Vita segreta delle ostriche coltivate nel mare di Taranto
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Vita segreta delle ostriche coltivate nel mare di Taranto
VITA SEGRETA DELLE OSTRICHE COLTIVATE NEL MARE DI TARANTO Oggi i servizi igienici e sanitari garantiscono la perfetta commestibilità di questi frutti di mare, squisito piatto delle ricche mense Dal quotidiano «Giornale dell’Emilia», lunedì 5 gennaio 1953 La Convenzione Rotariana che ebbe luogo a Bari ai primi di ottobre di quest’anno, si concluse con una magnifica gita a Taranto, durante la quale fu compiuta una escursione nel Mar Piccolo. Tutti si chiedevano che cosa significavano certe file di pali, più lunghi e più forti nelle testate, che a poca distanza dalla terraferma delineavano serie di specchi d’acqua rettangolari ed uniformi. Fui in grado di spiegare agli amici che quei pali delimitavano i campi di allevamento di ostriche, concessi dal Demanio, attraverso il comune di Taranto, a cooperative di ostricoltori. Spiegai anche il funzionamento di questa industria peschereccia e pensai che forse l’argomento avrebbe potuto interessare i lettori de il “Giornale dell’Emilia”. Scarso consumo Poche sere orsono, cenando in lieta compagnia in uno dei migliori ristoranti di Bologna, rividi dopo parecchio tempo Oreste l’ostricaio, caratteristico per il suo berretto di velluto rosso cremisi, col canestro di ostriche sotto il braccio e pensai al grande contrasto esistente tra i produttori di ostriche, che sono tra i più disagiati lavoratori del mare, ed il loro consumatore, considerato un ricco ghiottone che si appresta, dopo l’antipasto di ostriche, ad un pranzo luculliano. Altro contrasto esiste tra l’umanità moderna e gli uomini neolitici, i quali sulle spiagge marittime vivevano di molluschi ed in particolare modo di ostriche, i veri frutti di mare, che si raccolgono e si mangiano senza manipolazione alcuna. Sono noti i grandi ammassi di valve di conchiglie, detti Kjökkenmöddinger, attribuiti all’epoca della pietra e ritrovati in Danimarca, in Sardegna, in Portogallo, in Francia, in Irlanda ed in altri paesi di oltre Atlantico ed anche in Australia. Oggi le ostriche hanno scarso consumo, specialmente in Italia, per paura di infezioni di tifo e di altre malattie oltreché per il loro costo elevato sui mercati di consumo. Non v’ha dubbio che i molluschi eduli, ostriche e mitili o cozze, se sono stati allevati in acque inquinate da microrganismi patogeni, possono trasmettere varie malattie, come la febbre tifoidea, guaio che peraltro può accadere anche a mezzo dei più svariati cibi, specialmente verdure. I servizi di ispezione sanitaria ed igienica sono oggi talmente accurati da ritenere che ben difficilmente siano posti in commercio molluschi capaci di trasmettere malattie infettive. E bisogna, perché ciò accada, che i molluschi siano crudi, giacché la cottura è di per sé disinfettante: le ostriche, specialmente le grosse, sono ottime anche fritte o cotte sulla gratella, come si pratica per i cannelli (Solen) e le cappe sante (Pecten). Sono buone anche conservate: in Giappone le pongono in iscatole con olio, dopo averle affumicate; nel 1939, a Cleveland, ne ebbi in dono alcune scatole dalla nota e distinta artista Marta Abba e le trovai di mio pieno gradimento. Certo che sono più gustose se si mangiano vive e crude, con qualche goccia di limone. Oggi le ostriche, particolarmente quelle di Taranto, sono sottoposte ad un triplice processo di depurazione prima di consentirne il commercio. Innanzi tutto questi molluschi bivalvi, tenuti per 6-12 ore all’asciutto, appena vengono rimessi in acqua di mare aprono le valve e 1 cominciano a fare circolare l’acqua nella conchiglia in modo che tutti gli organi del mollusco vengono lavati e detersi. Questo trattamento viene ripetuto tre volte. Inoltre gli amebociti, ossia le cellule mobili capaci di captare e digerire microrganismi, sono tanto numerosi ed attivi nei molluschi che li producono da determinare una vera e propria autodepurazione. Si tenga conto altresì che le ostriche pronte per la vendita vengono stabulate per circa un mese in località lontane dai centri di allevamento e dove l’acqua è batteriologicamente pura. Infine per evitare che microrganismi patogeni eventualmente annidati fra le lamelle della conchiglia possano essere introdotti entro le valve stesse dall’ostricaio, nell’atto in cui esso taglia col coltello il muscolo adduttore delle valve, ciò che ne provoca l’apertura, un abbondante lavaggio esterno con acqua ozonizzata, prima di procedere alla spedizione delle ostriche, ne disinfetta l’esterno. Sviluppo delle larve Le ostriche di Taranto sono ermafrodite e prodigiosamente feconde, generando fino a due milioni ed oltre di piccole larve, che riempiono da principio la cavità della conchiglia. Però il numero di quelle che giungono a fissarsi, trasformandosi in una minuscola ostrichina, è minimo: qualche osservatore asserisce che non se ne salvino più di 10 e talvolta anche una sola per ogni milione. In primo luogo, l’ostrica stessa ingerisce quantità non indifferenti di larve che, se anche non vengono digerite, perdono ogni loro vitalità. Numerosi poi sono i predatori di varie specie che, fissi sulle valve, catturano coi tentacoli le larve e quelli che stanno all’agguato intorno alle ostriche, per ingoiarne centinaia quando escono dal materno ricovero. Finalmente, nel Mar Piccolo, la grande maggioranza di quelle che sono sfuggite alla suddetta carneficina, muore quando sta per raggiungere il fondo a causa dell’idrogeno solforato che si sviluppa dal deposito di materiali luridi provenienti dalle fognature, dalle navi e dai cantieri industriali. La vita libera delle larve di ostrica ha una durata di 6-14 giorni: se durante questo periodo esse trovano un luogo favorevole su cui attaccarsi, la vita avvenire sarà abbastanza facile, diversamente le larvettine calano a fondo e muoiono. In questo periodo si verifica uno dei capisaldi della ostricoltura tarentina, consistente nell’affondare nel Mar Grande, dove l’acqua è pura e dove esistono qua e là piccoli branchi di ostriche sommerse riproduttrici, fascine defogliate di lentisco, che funzionano da collettori. Le larve vi si fissano mediante uno speciale apparato; perdono gli organi del nuoto ed il loro mantello segrega immediatamente la conchiglia calcarea. Quando gli ostricari ritengono che le fascine siano abbastanza cariche di ostriche, le pongono sulle barche e le portano alla spiaggia. Le fascine vengono disfatte e ciascun ramo è tagliato in pezzetti lunghi una ventina di cm, utilizzabili se in ciascuno di essi si trovano parecchie ostrichette. Si chiamano “zipoli” e vengono inseriti in tratti di corda vegetale della lunghezza di 7-8 metri, detti “pergolari” e questi sono alla loro volta inseriti in lunghe corde tese orizzontalmente fra i pali di castagno, di cui ho parlato in principio. Il campo di allevamento è dunque costituito da parecchie di tali corde che formano nel loro insieme la cosiddetta “sciaia”. La distanza fra corda e corda è tale da consentire agli ostricari di passarvi con una barca, sulla quale si traggono i pergolari per provvedere alla loro pulizia, al diradamento, alla raccolta delle ostriche pronte per la vendita, alla loro disinfestazione da parassiti o predatori. Queste lavorazioni in barca sono consentite dallo scarso dislivello fra 2 l’alta e la bassa marea, per cui i parchi di allevamento sono sempre sott’acqua e le corde che sostengono i pergolari abbastanza distanti dal fondo. Nell’Oceano Atlantico invece, dove il dislivello fra l’alta e la bassa marea è forte e dove circa un chilometro di spiaggia rimane giornalmente all’asciutto per qualche ora, si usano come collettori delle tegole che vengono adagiate sulla sabbia e gli ostricoltori compiono le loro operazioni camminando a piedi nudi sul fondo dei loro campi d’ostriche. Nei ristoranti di Parigi vengono sempre offerte due qualità di ostriche: le marennes, più saporite e più care, e le portoghesi, meno saporite, più grandi ed a molto miglior mercato. Solo le prime sono vere ostriche (Ostrea edulis) come quelle di Taranto; le altre appartengono al genere Griphaea (G. angulata e G. cochlearis), specie più forte in tutti i sensi, a sessi separati, che tende a soppiantare la prima perché si fissa e cresce più rapidamente, togliendo all’altra lo spazio necessario al proprio sviluppo. La portoghese, per quanto io ne so, non ha ancora invaso il Mediterraneo; se la sua migrazione dovesse svolgersi verso questa via, sarebbe forse l’ultimo colpo alla disagiata e pur tanto interessante ostricoltura tarentina ed a quella che, sempre in Italia, con qualche caratteristica propria, si pratica nel Lago Fusaro, alla Spezia, nella Laguna Veneta, nel Golfo di Trieste ed in qualche altra località. ALESSANDRO GHIGI 3