
Centro Habana de donde han salido títulos como Trilogía sucia de
La Habana, El rey de La Habana, Animal tropical, Carne de
perro, y El nido de la serpiente resultaba cada vez más recurrente.
Pedro Juan Gutiérrez, uno de los escritores latinoamericanos más
difundidos de los últimos tiempos, fue lanzado -por Anagrama, la
editorial que ha publicado su obra en España desde finales de los
años noventa hasta la actualidad- como el Charles Bukowski
caribeño o el Henry Miller habanero; sin embargo, el escritor me
confesó que el término “realismo sucio” no le atrae en modo
alguno y que constituye una camisa de fuerza para su creación.
En ese sentido señala:
“La literatura no es sucia ni limpia, ni ética ni no ética, creo que
esos son sólo conceptos que ha impuesto el mundo occidental
para condicionar o educar no sólo la creación artístico-literaria,
sino para condicionar la vida de la gente con principios morales,
porque lo prohibido, lo que se suele considerar como lo obsceno,
seduce a la gente; el ser humano tiene en su interior una carga
muy morbosa que intenta esconder a toda costa. Para mí el
realismo es el vehículo de mis catarsis personales respecto de la
realidad social que me circunda, es el único modo que he
encontrado para decir realmente lo que pienso sin eufemismos,
aunque muchos piensen que lo hago por dinero.”4
Me decía, además, que para algunas personas sus libros de
carácter realista no se corresponden con “una manera legítima de
hacer literatura”; por el contrario, Melancolía de los leones -que
no había tenido en el mercado tanta aceptación como Trilogía
sucia… o El rey de La Habana- para sus lectores y colegas en la
Isla es uno de los textos más apreciados. Melancolía de los leones
–comenta- “es un texto de ficción de corte existencial, salido
completamente de la imaginación, sin embargo, es el libro por el
que muchos verdaderamente me aprecian como escritor”. Y
agrega con respecto a la línea más cuestionada:
Existen grandes prejuicios con este tipo de literatura, se piensa
que es facilista, que implica algún tipo de concesión y que soy un
pervertido sexual, pornógrafo o vouyerista y no saben que para mí
ha sido muy duro, muy difícil escribir sobre esos temas y esos
personajes y para hacerlo he tenido que investigar muchísimo. Se
ha pensado también –erróneamente- que el realismo sucio tiene
que ver con hablar del deterioro social a través del prisma de
Centro Habana o de describir exhaustivamente escenas sexuales;
pero para mí tiene que ver con conflictos que afrontan sujetos
reales. Escribir de esta manera me permite llegar a los límites de
cada personaje, no escamotearle posibilidades de habla, de deseos
o expectativas, de acción, que escritos de otra forma no sería
posible lograr. Los registros lingüísticos que utilizo no los he
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inventado yo –por supuesto- han estado ahí para ser usados, y son
utilizados a diario por muchísimas personas que no tienen tiempo
para pensar si están utilizando buenas o malas palabras, sus
preocupaciones son otras, las de la sobrevivencia. No veo por qué
no puedan ser llevados esos registros a la literatura y que eso
comprometa
su
calidad
o
seriedad.
En un pequeño ensayo titulado “Verdad y mentira en la
literatura”, el escritor es aún más elocuente. En ese texto se lee:
“Ante esos espíritus timoratos me sonrío y los ignoro. No se
imaginan que por el contrario, no exagero, sino que me veo
obligado a reducir la realidad para hacerla creíble, que es la
condición sine qua non de la literatura: tiene que ser creíble. En
literatura vale todo. Lo único absolutamente prohibido es
aburrir.”5 Ciertamente, muchos le adjudican a la literatura de ese
corte rasgos de vulgaridad y pornografía. Al parecer, no les
seduce el regodeo o el interés en contar “todas las cosas malas
que nos pasan en Cuba (…)”6 y la ubican en una otredad literaria,
que
la
hará
disolverse
con
el
tiempo.
Ahora bien, este tipo de literatura puede despertar escozor, ascos
o rechazo; podría incluso catalogarse en muchos casos de
misógina y heterosexista; sin embargo, considero que tiene
determinados valores, como los de destacar los conflictos
existenciales y cotidianos, los cambios que se vienen produciendo
en el sujeto social cubano contemporáneo; pero el valor
primordial es el de la memoria, de la memoria colectiva cotidiana
de los últimos años, que ni la prensa ni los medios oficiales van a
reflejar nunca. Ya lo he dicho en otros textos, gran parte de la
crítica y la teoría social –édita o pública- que se viene haciendo en
Cuba se la debemos fundamentalmente a la literatura, que ha
desempeñado en ese sentido un papel de vanguardia.
Muchos de los elementos que se aprecian en la literatura cubana
contemporánea tienen que ver con que durante los años setenta la
literatura y otras manifestaciones artísticas se circunscribieron a
referentes verdaderamente estrechos, tanto desde el punto de vista
temático como estético. La novela policíaca, por ejemplo, según
Leonardo Padura Fuentes, se concebía sólo como “novela
policíaca revolucionaria”, y añade: “Había que escribir una
novela reafirmativa ideológicamente, revolucionaria.”7
Durante los ochenta, se produce un cierto descongelamiento y la
literatura cubana empieza a transitar por senderos que hasta
entonces eran prácticamente vedados. Con esta apertura, los
temas sexuales, que ofrecen ciertamente posibilidades de
conflictos, devinieron tópicos recurrentes luego de tantos años de
silencio. El mismo Padura apunta: “Los años setenta fueron muy
regresivos para Cuba en literatura y ha venido ahora una especie
de destape, ahora ya nadie concibe una obra de teatro si no ubica
dos
personajes
desnudos.”8
Según Paul Ricoeur, el problema de la literatura tiene que ver con
la noción de trabajo y se enmarca dentro de una estilística general
concebida como “meditación sobre las obras humanas.” Para este
autor, el texto literario rehúye, es decir, está en oposición con el
del lenguaje diario mediante un desapego que él conceptualizó
como “distanciamiento de lo real consigo mismo,”9 el cual
introduce la ficción en nuestra aprehensión de la realidad dando
cabida a nuevas “posibilidades de ser en el mundo”. Coincido con
Ricoeur cuando manifiesta que la ficción y la poesía operan con
elementos de la realidad y afectan al sujeto, pero no en la
modalidad de ser ahí, sino en la modalidad de poder ser.10 Así,
la realidad cotidiana se metamorfosea en la literatura en virtud de
lo que el mismo Ricoeur llama variaciones imaginativas.
Ahora bien, este debate sobre lo literario o la literalidad ha
tomado otros matices que no debemos soslayar. Coseriu, desde un
enfoque estructuralista ha considerado que lo literario tiene que
ver con un uso lingüístico que actualiza determinadas
posibilidades del sistema de la lengua, estableciéndose en una
“modalidad de uso” de este sistema.11 Por su parte, Teun Van
Dijk, esboza el término “gramática textual literaria” como la
capaz de unificar la relación entre una “teoría de los textos
literarios” y una “teoría de la comunicación literaria” para
analizar las relaciones entre el texto, su contexto y situación
textual, social y psicológica.12 Para este autor, “los fenómenos
literarios no se definen necesariamente por la literalidad, sino por
las modalidades de producción y recepción comunicativa”.13 O
sea, que el reconocimiento de un texto como literario ya no
proviene tanto de sus propiedades sino de la función social que
desarrolla en tanto que discurso.14 Desde esta perspectiva, la
literatura “es lo que una comunidad de lectores, de acuerdo con la
práctica de unos determinados autores, decide llamar literatura,
aunque es evidente que no se puede denominar así a cualquier
cosa: el texto ha de responder a unos modelos constructivos
determinados.”15 Así, podemos asegurar, con Joan Garí, “que la
literatura no usa ninguna lengua especial diferente a la ordinaria,
ni es una decoloración de esta. Sencillamente las necesidades del
juego literario son distintas de las del juego conversacional.”16
Una visión literaria sobre los baños públicos nos la ofrece el
cuento “El retrato de Dorian Gey”, del escritor cubano Jorge
Ángel Pérez. El protagonista de la historia comenta:
“¡Ay los baños públicos! Eso sí me gustaba (…) Aunque hoy
estoy entregada a un hombre, a mi hombre, me encantaba
entonces disfrutar de esos uri-narios, mal olientes y enrarecidos,
que se levantan desde el suelo como grandes falos. Ya dentro,
situado estratégi-camente, y con la vista en una sola dirección,
comenzaba a disfrutar de aquella hilera de penes excitados, que
intentaban escaparse de las manos de su dueño o de las del vecino
de urinario para venir a las mías, que no harán otra cosa que
acariciarlos, desde arriba hasta la base misma, sin prisa,
sabiamente, porque para penes se hicie-ron estas manos, y nunca
es suficiente el tiempo que se les dedique (…) Y se iba el primero,
y si te he visto ni me acuerdo, pero yo me quedaba, siempre me
quedaba hasta el final, hasta que no había una en pie (…)”17
La comunión de códigos entre el mundo “literario” y el mundo
“real” podrá ser constatada más adelante; cuando se reproduzcan
algunas entrevistas realizadas durante el trabajo de campo. Como
se verá, los que separa a ambos, es sólo una delgada línea.
Lo que distingue el graffiti de la literatura no es el soporte -ese es
solo un contraste epidérmico- sino su pragmatismo y dialogismo.
69
ACHAB
La literatura, obviamente, no es sólo recreación con fines
intelectuales o artísticos. El graffiti proviene de otras necesidades
expresivas y comunicativas, aunque muchos de ellos puedan ser
considerados como expresiones artísticas populares o empíricas.
En el graffiti está subrayada una peculiar pragmática de la
comunicación; es espontaneidad, fugacidad, furtividad y
anonimato, escritura iniciática, o como -dice Margarita Mateo- “el
ejercicio del criterio a partir de una escala valorativa diferente”18
, donde el receptor está “plenamente facultado para convertirse en
autor (…) fascinante excepción en el universo de los discursos
con
componentes
estéticos.”19
El graffiti puede ser leído desde la noción de realizaciones
estratégicas20, esbozada por Teun Van Dijk para analizar los
procesos en que hablantes y escritores se debaten para que sus
discursos sean coherentes, y señala: “Lo que es válido en lo
referente a las estructuras del discurso lo es también para su
procesamiento mental y para las representaciones requeridas en la
producción y la comprensión: la cognición tiene una dimensión
social que se adquiere, utiliza y modifica en la interacción verbal
y
en
otras
formas
de
interacción.”21
La literatura y el graffiti pueden compartir determinados códigos
o modos de expresión; sin embargo, en el primer caso, el discurso
posee un carácter legitimado, pues la literatura se irradia desde las
editoriales –centros por excelencia de canonización y circulación
cultural- en tanto que el graffiti de corte sexual se mantiene oculto
y encuentra voz sólo en el refugio del baño. La editorial es una
institución prestigiosa y legitimante de discurso y cultura; el baño,
por el contrario, es la institución de lo abyecto y lo escatológico,
de lo silenciado. Aquí, además, tendríamos que tomar en cuenta
quién habla, para cotejar la actitud social ante el discurso y las
funciones sociales atribuidas. El autor de una novela, un cuento,
u otros géneros literarios, es un sujeto reconocido, investido de
prestigio social y acreedor de otras cuotas simbólicas, mientras
que el autor del graffiti es un sujeto repudiado. Eso explicaría –en
parte- por qué unos textos son aceptables y otros no;
probablemente muchos nieguen la condición textual del graffiti.
Tengo por costumbre, antes de entregar un texto a un editor y
consentir su publicación- distribuirlo entre amigos y colegas, para
ver los niveles de aceptación y trabajar sobre las críticas que se le
señalen al texto. Algunos de mis lectores primarios, consideraron
que muchos de los graffitis que se reproducen en este trabajo “son
muy fuertes” y que debía suprimir los más descarnados. Ese
ejercicio me sirvió para evaluar la “aceptabilidad” de esos textos
y los prejuicios que tienen aun personas con una sensibilidad nada
mojigata. Lamento haber desoído sus consejos y los he puesto
todos,
sin
excepción.
Este ensayo está encaminado a proponer pistas para la lectura de
prácticas, dinámicas y configuraciones desde otros imaginarios y
otros códigos. No estuvo entre mis objetivos la evaluación
cualitativa de los graffiti ni la selección de muestras
estadísticamente representativas, sino más bien traté de trabajar
con algunas hipótesis para reflexionar en torno a la configuración
del espacio y su resemantización cultural, es decir, a su
reapropiación, acerca de los complejos rituales, procesos
simbólicos, referencias imaginarias, los itinerarios y las
confluencias que marcan la geografía de un lugar y su rutina
diaria; de los discursos que allí se sostienen y el tipo de relaciones
e intercambios. No pretendo elaborar un texto de carácter
semiótico, sólo que a veces me apoyo en recursos que brinda esta
disciplina para el análisis –desde una perspectiva de género- de
algunos discursos y narrativas de los sujetos que frecuentan el
baño, mediante el estudio de los mensajes emitidos, su intención
y sus efectos. Entender estas prácticas y discursos no en su
fugacidad, sino en su significación y significantes más
permanentes, parece constituir la esencia de nuestro problema
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El graffiti es el pretexto para analizar algunos de estos
micromercados de comunicación sexual y la concepción de las
relaciones genérico/sexuales, a través de las demandas o
necesidades explicitadas en este tipo de discurso y que se generan
en los intercambios entre sujetos asiduos al baño. Este trabajo
parte del interés de documentar de alguna manera tales procesos
culturales a partir de los meca-nismos discursivos por medio de
los cuales éstos se realizan. El graffiti es el elemento que articula
la reconstrucción etno-gráfica de lo que acontece en esos lugares,
donde el discurso se presenta en su “naturalidad” cotidiana.
Entre cuatro paredes.
Acaban de separarse, aún acezantes, sin mirarse a los ojos, el
sexo de él húmedo, ya fláccido, embadurnado, cho-rreante de
semen: un hilillo blancuzco, suspendido del glan-de, línea
precisa, casi recta, (…) Se apartan levemente. Se han desunido,
despegado; van a vol-verse de espaldas, cada uno a su espacio:
animales hartos
y rivales, voraces, saciados.
Severo Sarduy.
El graffiti en el baño público sustituye a la voz, no a la palabra, al
gemido o la mueca, es la marca somática del cuerpo lacerado y
reconstruido al mismo tiempo, la marca de lo inescuchable, de lo
indecible. Cargados de pulsiones eréctiles y seminales, esos
trazos se erigen en significantes del atrevimiento, de la
transgresión, escribiendo, emborronando el canon, inundado de
orina, semen y grafos en ese espacio conquistado, usurpado a la
ciudad. Trazos libres y secretos -“metonimia del falo en la mano
y el pincel”22 -, indescifrables a la lectura racional y frontal;
puesta en escena realizada por el sujeto urbano para descargar sus
pulsiones y sus miedos, sus más íntimos deseos en esa geometría
“secreta”. El graffiti funciona como un anclaje territorial, propio
de la liturgia y la mascarada, para imantar, atraer. Si, como apunta
Severo Sarduy, “la escritura constituye al sujeto, lo define a sí
mis-mo y lo sutura”, el graffiti tendría como corolario “reírse de
la autoridad, garabatear el modelo, impugnar a los inquisidores,
ensuciar, manchar, orinar, eya-cular sobre lo impoluto, lo
perfecto, lo inalcanzable por su nitidez y su armonía (…) anuncio
obsceno, navajazo contra la tela canó-nica, pedrada a la Monalisa,
quema del templo de Efeso.”23 William, un informante clave en
esta
investigación,
lo explica
de
esta
manera:
70
ACHAB
“La gente escribe en los baños como una forma de comunicarse,
para que todo el mundo lo lea, porque son deseos eróticos
inconfesables; como tienen una sexualidad reprimida, es la
manera de expresar, de confesar lo que en realidad desean. En los
baños uno no puede compartir, no puede conversar, la interacción
en los baños es impersonal. Hay personas que sienten placer
escribiendo insultos o escenas sexuales, o memorias de un
encuentro sexual o afectivo importante, una historia que marcó su
vida personal, también hay quien deja mensajes. No se ve poesía
en estos lugares, ni literatura o diálogo sobre el capítulo 8 de
Paradiso
de
Lezama.”24
Los sujetos que asisten al baño manejan el texto escrito y el habla
en general como individuos, pero también como miembros de un
grupo social, al tiempo que pertenecen a otros grupos sociales y
profesionales; por lo tanto, participan de varias ideologías
grupales; de modo que sus prácticas, contradicciones y
variaciones estarán determinadas por el grado de identificación
con un grupo e ideología específicos.25 En las interacciones entre
los actores sociales, el discurso puede develar actitudes y
autoidentificaciones grupales; pero las ideologías que porta el
grupo, como apunta Teun Van Dijk, no siempre pueden ser leídas
directamente de las prácticas sociales individuales.26 Durante el
trabajo de campo y en la aplicación de entrevistas pude constatar
que aunque los sujetos compartan prácticas similares, sus
actitudes difieren sustancialmente en dependencia de la ideología
de género específica, la cual determinará las lógicas
interaccionales
y
las
formas
de
sociabilidad.
La sociabilidad tiene que ver con la configuración de relaciones
sociales interaccionales y con los espacios en que se desarrollan
estas, además está asociada con el aprendizaje social y la
internalización de patrones y normas conductuales.27 Cuando
aludo al término sociabilidad me refiero a la creación y
establecimiento de contextos interaccionales de menor o mayor
complejidad y estabilidad y con algún grado de sistematicidad, en
los cuales acontece la vida social de una institución, en este caso
el baño, en tanto contexto social que imprime un matiz peculiar a
las prácticas discursivas y que lo caracterizan como tal.
El baño puede entenderse como un “submundo” -subcampo diría
Bordieu-, en que el graffiti se articula a través de la adquisición
de vocabularios especí-ficos, de "roles”, así como la
internalización de campos semánticos que estructuran
interpretaciones y comportamientos de rutina. Como señalan los
sociólogos Berger y Luckmann, estos
“submundos"
internalizados son realidades parciales que contrastan con el
"mundo de base" adquirido, al tiempo que constituyen realidades
más o menos coherentes, caracterizados por compo-nentes
normativos y afectivos a la vez que cognoscitivos.28
Los baños públicos constituyen contextos interaccionales y
discursivos en función de la sociabilidad de los visitantes asiduos
y de las prácticas verbales y no verbales de estos, de sus
actuaciones cotidianas, que le dan sentido de una cultura microlocal. Como señala Ramfis Ayús, la “sociabilidad implica crear y
recrear no sólo los espacios, sino las maneras de conducirse e
intercambiar significados socialmente”.29 Las sociabilidades en
los baños están carac-terizadas por la existencia de patrones de
interacción verbal que asumen rasgos peculiares de cultura
situada, o sea que poseen su propia especificidad. En estos
patrones está contenida una lógica interaccional histórica
constitutiva de esas interacciones sociales y funcionan “como
marco organizador del entramado interactivo, discursivo y
p r á c t i c o - o r d i n a r i o ” . 3 0
La sociabilidad de la que estamos hablando tiene que ver con la
identidad urbana y con formas de sociabilidad otras, en que se
perciben diversos modos de comunicar y de habitar que la ciudad
hace hoy “posibles e imposibles” y que podrían insertarse dentro
de lo que Michel Maffesoli ha dado en llamar tribus urbanas,
articuladas -según Martín Barbero- en “implicaciones
emocionales, en compromisos precarios, en localizaciones
sucesivas y que crean sus propias matrices comunicacionales”31.
Las tribus urbanas –señala Barbero- marcan de forma identitaria
tanto las temporalidades (sus ritmos de agregación, sus cadencias
de encuentro) como los trayectos con que demarcan los espacios.
“No es el lugar en todo caso el que congrega, sino la intensidad
de sentido depositada por el grupo, y sus rituales, lo que convierte
a una esquina, una plaza, un descampado o una discoteca en
territorio propio”32.
Sobre los aglutinantes de estos
conglomerados urbanos, Barbero apunta que no son ni un
territorio fijo, ni un consenso racional y duradero. “Lo que
convoca y religa a las tribus urbanas –subraya- es más del orden
del género y la edad, de los repertorios estéticos y los gustos
sexuales, de los estilos de vida y las vivencias religiosas.”33
Además de las sociabilidades caracterizadas únicamente por
razones sexuales, tendríamos que prestarles atención a la escritura
y la lectura colectiva o individual; leer un graffiti en un baño
público, pone en tela de juicio la intimidad de otros y la nuestra
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La escritura/lectura puede crear también lazos sociales alrededor
de un texto, establecer relaciones, nexos entre sujetos reunidos
alrede-dor de un grafo; el discurso subsiste así, en medio de una
sociabilidad letrada e iletrada, asidua o potencial, pública y
privada al mismo tiempo. La escritura también funciona como
pretexto de encuentros y puede otorgar sentido e identidad al
espacio y a los que lo habitan recurrentemente.
Para Roger Chartier, la sociabilidad representa tanto la actividad
que convoca como el espacio que configura la nueva relación
social que se establece.34 Una de las ideas medulares de la
sociolingüística interaccional consiste en que el lenguaje
contextualiza y es contextualizado35, o sea, que las expresiones y
las construcciones discursivas que a los miembros les sirven para
hablar de sus mundos vitales, permiten revelar también las
características y propiedades culturales, es decir, contextuales, de
su
habla.36
Un elemento importante que no debemos descuidar es que el baño
no es sólo su límite geo-topográfico o arqui-tectónico, sino que es
un punto en el despliegue de redes de sociabilidad y trayectos
mucho más complejas, como veremos más adelante.
El graffiti, inherentemente discursivo, es el modo de expresión
71
ACHAB
primordial en los baños públicos; es el tes-timonio, la fuente
primaria, la marca textual de un sujeto que construye y recrea la
imagen de otros y de sí mismo. El graffiti explica en algún sentido
los procesos y dinámicas sociales de estos entornos ur-banos, a
través de él he podido explorar los recursos comunicativos y
modos interaccionales que reflejan estados de ánimo, deseos,
ansiedad, felicidad, etc. El graffiti no sólo es un canal de
comunicación verbal y vehículo de representaciones cognitivas y
afectivas, sino que al mismo tiempo articula las relaciones que se
establecen. Nos permite acceder a diversas formas de producción
y repro-ducción de las prácticas interaccionales y códigos
socioculturales identitarios que configuran los roles de los
interactuantes en medio de los procesos sexo-comunicativos, al
tiempo que funciona como un poder simbólico en que se
actualizan las relaciones de fuerza entre los locutores y sus
respectivos
grupos
sociales.37
La noción de relacionalidad ayudaría a describir y a interpretar
los itinerarios, las trayectorias personales, las pulsiones
emocionales que marcan las acciones cotidianas y los es-fuerzos
de convivencia entre estos sujetos y cómo estas prácticas y
discursos, -entendidas como rituales de relación- se expresan a
través de una "interdependencia intersubjetiva", cristalizada en
mentalidades coordinadas, lo que da coherencia y sistematicidad
a
las
mismas.38
El método.
El asunto del método de investigación resultaba efectivamente
complicado, la cuestión del objeto empírico sería resuelta con la
ampliación de la muestra de graffiti mediante la visita a otros
baños de la ciudad, para cotejarlos entre sí. Pero llevar a cabo ese
casual e inusitado trabajo de campo sin sujetos directos a quien
observar, era aún más difícil; porque los que llegaban o estaban
mientras recogía la muestra graffitera -cámara y grabadora en
mano-, se negaron rotundamente a concederme entrevistas o a
responder
pregunta
alguna,
y
salían
asustados.
Una indagación de este tipo demandaba, de modo especial, lo que
los antropólogos llaman “observación participante” -para obtener
esa información que sobrepasa cualquier metodología y que no
aparecerá en entrevista alguna-, en la que el investigador
desarrolla estrategias que viabilizan su inserción en un contexto,
comunidad o sociedad determinada, para interactuar, si no de
manera óptima, al menos cordial, con sus miembros.39
La observación participante imponía ineludiblemente al
investigador su presencia allí, en un terreno en el que se
desarrollan prácticas ajenas y que nada tiene que ver con una
comunidad campesina, una plaza urbana, o una ceremonia
religiosa. Acudí a los baños en diferentes ocasiones, pudiera
decirse que con cierta asiduidad, despojado, hasta donde fuera
posible, de los prejuicios disciplinares y humanos, intentando dar
respuestas a las hipótesis que construía diariamente. Entraba un
rato, volvía a salir, conversaba con el vigilante de turno y con
algún que otro “usuario” y así transcurrieron algunos días, los
suficientes para completar la muestra graffitera y comprender las
dinámicas
y
los
rituales
de
esos
lugares.
Uno de los que testimoniantes de este trabajo es Oscar, un
cuarentón que se desempeñaba como barman en la cafetería del
Pío Pío, pero que dejaba entrever una especie de antropólogo naif
por los detalles que aportó, aunque un tanto etnocéntrico y
prejuiciado. Sobre el lugar y los sujetos que lo frecuentaban, me
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b
a
:
“Son un montón de homosexuales que se meten allá adentro y se
ponen a escribir en las paredes y a hacer cosas raras, cosas que
hacen ellos… tú sabes. Vienen todos los días a cualquier hora, lo
mismo por la mañana, que al mediodía que por la noche que por
la madrugada. Lo mismo jóvenes que viejos. Ahí entra de todo.
Lo mismo homosexuales que invertidas, los que se ponen a mirar,
los que le dan a los homosexuales. Es el baño del relajo. Entra uno
primero y después el otro, y después se quedan ahí una hora, y
viene otro y otro y otro. Con lo chiquito que es el baño, a veces
hay ocho o diez tipos metidos allá adentro. Se han producido
fajazones, porque se ponen a mirar a uno que está orinando. No
arman griterías ni nada, todo es muy calladito. Van entrando y se
van quedando y el que termina, tú sabes, va saliendo, así es como
funciona. Al que le dieron, espera a que le den al otro y así.”40
El minucioso testimonio del barman aporta algunos detalles en los
que se deja entrever la otredad marcada por el ojo del que observa
respecto de su objeto observado. Primeramente, cuando
manifiesta que los sujetos que frecuentan el baño hacen “cosas
raras, cosas que hacen ellos… tú sabes”, está implícito el
desconocimiento de ese tipo de prácticas sexuales, que aunque las
presuponga, no las enuncia de manera explícita, para subrayar
precisamente esa distancia del grupo al que se refiere respecto de
aquel al que él pertenece. En la concepción del barman, subyacen
dos órdenes dicotómicos y contrapuestos, inscritos en dos
dimensiones: su propia normalidad y la anormalidad a la que
remite a los “bañistas”, signados por la idea de la rareza, análoga
a
la
alienación.
Por otra parte, en su testimonio están asentadas categorías
atributivas respecto de los sujetos a los que describe y que aluden
al desempeño y distribución de roles sexuales, apoyados en la
dicotomía de representación de lo masculino y lo femenino,
construidos culturalmente tomando como referencia dos polos
opuestos: la actividad y la pasividad, es decir, los que penetran, que para nuestro testimoniante son “los que les dan a los
homosexuales”- y los que son penetrados, es decir, el “montón de
homosexuales
que
se
meten
allá
adentro.”
Para el antropólogo Guillermo Núñez Noriega, esta es una de las
características fundamentales del modelo dominante de
comprensión de los homoerotismos. Por otra parte, manifiesta que
esta clasificación de los individuos según sus papeles constituye
una “metonimización” de los mismos respecto de sus órganos
sexuales. O sea, el sujeto homoerótico es reducido a “sujeto anal
receptor”, el cuerpo homoerótico es aprehendido como “orificio”
y el deseo homoerótico es entendido como un “deseo anal del
pene”.41
Otro que accedió a hablarle a la grabadora fue Paco, un jovial
72
ACHAB
anciano, custodio del turno de la noche en el baño público
ubicado en la calle 23 esq. a J, en el parque que honra al caballero
de la triste figura, don Quijote de la Mancha. En este sitio, el
azulejado impide a los escribanos desarrollarse a plenitud, y no
pude recoger muestras graffiteras; sin embargo, las veces que lo
frecuenté pude apreciar una intensa actividad sexual dentro y en
sus
inmediaciones.
Al
respecto
decía
Paco:
“Aquí vienen homosexuales, gente que no trabajan, vienen
ladrones, carteristas, aquí viene de todo. Es un baño público en el
centro del Vedado. La mayoría de los homosexuales que entran al
baño vienen solos; algunos vienen en parejas, pero no abrazados
ni nada de eso aquí. No, ni de manos; porque esto no es un hotel
ni ná de eso. Yo no permito ninguna falta de respeto aquí. A veces
la pareja se queda fuera y el otro entra. Eso es inevitable, uno no
puede contra eso. Yo lo que hago es que cuando se me concentra
mucha gente aquí adentro yo los saco pa fuera, que vayan pal
parque a conversar, la tertulia y el toqueteo pal parque. Aquí lo
que se forma es mucha miradera, eso es normal. Está el
homosexual respetuoso y el que no es respetuoso, que tocan a
alguien… -se ríe nervioso-, se emocionan un poco y empiezan a
tocar al otro que tienen al lado. Ríe nuevamente.”42
En este testimonio, los homosexuales son ubicados en una
dimensión delincuencial similar a la de “vagos, ladrones y
carteristas”. Sin embargo, estos últimos bien podrían utilizar la
seducción homoerótica como mascarada para tales actividades
delictivas ante sujetos vulnerables, con disímiles conflictos y
ávidos de sexo. Por otra parte, la representación de la
homosexualidad que manifiesta el anciano descansa en las
fronteras del “respeto”, entendido como la abstinencia de
“miradera”
y
“toqueteos”.
Sin embargo, pese a las reservas que expresan los celadores, en
algunos baños de la ciudad, existe un patio interior, al que
denominan “reservado”, donde los visitantes disfrutan de un poco
más privacidad luego de haberles pagado a los vigilantes algo de
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o
.
Durante el trabajo de campo, pude percibir que en las afueras de
algunos baños se apostaban, en disímiles horarios, ojos
acechantes, en espera del mejor momento para entrar. Yunior, un
rostro recurrente en algunos de los baños de la ciudad, me ofreció
muchas pistas en ese sentido. He aquí la descripción que me dio
de
algunos
de
esos
individuos:
“Ese es el típico bugarrón, que sólo busca la satisfacción sexual y
sin importarle para nada el otro, es guiado exclusivamente por sus
instintos, no se involucra sentimentalmente, tú los has visto,
parecen auras tiñosas, buitres esperando por hombres como yo,
los que tenemos cierto amaneramiento… que se nos vea la pluma
y que como estamos necesitados… Se hacen los muy machitos y
conciben el sexo homosexual como un acto de penetración, no
hay besos, no hay caricias, ni la mínima señal de afecto, ni los
puedes estar mirando mucho porque se acomplejan. Es
simplemente 'vírate y dale', todo muy rápido. Cuando eyaculó da
la espalda y se va sin mirar pá atrás, no importa que el otro no
haya terminado, ese no es su problema. Si a uno de estos tipos le
gustó, te dice en los horarios y los días que viene para que tú los
espere, si no, escribe en las paredes dejando pistas para todos.
También puede ser, no estoy seguro, que como no tienen a quién
contarle, escriben por una necesidad de expresar lo que sienten.
Los lugares todos los conocen y van allí a desahogarse. Yo cuando
no tengo parejas, vengo porque siempre resuelvo mi problema,
aquí, en otro baño o en un edificio derrumbado, un matorral,
porque no tengo dinero para pagar un cuarto y aunque lo tuviera
ninguno de ellos va a caminar conmigo ni de aquí a la esquina;
porque en el porte se les ve que tienen familia y eso, tampoco
nadie le va a alquilar un cuarto a dos pájaros, a menos que uno sea
extranjero
y
tenga
dólares
en
los
bolsillos.”
Este testimonio contiene algunos elementos interesantes para el
análisis del discurso y las prácticas a las que hemos venido
aludiendo, como son los recursos metonímicos y metafóricos para
intentar explicar las dinámicas que se producen y su ubicación en
ellas. Al emplear la analogía, es decir, al referirse a otros como
aves de rapiña (buitres), está describiendo una situación
interaccional, organizacional y cultural. Este recurso narrativo
tiene utilidad socio-antropológica para descifrar las relaciones
entre los actuantes, al tiempo que descubre los modos en que esas
prácticas son narradas, cómo se organizan a nivel individual y
colectivo y cómo se hacen expresables. De acuerdo con Ayús,
estos recursos nos revelan que estas prácticas son una
"negociación consigo mismo, con los otros en uno mismo (...)
resultante de una interpretación" realizada por el/los actor/es
social/es y renegociada con y por el analista cultural.43 Rigo, un
joven tornero, utiliza también tales recursos en su descripción de
la dinámica interaccional: “En los baños le caen como moscas a
un tipo, a babosearlo todo, ahí no se habla, lo más que se dice es:
'¡Échate pa' allá!', por eso a mí no me gusta, los baños me cortan,
no puedo con esa promiscuidad y esa peste.” Sin embargo, hay
testimonios que contrastan con este y que tienen que ver con una
concepción escatológica del sexo. “Me excita ese olor -señala
Ernesto-, esa mezcla de orine de muchos hombres, me da morbo,
no
lo
puedo
evitar,
alimenta
mis
fantasías.”
El baño constituye una comunidad de habla construida de
individualidades que poseen un núcleo común de competencia
comunicativa, en la que se comparten ciertos "modos de habla", y
su significación social puede ser interpretada a partir de lo que
Alfred Schütz denominó como significatividades de la
copresencia, para dar cuenta de esa comunidad de espacio-tiempo
cargado de sentido e intenciones, donde los actores sociales, en
sus roles como interlocutores, puedan reconstruir e interpretar los
"síntomas del pensamiento del otro."44 Cuando Schütz se refiere
al tiempo no lo hace desde un punto de vista estrictamente
cronológico, se trata del tiempo interior, o sea, que cada
copartícipe interviene en la vida en curso del otro, puede captar en
un presente vívido los pensamientos del otro tales como éste los
construye, paso a paso; cada uno de ellos comparte las
anticipaciones del futuro en cuanto a deseos, ansiedades.45
En la descripción de Junior, aflora un elemento que tiene que ver
con determinadas formas de poder o control -no de índole
73
ACHAB
coercitivo, sino mental y simbólico-, ejercido sobre él por parte de
los “buitres” que le imponen la conducta que ellos desean o
esperan de él. En ese sentido, algunos graffiti desempeñan un
papel importante atendiendo a que – como señala Van Dijk- los
medios esenciales para influir sobre la mente de otras personas de
forma que actúen como queremos son el texto escrito y el habla.46
Algunas de las ofertas y las demandas expresadas en los graffiti
apuntan a sujetos emisores que responden a los cánones
tradicionales de masculinidad y no se consideran a sí mismos
como homosexuales, a pesar de que participen en intercambios
sexuales con personas del mismo sexo. Los graffiti que expongo
a continuación ilustran, además, los horarios de mayor
efervescencia del lugar en el año 2004, algunos rituales para el
encuentro y cómo se reproducen estereotipos y esquemas de
representación de los homoerotismos. En muchos de los textos
analizados se observa la recurrencia del estilo funcional
publicitario. Se estructuran siguiendo los patrones de oferta y
demanda, especialmente se observa el recurso de la superlatividad
en las promesas y compromisos de “calidad del producto.”
1. Singo a hombres por el culo. Si quieres conocerme y vives
sólo ven a verme el viernes 23 de abril a las 2: PM, vendré
vestido de blanco.
2. Soy mulato y de pinga grande y me gustan los culos y que me
la mamen, dime cómo vernos. Lugar, aquí, Hora, martes o
miércoles de 4 _ a 5 PM.
3. Parto a maricas. Martes 6-4-04.
4. Tengo una pinga grande y gorda y me gustan los pasivos y
lampiños y que no sean fuertes. 4:30-7PM, todos los días.
5. Todos los días vengo. Tengo una pinga de 8 pulgadas y
gorda. Te espero.
6. Tengo una pinga grande y gorda. Vengo todos los días de 4:
30 a 6:30 PM. Dame señas.47
El lenguaje registrado en los baños, puede ser interpretado como
acción social, idea que procede de la teoría de los actos de habla,
que plantea que los recursos con los que nos comunicamos no
sólo tienen la función de repre-sentar la realidad, sino que
además, con ellos esbozamos promesas, compromisos, apues-tas,
quejas, peticiones y saludos, deseos, pasiones, emociones y
diversos
estados
de
ánimo.
En estos discursos, el pene – en particular su tamaño y grosor- se
inscribe como un capital simbólico inscrito en una economía de
placeres
y
estereotipos
para
seducir
a
otros,
“anales/receptores”.48. Estos códigos “peniles” están encaminados
al esclarecimiento de roles sexuales adscritos a la masculinidad.
En muchos de ellos la raza también se inserta como un capital
simbólico para negociar este tipo de intercambios, apelando a
mitos culturales relacionados con símbolos sexuales históricos.
Las contradicciones que se manifiestan en estos discursos tienen
que ver con las valoraciones y denominaciones que utilizan los
otros (heterosexuales) y los homosexuales respecto de sí mismos.
Estas denominaciones crean sentidos y constituyen formas de
valoración y devaluación que evidencian los conflictos objetivos
y subjetivos de los individuos; representan categorías atributivas
y aluden, generalmente, al desempeño y distribución de roles
sexuales, apoyados en la dicotomía de representación de lo
masculino y lo femenino. Se han construido tomando como
referencia dos polos opuestos: la actividad y la pasividad, es decir,
el
que
penetra
y
el
que
es
penetrado.
Por eso, muchos individuos, aunque tengan evidentemente un
estilo de vida adscrito al homosexualismo, manifiestan una
estrategia de resistencia a la autoaceptación de tal categoría. En
Cuba, a los varones que tienen sexo con otros del mismo sexo sin
considerar tales prácticas como homosexuales, se les conoce en el
habla popular como “bugarrones”. Este término ha funcionado
como estrategia autodenominativa de muchos de estos sujetos.
Sin dudas, es una categoría eufemística que los mantiene en las
fronteras, donde pueden entrar y salir cuando lo deseen, y no tiene
una
connotación
tan
peyorativa.
La proyección de género y el desempeño de “roles” tienen que ver
con los grupos en que se desenvuelven los homosexuales.
Efectivamente, existen algunos que siguen reproduciendo el papel
del macho tradicional por las ventajas o prestigio que reporta al
que encarne tal personaje. Estos sujetos, aunque tienen plena
conciencia de sus sentimientos y deseos sexuales hacia personas
del mismo sexo y aunque perciban su diferencia a nivel
psicológico, no se definen ni se aceptan como homosexuales, pese
a que se declaren asiduos a estas prácticas. A algunos, el
sentimiento de diferencia, el mismo contexto en que se
desenvuelven y las condiciones que lo propicien, los llevará
inevitablemente a autodefinirse como homosexuales, pero este
proceso puede tardar mucho tiempo, incluso, años. Otros, en
cambio, manifiestan una gran resistencia a la autodefinición como
homosexuales y se adscriben a categorías como bisexuales o a
ninguna
específica.
Tales procesos se insertan en lo que Eve Kosofsky Sedgwick
conceptualizó como “epistemología del armario”. Esta noción
conceptual, aunque restringe un tanto las complejidades
intrapsíquicas que se producen en las vivencias homosexuales,
porque delimita fronteras y espacios/tiempos, es útil para entender
cómo se negocia la diferencia sexual y cómo se adquiere una
conciencia socio-sexual diferenciada que se cristalizará o no en la
identidad homosexual. El “armario” está sedimentado y
estructurado de tal modo que no se puede salir definitivamente,
por los modos en que los sujetos han sido interpelados
c
u
l
t
u
r
a
l
m
e
n
t
e
.
Deshacerse del “armario” depende de las individualidades, de las
historias y narrativas de los sujetos. Esa estructura no se inscribe
en el sujeto simplemente como un espacio/tiempo interno o
externo, sino que se encuentra, a la vez, en las dos dimensiones.
Como señala Didier Eribon: “No se está nunca del todo dentro
porque (…) el ‘armario’ siempre puede convertirse en un «secreto
público», y siempre hay al menos una persona que sabe y de la
que se sabe o se sospecha que sabe. No se está nunca
completamente fuera porque surge, en un momento u otro, la
obligación
de
silenciar
lo
que
se
es.”49
El estudio de estos espacios sugiere que en ellos, efectivamente,
74
ACHAB
los homosexuales se sienten cómodos y disfrutan de libertades;
sin embargo, terminan por asumir posiciones discretas en otros
espacios sociales y familiares. Este fenómeno sucede aún entre
los homosexuales más asumidos, que en algún momento han
tenido que transigir con la cuestión del armario,50 que está
sedimentado y estructurado de tal modo que no se puede salir
definitivamente, por las maneras en que los sujetos han sido
interpelados
culturalmente.
En la actualidad, cada vez se hace más evidente que la
masculinidad tiene disímiles configuraciones y está atravesada
por un sinnúmero de prácticas, o sea, que existen diversas
maneras de ser hombre y de encarnar lo masculino, y en
muchísimos casos se deja entrever un cierto distanciamiento del
modelo tradicional del macho. Sin embargo, las investigaciones
que he venido realizando en los últimos años, así como las de
otros colegas, apuntan a una cierta estaticidad en cuanto a las
representaciones a nivel macro social, las que varían en
dependencia de espacios y contextos; sucede algo similar a los
procesos del “armario”. La noción de masculinidad en la sociedad
contemporánea, sigue siendo una camisa de fuerza para muchas
personas que tienen que vivir en la frontera del anonimato y la
clandestinidad para realizarse como seres humanos, plenos. Uno
de los entrevistados –William-, relata así sus conflictos y debates
internos respecto de la masculinidad y la manera en que vive su
s
e
x
u
a
l
i
d
a
d
:
“Yo vivo en los Pocitos entre siete plantes abakuá, y ahí la gente
te examina desde que sales de tu casa hasta que regresas, te están
probando la hombría todo el tiempo, los códigos de convivencia
son muy fuertes, muy duros, muy violentos; los estereotipos
llevados hasta el extremo, donde las mujeres y los pájaros no
significan nada. Ver a hombres en estos lugares con los mismos
estereotipos, conectados con el pene de otro tipo en la boca o
penetrados, eso me sugería una morbosidad tan grande que no
imaginas, me relajaba, amortiguaba ese inconsciente e inevitable
sentimiento de culpa, me di cuenta de que no soy un monstruo,
que no soy un fenómeno, que no soy un pervertido, pero sobre
todo
que
no
estoy
solo.”
Los baños públicos son lugares cargados de sentido y funcionan a
manera de referente para un grupo de varones que desarrollan
prácticas sexuales y discursivas homoeróticas. Sin embargo, a
muchos homosexuales estos espacios les provocan rechazo o
incomodidad, ya sea por pudor o por prejuicios. El testimonio de
Ángel Luis es ilustrativo de la complejidad de estos procesos
interaccionales: “El baño del parque del Quijote es para esos
pájaros promiscuos y excéntricos, a mí no me gusta que me vean
en ese lugar que es un foco y es como si la gente tuviera un cartel
en la frente que dice: '¡Soy maricón!'. Fíjate que yo me puedo
estar reventando de las ganas de orinar y yo no entro ahí ni
muerto, sigo de largo. ¡Capaz que me vea alguno de mis amigos!
Eso me daría mucha pena.” Al parecer, el baño funciona para este
sujeto como una especie de coming out con costos simbólicos que
no está dispuesto a pagar. Ángel Luis, aunque no va a los baños
en busca de sexo, me confesó que es asiduo a otros espacios y
dinámicas a los que me referiré más adelante. El miedo de ser
descubierto es revelado mediante la representación negativa de la
grupalidad a la que se refiere, o sea, a “esos pájaros promiscuos y
excéntricos.” Por otra parte, resulta interesante el empleo del
adjetivo “foco” para referirse al lugar, que es enunciado en
términos de claridad o de esclarecimiento identitario.
El graffiti en los baños puede ser analizado a partir de lo que los
lingüistas han designado como patrón de interacción verbal
(PIV), concepto aplicado fundamentalmente al análisis
conversacional. Estos textos están estructurados sobre la base de
patrones que, aunque abstractos, sirven para orientar las acciones
comunicativas de los actores sociales y tienen que ver con marcos
de referencia subyacentes a la interacción, al tiempo que marcan
la lógica interaccional de acuerdo con el contexto.51
Los patrones, al ser unidades recurrentes y sistemáticas, “nos
permiten relacionar el contexto extraverbal dado en la si-tuación
de comunicación, con los procedimientos discursivos que se
movili-zan”52 y funcionan como estructu-ras referenciales -ya
que constituyen caminos históricos, ensayados y repeti-dos- y
como estructuras internalizadas, por lo tanto ordenadores del
discurso.53 Pueden ser entendidos como dispositivos normativos,
pautas de acción e interpreta-ción, cuya violación puede ser la
causa de malentendidos y crisis en la comu-nicación. Como
señala la investigadora María Teresa Sierra: “Seguir un patrón
significa entonces realizar una secuencia de accio-nes o actos
verbales, guiados por una lógica interaccional para alcanzar fines
materiales o simbólicos determinados.”54
Las lógicas
interaccionales están atravesadas por continuas negociaciones que
develan las complejas relaciones de fuerza y cuotas de poder
s
i
m
b
ó
l
i
c
a
s
.
En los testimonios citados subyace la existencia de
micromercados sexuales, con ofertas y demandas de diversa
índole, intercambios en los cuales el mediador no es
precisamente el dinero, sino los prejuicios sociales, los miedos a
ser descubiertos, las censuras y las autocensuras, que dan lugar a
modos de vida duales, fronterizos y ambiguos, clandestinos,
itinerantes y anónimos, desprotegidos y por lo tanto peligrosos, de
los que sólo nos queda una literatura expresada a través de graffiti
de amor, pero de un amor que todavía, en pleno siglo XXI, “no se
atreve
a
decir
su
nombre”.
En el baño no tiene lugar la economía de la abstracción comercial
o de sexo-servicio en la que prevalece una relación contractual
mediada por el dinero y en que la significación de cada objeto -en
este caso sujeto- depende de su “valor” de uso, es decir, de
mercancía aislado del trabajo. La economía que prevalece en
estos lugares pertenece a la del intercambio simbólico, donde “los
objetos significan y valen con relación a los sujetos que los
intercambian, aquella en que el objeto es un lugar de encuentro y
de constitución de los sujetos: inscripción, por tanto, en otra
lógica, la de la ambivalencia
y el deseo.”55
Las ofertas citadas más arriba tienen como contraparte otros
mensajes de emisores que demandan explícitamente este tipo de
intercambios, reproducen los mismos esquemas y estereotipos, y
se inscriben en esta economía de placeres como “pasivos”. Estos
75
ACHAB
discursos están adaptados a la lógica interaccional del contexto,
recrean y complementan el patrón de interacción verbal marcado
por un grupo de hablantes, al tiempo que construyen otros
patrones de acuerdo con sus roles o identidades.
1. Soy maricón y me gusta que me mamen el culo y mamo
pingas. Me gustan los mulaticos y los negros. Vengo todos los
días, ¿cómo puedo verte?
2. La felicidad de un hombre es la pinga de otro hombre.
3. Soy trigueño y busco un negro que tenga una buena pinga.
Vengo todos los días de 5 PM a 7 PM.
4. Quiero un buen pingón. 4: 30 a 7 PM todos los días.
5. Soy medio chino, vengo casi todos los días y me gusta mamar
como un loco.
6. Me llamo Roberto. Me gustan los hombres para gozarlos. Te
espero miércoles 17-3- 04. 4:30 PM.
7. Estoy buscando a alguien con una morronga así (señala una
flecha con un gran pene dibujado), estoy loco porque alguien
me haga sentir de verdad lleno de hombre.
8. Necesito un machón. Pon nombre y teléfono para localizarte.
9. Quiero un pene grande.
Otros, como Rafael, manifiestan: “Busco alguien serio con quien
tener sexo, no parejas. Búscame aquí todos los días, hago de todo
y me gusta disfrutar. Vengo todos los días 4: 30 – 7 PM. Dame
señas.” En la actualidad, dentro de los círculos homosexuales ha
surgido la categoría completos para referirse a aquellos que tienen
una existencia sexual más desenfadada, o sea, a los que se sitúan
fuera de los cánones relacionales tradicionales porque piensan
que la existencia de roles limita no sólo las experiencias sexuales,
sino también la convivencia de pareja y las relaciones entre los
grupos homosexuales. Así piensa otro “escritor”, que en el
anonimato plasmó: “Doy para que me den, esto es vida, locura,
sexo.” Aquí, el verbo en ambas formas posee una connotación
figurativa. La imagen empleada puede ser entendida como código
de penetración fálica en que el emisor subraya que no está inscrito
en la economía tradicional de roles sexuales, sino que está
dispuesto a un intercambio más abierto. Este tipo de mensajes
constituyen, ciertamente, una rareza dentro de la muestra
graffitera. Sin embargo, el verbo empleado es elocuente de una
violencia simbólica intrínseca en la concepción y representación
del
sexo
en
estos
códigos
“peniles”.56
Quizás, el interés en conservar el anonimato sea una de las causas
de que esta producción textual tenga un tipo de factura fugaz y
furtiva. Pero para muchos, el baño puede llegar a convertirse en
un modo de vida; la caligrafía y el estilo de un mismo escritor
puede aparecer de manera recurrente. William lo describe de este
modo: “Hay personas que tienen estos lugares como un espacio
más de su rutina diaria, como su casa. Otros lo asumen como un
lugar para iniciarse, para satisfacer necesidades sexuales o para
experimentar”. Algunos parecen encontrar la satisfacción plena y
abandonan por un tiempo la promiscuidad que implica
necesariamente este tipo de relaciones, y dejan mensajes
constantes y codificados para otro escritor específico: “Te
necesito ver, es urgente. ¿Vienes? Te espero el 8-4-04 a las 31/2
PM”. Muchos mensajes dejan entrever los altibajos del lugar en
ciertos días y horarios. Un escritor decepcionado reflejó: “Hoy
está malísimo el baño, no ha venido nadie. 12 a 3: 10 PM.”
Las carencias económicas, los problemas de independencia que
generan la incapacidad de adquirir una vivienda propia, la falta de
espacios sociales que respeten las relaciones homoeróticas (como
posadas, moteles o casas de alquiler), además de otros elementos
inscritos en lo psicológico -inseguridad para establecer relaciones
fuera de cuatro paredes, los prejuicios que impiden la
autoaceptación y que tienen que ver con la representación
tradicional de los homoerotismos- parecen incidir decisivamente
en el establecimiento y proliferación de este tipo de prácticas
sexuales. Muchos de los entrevistados piensan que la
promiscuidad está condicionada por muchos de estos factores.
Otros, sin embargo, aunque reconocen que estos elementos
influyen muchas veces en la existencia de estos modos de
interacción, piensan que aunque esas barreras desaparecieran, aun
así, van seguir subsistiendo este tipo de lugares ocultos para
personas que tienen una vida homosexual ocasional.” En ese
sentido, Jesús expresa: “Aquí vienen muchos que no pretenden ni
quieren tener relaciones afectivas o de pareja, al menos, no como
una prioridad; aquí satisfacen su paréntesis homosexual y
continúan su vida normal. También la promiscuidad genera
hábito, temor al compromiso y los riesgos que conlleva; es mucho
más cómodo el desahogo sexual de esta manera.”
Alain, un joven imberbe y de constitución un tanto escuálida, que
accedió a la entrevista luego de interpelarlo varias veces a la
salida
de
uno
de
los
baños,
dice
que:
“Es común en parejas de homosexuales que al cabo de un tiempo
la relación se abra un poco. Esto puede parecer ridículo porque la
idea que se tiene de los homosexuales es que son posesivos, hipercelosos. Eso puede que tenga que ver alguna etapa; pero es
normal que con el paso de los años cada uno tenga sexo por su
lado y que sigan manteniendo el vínculo afectivo, con un vínculo
sexual no tan exclusivo. La convivencia se trata de respetar
porque la amistad se mantiene; encontrar otro lugar es muy difícil,
por eso siguen viviendo en la misma casa, siguen compartiendo el
mismo espacio, pero cada cual tiene sexo por su cuenta, incluso
pueden llegar a compartir sexo con otra persona que uno de los
dos
introduzca
en
la
relación.”
Uno de los elementos más interesantes recogidos en la muestra
graffitera tiene que ver con la identidad pública basada en la
sexualidad y los derechos de los homosexuales. Se trata de
graffitis inscritos en una dimensión dialógica, participativa e
interactiva a un nivel menos primario y en la que se insertan
escritores de orientación sexual diversa. Aunque el diálogo y la
discusión política se circunscriba a cuatro paredes, a miembros de
la comunidad de escritores y a lectores asiduos o potenciales,
constituye una práctica cultural alternativa, imposible de
controlar, que subvierte de alguna manera las estructuras de poder
tradicionales que han desplazado a estos grupos al ostracismo, a
la ilegalidad y a la subcultura, anulando las discusiones públicas
76
ACHAB
en
torno
a
esta
problemática.
A mensajes de este tipo generalmente se les presta atención;
algunos “escritores” los comentan, invitando a su vez a otros al
debate y al diálogo. “¡Viva la Comunidad gay de Cuba!”, exclama
eufórico alguien con inmensas letras azules en el baño del Pío Pío.
Debajo, otro, escéptico, disiente, le replica: “¿Qué comunidad?”
Este diálogo es sumamente interesante y merece una reflexión.
Desde que comencé a estudiar el lugar pude constatar que este
desempeñaba un papel importante en el establecimiento de redes
de intercambios sexuales marginales y que se insertaba en lo que
he conceptualizado como ambiente homoerótico habanero; es
decir, la dimensión espacio-temporal en la que se reúnen o
interactúan individuos no sólo identificados con la
homosexualidad, espacios de diversidad sexual y cultural, no
excluyentes por razones de orientaciones o identidades sexuales,
-aunque hay cierta parte de eso-, donde tienen lugar procesos
culturales y en los que se comparten códigos lingüísticos,
estéticos y se establecen redes de amigos; un ambiente
fundamentalmente nocturno, informal, inestable, itinerante, que
se reconfigura y se desplaza constantemente por el mapa de la
ciudad. La idea de ambiente, a diferencia del término comunidad,
que todavía hoy muchos se empeñan en defender, ofrece una idea
más precisa de negociaciones que se producen entre estos grupos
y las instituciones estatales por lograr que se creen espacios de
socialización, aunque no posean una conciencia colectiva. La
noción de ambiente se adecua más al modo subcultural y
periférico
en
el
que
se
desenvuelven.57
Otro de los “escritores” se insertó en el debate para impugnar el
contenido de los textos. En su mensaje reclama: “No escriban
más tonterías. Por culpa de gente como ustedes todo se nos pone
malo. Gracias.” Tal vez, pensaría que los graffitis y la manera
descarnada en que se expresan refuerzan la imagen devaluada y
distorsionada que tiene la sociedad respecto de los homosexuales,
algo de lo que no estoy muy seguro. Este graffiti está estructurado
sobre la base de la persuasión; se emplea para ello un argumento
pragmático, relacionado con las consecuencias no deseadas que
tales mensajes podrían ocasionar y está encaminado a la
movilización del miedo a los probables efectos. Aunque el
hablante participa de las prácticas y los intercambios, no comparte
el discurso base del contexto. En su pronunciamiento se aprecia
una ruptura, un distanciamiento respecto del grupo al que se
refiere: “por culpa de gente como ustedes”; el hablante reafirma
su posición frente a la dinámica contextual y la lógica escritural
de los otros, a quienes representa negativamente al tiempo que los
responsabiliza -“todo se nos pone malo”- de la discriminación y
las sanciones sociales normativas, descubriendo al mismo tiempo
su
propia
ideología.
En el baño de la Biblioteca Central de la Universidad de La
Habana, tuve acceso a una intensa discusión graffitera que
comenzó con un llamado a la tolerancia hacia los homosexuales
por parte de un “escritor”, que apuntó: “Esto es para los que no
son homosexuales. Miren a la homosexualidad; pero la parte
buena de ella. Piensa que ellos pueden ser tu amigo y tener la
mejor de las relaciones basada en el respeto.” Aunque la intención
y los reclamos del hablante son válidos no sé cómo se puede
delimitar de manera categórica la homosexualidad en partes
buenas o malas. En este discurso, en que la redacción deja mucho
que desear para alguien que se mueve en círculos universitarios,
está implícita la idea de la abyección y la anormalidad de la
homosexualidad respecto de la heterosexualidad, lo que sigue
reforzando los abismos culturales entre ambas categorías.
Este escritor fue interpelado y rechazado por otros dos escribanos.
Uno de ellos fue muy escueto y manifestó: “Sí. Un imbécil.” El
otro mensaje desde la misma tónica enunciaba: “O un maricón.
Respeto quizás, comprensión, nunca.” Resulta paradójico que
afirmaciones como estas, de rechazo y homofobia, no aparecieron
en baños ubicados en lugares no “letrados”, con acceso a personas
más heterogéneas y de diversa índole, sino en la Pontificia y Real
Universidad de San Jerónimo de La Habana, donde se supone
haya una mayor cultura de debate en ese sentido. Sin embargo, los
mensajes antes referidos recibieron la respuesta de otros
escritores contestatarios y de una posición más abierta, como este
que escribió lo siguiente: “De mentes estrechas como la suya han
surgido las personas que más daño le han hecho al mundo y
cuidado, detrás de la intransigencia puede que se esconda tu
homosexualidad.” El debate continuó más abajo con los textos de
otros escritores. Uno de ellos exclamó indignado: “¡Partía de
maricones!” y otro que manifestaba: “Lucho por la normalidad.
No pueden tener ningún derecho por desviados.”
El deseo heterosexualizado -señala Judith Butler- se instituye en
una matriz de inteligibilidad cultural, en la se producen
oposiciones binarias y asimétricas entre lo femenino y lo
masculino, en la que estos conceptos se expresan como ideales o
atributos identitarios: “hombre y mujer”. Así, aquellas identidades
en que el género no es consecuencia manifiesta del sexo y otras
en las que las prácticas del deseo no son consecuencia ni del sexo
ni del género, apuntan a una incoherencia o discontinuidad de los
epistemas culturales que regulan y moldean la sexualidad, son
desterradas de ese campo de accesibilidad “humana”,
consideradas como zonas abyectas, impensables58, anormales.
El último intento.
Como había apuntado en páginas anteriores, el baño no es sólo su
límite geo-topográfico o arqui-tectónico, sino que es un punto en
la confluencia y despliegue de redes de sociabilidad y trayectos
mucho más complejos. Las travesías urbanas de estos sujetos se
interceptan con otros lugares y sitios de encuentro más ocultos y
con otras dinámicas interaccionales. Se trata de lugares al aire
libre propicios para intercambios sexuales aún más clandestinos
que en los baños públicos. Me refiero a enclaves ubicados en el
municipio Plaza de la Revolución, en la periferia de varios
hospitales y en áreas comprendidas en las calles G y Zapata. Estos
lugares han sido unificados a través del uso de metáforas y
analogías; en la actualidad se les conoce como “El último
intento”. El término, percepción ordinaria y consensuada, le
concede al espacio una connotación simbólica reconocida por los
usuarios de estas dinámicas culturales. Lakoff y Johnson ponen
77
ACHAB
énfasis en la centralidad de la metáfora para destacar aspectos
puntuales de nuestra experiencia cotidiana, como crea-dora de
realidades y guía para la acción diaria. Las metáforas actúan como
conceptos, modelos perceptivos, y generan homología entre el
pensamien-to y la realidad, de ahí la importancia de su estudio
sistemático59. “El último intento” alude al fin de itinerarios y
trayectos de índole sexual. Ángel Luis lo describe mucho mejor
que
yo;
en
ese
sentido
manifestó:
“Es la manera que tenemos para que se sepa que si sales un día, o
si estás atacao y no encuentras nada, si no has ligado a nadie,
puedes pasar por esos lugares y de seguro vas encontrar a alguien
con quien hacer algo. Hay quien sale de una fiesta y va por ahí,
otros son punto fijo, otros los visitan durante un tiempo y después
se ausentan, eso depende. Yo comencé a ir a estos lugares en el
2003, en el 2004 tuve una relación y no fui más hasta hace poco
en que me separé de mi pareja para actualizar mi agenda sexual.”
Todos los entrevistados que frecuentan “El último intento”, así
como la rotonda del hospital clínico-quirúrgico de la calle 26; los
alrededores de la Ciudad Deportiva (Avenida Boyeros), la Quinta
de los Molinos (Ave. Salvador Allende desde Infanta hasta
Zapata), el parque de la Escuela Normal (Infanta y Amenidad), la
Playa del Chivo (salida del túnel de La Habana), entre otros,
coinciden en que en estos lugares, aunque se vive en la catarsis
sexual, las sociabilidades tienen un carácter menos impersonal
que en los baños públicos. William apunta en ese sentido:
“Aunque es muy difícil que allí se pueda encontrar afecto
humano, porque esos lugares son de encuentro ocasional y tan
pronto como se traspasa los límites geográficos de esa zona, nadie
te conoce, no te saludan, rehuyen la vista. La sexualidad se vive
de ese perímetro hacia dentro. Sin embargo, hay quien se
encuentra con un amigo, comparten vivencias; conversan gran
parte de la madrugada. De mis relaciones en esos lugares han
s u rgido muchas amistades con gente maravillosa que he
encontrado allí de diferentes clases y profesiones. Me han
enamorado con textos bíblicos: ‘Quien es fiel en lo poco es fiel en
lo mucho’ y yo me ilusioné muchísimo; pero la película es muy
diferente en la vida real. Hay quien quiere compartir su teléfono
conmigo y extender por un tiempo esos encuentros; pero muchos
se resisten a establecer una relación más personal.”
El testimonio de Enrique ofrece otros matices de las dinámicas y
las lógicas interaccionales de esos sitios. A continuación
reproduzco
fragmentos
de
su
testimonio:
“Todos los hombres que están allí están para eso y el que no, pasa
por allí sin mirar para los lados; el que se detiene es el que está
para eso y se deja intervenir. ¿Qué volá asere? Si estamos allí es
por algo. Algunos fingen que están orinando; pero en realidad
están exhibiendo sus genitales para que otros evalúen su oferta.
Muchas veces no se habla, no se interactúa emocionalmente,
incluso hay alguno al que le están mamando el rabo y ese ni
siquiera lo mira, simplemente vira la cara, muchas veces no se
dice nada, cuando se habla es de un modo impersonal, anónimo,
hasta los nombres se cambian, yo, el nombre que utilizo en esos
lugares es Alejandro. El placer mutuo no importa, es una lucha
entre todos por eyacular primero; porque saben que después que
ha sucedido el otro se va a retirar sin decir nada. No se tocan, no
se hablan, o a veces como me ha sucedido, que me dicen:
‘Mámala; pero no me toques, no me toques échate pá allá’.”
Algunos de los informantes de este trabajo coinciden en que los
clásicos roles sexuales se difuminan en estos sitios. Héctor piensa
que “el que marca la diferencia desde el inicio es un principiante
en estas cosas. Para el que lleva algún tiempo en esta historia,
todo es circunstancial, dependiendo de la persona con quien se
interactúe. La gente en esos lugares comparte sin complicarse
tanto la vida y empiezan a hacer de todo, a descargarle a todo.
Hay quien sólo consiente una masturbación mutua y hasta allí
llega.” Sin embargo, en los testimonios de los entrevistados
resulta recurrente la presencia de los llamados bugarrones, los
cuales son descritos como “hombres que fuera de allí tienen una
vida heterosexual y que van allí para descargar; pero que no
quieren percatarse, no quieren reconocer que lo están haciendo,
muchos vienen borrachos, como una auto-justificación, otros
tienen sexo y les da por agredir después al otro, eso es muy
común, personas con una sexualidad reprimida y que la
identifican
con
la
agresión.”
Al parecer, estos lugares son frecuentados por algunos sujetos que
pretenden intercambios sexuales para luego asaltar y robar a los
homosexuales. Los entrevistados subrayan la ausencia de
solidaridad en estos parajes. Al respecto comenta William: “Si le
dan un machetazo a alguien nadie se mete, se forma la corredera
de hombres en cueros o con los pantalones por la rodilla. Son
asaltantes, tienen sexo para engatusar a la víctima a la que van a
atacar, terminan y les quitan las cosas de valor y van tumbando.”
Ernesto
me
relató
su
experiencia:
Yo ni loco voy a meterme en un monte de esos. Un día yo estaba
en mi casa estaba en fase… con tremenda atacadera, le pedí a un
amigo que me dijera dónde podía encontrar algo y me llevó por
los alrededores del hospital Calixto García, cuando estábamos
tallando con un pepillito, un chiquito lindísimo, veo que cerca de
allí había dos tipos que se veía que no estaban pa' eso y me fui
rápido. Me di cuenta que ahí hay que ir en short, como si fueras
al campismo, porque ya yo me veía con la puñalada en la espalda,
esos tipos no tenían cara de bugarrones, sino de asesinos.
Según algunos sujetos, en estos lugares se despliegan disímiles
sentimientos, algunos además de apuntar a la ausencia de
solidaridad, señalan la envidia como un sentimiento característico
de estas sociabilidades. En ese sentido, dice William: “Hay
maricones que son trágicos, te ven conversando con un tipo y yo
no sé si es por envidia o qué y te tratan de espantar al punto
diciendo
que
hay
policía
o
algún
asaltante.”
Es significativa –refieren los entrevistados- la cantidad de
personas que buscan participar como espectadores del
intercambio sexual entre dos varones en esos lugares. También
señalan que es frecuente que parejas de homosexuales busquen a
terceros para tener sexo. Durante el trabajo de campo pude
constatar que sobre todo los fines de semana, algunos automóviles
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se detienen, accionan el claxon o hacen señas con las luces,
buscando
jóvenes
dispuestos
a
esos
menesteres.
Los códigos lingüísticos que se utilizan en estos lugares son
diversos, y los registros tienen que ver con la procedencia social
o el acervo cultural de los sujetos interactuantes. Entre los
registros más cercanos a lo popular se destacan “matar jugada”,
“descargar”, “matizar” o, simplemente, refiere William: “Como
me dijo un médico en cierta ocasión: ‘Salí de guardia ahora,
¿quieres hacer algo?’” Estos códigos están acompañados muchas
veces de interjecciones y de elementos extraverbales o
paralingüísticos, como señas chiflidos para llamar la atención.
A modo de conclusiones.
Hace aproximadamente veinte años, las relaciones socio/sexo/
afectivas comenzaron a cambiar, el Sida trastocó los modos
relacionales que los seres humanos habían diseñado hasta
entonces. Esta epidemia le comenzó a imprimir a la vida terrenal
altas dosis de muerte, inseguridad, prejuicios y mitos. Numerosas
campañas mediáticas han transcurrido desde que apareciera el
primer caso, dirigidas al inicio, exclusivamente hacia hombres
homosexuales y prostitutas. Sin embargo, todavía la concepción
de estas no ha variado sustancialmente desde entonces. Las
campañas y las políticas públicas que se implementan siguen
siendo conservadoras, mojigatas y heterosexistas en extremo;
continúan desconociendo la proyección socio-sexual de otros
grupos, lo que impide la instrumentación de acciones
encaminadas a su información y protección. Se trata de sectores
que tienen una existencia sexual más compleja y matizada de lo
que estamos acostumbrados a pensar, con rasgos y tendencias a
una
bisexualidad
no
asumida
o
concientizada.
Algunos estudios en Cuba, indican que el Sida tiene más
incidencia en sectores como estos y que los especialistas han dado
en llamar HSH, o sea, hombres que tienen sexo con otros hombres
y que representan el 65% del total de las personas diagnosticadas
y
el
83,
4
%
del
total
de
hombres.60
En los baños a los que asistí durante este inusitado trabajo de
campo, no encontré rastro alguno de sexo protegido, como
condones o graffitis que reflexionaran en torno al Sida e
Infecciones de Transmisión Sexual, tampoco tabloides o
propaganda de orientación y prevención, lo que hace a este tipo
de lugares más vulnerables al contagio y a la propagación de
enfermedades. En cierta ocasión hablando con un joven médico
que colabora con el Centro Nacional de Prevención de ITS y VIH
(Sida), lo interpelé sobre la necesidad de hacer un trabajo más
profundo en el diseño de estrategias para la prevención, y uno de
los argumentos que esgrimió tenía que ver con el costo de las
máquinas expendedoras de condones. Al respecto me comentaba:
“Las máquinas son muy caras, y tú sabes cómo es eso, les pones
una en el baño del Quijote, por ejemplo, y al mes ya no sirve;
porque le entraron a patadas o qué se yo.” Sólo le pude preguntar,
sin poder evitar la ironía y el sarcasmo: “¿No es más alto el costo
humano, simbólico y económico por conceptos de salud, de
atención médica y de importación de retrovirales que el de una
m
á
q
u
i
n
a
?
”
Paradójicamente, muchos de los entrevistados indican que en los
lugares como “El último intento” el sexo es más seguro aunque el
contexto sea más peligroso. En ese sentido, me aclara William:
“La mayoría de la gente lleva condones allí, los que no los llevan
son los que sólo consienten una masturbación mutua. La
conciencia en la prevención de VIH e ITS está bien extendida
entre la gente que van a esos lugares, además muchos de ellos son
enfermeros, médicos y personal de la salud, así que la prevención
–se
ríe
con
sornaestá
garantizada.”
Otro de los elementos que ocupó mi atención en los baños
frecuentados fue la escasa presencia de escritura femenina y de
narrativas de corte heterosexual. En los exclusivos “para damas”
no encontré siquiera un trazo que develaran narrativas análogas a
las encontradas en los baños de “caballeros”; en los baños unisex,
es decir, aquellos compartidos por ambos, resulta difícil
aventurarse a catalogar algún trazo que descubriera a una mujer.
Al parecer, la escritura en baños proviene de necesidades y
prácticas
homoeróticas
de
varones.
Estos grupos tienen que reconfigurar sus prácticas en dependencia
del contexto y de nue-vas condiciones socioculturales a las que la
red grupal tiene que adaptarse para sobrevivir. El traslado y la
usurpación de otro espacio a la ciudad, fue una de las mutaciones
que la red grupal asidua al baño del Pío Pío tuvo que experimentar
meses después de mis incursiones, porque el baño fue clausurado:
un muro sepultó tanto los graffiti como las prácticas en ese lugar.
Quede
este
trabajo
para
salvarlos
del
olvido.
Descentralizar nuestra mirada constituye al mismo tiempo un
requisito metodológico, además de un fin político. Vivimos en un
mundo que no hemos aprendido a mirar aún, donde se siguen
reforzando, tristemente, otredades y abismos culturales. La
sexualidad, en sus diversas expresiones, no está permeada de un
pecado “original” patológico como los nuevos conservadurismos
intentan demostrar para reforzar mediante moralismos
trasnochados, lo natural, lo normal, lo correcto.
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Note
* Este texto forma parte de un libro que estoy preparando sobre
escritura urbana e ideología de género.
1 Marc Augé. Los “no lugares”, espacios del anonimato. Una
antropología de la sobremodernidad, Editorial Gedisa, S.A.,
Barcelona, 2000, p. 57-58
2 Ibídem, p. 72.
3 Armando Silva Téllez. Una ciudad imaginada. Graffiti,
expresión urbana., Universidad Nacional de Colombia, Bogotá,
1986.
4 Entrevista a Pedro Juan Gutiérrez en su casa el viernes 28 de
julio de 2006.
5 Pedro Juan Gutiérrez. “Verdad y mentira en la literatura”. En:
Encuentro de la cultura cubana , No 26/ 27, Asociación
Encuentro de la cultura cubana, Madrid, otoño- invierno de
2002, 2003, pp.276-281
6 Simone Denter y Karoline Bahrs. “Entrevista con Mirtha
Yañez.” En: [C. A.] Aspectos del campo cultural cubano. Una
excursión a La Habana, Zentralinstitut Lateinamerika-Institut
(LAI), Berlín, 2003, p. 231. El subrayado es mío.
7 Noemí Madero Domínguez. “Entrevista a Leonardo Padura
Fuentes”. Este texto está aún inédito.
8 Ídem.
9 Paul Ricoeur. “La función hermeneústica del distanciamiento”.
Título original: « La fonction herméneutique de la
distanciation», en Du Texte à l’action. Essais d’herméneutique,
II, París, Seuil, 1986, págs. 101–117. Publicado antes en F.
Bovon et G. Rouiller (eds.), Exegesis. Problèmes de méthode et
exercises de lecture. Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1975,
págs. 201–215.
10 Ídem.
11 E. Coseriu. “Tesis sobre el tema “Lenguaje y poesía”. En: El
hombre y su lenguaje, Gredos, Madrid, 1977. Tomado de Joan
Garí. La conversación mural. Ensayo para la lectura del graffiti,
Editorial Fundesco, Madrid, 1995, p.143.
12 Teun Van Dijk, “Some problems of Generative Poetics”. En:
Poetics, No. 2, 1971, p. 26. Tomado de Joan Garí, Op. cit,
p.144.
13 Joan Garí. La conversación mural. Ensayo para la lectura
del graffiti, Editorial Fundesco, Madrid, 1995, p.144.
14 Ídem.
15 Teun Van Dijk. “The pragmatics of Literary
Communication”. En: Studies in the Pragmatic of Discourse,
Mouton, La Haya, 1981. Tomado de Joan Garí, Op. cit, p. 149.
16 Joan Garí, Op. cit, p. 149.
17 Ibidem.
18 Margarita Mateo Palmer. Ella escribía poscrítica. Casa
Editora Abril, La Habana, 1995, p.22.
18 Joan Garí, Op. cit, p.153.
20 Teun A. Van Dijk. (comp.) El discurso como interacción
social. Estudios sobre el discurso II. Una introducción
multidisciplinaria. Editorial Gedisa, Barcelona, 2001, p. 22.
21 Ídem.
22 Severo Sarduy. La simulación, Monte Ávila Editores,
Caracas, 1982, p.76.
23 Ibídem, p.123.
24 Entrevista a William el 25 de agosto de 2006 en casa de mi
amigo Ernesto. Agradezco a ambos la ayuda que me brindaron
durante el trabajo de campo y especialmente a Ernesto González
por sus esfuerzos conciliatorios entre su grupo de amigos y
conocidos familiarizados con estas prácticas, para que
accedieran a ser entrevistados.
25 Teun A. Van Dijk Op. cit., p. 58.
26 Ídem.
27 Ramfis Ayús Reyes. El habla en situación: conversaciones y
pasiones. La vida social en un mercado, México. D.F, Consejo
Nacional para la Cultura y las Artes, 2005, pp. 62-63. Este libro
resulta muy interesante para la temática de la sociabilidad. El
autor, desde un enfoque transdisciplinar, hace un balance
exhaustivo de las corrientes teóricas que abordan este tópico
para encauzar su trabajo epistémico e investigativo sobre los
mercados de México. Desafortunadamente, Ramfis, a quien tuve
la oportunidad de conocer e intercambiar algunas ideas, murió
en México en la primavera de este año.
28 Peter Berger, Thomas Luckman, La construcción de la social
de la realidad, Editorial Amorrortu, Buenos Aires, 1994, p.175.
Citado por Ramfis Ayús, Op. cit., p. 57.
29 Ibídem., p. 33.
30 Ibídem., p. 84.
31 J. M. Barbero. “Mediaciones urbanas y nuevos escenarios de
comunicación”. En: Sociedad, Buenos Aires, no. 5, octubre de
1995, pp. 35-47. También puede verse: Michel Maffesoli. El
tiempo de las tribus: el declive del individualismo en la
sociedad de masas. Editorial Icaria, Barcelona, 1990.
32 Ídem.
33 J. M. Barbero. «Mediaciones urbanas y nuevos escenarios de
comunicación», en Sociedad, Buenos Aires, no. 5, octubre de
1995, pp. 35-47.
34 Para más información puede verse: Roger Chartier. “Ocio y
sociabilidad: la lectura en voz alta en la Europa moderna.” En:
El mundo como representación. Historia cultural: entre práctica
y representación, Editorial Gedisa, Barcelona, 1996.
35 Ramfis Ayús. Op. cit., p.72.
36 Ídem.
37 Pierre Bordieu. ¿Qué significa hablar? Economía de los
intercambios lingüísticos, Editorial Akal, Madrid, 1985, p.11.
38 Este concepto fue esbozado por psicólogo social
construccionista Kenneth J. Gergen, Realidades y relaciones.
Aproximaciones a la construcción social, Editorial Paidós,
Barcelona, 1996, p. 269.
39 Para más información puede verse: Roberto Cardoso de
Oliveira. El trabajo del antropólogo, Editorial Unesp, Madrid,
1998, pp. 17-59.
40 Entrevista a Oscar, barman de la cafetería del Pío Pío, el
miércoles 28 de septiembre de 2005.
41 Guillermo Núñez Noriega. “Reconociendo los placeres,
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desconstruyendo las identidades. Antropología, patriarcado y
homoerotismos en México.” En: Desacatos. Revista de
antropología social., CIESAS, México, DF, No 6, primaveraverano 2001, pp. 22-23.
42 Entrevista a Paco en el baño del Quijote, el miércoles 28 de
septiembre de 2005.
43 Ramfis Ayús. Op. cit., p.223.
44 Alfred Schütz. El problema de la realidad social, Editorial
Amorrortu, Buenos Aires, 1995, p. 46.
45 Ídem. También puede verse Ramfis Ayús. Op. cit., p.266.
46 Van Dijk Estudios sobre el discurso II. Una introducción
multidisciplinaria. Editorial Gedisa, Barcelona, 2001, p.41.
47 Estos graffiti fueron registrados en el baño del Pío Pío sito
en la Calle L e/ 15 y 17, Vedado, Ciudad de La Habana el
miércoles 28 de septiembre de 2005. Reproduzco estos
respetando las características lingüísticas -incluyendo lo relativo
a los registros- de los emisores.
48 El término es del antropólogo Guillermo Núñez Noriega.
49 Didier Eribon. Reflexiones sobre la cuestión gay, Barcelona,
Editorial Anagrama, 2001, p. 160.
50 Eve Kosofsky Sedgwick. Epistemology of the Closet,
Berkeley y Los Ángeles, University of California Press, 1990,
pp.68-70. (Epistemología del armario, Ediciones Tempestad,
1998.)
51 Ramfis Ayús, Op. cit., p.84.
52 Ídem.
53 Ídem.
54 María Teresa Sierra, Discurso, cultura y poder. El ejercicio
de la autoridad en los pueblos hñähñús del Valle del Mezquital,
Gobierno del Estado de Hidalgo/ CIESAS, 1992, pp. 89-90.
Citado en Ramfis Ayús, Op. cit., p.84.
55 J. Martín Barbero. “Prácticas de comunicación en la cultura
popular.” En: Máximo Simpson Grimberg. Comunicación
alternativa y cambio social, Editorial UNAM, México, 1981,
pp. 237-251.
56 El concepto “códigos peniles” lo tomo de Peter Beattie.
“Códigos ‘peniles’ antagónicos. La masculinidad moderna y la
sodomía en la milicia brasileña, 1860-1916.” En: Daniel
Balderston, Donna J. Guy (comp.). Sexo y sexualidades en
América Latina, Buenos Aires, Editorial Paidós, 1998, pp. 109139.
57 Para una descripción más detallada puede verse: Abel Sierra
Madero. Del otro lado del espejo. La sexualidad en la
construcción de la nación cubana, La Habana, Editorial de Casa
de las Américas, 2006.
58 Judith Butler, Op. cit., p.20.
59 Ramfis Ayús, Op. cit., p.209. Para más información véase:
George Lakoff y Mark Johnson. Metáforas de la vida cotidiana,
Editorial Cátedra, Amdrid, 1998.
60 Leonardo L. Chacón Acosta. “La prevención del VIH. Entre
los hombres que tienen sexo con otros hombres (HSH)”, Revista
Sexología y Sociedad, año 8, no. 20, diciembre de 2002, p. 13.
Al Bar - Cuba, 2008 - Foto di Conny Russo
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