politecnico di milano la forza della rete

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politecnico di milano la forza della rete
POLITECNICO DI MILANO
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA E SOCIETÀ
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN
PIANIFICAZIONE URBANA E POLITICHE TERRITORIALI
TESI DI LAUREA
LA FORZA DELLA RETE
Per un’intercomunalità in Emilia-Romagna
dopo la dissoluzione delle Province
Relatore:
Chiar.mo Prof. Roberto Camagni
Correlatore:
Chiar.ma Prof.sa Maria Cristina Gibelli
Tesi di laurea di:
Paolo Dallasta
matricola n°762407
ANNO ACCADEMICO 2011/2012
Alla terra Bassa
Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono
in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che
raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è
onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone…
(Il Barone Rampante, Italo Calvino)
I
LA FORZA DELLA RETE
Per un’intercomunalità in Emilia-Romagna dopo la dissoluzione delle Province
-- INDICE GENERALE -INTRODUZIONE
1
CAPITOLO 1 DALLA
RIFORMA DELLE
PROVINCE
NUOVI SPUNTI DI RIFLESSIONE PER LA
PIANIFICAZIONE D’AREA VASTA
6
1.1 Breve storia delle Province: dall’Unità d’Italia alle riforme dei primi anni
2000
7
1.1.1 Le Province durante il Regno d’Italia
7
1.1.2 Dal dibattito dell’Assemblea Costituente alle riforme d’inizio anni ’90
9
1.1.3 Dalla Riforma Bassanini alla Riforma del Titolo V della Costituzione
12
1.1.4 La pianificazione territoriale d’area vasta dopo le riforme
15
1.2 Il dibattito sull’abolizione delle Province dal 2008 ad oggi
18
1.2.1 Dalla campagna elettorale per le politiche del 2008 alle prime proposte di legge
19
1.2.2 Il biennio 2010-2011, la mancata occasione della “Carta delle autonomie
locali”e i tentativi falliti di razionalizzazione
22
1.2.3 Il Governo Monti: dal “Salva Italia” alla “Spending review”
25
1.3 Le valutazioni degli effetti della riforma delle Province
31
1.3.1 Studi e valutazioni precedenti alle riforme del Governo Monti
31
1.3.2 Studi e valutazioni dopo i decreti “Salva Italia” e “Spending review”
33
1.4 Considerazioni di sintesi
CAPITOLO 2 LA
COOPERAZIONE INTERCOMUNALE IN
38
EUROPA,
UN’ALTERNATIVA ALL ’ENTE
INTERMEDIO
41
2.1 Storia e caratteristiche della cooperazione intercomunale in Europa
41
2.2 L’intercomunalità in Francia
51
2.2.1 La situazione prima della legge del 1999
51
2.2.2 La legge Chevènement del 1999
55
2.2.3 La riforma delle collettività territoriali del 2010
63
2.2.4 Lo stato attuale degli EPCI
68
2.2.5 Il ruolo dello SCOT e la pianificazione del territorio
77
2.3 Considerazioni di sintesi
81
II
CAPITOLO 3 L’INTERCOMUNALITÀ IN ITALIA: LE UNIONI DEI COMUNI
83
3.1 Le Unioni dei Comuni, normativa e struttura
84
3.1.1 L’evoluzione normativa dal 1990 ad oggi
84
3.1.3 Il profilo gestionale, amministrativo e funzionale delle Unioni dei Comuni
3.2 L’intercomunalità in Emilia-Romagna
103
108
3.2.1 Il processo legislativo
109
3.2.2 I numeri e la situazione dell’intercomunalità in Emilia-Romagna
121
3.2.3 Il progetto di legge per il riordino territoriale dopo la razionalizzazione delle
Province
CAPITOLO 4 V ERSO
133
UN
PIANO
TERRITORIALE
DI
COERENZA
INTERCOMUNALE
140
4.1 L’intercomunalità come dimensione pertinente per il coordinamento
territoriale
4.1.1 Vantaggi e svantaggi della dimensione intercomunale
141
141
4.1.2 L’intercomunalità e il governo del territorio: il problema del consumo di suolo
145
4.2 L’Unione dei Comuni Bassa reggiana come caso studio
158
4.2.1 Caratteristiche del territorio
158
4.2.2 Caratteristiche dell’ente
163
4.2.3 Le strategie di pianificazione in atto
165
4.3 Scenari alternativi per la pianificazione territoriale d’area vasta in EmiliaRomagna
177
4.3.1 Lo scenario tendenziale: il PSC intercomunale
178
4.3.2 Lo scenario desiderabile: il piano territoriale di coerenza intercomunale
182
CONCLUSIONI
191
ALLEGATI
196
1. Estratti delle interviste realizzate
196
2. Tavole dei piani provinciali e regionali
211
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
213
RIFERIMENTI LEGISLATIVI
221
1. Leggi e proposte di legge dello Stato italiano
221
2. Leggi e proposte di legge dello Stato francese
224
III
3. Leggi e proposte di legge della Regione Emilia-Romagna
RIFERIMENTI PROGETTUALI
225
226
-- INDICE DELLE FIGURE -Figura 1.1 - I confini delle nuove Province
30
Figura 2.1 - Mappa della diffusione degli EPCI in Francia
69
Figura 2.2 - Mappa degli EPCI per classe demografica
73
Figura 2.3 - Mappa dei Comuni isolati
77
Figura 3.1 - La mappa delle Unioni dei Comuni in Italia dal 2009 al 2012
93
Figura 3.2 - Mappa dell’associazionismo comunale in Emilia-Romagna
124
Figura 3.3 - Distribuzione dei contributi per gestioni associate di servizi e funzioni
128
Figura 3.4 - La pianificazione associata in Emilia-Romagna
130
Figura 3.5 - La pianificazione intercomunale in Emilia-Romagna
131
Figura 3.6 - Mappe degli esercizi associati di funzioni in Emilia-Romagna
131
Figura 3.7 - Sistemi locali del lavoro in Emilia-Romagna
132
Figura 3.8 - Distretti socio – sanitari in Emilia-Romagna
133
Figura 4.1 - Incidenza percentuale delle superfici edificate su base comunale
149
Figura 4.2 - Variazione percentuale delle superfici edificate su base comunale
(2001-2011)
150
Figura 4.3 - L’Unione dei Comuni Bassa Reggiana nel contesto medio-padano 159
Figura 4.4 - Indice di territorio urbanizzato in Emilia-Romagna (2003)
160
Figura 4.5 - Distribuzione della popolazione (2005) e variazione percentuale (19712005)
160
Figura 4.6 - Variazione della frammentazione territoriale in Emilia-Romagna (19762003)
161
IV
-- INDICE DELLE TABELLE -Tabella 2.1 - La composizione degli accordi di cooperazione
45
Tabella 2.2 - Funzioni degli accordi di cooperazione
46
Tabella 2.3 - Lo scopo della cooperazione
47
Tabella 2.4 - Grado di istituzionalizzazione
48
Tabella 2.5 - Grado di potere decisionale delle organizzazioni permanenti
49
Tabella 2.6 - Rappresentanza e responsabilità
50
Tabella 2.7 - Le competenze per ogni tipologia di EPCI
57
Tabella 2.8 - Valore medio della DGF per abitante in ogni modello di EPCI nel 2011
59
Tabella 2.9 - Evoluzione degli EPCI in Francia
68
Tabella 2.10 - Ripartizione degli EPCI per numero di Comuni associati
70
Tabella 2.11 - Ripartizione degli EPCI per entità demografica
72
Tabella 2.12 - Variazione del numero di EPCI a fiscalità propria nel 2011
74
Tabella 2.13 - Estensione degli EPCI a fiscalità propria
75
Tabella 2.14 - Dimensione e caratteristiche degli EPCI
76
Tabella 3.1 - Le forme di intercomunalità in Italia secondo il TUEL
85
Tabella 3.2 - Sintesi dell'evoluzione normativa delle Unioni dei Comuni
90
Tabella 3.3 - Evoluzione delle Unioni dei Comuni sul territorio nazionale.
92
Tabella 3.4 - Distribuzione delle Unioni dei Comuni per regione
96
Tabella 3.5 - Distribuzione dei Piccoli Comuni presenti in Unioni per regione
97
Tabella 3.6 - Popolazione residente in Unioni dei Comuni per regione
98
Tabella 3.7 - Superficie territoriale delle Unioni dei Comuni per regione
99
Tabella 3.8 - Entità dei finanziamenti statali nel 2009
105
Tabella 3.9 - Entità dei finanziamenti regionali nel 2009
105
Tabella 3.10 - Variazioni dei finanziamenti statali e regionali nel biennio 2008-2009
106
Tabella 3.11 - Quantità delle funzioni conferite
107
Tabella 3.12 - Confronto tra Associazioni intercomunali e unioni dei Comuni
113
Tabella 3.13 - Evoluzione delle forme associative tra 2000 e 2011
122
Tabella 3.14 - Evoluzione della partecipazione dei Comuni alle forme associate 124
Tabella 3.15 - Evoluzione della popolazione coinvolta nelle forme associative 125
V
Tabella 4.1 - Superficie territoriale occupata dalle località abitate (valori
percentuali)
151
Tabella 4.2 - Variazioni della SAU per colture dal 1971 al 2010, in migliaia di ettari
154
Tabella 4.3 - Sistema ambientale e rurale
167
Tabella 4.4 - Sistema infrastrutturale
169
Tabella 4.5 - Sistema insediativo
172
Tabella 4.6 - Sistema socio – economico
173
Tabella 4.7 - Quadro di sintesi
174
--INDICE DEI GRAFICI--
Grafico 3.1 - Numero Unioni (in percentuale) per ammontare di Comuni
partecipanti
100
Grafico 3.2 - Numero di comuni (in percentuale) presenti in Unioni, per classe di
ampiezza demografica
101
Grafico 3.3 - Numero di Unioni (in percentuale) per popolazione complessiva
residente
101
Grafico 3.4 - Struttura delle Unioni per tipologia di Comuni che vi partecipano 102
Grafico 3.5 - Intercomunalità, obiettivi e logica di funzionamento
112
Grafico 3.6 - Evoluzione delle forme associative tra 2000 e 2011
123
Grafico 3.7 - Numero Unioni per ammontare di Comuni partecipanti
126
Grafico 3.8 - Numero di Unioni (in percentuale) per popolazione complessiva
residente
126
Grafico 3.9 - Finanziamenti erogati dalla Regione per le forme associative tra 2003
e 2011
127
Grafico 4.1 - Territorio con copertura artificiale in Europa
Grafico 4.2 - Uso del suolo in Europa:
147
quote di territorio con destinazione
residenziale e servizi a elevato impatto ambientale
148
Grafico 4.3 - Consumo di suolo per nuovi edifici residenziali e non residenziali
(1980 – 2009)
Grafico 4.4 - La SAU dal 1971 al 2010 (migliaia di ettari)
152
153
Grafico 4.5 - Deficit di suolo agricolo nei Paesi dell’Unione Europea (milioni di
ettari)
155
VI
-- ACRONIMI NEL TESTO --
ANCI = Associazione nazionale Comuni italiani.
CA = Communauté d’Agglomération.
CC = Communauté de Communes.
CDCI = Commission Départementale de Coopération Intercommunale.
CU = Communauté Urbaine.
CV = Communauté de Villes.
DGF = Dotation Globale de Fonctionnement.
DL = Decreto legge.
DOO = Document d’orientation et d’objectifs.
EPCI = Etablissements Publics de Coopèration Intercommunale.
ICI = Imposta comunale sugli immobili.
IMU = Imposta munucipale propria.
PADD = Projet d’aménagement et de développement durables.
PDL = Proposta di legge.
PLU = Plans locaux d’urbanisme.
POC = Piano operativo comunale.
POS = Plan d’occupation des soles.
PRIT = Piano regionale intergrato dei trasporti.
PSC = Piano strutturale comunale.
PTCC = Piano territoriale di coordinamento comprensoriale.
PTCI = Piano territoriale di coerenza intercomunale.
PTCP = Piano territoriale di coordinamento provinciale.
PTR = Piano territoriale regionale.
RUE = Regolamento urbanistico edilizio.
SAU = Superficie agricola utile.
SCOT = Schéma de coherence territoriale.
SDAU = Schéma directeur d’amenagément et d’urbanisme.
SDCI = Schéma départmental de la coopération intercommunale.
SIVOM = Syndicat intercommunal à vocation multiple.
SIVU = Syndicat itercommunal à vocation unique.
TPU = taxe professionelle unique.
VII
TUEL = Testo Unico degli Enti locali.
UPI = Unione Province italiane.
ZAC = Zone d’aménagement concerté.
1
INTRODUZIONE
Se si volessero descrivere i fenomeni che hanno caratterizzato le città e i territori
italiani negli ultimi decenni con un’unica parola, il termine più adatto sarebbe
senza dubbio “frammentazione”.
In particolare, due forme di frammentazione si sono sviluppate in parallelo: la
prima è di carattere politico e ha riguardato i sistemi di governance degli enti
locali, la seconda ha caratterizzato gli ambienti urbani, sempre più dispersi a
scapito del suolo agricolo.
La proposta di razionalizzazione delle Province, che avrebbe generato ulteriore
caos istituzionale e indebolito uno dei pochi enti che s’è opposto in qualche
modo al consumo di suolo, è stata lo spunto di partenza e di riflessione da cui è
nata questa tesi.
L’obiettivo è quello di provare a immaginare quale soluzione, dal punto di vista
istituzionale e da quello della pianificazione territoriale, possa essere alternativa
alle Province e a una struttura di organizzazione statale gerarchica.
I processi di innovazione legislativa in materia di enti locali, iniziati negli anni ’90 e
culminati con la riforma del Titolo V della Costituzione, hanno di certo reso più
moderna la struttura della pubblica amministrazione italiana, ispirando
l’organizzazione dello
Stato
ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e
differenziazione.
Nella prassi, però, non è mai stata risolta una questione fondamentale dei
rapporti intergovernativi tra i vari enti: quella delle competenze.
La mancanza di una Carta delle Autonomie che definisse in modo chiaro e
univoco le funzioni spettanti ad ogni livello di governo, ha creato un quadro di
incertezze e sovrapposizioni, con interpretazioni differenti nei diversi contesti
regionali.
Una lunga stagione di delegittimazione mediatica nei confronti di alcuni enti
pubblici, ritenuti inefficienti e dispendiosi, ha trovato una propria legittimazione
anche a causa delle tante contraddizioni in seno alla pubblica amministrazione.
Da almeno cinque anni, le Province sono state messe ripetutamente al centro di
questo dibattito, con tentativi di proposte di leggi e decreti per la loro
abolizione/razionalizzazioni rivelatosi fallimentari.
2
Solo con l’avvento del Governo Monti s’è avvicinata la possibilità concreta di una
riduzione e di un ripensamento del profilo istituzionale delle Province, che solo la
crisi di Governo del dicembre 2012 ha interrotto.
Ciò nonostante, nel periodo in cui la riforma delle Province è apparsa possibile si
sono palesati tutti i rischi derivanti dall’indebolimento dell’ente intermedio.
Esso
avrebbe
acutizzato
la
frammentazione
e
le
incongruenze
dell’amministrazione pubblica, lasciando di fatto scoperte funzioni fondamentali
come quella della pianificazione territoriale di coordinamento.
Inoltre, le ripercussioni maggiori si sarebbero riversate sui Comuni, ovvero coloro
che più si trovano in difficoltà a causa dei tagli reiterati in questi anni sulla
finanza locale.
L’altro tipo di frammentazione è territoriale ed è indotta da un modello di
sviluppo urbano che ha prediletto la crescita e l’espansione; ancora una volta il
sistema degli enti locali è una delle cause.
I Comuni, infatti, si sono trovati di fronte al problema di come garantire servizi
migliori a fronte di continue riduzioni dei finanziamenti dall’alto.
Le municipalità hanno quindi trovato nel suolo un elemento fondamentale per
fare cassa, attraverso oneri di urbanizzazione e imposte come l’ICI prima e l’IMU
oggi.
L’urbanizzazione e il consumo di suolo stanno eliminando annualmente migliaia
di ettari di superficie agricola utile, elidendo e rendendo sempre più labile il
confine tra città e campagna.
Inoltre, lo sprawl ha portato ad un’estensione e a una fusione dei centri abitati,
causando esternalità sul traffico automobilistico, sulla qualità ambientale e sulla
qualità della vita in generale. Il modello che s’è affermato è definibile come
centroperiferico, produttore di congestioni al centro
e di degrado
e
banalizzazione in periferia (Magnaghi, 2010).
Gli effetti di questi processi rendono meno chiari quali siano i confini attuali delle
dinamiche territoriali e socio-economiche, ponendo interrogativi su quale debba
essere la scala territoriale ottimale per governarle. Questo alla luce di un sistema
di enti locali che non sempre si è rivelato adeguato e che si sarebbe indebolito
con la razionalizzazione delle Province.
3
Una risposta a queste problematiche si trova nella logica della rete tra città,
capace di generare economie di scala, garantendo competitività e mantenendo
una dimensione più limitata e vicina alla scala pertinente.
Il modello della rete si cala perfettamente in un Paese come l’Italia, strutturato
attorno a centri urbani medio-piccoli che organizzano sistemi territoriali
omogenei.
Come scrive Marcon “Il mettersi in rete fa parte del tentativo di molte esperienze
locali di non rinchiudersi nella dimensione localistica e auto centrata, ma di
costruire dal proprio frammento un disegno comune di trasformazione e di
innovazione sociale e politica” (Marcon G., 2006, p. 12)
La logica a rete si sovrappone quindi a quella gerarchica più tradizionale,
permettendo di individuare strategie e politiche dal basso e di ricomporre quadri
di governance.
I Comuni possono essere quindi alla base di una nuova stagione degli enti locali,
iniziando un percorso neomunicipalista (Magnaghi, 2010) in grado di fondare il
sistema di governo dei territori su nuove basi.
Per Bookchin “Non è eccessivamente fantasioso pensare che una società
ecologica matura dovrebbe essere costituita di municipalità di dimensioni
contenute, ciascuna delle quali formata da una «comune di Comuni» più piccoli
perfettamente sintonizzati con l’ecosistema in cui si trovano” (Bookchin, 1989, p.
211).
Sarebbe auspicabile, quindi, che un futuro sviluppo sostenibile possa partire da
territori pertinenti costruiti attorno a reti di Comuni, in rete con altri territori in un
sistema di network a livello regionale condiviso.
La cooperazione intercomunale può essere lo strumento operativo concreto
capace di garantire una dimensione di governo pertinente e generando
economie di scala in grado di fornire servizi migliori.
In più, questa dimensione permette non solo di affrontare i problemi legati
all’attuale situazione degli enti locali ma anche di contrastare l’attuale sistema di
sviluppo insediativo.
Gli enti intercomunali sono largamente diffusi in molti Paesi europei e in
particolar modo in Francia, mentre in Italia le Unioni dei Comuni trovano
un’applicazione ancora sporadica e con caratteristiche troppo diverse tra i diversi
contesti regionali.
4
Nel quadro nazionale l’Emilia-Romagna è la Regione che maggiormente ha
investito sulle forme associate, ed è già pronta ad attuare riforme in grado di dare
ulteriore forza alle Unioni dei Comuni.
Nello specifico, le forme di cooperazione intercomunale appaiono idonee a
elaborare piani di coerenza e coordinamento territoriale in grado di succedere ai
PTCP, che fino ad oggi sono stati uno dei pochi strumenti in grado di garantire
regole a difesa di un suolo sempre più minacciato dall’urbanizzazione.
La tesi si incardina su quattro capitoli.
Il primo capitolo intende ripercorrere a brevi linee la storia di riforma degli enti
locali in Italia, tenendo al centro del dibattito il ruolo che ha assunto negli anni a
venire la Provincia.
In particolare, si analizza il dibattito degli ultimi cinque anni, arrivando a capire
come i decreti varati dal Governo Monti avrebbero cambiato il profilo
istituzionale e funzionale degli enti intermedi.
Per terminare questa parte si propongono poi degli studi e delle valutazioni sugli
impatti che avrebbero prodotto le ultime riforme.
Il secondo capitolo analizza la cooperazione intercomunale, come possibile
alternativa all’ente intermedio, inquadrandola nel panorama europeo e studiando
da vicino la Francia: qui una consolidata tradizione intercomunale e un sistema di
pianificazione che fa leva proprio sulle forme associative s’è diffuso su tutto l
territorio nazionale, potendo valutare effettivamente i punti di forza e i limiti
dell’intercomunalità.
Nel terzo capitolo si esamina, quindi, lo stato dell’arte della cooperazione tra
Comuni in Italia, offrendo un quadro completo delle caratteristiche delle Unioni
dei Comuni e i necessari riferimenti legislativi. Anche su questo tema, le riforme
del Governo Monti hanno apportato sostanziali cambiamenti i quali sono già
oggi operativi.
Una
particolare
attenzione
viene
dedicata
all’Emilia-Romagna,
Regione
all’avanguardia in materia e che si presta a sperimentare fin da subito modelli di
governance e di pianificazione territoriale legati direttamente alle Unioni dei
Comuni.
Il quarto e ultimo capitolo tira le fila del ragionamento, cercando di capire perché
la dimensione intercomunale sia idonea a gestire una nuova fase dei governi
5
locali e perché essa si presti a gestire un fenomeno così complesso come il
consumo di suolo, di cui vengono presentati i principali trend.
Su questa base si prova ad immaginare quali scenari si possono evolvere in Emilia
Romagna in materia di pianificazione territoriale al livello intercomunale,
credendo che in questa Regione si possano già sperimentare buone pratiche in
tempi relativamente brevi tali da essere esempio a livello nazionale.
Per concludere, si tiene a precisare che i ragionamenti condotti in sede di tesi
sono stati fatti tutti in tempi antecedenti e non tengono conto della mancata
conversione del Decreto di riordino delle Province.
Tuttavia, questo non inquina il ragionamento che s’è provato a compiere,
credendo che le soluzioni prospettate rimangano comunque valide in quanto
presentano un’alternativa ad un modello di governance che verosimilmente verrà
comunque riformato nella prossima legislatura.
6
CAPITOLO 1
DALLA RIFORMA DELLE PROVINCE NUOVI SPUNTI DI RIFLESSIONE PER LA PIANIFICAZIONE
D’AREA VASTA
Con il primo capitolo s’intende ragionare sul ruolo che le Province hanno avuto in
Italia nel governo del territorio e nella pianificazione d’area vasta.
È utile quindi partire da una breve storia dell’ente, messo in discussione già a
partire dall’Assemblea Costituente e costantemente ripensato nei decenni
successivi, cercando di capire come sono variati gli assetti e le funzioni che
coordina e gestisce.
Dopo questo excursus si descriverà la situazione in vigore fino al 2012, definita
dal Testo Unico degli Enti locali 267/2000 e dalla riforma del Titolo V della
Costituzione del 2001.
Da
qui
si
inizierà
ad
analizzare
gli
ultimi
anni
di
dibattito
sull’abolizione/razionalizzazione delle Province, iniziato dalle elezioni Politiche del
2008 e proseguito per tutta la XVI Legislatura.
Anni di proposte e di tentativi di riforma sono stati superati dalla svolta data dal
Governo Monti che con il Decreto “Salva Italia” del dicembre 2011 e con la
“Spending review” del luglio 2012 ha dato un nuovo assetto istituzionale e
definito nuove funzioni per le Province, ultimato con il riordino delle Province
sancito da un decreto del 5 novembre 2012.
In tutto questo si dovrà analizzare com’è stato affrontato il tema della
pianificazione e del coordinamento territoriale, partendo dai limiti e dalle
opportunità dell’attuale sistema, chiedendosi quale sarà la sorte di questa
funzione così importante per garantire la coerenza spaziale.
Per questo tutta la seconda parte del capitolo sarà dedicata all’intercomunalità in
Europa e soprattutto in Francia, vero e proprio esempio di come si può pianificare
su territori pertinenti.
7
1.1 Breve storia delle Province: dall’Unità d’Italia alle riforme dei primi anni 2000
1.1.1 Le Province durante il Regno d’Italia
Dopo i Comuni, che vantano un’origine ormai ultra millenaria, le Province si
possono definire come l’istituzione più longeva nell’ordinamento amministrativo
italiano.
La prima legislazione in merito è datata 1859 attraverso il Decreto Regio 3702, più
famoso come Decreto Rattazzi, con cui si definiva la struttura amministrativa del
Regno di Sardegna, esteso poi a tutto il territorio nazionale dopo l’Unità.
Le Province italiane sono costruite sul modello dei Dipartimenti francesi,
introdotti con la Rivoluzione al fine di rendere uniforme la struttura organizzativa
dello Stato ed esportati dalla dominazione napoleonica.
Il Regno venne così diviso in Province, Circondari, Mandamenti e Comuni,
analogamente alla struttura francese che subordinava ai Dipartimenti i Distretti e i
Cantoni.
La Provincia era presieduta da un Prefetto di nomina regia ed era dotata di una
propria rappresentanza elettiva e di un’amministrazione autonoma, espressa dal
Consiglio (organo deliberante) e dalla Deputazione Provinciale (organo esecutivo
- amministrativo).
I confini della circoscrizione erano prettamente impostati su criteri di carattere
militare: un territorio commisurato al tempo percorso da un messo a cavallo dal
confine alla sede prefettizia.
Il Decreto Rattazzi è importante anche perché è, di fatto, il primo a introdurre i
primi elementi di normativa urbanistica attraverso i “regolamenti di ornato e
polizia locale”.
Nel 1861 le Provincie istituite furono 59 per poi diventare 69 con le successive
espansioni del 1866 e del 1870 (con la Terza Guerra d’Indipendenza e la presa di
Roma).
Nel 1865 la legge Lanza accentrò il governo delle Province, dando maggiori poteri
al Prefetto, tra cui la supervisione dell’istruzione pubblica e della “apertura di
nuove strade e manutenzione di quelle esistenti”, indicando due funzioni basilari
delle Province moderne.
8
Il testo legislativo introduce, inoltre, i primi criteri per la nomina di una
Commissione Edilizia, della viabilità del centro abitato e delle distanze (Balasso,
Zen, 2011).
È interessante notare come anche in questo Decreto Regio si curino sia gli aspetti
amministrativi sia quelli di gestione e proto-pianificazione del territorio, un
binomio che spesso accompagnerà il percorso dell’ordinamento degli enti.
Le riforme successive, attraverso i Testi Unici del 1889, 1898 e 1915, portarono
invece a un progressivo processo di autonomia locale attraverso l’elezione diretta
di un Presidente, oltre che del Consiglio e della Deputazione, a suffragio
universale a partire dal 1915.
Con la Legge Comunale e Provinciale del 1915 si poneva l’accento nel Titolo IV
Capo I che la Provincia ha “un’amministrazione propria che ne regge e
rappresenta gli interessi”, e vi era una prima indicazione chiara delle funzioni che
facevano capo all’ente all’Art. 241.
Tra queste, è interessante citare ancora una volta la facoltà di deliberare in
materia di “strade provinciali ed ai lavori relativi a fiumi e torrenti e posti dalle
leggi a carico della provincia”, allargando le competenze anche alla manutenzione
del territorio.
Inoltre, nel Capo IV veniva definita anche la contabilità e la finanza dell’ente, che
godeva di bilancio e risorse proprie e di un primo corpo di funzionari e dirigenti
per svolgere i compiti assegnati dalle leggi.
Il regime fascista tornò su posizioni più accentratrici, abolendo i criteri elettivi
nella formazione degli organi, sostituendo Consiglio e Deputazione con un
Rettorato e un Preside di nomina governativa, temendo la rappresentatività di
socialisti e cattolici negli enti locali.
L’azione di riforma più importante adottata durante il ventennio è però
contenuta nel Regio Decreto n.1/1927 “Riordinamento delle circoscrizioni
provinciali”.
Nel testo di legge non solo s’introducono 17 nuove Province, ma vengono aboliti
anche i Circondari, che erano circoscrizioni a cui faceva riferimento un tribunale e
una sotto-prefettura, e i Mandamenti, passando ad un’organizzazione dello stato
su due soli livelli (comunale e provinciale).
9
Durante il periodo fascista le province da 76 diventeranno 95, disegnando un
assetto molto simile a quello odierno.
Un aumento che non era dovuto all’annessione di nuovi territori, com’è invece da
intendersi negli anni precedenti, ma che è causa di un preciso disegno
mussoliniano di “ripartire meglio la popolazione”1 e di frenare l’esodo verso le
grandi città dai piccoli centri, oltre che esercitare l’autorità e il controllo statale sui
territori.
In tutto questo, il regime riformò anche l’ordinamento dei Comuni imponendo
accorpamenti, fusioni e soppressioni.
Attraverso il Testo Unico n. 383 del 1934 si consolida l’assetto già impostato nel
1927, riconoscendo alla Provincia una limitata autonomia amministrativa e
confermando le poche competenze (tra cui quella della gestione viabilistica e
dell’assetto idrogeologico) che già le erano attribuite.
L’ordinamento delle autonomie locali all’indomani dell’entrata in vigore della
Costituzione Repubblicana rimarrà pressoché lo stesso del T.U. del 1934, dal
momento che la prima urgenza della neonata Repubblica fu quella di ristabilire
subito criteri elettivi per gli organi rappresentativi (Palombelli, 2012).
1.1.2 Dal dibattito dell’Assemblea Costituente alle riforme d’inizio anni ’90
Un tema molto discusso dall’Assemblea Costituente fu quello dell’assetto
istituzionale e amministrativo della nuova Repubblica.
Prevedere le Regioni e dotarle di potere legislativo fu una scelta determinante per
l’assetto degli enti locali. Ciò orientò, infatti, il dibattito su due posizioni: chi
pensava che le Province fossero da abolire perché concorrenti e superate dalle
Regioni e chi era, invece, a favore del loro mantenimento.
La Commissione dei 75, in un primo momento, sembrò dar ragione a chi era
contro l’istituzione delle Province, elaborando una bozza di Art.114 che recitava
“La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni” e “Le Province sono circoscrizioni
amministrative di decentramento statale e regionale”.
In più si attribuirono alle Regioni molte competenze di tipo amministrativo, come
l’assistenza sanitaria, scolastica e la viabilità, introducendo ulteriori elementi di
competizione con le Province.
1
Fabrizzi (2008 ), cita direttamente un discorso di Mussolini del 26 maggio 1927.
10
Il dibattito in aula ribaltò l’impostazione data dalla Commissione.
Sulle critiche rivolte alla Provincia di essere un ente poco radicato e dai compiti
limitati prevalsero quelle nei confronti delle Regioni, ritenute, quelle sì, costruite
artificialmente e prive di riscontro storico.
Alla base della difesa delle Province stava anche un principio di agglomerazione
che propendeva per la valorizzazione dei Comuni capoluogo quali centri attrattori
di servizi e funzioni capaci di organizzare e ordinare un territorio più vasto
attorno ad essi; inoltre la vita sociale ed economica si era organizzata nei primi
decenni dello Stato unitario proprio su base provinciale, trovando in essa la
dimensione appropriata (Mangiameli, 2008).
Nel dibattito assembleare emerse quindi la necessità di salvare le Province, anche
perché ente con una struttura tecnica e funzionale consolidata capace di garantire
standard amministrativi migliori di quelli di molti Comuni.
Il risultato finale fu la stesura dell’Art.114 per il quale “La Repubblica si riparte in
Regioni, Province e Comuni”.
La Regione si ritagliava, invece, un ruolo soprattutto legislativo con la facoltà di
attribuire funzioni amministrative a “Comuni, Province o altri enti locali” come
prevedeva l’Art.129.
L’autonomia e i collegamenti con Regioni e Stato che avevano le Province erano
quindi del tutto simili a quelli dei Comuni.
La fretta di portare a termine la Costituzione entro la fine del 1947 lasciò alcune
zone d’ombra sul Titolo V, soprattutto in merito alle competenze legislative
regionali e alle funzioni attribuite agli enti minori: ne è prova l’Art.128 per il quale
“Le Province e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati dalla
Repubblica, che ne determina le funzioni”.
Sarebbe stata, quindi, una successiva legislazione statale a ordinare questo
aspetto.
Di fatto ciò non avvenne e a regolare funzioni e organizzazione degli enti locali
erano ancora i Decreti Regi del 1915 e del 1934 che svolsero il compito di “legge
generale della Repubblica” fino alla riforma del 1990.
Infatti, per tutti gli anni ’50 e ’60 s’intrapresero politiche che, anziché promuovere
le autonomie locali, hanno privilegiato il ruolo dello Stato centrale nella
pianificazione economica.
11
Solo nel 1970 si riprese il cammino autonomista attraverso l’istituzione delle
Regioni, occasione che si prestò per rinnovare il dibattito sull’abolizione delle
Province (Palombelli, 2012).
Fu soprattutto il Partito Repubblicano, attraverso il suo leader di allora Giorgio La
Malfa, a porre la questione al centro dell’attenzione, trovando sponda soprattutto
nel PCI.
Non a caso, nei primi anni ‘70 in diverse Regioni furono istituiti i Comprensori,
realtà intercomunali che avrebbero dovuto sostituire gradualmente le Province.
Nel 1975, però, il rafforzamento delle Regioni attraverso la legge n. 382, che
prevedeva il trasferimento delle funzioni amministrative, fu compensato da una
rivitalizzazione delle Province e un successivo smantellamento dei Comprensori
negli anni ’80.
Solo con la legge n.142/1990 la Repubblica introduce il primo vero e proprio
intervento di riforma sull’ordinamento degli enti locali.
Una riforma che, tuttavia, non abroga la precedente legislazione, bensì la
corregge e la adegua, partendo dall’esigenza di dare chiarezza ad una situazione
in cui sempre più funzioni amministrative venivano delegate a Province e Comuni
ma con un impianto di relazioni tra i diversi livelli di amministrazione che
rimaneva ancora legato al centralismo statale.
Il ruolo territoriale delle Province diventerà centrale a partire da questa legge,
sottolineandone con forza i compiti di programmazione/realizzazione/gestione
d’area vasta e la funzione di snodo tra Comuni e Regioni/Stato; inoltre, per la
prima volta, si dichiara anche il principio di sussidiarietà alla base delle funzioni di
cui gli enti locali sono titolari.
Nell’Art.14 si esplicitano le funzioni che spettano alle Province, delineando quello
che è stato il profilo funzionale dell’ente fino ad oggi, mentre nell’Art.15 si
definiscono i compiti e le funzioni dell’Ente.2
2
Il Comma 2 dell’Art. 15 della Legge 14/1990 recita: “La provincia, inoltre, predispone ed adotta il piano
territoriale di coordinamento che, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della
legislazione e dei programmi regionali, determina indirizzi generali di assetto dei territorio e, in
particolare, indica:
a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il
consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali”.
12
Con la Legge 142/90 si istituzionalizza, anche se con sensibile ritardo rispetto ad
altri paesi europei, lo strumento della pianificazione urbanistica a livello
intermedio, assegnando alla Provincia il compito di accertare la compatibilità tra i
piani comunali e quello di coordinamento provinciale.
Con l’Art.16 si dà la possibilità per le Provincie di creare Circondari che, sulla base
delle peculiarità del territorio, possono sub-dividerlo per una più efficiente
organizzazione dei servizi e degli uffici.
Nello stesso articolo si pongono poi le basi normative che stabiliscono i criteri
con cui modificare le circoscrizioni o creare nuove province, partendo dalla
volontà dei Comuni e della popolazione (tramite referendum) e non più da scelte
dello Stato centrale: sarà proprio questa legge a creare i presupposti per la
formazione delle 8 nuove Province nel 1992 e di diverse altre in anni più recenti.
Altre interessanti innovazioni apportate dalla legge 142/1990 riguardano
l’istituzione delle Città Metropolitane e delle prime forme d’intercomunalità
(Convenzioni, Consorzi, Unioni di Comuni e Accordi di Programma) su cui si
approfondirà nei capitoli successivi.
Con la Legge n.81/1993 s’introduce l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente
della Provincia, rendendo totale la democrazia diretta nella scelta dei candidati,
anche allo scopo di avvicinare di più le istituzioni locali ai cittadini dopo lo
scandalo di Tangentopoli.3
Con questa legge si chiude la prima stagione di riforma degli enti locali, che verrà
ripresa con forza all’ inizio degli anni 2000.
1.1.3 Dalla Riforma Bassanini alla Riforma del Titolo V della Costituzione
A fine anni ’90 i governi di centrosinistra iniziarono un processo riformatore degli
enti locali che sfociò nella riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.
Il primo atto in questo senso è datato 1997, con la serie di leggi che prendono il
nome di “Riforma Bassanini”.
In particolare, nella legge n.59/1997 si esplicita il trasferimento di tutte le funzioni
e dei compiti amministrativi alle Regioni e agli enti locali, eccetto l’elenco delle
materie e dei compiti per i quali le competenze amministrative restano comunque
3
Emblematico è il nome stesso della legge “Elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia,
del Consiglio Comunale e del Consiglio Provinciale”.
13
riservate allo Stato.
La “Riforma Bassanini” ha anche il merito di introdurre in Italia il principio di
sussidiarietà nel conferimento di funzioni, definito nell’Art.4 comma 3 come
“l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai
comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni
territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni
incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità
pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di
rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, all’autorità
territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”.
Oltre alla sussidiarietà, il legislatore delegato deve rispettare anche i seguenti
principi: completezza, efficienza ed economicità, cooperazione, responsabilità e
unicità
dell’amministrazione,
omogeneità,
adeguatezza,
differenziazione
nell’allocazione delle funzioni, copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per
l’esercizio
delle
funzioni
amministrative,
autonomia
organizzativa
e
regolamentare.
La “Riforma Bassanini” ha avuto il grande merito di aver prodotto uno sforzo
coerente e coordinato con cui ammodernare tutta la pubblica amministrazione,
cercando di intervenire non su un solo livello di governo ma su tutti quanti.
Un grosso limite era insito, però, nell’essere legge ordinaria dello Stato e quindi
passibile di modifiche, creando l’esigenza di fissare nel testo costituzionale la
nuova architettura amministrativa e i principi che la riforma apportava.
Con il Decreto 267/2000, più famoso come Testo Unico degli Enti Locali, si mette
ordine a tutte le riforme degli ultimi anni, raccogliendo tutte le riforme realizzate
negli anni ’90; sarà solo con la riforma costituzionale dell’anno successivo, però,
che si darà compiutezza al percorso.
La Riforma del Titolo V del 2001 certifica la fine del mito dello Stato pianificatore e
ha lo scopo di recuperare la costituzionalità dell’intero sistema degli enti locali
che s’era venuto a delineare col passare degli anni.
Nell’Art.114 si afferma immediatamente l’autonomia degli enti locali, passando
dalla dicitura “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni” a quella “La
Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
14
sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati
dalla Costituzione”.
In tal modo si equiparano gli enti locali allo Stato, togliendo ogni subordinarietà
nei rapporti tra le componenti della Repubblica.
Questo passaggio è molto importante, soprattutto se si pensa che per una notte,
durante il dibattito in Commissione Parlamentare, le Province sparirono dal testo
Costituzionale.
Nell’Art.117 viene ridefinita la potestà legislativa tra Stato e Regioni, indicando su
quali materie lo Stato ha competenza esclusiva e su quali invece c’è legislazione
concorrente (in cui le Regioni hanno potestà legislativa entro principi
fondamentali fissati dallo Stato), mentre su quelle non espresse si assegna la
competenza alle Regioni.
Dal punto di vista della pianificazione territoriale assume particolare importanza
l’inserimento del governo del territorio tra le materie di competenza concorrente.
L’Art.118 è forse quello più significativo del nuovo testo costituzionale,
attribuendo ai comuni le funzioni amministrative “salvo che, per assicurarne
l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
In tal modo si riconosce ai comuni il ruolo di cellula base dello Stato, in quanto la
più vicina possibile ai cittadini, e, in senso generale, si certifica la centralità degli
enti locali per tutti gli aspetti della vita dei cittadini.
In più, riconoscendo il primato del principio di sussidiarietà, diventa
fondamentale il tema dei contesti territoriali e demografici più adeguati per lo
svolgimento delle funzioni; ciò rende in qualche modo implicito il ruolo delle
Province nell’erogazione dei servizi a rete e per la pianificazione del territorio in
quanto funzioni e compiti che necessitano per loro stessa natura di una visione
d’area vasta.
L’Art.118 presenta, però, anche un carattere di ambiguità nel sottolineare che “I
Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni
amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze”.
Si rimanda, quindi, a un successivo intervento legislativo che chiarisca in modo
definitivo le funzioni che ogni ente esercita e che cerchi di eliminare
sovrapposizioni e conflitti.
15
Certamente, viene riconosciuto il ruolo e la funzione delle Province nella
strutturazione dello Stato, individuandole come una componente fondamentale
della Repubblica e confermando una struttura a tre livelli di governo tipicamente
europea.
La riforma del Titolo V necessitava, e necessita ancora, di leggi ordinarie capaci si
chiarire i principi dichiarati e che dessero compiutezza a tutto il disegno di
riassetto degli enti locali.
Molto del dibattito più recente s’è sviluppato proprio attorno al tema delle
funzioni o, come spesso si dice per semplificare il concetto, il “chi fa che cosa”.
Sarà a partire da questo passaggio incompiuto che inizierà la campagna
mediatica contro le Province, viste come ente a capo di funzioni delegabili al
livello regionale o comunale: e quindi un ente inutile e da sopprimere.
1.1.4 La pianificazione territoriale d’area vasta dopo le riforme
Dopo un decennio di riforme degli enti locali, culminato con quella costituzionale
del 2001, le Regioni diventano l’attore principale in materia di governo del
territorio e, da metà anni ’90, inizia una stagione di nuove leggi regionali che
cambiano gli strumenti della pianificazione territoriale.
Il quadro che s’è venuto a creare è assai eterogeneo e risulterebbe troppo
gravoso, oltre che inutile per il lavoro, analizzare ogni legge regionale per
osservare i compiti e il ruolo che affidano al PTCP, lo strumento che dovrebbe, per
sua stessa definizione, coordinare e dare coerenza a un territorio d’area vasta
come quello provinciale.
È quindi molto più efficace descrivere due modelli che si possono definire
archetipici: quello dell’Emilia-Romagna, che delega alle Province tutte le funzioni
di pianificazione territoriale con PTCP molto cogenti, e quello della Lombardia,
che invece delinea un ruolo più light dell’ente intermedio.
Per la legislazione emiliana il PTCP (che trova il suo riferimento normativo nella
legge 20/2000), oltre che a precisare la programmazione regionale e il
16
coordinamento dei piani di settore, serve a definire assetti territoriali con
riferimento a interessi sovracomunali.4
Con l’aggiornamento della legge urbanistica nel 2009, l’Emilia-Romagna ha anche
ulteriormente chiarito gli ambiti attinenti alla pianificazione provinciale,
concentrandosi sui temi dell’ambiente, della mobilità e della struttura insediativa.5
Il PTCP emiliano stabilisce una gerarchia dei centri urbani e del sistema
insediativo, individuando anche ipotesi di sviluppo capaci di delineare linee di
assetto e usi del suolo, oltre che stabilire i criteri per la localizzazione e il
dimensionamento di servizi e strutture di rilievo sovra-comunale.6
Dal punto di vista ambientale, è il PTCP che definisce le tutele paesaggistiche e i
limiti di sostenibilità ambientale dei piani comunali, definendo le soglie e i criteri
dell’uso delle risorse ambientali e territoriali.7
Tutti questi aspetti indicano la natura di un piano che ha il potere di orientare
moltissimo le scelte e le politiche locali, ed è per questo che può stabilire anche le
modalità e i termini a cui i piani locali sono obbligati ad adeguarsi.
La Regione, in questo caso, ha delegato moltissimi compiti di pianificazione alle
Province, che sono così l’ente che cala sui territori le scelte d’area vasta,
individuate e dimensionate in modo concreto e pertinente nel disegno del piano.
Ciò non accade, però, con la pianificazione paesaggistica, che con la legge 10/2008
s’è ri-trasferita completamente alla Regione.
Nel caso lombardo (che trova il suo riferimento normativo nella legge 12/2005 e
successive modifiche) già nella definizione del piano si notano differenze
sostanziali: pur ribadendo la ovvia natura attuativa della pianificazione regionale,
il PTCP si pone come “atto di indirizzo della programmazione socio-economica
della Provincia ed ha efficacia paesaggistico-ambientale per i contenuti e nei
termini di cui ai commi seguenti.”8
4
L.R. 20/2000, Art. 26, comma 1.
L.R. 6/2009, Art. 27, comma 1 “Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) considera la
totalità del territorio provinciale ed è lo strumento di pianificazione che articola le linee di azione della
programmazione regionale, dando attuazione agli accordi di cui all'articolo 13,comma 3-ter. Il PTCP ai
sensi dell'articolo 9, comma 2, lettera c), definisce l'assetto del territorio limitatamente agli interessi
sovracomunali, che attengono: a) al paesaggio; b) all'ambiente; c) alle infrastrutture per la mobilità; d) ai
poli funzionali e agli insediamenti commerciali e produttivi di rilievo sovracomunale; e) al sistema
insediativo e ai servizi territoriali, di interesse provinciale e sovracomunale; f) ad ogni altra materia per la
quale la legge riconosca espressamente alla Provincia funzioni di pianificazione del territorio”.
6
L.R. 20/2000, Art. 26, comma 2 lettere b) e c) e comma 3.
7
L.R. 20/2000, Art. 26, comma 2, lettere d) e e).
8
L.R. 12/2005, Art. 15, comma 1.
5
17
Nei confronti del piano comunale si limita a definire dei contenuti minimi e degli
standard qualitativi su temi d’interesse sovracomunale. Può prevedere, però,
indicazioni puntuali per la realizzazione d’insediamenti sovracomunali, ma solo se
questi sono definiti come tali dai singoli PGT.9
In materia ambientale il PTCP recepisce gli strumenti adottati a livello regionale
che costituiscono il sistema delle aree protette, mentre qualcosa di più cogente è
previsto per l’inserimento ambientale e paesaggistico delle opere infrastrutturali.10
In particolare, per la parte paesaggistica il piano si limita a individuare le
previsioni con cui raggiungere gli obiettivi regionali, con l’obbligo di adeguarsi al
PTPR (Piano territoriale paesaggistico regionale) e alle sue previsioni finché non
sarà adottato il PTR.11
L’aspetto più controverso riguarda, sicuramente, la pianificazione dell’attività
agricola.12
Il PTCP ha il compito di definire gli ambiti destinati all’attività agricola e di stabilire
i criteri per individuarli alla scala comunale; tale individuazione ha però efficacia
nei limiti delle facoltà dei Comuni di porvi revisioni e rettifiche in sede di
elaborazione del piano delle regole.
Di fatto si dà ai Comuni il potere di decidere dove localizzare le aree agricole,
lasciando grande spazio a variazioni che possono rispondere a logiche di
pressione edilizia.
Rispetto alla prima dicitura, dal 2008 v’è stato un aumento del potere
intercomunale nell’individuare gli ambiti destinati all’attività agricola, con un PTCP
che deve limitarsi ad acquisire le proposte dei Comuni e verificare che siano in
conformità coi criteri regionali.
Il PTCP è, quindi, in Lombardia, uno strumento che entra molto meno nel
dettaglio e nel merito delle scelte insediative sovralocali, ed è più un attuatore di
programmi regionali e un piano che colleziona indicazioni a livello comunale.
Il confronto, che sicuramente meriterebbe più spazio e approfondimento, fa
comunque capire le molte differenze che vi sono state nel concepire la
pianificazione d’area vasta tra le Regioni italiane. Ciò è effetto di una serie di
9
L.R. 12/2005, Art. 15, comma 2, lettere c) e g).
L.R. 12/2005, Art. 15, comma 7.
11
L.R. 12/2005, Art.15, comma 6 e L.R. 14/2008, Art.1, comma 4, lettera cc).
12
L.R. 12/2005, Art.15, commi 4 e 5 e L.R. 14/2008, Art.1, comma 4, lettera bb).
10
18
riforme che hanno sì delegato più compiti e funzioni agli enti locali, ma che al
contempo hanno lasciato gradi di incertezza notevoli nella distribuzione delle
competenze e nella loro elaborazione politica.
Tuttavia, ciò è anche la dimostrazione che le Province hanno iniziato
relativamente recentemente ad occuparsi concretamente dei temi territoriali e
forse solo negli ultimi anni si stavano iniziando a cogliere i primi frutti di questo
lavoro, proprio ora che stanno per essere indebolite e razionalizzate.
1.2 Il dibattito sull’abolizione delle Province dal 2008 ad oggi
A partire dalla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2008, il tema
dell’abolizione delle Province è diventato ciclico nel confronto mediatico italiano.
L’intenzione di questo paragrafo è quella di cercare di riassumere come si è
sviluppato il dibattito in questi ultimi anni, usando come cartina di tornasole le
ben 25 proposte di legge (mai approvate) depositate in Parlamento durante
l’attuale legislatura.
Usare il dibattito politico come riferimento è una scelta più obbligata che voluta:
sono state poche, infatti, le riflessioni teoriche e gli approfondimenti valutativi
pubblicati in articoli o libri sul tema dell’abolizione delle Province, mentre la
discussione parlamentare evidenzia ininterrottamente l’inesorabile e vistosa
delegittimazione della istituzione Provincia non tanto nei disegni di legge in sé
quanto nelle relazioni di accompagnamento.
Solo nell’ultimo anno, quando l’ipotesi di razionalizzazione delle Province è
diventata più concreta, prima con i decreti dell’agosto 2011, poi con l’avvento del
Governo Monti, gli studi e le riflessioni sul futuro dell’ente intermedio si sono
fatti più frequenti e motivati.
Si possono individuare tre fasi principali del dibattito: una fase che va dalla
campagna elettorale del 2008 fino all’anno successivo, ispirata soprattutto da
proposte volte ad abolire le province; il biennio 2010-2011 in cui il Governo
Berlusconi ha tentato la strada della razionalizzazione e la redazione della “Carta
delle Autonomie”; infine l’era del Governo Monti che si sta avviando oggi ad una
conclusione definitiva dell’iter di razionalizzazione ridefinizione delle Province.
Per ogni periodo verranno analizzati tutti i disegni di legge o i decreti presentati
sia Camera che al Senato.
19
Quest’analisi non risulta certo appassionante né tanto meno significativa dal
punto di vista teorico, essa è però molto utile per capire la scarsa qualità e lo
scarso approfondimento con cui s’è affrontato un tema tanto delicato come
quello dell’organizzazione dello Stato e del ruolo del governo d’area vasta.
Sta di fatto che un ripetitivo tam-tam mediatico, seppur senza una substrato
teorico, è riuscito a consolidare l’immagine della Provincia come ente inutile e da
abolire.
Benché la soluzione finale per cui ha optato il Governo Monti non sia stata quella
dell’abolizione ma quella della razionalizzazione, in sostanza si è arrivati a
depotenziare notevolmente le Province. Non è un caso che in tempo di tagli nei
bilanci pubblici si sia deciso di colpire solo l’ente più bersagliato e, forse, più
indifeso degli altri.
1.2.1 Dalla campagna elettorale per le politiche del 2008 alle prime proposte di legge
Le campagne mediatiche contro gli sprechi della politica e dello stato portate
avanti da metà anni 2000 (capostipite di questo filone d’inchiesta è il libro “La
Casta” di Rizzo e Stella), hanno avuto nelle Province uno dei bersagli preferiti.
L’argomentazione principale che veniva usata contro le Province era legata
principalmente ai costi troppo alti dell’apparato politico che gravita attorno
all’ente e alla vaghezza delle funzioni che si esercitavano.
In questo quadro, la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2008 aveva
avuto, tra i suoi temi caldi, proprio quello del destino delle Province.
Le due principali coalizioni, PDL e Lega Nord a centrodestra e il PD con l’IDV a
centrosinistra, presentavano soluzioni alternative: la coalizione di centrodestra, in
particolare il PDL, aveva proposto la totale abolizione dell’ente intermedio, mentre
il centrosinistra aveva optato per una razionalizzazione delle province a cui
s’aggiungeva l’istituzione delle Città Metropolitane e la fusione di piccoli Comuni.
La vittoria del centrodestra e il ritorno al governo di Silvio Berlusconi portò nei
primi mesi della legislatura a depositare in parlamento molte proposte di
abolizione delle Province, che è possibile catalogare in due tendenze principali:
abolizione o trasformazione in enti di secondo livello.
20
La gran parte dei disegni di legge presentati nel biennio 2008/09 concerne
comunque la soppressione dell’ente.
La maggior parte delle proposte prevedeva, infatti, la cancellazione del termine
“Province” dal testo costituzionale e l’attribuzione delle funzioni a regioni e
comuni entro un anno dall’approvazione.
Da notare che su questa linea si sono trovati anche partiti dell’opposizione come
l’UDC o l’IDV, come è ben riscontrabile nelle relazioni che accompagnano i disegni
di legge.
Il primo a presentare una proposta di soppressione delle Province è il Sen. Dini
(PDL) nell’aprile 2008, sostenendo che l’ente intermedio sia un errore storico
dell’Assemblea Costituente e che la lontananza dai cittadini sia un motivo
sufficiente per procedere con l’abolizione.13
Sulla stessa linea si attesta anche il Sen. Nucara (PDL), il quale aggiunge anche le
troppe spese che lo Stato sostiene per le Province e il bisogno di rivedere tutto il
Titolo V della Costituzione che genera confusione e troppi livelli di conflitto e
competenze.14
Anche il Sen. Valentini (PDL) apporta come motivazione la poca identità dell’ente
nell’immaginario collettivo e la sua distanza dalla cittadinanza, richiamando la
volontà dell’opinione pubblica a giustificazione dell’abolizione.15
Inoltre, per Valentini le Province generano un centralismo delle città capoluogo
che farebbe nascere nelle altre città la voglia di diventare esse stesse Province,
creando una competizione troppo elevata.
L’On. Scandroglio (PDL) è il primo a portare il tema alla Camera, sostenendo la
necessità di abolire le Province perché causa di troppi livelli di burocrazia, troppe
regole e quindi troppe spese per lo Stato e i cittadini.16
In più si sostiene che il coordinamento d’area vasta possa essere esercitato
attraverso accordi liberi tra i Comuni i quali possono scegliere di associarsi in
modo diverso a seconda delle funzioni da gestire.
Le stesse considerazioni si trovano nel testo presentato dal Sen. D’Alia
(UDC),17mentre il Sen. Pastore (PDL)18 individua tre ragioni: finanziarie, perché le
13
PDL 194, XVI Legislatura.
PDL 1694, XVI Legislatura.
15
PDL 1098, XVI Legislatura.
16
PDL 1836, XVI Legislatura.
17
PDL 1259, XVI Legislatura.
18
PDL 1263, XVI Legislatura.
14
21
Province sono troppo onerose e anche se funzionassero sarebbero un lusso per
lo Stato; funzionali, perché i compiti svolti sono attribuibili anche alle Regioni; ed
etiche, perché le Province sarebbero solo un modo per dividere poltrone tra i
partiti.
Sulla stessa linea si attesta anche la proposta dell’On.Versace (PDL),19 ultima
depositata da esponenti della maggioranza di governo nel dicembre 2008.
Tutte le proposte fin qui descritte non sono arrivate mai al voto di un ramo del
parlamento, a differenza dei due disegni di legge presentati dagli On. Casini
(UDC)20e Donadi (IDV)21i quali furono associati in un'unica proposta bocciata dalla
Camera nel marzo del 2009 perché il governo promise di operare a breve sul tema
attraverso un decreto.
Stupisce certamente che nell’originale proposta dell’IDV non ci fossero nemmeno
le norme transitorie.
Nella maggioranza di Governo c’era anche chi, come la Lega Nord, presentò una
proposta per il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’introduzione di
meccanismi per istituire nuove Province. È il caso del disegno di legge depositato
alla Camera dall’On. Gibelli nel giugno 2008 che vorrebbe dare la possibilità alle
regioni di stabilire i nuovi confini delle Province.22
Sul fronte opposto, il Partito Democratico ha presentato due proposte volte a
razionalizzare il numero delle Province e alla loro trasformazione in enti di
secondo livello.
La prima è stata depositata dal Sen. Vitali nei primi giorni di legislatura e cerca di
riscrivere l’assetto generale della pubblica amministrazione italiana. Il disegno di
legge vuole introdurre nuove norme sulle Unioni dei Comuni, che devono essere
dimensionate a confini territoriali pertinenti stabiliti dalle regioni, istituire le Città
Metropolitane e rivedere le circoscrizioni provinciali attraverso criteri per
ottimizzare il livello d’area vasta basati sulla popolazione, l’estensione e il numero
dei comuni.23
19
PDL 2010, XVI Legislatura.
PDL 1989, XVI Legislatura.
21
PDL 1990, XVI Legislatura.
22
PDL 1242, XVI Legislatura.
23
PDL 332, XVI Legislatura.
20
22
L’anno successivo è l’On. Vassallo a depositare una proposta di legge,
riprendendo il tema della revisione delle circoscrizioni, ritenute troppo
eterogenee e basate su confini irrazionali dal punto di vista socio-economico.
Per Vassallo è da rivedere la struttura su tre livelli di governo in rapporto ai
Comuni e alle loro competenze.
Viene così a proporre l’istituzione della Città Metropolitana come istituzione di
governo di rango comunale che svolge funzioni provinciali articolata in municipi.
Inoltre, lancia definitivamente il tema delle Province come enti di secondo livello
che svolgono funzioni d’area vasta e di coordinamento entro nuovi confini
circoscrizionali.
Il disegno di legge prevede che siano le Regioni a delimitare i territori delle
Province, entro principi e criteri stabiliti dallo Stato.24
I primi due anni di legislatura producono un nulla di fatto dal punto di vista
legislativo e propongono un dibattito che solo tangenzialmente tocca i temi del
governo d’area vasta e del ruolo di coordinamento dell’ente, preferendo inseguire
le tematiche relative alla diminuzione degli sprechi e cercando di accondiscendere
più all’opinione pubblica che alle reali esigenze della pubblica amministrazione
italiana.
1.2.2 Il biennio 2010-2011, la mancata occasione della “Carta delle autonomie locali”e i
tentativi falliti di razionalizzazione
Il disegno di legge presentato dal governo nel gennaio del 2010 rappresenta un
punto di svolta nel dibattito parlamentare.25
Entro ventiquattro mesi dall’approvazione della legge, il governo avrebbe dovuto
adottare tramite decreto la “Carta delle autonomie locali”, come dichiarato
nell’Art.13, in modo da definire in maniera chiara le disposizioni statali relative
alla disciplina degli enti locali e completare così la riforma del Titolo V della
Costituzione.
Già nel disegno di legge vengono però riscritte le funzioni attribuite alle Province
(Art. 3), ribadendo, tra le altre, la pianificazione territoriale di coordinamento.
24
25
PDL 2579, XVI Legislatura.
PDL 3118, XVI Legislatura.
23
L’Art.14 delega il governo ad adottare, sempre entro ventiquattro mesi, un decreto
per razionalizzare le Province e ridurre il numero delle circoscrizioni.
Nel comma 2 i criteri e i principi della razionalizzazione vengono dichiarati:
popolazione ed estensione ottimale per area vasta; la revisione degli uffici
decentrati dello Stato; l’adesione della maggioranza dei Comuni e della
maggioranza della popolazione; l’attribuzione alle province contigue della stessa
Regione delle funzioni e delle risorse umane e strumentali delle eventuali
province soppresse.
Lo stesso disegno di legge è stato poi ripreso al Senato nel giugno del 2010,
facendo
però
sparire
l’Art.14
e
cancellando,
quindi,
ogni
criterio
di
razionalizzazione delle Province in seguito alla diatriba interna alla maggioranza
di governo e all’opposizione della Lega Nord a rivedere i confini delle
circoscrizioni.
Tutto questo successe pochi giorni dopo che anche i partiti dell’opposizione, in
particolare con la proposta del Sen. Giaretta (PD), si erano espressi a favore della
riduzione delle Province tramite il loro accorpamento, avanzando ancora la
possibilità di trasformazione in enti di secondo grado.26
Col Decreto Legge n.78 dello stesso anno si introducono norme per ridurre il
numero dei Consiglieri comunali e provinciali, oltre che degli Assessori, iniziando
un processo di diminuzione della rappresentanza popolare ancora in atto.
Occorre aspettare l’estate del 2011 per vedere riproposto il tema delle Province,
quando, a causa della situazione economica, il Governo si trovò costretto a
ricorrere a forti tagli.
Il dibattito partì ancora una volta dal parlamento con l’ennesimo voto contrario
alla proposta di abolizione di IDV e UDC che già era stata presentata due anni
prima.
A questa seguì il disegno di legge presentato dall’On. Bersani (PD) nel quale si
vuole legare la riforma degli enti locali al disegno federalista.27
In questa proposta si ritiene che una soppressione tout court non porterebbe più
efficienza e che quest’ultima sarà solo l’effetto di una razionalizzazione mirata
delle circoscrizioni e di una definizione chiara delle funzioni.
26
27
PDL 2242, XVI Legislatura.
PDL 4439, XVI Legislatura.
24
Le successive proposte degli On.Pastore (Lega Nord)28 e Bruno (PDL)29 ribadiscono
la necessità di un ente intermedio che detenga le funzioni di area vasta e
coordinamento fra i Comuni, I due disegni di legge divergono però sui criteri
dimensionali da adottare: un minimo di 300.000 abitanti e 3.000 kmq per Pastore,
500.000 abitanti per Bruno.
L’ultima proposta è ancora dell’On. Vassallo il quale aggiorna il testo che aveva
già presentato a inizio legislatura: indica nel modello degli enti locali spagnolo
quello da seguire per la razionalizzazione e ribadisce la necessità di una struttura
dello Stato su tre livelli, con Province istituite direttamente dalle Regioni.30
Il modello che viene presentato si articola in quattro punti:
1. Istituzione di soglie di carattere demografico, per ridurre il numero delle
circoscrizioni ed evitare la proliferazione delle Province, e l’impossibilità per
le Regioni con meno di 500.000 abitanti di avere più d’una Provincia;
2. Le Province mantengono le funzioni di area vasta attribuite loro dalle
Regioni, garantendo il coordinamento e la collaborazione tra i Comuni;
3. Le Province diventano enti di secondo livello, con un consiglio provinciale
che si trasforma in assemblea di sindaci che a loro volta eleggono un
Presidente. In tal modo si sostiene che ci sarà maggior connessione tra i
Comuni e le Province.
4. Istituzione delle Città Metropolitane in alternativa alle Province solo se i
Comuni delegano competenze e funzioni specifiche.
Nel settembre del 2011 con il Disegno di Legge Costituzionale denominato
“Soppressione degli enti intermedi” si ha l’ultimo atto del Governo Berlusconi sul
tema del riassetto istituzionale, stimolato, come molti rumors giornalistici
sostengono, dall’intervento diretto della Banca Centrale Europea.31
28
PDL 4493, XVI Legislatura.
PDL 4499, XVI Legislatura.
30
PDL 4506, XVI Legislatura.
31
L’abolizione delle Province sarebbe una delle richieste della famosa lettera inviata dalla BCE e firmata
da Trichet e Dragi (rispettivamente Presidente uscente e in pectore) il 5 agosto del 2011 al Governo
italiano e ne fanno riferimento quasi tutti i principali giornali italiani nei giorni di settembre del 2011 e
viene citato direttamente nei decreti in materia del Governo Monti. Ciò è il segno evidente di come alla
base delle scelte fatte in materia di riordino territoriale ci sia soltanto il criterio del risparmio economico,
banché ciò non sia affatto scontato.
29
25
La proposta consiste nel cancellare dal testo costituzionale il termine “Province”,
definendole come “enti locali regionali” per l’esercizio di funzioni d’area vasta di
almeno 300.000 abitanti per una superficie di 3.000 kmq.
Inoltre, si conferma la trasformazione in enti di secondo livello, col solo Presidente
eletto a suffragio universale.
Questo provvedimento, da rendere operativo entro sei mesi, non vide mai la luce
anche perché nel giro di tre mesi l’aggravarsi della situazione economica e
l’avvento del Governo Monti ha rimescolato le carte e cambiato il centro del
dibattito sul ruolo delle Province.
1.2.3 Il Governo Monti: dal “Salva Italia” alla “Spending review”
L’arrivo del Governo Monti e la necessità di intraprendere in tempi rapidi una
manovra finanziaria che salvasse i conti dello Stato ha portato nel dicembre 2011
a emanare il Decreto n. 201 definito “Salva Italia”, trattando, tra i molti argomenti,
anche il tema degli enti locali.
Nell’Art.23, in particolare dal comma 14 al comma 19, si parla specificatamente
delle Province, le quali vengono di fatto svuotate di funzioni e diventano enti di
secondo livello, con un consiglio di durata quinquennale formato da dieci
persone scelte tra i sindaci e i consiglieri comunali dei comuni appartenenti che
elegge a sua volta un Presidente.
L’unica funzione che questo nuovo ente mantiene è quella d’indirizzo politico e di
coordinamento delle attività dei comuni, lasciando che siano le regioni a decidere
quali funzioni attribuirgli.
Questa norma, da rendere operativa a sei mesi dalla sua approvazione, ha, di
fatto, bloccato il rinnovo di alcune Giunte provinciali che altrimenti sarebbero
andate al rinnovo nell’aprile 2012 e ha provocato il ricorso al TAR e alla Corte
Costituzionale di sei Regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Lazio e
Campania) che sostengono l’incostituzionalità del decreto.
Nel frattempo, a sei mesi dal decreto nessuna legge di conversione del Decreto
era stata adottata dal governo e si dovrà aspettare il Decreto n.95 del 6 luglio
2012, più noto come “Spending review” per rivedere presentato il tema della
razionalizzazione delle Province a statuto ordinario.
Particolarmente significativi sono i primi due commi dell’Art.17 che recitano:
26
“1. Al fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica
imposti dagli obblighi europei necessari al raggiungimento del pareggio di
bilancio, le Province sono soppresse o accorpate sulla base dei criteri e secondo la
procedura di cui ai commi 2 e 3.
2. Entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il
Consiglio dei ministri determina, con apposita deliberazione, da adottare su
proposta dei Ministri dell’interno e della pubblica amministrazione, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, i criteri per la riduzione e
l’accorpamento delle Province, da individuarsi nella dimensione territoriale e nella
popolazione residente in ciascuna Provincia (…). Sono fatte salve le Province nel
cui territorio si trova il comune capoluogo di regione. Sono fatte salve, altresì, le
Province confinanti solo con Province di regioni diverse da quella di
appartenenza e con una delle province di cui all’articolo 18, comma 1” (le Città
Metropolitane).
Si confermano inoltre le funzioni di indirizzo e coordinamento, nel rispetto del
principio di sussidiarietà, e l’attribuzione delle altre funzioni ai Comuni, i quali
possono esercitarle in forma associata.
Ne deriva un disegno che vedrà l’accorpamento di molte delle attuali Province e,
quindi, una riduzione consistente delle circoscrizioni, mentre, come previsto
dall’Art.18 dello stesso decreto, laddove è previsto le Province diventeranno Città
Metropolitane, che mantengono però tutte le funzioni del vecchio ente.
La conferma della trasformazione in enti di secondo livello ha come conseguenza
un sostanziale “commissariamento” delle Province da parte dei Comuni: il
Presidente provinciale verrà eletto dai Consiglieri comunali, mentre i Consiglieri
provinciali saranno un’assemblea di dieci Sindaci rappresentativi delle varie sub aree territoriali
Interessante è il comma 10 dell’Art.17 che conferma le due sole funzioni che
sarebbero dovute essere svolte a prescindere dalle Province32: la pianificazione
territoriale di coordinamento provinciale e la pianificazione dei servizi di
trasporto.
32
Sulle funzioni rimaste in capo alle Province, s’è voluto usare il condizionale “sarebbero dovute”
perché, come si vedrà in seguito, il decreto del 5 novembre 2012 indicherà la delega ai Comuni di tutte
le funzioni spettanti alle Province.
27
Questo era un passaggio fondamentale dal punto di vista tecnico, in quando si
manteneva il ruolo chiave del PTCP come strumento di coordinamento delle
scelte dei vari Comuni, anche se rimaneva capire quale legittimità avrebbe potuto
avere il ruolo di coordinamento nel nuovo quadro istituzionale così delineato.
Con emendamento al decreto presentato dai Senatori Giaretta e Fratin in data 27
luglio, si sono poi definiti i criteri con cui stabilire le modalità di riordino delle
circoscrizioni provinciali.
Pur mantenendo i requisiti minimi delle nuove Province indicati dal governo,
ovvero i 2.500 chilometri quadrati e i 350.000 abitanti33, diventano le Regioni a
proporre il riordino delle amministrazioni provinciali, dopo che sono stati sentiti i
CAL (Consigli delle autonomie locali).
Inoltre, con tale emendamento si è posta anche una proroga dei tempi di
scadenza fino a 90 giorni per la trasmissione dei piani al Governo.
In tal modo s’è voluto far passare il senso che non sono singole Province a
sparire, ma v’è un riordino più generale che le coinvolge tutte.
È proprio da questo momento che in tutt’Italia sono iniziati dibattiti molto accesi
sulle proposte di riordino territoriale. Sarebbe troppo complesso riportare la
cronaca dei quotidiani locali dell’estate 2012, ma basterebbe scorrere qualche
titolo per capire come l’idea di fondersi con le Province vicine non risultasse
gradita dalla classe politica e dall’opinione pubblica.
Alla base di queste perplessità, tutte molto simili nei diversi contesti, si
rintracciavano più motivi campanilistici che un’analisi effettiva del ruolo del
nuovo ente, con la paura di diversi capoluoghi di diventare periferici e con il tema
identitario in primo piano.
È forse per questo che l’Art. 17 è stato un ulteriore motivo di ricorso ai tribunali e
alla Corte Costituzionale da parte delle stesse Regioni che già qualche mese prima
avevano impugnato il decreto “Salva Italia” a cui si sono aggiunte numerose
Province.
L’11 ottobre, il TAR del Lazio ha però respinto la richiesta di sospensiva, non
paventando profili dell’immediata lesività dell’atto impugnato e dando un
formale via libera al Governo per procedere con la riforma.
33
Determinazione dei criteri per il riordino delle Province, a norma dell’Art.17, comma 2, del D.L. 6 luglio
2012, n.95, pubblicata da una circolare del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012.
28
Il 6 novembre la Consulta ha deciso di rinviare a nuovo ruolo la decisione, in
attesa che il procedimento di riordino/riduzione avviato dal Governo si sia
completato.
Con il Consiglio dei Ministri del 31 ottobre si cerca di dare una conclusione al
processo di riforma della pubblica amministrazione, iniziato dal Governo già con
il Decreto “Salva Italia”, con un Decreto Legge che recepisce le proposte dei CAL e
ridisegna la geografia amministrativa italiana.
Il primo effetto è la riduzione delle Province a statuto ordinario da 86 a
51,34comprendendo le Città Metropolitane (Figura 1.1).
Gli accorpamenti prodotti generano situazioni che sfiorano il paradosso: vi sono
nuove Province che per estensione e popolazione superano notevolmente molte
Regioni Italiane, costituendo più delle sub – regioni che degli enti che si pongono
tra i Comuni e le Regioni.
Le Giunte in essere saranno sciolte dal 1° gennaio 2013 e da quella data fino al
novembre dello stesso anno, mese in cui saranno indette le elezioni (di secondo
livello) per decidere i nuovi vertici, le Province saranno gestite dal Presidente in
carica, in qualità di Commissario, e da tre Consiglieri provinciali.
Le nuove Province saranno attive a partire dal 2014, così come le Città
Metropolitane, e ad esse corrisponderanno nuovi uffici territoriali di governo
decentrati, che saranno così anch’essi razionalizzati.
I nuovi capoluoghi saranno localizzati nella città più popolosa, salvo altri accordi
volontari, e questi saranno la sede di tutti gli uffici, mentre il nome può essere
modificato su volontà del Consiglio provinciale.35
Per quel che riguarda le funzioni che spettavano alle Province, esse saranno
conferite ai Comuni da parte delle Regioni, salvo che per assicurarne l’esercizio
unitario tali funzioni siano acquisite dalle Regioni stesse.36
Viene quindi smentito nei fatti il comma 10 dell’Art.17 del Decreto “Spendig Review”,
non lasciando alle nuove Province nemmeno la funzione di Pianificazione
territoriale di coordinamento d’area vasta.
34
D.L. 188/2012, Art. 2, comma 1, contiene l’elenco delle nuove Province.
D.L. 188/2012, Art. 3.
36
D.L. 188/2012, Art. 4, comma 1, lettera b).
35
29
Questo decreto ha scatenato ulteriori moti di reazione sui territori, sia di Province
che rivendicano la propria indipendenza sia di Comuni che desiderano cambiare
circoscrizione provinciale o, addirittura, Regione.37 Si prosegue, quindi, in una
stagione di ricorsi e reclami che fa apparire non ancora del tutto terminato questo
processo.
37
Varlese L. (2012), “Province, il riordino scatena i campanilismi. Da nord a sud la mappa delle proteste”
da La Repubblica del 1-11-2012.
30
Figura 1.1: I confini delle nuove Province
Fonte: Consiglio dei Ministri, 2012
31
1.3 Le valutazioni degli effetti della riforma delle Province
1.3.1 Studi e valutazioni precedenti alle riforme del Governo Monti
Come s’è già scritto, non sono stati molti gli studi e le analisi di costi e benefici
che deriverebbero dalla razionalizzazione delle Province, soprattutto prima delle
riforme del Governo Monti, quando si parlava più di abolizione tout court che di
razionalizzazione dell’ente.
Valerio Onida, già Presidente della Corte Costituzionale, è stato sicuramente il
primo, anche in tempi non sospetti, a evidenziare la necessità di affrontare il tema
con “meno retorica dell’antipolitica, e più capacità di affrontare i problemi con
razionalità” (Onida, 2011).
Seppur nella brevità di un articolo di giornale, Onida pone alcune questioni
fondamentali: chi svolgerebbe le importanti funzioni che le Province esercitano
con la loro scomparsa? Ci sarebbero davvero risparmi importanti dall’abolizione
delle Province?
Secondo il costituzionalista, il crescendo di compiti e servizi delegati alle Province
negli ultimi vent’anni e l’importanza dei settori toccati (difesa del suolo, ambiente,
smaltimento rifiuti, trasporti, scuole secondarie ecc.) non renderebbe così semplice
la soppressione dell’ente.
Ciò implicherebbe la scelta tra due strade: la delega delle funzioni di
coordinamento d’area vasta ai Comuni, attraverso le forme di cooperazione, o
l’attribuzione di esse alle Regioni.
La prima soluzione è difficilmente percorribile per Onida, in quanto manca una
tradizione solida di intercomunalità in Italia, mentre la regionalizzazione è vista
come un’opzione accentratrice e “non in grado di soddisfare le aspirazioni di
autogoverno delle popolazioni”.
Ci sarebbe, quindi, un rischio di centralismo regionale che di certo non
porterebbe ad un risparmio della spesa pubblica: le Regioni dovrebbero
comunque creare delle agenzie e degli uffici decentrati, con personale e unità
organizzative che non diminuirebbero.
L’unico costo abbattuto sarebbe quello derivante dal taglio di Giunte e
Consiglieri, una cifra risibile barattata con quote di democrazia diretta.
32
Per Onida la soluzione potrebbe essere proprio quella della razionalizzazione e
della creazione, dopo vent’anni di attesa, delle città metropolitane, linea poi
adottata sostanzialmente anche dal Governo Monti.
Un altro interessante studio che precede i due decreti “Salva Italia” e “Spending
review”, è quello condotto da Lanfranco Senn e dal Dott. Roberto Zucchetti38nel
quale si valuta l’efficienza delle Province, per stimare i risparmi ottenibili dalla loro
eliminazione o dal loro riassetto.
L’indagine mostra dati significativi soprattutto sulle spese dell’ente, che per
comodità di lettura è più facile elencare.
-
Le Province coprono circa metà del proprio fabbisogno finanziario con
entrate autonome;
-
In media, dal 2007 al 2010 la spesa totale è diminuita di circa il 15%, la
spesa corrente del 4,7% e la spesa per investimenti del 34,7%;
-
Le Province effettuano solo il 4,5% del totale della spesa corrente di
Regioni ed enti locali (rispettivamente al 72,7% e al 22,8%) e il 9,2% della
spesa per investimenti (sulla restante parte le Regioni e gli enti locali si
spartiscono equamente le percentuali);
-
Le spese delle Province si ripartiscono principalmente su cinque funzioni:
gestione del territorio 21%, istruzione pubblica 18%, trasporti 12%,
sviluppo economico 9%, tutela ambientale 7%. A queste vanno aggiunte le
spese di amministrazione, circa un quarto del totale, e quelle per funzioni
minori come cultura, turismo e settore sociale che raccolgono quote
attorno al 2% della spesa totale.
In particolare, se si analizzano solo le spese per investimenti, ben il 42% è
dedicato alla gestione del territorio, dato con cui s’evince l’importanza
delle Province sui temi della pianificazione d’area vasta.
-
La spesa pro capite diminuisce all’aumentare della popolazione una volta
superata la soglia dei 350.000 abitanti, e viceversa l’autonomia finanziaria
cresce all’aumentare della popolazione con un cambiamento di ritmo
sempre intorno ai 350.000 abitanti (non a caso questo è diventato uno dei
requisiti minimi indicati dal Governo con la “Spending review”);
38
Senn. L e Zucchetti R. (2011), dallo studio condotto da CERTeT-Bocconi per UPI “Una proposta per il
riassetto delle Province” presentato alla conferenza nazionale dell’UPI nel dicembre 2011.
33
-
I costi della rappresentanza democratica incidono solo per l’1,4% sul totale
della spesa corrente;
Questi numeri, insieme al fatto che nel quadro nazionale le situazioni sono
comunque molto eterogenee e diverse, inducono i ricercatori a soffermarsi
soprattutto sulla ricerca della dimensione efficiente.
Non è però la dimensione territoriale e demografica a incidere sull’efficienza,
poiché viene dimostrato che per ogni range di grandezza il valore medio delle
spese di gestione è pressoché uguale.
La soppressione di qualche amministrazione più piccola non porterebbe, quindi,
alcun miglioramento, più raggiungibile, invece, attraverso degli accorpamenti.
Per risparmiare sulla spesa pubblica, la strada indicata non è quella del
trasferimento di funzioni, perché esse non sparirebbero ma semplicemente
sarebbero delegate ad altri enti (con il rischio di creare diseconomie), bensì quella
del contenimento dei costi di gestione amministrativa e controllo. Quest’obiettivo
si potrebbe raggiungere con una netta divisione dei compiti tra gli enti, lasciando
alle Province lo svolgimento delle cinque funzioni fondamentali che lo studio ha
fatto emergere, sulle quali concentrare fortemente le risorse.
Il confronto con il livello di efficienza dei Comuni, mediamente più basso, fa
emergere il rischio di un trasferimento di funzioni verso il basso e, di contro,
indica come proprio un rafforzamento delle Province sulle proprie competenze sia
di maggior aiuto anche agli enti locali in termini di assistenza.
1.3.2 Studi e valutazioni dopo i decreti “Salva Italia” e “Spending review”
L’UPI (Unione Province Italiane) ha reagito immediatamente al “Salva Italia”, come
si può riscontrare dal documento pubblicato dal gruppo di lavoro sulla
pianificazione territoriale il 21 dicembre 2011.39
Per i tecnici UPI la riforma attuata dal governo rischia di svuotare di senso il livello
intermedio di governo e si chiede come possano essere affrontati i temi
ambientali e territoriali che richiedono una visione d’area vasta, più ampia dei
Comuni e più ristretta delle Regioni.
39
Il documento s’intitola “Il punto di vista dei tecnici delle Province” ed è stato redatto dai Dirigenti e
Responsabili che fanno parte del “Gruppo di Lavoro UPI sulla pianificazione territoriale” e pubblicato sul
sito internet del UPI in data 21 Dicembre 2011.
34
Il rischio paventato è quello di avere una totale perdita di controllo su alcune
fondamentali questioni, quali: consumo di suolo, consumo delle risorse,
pianificazione
paesaggistica,
progettazione
della
rete
infrastrutturale,
coordinamento dei piani e gestione del rischio idrogeologico.
In particolare s’individuano sei punti principali sui quali orientare un dibattito
che, altrimenti, si limiterebbe alla sola efficienza economica dello Stato.
1. Il ruolo del PTCP è fondamentale per il consumo di suolo, per porre un
freno
alla dispersione insediativa e alla corsa irrazionale verso
l’urbanizzazione. Con la soppressione delle Province il costo territoriale da
pagare sarebbe altissimo.
2. In una situazione di crisi economica le Province si sono mostrate
importanti perché hanno favorito operazioni di sviluppo e di promozione
territoriale, valorizzando spesso le peculiarità paesaggistiche e culturali.
3. La Provincia è l’unico ente che riesce ad essere vicino e sa dare risposte a
quei centri medi e piccoli che creano aree vaste sub-provinciali, non
dissipando così patrimoni e risorse importanti.
4. La riforma degli enti locali non deve toccare solo Province e piccoli Comuni
ma deve investire anche le grandi città, attraverso l’istituzione delle Città
Metropolitane, e deve rivedere anche le Regioni stesse.
5. Il ruolo di coordinamento territoriale deve rimanere in capo alle Province
entro indirizzi statali validi per tutti gli enti pubblici.
6. Rendere le Province enti di secondo livello vorrebbe dire perdere
l’autonomia e l’indipendenza di scelta nei confronti dei Comuni. Le scelte
territoriali sarebbero quindi l’esito di un compromesso tra i Comuni, con
gravi ripercussioni sull’equilibrio e la coerenza dei territori.
Con queste considerazioni si assiste per la prima volta all’ingresso dei temi relativi
alla pianificazione del territorio nel dibattito sul riordino istituzionale,
individuando le buone pratiche svolte dalle Province e quali rischi verrebbero a
delinearsi in caso di loro trasformazione.
Significativo è il punto di vista di Marco Pompilio40, esperto di pianificazione
territoriale a capo del Gruppo di lavoro UPI, per il quale la scelta di svuotare le
Province è stata fatta a priori per la forza comunicativa che aveva ormai assunto il
40
Pompilio M., da EyesReg, Marzo 2012.
35
tema, senza alcuno studio economico e senza affrontare tutta la complessità
dell’argomento.
Il vero problema da affrontare, comune in tutta Europa, è quello della dimensione
sempre più ampia delle dinamiche territoriali, con il superamento di quelli che
sono i confini amministrativi di Comuni, Province e Regioni, che si trovano ad
essere in questo senso obsoleti.
Esistono territori intermedi tra le dinamiche comunali e provinciali che non sono
riconosciuti in nessun tipo di ente: da questi territori si dovrebbe ripartire per
razionalizzare il sistema, garantendo per essi un governo unitario e una
pianificazione coordinata.
In tal modo si andrebbe a costituire un modello di pianificazione d’area vasta
formato da una serie di reti di piani, in linea con le sperimentazioni che
avvengono in Europa.
Inoltre Pompilio ritiene che in tempi di ristrettezze economiche sia meglio
lavorare sulla precisazione delle funzioni, basandosi sui principi di sussidiarietà e
adeguatezza, diminuendo così le sovrapposizioni e quindi gli sprechi.
In particolare, l’ente intermedio dovrebbe preoccuparsi di erogare i servizi di
prossimità, per i quali un singolo Comune non ha le competenze e la dimensione
adeguata per poterli offrire, ed occuparsi delle problematiche di area vasta che
vanno oltre i confini comunali.
Se per il ruolo di erogatore di servizi può funzionare anche un ente di secondo
livello, per le dinamiche d’area vasta si crea la necessità di un ente che sia
coordinatore e dotato di quell’autonomia necessaria per svolgere un autentico
ruolo di inquadramento strategico.
Questo ruolo difficilmente potrà svolgerlo un ente di secondo livello: in
particolare, appunto, sul coordinamento della pianificazione territoriale per quel
che concerne l’indirizzo strategico, ma anche per le verifiche di compatibilità dei
piani, per la localizzazione di strutture di rilevanza sovracomunale e la difesa del
suolo.
Se tutto ciò passasse in mano alle Regioni o ad enti intermedi depotenziati, si
rischia di perdere quei pochi principi di coesione e coerenza territoriale che fino
ad oggi molte Province erano riuscite a garantire.
Un compromesso accettabile per mantenere un grado di legittimità popolare
potrebbe essere quello di rendere il Presidente eletto a suffragio universale,
36
mentre il Consiglio provinciale sarebbe sostituito da un’assemblea di sindaci; ma
anche su questa alternativa permangono i dubbi.
Infine, è interessante citare due studi che provano a fare una stima delle
conseguenze in caso di abolizione delle Province.
Il primo, di Nicola Meliedo41 e dal significativo titolo “La resa delle Province”,
delinea scenari probabili e possibili soluzioni partendo dai benefici e dai rischi
che sarebbero generati dalla trasformazione dell’ente intermedio.
Attualmente il 34% delle entrate è d’origine regionale tramite trasferimenti: ciò
rende le province più sottosistemi regionali che un network nazionale di
istituzioni omogenee.
Le principali voci di spesa sono oggi costituite da tre voci: edilizia scolastica,
gestione del territorio (in particolare le strade) e sviluppo economico.
L’altra grande voce a bilancio riguarda il personale; ma negli studi di chi motiva la
necessità dell’abolizione delle Province non si considera mai la produttività e la
qualità dei servizi offerti.
Due sono le ipotesi più probabili che delinea Meliedo.
La prima è quella della regionalizzazione, che prevede grandi Unioni dei Comuni
capaci di gestire le risorse e i servizi che oggi sono gestiti dalle Province.
Ciò permetterebbe di avere molti risparmi sull’apparato politico e sui vincoli
burocratici, vicini ai 500 milioni di euro, mentre i 700 milioni di risparmio che
dovrebbero derivare dal trasferimento di funzioni alla regione sarebbero solo
riallocati.
La situazione attuale delle Unioni dei Comuni non permetterebbe però un
passaggio semplice tra i due sistemi. Per Meliedo i risultati dell’associazionismo
comunale sono ancora scarsi, presentando un quadro di Unioni piccole e capaci
di condividere solo pochi servizi, non ancora dotato di una struttura consolidata.
In tal modo vi sarebbe un aumento spropositato del centralismo regionale, che
guiderebbe dall’alto la formazione di questi nuovi enti di carattere associativo tra
i comuni.
La seconda ipotesi prevista è quella che definisce come le “Province comunali”,
ovvero enti di secondo livello che coordinano le funzioni d’area vasta e con una
struttura tecnica e amministrativa di alto profilo.
41
Meliedo N., 2011.
37
In tal modo, però, le Province diventerebbero una sorta di super partecipata,
guidata dall’apparato tecnico più che dalla politica.
Il secondo studio è di Sabrina Iommi, dal titolo “Il decreto Salva Italia e il destino
delle Province. Meglio iniziare dalla revisione dei confini comunali”.42
Il
problema
del
governo
locale, in
Italia, sarebbe dato
dall’eccessiva
frammentazione, con amministratori che gestiscono territori più piccoli di quelli in
cui si svolgono le azioni quotidiane di cittadini e imprese.
Abolire le Province e poi lasciare intatto tutto il sistema delle circoscrizioni
comunali rischierebbe, addirittura, di creare un ulteriore deficit di efficacia e di
efficienza degli enti pubblici.
Viene quindi simulato un caso di riassetto complessivo degli enti locali in
Toscana.
Si ipotizza che i 287 comuni diventino 54 (usando il criterio dei sistemi locali del
lavoro), il che ridurrebbe di un quarto il corpo politico e genererebbe economie di
scala per un risparmio di 228 milioni di euro.
In più, riorganizzando le Province secondo criteri di area vasta si arriverebbe ad
avere tre enti intermedi: una Provincia centrale (Firenze, Prato, Pistoia), una
costiera (Massa e Carrara, Lucca, Pisa e Livorno) e una meridionale (Arezzo, Siena,
Grosseto).
Ciò porterebbe al risparmio, sempre dovuto al taglio sui politici e alle economie di
scala, di altri 98 milioni di euro.
Una riforma del genere permetterebbe un risparmio quasi doppio rispetto a
quello previsto dal “Salva Italia” (da 180 milioni di euro a circa 315) oltre che ad
una forte operazione contro la frammentazione del sistema di governo locale
italiano.
Sempre Onida entra nel merito della “Spending review” e sui criteri adottati dal
Governo per il riordino delle Province, giudicandoli sì rozzi ma al contempo
efficaci per portare a termine una riforma che nel complesso viene ritenuta buona
perché volta ad accorpare e non a sopprimere (Onida, 2012).
Inoltre, giudica la manovra legislativa pienamente costituzionale, invitando le
Province e le Regioni che hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale a mettere
42
Iommi S., da EyesReg, Marzo 2012.
38
da parte i localismi e a collaborare a un riordino degli enti locali che se portato a
termine potrebbe essere un successo per tutti.
1.4 Considerazioni di sintesi
Il percorso di riforma compiuto dal Governo Monti ridisegna non solo i confini
delle Province, ma le riforma soprattutto nel profilo istituzionale trasformandole
in enti di secondo livello, con un Presidente eletto dal voto di sindaci e consiglieri
comunali, e svuotandole di ogni funzione.
Da un lato, i rappresentanti dell’ANCI, primi ad esprimersi sull’argomento, si sono
mostrati soddisfatti dell’esito finale già dopo la “Spending review” considerando
un grande successo questa trasformazione delle Province; si ritiene, infatti, che
finalmente saranno eliminate molte inefficienze e che i comuni potranno
coordinarsi autonomamente senza conflitti tra i vari livelli istituzionali.
D’altro canto s’è vista tutt’altra reazione da parte delle Province, come dimostrano
i ricorsi alla Corte Costituzionale.
In un dibattito che s’è concentrato più sulle diatribe campanilistiche a proposito
dei confini circoscrizionali, poco s’è detto sulle perplessità più evidenti: lo
svuotamento di funzioni e la trasformazione in enti di secondo livello.
Di fatto si rinuncia a quote di democrazia diretta in nome di un’efficienza
economica ancora tutta da dimostrare: anzi, le Province, come dimostra lo studio
condotto da CERTeT-Bocconi sono in media l’ente pubblico che spende meno e
forse meglio di tutti gli altri.
Davanti ad una riforma così radicale, è facile domandarsi con quale autorevolezza
le nuove Province eserciteranno il ruolo di coordinamento e, dal punto di vista
della pianificazione territoriale, come sarà legittimato il PTCP.
Un presidente eletto dai sindaci non ha di certo la libertà e la visione super partes
di uno eletto direttamente dai cittadini.
Verrebbe così a minarsi quell’autorevolezza istituzionale su cui si basa il ruolo di
coordinamento delle Province, più deboli nel garantire la coerenza con scelte
sovralocali che saranno il frutto della mediazione tra i singoli Comuni.
I casi sono due (come in un certo senso paventa anche lo studio di Meliedo): o c’è
un forte apparato tecnico che guida le scelte di carattere sovralocale - ma allora
s’assisterebbe ad una tecnocrazia - o, com’è più probabile, l’esito del
39
coordinamento sarà lo specchio degli equilibri dialettici tra i sindaci e i comuni,
con i più grandi a fare la parte del leone.
Senza sistemi di perequazione territoriale e fiscale rischia di aumentare la distanza
tra i Comuni più piccoli e quelli più grandi, con il timore che si crei nel tempo una
doppia velocità territoriale.
Un’altra grande contraddizione dell’esito finale delle riforme è relativa alle
funzioni.
Non si capisce, infatti, perché le funzioni attribuite alle Province verranno
assegnate ai Comuni, mentre le nuove Città metropolitane non solo le
manterranno ma ne aggiungeranno forse di nuove.
La nuova mappa delle Province fa emergere come alcune di esse valgano molto
di più in termini demografici, territoriali ed economici di alcune Città
metropolitane: perché, allora, non devono disporre degli stessi strumenti e delle
stesse risorse, considerando anche che si devono occupare di ambiti più vasti?
Il risultato dell’azione governativa è quello di aver creato enti intermedi
certamente più grandi ma al contempo svuotati di ogni significato, senza funzioni
e delegittimati dal punto di vista istituzionale. Non è un caso che la tendenza di
molte Regioni sembri essere quella di accentrare molti compiti prima delegati alle
Province, affinché le funzioni d’area vasta possano essere esercitate da un ente
con piena autonomia e legittimità.
Raramente in
Europa si è assistito
allo
smantellamento
di un
ente
intermedio,43introducendo una riforma che colpisce le Province solo perché l’ente
più bersagliato dall’opinione pubblica, senza però toccare tutti gli altri livelli
istituzionali.
Mai In tempi di crisi economica è indicato attuare disegni di riforma degli assetti
del governo locale, sia perché comporta costi di transizione altissimi sia perché un
disegno riformatore serio implica anni di messa a regime.
Si pensa, piuttosto, che le inefficienze non nascano dall’avere due, tre o quattro
livelli di governo, ma dall’avere un quadro delle funzioni specifiche di ogni ente
confuso e contradditorio.
43
L’unico caso eclatante paragonabile è quello britannico del Local Government Act del 1985, con cui il
governo Thatcher abolì i Consigli di Contea delle Contee Metropolitane.
40
È da quando il titolo V della Costituzione è stato riformato, ormai più di dieci anni
fa, che si attende la Carta delle Autonomie, la quale dovrebbe finalmente chiarire
il “chi deve fare cosa”.
Il governo e i rappresentanti degli enti locali avrebbero dovuto concentrarsi
soprattutto su questo, puntando a dare massima efficienza a ciò che oggi già
esiste, chiarendo una volta per tutte il ruolo di ogni ente.
La democrazia non è un costo o, peggio ancora, un lusso che non ci si può
permettere in tempi di crisi, bensì fattore di sviluppo economico e sociale a cui
non si dovrebbe mai rinunciare.
Questo iter sembra ormai volgere al termine e con questo nuovo quadro
istituzionale ci si dovrà confrontare. La sfida è quindi quella di capire se e come si
possono garantire le funzioni e il coordinamento d’area vasta senza più contare
sulla forza delle Province.
Visto che la scelta non può essere quella del centralismo regionale (Onida, 2011),
si intende allargare lo sguardo al panorama europeo, osservando e analizzando i
modelli di governo locale che sono stati sviluppati.
L’intercomunalità, come indicato anche da qualche studio citato nelle pagine
precedenti, può essere lo strumento che si pone come alternativa all’ente
intermedio classico: in particolare in materia di pianificazione sovralocale. Non a
caso, l’associazionismo tra Comuni s’è molto sviluppato in Europa, dove ci sono
esperienze più mature rispetto all’Italia.
Anche la pianificazione d’area vasta s’è evoluta in questo solco. Pare pertanto utile
analizzare la cooperazione intercomunale in alcuni Paesi europei che l’anno ormai
da tempo introdotta e sperimentata come modello alternativo alle Province.
41
CAPITOLO 2
LA COOPERAZIONE INTERCOMUNALE IN EUROPA, UN’ALTERNATIVA ALL ’ENTE INTERMEDIO
Molti Paesi europei vantano una lunga tradizione sui temi della cooperazione
intercomunale.
Attraverso questo strumento si è cercato quasi ovunque non solo di
razionalizzare le spese di realizzazione e gestione dei servizi ma anche di costruire
una visione territoriale vicina ai cittadini e capace di andare oltre al singolo
Comune.
Ovviamente, il quadro è molto eterogeneo a causa dei diversi contesti sociali,
legislativi, costituzionali e istituzionali dei diversi Stati.
È però molto utile ai fini della ricerca tratteggiare le maggiori tendenze in atto,
cercando di capire se davvero l’intercomunalità può essere una valida alternativa
alle Province.
Infine, si guarderà con particolare attenzione all’esperienza francese, sia perché
oltralpe vige un ordinamento degli enti locali molto simile a quello italiano sia
perché rappresenta, ad oggi, uno dei modelli più avanzati di cooperazione.
2.1 Storia e caratteristiche della cooperazione intercomunale in Europa
La storia della cooperazione intercomunale risale a partire dagli anni ’60, quando
il boom economico portò ad uno svuotamento di molte piccole comunità, non
più in grado di offrire servizi di livello e qualità autonomamente.
Inoltre, l’affacciarsi di nuove problematiche, come il pendolarismo, o la necessità
di dare luogo a grandi scelte insediative, fece capire come i confini fossero spesso
e volentieri superati dalle dinamiche sociali ed economiche.
Tutto ciò accadde non solo nei contesti metropolitani, ma anche in realtà urbane
medie, facendo intuire la necessità di un cambio di scala nell’interpretare e
governare i territori.
La deregulation degli anni ’80, l’ulteriore caduta di confini e barriere e una strategia
economica ispirata dai criteri delle competizione hanno poi portato le metropoli a
rivaleggiare sullo scacchiere internazionale per attrarre risorse e investimenti.
Questa fu l’occasione per attuare riforme a tutto tondo sugli enti locali, con la
finalità di ridefinire i modelli di governance territoriale su tutte quelle funzioni
42
definibili come d’area vasta e che non trovavano una dimensione adeguata nei
confini comunali.
Ovviamente, si riscontrano differenze di scala e di strategie, ma si possono
individuare quattro principali strade con cui s’è affrontato il problema.
1. La fusione dei Comuni, è stata la modalità con cui gli Stati hanno cercato
di avere alla base del loro ordinamento municipalità grandi ed estese.
Si possono notare differenze notevoli nel quadro europeo. Da un lato i
Paesi nordici che hanno iniziato questo percorso già negli anni ’70 e hanno
raggiunto risultati importanti in questo senso. Basti pensare che un
Comune medio in Gran Bretagna ha 130.000 abitanti, in Svezia 31.000 e in
Germania 10.000.
Nei Paesi mediterranei, invece, non s’è riuscito a porre un freno alla
polverizzazione comunale che li contraddistingue per ragioni storiche e
sociali. Pochi sono stati gli accorpamenti, soprattutto a causa delle
resistenze locali.
2. Distribuzione delle funzioni e risorse a enti locali di livello superiore.
L’esempio più semplice è immediato è quello italiano, dove, come s’è visto,
nel giro di vent’anni si sono affidate alle Province molte funzioni di
governo e gestione dei servizi d’area vasta. In particolare, nei Paesi in cui
s’è optato per questa scelta, tra le funzioni delegate ha avuto particolare
rilievo la pianificazione territoriale.
3. Esternalizzazione di servizi a privati, strada intrapresa soprattutto nelle
nazioni anglosassoni.
4. La cooperazione (non solo tra Comuni, ma anche tra Comuni e altri enti
locali o agenzie).
Questa strategia ha riscosso più successo delle altre perché non implica per
forza la creazione di nuovi enti e il trasferimento di competenze, funzioni e
risorse, lasciando tutto nelle mani dei Comuni.
I vantaggi sono notevoli: la base volontaristica permette di creare strutture
di governance a geometria variabile e i servizi pubblici trovano una
dimensione necessaria per generare economie di scala e mutuo
aggiustamento, in una logica che supera i confini amministrativi.
43
Ovviamente,
il
panorama
europeo
ha
sviluppato
strumenti
di
cooperazione differenti e multiformi, tutti accomunati, però, dalla ricerca
della scala più adeguata e dal mantenimento del controllo locale.
Laddove s’è spinto fortemente sulla cooperazione non si hanno, di contro,
enti intermedi o, se esistenti, sono molto deboli e marginali.
Analizzando in particolare la cooperazione intercomunale, essa è il risultato di tre
principali fattori: la capacità persuasiva, gli incentivi e le leggi.
I primi due aspetti sono profondamente legati, in quanto gli incentivi economici
sono spesso il mezzo con cui convincere i Comuni ad associarsi, mentre l’azione
legislativa serve a creare i presupposti per il trasferimento di competenze e
funzioni.
Il framework legislativo e il tipo d’incentivi adottati orientano moltissimo le
tipologie di cooperazione e sono i due elementi più importanti per determinare o
meno il successo di un processo associativo.
Se su questi fattori si basa il fondamento dell’associazionismo tra Comuni, altri
sono i principi cardine da combinare affinché l’intercomunalità possa avere
successo.
Il primo principio è quello dell’autonomia locale, soprattutto nel gestire
problematiche di scala più ampia di quella municipale. Lo scopo è quello di
portare servizi migliori e a un minor prezzo il più vicino possibile ai cittadini e al
governo locale.
Direttamente legato all’autonomia locale è il principio delle razionalità di
governo.
Infatti, la riorganizzazione delle funzioni e la loro centralizzazione a livelli di
governo superiori, implica cambiamenti radicali nelle geometrie istituzionali.
L’intercomunalità, invece, lascia intatto il dominio dei governi locali sulle politiche
pubbliche, preserva l’autonomia e si rivela una forma più flessibile e adattabile a
eventuali nuovi sviluppi ed evoluzioni dei contesti locali.
Ovviamente
non
mancano
dei
rischi
nella
scelta
della
cooperazione
intercomunale.
Il primo è sicuramente quello di avere costi del processo decisionale più ampi,
poiché, a differenza di un sistema di governano gerarchico/verticale, le scelte e le
politiche sono il risultato di un accordo tra più attori.
44
Inoltre, non è detto che il compromesso finale sia sempre il migliore e il più
efficiente/efficace possibile.
Tuttavia questi problemi sono tipici anche di strutture decisionali più gerarchiche.
L’altro grande rischio è di avere un deficit di democrazia, in quanto le scelte fatte
da istituzioni di governo di secondo livello non sono soggette ad un controllo
democratico diretto.
Se queste sono le caratteristiche generali che accomunano il modello della
cooperazione intercomunale in Europa, è necessario anche individuare le diverse
tendenze maturate ed evolutesi nei diversi Paesi, utilizzando le categorie con cui
lo studio di Hulst e Van Monfort analizzano otto Stati (Belgio, Finlandia, Francia,
Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, UK).
Una prima forma di discrimine sta nel capire se la cooperazione è puramente
intercomunale o coinvolge anche altri attori, sia pubblici che privati (tabella 2.1).
In quasi tutti i Paesi prevalgono le forme di cooperazione intercomunale pura,
con l’eccezione della Gran Bretagna, che ha una tradizione consolidata di
partenariato pubblico/privato nell’erogazione dei servizi.
In altri contesti, come Belgio, Finlandia, Germania ed Italia, le forme di accordo
miste sono spesso strumenti utilizzati per la pianificazione dello sviluppo
economico, cercando di coinvolgere nelle scelte il mondo imprenditoriale e del
terzo settore.
La tendenza generale è comunque quella di rinforzare la cooperazione
intercomunale pura, rispetto a forme di cooperazione miste.
45
Tabella 2.1: La composizione degli accordi di cooperazione
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Tipologia accordi di cooperazione
Accordi misti tra enti pubblici e accordi misti
pubblico/privato si affiancano ad accordi puramente
intermunicipali, ma la nuova legislazione forza le
municipalità a stabilire associazioni di puro carattere
pubblico solo tra comuni, limitando la partecipazione di
attori.
Predominanza di accordi prettamente intermunicipali.
Qualche accordo misto pubblico-privato sui temi dello
sviluppo economico, del trasporto pubblico e dello
smaltimento dei rifiuti.
Forte presenza di forme di cooperazione intercomunale pura
affiancate da forme miste di accordi tra enti pubblici
(Syndicats mixtes).
Forte presenza di forme di cooperazione intercomunale pura,
ma anche network pubblico-privati sulla pianificazione dello
sviluppo economico (Regionalkonferenzen).
Le forme di cooperazione possono essere tra enti locali
diversi, come gli Accordi di programma e i Consorzi, o
possono riguardare solo Comuni come le Unioni dei Comuni
e le Convenzioni, per la gestione di uno o più servizi
integrati. Le forme di cooperazione tra pubblico e privato
avvengono con gli Accordi territoriali sui temi economici.
Forte presenza di organizzazioni intermunicipali per
l’erogazione dei servizi. Numero limitato di organizzazioni e
network interistituzionali.
Forte presenza di associazioni intercomunali a mono scopo o
multiscopo (Mancomunidades). Numero crescente di
organizzazioni pubbliche interistituzionali (Consortia).
Diffusa presenza di accordi misti pubblico-privato
nell’erogazione dei servizi (soprattutto centrale-locale);
network pubblico-privato a livello regionale per la
pianificazione spaziale e socio-economica. Forme di
associazionismo intercomunale in senso stretto promosse
dal governo centrale.
Fonte: rielaborazione da Hulst e Van Monfort, 2007
La tipologia di funzioni svolte da una forma di cooperazione intercomunale sono
un secondo criterio di classificazione; esse possono essere, infatti, prettamente
operative o di coordinamento (tabella 2.2).
Le funzioni di tipo operativo, legate alla produzione di servizi pubblici, sono date
in carico agli accordi cooperativi per diversi motivi: andare oltre i limiti e le
inefficienze dei confini comunali, per generare economie di scala in zone poco
46
abitate o per raggiungere maggiori standard qualitativi o, soprattutto, per godere
di incentivi del governo centrale e regionale.
Quando invece le forme d’intermunicipalità svolgono funzioni di coordinamento,
l’intento è quello di elaborare politiche capaci di regolare le esternalità e di
allocare risorse e costi in una prospettiva sovralocale. Questo discorso è molto
legato, quindi, al ruolo della pianificazione territoriale. Inoltre, la dimensione del
coordinamento è utile anche a influenzare i livelli più alti della pubblica
amministrazione per ricevere risorse e investimenti: infatti, le forme associative
capaci di elaborare politiche comuni su obiettivi strategici sono anche quelle con
maggior comunione d’intenti e forza politica.
Tabella 2.2: Funzioni degli accordi di cooperazione
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Erogazione di un servizio pubblico o pianificazionecoordinamento
La cooperazione è quasi del tutto limitata all’erogazione di
servizi pubblici.
L’erogazione dei servizi pubblici è la vocazione primaria, ma
altri compiti importanti sono la pianificazione dello sviluppo
socio-economico e la gestione dei fondi strutturali al livello
regionale. Le nuove forme di cooperazione emergono
perché coniugano l’erogazione dei servizi pubblici con lo
sviluppo locale.
Prevale l’erogazione di servizi pubblici. Un numero
considerevole di associazioni nelle aree urbane si occupano
di pianificazione territoriale.
Prevale in larga misura l’erogazione di servizi pubblici. Un
numero limitato di associazioni si occupa di pianificazione
regionale integrata, pianificazione territoriale e uso dei suoli.
La cooperazione è uno strumento utilizzato soprattutto per
erogare e gestire servizi pubblici. La logica di pianificazionecoordinamento è tipica del sistema socio-sanitario e per lo
sviluppo socio.economico.
Prevale in larga misura l’erogazione di servizi pubblici.
Limitato il numero di accordi sulle funzioni di pianificazione
territoriale e/o di pianificazione di social housing.
Prevale in larga misura l’erogazione di servizi pubblici.
Prevale l’erogazione di servizi pubblici. Pianificazione e
coordinamento dello sviluppo socio-economico al livello
regionale.
Fonte: rielaborazione da Hulst e Van Monfort, 2007
Come si può vedere dalla tabella, nelle forme cooperative di tutti i Paesi europei
prevalgono le funzioni operative e solo in pochi di essi emergono forme che
coordinino le politiche di sviluppo locale. Ciò accade in forma limitata in
47
Finlandia, Germania, Italia e Paesi Bassi, mentre nelle aree urbane francesi è
consolidata una tradizione di pianificazione territoriale svolta a livello associativo.
Quante funzioni vengono svolte in modo associato è un terzo parametro con cui
classificare
la
cooperazione
intercomunale.
Si
possono
distinguere
intercomunalità che svolgono una sola funzione ad altre che ne integrano un
numero maggiore (tabella 2.3).
Attualmente si sta vivendo una fase di transizione in cui è in atto una generale
trasformazione, con le forme associative multi – funzionali che stanno
dismettendo gradualmente quelle mono – funzionali. Tutto ciò è l’esito di una
stagione
di
riforme
che
ha
rafforzato
notevolmente
la
cooperazione
intercomunale, delegando ad essa sempre più funzioni ed elevandola a un ruolo
chiave nell’ordinamento degli enti locali.
In molti contesti le forme associative tra Comuni assumono, per numero di
funzioni integrate e servizi erogati su un territorio pertinente, profili molto simili a
quelli di un sistema di governance metropolitana.
Tabella 2.3: Lo scopo della cooperazione
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Mono-funzionali o multi-funzionali
Gli accordi di cooperazione sono soprattutto monofunzionali. Accordi multi-funzionali esistono ma devono
includere servizi interdipendenti.
Gli accordi di cooperazione sono quasi tutti esclusivamente
mono-funzionali. Le nuove forme di cooperazione tendono
ad essere multi-funzionali.
Sono presenti entrambe le forme, ma quelle multi-funzionali
stanno sostituendo fortemente quelle mono-funzionali.
Gli accordi cooperativi sono quasi tutti esclusivamente multifunzionali.
Con l’eccezione dei Consorzi di scopo dei primi decenni del
dopoguerra, tutte le attuali forme di cooperazione sono
multi-funzionali.
Sono presenti entrambe le forme. C’è una tendenza ad
abolire le associazioni che integrano più funzioni in accordi
separati mono-funzionali.
Presenti entrambe le forme. Le Mancomunidades sono
soprattutto multi-funzionali mentre i Consortia sono più
mono-funzionali.
Gli accordi sono soprattutto multi-funzionali.
Fonte: rielaborazione da Hulst e Van Monfort, 2007
48
Il quarto criterio attraverso cui comprendere la fisionomia della cooperazione
intercomunale è quello del disegno istituzionale.
Questo aspetto tocca tre punti in particolare: l’organizzazione istituzionale della
forma di cooperazione, il grado di potere che esercita e il ruolo della
rappresentanza politica.
Dal punto di vista dell’organizzazione, le forme di cooperazione possono essere
organizzazioni permanenti, quindi veri e propri enti, accordi formali tra i Comuni
o network variabili a seconda delle funzioni (tabella 2.4).
Con l’eccezione della Gran Bretagna, in tutti i Paesi prevalgono le organizzazioni
permanenti, indice di un processo associativo ormai consolidato e maturo, spesso
affiancate da organizzazioni più informali per la gestione di funzioni di
coordinamento e pianificazione. Questo dato è coerente con quelli visti nelle
tabelle precedenti. Infatti, si sottolinea la fase di passaggio a forme più strutturate
di cooperazione che non a caso integrano sempre più funzioni e che solo in parte
hanno capacità di coordinamento.
Tabella 2.4: Grado di istituzionalizzazione
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Organizzazioni permanenti, accordi formali o network
C’è un range di differenti organizzazioni permanenti, sia con
forme light sia maggiormente strutturate.
Prevalgono le organizzazioni permanenti, affiancate da un
numero crescente di cooperazioni basate su un contratto e
network informali.
Prevalgono le organizzazioni permanenti.
Organizzazioni permanenti mono-funzionali per l’erogazione
di servizi affiancate da network per la pianificazione socioeconomica.
Unioni, Comunità Montane e Convenzioni si configurano
come organizzazioni permanenti per l’erogazione dei servizi.
Gli accordi formali sono, come Accordi di programma e
Accordi territoriali, sono tipici in campo di pianificazione
dello sviluppo socio-economico. Per la pianificazione
territoriale prevale una logica di network.
L’erogazione dei servizi è quasi tutta delegata a
organizzazioni permanenti, logica di network sulla
pianificazione.
Prevalgono le organizzazioni permanenti.
Prevalgono accordi formali per l’erogazione dei servizi.
Network per la pianificazione territoriale e quella socioeconomica.
Fonte: rielaborazione da Hulst e Van Monfort, 2007
49
Le organizzazioni permanenti possono avere a loro volta un diverso grado di
potere decisionale (tabella 2.5).
Gli autori dividono le cooperazioni municipali permanenti tra quelle che per
legge hanno precise funzioni e compiti stabiliti (regional authorities) e quelle le cui
competenze sono decise autonomamente dagli enti che le compongono (regional
agents).
Le prime, si comportano più come veri e propri enti locali “classici”, mentre le
seconde
dipendono
moltissimo
dalla
volontà
dei
singoli
Comuni
e,
potenzialmente, potrebbero gestire tutte le funzioni municipali se queste fossero
loro delegate.
La metà dei Paesi esaminati ha intermunicipalità definibili come regional
authorities, Italia e Finlandia hanno un sistema più misto, mentre in Belgio e Gran
Bretagna, le nazioni che anche per i criteri precedenti hanno un profilo meno
evoluto, prevale la forma del regional agent.
Tabella 2.5: Grado di potere decisionale delle organizzazioni permanenti
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Regional authorities o regional agents*
La maggioranza delle organizzazioni permanenti sono
regional agents.
Regional authorities affiancate da regional agents.
Prevalenza di regional authorities.
Prevalenza di regional authorities.
Sistema misto: sia regional authorities che regional agents.
Prevalenza di regional authorities.
Prevalenza di regional authorities.
Le organizzazioni permanenti sono scarse: prevalenza
regional agents.
Fonte: Hulst e Van Monfort, 2007
* Secondo la definizione degli autori, s’intendono come regional authorities gli accordi cooperativi che
hanno per legge precise funzioni e competenze. S’intendono invece come regional agents quegli
accordi le cui competenze e funzioni sono delegate dagli enti che lo compongono. S’è deciso di usare
questa definizione perché difficilmente traducibile con un sinonimo in italiano.
L’ultimo punto, incentrato solo sulla forma istituzionale della cooperazione
intercomunale, è quello relativo al ruolo della rappresentanza politica (tabella 2.6).
È forse questo il punto più debole, a livello continentale, di tutto il sistema
dell’associazionismo intercomunale, in quanto la rappresentanza è sempre
indiretta e i Consigli generali sono formati da rappresentati dei Comuni.
50
Inoltre, solo nei Paesi di tradizione germanica, ovvero Belgio, Germania e Paesi
Bassi, i consiglieri hanno responsabilità dirette nei confronti della gestione delle
funzioni e dei servizi erogati. Negli altri Paesi, invece, le responsabilità sono tutte
in mano ai Sindaci dei Comuni che fanno parte dell’associazione.
Si ritorna quindi a parlare del rischio di deficit democratico per le forme di
cooperazione, anche se alcuni Stati, come Finlandia e Francia (come si vedrà nel
paragrafo seguente) stanno avviando riforme che vanno verso l’elezione diretta a
suffragio universale dei rappresentanti. Questo passaggio è alla lunga inevitabile
e necessario, davanti a una cooperazione intercomunale che diventa sempre più
strutturata e che è ormai l’attore principale per moltissime funzioni fondamentali
della vita quotidiana di una comunità.
Tabella 2.6: Rappresentanza e responsabilità
Paese
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Spagna
UK
Elezioni e accordi di responsabilità
Il Consiglio di un ente di cooperazione è composto dai
rappresentanti dei Comuni. I consiglieri hanno responsabilità
dirette.
Il Consiglio di un ente di cooperazione è composto dai
rappresentanti dei Comuni e deve riflettere gli equilibri
politici. Nessun ruolo di responsabilità specifica dei
consiglieri. Nuove e sperimentali forme di cooperazione
includono l’elezione diretta dei consiglieri.
I Consigli degli enti di cooperazione sono formati dai
rappresentanti dei Comuni. Nessuna regola sul ruolo e sulle
responsabilità dei consiglieri.
Il Consiglio di un ente di cooperazione è composto dai
rappresentanti dei Comuni. I consiglieri hanno responsabilità
dirette.
Per Unioni e Comunità montane il Consiglio è composto dai
rappresentanti dei Comuni e deve riflettere gli equilibri
politici. Nessun ruolo di responsabilità specifica dei
consiglieri.
Il Consiglio di un ente di cooperazione è composto dai
rappresentanti dei Comuni. Lo statuto regola le
responsabilità dei consiglieri nei confronti del Consiglio.
Il Consiglio di un ente di cooperazione è composto dai
rappresentanti dei Comuni e deve riflettere gli equilibri
politici. Nessun ruolo di responsabilità specifica dei
consiglieri.
Le organizzazioni permanenti sono scarse. Non esiste una
legislazione che si occupa della rappresentanza e della
responsabilità.
Fonte: rielaborazione da Hulst e Van Monfort, 2007
51
Questo breve riepilogo delle caratteristiche principali della cooperazione
intercomunale in Europa fanno capire come questo strumento sia utilizzabile per
stabilire modelli di governo e gestione delle dinamiche d’area vasta alternative
all’ente intermedio.
L’esempio francese è forse quello che meglio riesce a rappresentare questo
processo di delega di funzioni verso enti intercomunali, soprattutto in materia di
pianificazione.
2.2 L’intercomunalità in Francia
2.2.1 La situazione prima della legge del 1999
L’estrema polverizzazione e la debolezza della rete comunale, ereditata dalla
Rivoluzione, ha portato la Francia a sperimentare da oltre un secolo forme di
cooperazione intercomunale.
Degli oltre 36.786 Comuni (circa il 40% del totale dell’Unione Europea), il 95% ha
meno di 5.000 abitanti (di cui 22.500 sotto i 500 abitanti) e in essi vive solo il 39%
della popolazione nazionale. La stessa percentuale vive nei Comuni con oltre
20.000 abitanti che, a loro volta, rappresentano solo l’1,2% del totale delle
municipalità. I Comuni con popolazione compresa tra i 5.000 e i 20.000 abitanti
sono, quindi, il 3,8% e in essi vive il restante 22% della popolazione.
In media, un Comune francese si estende per 17 kmq e ha una popolazione di
1.760 abitanti.44
Questi numeri rendono chiara non solo la frammentazione degli enti locali, ma
anche le grandi disparità che vi sono tra i Comuni stessi.
Una strada per ovviare a questo problema poteva essere quella della riduzione
delle municipalità tramite accorpamenti e fusioni, tentata con la legge Marcellin,
n.71-588 del 1971, ma ha avuto scarso successo.
La causa di questo fallimento sta nell’origine stessa dello Stato francese, basato
su un’autonomia comunale che col tempo s’è consolidata ed è divenuta elemento
identitario delle comunità, le quali si sono opposte alle fusioni proprio per la
paura di perdere la possibilità di autogovernarsi (Deroye, 2012).
44
Ministero degli Interni francese (2012).
52
Ben altra storia e altro riscontro sui territori hanno avuto le leggi con l’obiettivo
della cooperazione istituzionale tra Comuni tramite premialità e incentivi.
La prima legge in questo senso è datata 1890 e ha avuto il merito di creare le
prime forme di associazionismo intercomunale a vocazione unica, i SIVU (Syndicat
itercommunal à vocation unique), con cui gestire un unico servizio in comune in una
logica molto simile a quella dei Consorzi di scopo italiani. Nel 1959 si aggiunsero
anche i SIVOM (Syndicat intercommunal à vocation multiple), con cui si permetteva di
gestire un numero molteplice di servizi.
Queste forme hanno avuto una discreta efficacia nella realizzazione e nella
gestione dei servizi, ma non erano di certo una forma di governance adatta a
elaborare strategie di piano capaci di integrare più funzioni (West, 2007).
Una nuova stagione di sperimentazioni si aprì a partire da metà anni ’60, quando
si crearono gli EPCI (Etablissements Publics de Coopèration Intercommunale), enti
intercomunali con personalità giuridica morale e autonomia amministrativa,
rappresentati da un Presidente (che non è per forza un Sindaco) e governati da
un’assemblea in cui sono rappresentati i Comuni che ne fanno parte.
La legge del 31 dicembre 1966 istituisce le Communautés Urbaine (CU d’ora in
avanti), una forma associativa rivolta alle maggiori agglomerazioni urbane, con lo
scopo di creare un modello di sviluppo più armonioso e di coinvolgere la città
centrale e la corona urbana in una ripartizione dei carichi fiscali più equa.
Seppur fondate su una base volontaristica, il Governo istituì per decreto quattro
CU a Lione, Strasburgo, Lille e Bordeaux, a cui se ne aggiunsero altre sette su
iniziativa spontanea.
I criteri per la costituzione di una CU erano molto semplici: una soglia minima di
popolazione e la contiguità alla città centrale.
Nell’osservare gli ambiti di competenza obbligatori si nota la totale rottura
rispetto ai precedenti Syndicat, superandone la logica settoriale e concentrandosi
su funzioni di pianificazione sovralocale che hanno una forte ricaduta sulle scelte
operative dei singoli Comuni. Le competenze delle CU erano quindi: l’erogazione
e la gestione di servizi pubblici, la realizzazione d’infrastrutture e servizi e la
pianificazione territoriale ed urbanistica.
Quest’ultima, in particolare, si avvaleva sia di strumenti strategici e di
programmazione territoriale, come la Charte intercomunale de dèveloppement ed
d’aménagement e lo SDAU (Schéma directeur d’amenagément et d’urbanisme), sia di
53
strumenti di pianificazione generale come il POS (Plan d’occupation des soles), che di
strumenti attuativi come lo ZAC (Zone d’aménagement concerté), arrivando sino alla
concessione delle licenze edilizie.
A queste tre competenze obbligatorie se ne aggiungevano di facoltative,
delegabili e trasferibili dai Comuni col tempo se essi lo ritenessero opportuno.
L’altra importante legge in materia di cooperazione intercomunale è quella del 6
febbraio 1992 che istituisce le Communautés de Communes e le Communautés de
Villes (CC e CV d’ora in avanti).
Le CC sono uno strumento pensato ad hoc per contrastare la polverizzazione
comunale: senza alcun criterio di dimensione demografica, permettono a Comuni
piccoli e piccolissimi di associarsi su base volontaristica e libera.
Anche in questo caso, all’ente intercomunale vengono trasferite le competenze
sulle materie di pianificazione spaziale (esclusi però i POS e le licenze edilizie) e di
sviluppo economico.
Inoltre, si rendeva obbligatorio l’esercizio in forma associata di una terza
competenza, a scelta tra: protezione ambientale, politiche abitative, infrastrutture
stradali e infrastrutture culturali/sportive.
Ugualmente, i Comuni hanno la facoltà di trasferire, su decisione maggioritaria,
anche altre funzioni e competenze alla CC, senza alcun limite.
Le CV sono del tutto analoghe alle CC, con però l’eccezione di dover avere una
soglia demografica minima di 20.000 abitanti.
La novità principale fu l’introduzione della taxe professionnelle d’agglomération,
ovvero il trasferimento dal livello comunale a quello associativo della tassa sulle
attività economiche extra agricole ad aliquota armonizzata, creando così una vera
e propria fiscalità comunitaria con una delle fonti di entrate più rilevanti dei
Comuni.
Questa scelta non ha avuto, negli effetti, il successo sperato e solo quattro CV si
sono costituite tra il 1992 e il 1999.
La causa va ricercata in un livello giuridico e fiscale troppo integrato, rendendo
quella delle CV una scelta impegnativa per i Comuni, che ponevano resistenze nel
cedere sovranità a un ente intercomunale.
54
Non a caso, la forma associativa più utilizzata è stata quella delle CC, che, seppur
pensata per i piccoli Comuni, è stata preferita anche da contesti urbani grandi e
medio – grandi, attratti dalla maggior flessibilità dello strumento.
Tra Communautés Urbaine, Communautés de Communes e Communautés de Villes molti
sono gli elementi in comune.
Tutte queste forme di cooperazione intercomunale sono enti di secondo livello,
ovvero una forma di governo indiretta con un Consiglio che rappresenta tutti i
Comuni con meccanismi compensativi che rendono impossibile la maggioranza
dei consiglieri di un solo Comune.
Da questo si evince il ruolo centrale del potere comunale, il cui mantenimento è
stato un fattore di successo di questi enti associativi, ma che al contempo ha
evidenziato limiti nella ricerca dell’interesse generale. Le grandi scelte, infatti,
erano soggette al condizionamento dei Comuni più grandi o di sottogruppi di
Comuni.
Ciò ha reso le forme associative un ente abbastanza lontano dalla vita dei
cittadini e incapace di generare un processo di identificazione e di appartenenza.
Un contro-peso importante in questa direzione è stato dato dall’istituzione, nel
1992, del referendum come strumento per far esprimere i cittadini su scelte di
piano o grandi progetti con una rilevanza sovralocale. Per essere promosso, il
referendum deve essere richiesto da un Sindaco o dalla maggioranza qualificata
dei Consiglieri municipali.
Inoltre, CU, CC e CV erano caratterizzate tutte da una struttura a geometria
variabile sia per quel che riguarda le funzioni che le adesioni dei singoli Comuni, i
quali potevano sottrarsi con troppa facilità alle Communautés, rendendo gli
equilibri molto precari e creando molte difficoltà di radicamento nel territorio e
nella società.
Infine, per una corretta interpretazione delle forme associative stabilite dalle leggi
del 1966 e del 1992, è utile guardare all’effettivo avvalersi delle deleghe degli enti
intercomunali in materia di pianificazione territoriale.
Uno studio del 1998 dimostra che il 33,3% dei Comuni ha affidato alle
Communautés il disegno degli SD (Schéma directeur), il 18,6% l’elaborazione delle
ZAC e solo il 6% la progettazione dei POS (Gibelli, 1999).
55
Certamente, nel disegno istituzionale di queste forme di cooperazione
intercomunale v’erano già elementi altamente innovativi e notevoli anticipazioni
riguardo al ruolo della pianificazione territoriale, a cui veniva già assegnato un
ruolo strategico sovralocale intuendo la necessità di legarsi ad una dimensione
pertinente dei territori.
Tuttavia, da un lato lo scarso coinvolgimento dei cittadini in questo processo e,
dall’altro, lo scarso coraggio dei Comuni ad aderire alle forme associative più
avanzate, hanno segnato un limite in questa prima fase.
La legge Chevènement del 1999 interviene proprio per rilanciare il tema
dell’intercomunalità partendo dalla soluzione dei problemi evidenziatisi fino ad
allora.
2.2.2 La legge Chevènement del 1999
Con la legge “Loi Simplification ed renforcement de la coopération intercomunale”, più
nota come legge Chevènement dal nome dell’allora Ministro degli interni del
Governo Jospin che la realizzò, è iniziata una nuova fase della cooperazione
intercomunale francese.
Questa riforma si pone obiettivi molto ambiziosi, cercando di andare oltre la
logica anti-frammentazione che ispirava le leggi precedenti e la sola ricerca del
raggiungimento di dimensioni adeguate per un’erogazione efficiente dei servizi.
La finalità principale della legge è quella di creare su base volontaristica degli enti
intercomunali ponderati su un territorio pertinente e capaci di rappresentare la
giusta scala in cui si esprimono risorse e problematiche reali.
L’ottica è quindi quella della coesione territoriale, da raggiungere attraverso la
delega diretta di competenze sulla gestione e l’organizzazione del territorio e
obbligando alla continuità territoriale delle forme associative per limitare il rischio
di doppia velocità territoriale.
Entrando nello specifico, la legge Chevènement riorganizza tutto il sistema degli
EPCI, riducendo a tre il numero delle forme di accordo intercomunale possibile e
definendo
le competenze che ogni
forma
associativa
deve esercitare
obbligatoriamente o opzionalmente (tabella 2.7).
1. Communautés de Communes, associazioni municipali senza alcuna soglia
demografica e senza frazionamenti che organizzano obbligatoriamente la
56
pianificazione e lo sviluppo territoriale e lo sviluppo economico. A queste
si deve aggiungere un’altra competenza a scelta tra quattro opzionali, oltre
che la creazione e la gestione delle zone produttive – commerciali –
terziarie in caso di CC con fiscalità unificata.
2. Communautés d’Agglomération (CA d’ora in avanti), associazioni di Comuni
senza enclavi e continui che rappresentano più di 50.000 abitanti intorno a
uno o più comuni di almeno 15.000 abitanti. Sono una creazione diretta
della legge Chevènement e si occupano obbligatoriamente: della
pianificazione e dello sviluppo territoriale (Schemi Direttori, ZAC, politiche
per la casa, ecc.), di trasporti urbani, di stabilità sociale e di sviluppo
economico (attrazione e sostegno alle imprese). A queste si aggiungono
competenze opzionali soprattutto sui temi ambientali. L’integrazione di
queste funzioni rendono le CA un attore strategico delle politiche urbane.
3. Communautés urbaine. associazioni di Comuni senza enclavi e continui che
rappresenta più di 500.000 abitanti. Esse avevano già ampie competenze in
materia di pianificazione dalla legge che le aveva istituite nel 1966.
Per ogni livello associativo è quindi prevista una serie di competenze a seconda
del peso demografico dell’ente intercomunale, in cui risulta chiara l’ispirazione del
principio di sussidiarietà nel definire il concetto di interesse della Communautés.
Certamente, si lascia ai Comuni la possibilità di ampliare col tempo competenze e
deleghe sempre più ampie, reiterando il modello a “geometria variabile”.
È importante sottolineare anche l’istituzione dei Conseils de Dèveloppement,
assemblee consultive in cui sono rappresentati e coinvolti nelle fasi di
progettazione gli stakeholders del mondo economico, sociale e culturale, aprendo
così alla collaborazione della società civile.
57
Tabella 2.7: Le competenze per ogni tipologia di EPCI
C.C.1 C.A.3 C.U.4
Sviluppo economico
Creazione, manutenzione e gestione delle zone di attività
industriale, commerciale, terziaria, artigianale, turistica,
portuale ed aeroportuale
Azioni di sviluppo economico
Sviluppo e pianificazione sociale e culturale
Costruzione, manutenzione e gestione di attrezzature
sportive, culturali, ecc., ed edilizia scolastica pre – elementare
ed elementare
Licei e collegi
Pianificazione spaziale
Schémas Direttori e di settore
POS
Creazione e redazione di ZAC
Costruzione di riserve fondiarie
Trasporti urbani
Viabilità e parcheggi
Equilibrio dell’edilizia sociale nel territorio comunitario
Programmi locali della casa
Politica degli alloggi non sociali
Politica degli alloggi sociali
Miglioramento e riqualificazione dell’edilizia residenziale
“Politique de la ville”
Dispositivi contrattuali (sviluppo urbano, locale e inserzione
economica e sociale)
Dispositivi locali di prevenzione della delinquenza
Gestione dei servizi di interesse collettivo
Bonifica ambientale
Acquedotto
Cimiteri e crematori
Macelli
Servizi antincendio e protezione civile
Protezione ambientale e qualità della vita
Smaltimento dei rifiuti domestici e lotta contro
l’inquinamento atmosferico e acustico
★
★2
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✪
✪
LEGENDA:
❑ Competenze obbligatorie, totalmente o solo per la parte di interesse comunitario
 Competenze opzionali, totalmente o solo per la parte di interesse comunitario
★✪ Blocchi di competenze obbligatorie o opzionali. La specificazione delle singole competenze è a discrezione
delle C.C.
NOTE:
1 - Le C.C. devono esercitare almeno uno dei quattro blocchi di competenze opzionali previste.
2 - Solo per le C.C. con Tassa professionale unica.
3 - Le C.A. devono esercitare almeno tre delle cinque competenze opzionali previste.
4 - Le C.U. esistenti possono esercitare le competenze che esercitavano prima della legge Chevènement, oppure
passare al nuovo regime
Fonte: DGCL 2000, riadattamento Gibelli, 2008
58
Come si può notare, la lista delle competenze da svolgere in forma associata non
include solo quelle con un rilievo locale e comunale che per necessità d’efficienza
economica hanno bisogno di una scala territoriale più ampia. Tra esse vi sono
anche quelle che in Italia definiremmo come funzioni di coordinamento d’area
vasta, soprattutto in materia di pianificazione spaziale e di sviluppo economico.
Ciò è una prima dimostrazione, quindi, che l’intercomunalità rappresenta una
dimensione possibile per molte delle funzioni che fino ad oggi sono state
esercitate dalle Province italiane.
La più grande innovazione di questa legge è però il rafforzamento degli
strumenti di fiscalità comunitaria che nella stagione precedente erano stati
fallimentari.
Vengono costituite, quindi, Communautès a fiscalitè propre, riprendendo l’idea di
mettere in comune la taxe professionelle (TPU), imponendola a CU e CA ed
auspicandola per le CC.
Per evitare di incorrere negli errori passati, lo Stato ha incentivato in modo
massiccio il passaggio a questo regime fiscale attraverso l’istituzione della DGF
(Dotation Globale de Fonctionnement): un fondo con cui vengono compensati i
Comuni che hanno deciso di optare per una fiscalità unica a livello associativo.
La DGF è proporzionata sulla base della popolazione e della superficie (dotation
forfaitarie), oltre che al grado di cooperazione presente in ogni EPCI e al potenziale
fiscale degli EPCI stessi per garantire una perequazione tra enti con maggiori e
minori risorse (dotation globale).
Attraverso questa politica, lo Stato centrale è stato in grado di scoraggiare la
competizione fiscale tra Comuni, permettendo così di garantire un disegno più
coerente delle scelte insediative e localizzative.
Nel 2011 la DGF per Comuni ed EPCI è ammontata a 23,68 miliardi di euro, con un
valore medio per abitante che varia dai 20 ai 60 euro a seconda del tipo di EPCI e
del livello di cooperazione raggiunto dai Comuni (tabella 2.8).
59
Tabella 2.8: Valore medio della DGF per abitante in ogni modello di EPCI nel 2011
Modelli di EPCI
C.C. con fiscalità addizionale
C.C. con fiscalità unificata
C.C. con fiscalità unificata maggiorata
(con un numero di competenze più alto)
C.A.
C.U.
DGF per abitante (€)
20,05
24,48
34,06
45,40
60,00
Fonte: DGCL, 2012
I risultati di questa legge sono stati straordinari in termini quantitativi: nel 1999,
anno della riforma, gli EPCI erano in totale 1.359, di cui solo 111 a fiscalità
unificata, mentre nel 2009 gli EPCI sono diventati 2.596 (coinvolgendo circa l’85%
della popolazione francese) di cui ben 1.263 con TPU.45
Se sui numeri dell’intercomunalità francese sarà più opportuno soffermarsi più
avanti, è importante capire come ha funzionato qualitativamente la riforma
Chevènement sulle singole problematiche, evidenziandone anche i limiti.
1. Sostenibilità finanziaria.
L’attuazione della legge ha sicuramente portato molti benefici fiscali alle
agglomerazioni intermunicipali, capaci finalmente di coprire perfettamente
le spese di gestione delle funzioni trasferite e qualche investimento. Ciò ha
portato a una maggiore qualità dei servizi, anche di quelli rimasti in capo
ai singoli Comuni che grazie alla DGF riescono ad avere più finanze.
Tuttavia, sono rimasti elementi di preoccupazione.
Il primo è quello legato alla tariffa della TPU stabilita dagli enti
intercomunali,
poiché
da
essa
dipende
tutta
la
capacità
di
programmazione e gestione delle competenze svolte in modo associato.
Se, infatti, la prima tariffa è la media delle taxe professionelle prelevate
precedentemente dai singoli Comuni, col passare degli anni il calcolo
diventa molto più difficoltoso a causa del collegamento indiretto con le
tasse sulle proprietà immobiliari prelevate ancora a livello intercomunale.
Una sotto – stima o una sovra – stima della TPU può influenzare
enormemente la stabilità e la pianificazione a lungo termine di un ente
intercomunale.
45
DGCL (2012), Bilan statistique des EPCI à fiscalité propre.
60
La seconda preoccupazione è legata alla spesa pubblica crescente dello
Stato per sostenere l’intercomunalità a fiscalità unica attraverso la DGF.
Anche in questo caso è a rischio la tenuta delle Communautès (che nel
fondo compensativo hanno trovato il maggior incentivo), non sapendo
fino a quando queste risorse, seppur razionalizzate nel tempo, riusciranno
ad essere erogate.
2. Pertinenza dei confini, “clubizzazione” e ricadute territoriali.
Tra gli obiettivi della legge del 1999 vi era sicuramente quello di limitare la
competizione tra Comuni per attrarre e trattenere investimenti economici e
fondiari.
Ciò è stato parzialmente raggiunto sia attraverso la creazione delle CA, che
si sono rivelate uno strumento ottimale in tal senso, sia, soprattutto, con la
specificazione di blocchi di competenze obbligatori intorno
alla
pianificazione spaziale e allo sviluppo economico.
Inoltre, con un’altra importante legge del 2000 (la Loi solidarité et
renouvellement urbains, che si propone come tre principali obiettivi lo
sviluppo della pianificazione strategica, una pianificazione dei trasporti
sostenibili e il mix sociale attraverso programmi di housing), si offrono agli
enti intercomunali nuove e importanti responsabilità nel governo delle
aree metropolitane attraverso lo SCOT (Schéma de coherence territoriale), un
nuovo strumento che ha sostituito gli Schéma Directeur.
Questa occasione non è stata certamente sfruttata appieno nel primo
periodo, in quanto pochissimi sono stati gli SCOT elaborati e ancora meno
quelli ad una scala pertinente in grado di perseguire gli obiettivi stabiliti
dalla legge.
Infatti, benché la legge Chevènement avesse stabilito l’importante criterio
della continuità territoriale, per evitare il rischio di enclaves, molte deroghe
hanno finito per depotenziare questo principio.
Inoltre, soprattutto nei contesti metropolitani, i Comuni più piccoli della
corona urbana si sono associati con un obiettivo difensivo, per paura di
essere inglobati dalla città centrale e di non godere più di alcune
condizioni di privilegio.
61
Con tutto ciò è quindi venuto a mancare spesso il principio di solidarietà
territoriale alla base delle riforme amministrative ed urbanistiche, mentre
s’è evidenziata una netta tendenza all’opportunismo dei perimetri.
Nei contesti periurbani più ricchi e forti, spesso si sono associati Comuni
simili per caratteristiche economiche e sociali che hanno creato
Communautès dai confini limitati con la finalità di preservare il proprio
patrimonio e non rinunciare a operazioni immobiliari in favore di una
coerenza d’area vasta, a cui avrebbero dovuto sottostare in una
dimensione più pertinente dell’intercomunalità.
Ciò genera il rischio di creare un “malthusianismo fondiario”(Gibelli 2012),
con le forme d’intercomunalità più pregiate che bloccano le trasformazioni
urbane più deboli, come l’edilizia sociale, scaricando così la domanda
abitativa in contesti più periferici e provocando ulteriore dispersione
territoriale e maggior pendolarismo.
Questo fenomeno è stato analizzato recentemente da Eric Charmes, che ha
letto il fenomeno dell’associazionismo dei Comuni periurbani attraverso il
modello
di
Tiebout. Questo
modello, elaborato
negli
anni
’50
dall’economista Charles Tiebout, si fonda sull’ipotesi che gli abitanti dei
Comuni si comportino non come cittadini membri di una comunità politica
ma come consumatori membri di un club fondato sul godimento
condiviso di un insieme di beni e servizi (Charmes, 2011).
Ciò accade soprattutto nelle periferie urbane, sotto l’effetto di una cultura
della mobilità.
Quindi, per produrre e amministrare dei beni il cui uso è difficilmente
individualizzato, Tiebout propone di utilizzare i Comuni come produttori di
un mix specifico di beni collettivi locali. In ipotesi di una mobilità
residenziale libera e senza costrizione, le persone possono quindi
esprimere le loro aspettative non con il voto ma abitando nel Comune che
offre attrezzature e servizi corrispondenti alle loro attese, il cui prezzo è
determinato dalla fiscalità locale. Così si risolverebbe il duplice problema
della rivelazione delle preferenze dei cittadini e del pagamento dei soli
servizi che si desiderano.
62
In questa logica i Comuni diventano veri e propri club, che attraverso le
scelte urbanistiche e fiscali regolano l’accesso ai beni forniti e si assicurano
il loro pagamento.
Con i regolamenti urbanistici è infatti possibile regolare la quota di
abitanti, evitando un sovrannumero di utenti per i beni collettivi offerti,
controllando anche le caratteristiche delle famiglie che si vogliono far
risiedere sul proprio territorio.
Il potere di prelevare imposte e tasse permette poi evitare “parassiti”,
ovvero coloro che non abitando il Comune fruiscono dei suoi servizi.
Questo modello si applica soprattutto alle piccole municipalità rurali e
suburbane, che per dimensioni rendono pertinente l’idea di “paniere di
beni di club”, con politiche che tendono sempre più a somigliare a quelle
di un club residenziale o di comparabili a quelle delle gated communities.
Notevoli sono infatti gli effetti in termini di segregazione spaziale e sociale.
Tutto ciò è accaduto anche in Francia, con i Comuni periurbani che si sono
organizzati in strutture di cooperazione proprie per evitare di essere
inglobati da Communautés delle città centrali. Il timore di vedere imposto
un disegno di sviluppo urbano che rischiasse di scaricare su di essi
funzioni e attrezzature sgradite ha portato a creare CC tra Comuni simili
che hanno prodotto un accerchiamento vero e proprio delle città centrali.
Tutto questo ha portato a riflettere sulla necessità di dare confini più ampi
e giusti agli EPCI attraverso l’intervento diretto dello Stato, in modo che le
politiche e le funzioni strategiche possano essere esercitate ad una scala
territoriale coerente.
Il dibattito e le leggi degli anni successivi, che saranno trattati nel prossimo
paragrafo, dimostreranno proprio il maturare di questa consapevolezza.
3. Sovrapposizioni istituzionali.
Il trasferimento di blocchi di competenze obbligatori alle associazioni
intercomunali
ha
portato
ulteriori
interferenze
in
un
panorama
istituzionale complesso e da semplificare e con tanti livelli amministrativi.
Molte delle funzioni che devono svolgere le Communautès erano già
delegate ai vecchi Syndicat creando grande incertezza su chi avrebbe
dovuto svolgerle. A questa situazione s’aggiungono le difficoltà dei
63
Comuni a trasferire tutti i servizi, avendo così molte funzioni dell’ente
intercomunale dimezzate.
La legge Chevènement è riuscita certamente a diffondere la cooperazione
intercomunale in Francia e ha fornito strumenti innovativi e validi per poter
creare un binomio importante tra solidarietà territoriale e pianificazione
urbanistica.
La necessità primaria di radicare l’associazionismo intercomunale nella cultura
amministrativa non ha forse permesso una totale espressione del potenziale di
questo strumento in termini di capacità di garantire scelte territoriali coerenti ad
una scala pertinente.
Inoltre, sarebbe stata forse prematura l’elezione a suffragio universale dei Consigli
delle Communautès già nel 1999, benché sia questo un passaggio fondamentale
per legittimare una struttura che è diventata ormai l’attore principale del governo
locale.
Il grande successo quantitativo è stato però la base su cui articolare una nuova
serie di riforme che partirà dal 2010.
2.2.3 La riforma delle collettività territoriali del 2010
Le varie problematiche legate alla scala e al dimensionamento degli EPCI e il
rischio di un opportunismo dei confini, sono state oggetto di un lungo dibattito
politico e in particolare sottolineate dalla famosa “Commissione per la liberazione
della crescita”, presieduta dal socialista Attali del 2007/2008.
Sarà però il Comité pour là rèforme des collectivités locales, presieduto dall’ex Primo
Ministro Balladur e composto da tredici saggi, a dover allestire nel 2009 un
progetto articolato di riforme istituzionali capaci di ridisegnare l’assetto
istituzionale francese.
Tra
le
proposte
individuate
vi
era
anche
quella
del
rafforzamento
dell’intercomunalità.
Per ottenere questo risultato, il “Comitato Balladur” propose due strumenti:
l’elezione a
suffragio
universale dei
rappresentanti
nei
Consigli
delle
Commuanutés e il ridisegno dei confini amministrativi degli enti intercomunali..
La legge n. 2010-1563 del 16 dicembre 2010 “De réforme des collectivités territoriales”
recepisce questi aspetti e introduce importanti elementi d’innovazione e di
64
rafforzamento dell’intercomunalità: sulla sua razionalizzazione e sulla sua
trasformazione in ente di primo livello.
Inoltre la riforma introduce una nuova categoria di EPCI, la Métropole, per le zone
urbane con più di 500.000 abitanti, eccetto che nell’Ile-de-France.
Ciò ha causato un abbassamento della soglia demografica per le CU, che passano
così a 450.000 abitanti minimi, e per le CA, che da 50.000 abitanti passano a un
limite di 30.000.
Le modifiche più interessanti sulla cooperazione intercomunale sono, però, altre e
riguardano: il rafforzamento dell’intercomunalità sul profilo delle competenze, la
sua razionalizzazione e ulteriore diffusione, la governance e la rappresentatività
diretta nei Consigli intermunicipali.
Sul rafforzamento dell’intercomunalità, la legge stabilisce una serie di disposizioni
importanti, che privilegiano gli EPCI rispetto alle altre forme di cooperazione e
rispetto al ruolo dei Comuni sulle competenze trasferite:
-
Riduzione della maggioranza richiesta per il trasferimento di competenze
dei comuni all’EPCI, portandola al 50% dei Comuni rappresentati e al 50%,
più maggioranza qualificata, senza diritto di veto della città centrale;46
-
La definizione dell’interesse comunitario sarà compito dal solo Consiglio
della Communautés e non più dei diversi Consigli comunali, passando dalla
richiesta di una maggioranza dei due terzi ad una maggioranza semplice;47
-
I poteri di polizia speciale del Sindaco, se legati a competenze trasferite
all’EPCI, sono delegati al Presidente della Communautés;48
-
In caso di sovrapposizione dei confini e delle funzioni, gli EPCI incorporano
i Syndicats.49
Il tema dei perimetri opportunistici degli EPCI è trattato da una serie di norme
volte a semplificare il panorama istituzionale entro il 2014 e per integrare tutti i
Comuni isolati rimasti in associazioni intercomunali, in modo da razionalizzare i
confini, eliminare le enclavi e ridurre il numero dei Syindicats. Inoltre, viene posta
una soglia minima di 5.000 abitanti per gli EPCI, eccetto zone di montagna o con
caratteristiche geografiche particolari.
46
Legge n. 2010-1563, Art. 32.
Legge n. 2010-1563, Art. 32.
48
Legge n. 2010-1563, Art. 31.
49
Legge n. 2010-1563, Art. 24.
47
65
A questo scopo la legge elabora lo strumento del Piano dipartimentale di
cooperazione intercomunale (più noto come SDCI, Schéma départmental de la
coopération intercommunale), che stabilisce i nuovi perimetri delle Communautès
all’interno di ogni Dipartimento, procedendo attraverso le fusioni tra EPCI e
l’integrazione dei Comuni isolati entro Communautés esistenti.50
Ogni SDCI, rivisto ogni sei anni, deve essere stato adottato dai Prefetti entro il 31
dicembre 2011, sentito il parere dei Comuni, degli EPCI e dei SIVOM, e imposto
entro il 31 dicembre 2013.
Nell’anno 2012, la realizzazione del Piano avviene su ordinanza del Prefetto dopo
l’accordo di almeno la metà dei Consigli Comunali dei Comuni compresi nel
progetto che rappresentino almeno il 50% della popolazione totale.
Se dal primo giorno del 2013 questa maggioranza non s’è raggiunta, Il Prefetto
può disporre con poteri propri, intervenendo sui perimetri degli EPCI e sulla
chiusura dei Syndicats in conformità col disegno dello SDCI.
Dal 1° gennaio 2014, invece, il Prefetto potrà integrare agli EPCI i Comuni rimasti
isolati e avrà poteri rafforzati per sopprimere le eventuali enclavi o le
discontinuità che persistono.51
La
Commissione
Dipartimentale
di
Cooperazione
intercomunale
(CDCI,
Commission Départementale de Coopération Intercommunale) può modificare il Piano
alla duplice condizione di una maggioranza dei due terzi e del rispetto degli
obiettivi di copertura completa e di eliminazione delle enclavi e delle
discontinuità.52
Si segna quindi un passaggio molto importante nell’intercomunalità francese, che
non si basa più sulla singola volontà dei Comuni ad associarsi bensì su un
obbligo di legge che si esprime attraverso un Piano di razionalizzazione.
Non viene a mancare, però, il coinvolgimento degli Enti locali nel disegno di
semplificazione dei perimetri, i quali possono condizionare l’azione del Prefetto
fino al 1° gennaio 2014. Da questa data gli EPCI dovranno quindi essere diffusi su
50
Legge n. 2010-1563, Art. 16 e 17.
Legge n. 2010-1563, Art. 29.
52
Legge n. 2010-1563, Art. 26, che definisce anche la composizione dei CDCI , con il 40% di
rappresentanti dei Comuni (dal precedente 60%), il 40% di rappresentanti degli EPCI (dal precedente
20%), il 15% di rappresentanti dei Dipartimenti e il 5% di rappresentanti della Regione.
51
66
tutto il territorio francese, diventando, di fatto, un vero e proprio ente
territoriale.53
Il rafforzamento degli EPCI rende ancora più necessaria una loro legittimità
democratica, ed è per questo che la legge stabilisce i criteri di elezione diretta a
suffragio universale per i Consiglieri “comunitari”, distinguendo le modalità di
elezione tra Comuni sopra e sotto i 500 abitanti. Per i Comuni sopra i 500 abitanti,
fin dalla prossima scadenza elettorale, i candidati alla carica di Consigliere
comunale e alla funzione di delegato nel Consiglio della Communautés
figureranno su una stessa lista: i primi che risulteranno eletti della lista
siederanno in entrambe i Consigli. Nei Comuni con meno di 500 abitanti, i
delegati sono automaticamente il sindaco e all’occorrenza i consiglieri municipali
secondo l’ordine della lista.54La ripartizione dei seggi tra le liste avviene in modo
proporzionale con un premio di maggioranza al 50+1% alla lista arrivata
prima.55Ciò ha come conseguenza anche la rappresentanza delle opposizioni
municipali nei Consigli degli EPCI.
Sul numero dei rappresentanti nei Consigli “comunitari” sono state introdotte
nuove disposizioni. Fino ad oggi il numero dei consiglieri e la distribuzione dei
seggi tra i vari Comuni era deciso su accordi tra chi faceva parte dell’EPCI. Per la
legge, ad ogni Comune dovrà spettare almeno un delegato, mentre il numero dei
delegati supplementari da dividere tra i comuni sarà determinato in funzione
della popolazione totale degli EPCI. 56
Questi seggi saranno distribuiti con il sistema proporzionale con l'applicazione
della norma della media più alta. Tuttavia, nessun Comune potrà avere più della
metà dei seggi.
Per una valutazione complessiva di questa legge si dovrà aspettare la sua piena
attuazione e le modifiche che probabilmente verranno apportate dal nuovo
Governo Socialista.
53
Legge n. 2010-1563, Art. 14.
Legge n. 2010-1563, Art. 2 .
55
Legge n. 2010-1563, Art. 3.
56
Legge n. 2010-1563, Art. 3 prevede secondo lo strato demografico di ogni EPCI numeri diversi di
delegati , secondo questo schema: “1 delegato per ogni comune, a cui aggiungere: EPCI con meno di 3
500 abitanti = 6 delegati; Da 3 500 a 4 999 = 8; Da 5 000 a 9 999 =10; Da 10 000 a 19 999 abitanti = 14;
Da 20 000 a 29 999 abitanti = 18; Da 30 000 a 39 999 abitanti = 24; Da 40 000 a 49 999 abitanti = 30; Da
50 000 a 74 999 abitanti = 36; Da 75 000 a 99 999 abitanti = 42; Da 100 000 a 149 999 abitanti = 48; Da
150 000 a 199 999 abitanti = 56; Da 200 000 a 249 999 abitanti = 64; Da 250 000 a 349 999 abitanti = 72”.
54
67
Di certo, il presidente Hollande, come già dichiarato in campagna elettorale e in
un discorso alla Sorbona del 5 ottobre 2012, non toccherà l’elezione diretta dei
rappresentanti degli EPCI, da sempre argomento sostenuto dal PS. Anzi, la
tendenza sembra essere proprio
quella di un
ulteriore rafforzamento
dell’intercomunalità, con maggiori blocchi di competenze delegate con cui
eliminare duplicazioni e sovrapposizioni.
68
2.2.4 Lo stato attuale degli EPCI
La diffusione quasi totale dell’intercomunalità in Francia è ben visibile dai numeri
che annualmente il Ministero dell’Interno fornisce (tabella 2.9).
Considerando
anche
i
Syndicat
d’agglomération
nouvelle,
una
forma
d’intercomunalità studiata ad hoc per le Villes Nouvelles istituita dalla legge
“Rocard” del 1983, gli EPCI al 1° Gennaio 2012 sono 2.581, di cui: 1 Métropole, 15
CU, 202 CA, 2.358 CC (di cui 1.117 con TPU e 1.241 a fiscalità addizionale) e 5 SAN. In
totale sono coinvolti 35.303 Comuni, pari al 95,9% delle 36.786 municipalità
francesi, e vivono in forme di cooperazione intercomunale ben 59,3 milioni di
abitanti, circa il 90,5% della popolazione totale.
Tabella 2.9: Evoluzione degli EPCI in Francia
Métropole CU C.A.
‘72
‘80
‘88
‘91
‘92
‘93
‘94
‘95
‘96
‘97
‘98
‘99
‘00
‘01
‘02
‘03
‘04
‘05
‘06
‘07
‘08
‘09
‘10
‘11
‘12
1
9
9
9
9
9
9
9
9
9
10
12
12
12
14
14
14
14
14
14
14
14
16
16
16
15
Fonte: DGCL/DESL, 2012
50
90
120
143
155
162
164
169
171
174
181
191
202
C.C.
193
554
756
894
1.105
1.241
1.347
1.533
1.733
2.032
2.195
2.286
2.342
2.389
2.400
2.393
2.406
2.409
2.387
2.358
S.A.N C.V.
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
8
8
8
6
6
6
5
5
5
5
5
5
3
4
4
4
5
5
5
0
0
-
N.
EPCI
totale
N.
Comuni
in EPCI
466
866
1.102
1.235
1.446
1.577
1.678
1.845
2.000
2.174
2.360
2.461
2.524
2.573
2.588
2.583
2.601
2.611
2.599
2.581
5.071
8.973
11.516
13.566
16.240
17.760
19.128
21.347
23.497
26.870
29.754
31.428
32.308
32.923
33.413
33.638
34.166
34.774
35.041
35.303
Popolazione
in EPCI
(in milioni
d’abitanti)
16,1
21,8
24,6
27,3
29
31,8
34,0
37,1
40,4
45,1
48,8
50,7
52,1
53,3
54,2
54,6
56,4
57,9
58,8
59,3
69
Guardando alla mappatura degli EPCI (figura 2.1), l’evidenza del fenomeno si fa
ancora più netta.
Figura 2.1: Mappa della diffusione degli EPCI in Francia
Fonte: DGCL/DESL, 2012
Dal 2010, anno d’entrata in vigore della legge n. 2010-1563, che ha l’obiettivo di
razionalizzare gli EPCI, i numeri delle forme associative sono calati, ma v’è un
aumento dei Comuni e della popolazione coinvolti.
Questo è un primo segno del raggiungimento delle finalità della riforma.
Analizzando la struttura e le caratteristiche degli EPCI dal punto di vista del
numero di Comuni che ne fanno parte, si può notare come quasi la metà di essi
70
siano formati dalle 11 alle 20 municipalità e solo in 31 casi le forme associative
coinvolgono solo 2 Comuni (tabella 2.10).
Molto interessante è il dato relativo alle CA, che si dimostrano una forma
associativa ben strutturata in aree densamente popolate: pur coinvolgendo solo
202 Comuni, sono un ente in cui vivono 24,1 milioni di abitanti.
Guardando, invece, alla distinzione tra EPCI con fiscalità propria e quelli a fiscalità
addizionale, si nota come solo il 51,8% delle associazioni intercomunali si siano
dotate di TPU (dato simile a quello dei Comuni coinvolti), ma in esse vive ben
l’81,6% del totale della popolazione che risiede negli EPCI.
Ciò indica che la scelta di dotare gli EPCI di una propria fiscalità è stata fatta
soprattutto nei contesti più densi e agglomerati.
Tabella 2.10: Ripartizione degli EPCI per numero di Comuni associati
N. Comuni
che
compongono
C.U.
Métropole
C.C.
TPU FA
C.A.
TPU
Totale
FA
S.A.N
Totale
EPCI
EPCI
con
un EPCI
TPU
2
0
0
0
9
8
14
0
31
17
Tra 3 e 5
0
0
1
26
125
134
2
288
153
Tra 6 e 10
0
1
1
33
374
410
3
822
411
Tra 11 e 20
0
4
1
67
454
511
0
1.037
525
Più di 20
1
7
0
67
156
172
0
403
231
Totale
1
12
3
202
5
2.581
1.337
0,5
6,9
0,3 24,1
0,3
59,3
48,4
46
365 33 3.600 14.736 16.494
Popolazione
in EPCI
N. Comuni
totali in EPCI
1.117 1.241
16,6
10,6
29
35.303 18.776
Fonte: DGCL/DESL, 2012
Guardando invece alla composizione demografica degli EPCI, il quadro si fa più
eterogeneo (tabella 2.11 e figura 2.2).
Solo 24 di essi sono inferiori ai 1.000 abitanti, ma se si sommano le forme di
cooperazione sotto i 5.000 abitanti, sono ben 623
(di cui 373 non in zone
montuose) le forme associative che ad oggi non rispettano la soglia minima
71
introdotta dalla riforma del 2010. La maggioranza relativa degli EPCI è collocata,
infatti, nella fascia tra i 5.000 e i 10.000 abitanti, ma è interessante notare anche
che circa un quarto del totale, con 620 casi, è nella fascia successiva che arriva fino
ai 20.000 abitanti. Inoltre, si confermano le letture fatte sulle CA e sugli EPCI con
TPU, già desumibili dai dati sulla ripartizione delle forme associative per numero
di Comuni.
Le CA si sono sviluppate enormemente non solo nella fascia più ovvia, quella
oltre i 50.000 abitanti che costitutiva il limite di legge del 1999, ma si sono
affermate anche in realtà più popolose. Ciò è testimoniato dai 75 casi in cui le CA
sono comprese tra i 100.000 e i 300.000 abitanti e dalle 10 CA che sono addirittura
superiori a quest’ultima soglia.
Osservando invece gli EPCI con fiscalità propria, essi sono in minoranza nelle fasce
demografiche più basse, mentre a partire dalle forme cooperative maggiori di
10.000 abitanti essi diventano la maggioranza, per diventare quasi la totalità negli
EPCI maggiori di 50.000 abitanti.
72
Tabella 2.11: Ripartizione degli EPCI per entità demografica
C.U.
Entità
demografica
Métropole
degli EPCI
Meno di 700
C.C
TPU FA
C.A.
TPU
Totale
FA
S.A.N
Totale
EPCI
EPCI
con
TPU
0
0
0
0
0
9
0
9
0
0
0
0
0
1
14
0
15
1
0
0
0
0
16
99
0
115
16
0
0
0
0
131
353
0
484
131
0
0
0
0
333
439
0
772
333
0
0
0
0
375
244
1
620
376
0
0
0
11
243
74
1
329
255
0
2
2
106
16
8
2
136
126
0
3
1
75
2
1
1
83
81
Più di 300.000
1
7
0
10
0
0
0
18
18
Totale
1
12
5
2.581
1.337
abitanti
Tra 700 e 1.000
Tra 1.000 e
2.000
Tra 2.000 e
5.000
Tra 5.000 e
10.000
Tra 10.000 e
20.000
Tra 20.000 e
50.000
Tra 50.000 e
100.0000
Tra 100.000 e
300.000
Fonte: DGCL, 2012
3 202 1.117 1.241
73
Figura 2.2: Mappa degli EPCI per classe demografica
Fonte: DGCL/DESL, 2012
Per una lettura approfondita dell’intercomunalità in Francia è interessante
valutare gli effetti della riforma della legge n. 2010-1563 e osservare come questa
stia cambiando i perimetri degli EPCI. Su 99 Dipartimenti con l’obbligo di redigere
74
un SDCI57, 66 sono stati oggetto di una stesura prefettizia e su di essi si può fare
un primo bilancio per l’anno 2011. La copertura del territorio governato da un
EPCI è aumentata dello 0,7%, concentrata in 46 Dipartimenti e con un saldo
positivo di 262 Comuni in più coinvolti in forme associative.
L’obiettivo della copertura totale del territorio è accompagnato da quello della
razionalizzazione dei confini degli EPCI, in modo da combattere l’opportunismo
dei perimetri.
Ciò ha causato una variazione del numero degli EPCI (tabella 2.12), calati di 30
unità dal 2010 di cui 18 nel 2011, come effetto dello scioglimento di 33
Communautés che hanno dato origine a 14 nuove intercomunalità più grandi ed
estese.
Nel frattempo è molto calato il numero di creazioni “dal nulla”, solo 5 nel 2011,
contro le 12 del 2010 e le 27 del 2009: queste creazioni hanno permesso di
associare 80 Comuni prima isolati per un totale di 75.000 abitanti.
L’insieme delle trasformazioni intervenute durante il 2011, cioè 11 sul totale,
hanno riguardato delle CC diventate CA. Il numero di CA ha così sorpassato la
soglia di 200 al 1° gennaio 2012.
Tabella 2.12: Variazione del numero di EPCI a fiscalità propria nel 2011
N. creazioni
Dal nulla
Per fusione
Per
trasformazione
Soppressioni
Per
scioglimento
Per fusione
Per
trasformazione
Saldo
Numero al
01/01/2011
Numero al
01/01/2012
Mètropole
C.U.
C.A.
S.A.N
C.C.
Totale
1
1
0
0
13
2
0
0
16
5
11
30
5
14
0
0
11
0
0
11
0
1
2
0
45
48
-
-
-
-
4
4
-
1
2
0
30
33
0
0
0
0
11
11
1
-1
11
0
-29
-18
-
16
191
5
2.387
2.599
1
15
202
5
2.358
2.581
Fonte: DGCL, 2012
57
Sono esclusi i Dipartimenti di Parigi e di Mayotte.
75
Per quanto riguarda l’estensione dei perimetri, ben 125 EPCI a fiscalità propria
esistenti al 1° gennaio 2012 hanno conosciuto delle modifiche territoriali (tabella
2.13).
Di questi 125 EPCI, 108 hanno conosciuto una estensione del loro perimetro
grazie all’adesione di 228 Comuni coinvolgendo circa 186.000 abitanti; numeri
importanti se si pensa che nel 2010 erano stati solo 97 i Comuni isolati a unirsi ad
EPCI esistenti.
Dei 228 Comuni che hanno aderito a una forma di intercomunalità, 180 non erano
membri d’un EPCI a fiscalità propria al 1° gennaio 2011, cioè il 79% di essi. Gli altri
Comuni accorpati ad associazioni intermunicipali sono frutto di tagli a 17 EPCI,
costiuendo, di fatto, uno spostamento di Comuni tra un EPCI e l’altro.
Le CA sono sicuramente la categoria di EPCI che ha maggiormente risentito, della
razionalizzazione, aumentando in media di circa 4 Comuni e quasi 5.000 abitanti.
Tabella 2.13: Estensione degli EPCI a fiscalità propria
Categoria
N. d'EPCI a fiscalità
Guadagno medio in numero:
propria
di Comuni
di abitanti
CU
1
1
1.565
CA
19
3,8
4.795
CC
88
1,8
1.048
108
2,1
1.712
Totale
Fonte: DGCL, 2012
Questa riforma sta avendo discrete ripercussioni anche sulle caratteristiche medie
degli EPCI.
Dopo il 1999, anno del boom dell’intercomunalità in Francia, il numero dei
Comuni e degli abitanti in seno ad un EPCI è cresciuto rispettivamente dell’1,4% e
dell’1% annuo.
Al 2012, la popolazione media che risiede in un ente intercomunale è di 23.000
abitanti, contro i 20.000 del 1999. Nello stesso tempo il numero di Comuni medio
è passato dagli 11,4 del 1999 ai 13,7 odierni.
Se si osserva la dimensione e le caratteristiche statistiche degli EPCI si può notare
come il quadro generale sia ancora abbastanza eterogeneo con oscillazioni tra
valori minimi e massimi molto grandi (tabella 2.14).
76
Osservando le caratteristiche specifiche delle CC, la forma associativa più diffusa,
sono composte in media 13,2 Comuni e 11.500 abitanti. La dimensione delle CC
sembra globalmente condizionata dal livello di integrazione: le CC a fiscalità
unica, di cui la DGF è migliorata per l’esercizio di competenze ampliate, uniscono
più abitanti su un territorio più vasto (15.600 abitanti e 13,5 Comuni) rispetto alle
CC a fiscalità aggiuntiva (8.500 abitanti e 13,3 comuni) e alle CC a fiscalità
professionale unica senza miglioramento della DGF (6.600 abitanti e 9,1 comuni).
Tabella 2.14: Dimensione e caratteristiche degli EPCI
Media in:
Mediana in:
Massimo in:
Cat.
Minimo in:
N.
N.
N.
N.
N.
Comuni abitanti Comuni abitanti Comuni
Mét.
46,0
536.378
-
N.
abitanti
-
N.
N.
Comuni abitanti
-
CU
26,5
478.407
20
262.515
85
1.302.232
5
50.937
CA
17,8
119.352
15
86.691
70
495.787
2
28.917
SAN
5,8
65.969
6
87.048
8
100.247
4
16.523
CC
13,2
11.522
11
8.232
128
171.356
2
200
Fonte: DGCL, 2012
Sul territorio dei Dipartimenti interessati dall’obbligo di copertura integrale in
EPCI a fiscalità propria, sono 1.324 i Comuni isolati che dovranno aderire entro il
1° giugno 2013 ad una forma di intercomunalità, i quali rappresentano un totale
di 2,5 milioni di abitanti (figura 2.3).
Questi Comuni sono globalmente di piccola dimensione: 751 municipalità, pari al
56,7% del totale contano meno di 500 abitanti, mentre solo il 10% è popolato da
almeno 3.500 persone con addirittura un caso di Comune isolato superiore ai
50.000 abitanti.
77
Figura 2.3: Mappa dei Comuni isolati
Fonte: DGCL, 2012
2.2.5 Il ruolo dello SCOT e la pianificazione del territorio
Come già scritto, le riforme a cavallo degli anni 2000 saldarono la dimensione
intercomunale con quella della pianificazione territoriale-strutturale attraverso lo
SCOT.
Lo SCOT è uno strumento urbanistico sviluppato proprio dagli EPCI in un’area
continua e senza enclavi in vista di una cooperazione rafforzata tra le autorità
locali di quel territorio per un loro sviluppo sostenibile, duraturo e di mediolungo periodo.
La finalità è quella del raggiungimento della coerenza territoriale sul livello
sovracomunale, disegnando un progetto di territorio che dia coerenza all'insieme
delle politiche di settore in tema di: urbanistica, politiche abitative, mobilità e
offerta commerciale.
Lo SCOT è creato da una legge, la SRU, che rifletteva sulla necessità di limitare il
consumo di suolo, la mobilità su gomma e la doppia velocità territoriale che negli
ultimi vent’anni avevano fatto diminuire la qualità urbana soprattutto delle aree
metropolitane periferiche.
78
Quest’impostazione è ben chiara negli obiettivi di SCOT e PLU (plans locaux
d'urbanisme), fissati nell'articolo L. 121-1 del Codice Urbanistico. Essi devono
determinare le condizioni per garantire, in conformità ai principi dello sviluppo
sostenibile:
1. L’equilibrio tra: a) riqualificazione urbana, controllo della crescita urbana e
rivitalizzazione dei centri urbani e rurali; b) uso efficiente delle aree
naturali, preservazione delle aree destinate alle attività agricole e forestali,
protezione degli habitat e dei paesaggi; c) salvaguardia del patrimonio
urbano ed architettonico di pregio.
2. Equilibrare la diversità delle funzioni urbane e rurali e la diversità sociale,
tenendo conto in particolare degli obiettivi di equilibrio della distribuzione
geografica delle esigenze di sviluppo economico, turistico, sportivo e
culturale nonché delle strutture pubbliche e delle attrezzature commerciali
e migliorando l’efficienza energetica e il sistema della mobilità.
3. Riduzione dei gas serra, produzione di energia rinnovabile, salvaguardia
del suolo, delle acque, dell’aria, della qualità ambientale e della biodiversità
per la prevenzione dei rischi naturali e tecnologici.
Rispetto ai precedenti SDAU, gli SCOT nascono per integrare la pianificazione
urbanistica e quella di settore, intervenendo in modo molto più cogente e
dirigista.
Essendo disegnato su una scala intermedia, quella sovralocale degli EPCI con cui
si cerca di calare le scelte su un territorio pertinente, lo SCOT è al contempo
soggetto a piani regionali e nazionali58 e riferimento per la compatibilità di
strumenti locali ad esso subordinati.
Entrando nel dettaglio, lo SCOT è composto da almeno tre documenti:
1. Il Rapport de Presentation, 59che è molto più del quadro conoscitivo tipico dei
Piani italiani. Esso parte da uno studio delle proiezioni demografiche ed
economiche e delle esigenze individuate in termini di: sviluppo economico,
58
I documenti a cui lo SCOT deve attenersi sono: i Progetti di interesse generale (PIG, Projects d’intèrêt
général) definiti dallo Stato, nella fase di redazione o variazione; le linee guida di programmazione
regionale (DTA, Directives territoriales d’aménagement); i piani di sviluppo regionale (SAR, Schémas
d’aménagement regionaux, equivalenti ai DTA nei Dipartimenti d'oltremare); i piani di gestione delle
risorse idriche (SDAGE, Schémas directeurs d’aménagement et gestion des eaux); le linee guida per la
tutela e la valorizzazione del paesaggio; i requisiti per la gestione di parchi nazionali e le aree circostanti;
Le carte dei parchi regionali; i piani di sviluppo della montagna e della costa.
59
L. 122-1-12 e L.122-1-13 del Codice Urbanistico francese.
79
pianificazione territoriale e ambientale, equilibrio sociale nel patrimonio
abitativo, trasporti, attrezzature e servizi. A ciò aggiunge un’analisi dell’uso
del
suolo
forestale,
agricolo
dei
dieci
anni
precedenti.
Questi studi servono ad orientare gli obiettivi di limitazione del consumo
di suolo inclusi nel DOO (Document d’orientation et d’objectifs).
2. Il Projet d’aménagement et de développement durables (PADD), è un documento
obbligatorio con cui gli EPCI esprimono la propria visione di territorio in
conformità con i principi dello sviluppo sostenibile. Esso definisce gli
obiettivi della pianificazione in materia di: alloggi pubblici, trasporti e
mobilità, offerta commerciale, attrezzature e servizi pubblici, sviluppo
economico, turismo e sviluppo culturale, sviluppo delle telecomunicazioni,
protezione dei paesaggi naturali, agricoli e forestali, conservazione della
continuità ecologica e lotta contro il consumo di suolo.
Il PADD è uno strumento elaborato anche dai PLU, che in tal modo
definiscono a livello locale gli obiettivi generali dello SCOT.
3. Il Document d’orientation et d’objectifs (DOO), è uno strumento redatto in
conformità con gli indirizzi del PADD e determina gli orientamenti generali
per l’organizzazione del territorio al fine di garantire un equilibrio tra le
aree urbane e quelle naturali, agricole e forestali.
Esso definisce le
condizioni con cui promuovere uno sviluppo urbano coerente e i principi
da seguire per la riqualificazione e la rivitalizzazione dei centri, la
valorizzazione delle periferie e la tutela del paesaggio.60
Con il DOO si perimetrano, quindi, gli spazi naturali e urbani che vengono
sottoposti a tutela.
Tra le regole imposte per garantire una gestione equilibrata del suolo, v’è quella
della “extension limitée de l’urbanisation”; essa prevede che, in assenza di SCOT
approvato i Comuni non possano urbanizzare nuovo suolo o edificare nuove
grandi superfici commerciali.
Nella prima versione della legge, questo principio si applicava a tutti i Comuni a
meno di 15 km da centri urbani di 15.000 abitanti o dai litorali. Nel 2005, il
Governo Raffarin ha alzato la soglia demografica a 50.000 abitanti, ma con la
60
L.122-1-5 del Codice Urbanistico francese.
80
legge Grenelle II si ristabilisce il limite dei 15.000 abitanti dal 2013 al 2016, data
dopo la quale questa regola sarà applicata a tutti i Comuni.
Inoltre, l’urbanizzazione di nuovo suolo è condizionata dalla dotazione di
trasporto pubblico e dal grado di utilizzo dei suoli liberi in aree giù urbanizzate,
ponendo quindi un altro importante dettame volto a difendere il territorio dallo
sprawl.
La difesa del suolo non urbanizzato è attuata anche attraverso altre norme, come
l’abbassamento degli standard di parcheggi per limitare lo sviluppo dei centri
commerciali.
I mall sono colpiti anche da una legge del 2002, (Diverses dispositions relatives à
l’urbanisme, à l’habitat et à la construction, DDUHC), che impedisce ai Comuni privi di
SCOT di autorizzare la costruzione di nuovi centri commerciali e sale
cinematografiche in aree non urbanizzate (Gibelli, 2005).
L’esecutività dello SCOT avviene attraverso i piani subordinati e che si devono
coordinare ad esso: il PLH (Programme Local de l’Habitat), il PDU (Plan de Déplacement
Urbain), il PLU(Plan Local d’Urbanisme), la Carte Communale (il piano dei piccoli
Comuni), lo SDEC (Schéma Directeur de l’Equipement Commerciale), la ZAD (Zone
d’Aménagement Différée), la ZAC (Zones d’Aménagement Concerté). In particolare, nel
rapporto tra SCOT e PLU, il primo si pone come un piano di coordinamento
sovracomunale, capace di stabilire gli elementi strutturali dello sviluppo
territoriale e gli indirizzi da seguire. Il PLU, invece, è più uno strumento operativo,
che agisce in conformità con le strategie dello SCOT.
Ciò sembra assomigliare molto a quello che hanno fatto i PTCP italiani in alcune
regioni, come l’Emilia-Romagna, seppur con una differenza di fondo: in Francia lo
SCOT è progettato su un territorio più omogeneo e pertinente rispetto a quello
delle circoscrizioni provinciali.
Inoltre, rispetto ai PTCP, gli SCOT mettono in campo strumenti più evoluti e
sofisticati per la difesa dal consumo di suolo.
Per concludere, è interessante sottolineare come dal basso siano avvenuti
processi d’accordo tra gli EPCI e i relativi SCOT sui temi di pianificazione
metropolitana. Essi sono definibili come Démarches inter-SCOT, e instaurano una
logica multi – networking capace di cadenzare le strategie sui reali bacini d’utenza
(Gibelli, 2010).
81
2.3 Considerazioni di sintesi
La diffusione della cooperazione intercomunale in Francia, le competenze che gli
EPCI svolgono e il ruolo che la pianificazione territoriale assume in questo livello
di governo, fanno dire che ci può essere un’alternativa all’ente intermedio
tradizionale per l’esercizio di molte funzioni d’area vasta.
Rispetto all’Italia si possono notare parecchie differenze di metodo:
1. In Francia c’è stata maggior chiarezza nell’attribuire competenze e funzioni
ai vari livelli amministrativi, cercando di limitare il più possibile le
sovrapposizioni e le storture di un sistema amministrativo comunque
molto complesso.
In Italia la questione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e
Comuni è ancora indefinita.
2. In Francia, I costi di rappresentanza democratica non sono sentiti come un
limite all’efficienza del sistema. Anzi, il principio di autogoverno dei territori
è stato ritenuto fondamentale per completare il processo di diffusione
degli EPCI, che nel 2014 sceglieranno a suffragio universale i propri
rappresentanti.
In Italia la campagna mediatica che ha portato nell’occhio del ciclone le
Province è partita proprio dai costi della politica. Pur con una base di
ragione ampiamente condivisibile, questa battaglia ha portato a svilire il
concetto della rappresentanza democratica, che, come già scritto, non è
solo una questione di principio ma ha anche ricadute sull’autorevolezza
politica e tecnica di un ente nell’imporre le sue scelte.
3. Il principio della coerenza territoriale che è alla base dell’intercomunalità
francese, non solo ricerca la scala più adeguata per erogare servizi ma
anche quella migliore per garantire coesione territoriale nelle scelte di
lungo periodo.
Nel caso italiano, si sono riordinate le Province secondo standard
demografici e di estensione territoriale che hanno generato accorpamenti
che producono spesso enti di secondo livello talmente grandi da farli
somigliare più a delle Regioni.
4. Il disegno di riordino territoriale francese non è stato improvvisato, ma è il
risultato di una lunga storia e di leggi che sono state capaci di
82
implementare gradualmente questo processo. Alla buona riuscita, hanno
concorso sia la normativa dettata dallo Stato centrale sia la capacità dal
basso di costruire relazioni, in una logica di fiducia tra le istituzioni.
Ciò non è certo avvenuto in Italia, dove si è improvvisata una riforma delle
Province con scadenze ravvicinate e senza una consultazione vera e
propria degli enti locali.
Venendo al ruolo della pianificazione, s’è già detto dei problemi di coerenza delle
scelte che ci sarebbero se il coordinamento territoriale d’area vasta fosse svolto da
Province di secondo livello o direttamente dalle Regioni.
L’intercomunalità appare, quindi, una strada percorribile anche in Italia per
garantire un governo del territorio ad una scala pertinente e capace di superare
gli interessi locali.
È quindi opportuno capire con quali forme e con quale diffusione si sia
sviluppata la cooperazione intercomunale in Italia, studiando lo strumento
dell’Unione dei Comuni.
Forse, una riforma frettolosa e piena di contraddizioni come quella sulle Province,
può essere sfruttata per promuovere dal basso un nuovo modo di concepire i
territori.
83
CAPITOLO 3
L’INTERCOMUNALITÀ IN ITALIA: LE UNIONI DEI COMUNI
Come s’è potuto esaminare nella prima parte del lavoro, la riforma delle Province
genererà molti rischi non solo sull’efficienza e l’efficacia dell’amministrazione
pubblica ma anche sulla capacità di garantire coerenza territoriale attraverso la
pianificazione d’area vasta.
Scopo di questo secondo capitolo è cercare di capire se, sulla base del modello
francese esaminato precedentemente, si possa ipotizzare anche in Italia un
sistema di pianificazione d’area vasta legato alla dimensione intercomunale.
Le Unioni dei Comuni sono dal 1990 un ente di secondo livello con cui la
legislazione italiana definisce le forme di cooperazione tra le municipalità.
L’affermazione di questo strumento è però frutto di riforme dei primi anni 2000,
arrivando oggi a coinvolgere oltre un quinto dei Comuni italiani.
Il primo paragrafo restituisce il quadro attuale delle Unioni dei Comuni in Italia,
ricostruendo il processo normativo, esaminando i trend degli ultimi anni e
dipingendo lo stato attuale aggiornato al maggio 2012.
Da questa analisi emerge un panorama eterogeneo a causa soprattutto delle
diverse politiche che le Regioni hanno perseguito.
Nel secondo paragrafo si riassume l’esperienza emiliana prima in Italia a produrre
leggi sulla cooperazione municipale e a legare quest’aspetto con le pratiche di
pianificazione del territorio, tanto che la si può definire la Regione più “francese”
sul tema della cooperazione intercomunale.
Diventa quindi molto interessante vedere più da vicino com’è definito il PSC
redatto in forma associata, cercando di focalizzare l’analisi sul processo che ha
portato alla redazione del piano e il grado di cogenza delle scelte.
Partendo da questi esempi si può certamente iniziare a capire quale modello di
pianificazione intercomunale si potrà costruire, accettando la sfida di poter
garantire coerenza territoriale anche senza il coordinamento d’area vasta che fino
ad oggi hanno svolto le Province.
Il momento di riordino istituzionale pieno di incertezze e contraddizioni che sta
vivendo oggi l’Italia permette di immaginare nuovi strumenti di piano a una scala
territoriale pertinente. Il
tema
della
pianificazione d’area
vasta
legato
84
all’intercomunalità è da poco oggetto degli studi e delle pratiche, ma proprio per
questo ha ampi margini di crescita e sviluppo.
3.1 Le Unioni dei Comuni, normativa e struttura
3.1.1 L’evoluzione normativa dal 1990 ad oggi
Quella delle Unioni dei Comuni è una storia ventennale di alti e bassi, con
passaggi non sempre coerenti tra di loro.
Questo strumento amministrativo nasce dalla necessità di ottimizzare le risorse e
di porre un freno al frazionamento del territorio italiano, diviso in 8.092 Comuni
di cui 5.683 sotto i 5.000 abitanti, alla ricerca di una maggiore adeguatezza e di
una maggiore qualità dei servizi da offrire.
La legge n. 42/1990, già citata nella storia dell’ordinamento delle Province, è la
prima ad introdurre le Unioni dei Comuni con l’articolo 26 come possibilità con
cui favorire la fusione dei piccoli Comuni61 che doveva avvenire entro dieci anni
dalla fondazione dell’Unione62.
Una normativa che introduceva il tema dell’intercomunalità rendendo possibili
aggregazioni dal basso, alternativa a strumenti più classici come convenzioni o
consorzi, che si limitavano alla gestione associate di determinati servizi.
Questa prima stagione non fu però particolarmente fortunata: la possibilità di
poter creare Unioni solo per i piccoli Comuni e l’obbligo di fusione furono limiti
molto grandi alla diffusione di questo strumento, che non trovò applicazione fino
al decennio successivo.
La legge n. 265/1999, poi confluita nel Testo Unico degli Enti Locali del 2000,
riscrisse il regolamento delle Unioni, portando di fatto alla loro diffusione sul
territorio italiano.
Al Capo V del TUEL si elencano le varie forme associative che la legge prevede, tra
cui le già citate Convenzioni, Consorzi e Accordi di Programma.
61
Il comma 1 dell’Art. 26 della L.42/90 recita “In previsione di una loro fusione, due o più Comuni
contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti,
possono costituire una unione per l'esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi”.
62
Il comma 6 dell’Art. 26 della L.42/90 recita “Entro dieci anni dalla costituzione dell'unione deve
procedersi alla fusione, a norma dell'articolo 11. Qualora non si pervenga alla fusione, l'unione é sciolta”.
85
Nella tabella 3.1 è possibile vedere in sintesi le differenze principali tra queste
quattro forme di intercomunalità secondo quattro criteri: volontarietà, profilo
giuridico, forma di controllo e funzioni.
Le convenzioni e i consorzi sono strumenti adatti a svolgere in modo associato
una specifica funzione; in particolare i consorzi assumono un profilo di carattere
aziendale con il controllo esercitato dall’assemblea dei Comuni soci.
Gli accordi di programma sono invece finalizzati alla realizzazione di un piano, un
progetto o un’opera pubblica.
Tabella 3.1: Le forme di intercomunalità in Italia secondo il TUEL
Forma
associativa
Volontarietà
Personalità
giuridica
Forme di
controllo
Numero di
funzioni
Convenzione
Si, possibili
forme
obbligatorie
No,
coordinamento
esecutivo
Controllo
diretto di ogni
comune
Prestabilito,
spesso solo
una funzione
Si, possibili
forme
obbligatorie
Controllo
dell’assemblea
Si, con
dei soci, in cui
caratterizzazione
ogni comune
aziendale
possiede
quote
Prestabilito,
spesso solo
una funzione
Accordo tra enti
per attuare
opere e
programmi
Controllo
diretto di ogni
comune
Una funzione
Si, è ente locale
Problematico:
organi con
sindaci,
assessori e
consiglieri dei
Comuni
costituenti
Polifunzionale
Consorzio
Accordo di
programma
Unione dei
Comuni
Si
Si
Fonte: Fiorillo e Robotti, 2006
Le Unioni dei Comuni sono trattate dall’Articolo 32: divenute a tutti gli effetti enti
locali di secondo livello, viene tolto il vincolo della fusione e il limite dei 5.000
86
abitanti per i Comuni che ne vogliono far parte63. Di fatto si anticipano, attraverso
le Unioni, due principi cardine della riforma del titolo V dell’anno successivo: la
sussidiarietà e, soprattutto, l’adeguatezza, ovvero quella dimensione ideale per lo
svolgimento efficiente delle funzioni e dei servizi.
Molto importante anche l’articolo 33 “Esercizio associato di funzioni da parte dei
Comuni”, in cui si demanda alle regioni l’individuazione del livello ottimale di
esercizio associato delle
funzioni, oltre che a disciplinare con leggi regionali le forme d’incentivazione
all’intercomunalità, anche con fondi specifici di finanziamento 64.
I suddetti fondi dovranno rispettare principi fondamentali: essere progressivi a
seconda del grado d’integrazione delle funzioni e favorire le unioni sulle altre
forme di gestione associata, senza vincoli alla fusione ma ponendo ulteriori
risorse nel caso quest’ultima ipotesi fosse perseguita65.
Questa riforma non solo porterà all’effettivo sviluppo dell’Unione dei Comuni
come strumento con cui razionalizzare le spese e ripensare i servizi, ma sarà anche
la causa della differenziazione che ha assunto il fenomeno nelle varie regioni.
63
Di particolare interesse il comma 1 dell’Art. 32 del TUEL, soprattutto se visto in confronto con il comma
1 dell’Art.26 della L.42/90, che recita “Le unioni dei Comuni sono enti locali costituiti da due o più
Comuni contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro
competenza”.
64
In particolare i commi 2 e 3 dell’Art. 33 del TUEL
“2. Al fine di favorire l'esercizio associato delle funzioni dei Comuni di minore dimensione demografica,
le regioni individuano livelli ottimali di esercizio delle stesse, concordandoli nelle sedi concertative di cui
all'articolo 4. Nell'ambito della previsione regionale, i Comuni esercitano le funzioni in forma associata,
individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato
dalla legislazione regionale. Decorso inutilmente il termine di cui sopra, la Regione esercita il potere
sostitutivo nelle forme stabilite dalla legge stessa.
3. Le regioni predispongono, concordandolo con i Comuni nelle apposite sedi concertative, un
programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi,
realizzato anche attraverso le unioni, che può prevedere altresì la modifica di circoscrizioni comunali e i
criteri per la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva unificazione. Il programma è
aggiornato ogni tre anni, tenendo anche conto delle unioni di Comuni regolarmente costituite”.
65
Il comma 4 dell’Art. 33 del TUEL stabilisce i principi fondamentali sui quali le regioni dovranno basare i
fondi d’incentivo alle gestioni associate.
“(…) a) nella disciplina delle incentivazioni:
1. favoriscono il massimo grado di integrazione tra i Comuni, graduando la corresponsione dei benefìci
in relazione al livello di unificazione, rilevato mediante specifici indicatori con riferimento alla tipologia ed
alle caratteristiche delle funzioni e dei servizi associati o trasferiti in modo tale da erogare il massimo dei
contributi nelle ipotesi di massima integrazione;
2. prevedono in ogni caso una maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di unione, rispetto
alle altre forme di gestione sovracomunale;
b) promuovono le unioni di Comuni, senza alcun vincolo alla successiva fusione, prevedendo
comunque ulteriori benefìci da corrispondere alle unioni che autonomamente deliberino, su conforme
proposta dei consigli comunali interessati, di procedere alla fusione”.
87
Avendo lasciato, di fatto, alle regioni il compito di programmare l’associazionismo
comunale, ogni realtà ha cercato di configurare assetti consoni alle proprie
peculiarità.
L’analisi dello stato dell’arte delle Unioni che sarà trattata nel paragrafo
successivo farà emergere con forza l’eterogeneità del fenomeno in Italia.
Con i Decreti Ministeriali n. 318/2000 e 289/200466, si sono invece stabiliti i criteri di
massima per si riparto dei fondi erariali destinati alle forme associate, ripartendoli
in tal modo: 15% per le fusioni dei Comuni, il 65% per le Unioni dei Comuni e il
25% per le Comunità Montane.
Per la quantificazione dei contributi spettanti ad ogni singolo ente, si stabilisce,
inoltre, di tenere in considerazione altri tre parametri:
a. Popolazione: facendo spettare un contributo per abitante pari ad una
percentuale del valore medio nazionale pro capite dei contributi erariali.
La percentuale è crescente per le Unioni fino a 20.000 abitanti e
decrescente per quelle maggiori, testimoniando la volontà di incentivare
maggiormente le aggregazioni tra piccoli Comuni;
b. Numero degli enti associati: una quota di contributi commisurata al
numero di Comuni che costituiscono l’Unione;
c. Servizi esercitati in forma associata: alle Unioni spetta un contributo pari a
una percentuale delle spese sostenute in relazione ai servizi esercitati in
comune.
Le Intese di Conferenza Unificate del 2005 e del 2006, siglate da Stato-CittàRegioni, hanno invece chiarito il problema del coordinamento della finanza
pubblica tra Stato ed Enti Locali alla luce dei mutamenti costituzionali avvenuti
con la riforma del Titolo V.
In particolare, la conferenza del 2006 ha fissato dei criteri per la ripartizione dei
fondi statali, destinati solo alle Regioni che ottemperino alle seguenti richieste:
a. Non ci sia alcun limite temporale di durata degli incentivi destinati alle
Unioni;
b. Sia presente la previsione di forme premiali per le gestioni associate;
66
Un riassunto dell’evoluzione normativa sui temi fiscali tra 2000 e 2006 si può trovare nella
pubblicazione a cura di ANCI e CITTALIA “Le Unioni dei Comuni-Rapporto Nazionale 2010 sulle Unioni
dei Comuni”.
88
c. Sia favorito l’associazionismo dei piccoli Comuni, usando indicatori come
la popolazione o i fattori di disagio dei territori;
d. Sia prevista l’attribuzione di contributi solo a gestioni associate
effettivamente attive ed operanti;
e. Sia prevista la concessione del contributo entro l’anno finanziario di
riferimento.
Questa digressione sulle norme riguardanti la ripartizione dei fondi a sostegno
delle gestioni associate e sugli aspetti fiscali, svelano un disegno statale volto a
favorire le Unioni dei Comuni come forma principale di associazionismo
municipale.
Inoltre è chiaro come l’oggetto principale di queste leggi siano i piccoli Comuni e
come si cerchi di favorire la loro collaborazione, seppur con un approccio più light
rispetto alle fusioni.
Un sostanzioso cambiamento nell’approccio verso l’associazionismo tra Comuni
avviene con la legge 122/2010, attraverso l’articolo 14 “Patto di stabilità interno ed
altre disposizioni sugli enti territoriali”, con cui per la prima volta si rendono le
Unioni da un ente di tipo volontaristico ad ente obbligatorio 67.
La legge impone per i Comuni inferiori ai 5.000 abitanti, 3.000 se appartenenti a
Comunità Montane, l’esercizio in forma associata, attraverso unioni o convenzioni,
delle funzioni fondamentali dei Comuni stabilite dalla legge 42/200968.
Le funzioni e i relativi servizi da ritenere fondamentali in via provvisoria erano:
a. Funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo;
b. Funzioni di polizia locale;
c. Funzioni di istruzione pubblica (asili nido, assistenza scolastica ed edilizia
scolastica);
d. Funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti;
e. Funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente (escluso il
servizio di edilizia residenziale pubblica e piani di edilizia);
f. Funzioni del settore sociale.
Non stabilendo però tempi massimi per l’attuazione della legge, non si può
riscontrare una sua vera e propria applicazione.
67
In particolare, si guardi ai commi dal 25 al 31 del suddetto articolo.
Legge 42/2009, articolo 21, comma 3.
68
89
I dati che verranno presentati nel paragrafo successivo dimostreranno che
ancor’oggi molti piccoli Comuni, che per legge si sarebbero dovuti associare, non
sono ancora in Unioni, mentre le nuove forme associative nate sono sempre nel
solco già tracciato negli anni precedenti. Inoltre, l’aver previsto come strumento
alternativo alle Unioni quello delle convenzioni ha permesso a molti piccoli
Comuni di associarsi sulla base di geometrie variabili sulla base di interessi
specifici, senza andare incontro a forme associative che esigono un livello di
integrazione maggiore.
L’impianto basato su Unioni obbligatorie per i piccoli Comuni è ribadito dal
recente decreto 95/2012 “Spending Review”, che interviene proprio sulla legge
122/2010 modificandone però molti aspetti, confermando l’obbligo alla gestione
associata per i Comuni sotto i 5.000 abitanti, 3.000 se appartenenti a una
Comunità Montana.
In primis, il decreto riscrive le funzioni fondamentali dei Comuni che così
diventano:
a. ”Organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e
contabile e controllo;
b. Organizzazione dei servizi pubblici d’interesse generale di ambito
comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
c. Catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa
vigente;
d. La pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
e. Attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di
coordinamento dei primi soccorsi;
f. L’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e
recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;
g. Progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed
erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto
dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;
h. Edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
i.
Polizia municipale e polizia amministrativa locale;
l.
tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di
servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici,
90
nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.”69
Entro il 1° gennaio 2013 i Comuni rientranti nei parametri fissati dalla legge
dovranno svolgere in forma associata almeno tre delle funzioni fondamentali, che
dovranno diventare tutte entro il 1° gennaio 201470.
Inoltre si pone un limite demografico minimo delle Unioni, fissato a 10.000
abitanti, salvo un limite diverso individuato dalle Regioni entro i tre mesi
antecedenti il primo termine di esercizio associato.
Cambia leggermente anche la definizione delle Convenzioni, le quali dovranno
avere obbligatoriamente durata triennale.
Un’altra importante modifica consiste nel delegare alle regioni il compito di
individuare gli ambiti geografici ottimali e omogenei per lo svolgimento delle
funzioni in forma associata, lasciando quindi una discreta libertà di decidere in
autonomia come riordinare il sistema delle autonomie locali anche alla luce delle
riforme sulle Province.71
Sugli altri aspetti si conferma la struttura esistente delle Unioni, mantenendo
come organi dirigenti le figure del presidente, della giunta e del consiglio.
Com’è ben visibile dalla tabella 3.2, che sintetizza la storia normativa delle Unioni
sulle questioni principali, è palese quell’andamento ondivago del legislatore già
richiamato.
Oggi le Unioni diventano uno strumento obbligatorio per i piccoli Comuni e
dovranno esercitare importanti funzioni amministrative e strategiche, tra cui la
pianificazione urbanistica.
Tabella 3.2: Sintesi dell'evoluzione normativa delle Unioni dei Comuni
L. 42/1990
TUEL 2000
L.
122/2010
D.L.
95/2012
69
Obbligo
di fusione
Natura del
processo
SI
NO
Volontario
Volontario
Comuni a
cui si
rivolge la
legge
Piccoli
Tutti
NO
Obbligatorio
NO
Obbligatorio
D.L. 95/2012, Art. 19, comma 1, lettera a).
D.L. 95/2012, Art. 19, comma 1, lettera e).
71
D.L. 95/2012, Art. 19, comma 1, lettera d).
70
Soglia
demografica
minima
Lista
funzioni
obbligatorie
Nessuna
Nessuna
NO
NO
Piccoli
Nessuna
SI
Piccoli
10.000 ab.
SI
91
Se da un lato l’ultima riforma uniforma il campo delle attività svolte dalle Unioni,
che oggi sono diversissime a seconda dei contesti, dall’altro ha il grande limite di
intervenire solo sui piccoli Comuni.
Come si vedrà in seguito, la cooperazione tra municipalità è stata una scelta
utilizzata anche da Comuni medi e medio-grandi.
C’è il rischio, quindi, di creare due tipi di Unioni: quelle dei piccoli Comuni, con
precise funzioni, e quelle con Comuni più grandi, con geometrie molto più
variabili.
Tenendo conto solo dei criteri demografici, il legislatore ha perduto l’occasione di
compiere
una
riforma
completa
sull’associazionismo
intercomunale
che
coinvolgesse tutti i Comuni e andasse verso la creazione di territori pertinenti.
Le regioni avranno in questi mesi la possibilità di ponderare meglio i criteri
stabiliti a livello nazionale.
Molte di esse dovranno solo continuare sulla strada già intrapresa, ovvero la
creazione di Unioni grandi capaci di coinvolgere Comuni piccoli e grandi, aderenti
a territori omogenei e non basate sul solo ottemperamento alla legge, ma ancora
una volta il rischio è di avere un fenomeno a macchia di leopardo sul territorio
nazionale.
Nel prossimo paragrafo verrà presentato lo stato attuale delle Unioni dei Comuni
in Italia: dal quadro eterogeneo descritto si potranno trovare gli spunti per capire
se questo ente potrà svolgere davvero funzioni di coordinamento d’area vasta.
3.1.2 Lo stato attuale delle Unioni dei Comuni in Italia
Dal 2009 l’ANCI pubblica annualmente report sullo stato di salute delle Unioni dei
Comuni all’interno del periodico “Atlante dei piccoli Comuni”, dedicando al tema
sempre spazio e analisi sempre più accurate. Nel 2010, sempre da parte dell’ANCI,
fu pubblicato un report ad hoc sulle Unioni che andava ad esaminare anche la
qualità percepita dai cittadini e dagli amministratori sui servizi gestiti in modo
associato. I dati antecedenti al 2009 sono più imparziali e incompleti, ma sono
ritrovabili in molti report e studi, come quello fatto dall’istituto Cattaneo nel 2008
per conto dell’Unione dei Comuni “Terre di Castelli” in provincia di Modena.
92
Tabella 3.3: Evoluzione delle Unioni dei Comuni sul territorio nazionale.
Piccoli
Comuni in
Unioni
Popolazione
Superficie
(kmq)
Anno
N. Unioni
Tot. Comuni
in Unioni
1999
16
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
2000
67
306
n.d.
660.589
n.d.
2001
132
596
n.d.
1.503.422
n.d.
2002
179
798
n.d.
2.307.048
n.d.
2003
222
982
n.d.
3.040.152
n.d.
2004
244
1.106
n.d.
3.611.248
n.d.
2005
251
1.108
n.d.
3.552.019
n.d.
2006
271
1.217
n.d.
4.345.972
n.d.
2007
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
2008
286
1.308
n.d.
4.345.972
n.d.
2009
291
1.368
1.045
5.135.159
n.d.
2010
313
1.561
1.201
5.758.607
47.455
2011
337
1.663
1.271
6.301.764
52.398
2012
367
1.851
1.405
7.215.746
65.017
Fonte: Anci, Istat e Istituto Cattaneo
Dalle 16 Unioni del 1999, nate subito dopo la riforma, il processo di diffusione
dell’ente è stato subito importante nei primi anni 2000 (tabella 3.3).
Oggi in Italia vi sono 367 Unioni dei Comuni, capaci di coinvolgere 1.851 Comuni
(oltre il 20% del totale dei Comuni italiani), di cui 1.405 sotto i 5000 abitanti, per
una popolazione complessiva di 7.215.746 abitanti (circa il 12% della popolazione
nazionale) su una superficie di 65.017 kmq (poco più del 20% dell’estensione del
Paese).
Negli ultimi tre anni sono state 76 le nuove Unioni costituite con 447 Comuni che
si sono associati, aumentando di due milioni la popolazione e di quasi 20.000
kmq la superficie territoriale governata, numeri lontanamente paragonabili a
quelli francesi ma comunque interssanti.
93
Quella che si sta vivendo, è una fase di sviluppo del fenomeno paragonabile, in
termini numerici, a quella dei primi anni di diffusione, mentre a metà anni 2000 s’è
verificato un momento di relativo allentamento.
La crescita dell’associazionismo municipale in Italia è visibile anche dalle mappe
che censiscono le Unioni sul territorio nazionale (figura 3.1).
Figura 3.1: La mappa delle Unioni dei Comuni in Italia dal 2009 al 2012
Fonte, Anci-Cittalia
Per una lettura più completa dei dati è utile scomporre le statistiche nazionali per
regione e per quattro macro aree: Comuni coinvolti, guardando anche le
specifiche dei piccoli Comuni, popolazione e superficie territoriale.
È dai dati leggibili dalla tabella successive che si può comprendere meglio
quell’eterogeneità della realtà delle Unioni dei Comuni dovuta alle deleghe alle
regioni nel definire gli ambiti ottimali.
Osservando la distribuzione delle Unioni tra le regioni e il coinvolgimento dei
Comuni (Tabella 3.4) si nota come Piemonte e Lombardia siano le regioni con più
Unioni, rispettivamente 51 e 57, seguite dalla Sicilia, con 48, e da Sardegna ed
Emilia-Romagna con 33 e 30.
Se, però, ci si sofferma sulla percentuale dei Comuni in Unione sul totale, si può
notare come le prime posizioni siano occupate da Sardegna, con oltre il 70%,
seguite da Sicilia, Toscana ed Emilia-Romagna che si attestano a quote vicine al
45%, mentre il Piemonte con il 26% e soprattutto la Lombardia col 13% si
attestano su percentuali molto più basse.
Guardando alla distribuzione dei Piccoli Comuni (tabella 3.5), in Lombardia e
Piemonte sono soprattutto i Comuni sotto i 5000 abitanti ad associarsi, che
costituiscono oltre il 90% delle municipalità in Unioni.
94
Su percentuali molto alte si attestano anche le altre regioni, mentre emerge il
dato dell’Emilia-Romagna, le cui unioni solo per il 34% sono composte da piccoli
Comuni.
I dati relativi alla popolazione residente nelle Unioni (tabella 3.6) e alla loro
superficie territoriale (tabella 2.7), sono la conseguenza diretta di ciò che è fin’ora
emerso.
La Sardegna si dimostra la regione che in termini relativi la più alta quota di
popolazione in Unioni, con il 41,8%, ma è l’Emilia-Romagna che spicca in senso
assoluto, con oltre 1.300.000 abitanti, quasi un terzo del totale, seguita da Sicilia e
Puglia con circa 800.000 abitanti.
Di riflesso, la Lombardia ha poco più del 3% degli abitanti residenti in Unione,
mentre nessun’altra regione supera la soglia del 20% (eccetto il Molise che è
comunque un caso molto piccolo).
Un analogo ragionamento si può fare anche sulla superficie territoriale: (tabella
3.7) la Sardegna si conferma la prima regione, sia in senso relativo che assoluto,
con oltre il 60% di territorio gestito da Unioni, seguita dalla Toscana, dalla Sicilia e
dall’Emilia-Romagna, che superano abbondantemente il 30%.
La diversità del quadro generale si può evincere anche guardando alla
popolazione massima e minima dei Comuni appartenenti ad Unioni in Italia,
passando dagli 89.780 abitanti di Brindisi ai 69 di Rima San Giuseppe in provincia
di Vercelli.
L’eterogeneità delle Unioni dei Comuni in Italia si deve sia alle peculiarità
intrinseche delle regioni, sia alle politiche che queste hanno perseguito.
Per esempio, Lombardia e Piemonte sono in prima fila sia per numero di Unioni
che per numero di Comuni coinvolti, ma occupano gli ultimi posti in termini di
popolazione e superficie territoriale: in questo caso la legislazione regionale ha
cercato di favorire le associazioni soprattutto tra i piccoli Comuni, con Unioni che
risultano piccole e formate da poche municipalità.
Ciò nasce dalla necessità di mettere un freno a una frammentazione territoriale e
amministrativa unica in Italia a causa dei tanti Comuni montani sempre più
spopolati.
In altri casi, come quello sardo, le Unioni sono state uno strumento molto
utilizzato, capace di coinvolgere tantissimi Comuni medio-piccoli.
Buoni esempi arrivano anche da Toscana, Puglia e Sicilia, con buone performance
95
in tutti i campi d’analisi sia intermini assoluti che relativi, con Veneto, Lazio e
Campania appena dietro.
La regione che più si differenzia dal trend più caratteristico, ovvero alta
percentuale di piccoli Comuni coinvolti e una popolazione in Unione tra il 10% e
il 20%,72 è l’Emilia-Romagna, capace di creare Unioni in grado di coinvolgere quasi
la metà dei Comuni, di cui i due terzi sopra i 5000 abitanti, e quasi un terzo della
popolazione residente totale, segno di politiche che hanno affrontato
l’intercomunalità a tutto tondo senza limitarsi ai soli piccoli Comuni.
72
N.B. benché il Lazio figuri con solo il 3,7% della popolazione in Unione, se si togliesse dal conto Roma la
percentuale salirebbe al 10%).
96
Tabella 3.4: Distribuzione delle Unioni dei Comuni per regione
N. Comuni
in regione
N. Unioni
dei Comuni
N. Comuni
in UC
% Comuni
in UC
% di UC su
totale
nazionale
1.206
51
318
26,4%
13,9%
74
0
0
0,0%
0,0%
Lombardia
1.544
57
206
13,3%
15,5%
Trentino
Alto Adige
333
1
3
0,9%
0,3%
Veneto
581
26
94
16,2%
7,1%
Friuli
Venezia
Giulia
218
4
10
4,6%
1,1%
Liguria
235
1
5
2,1%
0,3%
EmiliaRomagna
348
30
156
44,8%
8,2%
Toscana
287
21
134
46,7%
5,7%
Umbria
92
1
8
8,7%
0,3%
Marche
239
11
46
19,2%
3,0%
Lazio
378
21
103
27,2%
5,7%
Abruzzo
305
7
47
15,4%
1,9%
Molise
136
8
50
36,8%
2,2%
Campania
551
12
66
12,0%
3,3%
Puglia
258
22
102
39,5%
6,0%
Basilicata
131
1
4
3,1%
0,3%
Calabria
409
12
55
13,4%
3,3%
Sicilia
390
48
176
45,1%
13,1%
Sardegna
377
33
268
71,1%
9,0%
8.092
367
1.851
22,9%
100,0%
Regione
Piemonte
Valle
d'Aosta
Totale Italia
Fonte: Anci 2012, Istat 2011
97
Tabella 3.5: Distribuzione dei Piccoli Comuni presenti in Unioni per regione
N. Piccoli
Comuni in
Regione
N. Piccoli
Comuni in UC
% Piccoli
Comuni in UC
% Piccoli
Comuni in UC
su totale PC
1.071
297
93,4%
27,7%
73
0
0,0%
0,0%
1.086
197
95,6%
18,1%
Trentino Alto
Adige
299
3
100,0%
1,0%
Veneto
313
58
61,7%
18,5%
Friuli Venezia
Giulia
155
9
90,0%
5,8%
Liguria
183
5
100,0%
2,7%
EmiliaRomagna
156
53
34,0%
34,0%
Toscana
134
86
64,2%
64,2%
Umbria
59
4
50,0%
6,8%
Marche
172
34
73,9%
19,8%
Lazio
253
93
90,3%
36,8%
Abruzzo
250
34
72,3%
13,6%
Molise
125
45
90,0%
36,0%
Campania
331
36
54,5%
10,9%
Puglia
84
41
40,2%
48,8%
Basilicata
99
3
75,0%
3,0%
Calabria
327
49
89,1%
15,0%
Sicilia
200
124
70,5%
62,0%
Sardegna
313
234
87,3%
74,8%
5.683
1.405
75,9%
24,7%
Regione
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Totale Italia
Fonte: Anci 2012, Istat 2011
98
Tabella 3.6: Popolazione residente in Unioni dei Comuni per regione
Regione
Piemonte
Popolazione
Popolazione % Popolazione
residente totale residente in UC residente in UC
4.457.335
615.783
13,8%
128.230
0
0,0%
Lombardia
9.917.714
355.375
3,6%
Trentino Alto
Adige
1.037.114
2.958
0,3%
Veneto
4.937.854
482.023
9,8%
Friuli Venezia
Giulia
1.235.808
24.957
2,0%
Liguria
1.616.788
13.120
0,8%
EmiliaRomagna
4.432.418
1.313.171
29,6%
Toscana
3.749.813
702.474
18,7%
Umbria
906.486
39.461
4,4%
Marche
1.565.335
166.589
10,6%
Lazio
5.728.688
212.162
3,7%
Abruzzo
1.342.366
256.394
19,1%
319.780
93.921
29,4%
Campania
5.834.056
457.869
7,8%
Puglia
4.091.259
798.353
19,5%
Basilicata
587.517
10.234
1,7%
Calabria
2.011.395
156.326
7,8%
Sicilia
5.051.075
814.202
16,1%
Sardegna
1.675.411
700.374
41,8%
60.626.442
7.215.746
11,9%
Valle d’Aosta
Molise
Totale Italia
Fonte: Anci 2012, Istat 2011
99
Tabella 3.7: Superficie territoriale delle Unioni dei Comuni per regione
Superficie
territoriale
(kmq) totale
Superficie
territoriale
(kmq) in UC
% Superficie
territoriale in
UC
Piemonte
25.402
4.962
19,5%
Valle d'Aosta
3.263
0
0,0%
Lombardia
23.863
3.137
13,1%
Trentino Alto
Adige
13.607
176
1,3%
Veneto
18.399
1.787
9,7%
Friuli Venezia
Giulia
7.858
442
5,6%
Liguria
5.422
142
2,6%
EmiliaRomagna
22.446
7.165
31,9%
Toscana
22.994
9.972
43,4%
Umbria
8.456
488
5,8%
Marche
9.366
919
9,8%
Lazio
17.236
2.359
13,7%
Abruzzo
10.763
1.009
9,4%
Molise
4.438
1.573
35,4%
Campania
13.590
1.381
10,2%
Puglia
19.358
3.175
16,4%
Basilicata
9.995
283
2,8%
Calabria
15.081
1.838
12,2%
Sicilia
25.711
9.589
37,3%
Sardegna
24.090
14.619
60,7%
301.338
65.016
21,6%
Regione
Totale Italia
Fonte: Anci 2012, Istat 2011
100
Riguardando nel complesso il fenomeno, la variabilità delle Unioni va dai 2 ai 20
Comuni coinvolti.
Se da un lato la media delle Unioni italiane è di cinque Comuni, è vero anche che
più della metà è composta da quattro o meno Comuni e poco meno di un quarto
ha più di sette Comuni (grafico 3.1).
Inoltre, sono soprattutto i piccoli Comuni ad associarsi (grafico 3.2) e solo il 24,1%
dei Comuni supera la soglia dei 5.000 abitanti; tra questi ricoprono una
percentuale bassissima, meno dell’1%, i Comuni con più di 25.000 residenti.
Una forte variabilità è riscontrabile nell’ampiezza demografica delle Unioni
(grafico 3.3): la media nazionale è di 19.661 abitanti per Unione, ma la maggior
parte delle realtà associative, circa il 40%, si trovano in un range che va dai 5.000 ai
15.000 residenti.
Da segnalare come poco più di un sesto delle Unioni, il 17,8%, sia inferiore ai 5.000
abitanti, mentre quasi un quarto, il 23,7%, è addirittura superiore ai 25.000.
Questi dati non fanno che confermare la figura di un fenomeno ancora a
geometrie variabili e legato molto alle varie realtà contestuali locali.
Grafico 3.1: Numero Unioni (in percentuale) per ammontare di comuni
partecipanti
5%
18%
34%
tra 2 e 3 comuni
4 comuni
tra 5 e 6 comuni
26%
17%
tra 7 e 10 comuni
più di 10 comuni
Fonte: Anci, 2012
101
Grafico 3.2: Numero di comuni (in percentuale) presenti in Unioni,
per classe di ampiezza demografica
0,70%
23,20%
0,20%
25,40%
Fino a 1.000 ab.
Tra 1.001 e 2.5000 ab.
Tra 2.501 e 5.000 ab.
Tra 5.001 e 25.000 ab.
Tra 25.001 e 50.000 ab.
Più di 50.000 ab.
19,80%
30,60%
Fonte: Anci, 2012
Grafico 3.3: Numero di Unioni (in percentuale) per popolazione complessiva
residente
8,20%
7,40%
10,40%
15,50%
Fino a 3.000 ab.
Tra 3.001 e 5.000 ab.
Tra 5.001 e 15.000 ab.
18,80%
39,80%
Tra 15.001 e 25.000 ab.
Tra 25.001 e 50.000 ab.
Più di 50.000 ab.
Fonte: Anci, 2012
Guardando invece alla struttura delle Unioni (grafico 3.4), è utile riprendere la
divisione fornita dagli studi Anci che divide le associazioni intercomunali in
cinque categorie.
102
Il modello “solo piccoli”, ovvero Unioni costituite esclusivamente da Comuni sotto
i 5.000 abitanti, è di gran lunga quello più ricorrente, con ben 150 casi, quasi la
metà del totale.
Per 81 Unioni si può invece assegnare l’etichetta di “arcipelaghi”, ovvero
associazioni che uniscono Comuni piccoli e meno piccoli per la gestione di servizi
specifici.
Ben 61 sono i casi di Unioni formate solo da due Comuni, le cosiddette “coppie”:
diverse sono, a loro volta, le tipologie di coppia, da due Comuni molto piccoli a
quelli in cui entrambi sono di media dimensione o casi in cui ad uno più grande
si associa uno più piccolo.
Le Unioni “satellitari” sono caratterizzate dall’esistenza di uno o due Comuni più
grandi attorno ai quali si associano una serie di piccoli Comuni, un modello
abbastanza diffuso con 53 casi.
Infine, il modello meno ricorrente è quello in cui si associano solo Comuni con
più di 5.000 abitanti, definito come “solo grandi”, tipico della realtà emiliana e
pugliese, regioni in cui il tessuto amministrativo è basato su centri medi.
Grafico 3.4: Struttura delle Unioni per tipologia di Comuni che vi partecipano
150
Solo Piccoli
81
Arcipelaghi
61
Coppie
53
Satellitari
22
Solo grandi
0
Fonte: Anci-Cittalia, 2012
20
40
60
80
100
120
140
160
103
3.1.3 Il profilo gestionale, amministrativo e funzionale delle Unioni dei Comuni
Oltre ai dati numerici che definiscono la struttura delle Unioni dei Comuni, è
altrettanto importante capire come queste funzionano e come si sono
organizzate.
L’unica fonte a tal proposito è la pubblicazione dell’ANCI “Lo stato delle Unioni –
Rapporto nazionale 2010 sulle Unioni dei Comuni”, dove un’intera sezione si
sofferma sullo studio del funzionamento delle Unioni prendendo a campione 70
casi.
Già dallo studio degli statuti emergono cose interessanti, che indicano l’assenza
di accidentalità nel processo che ha portato alla costituzione dell’Unione.
Tutte le 70 Unioni esaminate sono a tempo indeterminato e in ben 25 casi si
dichiara la fusione come obiettivo finale.
In 46 statuti è presenta la formula “L’Unione è un ente che con riguardo alle
proprie attribuzioni, rappresenta la Comunità di coloro che risiedono nel proprio
territorio e concorre a curarne gli interessi”, mentre in 51 “l’Unione persegue
l’autogoverno”.
Negli statuti si trovano anche riferimenti alle funzioni originarie dell’Unione, più
spesso dichiarate e non attuate immediatamente, con lo scopo di ampliare i
compiti che svolgono i singoli Comuni.
Una certa diversità si riscontra invece sulle forme di governo e di rappresentanza.
Il Presidente per il 35% dei casi ricopre la carica fino alla fine del mandato, mentre
la maggioranza delle Unioni preferisce la rotazione tra i sindaci dei Comuni,
sebbene le durate dei periodi possano variare tra un caso e l’altro.
Le Giunte dell’Unione sono composte per l’84% del campione dagli altri sindaci,
ma è possibile trovare situazioni in cui in Giunta si possano trovare anche
assessori dei Comuni che compongono l’associazione.
Anche le regole per la Composizione del Consiglio dell’Unione trovano forme
diverse: oltre il 70% dei casi il Consiglio è formato da quote uguali per comune, di
cui il 12% applica meccanismi correttivi, mentre il rimanente applica quote
proporzionali al numero di abitanti.
La figura del Direttore generale non è prevista nel 48% delle unioni esaminate;
laddove invece è prevista, si differenziano Unioni che utilizzano un Segretario
104
generale a fare la vece del DG (il 37% del totale) e altre che prevedono il Direttore
generale come figura specifica (15%).
Osservando la voce delle risorse si può capire quanto le Unioni siano in grado di
spendere in interventi sul territorio garantendo una copertura economica
coerente. Il raffronto tra spesa corrente (per il sostentamento dei servizi) e in
conto capitale (per il finanziamento di investimenti) dà poi la misura di quanto le
Unioni siano spesso gli strumenti attraverso cui far transitare le gestioni associate
non ancora dotate di una capacità di investimento autonomo.
Gli ultimi dati su cui è stata svolta un’analisi sono relativi all’anno 2009 e da questi
si evince che la spesa corrente è superiore di cinque volte quella in conto capitale.
La spesa corrente è nel 24% dei casi superiore ai due milioni di euro, per il 21% tra
il milione e i due milioni di euro e per il 12% tra i 500.000 euro e il milione; è da
segnalare, però, come il 39%, ovvero la maggioranza relativa, abbia una spesa
inferiore ai 500.000 euro, dato spiegabile dal fatto che il 70% delle Unioni associa
al massimo tre funzioni.
In più c’è una forte differenza tra nord e sud: nelle Unioni settentrionali la spesa
media è di due milioni e mezzo di euro, nel centro Italia intorno al milione, mentre
nel Mezzogiorno si attesta sui 700.000 euro.
Le spese in conto capitale si aggirano sui 350.000 euro sia al nord che al centro,
circa la metà, invece, al sud.
La voce relativa ai finanziamenti “di parte corrente” derivati dai finanziamenti sia
statali che regionali è fondamentale per determinare la nascita, la diffusione e la
sopravvivenza delle Unioni.
L’intervento statale si dimostra esiguo, anche a causa di una debolezza storica sul
versante delle politiche di riordino territoriale, con solo l’8% delle Unioni che ha
ricevuto finanziamenti superiori ai 200.000 euro, mentre i due terzi sono
addirittura sotto i 100.000 euro (tabella 3.8).
105
Tabella 3.8: Entità dei finanziamenti statali nel 2009
Classi
Percentuali
≤ 25.000 €
14%
25.000 – 50.000 €
18%
50.000 – 100.000€
30%
100.000 – 200.000 €
30%
> 200.000 €
8%
Fonte: Anci-Cittalia, 2010
Diverso il discorso relativo ai finanziamenti delle regioni, che si rilevano più
cospicui rispetto a quelli dello stato centrale. Oltre il 40% delle Unioni riceve
finanziamenti tra i 100.000 e i 500.000 euro e addirittura una piccola quota, circa il
6%, arriva ad avere oltre il milione di euro (tabella 3.9).
Tabella 3.9: Entità dei finanziamenti regionali nel 2009
Classi
Percentuali
≤ 100.000
46,1%
100.000 – 200.000 €
23,1%
200.000 – 500.000€
19,2%
500.000 – 1.000.000 €
5,8%
> 1.000.000 €
5,8%
Fonte: Anci-Cittalia, 2010
Guardando al trend del biennio 2008-2009, si può notare, invece, un calo generale
dei finanziamenti statali, con il 25% delle Unioni a cui vengono dimezzati i fondi
mentre per la metà si abbassano, anche se in maniera meno consistente (tabella
3.10).
106
Anche in questo caso è diverso l’approccio delle regioni: per il 40% delle Unioni
c’è un aumento del finanziamento entro un massimo del 50% in più, mentre per
circa il 25% delle associazioni la crescita assume dimensioni ancora più importanti.
Tabella 3.10: Variazioni dei finanziamenti statali e regionali nel biennio 20082009
Classi di variazione
del finanziamento
Stato
Regioni
< - 50%
25,0%
9,5%
Fra -50 e 0%
54,2%
23,8%
Fra 0 e 50%
14,6%
40,5%
Fra 50 e 100%
4,2%
11,9%
> 100%
2,1%
14,3%
Fonte: Anci-Cittalia, 2010
L’Anci compie anche un’interessante analisi sugli strumenti gestionali e di
programmazione degli enti.
Quasi l’80% del campione s’è dotato di un PEG (Piano esecutivo di gestione), uno
strumento di analisi e programmazione analitica della spesa.
Strumenti come il Bilancio Sociale, attraverso cui si potrebbe far conoscere
maggiormente l’Unione ai cittadini, o il Piano Strategico, sono invece scarsamente
usati, con percentuali attorno al 5%.
In più nel report citato s’è formulata anche una domande esplicita sull’attuazione
di strumenti condivisi di pianificazione territoriale: solo il 16,7% dei casi esaminati
ha intrapreso la strada della pianificazione d’area vasta a livello di Unione, un dato
sicuramente importante per questa tesi che si prefigge l’obiettivo di capire se
questa funzione può essere svolta dalle Unioni in mancanza delle Province.
Relativamente alle funzioni conferite alle Unioni, la media nazionale è di 9 servizi,
con un range che va da 1 a 29.
Più del 50% associa tra le 6 e le 20 funzioni, ma sono importanti anche le
percentuali riscontrabili ai due estremi (tabella 3.11).
107
Tabella 3.11: Quantità delle funzioni conferite
Numero funzioni
Percentuali
< di 3
19,1%
Da 4 a 5
20,6%
Da 6 a 10
32,4%
Da 10 a 20
20,6%
> 20
7,4%
Fonte: Anci-Cittalia, 2010
Con il 60% del campione, la polizia municipale si dimostra la funzione
maggiormente gestita in modo associato dalle Unioni, seguita dai servizi culturali
col 45%, dalla protezione civile e dai servizi sociali alla persona col 41,4%;
l’urbanistica e la pianificazione del territorio sono gestite solo da 18,6% delle
Unioni, tra le funzioni agli ultimi posti di questa speciale classifica dei servizi
associati.
Per ogni funzione, lo studio dell’Anci fornisce anche la percezione del valore
aggiunto che attribuiscono gli amministratori locali.
In merito all’urbanistica e alla pianificazione territoriale, si percepisce un 15% in
più di copertura del servizio, un 8% in più di economie gestionali e di
miglioramento del servizio per alcuni Comuni e un 31% di aumento della qualità
percepita dagli utenti, segno, forse, che una maggiore uniformità tecnica agevola
la lettura dei piani sia per i professionisti che per i normali cittadini.
In generale, i sindaci che partecipano a delle Unioni, vedono in questo strumento
un alto valore aggiunto nella prospettiva di un progresso qualitativo dei servizi,
fattore che viene considerato più importante della contiguità territoriale e della
possibilità dei finanziamenti.
Inoltre, il 50% del campione sostiene che l’associazionismo intercomunale sia un
mezzo con cui raggiungere lo sviluppo e la tutela del territorio: ciò indica che si
può far passare con efficacia la volontà di realizzare attraverso le Unioni forme di
pianificazione territoriale d’area vasta.
Tra i fattori che possono invece influenzare negativamente il processo delle
Unioni, il timore più grande è relativo al venire a meno dei finanziamenti, dato
108
che supera il 60% del campione, seguito dalla probabilità di nuovi vincoli
normativi che blocchino la coesione e lo sviluppo.
Anche i possibili mutamenti politici possono mettere a repentaglio la
sopravvivenza delle Unioni, ma solo per il 40% degli intervistati.
Infine, è interessante osservare qual è il livello di congruenza della legislazione
nazionale percepita dagli amministratori: solo l’1,4% ritiene siano molto
congruente, il 32,9% pensa che lo sia abbastanza, mentre è poco congruente per il
47,1% e per niente congruente per il 18,6%.
Questi ultimi dati, sebbene siano datati di due anni, fanno molto riflettere su
come quello delle Unioni sia più un processo dal basso che ha trovato sì uno
stimolo dai livelli statali e regionali, ma che non trova nelle leggi strumenti
adeguati attraverso cui proseguire l’attività amministrativa come si vorrebbe.
Se questo era il pensiero degli amministratori poco prima che le Unioni da
esercizio volontario divenissero obbligatorie per i piccoli Comuni, con una serie di
provvedimenti molto contestati e ambigui, ci si può immaginare che la situazione
negli ultimi mesi non sia migliorata, soprattutto se si pensa che il timore nei
riguardi di vincoli normativi era uno dei fattori più temuti per la sopravvivenza
delle Unioni.
3.2 L’intercomunalità in Emilia-Romagna
Come testimoniano i dati emersi nell’analisi svolta sulle Unioni del paragrafo
precedente, l’Emilia-Romagna è una delle regioni che più ha creduto
nell’associazionismo tra Comuni.
Una storia già iniziata negli anni ’70 e ’80 con i comprensori, che furono istituiti
subito dopo la nascita delle regioni in un momento di incertezza sul futuro delle
Province.
Da metà degli anni ’90, dopo le riforme che hanno ridato linfa alla struttura
amministrativa su tre livelli, il percorso di riordino istituzionale ha avuto parecchi
punti di tangenza con quello di riforma della pianificazione urbanistica.
Nelle intenzioni del legislatore regionale emiliano vi era sicuramente l’idea di
razionalizzare e di porre ordine nel sistema della pubblica amministrazione.
Anche le scelte di natura urbanistica sono andate in questo senso, assegnando un
ruolo di pianificazione d’area vasta molto forte assegnato alle Province, uniche in
109
Italia a sviluppare PTCP cogenti e selettivi nelle scelte insediative, e dando la
possibilità di redimere piani comunali in forma associata.
Con la riforma delle Province e la successiva delega alle regioni sulla gestione del
riordino delle funzioni, l’Emilia-Romagna ha difficoltà maggiori per quel che
concerne la pianificazione d’area vasta e maggiormente si pone il tema di come
garantire il coordinamento territoriale con le Province svuotate di ogni significato.
Forse proprio nell’intercomunalità si potrà trovare una strada alternativa, grazie
anche ai grandi sforzi che sono stati compiuti fino ad ora.
Nei punti trattati successivamente verrà quindi riproposto questo cammino, non
tenendo distinti i processi legislativi ma esaminandoli in ordine cronologico in
modo da far emergere con più forza i rimandi e gli intrecci continui tra
pianificazione e riordino istituzionale.
Al termine di quest’analisi verrà descritta la situazione attuale emiliana e si
accennerà alle probabili soluzioni che verranno adottate dalla regione nei
prossimi mesi.
3.2.1 Il processo legislativo
La legge 142/1990, la prima tappa delle riforme sugli enti locali degli ultimi
vent’anni, ha trovato nella legge regionale 6/1995 la sua prima attuazione in una
serie di norme di natura urbanistica.73
Gli obiettivi dichiarati sono proprio quelli della razionalizzazione delle
competenze dei vari livelli istituzionali, cercando di raccordare in maniere più
efficiente gli strumenti di pianificazione e di programmazione territoriale.74
È con questa legge che le Province emiliano – romagnole assumo totalmente la
funzione della pianificazione territoriale, stabilendo nell’articolo 2 tutti i contenuti
che dovranno avere i PTCP.
In particolare, essi devono orientare il governo del territorio provinciale e dei
singoli Comuni (la legge precisa anche i Comuni associati), oltre che essere
parametro di compatibilità degli strumenti di piano comunali e di settore,
individuando strategie di sviluppo di riferimento.
73
Il titolo della L.R. 6/1995 è, per l’appunto, “Norme in materia di programmazione e pianificazione
territoriale, in attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142, e modifiche e integrazioni alla legislazione
urbanistica ed edilizia”.
74
L.R. 6/1995, Art.1, comma 1, lettere a), b), c), d).
110
Inoltre, in coordinamento con gli strumenti di pianificazione regionale, il PTR
dell’epoca era un piano molto cogente e stringente, i PTCP sono tenuti a
contenere75:
•
L’indicazione delle diverse destinazioni del territorio, in relazione alle
differenti vocazioni;
•
La localizzazione delle principali opere pubbliche, specialmente quelle di
natura viabilistica;
•
Le linee d’intervento per la sistemazione idrogeologica e forestale del
territorio, oltre che l’individuazione delle aree di riserva o a parco;
Di particolare rilevanza è il comma 4 che recita “Il PTCP può inoltre a) indicare gli
ambiti territoriali entro i quali siano necessarie od opportune, in relazione agli
indirizzi di assetto formulati, particolari forme di coordinamento degli strumenti
di programmazione e pianificazione dei Comuni; b) stabilire, nell'ambito delle
competenze della Provincia e con adeguata evidenziazione, prescrizioni che,
qualora espresse attraverso una rappresentazione grafica atta a individuare
esattamente i territori interessati, sono immediatamente vincolanti e prevalgono
sulle diverse destinazioni d' uso contenute negli strumenti urbanistici vigenti o
adottati, che a tali fini devono essere adeguati dai Comuni.”
È importante citare le due lettere del comma perché nella prima si pongono le
basi della pianificazione associata, mentre nella seconda si può evincere la forza
attribuita al piano provinciale, che prevale nella definizione delle destinazioni
d’uso rispetto ai Comuni e vincola in maniera puntuale i territori individuati nelle
strategie del piano.
È proprio in questo passaggio normativo che si esprime in linea di principio cosa
sia la funzione di coordinamento territoriale, in un sistema che inizia a definirsi sì
in modo gerarchico ma anche selettivo e strategico.
Inoltre, la regione trasferisce alle Province il compito di approvare i piani
urbanistici comunali, un’ulteriore riprova dell’importante ruolo che viene
ritagliato per il PTCP oltre che ribadire la volontà di dare maggior coerenza ai
territori.
Negli articoli finali della legge si trovano due passaggi interessanti ed evocativi
del cammino riformatore intrapreso.
75
L.R. 6/1995, Art. 2, comma 1, 2, 3.
111
All’articolo 32, si determina che a decorrere dalla data di efficacia del PTCP cessi
l’efficacia dei piani comprensoriali, elaborati soprattutto nel decennio precedente.
L’articolo finale n. 37 “Elaborazione dei piani regolatori generali in forma
associata” dava la possibilità e finanziava i Comuni contermini di elaborare
congiuntamente il PRG e di istituire un ufficio di piano unico.
Questi due articoli sono in un certo senso la cartina di tornasole del momento di
snodo riformatore che stava attraversando la regione a metà anni ’90: da un lato
si chiudeva con le forme di pianificazione del passato, dall’altro si apriva un tema,
quello della pianificazione associata, che nei lustri a venire sarà sempre più
sviluppato con forza.
L’anno successivo, attraverso la legge 24/1996 “Norme in materia di riordino
territoriale e di sostegno alle Unioni e alle fusioni di Comuni”, si completa
l’attuazione della legge 142/1990.
Lo scopo finale è quello di fornire ai Comuni strumenti e incentivi per
raggiungere ambiti territoriali adeguati all’esercizio efficiente di funzioni e servizi.
Particolarmente interessante per gli obiettivi della tesi è il comma 3 dell’articolo 1
“Nella prospettiva dell'aggregazione dei Comuni negli ambiti territoriali
individuati dal programma di riordino territoriale, la Regione promuove altresì
iniziative per favorire progetti di coordinamento, su scala sovracomunale, delle
funzioni con particolare riferimento a quelle in materia di pianificazione
urbanistica e territoriale”.
Ciò è la conferma dello stretto legame che la regione ha da sempre sviluppato tra
il riordino territoriale e la pianificazione urbanistica, in una strategia che appare
sempre più chiara dopo ogni passaggio.
L’Emilia-Romagna stabilisce un approccio buttom – up nella costituzione delle
forme di cooperazione tra i Comuni, prevedendo che il programma di riordino
territoriale sia approvato sulla base delle iniziative sviluppate dalle Comunità
locali.76
In più si stabiliscono i criteri per la concessione dei contributi, che favoriscono i
Comuni più piccoli, quelli con territori svantaggiati e le Unioni a cui vengono
delegate le funzioni e i servizi di maggiore rilevanza.77
76
77
L.R. 24/1996, Art. 6, comma 1.
L.R. 24/1996, Art. 6, comma 4 e Art. 16.
112
Ulteriori passaggi sul tema dell’intercomunalità sono presenti nella legge
regionale 3/1999 “Riforma del sistema regionale e locale” con cui il legislatore ha
riformato tutti gli aspetti della pubblica amministrazione locale e riportato in un
unico testo molte delle riforme precedenti.
In particolare, la regione introduce un nuovo strumento, l’Associazione
intercomunale, come alternativa più flessibile e meno vincolante alle Unioni per la
gestione dei servizi78che si colloca idealmente nel mezzo tra le forme di
collaborazione tra i Comuni, come le convenzioni e gli accordi di programma, e
quelle di cooperazione come le Unioni stesse o le Comunità Montane (grafico 3.5).
Tutti i Comuni contermini, a prescindere dalla dimensione, possono costituire
un’Associazione intercomunale, fuorché essi non siano già parte di un’Unione.
Grafico 3.5: Intercomunalità, obiettivi e logica di funzionamento
Fonte: Istituto Cattaneo, 2008
78
L.R. 3/1999, Art. 21.
113
Tabella 3.12: Confronto tra Associazioni intercomunali e unioni dei Comuni
Associazione
Unione
Rigida, vero e proprio
ente locale a cui si
applicano le regole dei
Comuni
Maggiori costi, in quanto
ha propria struttura,
proprio bilancio, ecc…
Gestione congiunta e
unificata di funzioni e
servizi
Struttura
Flessibile, basata su
convenzioni e
regolamenti
Costi
Si appoggia a strutture
Comuni o a comune
capofila
Modalità di gestione
Collaborazione per la
gestione associata
Titolarità di servizi e
funzioni
Comuni
Unione
Target ideale
Numero anche elevato di
Comuni, con dimensioni
che possono essere
diverse
Pochi Comuni, con
dimensioni più spesso
simili
Autonomia organizzativa
e finanziaria
Assente
Presente
Personalità giuridica
Assente
Presente
Capacità decisionale
Ogni decisione adottata
dai singoli Comuni
Finalità principali
Strumento di
coordinamento
Organi dell’Unione
decidono sui servizi ad
essa attribuiti
Strumento di
riorganizzazione
territoriale
Fonte: adattamento da Istituto Cattaneo, 2008
Come si può vedere dalla tabella 3.12, che sintetizza le principali differenze tra
Associazioni intercomunali e Unioni, la nuova forma introdotta dalla regione
permette ai Comuni di mantenere ancora tutta la sovranità su ogni scelta,
coordinandosi solo sulle funzioni esercitate in modo associato.
Attraverso lo strumento delle Associazioni, l’Emilia-Romagna ha inteso bypassare i
limiti normativi che all’epoca bloccavano lo sviluppo delle Unioni (vincolo alla
114
fusione e soglie demografiche), introducendo forme di cooperazione ugualmente
contribuite.79
In tal modo i Comuni erano maggiormente invogliati a intraprendere la strada
dell’associazionismo intercomunale, introducendo così in modo più diffuso la
logica della cooperazione necessaria per far partire davvero un progetto di
riordino territoriale ambizioso.
Nella legge 3/1999 si trovano, all’articolo 93, i principi per la riforma della
legislazione urbanistica, che verrà portata a termine l’anno successivo con la
legge 20/2000, divenuta un riferimento anche nel contesto italiano.
Nota per avere riscritto le norme del processo di piano e aver scomposto lo
strumento di pianificazione comunale in tre parti (strutturale, normativa e
operativa), la legge 20/2000 introduce anche importanti innovazioni sulla
pianificazione d’area vasta e su quella intercomunale.
Nel ribadire i tre livelli di pianificazione (comunale, provinciale e regionale), si
conferiscono ai Comuni tutte le funzioni di governo del territorio eccetto quelle
esplicitamente attribuite ai livelli sovraordinati o quelle che non possono essere
esercitate con efficienza dai Comuni.
Per questo, si dà la possibilità ai Comuni di svolgere le funzioni in forma associata
e la possibilità dei Comuni di partecipare nel processo di piano di provincia e
regione.80
Ciò trova conferma nel capo III della legge “Forme di cooperazione e
concertazione nella pianificazione” con cui si esplicita una logica che intende far sì
che territori omogenei siano pianificati con coerenza.
In primis si dà la facoltà al PTCP di prevedere forme di cooperazione tra Comuni in
ambiti territoriali in cui si presenta un’elevata continuità insediativa, rafforzando
ulteriormente lo strumento di coordinamento in questo senso.81
In più, oltre alle conferenze e agli accordi di pianificazione,82 che disciplinano
l’organizzazione tra enti affinché siano condivise le valutazioni preliminari sulle
scelte dei piani, la regione prevede lo strumento degli accordi territoriali83, per
coordinare le previsioni dei piani in ragione dell’omogeneità e della stretta
79
L.R. 3/1999, Art. 24.
L.R. 20/2000, Art. 9.
81
L.R. 20/2000, Art. 13.
82
L.R. 20/2000, Art. 14.
83
L.R. 20/2000, Art. 15.
80
115
correlazione degli aspetti insediativo – economico – sociali di un ambito
territoriale.
Nel solco di questo strumento si prevede che i Comuni possano stipulare accordi
per la formulazione di tutte o parte delle funzioni di pianificazione o, addirittura,
svolgere in forma associata tutti gli strumenti urbanistici con la costituzione di un
ufficio di piano unico.
Inoltre, nel programma di incentivi84 per Comuni e Province per la realizzazione
dei nuovi strumenti urbanistici, la valutazione dell’entità dei contributi mette
come primo criterio che s’intende privilegiare proprio la pianificazione in forma
associata.
In tal senso, si persegue con maggior forza quel disegno di razionalizzazione e di
ricerca della scala adeguata di piano già iniziato nel 1995.
Nel frattempo, le innovazioni sugli enti locali introdotte dal TUEL vengono
recepite dalla legge regionale 11/2001 che disciplina nello specifico le forme
associate, con la finalità di esercitare servizi e funzioni su un territorio adeguato e
pertinente.
Si conferma, quindi, lo schema generale già impostato nel 1999 basato su tre
strumenti cooperativi: Comunità Montane, Unioni dei Comuni e Associazioni
intercomunali.
Relativamente alle Associazioni si ribadisce la loro struttura di cooperativismo
comunale light, senza personalità giuridica e basato su convenzioni tra Comuni a
capo del comune capofila, mentre la struttura delle Unioni è la medesima che
viene descritta dal TUEL.
Per capire come la regione ha concretamente perseguito le politiche di riordino
territoriale è particolarmente importante guardare i criteri per la concessione di
finanziamenti alle forme associate.85
Il programma prevedeva due tipi di finanziamento: uno straordinario all’atto di
costituzione di nuove Comunità Montane, Unioni dei Comuni o Associazioni
intercomunali, e uno ordinario, di durata massima quinquennale decrescente a
partire dal terzo anno.
84
85
L.R. 20/2000, Art. 48, comma 5.
L.R. 11/2001, Art. 14.
116
Nel determinare gli importi del contributo ordinario si fa riferimento ai principi
stabiliti dal TUEL, ovvero la preferenza per le Unioni e le Comunità Montane
rispetto alle altre forme di associazionismo.
Inoltre, si da preferenza nell’erogazione dei contributi per quelle forme associative
che gestiscono le funzioni e i servizi con uffici Comuni e con un’alta integrazione
del personale.
La strada scelta dalla regione è stata, quindi, quella di favorire le Unioni dei
Comuni come strumento associativo, anche a seguito della riforma nazionale che
toglieva parecchi vincoli, tenendo le Associazioni solo come una possibilità in più,
magari propedeutica per arrivare a formare proprio delle Unioni.
Inoltre, favorendo la gestione dei servizi tramite uffici Comuni, si stabilisce un
collegamento con ciò che prevede la legge 20/2000 sulla gestione associata dei
piani: in maniera implicita si favorisce la costituzione di uffici di piano unici sulla
scala delle associazioni tra Comuni.
Alcune modifiche furono apportate dalla legge 6/2004 che precisa ulteriormente i
criteri di adeguatezza e differenziazione stabiliti dalla riforma del Ttitolo V della
Costituzione.
La Regione si riserva di attribuire funzioni amministrative direttamente alle
associazioni tra Comuni nel caso queste risultino più adeguate dei Comuni a
svolgere; inoltre, si prevede che al comune capoluogo e ai Comuni o alle Unioni
con più di 50.000 abitanti si possano conferire specifiche funzioni a ragione di
caratteristiche peculiari dei territori.86
Inoltre, si permette che le Associazioni intercomunali possano essere anche tra
Comuni non contermini quando la continuità è interrotta da un comune
superiore ai 50.000 abitanti.87
La legge introduce anche una possibilità molto interessante ma mai praticata,
quella della cooperazione tra Comuni in ambiti interregionali.88
Si permette, a fronte di un’integrazione territoriale molto forte, la possibilità di
forme associative permanenti e stabili per l’erogazione di servizi e l’esercizio di
funzioni; l’accordo tra le parti stabilirà a quale normativa regionale si farà
riferimento.
86
l.R. 6/2004, Art. 12.
L.R. 6/2004, Art. 15.
88
L.R. 6/2004, Art. 16.
87
117
Con la legge 10/2008 si aggiunge un altro importante tassello nel processo di
riordino territoriale, intervenendo nello specifico sulla razionalizzazione delle
Comunità Montane e scegliendo con determinazione le Unioni come strumento
principale dell’intercomunalità.
È esemplificativo, in tal senso, citare i primi due punti del comma 1 dell’articolo 3
“Il presente Titolo detta misure di riordino dei livelli istituzionali operanti in
ambito sovracomunale per l'esercizio associato di funzioni e servizi comunali, con
particolare riferimento ai seguenti oggetti e finalità: a) riordino delle Comunità
montane mediante la ridelimitazione dei loro ambiti territoriali e l'assimilazione
del loro ordinamento a quello delle Unioni di Comuni; b) promozione delle
Unioni di Comuni quali livelli istituzionali appropriati per l'esercizio associato
delle funzioni e dei servizi e per la più efficace e stabile integrazione sul territorio
delle politiche settoriali”.
Altro obiettivo che si dà la legge è quello dell’eliminazione delle sovrapposizioni
di governo negli stessi ambiti territoriali, cercando di dare in capo ad un solo ente
i compiti e le responsabilità.
Sul conferimento di funzioni da parte dei Comuni, la normativa si fa più
stringente, in quanto deve essere integrale e senza compiti riferibili alle stesse
funzioni in capo ai Comuni, dando però la possibilità di creare sportelli decentrati
per migliorare il rapporto con i cittadini.89
Sulle funzioni volontariamente assegnate alle Unioni, i compiti che spettano di
legge al Sindaco passano al Presidente dell’Unione, così come quelli che spettano
al Consiglio Comunale sono delegati al Consiglio dell’Unione.
Inoltre, laddove i confini di un’Unione o di una Comunità Montana coincidano
con quelli di un Distretto socio – sanitario, si attribuiscono le funzioni del
Comitato di distretto alla Giunta dell’Unione a cui s’aggiunge il Direttore del
distretto.
Le Province, possono poi delegare direttamente a Unioni o Comunità Montane
delle funzioni decentrate se queste servono a rendere più efficienti e funzionali i
servizi.
Sparisce totalmente lo strumento dell’Associazione intercomunale tra quelli
finanziati dalla regione per perseguire il programma di riordino territoriali, in cui
89
L.R. 10/2008, Art. 11.
118
viene tolto il limite dei cinque anni come massima erogazione di contributi
ordinari.90
Viene però concessa una deroga all’elargizione di contributi alle Associazioni fino
al 31 dicembre 2009, a patto che queste entro tale data si fossero trasformate in
Unioni.
Ciò ha portato, come si vedrà nei numeri della cooperazione tra Comuni emiliana
presentati nel paragrafo successivo, a una netta transizione dalle Associazioni
intercomunale alle Unioni, segno di una volontà forte della regione ad andare
verso questa direzione.91
L’Emilia-Romagna incentiva solo le Unioni e le Comunità Montane che
conferiscono in maniera stabile funzioni spettanti ai Comuni di almeno tre aree
tematiche, tra cui “servizi tecnici, urbanistica ed edilizia” e “elaborazione degli
strumenti di pianificazione urbanistica in ambito intercomunale”.92
Si stabiliscono anche i criteri per la costituzione di nuove Unioni, che dovranno
essere formate da almeno quattro Comuni contermini, prevedendo che possano
essere anche solo tre nel caso la popolazione complessiva superi i 15.000
abitanti.93
La Regione ha comunque sempre perseguito anche l’obiettivo della fusione dei
Comuni e per questo introduce specifiche premialità per le municipalità al di
sotto dei 3.000 abitanti che decidono di fondersi. Inoltre, a partire dai tre anni
successivi alla promulgazione della legge, la Giunta regionale si impegna a fare
una ricognizione delle Unioni esistenti che per caratteristiche morfologiche,
demografiche (si preferiscono quelle al di sotto dei 30.000 abitanti) e
d’integrazione delle funzioni possano essere incoraggiate a iniziare un percorso
legislativo che porti alla fusione.
90
L.R. 10/2008, Art. 14.
L.R. 10/2008, Art.15, comma 2.
92
L.R. 10/2008, Art 14 bis, comma 1, s’intende come aree di amministrazione generale le seguenti: “a)
personale; b) gestione delle entrate tributarie e servizi fiscali; c) gestione economica e finanziaria; d)
servizi tecnici, urbanistica ed edilizia; e) servizi informativi; f) organizzazione unitaria dei servizi
demografici (anagrafe e stato civile); g) appalti di forniture di beni e servizi; h) appalti di lavori pubblici;
i) sportello unico attività produttive; l) attività istituzionali e segreteria; m) polizia municipale; n)
protezione civile; o) servizi sociali; p) servizi scolastici; q) elaborazione degli strumenti di pianificazione
urbanistica in ambito intercomunale; r) catasto; s) funzioni comunali in materia di edilizia residenziale
pubblica.
93
L.R. 10/2008, Art. 14 bis, comma 4.
91
119
La legge 6/2009 è l’anello di congiunzione tra il percorso di riforma urbanistica e
quello di riordino territoriale.
Attraverso questo testo la Regione è intervenuta principalmente a riformare
alcuni aspetti della legge 20/2000, soprattutto sul social housing, sul ruolo del POC,
a cui viene data più importanza, e sul PSC, su cui si precisa il suo non assegnare
alcuna capacità edificatoria.
Allo scopo del lavoro, preme di più sottolineare le innovazioni che si riscontrano
sulla pianificazione intercomunale.
In particolare viene rafforzato l’articolo 13 della 20/2000, che dava la possibilità ai
PTCP di individuare forme di cooperazione nel governo del territorio per i Comuni
che presentano contiguità insediativa.
Con la nuova legge, non solo si dà la facoltà anche al PTR di indicare questi
ambiti, ma si chiarisce meglio quale processo dovranno seguire i Comuni che
vogliano predisporre un piano in forma associata: questi dovranno designare un
Comune capofila incaricato a redigere il piano intercomunale e definiscono il
ruolo di ognuno di essi nell’attività tecnica e nella ripartizione delle spese.94
La regione sostiene direttamente le Unioni dei Comuni e le Comunità Montane a
essere l’ente motore di una nuova stagione di piani intercomunali, partecipando
fino al 50% della spesa a patto che ad essi sia stato conferita totalmente la
funzione di elaborazione, approvazione e gestione degli strumenti di
pianificazione urbanistica.95
In tal modo la regione vuole creare un quadro omogeneo tra intercomunalità e
pianificazione associata così che si possano eliminare sovrapposizioni o situazioni
in cui vi sono dei Comuni che redigono strumenti di piano con altri che sono
esterni all’Unione o Comunità Montana di cui fanno parte.
Inoltre, in tal modo si palesa come si preferisca sostenere il piano intercomunale
rispetto a quello associato, dove ogni comune redige il suo piano in
coordinamento con gli altri, seppur questo strumento non scompaia. Su questo
tema si sono espressi anche importanti dirigenti pubblici e professionisti che
operano in Emilia-Romagna (Baldini, 2009).
Anna Campeol, dirigente del settore urbanistica della Provincia di Reggio, ritiene
che le dinamiche sociali, economiche e ambientali richiederebbero una spinta
94
95
L.R. 6/2009, Art. 19.
L.R. 6/2009, Art. 48.
120
verso la pianificazione intercomunale, anche perché giudica l’esperienza dei piani
associati fallimentare e finalizzata solo ad ottenere qualche finanziamento in più.
La Campeol cita proprio il caso francese delle Communautés come esempio da
seguire per l’elaborazione e la gestione delle strategie urbanistiche.
Elettra Malossi, all’epoca al settore urbanistica di Bologna e oggi dirigente a
Ravenna, sostiene che la pianificazione associata ha avuto buoni risultati sulla
concertazione dal basso e teme che un piano intercomunale più autoritativo e
meno negoziale possa essere poco efficace se non accompagnato da un
programma di riordino territoriale.
Inoltre, per la Malossi la rifoma del 2009 doveva essere l’occasione per introdurre
norme anche sulla perequazione territoriale, fondamentali affinché un piano
intercomunale possa avere davvero successo.
In particolare, la perequazione, che si traduce concretamente tramite un fondo in
cui si condividono tutti gli oneri ed entrate connessi ad un determinato progetto
di sviluppo, è ritenuta uno strumento necessario per la realizzazione delle
politiche relative agli insediamenti e alle funzioni e i poli di rango sovralocale.
Anche Vittorio Bianchi, dirigente all’urbanistica del Comune di Casalecchio (BO),
aggiunge un punto di vista interessante, sostenendo che la pianificazione d’area
vasta debba fare in Italia un salto di scala passando a mettere a sistema realtà
intercomunali di dimensioni più grandi capaci così di competere nella scala
regionale, nazionale ed europea.
Pur vedendo nell’introduzione del piano intercomunale qualcosa di positivo,
ritiene che la riforma sia parziale perché non legata al processo di riordino
istituzionale e perché non approfondisce il tema della perequazione.
Per Roberto Farina, urbanista operante nel bolognese, invece, avere un piano
intercomunale legato alla dimensione intercomunale delle Unioni rischia di creare
ulteriori livelli permanenti di pianificazione.
È quindi opinione diffusa tra i professionisti e i dirigenti che la pianificazione
intercomunale sia sempre più una necessità per competere con un mondo che
cambia e per interpretare contesti socioeconomici e ambientali che hanno oggi
confini nuovi e più vasti anche solo rispetto a pochi anni fa.
È altrettanto vero, però, che le novità introdotte dalla 6/2009 in materia di
pianificazione intercomunale non convincono del tutto e l’impressione generale è
121
che sia stata prodotta una riforma a metà, poco legata al riordino territoriale e
deficitaria di uno strumento importante come la perequazione.
L’ultimo passaggio legislativo fatto dall’Emilia-Romagna sul tema del riordino
territoriale è successivo al decreto 78/2010 ed è contenuto nell’articolo 47 della
legge regionale 21/2011.
La regione ritiene che i confini dei distretti socio – sanitari abbiano una
dimensione territoriale ottimale per l’esercizio associato delle funzioni, pur
ritenendo ambiti ottimali in via transitoria anche le Unioni e le Comunità
Montane esistenti.
Con ciò si apriva, seppur timidamente, ad una riforma che portasse al far
coincidere i confini delle forme intercomunali a quelli dei distretti socio – sanitari,
in modo da avere un quadro territoriale più ordinato e senza sovrapposizioni.
Quest’idea, nata da uno studio interno della regione (di cui si tratterà più avanti)
terminato nel luglio del 2011, non ha però trovato ulteriori esiti anche a causa
dell’avvento del Governo Monti.
3.2.2 I numeri e la situazione dell’intercomunalità in Emilia-Romagna
Le relazioni annuali che la regione Emilia-Romagna pubblica sul riordino
territoriale dal 2003 (con l’eccezione del 2004 e del 2007) sono una grande fonte
per comprendere gli effetti e l’evoluzione dell’iter normativo descritto.
Esaminando i dati dal punto di vista del numero degli strumenti associativi, della
distribuzione dei Comuni tra di essi e della popolazione coinvolta, si può capire
sufficientemente bene come i Comuni hanno modificato le loro preferenze tra gli
strumenti che la legge metteva loro a disposizione.
Dopo il 2001, anno della legge regionale sul riordino territoriale che
istituzionalizzava le Associazioni intercomunali, v’è stato un autentico successo di
questo strumento che raggiunge un picco di 26 casi in tutta la regione.
Più tiepida l’adesione iniziale verso le Unioni, solo 7 nel 2003, mentre le 18
Comunità Montane rimarranno stabili fino alla riforma del 2008.
In meno di un decennio la situazione s’è ribaltata completamente: oggi le Unioni
dei Comuni sono ben 33, frutto delle trasformazioni delle Associazioni e delle
Comunità Montane, che diventano rispettivamente 9 e 10.
122
Considerando che il numero complessivo di forme associative è rimasto
sostanzialmente fermo sui 52 – 53 casi, questi numeri sono l’indice della
perseveranza della regione nel cercare di affermare lo strumento dell’Unione sul
proprio territorio, facendo cogliere anche l’importanza di aver pensato uno
strumento più leggero come le Associazioni ma propedeutico nel lungo periodo a
raggiungere lo scopo (tabella 3.13 e grafico 3.6).
L’autentico boom delle Unioni che s’è avuto dal 2009 in poi è anche frutto di due
scelte che hanno agevolato la trasformazione verso un’intercomunalità più
stabile: la riforma delle Comunità Montane, che ha razionalizzato i confini e
ridotto il numero di questi enti, e la decisione di togliere le Associazioni tra le
forme di cooperazione finanziate dai programmi della regione.
Tabella 3.13: Evoluzione delle forme associative tra 2000 e 2011
Associazioni
Intercomunali
Comunità
Montane
Unioni dei
Comuni
Tot. Forme
associate
2000
5
9
5
19
2003
26
18
7
51
2005
26
18
8
52
2006
23
18
11
52
2008
23
18
12
53
2009
15
18
20
53
2010
10
10
31
51
2011
9
10
33
52
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
123
Grafico 3.6: Evoluzione delle forme associative tra 2000 e 2011
35
26
25
20
26
18
15
9
10
5
0
33
31
30
5
23 23
20
18 18 18
11 12
15
8
18
7
10
10
5
2000 2003
2005 2006
Associazioni intercomunali
Comunità Montane
10
9
Unioni dei Comuni
2008 2009
2010 2011
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
Questi trend si ripercuotono ovviamente sulla partecipazione dei Comuni e sul
numero di abitanti coinvolti (tabella 3.14 e tabella 3.15).
I Comuni facenti parte forme associative sono stati fin dal 2003 la grande
maggioranza in Emilia-Romagna, considerando che su 348 solo 47 non sono
legati ad altri con alcun strumento cooperativistico e nel 2008, anno in cui non era
ancora stata applicata la riforma sulle Comunità Montane, i non associati erano
solo 35.
Tra questi, come si può notare meglio dalla mappa dell’intercomunalità emiliana
(figura 3.2), vi sono soprattutto i Comuni capoluogo e, spesso, la loro prima
corona, e una serie di Comuni piacentini, Provincia che ha sviluppato meno delle
altre questo tema.
Impressionano i dati relativi alla popolazione coinvolta nelle forme associative,
sintomatici della capacità della regione di coinvolgere anche Comuni più grandi
di 5000 abitanti.
In particolare, nel 2003 quasi 1.700.000 abitanti erano residenti in Associazioni
Intercomunali, dato molto alto che fu conseguenza dell’adesione di molti
capoluoghi a questa forma di intercomunalità. Questo riferimento dà ulteriore
valore al 1.800.000 abitanti che oggi risiedono in un’Unione dei Comuni perché, se
come detto i Comuni capoluogo non hanno mai usufruito di questo strumento, è
124
indice di un coinvolgimento diffuso sul territorio e della partecipazione di
numerosi Comuni di medie dimensioni.
Infine, anche il dato complessivo della popolazione residente in forme associative
è molto significativo, essendo quasi i due terzi dei residenti della regione.
Tabella 3.14: Evoluzione della partecipazione dei Comuni alle forme associate
Tot. Comuni
Comuni non
in forme
associati
associate
Comuni in
A.I.
Comuni in
C.M.
Comuni in
U.C.
2003
140
121
27
288
60
2005
141
121
36
298
50
2006
125
130
56
311
37
2008
118
130
65
313
35
2009
68
130
109
307
41
2010
45
91
165
301
41
2011
40
91
170
301
47
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
Figura 3.2: Mappa dell’associazionismo comunale in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2012
125
Tabella 3.15: Evoluzione della popolazione coinvolta nelle forme associative
Pop. in A.I.
Pop. in C.M.
Pop. in U.C.
Tot. Pop.
Associata
2003
1.696.837
456.317
123.897
2.277.051
2005
1.773.008
471.895
211.493
2.456.396
2006
1.616.243
473.553
444.272
2.534.068
2008
n.d.
n.d.
549.386
n.d.
2009
1.254.047
485.865
985.643
2.725.555
2010
859.388
309.480
1.404.850
2.573.718
2011
753.765
310.777
1.818.049
2.882.591
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
Con le recenti normative questi numeri saranno destinati ad aumentare e sarà
interessante vedere come la regione riuscirà ad andare avanti nel suo disegno di
riorganizzazione del territorio volto alla ricerca degli ambiti ottimali di
governance.
Al momento, le Unioni emiliane sono composte in media da 5,2 Comuni con una
popolazione di 47.300 abitanti.
Per meglio raffrontare le caratteristiche regionali rispetto a quelle nazionali, si
sono adottati i parametri ANCI usati nella catalogazione delle forme associative
per numero di Comuni e numero di abitanti.
Rispetto al quadro generale, le Unioni emiliane si dividono equamente tra i vari
range di grandezza (grafico 3.7): rimane alto il dato delle associazioni di soli 2 o 3
Comuni, ma quest’ultimo è pari a quello delle Unioni composte tra i 7 e i 10
Comuni, mentre nelle altre categorie il dato regionale rimane più alto di quello
nazionale, evidenziando una struttura di Unioni più grande rispetto alla media
italiana.
Differenze maggiori si evincono nel numero di Unioni in relazione alla
popolazione residente (grafico 3.8). In oltre un terzo dei casi gli abitanti sono
compresi tra i 25.000 e i 50.000, range in cui si trova solo il 15% delle Unioni
nazionali, mentre il 36% supera complessivamente i 50.000, contro l’8,2% italiano.
126
Molto pochi sono i casi di Unioni con meno di 15.000 abitanti, in generale esito di
una prima trasformazione di qualche Comunità montana.
Grafico 3.7: Numero Unioni per ammontare di Comuni partecipanti
9
9
tra 2 e 3 comuni
4 comuni
7
8
tra 5 e 6 comuni
tra 7 e 10 comuni
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2012
Grafico 3.8: Numero di Unioni (in percentuale) per popolazione complessiva
residente
12% 9% 9% 9% tra 3.000 e 5.000 ab.
9% tra 5.001 e 15.000 ab.
tra 15.001 e 25.000 ab.
15% tra 25.001 e 50.000 ab.
37% tra 50.001 e 75.000 ab.
tra 75.0001 e 100.000 ab.
Più 100.000 ab.
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2012
127
Per concludere la parte relativa ai numeri che caratterizzano le Unioni in EmiliaRomagna, è utile guardare l’unica voce finanziaria presente nelle relazioni annuali,
quella dei contributi regionali elargiti per le forme associative.
Benché il grado di analisi fornito non sia stato ulteriormente scomposto secondo
le voci che hanno caratterizzato i finanziamenti, si può comunque capire come
l’Emilia-Romagna negli ultimi anni abbia aumentato lo sforzo per favorire
l’associazionismo tra Comuni (grafico 3.9).
Da una cifra vicina ai tre milioni e mezzo di euro della prima metà degli anni 2000,
la regione ha quasi triplicato i fondi a partire dal 2008, anno che ha segnato la
trasformazione di molte Associazioni intercomunali in Unioni e ha portato alla
riforma delle Comunità Montane: questo processo è potuto avvenire anche grazie
agli enormi contributi provenienti dall’alto.
Grafico 3.9: Finanziamenti erogati dalla Regione per le forme associative tra 2003
e 2011
14.000.000
12.000.000
10.000.000
8.000.000
6.000.000
4.000.000
2.000.000
0
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Contributi (€) 3.336.30 3.336.30 3.325.10 3.450.00 3.450.00 8.150.00 8.900.00 12.080.0 10.500.0
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
La mappa nella figura 3.3 mostra invece come sono stati suddivisi i finanziamenti
tra le forme associative nel biennio 2009-2010 al netto di quote di maggiorazione
legate alla dimensione demografica o al numero dei Comuni, con l’ottica, quindi,
delle funzioni associate.
128
Le tonalità del blu rilevano le Unioni più virtuose e all’avanguardia, capaci quindi
di unificare più funzioni e di dare anche una portata strategica alla loro azione
amministrativa, mentre dal verde al giallo sono campite quelle forme associative
che hanno una strutturazione meno forte ed integrata.
Da questa zonizzazione emerge come le Comunità Montane siano soggetti
abbastanza deboli e incapaci di mettere in forma associata un alto numero di
servizi, seppur con l’eccezione dell’Appenino Parmense e di quello forlivense.
Al contrario, ci sono anche Unioni molto prestanti da questo punto di vista, in
particolare l’Unione “Bassa Parmense”, l’Unione “Alto Appennino Reggiano” e
l’”Unione Terre di Castelli”, quest’ultima paradigmatica nel campo della
pianificazione associata.
Figura 3.3: Distribuzione dei contributi per gestioni associate di servizi e funzioni
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
Come s’era già segnalato, l’esperienza emiliano romagnola spicca nel panorama
nazionale per l’estensione che ha raggiunto il fenomeno e per la dimensione
media degli enti che associano Comuni.
Rimangono, però, ancora tanti limiti e incongruenze: per esempio, è ancora alto il
numero di Unioni piccole composte da solo tre Comuni o al di sotto dei 15.000
abitanti.
129
In questo senso non è ancora stato ultimato il processo di riforma iniziato con la
legge 10/2008, che all’articolo 44 prevede, per l’appunto, i 15.000 abitanti o
l’associarsi di quattro Comuni come soglia minima per costituire un’Unione.
Aporie ben più importanti emergono, invece, da uno studio interno della regione
del 2011 volto a individuare gli ambiti ottimali come da obblighi della 122/2010
mai più attuati.
Questa ricerca ha il grande merito di indagare non solo sulle forme associative
istituzionalizzate, come Unioni, Associazioni intercomunali, ma anche sui confini
che assumono singole funzioni svolte in maniera intercomunale e sugli assetti
individuati dai vari PTCP.
Ciò permette di vedere come, in realtà, non tutto coincide con i territori delle
forme associative e tra d’esse e molte funzioni importanti non ci sia un rapporto
biunivoco.
Partendo dal tema principale del lavoro, la pianificazione intercomunale, si può
notare come sul territorio regionale si siano diffuse molte esperienze di
pianificazione associata.
Tra 2001 e 2007 la regione ha contribuito alla formazione dei nuovi strumenti
urbanistici introdotti dalla legge 20/2000 con nove programmi di finanziamento
che hanno favorito i piani redatti in forma associata, stanziando quasi due milioni
e mezzo di euro.
Questi programmi hanno permesso di costruire ben 37 esperienze di piano
associato e hanno consentito la creazione di 27 uffici di piano associati nel
territorio, per un totale di 128 Comuni coinvolti; a questi vanno aggiunti i sette
Comuni della Val Marecchia che nel 2010 si sono trasferiti dalle Marche all’EmiliaRomagna.
La mappatura dei piani associati (figura 3.4), messa in confronto con quella delle
forme associative, dimostra in modo inequivocabile come le geometrie che ha
assunto il fenomeno siano molto variabili.
Nelle tre Province occidentali (Piacenza, Parma e Reggio Emilia), la pianificazione
associata ha assunto una dimensione limitata alla cooperazione di pochi Comuni
contermini, più utile ad ottenere finanziamenti che a volere dare una visione
strategica al territorio.Una logica diversa è stata invece utilizzata nel bolognese e
in Romagna, dove s’è cercato di legare la formazione di nuovi piani urbanistici alla
dimensione
associativa,
seppur
con
esperienze
diverse,
alcune
più
130
d’opportunismo, altre più legate alla volontà politica di interpretare in modo
nuovo il territorio.
Tra queste spiccano le esperienze dell’Unione “Bassa Romagna”, in provincia di
Ravenna, e “Terre di Castelli”, in Provincia di Modena, quest’ultima approfondita in
seguito come esempio da cui capire quale strumento sia più adatto a interpretare
una pianificazione intercomunale che si faccia anche carico dei temi della
coerenza territoriale.
A questa stagione di finanziamenti va aggiunta quella nata dopo la riforma
stabilita dalla legge 6/2009 per incentivare la formazione dei piani intercomunali.
Per conseguire questo scopo, nel 2011 fu emanato un bando per destinare
281.000 €, rivolto esclusivamente ad Unioni dei Comuni, per la redazione di
strumenti intercomunali e la creazione di uffici di piano unici.
Sono state quattro le forme associative che hanno risposto (figura 3.5) e ottenuto
contributi: l’Unione “Alto Appennino Reggiano” e l’Unione “Brisighella, Casola
Valsenio, Riolo Terme” per la sola redazione del RUE (in questi territori già nel 2005
s’era avviato un processo di pianificazione associata), l’Unione “Comuni del
Rubicone” per PSC e RUE e l’Unione “Terre e Fiumi” che condividerà anche i POC.
Queste esperienze sono solo al primo step e non si può ancora dare un giudizio
sulle scelte che verranno fatte.
Di indubbio valore, però, è il fatto che la regione si sia rivolta direttamente alle
Unioni dei Comuni come beneficiarie dei contributi, comprovando la volontà di
rafforzare il binomio intercomunalità – pianificazione.
Figura 3.4: La pianificazione associata in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2012
131
Figura 3.5: La pianificazione intercomunale in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2012
Se si sposta lo sguardo su altre funzioni svolte in modo associato, come la polizia
municipale, lo sportello unico delle attività produttive o le autorizzazioni
paesaggistiche,
(figura
3.6)
il
quadro
si
complica
notevolmente
con
sovrapposizioni e schemi dettati molto spesso da logiche diverse da quelle della
forma associativa.
Figura 3.6: Mappe degli esercizi associati di funzioni in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
132
Infine è utile confrontare i perimetri dell’associazionismo con quelli dei sistemi
locali del lavoro (figura 3.7) e dei distretti socio – sanitari (figura 3.8), che secondo
l’ultima normativa regionale del 2011 sono gli ambiti ottimali entro cui svolgere
funzioni associate.
All’interno di molti distretti sono presenti più di un’Unione, così come ci sono
alcune forme associative che si dividono tra due distretti.
Il quadro normativo attuale obbliga i distretti socio – sanitari ad essere inseriti
entro i confini provinciali creando un situazione che può si apparire più razionale
ma spesso incapace di intercettare la dimensione pertinente dei territori.
Questa potrebbe emergere maggiormente nei sistemi locali del lavoro, che
bypassano sì i confini amministrativi provinciali e regionali, ma spesso, basandosi
sul criterio principe del pendolarismo, rischiano di creare territori troppo
sbilanciati verso le città capoluogo.
Figura 3.7: Sistemi locali del lavoro in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
133
Figura 3.8: Distretti socio – sanitari in Emilia-Romagna
Fonte: Regione Emilia-Romagna, 2011
3.2.3 Il progetto di legge per il riordino territoriale dopo la razionalizzazione delle Province
La Spending Review e il D.L 188/2012 hanno avviato contemporaneamente tre
processi di riforma destinati a concludersi nell’anno 2013: il riordino delle
Province, l’istituzione delle Città metropolitane e la gestione associata
obbligatoria delle funzioni fondamentali per i piccoli Comuni.
L’anno di transizione da un regime all’altro pone rilevanti problemi sulla gestione
delle funzioni e delle materie strategiche che passeranno da un ente all’altro.
Per evitare i rischi di centralismo regionale e per non far ricadere sui singoli
Comuni gli effetti del trasferimento di competenze, la Giunta regionale
dell’Emilia-Romagna ha presentato il progetto di legge “Misure per assicurare il
governo territoriale delle funzioni amministrative secondo i principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”, depositato il 29 novembre 2012.
Questa situazione si presta ad un’interpretazione quasi schumpeteriana.
L’alterazione di un equilibrio istituzionale consolidato permetterà di sperimentare
nuove combinazioni tra gli elementi esistenti, con la Regione chiamata a fare il
ruolo dell’imprenditore innovatore.
La proposta di legge si articola principalmente su due poli: la ridistribuzione delle
funzioni rispetto ai singoli enti in modo chiaro e univoco e l’individuazione di
134
ambiti territoriali ottimali per l’esercizio associato delle competenze che le riforme
statali hanno delegato ai Comuni. Le Unioni dei Comuni sono individuate come
lo strumento preferibile e principale attraverso cui dare attuazione alle
disposizioni della legge.96
La finalità è quindi quella di promuovere una distribuzione razionale delle
funzioni secondo il principio di sussidiarietà, facendo in modo che non vi siano
sovrapposizioni tra enti nell’attribuzione delle competenze con l’obiettivo di
migliorare l’efficacia e l’efficienza delle prestazioni fornite dalla pubblica
amministrazione.97
L’individuazione della dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento in
forma associata delle funzioni comunali fondamentali è quindi indirizzata a un
complessivo di riordino territoriale e funzionale, stabilendo anche le forme
giuridiche e le modalità d’incentivazione con cui perseguirlo.
Particolarmente importante in questo senso è il Comma 3 dell’Articolo 3, che
definisce i criteri ispiratori del disegno di riordino territoriale:
-
Salvaguardia delle esperienze associative in atto, promuovendone
l’aggregazione per il raggiungimento di dimensioni più pertinenti e più
efficaci;
-
Oltre alle funzioni fondamentali da svolgere obbligatoriamente in forma
associata per i Comuni sotto-soglia (5.000 abitanti o 3.000 abitanti se
montani), la Regione individua specifiche funzioni da esercitare in forma
associata anche per i Comuni sovra-soglia dello stesso ambito territoriale;
96
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art.1 comma 4 "Sono oggetto specifico della presente legge: a) la
definizione dei principi e criteri relativi all’allocazione delle funzioni amministrative in atto esercitate dal
sistema regionale e locale con l’obiettivo di riservare in capo alla Regione le sole funzioni di carattere
unitario, di concorre all’individuazione delle funzioni metropolitane, di rafforzare le funzioni di area
vasta del livello intermedio e di sviluppare le funzioni associative intercomunali; c) la disciplina delle
modalità di esercizio associato delle funzioni dei comuni, con particolare riferimento alle funzioni
fondamentali per le quali si prevede l’esercizio in forma obbligatoriamente associata, nonché delle
ulteriori funzioni ad essi conferite dalla legge regionale; d) l’adeguamento al nuovo assetto delle
funzioni amministrative delineato dalla presente legge delle forme associative intercomunali esistenti,
con particolare riferimento alle Unioni di Comuni e alle Comunità montane”.
97
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 2 “La complessiva riorganizzazione delle funzioni
amministrative ai sensi dell’articolo 1 deve garantire, per l’intero sistema regionale e locale: a) la
razionale distribuzione delle funzioni alla luce dei criteri di unicità, semplificazione, adeguatezza,
prossimità al cittadino, non sovrapposizione e non duplicazione delle stesse; b) l’attribuzione
tendenziale ad un unico soggetto dell’intera funzione; c) l’avvio delle gestioni associate obbligatorie e
l’adeguamento delle forme associative tra comuni in modo tale che, alla data di entrata in vigore delle
norme sul riordino delle Province, esse siano pienamente operanti.
135
-
La Regione incentiva tra le forme associative solo le Unioni dei Comuni,
nell’ottica di avere all’interno di ogni ambito una sola Unione. Al contempo
si continuano a promuovere i processi di fusione;
-
Le Comunità montane sono trasformate in Unioni dei Comuni, in modo da
poter avere un quadro istituzionale maggiormente omogeneo;98
-
All’interno della Città metropolitana di Bologna, la Regione ripartisce quali
sono le funzioni spettanti alla Città metropolitana e quali alle forme
associative ricomprese nel suo territorio.
La legge prevede che, entro 45 giorni dalla sua approvazione, i Comuni attraverso
conformi deliberazioni dei Consigli comunali formulino proposte di delimitazione
degli ambiti ottimali, nel rispetto di alcune condizioni:99
-
I Comuni che appartengono già ad Unioni o Comunità montane devono
definire proposte che comprendano tutti i Comuni che già ne fanno parte;
-
Rispetto di un limite demografico pari a 30.000 abitanti, o 15.000 nel caso
gli ambiti siano costituiti in prevalenza da Comuni montani, nel qual caso
si prevede anche un’estensione minima di 300 kmq. Si può notare come i
30.000 abitanti siano anche la soglia demografica minima stabilita dal 2010
in Francia per costituire una Communautés d’agglomeration;
-
Appartenenza di tutti i Comuni alla stessa Provincia, come istituita dal D.L.
188/2012;
-
Coerenza con i distretti sanitari istituiti dalla legge regionale n.19/1994,
salvo che anch’essi siano oggetto di un riassetto volto ad assicurarne la
coerenza con l’individuazione degli ambiti ottimali;100
-
Contiguità territoriale.
La mancata proposta di delimitazione degli ambiti da parte dei Comuni equivale
all’assenso rispetto agli ambiti che saranno risultanti nel “Programma di riordino
territoriale”, un documento con cui la Giunta regionale individua gli ambiti
territoriali derivanti dalle proposte dei Comuni e con cui si effettua una
ricognizione di tutte le forme associative esistenti. Il Programma di riordino
territoriale include tutti i Comuni all’interno di ambiti ottimali, ad eccezione dei
98
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Capo II “Superamento delle Comunità montane ed articolazione
in Unioni dei Comuni montani”, Articoli da 10 a 20.
99
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 4, comma 2.
100
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 8, comma 8.
136
Comuni che fino al 31-12-2013 sono Capoluoghi di Provincia, salvo che essi ne
facciano richiesta.101
Una volta delimitati, gli ambiti ottimali “costituiscono l’area territoriale adeguata
per l’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali dei Comuni, sia delle
ulteriori funzioni conferite ai Comuni dalla legge regionale: pianificazione
urbanistica e territoriale, polizia locale e protezione civile, servizi sociali”.102A
queste funzioni andranno aggiunte quelle che, in attuazione del processo di
riforma delle Province, saranno conferite ai Comuni dalla Regione. L’obiettivo
dell’Emilia-Romagna è di dare avvio alle gestioni associate a partire dal 1 gennaio
2014.103
All’interno di ogni ambito può essere istituita una sola Unione, la quale deve
avere almeno 10.000 abitanti o 8.000 se riguarda Comuni montani.104
Se all’interno di un ambito non vi sono Unioni, i Comuni possono crearne una o
stipulare convenzioni,105 mentre se vi è sia un’Unione che Comuni non aderenti a
nessuna forma associativa, essi possono o confluire nell’Unione o convenzionarsi
all’Unione o decidere, per le funzioni che l’Unione non svolge in modo associato,
di convenzionarsi tra di loro.
L’obiettivo è però quello di cercar di far coincidere il più possibile i confini
dell’ambito ottimale con quelli dell’Unione.106
Se invece un ambito comprende più Unioni, o Comunità montane prossime alla
trasformazione in Unioni, esse dovranno aggregarsi in base al principio che
stabilisce l’unicità di una sola forma associativa all’interno di un ambito
ottimale.107
Nel caso in cui un’Unione coincida con l’ambito ottimale, lo Statuto dell’Unione
può prevedere che vengano istituiti dei sub-ambiti stabili con l’obiettivo di
fornire una maggior integrazione amministrativa per quelle funzioni che
necessitano di un territorio più circoscritto per il loro esercizio.108Questa misura è
101
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 8, commi 6 e 7.
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 9, comma 1.
103
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 9, comma 4.
104
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 9, comma 5.
105
Si ricorda che la Regione Emilia-Romagna non intende incentivare e finanziare le Convenzioni,
concentrandosi sulle sole Unioni.
106
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 9, commi 7 e 8.
107
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 9, comma 9.
108
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 23, comma 3.
102
137
stata stabilita soprattutto nell’ottica di promozione dei processi di fusione dei
Comuni.
A 90 giorni dalla pubblicazione del Programma di riordino territoriale i Comuni
dovranno adeguarsi alle disposizioni e alle previsioni che esso prescrive: in caso
di non avvenuto adempimento delle modificazioni indicate, sarà il Presidente
della Giunta regionale a provvedere in via sostitutiva.
La legge intende anche modificare aspetti relativi alla natura delle Unioni dei
Comuni: esse dovranno durare almeno dieci anni e le competenze conferitegli
non possono essere inferiori ai cinque anni.109
Inoltre, si rende possibile stipulare Convenzioni tra Unioni o tra un’Unione e un
Comune singolo o associato esterno all’Unione stessa, purché sia l’ente capofila,
instaurando una logica di networking tra le forme associative che può essere utile
a gestire tematiche di rilevanza sovralocale.110
Per tutte le funzioni comunali conferite alle Unioni, il Presidente dell’Unione
assume le funzioni dei Sindaci, anche in caso di sottoscrizione di accordi di
programma, il Consiglio dell’Unione esercita i compiti dei Consigli comunali e la
Giunta dell’Unione prende il posto delle Giunte comunali.111
Questo passaggio è molto importante, perché in caso di approvazione di uno
strumento urbanistico non saranno più i singoli Comuni ad approvare lo stesso
piano distintamente ma sarà l’Unione stessa a compiere tutto l’iter.
La proposta di legge, disciplina anche quali saranno le funzioni fondamentali
delle Province riordinate, a cui competeranno: coordinamento delle funzioni
amministrative, pianificazione territoriale di coordinamento provinciale, tutela
dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto, costruzione e gestione delle
strade provinciali, programmazione della rete scolastica e gestione dell’edilizia
scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado.112
Entrando nel dettaglio dei principi e degli strumenti d’incentivo per le gestioni
associate, la Regione favorisce le Unioni che saranno coerenti con le norme
previste dalla legge e privilegerà quelle i cui confini coincideranno con gli ambiti
territoriali ottimali.113
Inoltre, altri criteri premiali sono:
109
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 21, commi 3 e 4.
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 21, comma 5.
111
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 22.
112
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 6.
113
P.D.L, oggetto assembleare n.2415, Art. 25, comma 1 .
110
138
-
La partecipazione all’Unione dei Comuni sovra-soglia;
-
Il raggiungimento di obiettivi di riduzione dei costi delle gestioni associate
rispetto alla somma delle gestioni singole;
-
Il volume delle risorse effettivamente gestite dall’Unione, la dimensione
demografica e territoriale complessiva e l’eventuale adesione del Comune
capoluogo.
La logica che si può riscontrare in questo progetto di legge è molto simile a
quella della riforma introdotta in Francia nel dicembre 2010 “De réforme del
collectivités territoriales”.
Infatti, pur tenendo conto della diversa maturità sul tema della cooperazione
intercomunale, anche in Emilia-Romagna ci si appresta a rinforzare le Unioni sia
sotto il profilo delle competenze, assegnate univocamente ai singoli enti, sia sotto
quello della sua diffusione ed espansione, intervenendo sui perimetri.
L’obiettivo è, infatti, quello di avere su tutto il territorio regionale la definizione di
ambiti ottimali da far coincidere ad una sola Unione dei Comuni capace di gestire
tutte le funzioni fondamentali.
Non a caso questa finalità è perseguita attraverso lo strumento del Programma di
riordino territoriale, che ricorda direttamente lo Schéma départmental de la
coopération intercomunale: certamente i tempi attuativi sono molto più rapidi nel
contesto emiliano, dovuti alla contingenza e all’urgenza del dover riallocare molte
funzioni, oltre che alla diversità di scala tra una Regione e uno Stato nazionale
come la Francia.
Altre somiglianze sono riscontrabili nel potere che avrà il Presidente della Giunta
regionale, paragonabile a quello del Prefetto francese, nel poter imporre
l’attuazione del Programma di riordino territoriale al decorrere della scadenza
imposta dalla legge.
Entro il 2014, quindi, tutta la Regione Emilia-Romagna sarà delimitata
Di certo non mancano alcuni limiti anche in questo progetto di legge.
Il primo è quello dell’aver mantenuto la funzione di pianificazione territoriale di
coordinamento in capo alle Province riformate.
In questo caso, i dubbi sono soprattutto sull’autorità con cui un ente di secondo
livello, per di più con una dimensione molto più grande delle precedenti Province,
possa garantire un disegno territoriale coerente.
139
Il secondo limite è il mancato coinvolgimento dei Comuni capoluogo all’interno
degli ambiti ottimali, lasciando questa possibilità solo come scelta volontaristica,
benché foriera di premialità in fase di distribuzione dei contributi.
L’esperienza francese insegna che uno dei più grandi problemi della prima
stagione di cooperazione intercomunale dopo la legge del 1999 fu quello
dell’opportunismo dei perimetri nei contesti urbani dei Comuni della prima
cintura.
Con un impatto diverso, tutto ciò potrebbe accadere anche in Emilia-Romagna,
soprattutto nelle periferie delle città più grandi della Via Emilia, dove già oggi
fenomeni di clubbizzazione accadono nei territori pedemontani più pregiati.
Quindi, per una maggior coerenza delle scelte urbanistiche, insediative e della
pianificazione dei servizi, anche per i capoluoghi della Regione dovrebbe esserci
l’obbligo di rientrare in ambiti ottimali.
Il terzo limite è legato alla dimensione della governance.
Certamente il numero delle competenze gestite al livello associato tenderà
sempre più ad aumentare, con un ruolo delle Unioni che verrà sempre più
percepito da utenti e cittadini: tutto ciò renderà ineludibile il tema dell’elezione
democratica diretta dei rappresentanti delle Unioni, anche se su questo punto
una Regione non ha il potere di decidere.
È comunque positivo notare come l’Emilia-Romagna abbia dotato di maggiori
poteri gli organismi rappresentativi delle Unioni sulle funzioni di competenza
sovracomunale.
Questa proposta di legge è quindi, per il contesto italiano, altamente innovativa e
indica nella cooperazione intercomunale lo strumento principale di una nuova
geometria degli enti locali più vicina agli standard europei.
140
CAPITOLO 4
V ERSO UN PIANO TERRITORIALE DI COERENZA INTERCOMUNALE
Il percorso svolto fino ad ora ha portato a indagare sulle caratteristiche degli enti
intermedi e sulla possibilità di individuare nella dimensione intercomunale
un’alternativa alle Province.
In Europa, in particolare nel caso francese lungamente analizzato, questa strada è
stata già intrapresa, soprattutto sulle competenze di pianificazione territoriale, ed
ha avuto successo.
Ciò non è avvenuto in Italia, che offre un quadro ancora troppo eterogeneo, con
Unioni dei Comuni diffuse a macchia di leopardo e con caratteristiche molto
diverse sia nella dimensione che nel profilo delle funzioni.
In questo panorama spicca certamente l’Emilia-Romagna, la più “francese” delle
Regioni italiane, la quale ha creduto fortemente nell’intercomunalità come
dimostrano anche la recente proposta di legge che intende estendere le Unioni
dei Comuni su tutto il territorio regionale. Inoltre, la legge urbanistica emiliana
individua nel PSC intercomunale uno strumento di piano da sviluppare proprio
alla scala delle Unioni.
Tutto ciò porta a poter immaginare l’Emilia-Romagna come la Regione pilota in
cui sperimentare una nuova stagione di pianificazione d’area vasta dopo la
razionalizzazione delle Province. Ma prima è necessario sciogliere almeno due
nodi principali:
-
Le Unioni dei Comuni rappresentano davvero una scala ottimale per
svolgere le competenze di pianificazione d’area vasta? Quali vantaggi
offrono e quali limiti sono da risolvere?
-
L’intercomunalità può essere la dimensione ottimale attraverso cui
affrontare un problema sempre più urgente come il consumo di suolo?
Una volta affrontati questi interrogativi, rimane da capire quale possa essere lo
strumento di pianificazione territoriale più adatto per garantire scelte sovralocali
coerenti.
L’Unione dei Comuni della Bassa Reggiana è analizzata come caso studio
attraverso il quale capire quali sono i temi tipici di un ambito territoriale ampio e
pertinente. Questa Unione si presta ad una sperimentazione immediata perché
presenta al contempo sia la maturità istituzionale per avviare un processo di
141
pianificazione condiviso, sia le problematiche che dovranno essere affrontate da
tutte le Unioni.
Saranno quindi ipotizzati due scenari finali: uno tendenziale, in cui la
pianificazione alla scala pertinente è garantita dallo strumento del PSC
intercomunale, e uno desiderabile, in cui si cerca di elaborare uno strumento di
pianificazione che risponda meglio ai nuovi assetti istituzionali e territoriali.
4.1 L’intercomunalità come dimensione pertinente per il coordinamento
territoriale
4.1.1 Vantaggi e svantaggi della dimensione intercomunale
Nell’analisi della cooperazione intercomunale svolta fin qui, si possono
individuare i molteplici motivi per i quali questa soluzione ha rappresentato una
scelta perseguita e incoraggiata in molti contesti locali e internazionali.
Sicuramente, sono tanti i vantaggi che un associazionismo tra Comuni diffuso e
rafforzato può generare anche in Italia, sia ai Comuni stessi sia ai cittadini.
-
L’intercomunalità supera le limitanti dimensioni comunali, permettendo di
generare economie di scala nella creazione e nella gestione di servizi e
uffici. Gli effetti benefici riguardano sia la spesa pubblica complessiva,
generalmente più bassa, sia la qualità dei servizi erogati, percepita come
migliore dagli utenti e dagli enti locali stessi.
In tempi di ristrettezze e tagli sugli enti locali, la scelta della cooperazione
appare sempre più non solo una strada lungimirante da perseguire, ma
soprattutto una scelta obbligata per continuare a sostenere il sistema di
welfare raggiunto.
S’è visto come in Europa sono delegate alle forme associative anche molte
competenze che in Italia spettavano alle Province: per esempio sulla
viabilità, la gestione del territorio e le scuole.
Su questa base, anche le Unioni dei Comuni potrebbero rappresentare
l’ente che non solo permette di generare risparmi e ottimizzazioni sui
servizi, ma che è anche in grado di elaborare politiche e strategie su una
scala più ampia.
142
-
La base volontaristica da cui nasce la cooperazione intercomunale
garantisce un
maggior
coinvolgimento
degli
enti
locali
che la
costituiscono e, di riflesso, anche della popolazione.
In tal modo si permetterebbe di creare strutture di governance che
gestiscono funzioni d’area vasta al livello territoriale più vicino possibile,
attuando davvero il principio di sussidiarietà.
Inoltre, non nascendo per imposizione dall’alto ma dal basso, si
presuppone vi sia maggior accordo e maggior volontà politica a cooperare
tra le parti che costituiscono un’Unione.
Questa flessibilità permetterebbe di applicare l’intercomunalità a tutti i
contesti territoriali e urbani, evitando il rischio di creare “doppie velocità”.
In particolare in Italia, dove la riforma delle Province è riuscita a complicare
ulteriormente un quadro già fin troppo complesso.
La nascita delle Città metropolitane sui confini delle vecchie circoscrizioni
provinciali e con le stesse funzioni delle vecchie Province, le Province che
diventano più grandi ma svuotate di qualsiasi competenza, i piccoli
Comuni che sono obbligati a esercitare blocchi di competenze in modo
associato, mentre per gli altri rimane lo stesso regime: questo è, in breve
sintesi, il quadro attuale con ancora molte sovrapposizioni e zone oscure
sulle funzioni spettanti a ciascun ente.
Un disegno di riordino degli enti locali potrebbe partire proprio dalla
diffusione e dal rinforzamento dei sistemi di cooperazione intercomunale,
capaci di interpretare e di adeguarsi alle realtà metropolitane, così come a
territori più deboli che sarebbero così meno polarizzati.
-
Il tema dell’identità locale potrebbe essere espresso e valorizzato meglio
alla scala intercomunale piuttosto che a quella di altri enti locali.
L’intercomunalità, infatti, è spesso costruita su realtà territoriali (che in
genere fanno perno su uno – due Comuni più grandi) omogenee per
storia, caratteristiche ambientali, sociali e culturali. Attorno ad esse è quindi
più facile costruire un senso di comunità e di cooperazione rispetto, per
esempio, alle Province e alle Regioni.
143
Inoltre, molto spesso i confini dei sistemi locali del lavoro e quelli dei
distretti socio – sanitari corrispondono a quelli degli enti intercomunali o
tenderanno a coincidere sempre più nei prossimi anni.114
La ricerca di un minimo comune denominatore, anche se può apparire
retorica, è fondamentale nella fase di costruzione delle politiche e delle
strategie di medio – lungo periodo.
Ovviamente non mancano incongruenze e limiti da risolvere affinché si possa
avere, anche nel contesto nazionale e regionale, un’intercomunalità forte e capace
di operare con autorevolezza.
-
La diffusione e l’estensione del fenomeno delle Unioni dei Comuni sul
territorio italiano è ancora molto bassa, soprattutto se messa in confronto
con i Paesi più evoluti in questo campo.
Inoltre, anche la dimensione media degli enti di cooperazione
intercomunale denota come spesso i confini siano ancora opportunistici e
legati più alla possibilità di attrarre finanziamenti che da una visione di
territorio vera e propria.
Non a caso l’Emilia-Romagna aveva posto dei criteri minimi per costituire
un’Unione (almeno 4 Comuni e 15.000 abitanti totali), e, con il disegno di
legge per l’individuazione degli ambiti ottimali, tenterà di razionalizzare
ulteriormente la situazione.
-
La natura di enti locali di secondo livello rischia di costituire un serio limite
nell’elaborazione di una visione di medio – lungo periodo. Infatti, le scelte
intraprese sono l’esito di una negoziazione tra i Comuni e i Sindaci, in cui
prevale o il Comune più grande o un gruppo di Comuni uniti da interessi.
La trasformazione delle nuove Province in enti di secondo livello è stata
giudicata come una delle innovazioni più negative, poiché verrebbe a
perdersi la legittimazione democratica diretta in grado di fornire
quell’autorevolezza che serve per garantire un disegno coerenza
territoriale. Dal momento che lo scopo di questa tesi è dimostrare che il
coordinamento e la coerenza territoriale trovano la loro dimensione ideale
nell’intercomunalità, si potrebbe obiettare che anche le Unioni dei Comuni
114
Si rimanda al tema già trattato della coincidenza tra ambiti ottimali e distretti socio - sanitari indicato
dalla Regione Emilia Romagna.
144
non sarebbero in grado di avere quell’autorevolezza necessaria nel
disegnare e far rispettare un piano.
Eppure,
nonostante
questo
deficit
di
democrazia
diretta
e
di
rappresentanza sia assolutamente da colmare, le Unioni dei Comuni hanno
almeno due vantaggi rispetto alle nuove Province.
Il primo è quello della base volontaristica che è all’origine della
costituzione dell’ente e delle sue scelte, che fa presupporre una maggior
comunione d’intenti tra le parti.
Il secondo è quello della pertinenza delle circoscrizioni, che in
un’evoluzione ottimale dell’intercomunalità, potrebbero rispecchiare un
territorio sicuramente più omogeneo rispetto a quello delle nuove
Province razionalizzate.
Di certo, il tema dell’elezione diretta dei rappresentanti nelle Unioni dei
Comuni diventerà sempre più importante se, come si prevede, ad esse si
delegheranno sempre più competenze.
-
L’eterogeneità delle Unioni riguarda, soprattutto, anche le competenze che
esse esercitano: mancando un quadro di leggi chiaro, a seconda della forza
e della volontà politica locale si associano funzioni molto diverse nei
diversi contesti.
Con la Spending Review, si definisce che i Comuni sotto i 5.000 abitanti
dovranno esercitare tutte le funzioni fondamentali in modo associato
entro il 2014, scegliendo tra le Unioni e le Convenzioni, generando nei fatti
una doppia velocità legislativa in materia.
L’attuale confusione tra la definizione dei livelli di governo del territorio e
le rispettive competenze, potrebbe rappresentare il contesto per proporre
una legge quadro per tutte le Unioni dei Comuni, stabilendo
definitivamente quali sono le competenze obbligatorie che esse devono
esercitare e quali quelle volontarie, sulla scorta dell’esperienza francese.
Ciò potrebbe essere anche il modo con cui iniziare a pensare
all’intercomunalità non solo come ente di gestione, ma come dimensione
in cui elaborare politiche e strategie.
-
Le Unioni dei Comuni sono ancora un ente sconosciuto alla maggior parte
della cittadinanza che viene avvertito più come uno strumento burocratico
che come ente locale vicino alle problematiche concrete e reali.
145
È necessario, quindi, un lavoro di comunicazione e rendicontazione delle
performance e delle attività dell’Unione, sia per quelle già consolidate sia,
soprattutto, per quelle che devono nascere.
Le Unioni dei Comuni, quindi, potrebbero essere per queste ragioni il nuovo ente
attorno al quale riscrivere l’organizzazione dello Stato.
Stupisce che in una situazione come quella attuale, con Comuni vincolati dai tagli
e dal rispetto del patto di stabilità, non nasca dal basso un’esigenza più forte ad
associarsi.
Infatti, oltre ai tanti vantaggi descritti, v’è anche quello, non banale, dell’esenzione
delle Unioni dal patto di stabilità; ma la possibilità di intraprendere questa strada
non sembra un’intenzione espressa dall’ANCI, forse più interessata a difendere la
sovranità dei singoli Comuni.
Fortunatamente ci sono realtà, come quella dell’Emilia-Romagna, in cui è già in
atto un processo volto a rafforzare l’intercomunalità e a superare i suoi limiti: se
sul tema delle competenze una Regione può avere la facoltà di distribuire le
funzioni ai Comuni e perseguire, attraverso norme e incentivi, delegarle alle
Unioni, poco invece può fare sull’elezione diretta dei rappresentanti.
Se si sarà in grado di costruire ulteriori buone pratiche di cooperazione
intercomunale si potrà sicuramente proporre con più forza lo strumento
dell’intercomunalità come soluzione ottimale per il governo locale.
Per tutti questi motivi l’Emilia-Romagna può e deve essere un laboratorio
sull’intercomunalità, sperimentando forme di piano territoriale innovative.
4.1.2 L’intercomunalità e il governo del territorio: il problema del consumo di suolo
La cooperazione intercomunale è in grado di rappresentare e interpretare la
dimensione pertinente in cui si manifestano e si evolvono le dinamiche
territoriali, sociali ed economiche in un contesto omogeneo.
È assodato, infatti, che i limiti amministrativi siano oggi superati e anacronistici,
rendendo opportuno un salto di scala a tutti i livelli per evitare i rischi generati
dalle esternalità negatività delle singole scelte dei singoli Comuni, spesso in
competizione per attrarre risorse.
146
Ciò può avere grandi ripercussioni sulla pianificazione urbanistica e territoriale,
che trova nella dimensione intercomunale una dimensione ottimale con cui
governare i processi insediativi e individuare le scelte strategiche con cui
s’intende disegnare il territorio e la comunità degli anni futuri.
La necessità di reperire risorse per finanziare il sistema di welfare e dei servizi
pubblici ha portato i Comuni italiani a concepire politiche urbanistiche molto
autoreferenziali, vedendo nel suolo uno strumento per fare cassa e reperire
risorse.
Negli ultimi anni, la maggior parte delle entrate fiscali dei Comuni sono derivate
dagli oneri di urbanizzazione e dall’ICI, oggi sostituito dall’IMU: un fattore che ha
portato alla creazione di un circolo vizioso pericoloso, con grosse ricadute sul
consumo di suolo e sulla coerenza delle scelte territoriali.
Ciò ha generato, in Comuni grandi e piccoli, una proliferazione di capannoni,
centri commerciali e aree residenziali a bassa densità che con l’avvento della crisi
sono rimaste inesorabilmente vuote.
Questo modello di sviluppo non solo ha portato alla frammentazione dei territori,
ma ha causato una perdita considerevole di fertilità dei suoli, riduzione della
biodiversità, alterazioni del ciclo idrogeologico e modificazioni del microclima
(Istat, 2012).
Lo sprawl e la crescente impermeabilizzazione del suolo sono quindi uno dei
maggiori problemi legati alla pianificazione territoriale: il trasferimento delle
funzioni di pianificazione e coordinamento d’area vasta dalle Province alle
Regioni, rischia di far saltare uno dei pochi baluardi contro il consumo di suolo.
I numeri e i dati relativi al consumo di suolo che vengono forniti dalle agenzie e
dalle indagini europee e nazionali sono allarmanti, e rendono necessaria una
riflessione profonda su quali strumenti mettere in atto per affrontare questo
tema.
Negli ultimi anni sono stati molti gli studi e i progetti per comprendere meglio la
dimensione e lo sviluppo del fenomeno del soil sealing115, i quali differiscono
leggermente nei dati finali a seconda del metodo di campionatura del suolo.
115
Con Soil Sealing la Commissione Europea intende la copertura del suolo con materiali come cemento,
vetro, metallo, asfalto e plastica tali da inibire la funzione ecologica del suolo.
147
L’Unione Europea, attraverso l’indagine LUCAS, condotta direttamente da Eurostat
nel 2009 e oggi in fase di aggiornamento, ha prodotto comparazioni tra 23 Paesi
membri sulle caratteristiche della copertura del suolo.
L’Italia presenta livelli di copertura del suolo compatibili con le proprie
caratteristiche economiche e demografiche, con una quota di superficie di
territorio impermeabilizzato pari al 7,3% del suolo totale, contro il 4,3% della
media UE (grafico 4.1).
Se però si guarda alla quota attesa di copertura sulla base della densità
demografica, l’Italia avrebbe un valore teorico del 6,4%, un punto in meno
rispetto a quello reale.
Questo indice dipende molto anche dalla densità di popolazione insediata, che in
Italia è di 204 abitanti per chilometro quadrato, contro una media europea di 120.
Grafico 4.1: Territorio con copertura artificiale in Europa
Fonte: Eurostat indagine LUCAS, 2009
Guardando invece alle destinazioni d’uso, se si sommano le aree a “residenze e
servizi” e quelle ad “elevato impatto ambientale” (categoria che comprende gli usi
industriali, la logistica e le infrastrutture di trasporto), si nota che l’Italia ha un
risultato nella media delle grandi economie, con il 12,2% di territorio destinato a
queste funzioni, alla luce di una media europea di 11,1% (grafico 4.2).
148
Guardando però alle singole voci, per gli usi ad “elevato impatto ambientale”,
l’Italia è al sesto posto con il 4,6% del suolo destinato a queste funzioni, contro il
3,4% della media UE, un dato che si spiega con la forte vocazione manifatturiera
del Paese e la massiccia presenza di infrastrutture: il 3,2% del suolo rispetto al
2,4% della media continentale.
L’altro 7,6% è destinato a residenza e servizi, un dato al di sotto della media
europea dello 0,3%, motivato dalla scarsità di aree ricettive e per impianti sportivi
(2,5% in Italia e 4,1% in Europa).
Grafico 4.2: Uso del suolo in Europa:
quote di territorio con destinazione residenziale e servizi a elevato impatto
ambientale
Fonte: Eurostat indagine LUCAS, 2009
Nel confronto europeo, l’Italia risulta comunque un Paese poco parsimonioso
della risorsa suolo, come dimostrano i dati sull’uso del suolo degli ultimi 50 anni.
Un primo dato interessante proviene dal confronto delle perimetrature delle
località abitate116mappate dall’Istat con i censimenti del 2001 e del 2011, con cui si
116
Per località abitate, l’Istat intende le “Aree di territorio, conosciute con un nome proprio, sulle quali
sono presenti case raggruppate in centri abitati (caratterizzati dalla presenza di servizi) e nuclei abitati,
case sparse, o località produttive extraurbane”.
149
possono quantificare la variazione del numero delle località abitate e della loro
estensione negli ultimi dieci anni.
L’attuale estensione delle località abitante, che rappresenta una sottostima di
tutto il territorio impermeabilizzato, è di circa 20.000 kmq, pari al 6,72% dell’intero
territorio nazionale, una superficie superiore a quella dell’intera Puglia.
Come si può notare dalla figura 4.1, le superfici edificate si concentrano nelle aree
pianeggianti, costiere e di frangia urbana.
In Pianura Padana le superfici costruite sono in media il 16,4% del totale del
territorio.117
Un dato molto importante se si pensa che questa è l’area più importante del
Paese dal punto di vista produttivo ed agricolo.
Figura 4.1: Incidenza percentuale delle superfici edificate su base comunale
Fonte: Istat, 2012
117
Questo dato è stato calcolato sulla base comunale dei Comuni appartenenti al bacino idrografico del
Po.
150
Negli ultimi dieci anni, il suolo edificato è aumentato di 1.639 kmq, pari a un
aumento dell’8,77%, a vantaggio soprattutto dei centri abitati i quali occupano
oggi circa 17.500 kmq, 1.200 in più rispetto al 2001 (+ 7,1%).
Per quanto riguarda le località produttive e gli usi del suolo infrastrutturali, c’è
stata una maggior crescita rispetto ai centri abitati, rispettivamente del 16,9% e
del 29,1%.
Osservando poi le differenze tra le varie regioni d’Italia, si nota una maggiore
copertura del suolo al Centro – Nord, dove Lombardia e Veneto sfiorano il 13% di
territorio impermeabilizzato, mentre al Sud solo la Campania, che si attesta al 9,5%
è al di sopra della media. Negli ultimi dieci anni la spinta all’edificazione più forte
s’è avuta però nelle Regioni meridionali: l’estensione delle località abitate è stata
in media del 10,2%, con punte del 19% in Basilicata e del 17,2% in Molise (figura
4.2 e tabella 4.1).
Logicamente, questi dati sono da valutare tenendo presenti le caratteristiche
economiche, demografiche e morfologiche di ogni Regione.
Figura 4.2: Variazione percentuale delle superfici edificate su base comunale
(2001-2011)
Fonte: Istat, 2012
151
Tabella 4.1: Superficie territoriale occupata dalle località abitate (valori
percentuali)
Regioni e
partizioni
Variazione %
Censimento 2001
Censimento 2011
Piemonte
6,0
6,8
12,2
Valle d’Aosta
1,7
1,8
4,0
Liguria
9,5
9,7
2,4
Lombardia
11,8
12,8
8,0
2,5
2,6
5,2
12,0
12,9
7,3
8,2
8,7
6,1
Emilia-Romagna
7,0
7,6
9,8
Toscana
5,2
5,6
7,8
Umbria
4,1
4,3
6,3
Marche
4,8
5,4
13,0
Lazio
9,6
10,3
7,6
Abruzzo
4,3
4,7
9,0
Molise
2,2
2,6
17,2
Campania
8,8
9,5
8,5
Puglia
4,4
5,0
13,5
Basilicata
1,5
1,8
19,0
Calabria
5,0
5,3
6,1
Sicilia
4,8
5,2
10,3
Sardegna
2,4
2,9
11,1
Nord-Ovest
8,5
9,2
8,7
Nord-Est
7,6
8,2
7,8
Centro
6,3
6,8
8,2
Sud
4,3
4,7
10,2
Italia
6,2
6,7
8,8
geografiche
Trentino-Alto
Adige
Veneto
Friuli-Venezia
Giulia
Fonte: Istat, basi territoriali 2001 (definitive) e basi territoriali 2011 (provvisorie)
‘01-‘11
152
La fase che si sta attraversando
segna comunque un rallentamento
dell’edificazione del territorio: come rilevano i dati Istat, a inizio anni ’80 la crescita
annua delle superfici coperte era di oltre 40.000 ettari l’anno, mentre dagli anni
2000 è più che dimezzata, complice anche la crisi economica attuale (grafico 4.3).
Grafico 4.3: Consumo di suolo per nuovi edifici residenziali e non residenziali
(1980 – 2009)
Fonte: Istat, 2012
Considerando invece la distribuzione della popolazione, essa si ripartisce su
61.508 località abitate (rispetto alle 59.717 del 1991 e alle 60.482 del 2001), di cui
21.730 centri abitati (nel 1991 erano 21.968 e nel 2001 erano 21.672). In dieci anni le
località abitate sono aumentate solo dell’1,7% e i centri abitati dello 0,3%, una
crescita tutto sommato limitata che si spiega con l’elevato numero di fusioni tra
località esistenti (circa 1.500) piuttosto che di creazione di nuovi centri.
Per comprendere meglio questi dati è necessario osservare i trend nei diversi
contesti regionali: al Centro-Nord il consumo di suolo è avvenuto soprattutto
riempiendo i vuoti tra una località e l’altra, mentre nel mezzogiorno si sono
realizzate ben 1.024 nuove località abitate.
In generale, l’espansione delle località è stato un fenomeno diffuso in tutto il
Paese e che ha interessato il 32,1% delle località, con i valori più alti in Campania
(50,3%), Trentino-Alto Adige (48,1%) e Puglia (40,2%).
153
La dimensione media dei centri abitati rimane però piuttosto modesta
attestandosi su una media di 0,81 kmq e solo in tre Regioni, ovvero Puglia (1,7
kmq), Lazio (1,6 kmq) e Sicilia (1,4 kmq), si è al di sopra di questo dato.
Questi numeri evidenziano la frammentazione del territorio e del sistema urbano
italiano, in cui prevale quindi la dispersione insediativa, piuttosto che logiche di
compattamento, con tutte le esternalità negative conseguenti su ambiente,
accessibilità e fornitura d’infrastrutture e servizi.
Il settore agricolo è quello che risente maggiormente degli effetti sul consumo di
suolo.
Dal 1970 al 2010 l’Italia ha perso il 28% di SAU (Superficie agricola utile), passando
da 18 a 13 milioni di ettari, sia a causa dell’abbandono e della dismissione
agricola, sia per l’incedere delle aree edificate (grafico 4.4).
Questa riduzione ha inciso soprattutto su seminativi e prati permanenti (tabella
4.2), ovvero gli ambiti che maggiormente producono la base dell’alimentazione
italiana.
Grafico 4.4: La SAU dal 1971 al 2010 (migliaia di ettari)
Fonte: Elaborazione Mipaaf su dati Eurostat, 2011
154
Tabella 4.2: Variazioni della SAU per colture dal 1971 al 2010, in migliaia di ettari
1971
2010
Variazione ha Variazione %
SAU
17.986 12.885
- 5.101
- 28%
Seminativi
9.446
7.015
- 2.431
- 26%
Prati permanenti
5.240
3.470
- 1.770
- 34%
Colture permanenti
3.244
2.371
- 873
- 27%
Fonte: Elaborazione Mipaaf su dati Eurostat, 2011
Mentre si sono perse quote di SAU sempre più consistenti, la popolazione ha
continuato a crescere: fino ad oggi, però, ciò non ha coinciso con la perdita di
produttività agricola e di disponibilità alimentare grazie alle innovazioni tecniche
degli ultimi decenni.118
Negli ultimi anni s’è arrivati a un arresto dell’incremento di produttività, con
rendimenti del suolo agricolo che rimangono immutati.
La conseguenza diretta di questo processo è un aumento della dipendenza
alimentare dell’Italia dall’estero: secondo stime del Ministero delle Politiche
Agricole, Alimentari e Forestali, la produzione nazionale copre attualmente circa
l’80% del fabbisogno alimentare, un dato in calo del 10% rispetto al 1991 e
destinato ad abbassarsi ulteriormente.
L’Italia è quindi un Paese che consuma più di quello che il proprio suolo agricolo
è in grado di produrre, come è ben visibile dall’analisi del deficit di suolo agricolo
sostenuta dal SERI (Sustainable Europe Research Institute) di Vienna.119
Nella classifica dei Paesi europei con il maggior deficit di suolo agricolo, l’Italia è
terza dietro a Germania e Regno Unito con un fabbisogno di 49 milioni di ettari
(grafico
4.5)
che
la
rende
dipendente
dalle
dinamiche
dei
Paesi
d’approvvigionamento, che stanno vivendo oggi una grande espansione
demografica e sociale.
118
L’Istat stima che dal 1950 ad oggi la produzione fornita da un ettaro di frumento sia passata da 1,4 a
4 tonnellate, mentre un contadino si prende cura mediamente di 26 capi rispetto ai 4 del primo dopo
guerra.
119
Il deficit di suolo agricolo è un indicatore messo a punto dal SERI (Sustainable Europe Research
Institute) di Vienna che rileva la differenza tra il terreno agricolo utilizzato su scala nazionale (la SAU) e
quello necessario a produrre il cibo, i prodotti tessili e i biocarburanti (FFF- Food, Fiber, Fuel) che la
popolazione consuma. Un Paese in cui la SAU nazionale è inferiore, per estensione, al suolo agricolo
necessario a coprire i consumi della propria popolazione in termini di cibo, prodotti tessili e biocarburanti
viene considerato deficitario, ovvero dipendente per il sostentamento della propria popolazione dalla
produttività del suolo agricolo di un altro Paese (Lugschitz., 2011).
155
Per esempio, la crescita dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud
Africa) e degli altri Stati del Terzo Mondo pone un tema fondamentale: come
alimentare un pianeta che cresce al ritmo di 200.000 nuove persone al giorno,
quindi come produrre di più ma inquinando meno.120
Il fatto che una nazione come la Cina o grandi multinazionali agricole americane
stiano comprando milioni di ettari di suolo nelle aree più povere del globo deve
far riflettere sul futuro strategico dell’agricoltura, con il controllo dei suoli fertili
che diventerà sempre più importante (De Castro, 2011).
La pressione sui terreni agricoli sarà sempre più forte, con effetti potenzialmente
devastanti su ambiente, paesaggio e clima. A questi vanno aggiunte ripercussioni
sul sistema dei mercati delle materie prime, che diventeranno più instabili e,
stando così le cose, porterebbero a un aumento dei prezzi che avrà un impatto
devastante soprattutto sulle fasce di popolazione più povere (Prodi, 2011).
Grafico 4.5: Deficit di suolo agricolo nei Paesi dell’Unione Europea (milioni di
ettari)
Fonte: Elaborazione Mipaaf su dati SERI, 2011
120
Secondo una stima della Commissione Europea, nel 2050 la domanda di prodotti agricoli crescerà del
70%.
156
In termini numerici, la perdita di SAU dipende maggiormente dall’abbandono:
questo fenomeno avviene però su terreni marginali, spesso in aree montuose o
poco infrastrutturate, e comunque non altera le caratteristiche ecologiche del
suolo (l’assorbimento delle acque, la produzione di biomasse e la capacità di
assorbire CO2) e del paesaggio.
La cementificazione, invece, è irreversibile e produce forti impatti:
-
Le
funzioni
produttive
del
terreno
diventano
limitate
a
causa
dell’impermeabilizzazione, togliendo SAU e riducendo gradualmente le
garanzie di sicurezza e di equilibrio alimentare;
-
Il paesaggio viene alterato, intaccando un sistema di valori culturali,
identitari, sociali, estetici ed ecologici con ovvie ripercussioni sul sistema
turistico;
-
Si compromette l’ecosistema, con la frammentazione degli habitat e il venir
a meno di un sistema capace di assorbire CO2. Ciò provoca conseguenze
importanti anche sul clima, che diventa più caldo e secco;
-
L’assetto idrogeologico subisce una notevole alterazione a causa dei
processi di cementificazione. Il terreno, infatti, diventa incapace di assorbire
le acque piovane, di garantirne il deflusso e di ricaricare le falde acquifere.
Inoltre
l’urbanizzazione
sfrenata,
anche
in
luoghi
non
consoni
all’edificazione, ha prodotto spesso conseguenze nefaste in caso di
esondazioni e allagamenti di fiumi e torrenti (Munafò, 2011).
Infine, è fondamentale mettere in risalto come il soil sealing interessi i terreni più
fertili, accessibili e facilmente lavorabili, come le zone periurbane, quelle
pianeggianti e quelle costiere.
Le cause dell’urbanizzazione sono molteplici.
La prima è di matrice socio – culturale e trova il proprio fondamento nel fatto che
dagli anni ’50 in poi il mainstream che ha guidato i processi di sviluppo abbia
sempre attribuito poco valore all’ambiente, all’agricoltura e all’irriproducibilità del
suolo.
Anzi, col tempo si sono espulsi abitanti dalla città centrale, producendo un
modello basato sullo sprawl territoriale che ha frammentato il territorio e che ha
alimentato un pendolarismo basato sulla mobilità privata.
Molte cause vanno ricercate nella pianificazione urbanistica e territoriale.
157
Spesso i piani paesaggistici hanno tutelato maggiormente l’ambiente e il suolo
agricolo nei casi in cui rappresentasse una risorsa economica, ovvero turistica.
Inoltre, come s’è già scritto, i Comuni sono stati obbligati a fare cassa col suolo
per mantenere e finanziare i servizi. Gli oneri di urbanizzazione, maggiori per la
nuova edilizia rispetto alle ristrutturazioni, sono una delle voci principali di
entrata nel bilancio pubblico, in maggior misura a partire dal 2001, quando fu
cancellato il vincolo di utilizzo degli oneri per gli investimenti in conto capitale.
Per questo la pianificazione a livello comunale è stata più orientata a permettere
nuove urbanizzazioni piuttosto che contenerle, regolando la crescita ma senza
ordinarla con politiche di limitazione del consumo di suolo.
Non si dimentichi, infine, come anni di condoni edilizi (1985, 1995 e 2003) abbiano
lasciato la porta aperta alla deregolamentazione.
Queste considerazioni, seppur brevi, evidenziano come difendere il suolo agricolo
dalla sua impermeabilizzazione sia una strategia chiave per immaginare un
territorio sostenibile e più equo. Questo tema non è più procrastinabile e ha ovvie
conseguenze sulla pianificazione.
I numeri e i dati forniti dimostrano come la lotta al consumo si suolo necessiti di
risposte immediate per contrastare un modello di sviluppo troppo incentrato
sulla crescita urbana, i cui squilibri sono ormai evidenti e drammatici.
I PTCP sono stati, in alcuni contesti, uno dei pochi baluardi per la difesa
dell’ambiente e del territorio agricolo contro il soil sealing: la riforma delle Province,
e il conseguente svuotamento e indebolimento delle funzioni di pianificazione
d’area vasta, toglierebbero l’unico strumento che riusciva a dare qualche risposta
a un problema che sta diventando sempre più grave.
I temi della coerenza e della sostenibilità territoriale non possono di certo essere
affrontati alla scala comunale, che per anni ha garantito proprio l’esatto contrario.
L’intercomunalità, per i vantaggi che prima si sono elencati, può quindi essere la
nuova dimensione entro cui immaginare politiche di pianificazione territoriale
capaci di porre un limite al consumo di suolo e di immaginare un territorio più
solidale.
Per capire come si potranno immaginare in Emilia-Romagna gli scenari di un
nuovo sistema di pianificazione intercomunale diffuso su tutto il territorio
regionale, risulta utile usare un caso studio che presenti i vantaggi tipici e anche
158
alcuni limiti della cooperazione intercomunale: l’Unione dei Comuni Bassa
Reggiana.
4.2 L’Unione dei Comuni Bassa reggiana come caso studio
4.2.1 Caratteristiche del territorio
L’Unione dei Comuni Bassa Reggiana nasce nel dicembre 2008, dalla volontà di
otto Comuni: Boretto, Brescello, Gualtieri, Guastalla, Luzzara, Novellara, Poviglio e
Reggiolo.
Essa ricalca perfettamente il territorio di quello che fu il Comprensorio di
Guastalla tra gli anni ’70 e ’80 e dell’Associazione Intercomunale istituita nel 2001,
oltre che coincidere con il distretto socio –sanitario e con il Sistema locale del
lavoro di Guastalla.
Gli studi e le ipotesi della Regione Emilia-Romagna per la definizione degli ambiti
ottimali lasciano inalterati questi confini, potendo quindi già immaginare la
creazione di nuove politiche di pianificazione senza il rischio di incorrere in
modifiche territoriali nei prossimi anni.
Con 72.500 abitanti (divisi in circa 29.000 nuclei famigliari) risulta la settima Unione
della Regione per entità demografica, mentre dal punto di vista della superficie si
colloca al sesto posto con 316,41 kmq (Istat, 2012).
Se inserita nel quadro di riferimento nazionale, l’Unione Bassa Reggiana è quindi
nettamente superiore ai valori medi espressi nel Paese, rientrando in quell’8,2% di
Unioni con più di 50.000 abitanti.
Il Comune capofila dell’Unione è Guastalla, con oltre 15.000 abitanti, a cui
storicamente si riconosce il ruolo di Capitale della Bassa.121 Degli altri Comuni, solo
Novellara supera i 10.000 abitanti, ma nessuno di essi è al di sotto della soglia dei
5.000.
Ciò fa della Bassa Reggiana un’Unione di “solo grandi” secondo le ripartizioni
fornite dall’ANCI.
121
Il Ducato di Guastalla fu dal 1621 al 1748 un piccolo Stato indipendente. Anche sotto il dominio
austriaco e durante il Ducato di Parma-Piacenza-Guastalla mantenne una grande autonomia e il ruolo
di centro principale della zona. Dopo l’Unità d’Italia Guastalla divenne sede dell’omonimo Circondario
(che aveva gli stessi Comuni dell’attuale Unione con l’aggiunta di Campagnola, Fabbrico, Rolo e Rio
Saliceto). Con l’avvento della Repubblica, Guastalla divenne Comune capo distretto e Comune capofila
durante la stagione comprensoriale tra 1975 e 1985. Guastalla è attualmente sede dei servizi socio –
sanitari, e delle scuole secondarie, ricomprendo il ruolo di città dei servizi per l’intera zona.
159
Il territorio dell’Unione si trova nel cuore della Pianura Padana, adagiato sulla
sponda destra del Po, baricentrico rispetto a importanti città come Reggio Emilia,
Parma, Modena e Mantova (figura 4.3) e ai principali assi di comunicazione e
trasporto del Nord Italia.
Rispetto ai territori rivieraschi delle altre Regioni e Province, generalmente
piuttosto “scarichi” e marginali, la Bassa Reggiana ha risentito di fenomeni
demografici medio – alti con una conseguenza proporzionale sull’urbanizzazione
del territorio. Ciò è ben visibile dalle tavole fornite dal Quadro Conoscitivo del PTR
dell’Emilia-Romagna del 2010. (figura 4.4, figura 4.5 e figura 4.6).
Figura 4.3: L’Unione dei Comuni Bassa Reggiana nel contesto medio-padano
160
Figura 4.4: Indice di territorio urbanizzato in Emilia-Romagna (2003)
Fonte: Elaborazioni ERVET su dati Servizio Sistemi Informativi Geografici, Regione Emilia-Romagna, 2010
Figura 4.5: Distribuzione della popolazione (2005) e variazione percentuale
(1971-2005)
Fonte: Elaborazioni ERVET su dati Regione Emilia-Romagna – Istat, 2010
161
Figura 4.6: Variazione della frammentazione territoriale in Emilia-Romagna
(1976-2003)
Fonte: Elaborazioni ERVET su dati Servizio Sistemi Informativi Geografici, Regione Emilia-Romagna, 2010
In particolare, alcuni Comuni dell’Unione Bassa Reggiana, ovvero Guastalla,
Luzzara, Reggiolo e Novellara, sono inseriti in quell’area centrale ad alta densità
demografica e forte dispersione insediativa, come propaggine settentrionale del
sistema metropolitano formato dalle città della Via Emilia.
Questo dato è esplicitato ulteriormente dallo studio della frammentazione
territoriale, aumentata con indici molto alti negli ultimi trent’anni.
La Bassa è quindi un territorio sì periferico, ma che presenta caratteristiche
territoriali metropolitane.
Ciò è l’esito di un lungo processo di sviluppo economico, iniziato già nella
seconda metà del XIX Secolo, quando si affermarono le prime forme di
cooperazione agricola e una prima classe imprenditoriale.
Il processo è continuato negli anni ’30, per poi affermarsi definitivamente dagli
anni ’60 in poi: pur non essendo un classico distretto industriale della Terza Italia,
la Bassa Reggiana s’è caratterizzata per un tessuto di imprese medio-piccole
diffuso, che hanno reso il territorio fortemente caratterizzato dall’attività
manifatturiera.
162
La modernizzazione e l’industrializzazione non hanno marginalizzato l’impronta
agricola e non l’hanno spenta: anzi, è avvenuto l’esatto contrario in quanto il
settore primario è stato il movente del processo evolutivo di uno sviluppo
industriale tecnologicamente avanzato al servizio dell’agricoltura stessa.
Ciò ha permesso di affrontare le difficoltà che hanno travolto il settore primario
in generale, grazie a strategie d’innovazione all’avanguardia e all’applicazione
tecnologica nei processi di produzione, facendo di quest’area un riferimento
qualitativo a livello europeo e mondiale.
In questo solco sono nate e cresciute industrie meccaniche legate alle macchine
agricole, aziende produttrici di pompe e irrigatori, grandi realtà di macellazione.
Quindi, un’industria al servizio dell’agricoltura e viceversa; scuole professionali che
hanno istruito e protratto un sapere alle giovani generazioni dal dopoguerra in
poi; istituti bancari come le vecchie Casse Rurali e le Banche agricole pronti a
finanziare e supportare un sistema.
Questo modello è stato vincente per parecchi decenni e ha portato ricchezza e
sviluppo diffuso fino agli anni ’80, quando s’è affiancato anche un processo di
terziarizzazione e di incremento dei servizi.
Inoltre, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, la Bassa è stata oggetto di
un massiccio processo di immigrazione, dapprima dall’India e dal Nord Africa e
più recentemente da Cina e Pakistan.
L’immigrazione ha permesso di dare un futuro al settore primario, grazie
all’impiego di manovalanza indiana nelle stalle e nella cura delle campagne, e ha
dato un grande contributo anche al settore manifatturiero, assorbendo un’offerta
di lavoro che non trovava domanda interna.
Oggi nella Bassa Reggiana risiedono 10.297 stranieri, pari al 14,2% della
popolazione totale, con punte del 20,3% a Luzzara. Questi numeri sono in termini
relativi più alti di quelli della Provincia di Reggio, in cui gli stranieri sono il 12,1%,
e dell’Emilia-Romagna, ferma al 10,6% (Istat, 2012).
Diventa forte, quindi, anche il tema della cittadinanza e della costruzione di una
vera società multietnica: nelle scuole e nei luoghi di lavoro questo processo è già
iniziato ed è destinato a consolidarsi.
Tutti questi fattori hanno portato, al contrario di altre zone lungo il Po, ad un
incremento costante della popolazione residente e a un’integrazione della Bassa
nel sistema economico padano, di cui è parte essenziale e importante.
163
Una ricerca del Censis del 2009, colloca il Distretto di Guastalla al 12° posto
assoluto tra quelli italiani, segno di una grande forza del territorio. 122
L’avvento della recente crisi economica ha rallentato la crescita, come testimonia
un dato tanto semplice quanto indicativo come il registro delle imprese attive
della Camera di Commercio: nel 2009 le imprese nella Bassa Reggiana erano 7.895,
nel 2011 sono diventate 7.707.
Ciò nonostante, il tessuto imprenditoriale si può ritenere ancora vivo e capace di
essere competitivo sui mercati internazionali, anche se la dimensione delle
aziende può essere uno svantaggio nel medio-lungo periodo.
Come si può notare, la dispersione territoriale e il calo della superficie agricola è
stato il prezzo da pagare per lo sviluppo e la ricchezza.
In un sistema in cui il settore primario gioca ancora un ruolo molto importante,
essendo anche una delle zone più fertili d’Europa, le considerazioni relative al
consumo di suolo esposte nel paragrafo precedente dovrebbero portare a
riflettere attentamente sul futuro del territorio.
4.2.2 Caratteristiche dell’ente
Nata il 18 dicembre 2008 come evoluzione della precedente Associazione
intercomunale, l’Unione dei Comuni Bassa Reggiana è operativa a partire
dall’aprile del 2009.
Gli organi di indirizzo e di governo sono: il Consiglio dell’Unione, la Giunta
dell’Unione e il Presidente.
Il Consiglio è composto dagli otto sindaci più due consiglieri (uno di
maggioranza e uno di opposizione) per ogni Comune, con l’eccezione di Guastalla
e Novellara che hanno diritto ad un consigliere di maggioranza in più, per un
totale di 26 consiglieri (su 140 consiglieri comunali totali degli otto Comuni).
Il Consiglio elegge tra i Sindaci, a maggioranza assoluta, il Presidente, il quale ha
durata triennale e forma con gli altri Sindaci la Giunta dell’Unione.
In più si sono costituite tre commissioni consiliari: Affari costituzionali, finanziari e
organizzazione; Welfare; Ambiente e territorio.
Guardando alle funzioni amministrate direttamente dall’Unione, si può dire che
essa sia molto forte sulla parte socio – educativa.
122
Ci si riferisce alla ricerca “L’Italia dei territori”, redatta da Censis e Sinopsis Lab.
164
Fin dal primo anno s’è unificato l’ufficio di piano sociale, affiancato dal servizio
sociale integrato zonale per minori, anziani e disabili, mentre dal 2011 è stata
costituita l’Azienda speciale dell’Unione per i servizi educativi.
Altre funzioni messe in comune sono: l’ufficio appalti, il coordinamento della
protezione civile degli otto Comuni, la gestione economica, giuridica e
previdenziale del personale, il nucleo tecnico di valutazione, lo sportello unico
delle attività produttive e i sistemi informativi associati.
Oggi l’Unione conta circa 100 dipendenti, su 580 complessivi tra Unione e Comuni.
Dal 2010 al 2012 la previsione di spesa è aumentata da 3,2 a 13 milioni di euro, per
merito soprattutto dell’Azienda speciale.
Queste considerazioni, insieme alla rapida lettura delle caratteristiche territoriali,
indicano che l’Unione Bassa Reggiana ha grandi potenzialità in quanto:
-
È un’Unione di grandi dimensioni, costruita in un territorio pertinente,
abituato a cooperare e omogeneo per storia, cultura e tessuto sociale.
Inoltre, per caratteristiche demografiche e di ampiezza superficiale
s’avvicina molto a una classica Communautè d’agglomeration francese,
considerando che supera i 50.000 abitanti ed ha al centro un Comune
maggiore di 15.000 abitanti (caratteristica tipica a molte Unioni emiliane).
-
Ha già una struttura abbastanza consolidata e un discreto numero di
competenze e funzioni svolte in modo associato. Ciò rende difficile la fuori
uscita di Comuni e la variazione dei confini dell’Unione, evidenziando già
oggi una forma abbastanza stabile e quindi affidabile per il futuro.123
La mancanza di politiche territoriali ed urbanistiche integrate è avvertita dai
dirigenti dell’Unione come lo step successivo attraverso il quale iniziare a pensare
anche ai futuri assetti del territorio con un’ottica di medio-lungo periodo.124
Benché gli otto Comuni siano stati protagonisti in passato di stagioni di piano
intercomunali, come quella comprensoriale e un tentativo di piano strategico
123
Anche se Guastalla ha cambiato maggioranza politica nel 2009 passando ad una Giunta di
centrodestra, non si è verificata la sua fuoriuscita dall’Unione come minacciato in campagna elettorale.
Questo è dovuto grazie al fatto che sulla programmazione dei servizi sociali ed educativi, le economie di
scala prodotte dalla dimensione intercomunale e l’esenzione dal patto di stabilità hanno posto
vantaggi tali de rendere illogico qualsiasi progetto secessionista. Va detto, però, che su alcune funzioni,
come la gestione del personale, lo SUAP e la polizia municipale, il Comune di Guastalla procede ancora
in maniera autonoma.
124
Si rimanda all’intervista fatta alla Direttrice dell’Unione Dott.sa Gamberini, in allegato alla tesi.
165
redatto dalla CAIRE nel 2003, ad oggi la maggioranza delle municipalità ha redatto
il proprio strumento di pianificazione generale.
Le politiche urbanistiche sono quindi ancora interpretate autonomamente dai
singoli Comuni, ed è anche per questo motivo che la Bassa reggiana può prestarsi
a sperimentazioni in merito al coordinamento di un’area vasta.
4.2.3 Le strategie di pianificazione in atto
Per completare il quadro conoscitivo della Bassa Reggiana diventa fondamentale
fare una ricognizione delle strategie in atto o previste indicate dai vari strumenti
di pianificazione ai vari livelli amministrativi.
La nuova stagione urbanistica, iniziata con la L.R. 20/2000, ha portato nella
seconda metà dei primi anni 2000 a un generale processo di scrittura di nuovi
piani urbanistici comunali.
Oggi già quattro degli otto comuni appartenenti all’Unione dei Comuni Bassa
Reggiana dispongono, infatti, di un PSC approvato (Guastalla 2009, Luzzara 2008,
Novellara 2009, Poviglio 2007) più il Comune di Boretto che ha elaborato un
Documento Preliminare nel 2007.
Contemporaneamente anche la Provincia s’è dotata d’un nuovo PTCP adottato nel
2008, e approvato nel 2010.
In questo piano è di particolare interesse la definizione degli “Ambiti di
Paesaggio”, definiti in base alle peculiarità di un territorio, alle caratteristiche
paesistiche e alla relazione che questi caratteri hanno con le strategie di sviluppo.
Gli ambiti hanno una natura fortemente interpretativa e progettuale, mettendo
sotto un unico cappello (definito dalle condizioni economiche, sociali, insediative,
ecologiche e identitarie) un insieme di elementi eterogenei: un’interpretazione
territoriale che cerca di trascendere dai confini amministrativi e di disegnare un
quadro completo
La Bassa Reggiana si ritrova tutta inserita nell’ambito denominato “Comunità del
Po”, pur avendo nei comuni di Novellara, Reggiolo e Poviglio zone di transizione e
sovrapposizione con altri due ambiti, rispettivamente “Pianura Orientale” nei primi
due e “Val d’Enza e Pianura Occidentale” a Poviglio.
166
Al fine di dare maggior completezza, s’è deciso di guardare anche i piani regionali
di settore, così da disporre di un quadro completo delle politiche per ogni
sistema.
Le tavole di piano di riferimento sono sostanzialmente tre:
-
Tavola del “Sistema della mobilità” del PTCP (allegato 2.1);
-
Tavola di “Assetto territoriale degli insediamenti e delle reti della mobilità e
del territorio rurale” del PTCP (allegato 2.2);
-
Carta di “Assetto strategico” del PRIT 2020 (allegato 2.3).
Sarà quindi compito di questo paragrafo individuare i temi che emergono con
maggior forza, cercando di capire quali sono gli assi forti su cui i Comuni pensano
il proprio sviluppo, quali sono le contraddizioni tra essi e quali, invece, i temi che
evidenziano un sentire comune.
Tutto questo verificando la coerenza con i livelli di pianificazione superiore.
Per fare ciò s’è optato di dividere le strategie secondo quattro temi, che ricalcano
la divisione in sistemi utilizzata dagli ambiti di paesaggio del PTCP.
Si avranno quindi altrettante griglie di comparazione per il sistema ambientale e
rurale, il sistema infrastrutturale, il sistema insediativo e il sistema socioeconomico, entro le quali verranno inserite le strategie che ogni piano enuncia.
A questa fase ricognitiva ne seguirà una in cui si cercherà di dare una visione
sinottica delle strategie, guardando quali di esse si prestano a disegni
sovracomunali e qual è l’idea generale di assetto del territorio che deriverebbe
dall’attuazione di tali politiche.
167
Tabella 4.3: Sistema ambientale e rurale
PIANI
REGIONALI
PTCP
(AMBITO
COMUNITÁ
DEL PO)
•
•
•
•
•
•
•
•
PSC
BORETTO
•
•
•
•
•
PSC
GUASTALLA
PSC
LUZZARA
PSC
NOVELLARA
PSC
POVIGLIO
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Golena di Gualtieri, Guastalla, Luzzara e Valli di Novellara inserite nella rete Natura
2000
Istituzione aree di riequilibrio ambientale area Cadarein di Gualtieri (Guastalla ha
rinunciato a inserire area Crostolina)
Progetto rete ecologica del Po, potenziandone funzionalità e connessioni con
entroterra agricolo
Potenziamento aree umide “Valli di Novellara” e loro connessione a rete ecologica
Salvaguardia varchi agricoli e contenimento diffusione insediativa
Gestione unitaria golena anche per uno sviluppo culturale/ricreativo a 360°
Salvaguardia aree golenali da coniugare a quella delle aree periurbane, cercando
di evitarne l’aggressione edilizia e scoraggiando i processi insediativi
Riqualificazione paesaggio con recupero di volumi agricoli dismessi per scopi
produttivi
Sviluppare polmoni verdi interni
Sviluppare rete ciclabile in un sistema che si ampli all’entroterra agricolo e arrivi fino
alle Valli di Novellara
Riqualificazione aree porduttive lungo il Po, rendendole spazi bonificati e
riqualificati da far fruire alla città (rilievo sovralocale)
Riconoscere ruolo ecologico al territorio rurale
Non consumare altro suolo, contenendo sviluppo urbano e riconoscendo le
connessioni ecologiche e riconoscibilità dei centri
Ambiti ambientali come maglia del territorio
Salvaguardia golena e sua valorizzazione tramite la riconversione delle cave e
creazione di un parco attrezzato del Crostolo
Gestione della fascia fluviale da realizzare in modo intercomunale
Salvaguardia agricoltura per ragioni economiche, paesaggistiche e ambientali
Riqualificazione margini urbani per evitare dispersione insediativa
Sistema ecologico delle Valli di Novellara da valorizzare e sfruttare per il loro valore
ambientale e turistico
Salvaguardia delle aree agricole periurbane, prevedendo agroparchi
Novellara come Transition Town
Salvaguardia agricoltura contro il rischio sprawl
Centralità del settore agricolo e sua conseguente tutela anche in termini
paesaggistici e ambientali
Salvaguardia aree periurbane per impedire sprawl
Analizzando la tabella 4.3, tutta la nuova stagione di piani comunali pare recepire
quelle che sono le linee guida regionali e provinciali, evidenziando l’importanza
del sistema golenale del Po e delle Valli di Novellara nel disegnare e dare una
maglia al territorio.
Non a caso il “Contesto del Po” e il “Contesto Valli di Novellara” sono i due
contesti paesaggistici di rilievo provinciale che riconosce il PTCP nell’ambito di
paesaggio “Comunità del Po”, mentre la Regione ha inserito queste due aree nella
rete Natura 2000.
I comuni rivieraschi (Boretto, Guastalla e Luzzara) pongono poi una particolare
enfasi sul sistema Po, individuando come necessaria una visione sovralocale su
questo tema, anche con un’ottica culturale e ricreativa.
Per realizzare ciò sarà molto importante la riqualificazione di molte aree
produttive o di cave che insistono nelle aree golenali.
168
Un’analoga sensibilità è riscontrabile anche sul tema agricolo.
Non a caso in tutti i piani si afferma la necessità di mettere un freno al consumo
di suolo, tutelando i margini periurbani e salvaguardando i varchi agricoli.
È interessante anche notare come si sia presa coscienza del valore non solo
produttivo dell’agricoltura, vista come fondamentale fattore ecologico, culturale e
ambientale.
Questo è un chiaro segno di come vent’anni d’indicazioni in questo senso
provenienti dall’Unione Europea dopo le varie riforme della PAC abbiano
attecchito anche nel campo del planning.
Con il progetto di una rete ecologica del Po che sia collegata con l’entroterra
agricolo e sia connessa al sistema delle Valli di Novellara, si dà una visione
maggiormente organica del sistema ambientale, sottolineando l’assoluta
necessità di tenere uniti in un unico disegno il sistema golenale (a nord) e quello
agricolo (a sud).
Per garantire una connettività ambientale nord-sud particolare importanza riveste
il sistema di torrenti e di canali di bonifica: entro questa visione si trova, infatti, il
parco urbano del Crostolo definito ma non ancora realizzato dal PSC di Guastalla.
Per realizzare queste connessioni sembra fondamentale il ruolo di una rete
ciclabile che aumenti la fruizione degli ambienti naturali e permetta anche il
collegamento fra i centri.
169
Tabella 4.4: Sistema infrastrutturale
PIANI
REGIONALI
(PRIT 2020
ADOTTATO)
PTCP
(AMBITO
COMUNITÁ
DEL PO)
PSC
BORETTO
PSC
GUASTALLA
PSC
LUZZARA
PSC
NOVELLARA
PSC
POVIGLIO
STRADALE
• Completamento SP62 verso casello Reggiolo (allacciamento autostrada cispadana) e
verso il territorio parmense (futura connessione con Ti-Bre)
• Realizzazione tangenziale di Novellara
FERROVIARIO
• Potenziamento ed elettrificazione linee Parma-Suzzara e Reggio-Guastalla,
rendendole un servizio metropolitano con cadenza di 30’/60’
• Connessione con linee AV/AC, dando particolare rilievo alla linea Reggio-Guastalla
• Miglioramento delle stazioni in un’ottica di accessibilità e integrazione.
LOGISTICO
• Scalo di San Giacomo definito come “privato o di servizio”
• Porto di Boretto come scalo idroviario. Tema trasporto fluviale legato a
regimentazione
CICLOPEDONALITÀ
• Connessione a rete europea Ciclovelo 8 sull’asse del Po
Visione d’insieme è quella di un corridoio infrastrutturale cispadano
STRADALE
• Completamento SP62 verso Casello Reggiolo
• Valorizzazione vecchie strade d’argine e vecchie statali che passano i centri
FERROVIARIO
• Nuova linea TiBre Ferroviaria (accennata)
• Potenziamento Parma-Suzzara e Reggio-Guastalla, elettrificandole e trasformandole
in un servizio metropolitano, importante per la connessione a linea AV/AC
• Stazioni come nodi d’interscambio funzionali
LOGISTICO
• Potenziamento dello scalo merci di S.Giacomo
• Potenziamento del Porto Fluviale di Pieve Saliceto come nodo logistico
• Creazione di un polo logistico integrato a Reggiolo/Rolo
CICLOPEDONALITÀ
• Creazione viabilità ciclopedonale che connetta tra di loro i centri e permetta
collegamento tra golena e territorio agricolo (lungo canali e bonifiche)
• Potenziare le direttrici infrastrutturali in senso EST-OVEST (SP62+FERROVIA) e
NORD-SUD (dal Porto al casello di Campegine)
• Previsto corridoio di salvaguardia per ipotesi nuova ferrovia TiBre Cispadana
• Superamento del nodo di Tagliata per collegamento più rapido con SP62
• Sviluppo di un corridoio cispadano integrato anche con TiBre ferroviaria per un
trasporto sostenibile di persone e merci
• Miglioramento intermodalità
• Potenziamento scalo merci di S.Giacomo
• Sviluppo sistema ciclabile che colleghi centro con le frazioni e i collegamenti con le
stazioni
• Realizzazione variante SP2 verso Reggiolo (Riqualificazione Villarotta)
• Riqualificazione ex SS62 in ambito urbano
• Potenziamento linea ferroviaria Parma-Suzzara per garantire intermodalità e come
veicolo di riqualificazione centri
• Previsione corridoio fattibilità per TiBre ferroviaria
• Realizzare la nuova tangenziale
• Distribuzione nodi infrastrutturali verso nuova stazione TAV, casello di Reggiolo e
Guastalla.
• Linea ferroviaria Reggio-Guastalla come metro di superficie con frequenza ogni 30’
• Posizione Baricentrica di Poviglio rispetto ad assi Est-Ovest (Cispadana) e Nord-Sud
(Statale Val d’Enza)
• Integrazione con sistema ferroviario in caso di potenziamento della Parma-Suzzara
• Promozione di itinerari ciclabili sui segni territoriali più importanti
Le strategie relative al sistema infrastrutturale si possono definire totalmente
coerenti tra i Comuni e la Provincia, mentre qualche discrepanza si avverte con il
PRIT attualmente adottato dalla Regione.
170
1. Sub – sistema Stradale
La novità più rilevante sull’assetto viario sarà la ormai imminente Autostrada
Regionale Cispadana che dal casello di Reggiolo arriverà fino a Ferrara,
collegandosi al raccordo autostradale RA8 “Ferrara-Porto Garibaldi”.
In tal modo si otterrà un collegamento tra la A22 del Brennero con la A13
Bologna-Padova, creando una concreta alternativa ai flussi che insistono sull’asse
Via Emilia/A14.
Quest’opera, che inizia nel territorio della Bassa reggiana, dove diventerà
necessario completare le opere di completamento della SP62 verso il casello di
Reggiolo e verso il territorio Parmense collegando il tronco di variante che
termina a Brescello con quello di Coenzo (PR).
In tal modo si completerà tutta l’ossatura viabilistica cispadana, garantendo anche
una rapida connessione con la futura autostrada TiBre che collegherà la A15 della
Cisa con la A22 del Brennero all’altezza di Nogarole Rocca (VR).
L’altra opera che viene identificata in tutti i livelli di pianificazione è quella della
tangenziale di Novellara, in corso di realizzazione ma ferma per un’ingiunzione
antimafia del Prefetto di Reggio, che consentirebbe una più rapida connessione
tra la Bassa Est con il Capoluogo.
Infine, il PTCP riconosce il tema della valorizzazione delle vecchie strade d’argine e
delle statali che passano per i centri storici come modo con cui riqualificare anche
brani di tessuto urbano. Questo aspetto è stato recepito in modo evidente dal
solo PSC di Luzzara.
2. Sub – sistema ferroviario
Sul sistema ferroviario si notano le maggiori discrepanze tra i livelli di piano.
A tutti i livelli si riconosce la necessità di potenziare le due linee ferroviarie ParmaSuzzara e Reggio-Guastalla, elettrificandole e disponendo un servizio di tipo
metropolitano (un treno cadenzato ogni 30 o 60 minuti), cosa già prevista, tra
l’altro, dal PRIT 2010 ma mai realizzata.
In particolare, la linea Reggio-Guastalla avrà l’importante funzione di collegare il
territorio della Bassa con la stazione Mediopadana dell’alta velocità.
Altro tema che viene sostanzialmente ribadito in tutti i piani è quello del ruolo
delle stazioni, da riqualificare e da rivedere come nodi dell’integrazione modale.
171
Dove si trovano discrepanze è sul progetto di realizzare una nuova linea
ferroviaria commerciale cispadana parallela alla SP62, denominata TiBre
ferroviaria.
Questa idea, promossa da FER nel 2005, trova oggi un riscontro solo nei PSC di
Guastalla, Luzzara e Boretto, i quali riservano un corridoio di salvaguardia per
l’ipotesi della nuova linea.
Nel PTCP, la TiBre ferroviaria viene definita come una possibilità e anche nella
cartografia è solo rappresentata da due frecce ideogrammatiche.
Nel PRIT 2020 appena adottato non si fa invece alcun riferimento a quest’opera,
desumendo un attuale disinteresse della Regione.
3. Sub – sistema logistico
Il PTCP riconosce tre nodi logistici nel territorio della Bassa reggiana, i quali
vengono tutti confermati dai PSC dei rispettivi comuni.
Due sarebbero potenziamenti di strutture già esistenti (Porto fluviale di Boretto e
Scalo merci di S.Giacomo di Guastalla), mentre all’altezza del casello di
Reggiolo/Rolo si prevede la creazione di un polo logistico integrato.
Il PRIT conferma il Polo di San Giacomo, non prevedendo però alcun
potenziamento, e il Porto di Boretto come scalo idroviario anche se, in questo
caso, i discorsi di espansione solo legati al tema della navigabilità fluviale e
quindi della regimentazione dell’alveo.
Manca nel PRIT il polo logistico di Reggiolo/Rolo.
Questo perché le strategie regionali tendono a concentrarsi sul potenziamento
lungo la linea forte della Via Emilia, come per esempio sullo scalo di
Dinazzano/Marsaglia, e a inserire aree logistiche solo dopo aver verificato le
dinamiche del sistema produttivo di un’area e l’effettiva richiesta.
4. Ciclopedonalità
Oltre alla connessione tra i centri e tra le aree ambientali, già sottolineata nel
sistema ambientale, è interessante notare come la Regione voglia inserire la rete
esistente lungo il Po nel sistema europeo “Ciclovelo”, come già accade in territorio
mantovano.
172
Tabella 4.5: Sistema insediativo
PIANI
REGIONALI
(PTR)
PTCP
(AMBITO
COMUNITÁ
DEL PO)
•
•
•
•
•
•
•
•
PSC
BORETTO
PSC
GUASTALLA
PSC
LUZZARA
PSC
NOVELLARA
PSC
POVIGLIO
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Fascia Bassa reggiana tra quelle con indice di territorio urbanizzato più alto e inserita
in “area centrale con alta densità demografica e dispersione insediativa)
Strategie regionali chiaramente contro sprawl e dispersione
Gerarchizzare sistema urbano non seguendo sviluppi arteriali ma potenziando le
fasce tampone ribadendo il sistema policentrico attuale
Salvaguardia da consumo di suolo, con inserimento quote massime edificazione
Riqualificare margini urbani verso campagna
Delocalizzare funzioni incongrue da golena
Riqualificazione e rafforzamento sistema insediativo produttivo, individuando
ambiti sovralocali (Boretto/Poviglio-Reggiolo/Rolo)
Necessità di promuovere politiche intercomunali più integrate e più forti per
raggiungere una maggiore efficienza territoriale
Riduzione indici edificatori e aumento dotazioni territoriali
Scoraggiare processi insediativi in aree marginali per tutelare mosaico paesaggistico
Ridefinizione margini urbani e rafforzamento delle frazioni in logica di
consolidamento dei ruoli
Rafforzamento area produttiva intercomunale a Sud dell’abitato
Politiche abitative da guardare ad una scala intercomunale
Evitare saldature tra i centri
Necessità di rafforzare il sistema insediativo sulla linea ferroviaria
Trasferimento di aziende collocate in aree centrali in parti più periferiche
Riqualificazione sistema aree centrali dismesse o di futura dismissione a cui dare
una visione e una struttura unitaria
Rafforzamento delle frazioni
Sistema insediativo e ambientale considerati come speculari
Assunzione di un aspetto compatto per evitare sprawl
Riqualificazioni intra-centri e nei margini urbani
Distinzione netta urbano/agricolo
No a poli produttivi sovracomunali
Progettare uno sviluppo sostenibile contro il consumo di suolo
Costruire sul costruito
Uso della perequazione territoriale per creare parchi urbani
Salvaguardia aree agricole periurbane
Individuazione del Polo produttivo sovracomunale
Mantenimento assetto compatto per evitare sprawl
Aumento degli standard per servizi
Mantenere un assetto policentrico, ribadendo le gerarchie urbane e concentrando
gli sviluppi edilizi in modo razionale è l’obiettivo sia della Provincia che dei
Comuni.
Il PTR evidenzia come il fenomeno dello sprawl sia sempre più attuale, anche nella
Bassa Reggiana, per questo le politiche devono concentrarsi su un minor
consumo di suolo.
Non a caso tutti i PSC rimarcano come aspetti fondamentali la ridefinizione dei
margini urbani, cercando di evitare lo sviluppo arteriale e la fusione dei centri.
Il paradigma della città compatta sembra pervadere queste scelte, dichiarando di
voler preferire costruire sul costruito, puntando ai recuperi urbani.
Ogni Comune mette però in previsione nuove aree edificabili, andando in un
certo modo contro i loro stessi principi.
173
Il richiamo del PTCP alla necessità di promuovere politiche intercomunali più
integrate per raggiungere un’efficienza territoriale maggiore è sicuramente
interessante, anticipando la necessità di pianificare il sistema insediativo e le
politiche abitative con un’ottica d’area vasta.
Ciò avviene già per le politiche di riqualificazione del sistema produttivo che
individuano solo due poli sovracomunali a Poviglio/Boretto e Reggiolo/Rolo in
cui concentrare i futuri possibili sviluppi insediativi.
Tabella 4.6: Sistema socio – economico
PIANI
REGIONALI
(PTR)
PTCP
(AMBITO
COMUNITÁ
DEL PO)
PSC
BORETTO
PSC
GUASTALLA
PSC
LUZZARA
PSC
NOVELLARA
PSC
POVIGLIO
•
Riconoscimento di un tessuto produttivo robusto e grandi standard produttivi
agricoli
•
•
•
Il territorio deve promuovere più servizi collettivi, localizzando funzioni d’eccellenza
Rafforzamento del settore manifatturiero, in particolare meccanico
Promozione di un sistema integrato di soft-economy basata sul turismo culturale e
ambientale
Riqualificazione del sistema formativo con un’accentuazione dei caratteri
tecnico/scientifici
Politiche welfare e servizi da concepire in quadro sovracomunale
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Politiche welfare e servizi da concepire in quadro sovracomunale
Guastalla come centro di un bacino di oltre 60.000 persone e perno dell’erogazione
dei servizi sovracomunali
Creazione di servizi nelle frazioni, soprattutto rivolti alle fasce d’età scolare
Politiche welfare e servizi da concepire in quadro sovracomunale (con riferimenti a
PTCP e Piano Strategico Bassa 2004)
Rilevanza dei flussi migratori, aspetto che deve influenzare le strategie di piano
Comune con servizi di rilevanza sovracomunale, non subalterni ma complementari
ad altri poli vicini
Progettazione di incubatori d’impresa
Realizzazione di un centro commerciale naturale
Aumentare gli standard dei servizi
Politiche welfare e servizi da concepire in quadro sovracomunale (con riferimenti a
Piano Strategico Bassa 2004)
Il sistema socio-economico non è di certo tra gli aspetti più esplorati dalla
pianificazione territoriale, trovando maggior rilevanza nel quadro conoscitivo che
nelle componenti strutturali del piano.
Essendo tutti iniziati a metà anni 2000, i piani si basano su una situazione pre-crisi
che appare oggi piuttosto inattuale, soprattutto sui trend di crescita economica e
demografica previsti. Tutti i piani enunciano la solidità del settore manifatturiero
e dei grandi standard produttivi agricoli di un territorio che a fine decennio era ai
vertici italiani per ricchezza e qualità della vita. Ma certamente gli scenari di
sviluppo futuri sono destinati a mutare.
174
Tra tutti i piani presi in considerazione, il solo PTCP cerca di fornire linee guida su
cui concentrare strategie di sviluppo.
Molto importante è il riconoscimento della necessità di riqualificare il sistema
formativo in direzione tecnico/scientifica, anche come strumento per rafforzare il
settore meccanico che caratterizza il territorio.
In più si suggerisce di promuovere forme di soft-economy basate sul turismo
culturale ed ambientale, sfruttando un potenziale inespresso e non ancora
organizzato con organicità.
Nei PSC i comuni mettono in evidenza soprattutto il sistema del welfare,
sottolineando la necessità di una programmazione collettiva dei servizi; cosa che
sta effettivamente avvenendo attraverso l’istituzione dell’Unione dei Comuni.
Tabella 4.7: Quadro di sintesi
PIANI
REGIONALI
•
PTCP
(AMBITO
COMUNITÁ
DEL PO)
•
PSC
BORETTO
PSC
GUASTALLA
PSC
LUZZARA
PSC
NOVELLARA
PSC
POVIGLIO
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
PTR riconosce le “città effettive e sistemi complessi d’area vasta”. Bassa reggiana
dovrebbe essere inserita nella “fascia cispadana” ma non c’è alcun accenno
specifico al territorio reggiano
Ambito nasce per dare visione sovralocale ad una realtà eterogenea, come si può
notare dai 4 sistemi che delinea
Maggior enfasi rispetto ai comuni alle dinamiche di sviluppo economico
Sistema della mobilità, dei trasporti e della logistico
Sistema Po e delle Golene, sottolineando come anche le grandi aree di
riqualificazione necessitino di una visione d’area vasta nella loro ridefinizione
Polo produttivo sovracomunale
Rete ciclabile
Sistema della mobilità, dei trasporti e della logistica
Sistema del welfare e dei servizi
Sistema Po e delle Golene (smentito da fatti)
Sistema insediativo (unico) e politiche abitative, negando specializzazione
funzionale del territorio
Rete ciclabile
Sistema mobilità e trasporti
Sistema del welfare e dei servizi
Sistema Po e delle Golene
Ambiti produttivi
Importanza rapporti sovra-provinciali con Suzzara (esempio nuova scuola
elementare tra i due comuni nella zona di Codisotto)
Sistema mobilità e trasporti
Sistema del welfare e dei servizi
Segue PTCP sul sistema delle Valli
Sistema mobilità e trasporti
Sistema del welfare e dei servizi
Polo produttivo sovracomunale
Rete ciclabile
La lettura dei piani permette di individuare le idee forti che sono in essere,
individuando le strategie che necessitano di una visione d’area vasta e quelle su
cui c’è maggior consapevolezza comune.
175
In primis, emerge il bisogno di completare un corridoio infrastrutturale integrato,
sfruttando la nuova variante alla SP62 e potenziando la rete ferroviaria, cercando
di garantire maggior integrazione modale per il trasporto passeggeri,
rivitalizzando il ruolo delle stazioni, e per il trasporto merci, individuando alcuni
nodi logistici.
In questo asse non viene considerato il trasporto fluviale, rimandando solo al
ruolo del Porto di Boretto, causa anche l’incertezza delle politiche regionali e
nazionali su quest’aspetto.
Di certo ci sarebbero tutti i presupposti per creare un corridoio cispadano “strada
– ferro - acqua”.
A ciò s’aggiunge il tema del collegamento con la rete AV/AC tramite la linea
ferroviaria Reggio-Guastalla che dovrebbe assumere un carattere di tipo
metropolitano.
Se si attuassero questi progetti si creerebbero i presupposti per dare
un’alternativa concreta ai flussi di persone e merci che oggi insistono sugli assi
storici del Nord Italia (A1-A4-Brennero), rendendo la Bassa Reggiana un territorio
meno periferico e più attrattivo.
Resta da capire come si evolverà il progetto della nuova linea merci ferroviaria
TiBre, un’opera che, con la trasformazione in metropolitana di superficie delle
linee esistenti, consentirebbe di ripensare completamente alcune zone urbane
consolidate.
Il sistema ambientale e quello insediativo sono concepiti in modo altamente
integrato.
Si avverte la necessità di limitare l’espansione edilizia e il consumo di suolo,
obiettivo realizzabile solo con serie politiche di tutela attiva dell’ambiente e del
territorio agricolo.
In particolare emerge la necessità di creare una rete ecologica che connetta gli
ambiti golenali del Po con la campagna nell’entroterra e con le Valli di Novellara,
salvaguardando i varchi agricoli in modo da evitare la saldatura tra i centri.
Ne consegue che si dovrà procedere a politiche di compattamento urbano,
puntando soprattutto sulla riqualificazione.
176
Particolare importanza riveste il sistema del Po, dove s’è ormai consolidata una
cultura dell’agire in rete e dove si rimanda alla necessità di integrare sempre più le
politiche dei diversi comuni.
Questo è anche il frutto di un processo, ormai decennale, iniziato con i piani di
messa in sicurezza idraulica successivi alla piena del 2001 e continuato poi con il
programma “Po fiume d’Europa” a metà anni 2000.
L’integrazione dei servizi e una visione comune del sistema del welfare riflette nei
piani un’esperienza consolidatasi attraverso l’Unione dei Comuni e che negli
ultimi anni s’è ulteriormente rafforzata.
Manca invece qualsiasi riferimento alle politiche economiche, anche per il ruolo
stesso del PSC che non è deputato a ciò, mentre si trovano accenni interessanti
nel PTCP.
Ma in un momento in cui tutto il sistema economico si sta rimettendo in
discussione e necessita di nuove idee forti per poter ripartire, anche l’attività di
pianificazione dovrà dedicare maggiore attenzione a questi temi.
Questo percorso individua e interpreta i temi dei PSC entro gli schemi del PTCP,
facendo emergere come siano soprattutto tre i temi cruciali della pianificazione
d’area vasta: il tema ambientale – agricolo – insediativo, il tema infrastrutturale e
della mobilità, il tema economico – sociale.
Tra questi temi, solo quello legato alle infrastrutture non sembra idoneo ad
essere sviluppato alla scala intercomunale, in quanto trova la sua dimensione
pertinente a livello regionale.
S’è rilevato anche come il PTCP fosse uno strumento che realmente ha cercato di
porre un freno allo sviluppo edilizio e i cui primi frutti stavano arrivando solo ora.
Eliminarli o depotenziarli riaprirebbe molti problemi sulla coerenza delle scelte
alle quali il PTCP è riuscito a dare risposte. Se da un lato, su alcuni temi,
provvederà la Regione a sopperire al venire a meno della pianificazione
provinciale, dall’altro sempre di più si vede nelle Unioni dei Comuni l’ente più
adatto per garantire coordinamento e solidarietà territoriale.
Il fatto che ogni Comune abbia però adottato un proprio PSC in tempi recenti è
forse il più grande ostacolo oggettivo alla realizzazione di piani intercomunali
capaci di sostituire quelli provinciali.
177
La pianificazione intercomunale dovrà trovare la propria legittimazione nella
necessità e nell’urgenza di reinterpretare il territorio alla luce del riassetto degli
enti locali e dell’emergere di dinamiche e problemi, come il consumo di suolo, che
stanno diventando sempre più rilevanti.
4.3 Scenari alternativi per la pianificazione territoriale d’area vasta in EmiliaRomagna
L’Emilia-Romagna, che dal 1976 al 2008 ha perso 220.185 ettari (il 15%) di territorio
agricolo (di cui circa 18.000 dal 2003) e ha quasi raddoppiato la superficie edificata,
che è passata da 107.210 ettari a 207.776. Essa soffre, come tutta Italia, del
problema del consumo di suolo (Regione Emilia-Romagna, 2011).
Quindi, anche una Regione che è riconosciuta a livello nazionale per le buone
pratiche di pianificazione non è esente da critiche su com’è stata gestita la risorsa
suolo negli ultimi trent’anni.
L’analisi fin qui condotta indica come la cooperazione intercomunale possa essere
la scala in cui esercitare molte competenze che sono spettate fino ad oggi alle
Province, le quali attraverso i PTCP erano uno dei pochi attori che mettevano in
campo politiche per contenere il fenomeno del soil sealing.
Questa soluzione può essere adottata in tempi rapidi in Regioni mature sul tema
dell’intercomunalità, come l’Emilia-Romagna, la quale negli ultimi vent’anni aveva
delegato molte competenze alle Province in materia di pianificazione del
territorio.
Con l’ultima proposta di legge sul riordino territoriale, l’Emilia-Romagna non solo
estenderà le Unioni dei Comuni su tutto il territorio ma obbligherà alla gestione
associata delle competenze di pianificazione urbanistica e territoriale.
È quindi opportuno chiedersi con quale strumento si intenderà governare queste
politiche.
L’Emilia-Romagna ha istituito forme di pianificazione intercomunale già dalla
riforma urbanistica del 2000 e con la legge 6/2009 ha istituito PSC intercomunali
legati direttamente ad Unioni dei Comuni. La legge fa però riferimento a un
quadro istituzionale ormai anacronistico; il PSC intercomunale non dispone di
poteri capaci di garantire il coordinamento e la coerenza di un ambito d’area
vasta.
178
Da questo punto di partenza si possono quindi immaginare scenari alternativi su
quale sia la forma di piano più idonea per garantire un governo del territorio
d’area vasta.
Il primo scenario immagina la diffusione del PSC intercomunale a tutte le Unioni,
vecchie e nuove, che conseguiranno dal Programma di riordino territoriale.
Il secondo scenario intende invece immaginare un quadro più desiderabile, con
uno strumento di pianificazione intercomunale ad hoc, più selettivo del PSC e
capace di assumersi aspetti che fino ad oggi appartenevano alla pianificazione di
scala provinciale.
4.3.1 Lo scenario tendenziale: il PSC intercomunale
Nel secondo capitolo si è già discusso lo strumento del PSC intercomunale,
stabilito dalla legge 6/2009 come evoluzione del PSC in forma associata.
Dal momento che entro il 2014 tutto il territorio dell’Emilia-Romagna sarà
ricompreso in ambiti ottimali di gestione delle funzioni associate, è intuibile come
in materia di pianificazione urbanistica si incoraggerà la diffusione del PSC
intercomunale.
Attraverso la riforma del 2009 si è introdotta una precisazione nella logica del PSC,
puntualizzando su alcuni aspetti che nella versione originale del 2000 lasciavano
incomprensioni e zone d’ombra sull’attribuzione di indici e potenzialità
edificatorie.125
La prima stagione di PSC ha prodotto, all’anno 2009, 102 piani approvati e 58
piani adottati, per un totale di 160 Comuni (su 341 totali) che hanno intrapreso il
passaggio alla pianificazione strutturale.
125
La Legge 20/2000 definiva in tal modo il PSC all’Art.28, commi 1 e 2: “. Il Piano Strutturale Comunale
(PSC) è lo strumento di pianificazione urbanistica generale che deve essere predisposto dal Comune,
con riguardo a tutto il proprio territorio, per delineare le scelte strategiche di assetto e sviluppo e per
tutelare l'integrità fisica ed ambientale e l'identità culturale dello stesso.
2. Il PSC in particolare:
a) valuta la consistenza, la localizzazione e la vulnerabilità delle risorse naturali ed antropiche presenti
nel territorio e ne indica le soglie di criticità;
b) fissa i limiti e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni pianificabili;
c) individua le infrastrutture e le attrezzature di maggiore rilevanza, per dimensione e funzione;
d) classifica il territorio comunale in urbanizzato, urbanizzabile e rurale;
e) individua gli ambiti del territorio comunale secondo quanto disposto dall'Allegato e definisce le
caratteristiche urbanistiche e funzionali degli stessi, stabilendone gli obiettivi sociali, funzionali,
ambientali e morfologici e i relativi requisiti prestazionali;
f) definisce le trasformazioni che possono essere attuate attraverso intervento diretto, in conformità alla
disciplina generale del RUE di cui al comma 2 dell'art. 29”.
179
Altri 106 Comuni avevano iniziato il processo di pianificazione e solo 77
municipalità hanno ancora il vecchio PRG.
In questa fase, la tripartizione dello strumento di pianificazione generale, ha
portato a un notevole incremento dei tempi e dei costi di redazione e di
approvazione (Baldini, 2009).
Inoltre, molto spesso i PSC sono stati interpretati come un restyling dei PRG,
prevedendo indici, zonizzazioni e volumi da realizzare, non interpretando del
tutto l’ispirazione originaria della legge.
La Legge 20/2000 disponeva anche la possibilità di realizzare piani in forma
associata, come possibilità dei Comuni all’interno delle logiche degli accordi
territoriali definiti dall’Articolo 15.
Nei rapporti prodotti dalla Regione per rendicontare la situazione degli strumenti
di pianificazione, i numeri forniti non sono molto precisi sulla diffusione delle
forme associate.
Infatti, dicendo soltanto che sono ben 156 i Comuni che hanno adottato
procedure per la pianificazione urbanistica associata, si omette di precisare le
forme della collaborazione tra i Comuni.
Nella maggior parte dei casi gli accordi erano tra pochi Comuni limitrofi, slegati
dalla dimensione associativa dell’Unione, e riguardavano la stesura di un quadro
conoscitivo o di atti d’indirizzo unitari.
Sono stati molto più rari i casi di PSC redatti interamente in forma associata a
livello di Unione dei Comuni, per la precisione solo sette, i quali rappresentano
ancora oggi la forma di sperimentazione più avanzata di pianificazione
intercomunale.
Uno dei casi più celebri è quello del PSC dell’Unione “Terre di Castelli”, in Provincia
di Modena, che riguarda cinque Comuni.
Benché sia iniziato nel 2005, il processo per arrivare all’adozione del piano non è
ancora terminato, a causa soprattutto dell’alternarsi delle Giunte e al mutamento
della situazione socio-economica che ha portato a rivedere il quadro conoscitivo.
Secondo l’Arch. Gianferrari, Dirigente della Struttura “Pianificazione territoriale”
dell’Unione dei Comuni Terre di Castelli “La forza di questo piano sta nella
180
volontà dal basso di costruire e delineare strategie uniche per il territorio,
condividendo un modello di crescita e di sviluppo d’area vasta”.126
Rimane però un punto di estrema debolezza in questo caso studio: la competenza
urbanistica non è stata trasferita all’Unione dei Comuni, che non dispone quindi
di un unico ufficio di piano.
Ogni Comune approverà quindi lo stesso PSC (e lo stesso Rue), ma il piano potrà
essere sempre variato a piacimento da ogni municipalità all’interno dei propri
confini.
Per adesso, l’invariabilità e la coerenza del PSC sono garantita da un agreement
verbale e volontaristico tra le attuali amministrazioni, ma se ci fossero cambi di
maggioranza anche in uno dei Comuni verrebbero messe a repentaglio.
Un altro problema, sorto più recentemente, riguarda la dimensione dell’Unione, a
cui sono stati aggiunti tre Comuni appenninici provenienti da un’ex Comunità
Montana: all’interno della stessa Unione potrebbe esserci una pianificazione
territoriale a due velocità, con la necessità di introdurre un immediato raccordo
tra gli strumenti urbanistici in campo.
Di certo, anche queste contraddizioni non tolgono il valore dell’esperienza in atto,
capace di guardare a un territorio d’area vasta con strategie comuni e di generare
anche una maggior semplificazione e omogeneità normativa, organizzativa e
gestionale.
Con la riforma introdotta dalla Legge 6/2009, il PSC è stato scaricato di cogenza
operativa, precisando nel comma 1 del nuovo Art. 28 che “non attribuisce in
nessun caso potestà edificatoria alle aree né conferisce alle stesse una
potenzialità edificatoria subordinata all'approvazione del POC ed ha efficacia
conformativa del diritto di proprietà limitatamente all'apposizione dei vincoli e
condizioni non aventi natura espropriativa”.
Inoltre si precisa meglio il ruolo struttural-strategico del PSC e il suo rapporto con
il POC.
Nei commi 2 e 3 si trovano le maggiori novità:
-
Il PSC deve definire i fabbisogni insediativi soddisfabili dal POC attraverso
la
sostituzione
dei
tessuti
insediativi
esistenti
(ovvero
la
loro
riorganizzazione, l’addensamento o la riqualificazione) e quali fabbisogni
richiedono il consumo di nuovo territorio in caso non ci fossero alternative
126
L’intervista all’Arch. Gianferrari è negli allegati della tesi.
181
insediative all’interno del territorio già urbanizzato.
L’edificazione di nuovo suolo è quindi subordinata alla possibilità di
realizzare insediamenti su terreni già impermeabilizzati, introducendo un
principio fondamentale per la lotta al consumo di suolo;
-
Devono ritenersi di massima, circa l’assetto insediativo e infrastrutturale, le
indicazioni del PSC sulla localizzazione di nuove previsioni, le modalità
d’intervento, gli indici di edificabilità, lasciando al POC il compito di
precisarli senza che comporti modifiche al PSC.
Inoltre, il POC viene rafforzato notevolmente, soprattutto sugli ambiti di
riqualificazione urbana127 legati al tema dell’housing sociale, aggiungendolo tra i
compiti a cui deve ottemperare con la redazione del “Documento Programmatico
per la Qualità Urbana” per le parti di città oggetto del piano.128
Questa recente ridefinizione degli strumenti di pianificazione urbanistica sembra
in realtà più idonea alla scala intercomunale, con un PSC che può organizzare le
strategie d’area vasta e con dei POC che le declinano nei contesti locali dei
Comuni.
È anche per questo che la legge afferma in modo più netto la possibilità di
predisporre un piano intercomunale, redatto dal Comune capofila designato
dagli altri Comuni partecipanti all’accordo territoriale.129
Nell’Articolo 48 della legge 6/2009 “Interventi finanziari in favore di Province e
Unioni dei Comuni”, si esplicita che i piani intercomunali sono finanziati dalla
Regione solo per le Unioni a cui “sia effettuato il conferimento stabile ed
integrato anche della funzione comunale di elaborazione, approvazione e
gestione degli strumenti di pianificazione urbanistica”.
Inoltre, nell’attribuzione dei contributi la Regione darà priorità alle Unioni di
minor dimensione demografica e ai contesti con gli strumenti urbanistici più
datati.130
127
L.R. 6/2009, Art. 31, commi 2 bis, 2 ter, 2 quater, 2 quinquies.
Con la L.R. 6/2009, Art.31, si stabilisce al comma 2, lettera a bis, che il POC deve contenere “un
apposito elaborato denominato Documento programmatico per la qualità urbana che, per parti
significative della città comprensive di quelle disciplinate dal POC stesso, individua i fabbisogni
abitativi, di dotazioni territoriali e di infrastrutture per la mobilità, definendo gli elementi di identità
territoriale da salvaguardare e perseguendo gli obiettivi del miglioramento dei servizi, della
qualificazione degli spazi pubblici, del benessere ambientale e della mobilità sostenibile”.
129
L.R. 6/2009, Art.13, commi 3 e 3 bis.
130
L.R. 6/2009, Art. 48, comma 5.
128
182
A tre anni dalla riforma non si hanno ancora esiti compiuti di PSC realizzati in
conformità alla nuova legge, tantomeno dei quattro PSC intercomunali finanziati
dal bando del 2011.
È molto difficile immaginare che uno strumento come questo possa però
diffondersi rapidamente in tutta la Regione in modo da controbilanciare gli effetti
della razionalizzazione delle Province sulla pianificazione di coordinamento d’area
vasta.
Questo soprattutto perché la maggioranza dei Comuni si ritrova con PSC molto
recenti e il piano intercomunale non aggiunge ulteriori competenze tali da
incentivare il passaggio dal regime di piano comunale a quello svolto in modo
associato.
I Comuni che sono invece in fase di redazione del proprio PSC si troverebbero in
una situazione in cui non dovrebbero più rispondere ai limiti ed ai vincoli
preposti dalla Provincia o di fronte ad un ente molto indebolito, incapace di
imporre con la forza della legittimità democratica un disegno del territorio.
Tendenzialmente l’approdo a PSC intercomunali diffusi potrebbe realizzarsi in
tempi lunghi e reitererebbe una stagione di riti molto lunghi, lasciando quindi del
tutto inalterato il rischio di consumo di suolo nel breve periodo.
Il “nuovo” PSC è diventato maggiormente orientato alla selettività e alla
definizione di strategie e presenta certamente misure molto interessanti per
contrastare l’urbanizzazione del suolo. Manca ancora, però, di elementi capaci di
garantire davvero la possibilità di pianificare un territorio coerente e solidale,
rendendo necessario pensare a uno strumento innovativo.
4.3.2 Lo scenario desiderabile: il piano territoriale di coerenza intercomunale
La proposta di legge sul riordino territoriale della Regione Emilia-Romagna ha il
grande merito di programmare una crescente diffusione delle Unioni dei Comuni
su tutto il territorio regionale.
Inoltre, grazie ai criteri introdotti, le Unioni corrisponderanno ad un territorio
omogeneo, pertinente e di dimensioni mediamente più grandi di quelle attuali,
idoneo per interpretare le dinamiche e i problemi territoriali e di natura socioeconomica.
183
Per definire uno strumento di pianificazione diverso dal PSC intercomunale, sono
tante le esperienze da cui trarre esempi.
Il primo riferimento è il PTR (Piano territoriale regionale) del 2010 che individua le
città effettive, nate dalla necessità di adottare modelli di pianificazione territoriale
“adeguati a rispondere alla sfida della crescita della competitività territoriale e
della coesione sociale.”
A questo scopo, il PTR indicava nella cooperazione intercomunale la modalità con
cui gestire in modo unitario le relazioni socio-economiche e le esternalità dei
sistemi urbani.
Le città effettive nascono come conseguenza della dilatazione delle città, quindi
del consumo di suolo, e diventano di fatto la scala adeguata per gestire questa
nuova natura insediativa che ha assunto il territorio.
Una risposta convincente per il governo delle città effettive è individuata nella
cooperazione tra Comuni, con lo scopo di creare reti policentriche capaci di
distribuire meglio le esternalità.
Il PTR indica quindi quali competenze dovranno essere assegnate alle forme
associative:131
-
“Il coordinamento dei Piani Strutturali Comunali e dei Regolamenti
Urbanistici Edilizi;
-
Il coordinamento delle previsioni insediative dei Piani Operativi Comunali;
-
Gli schemi di esercizio dei servizi di mobilità collettiva;
-
Il
governo
dei
rapporti
fra
urbanizzazioni
e reti
ecosistemiche,
ridisegnando il limite città-campagna;
-
L’indirizzo delle trasformazioni urbane verso un modello di città effettiva
più compatta, più funzionale ed efficiente da un punto di vista energetico;
-
La riorganizzazione e razionalizzazione degli insediamenti produttivi in
aree ecologicamente attrezzate, in stretto rapporto con le infrastrutture di
mobilità di livello sovracomunale;
-
Il coordinamento delle strategie insediative per rigenerare la coesione
sociale costruendo comunità nelle quali l’abitare in un certo luogo non
131
Tratto dal “Piano territoriale regionale dell’Emilia-Romagna – La Regione sistema: il capitale territoriale
e le reti”, 2010, pag. 70.
184
significhi semplicemente un’ospitalità part-time, indifferente al luogo
ospitante.”
Emerge quindi il bisogno di uno strumento che coordini le scelte e le strategie
locali e guidi un processo di riorganizzazione dei tessuti urbani volto a garantire
un rapporto più sostenibile e virtuoso tra città e campagna.
Alla scala intercomunale si possono rintracciare almeno due esempi di piani
capaci di garantire il coordinamento territoriale: il Piano territoriale di
coordinamento comprensoriale (PTCC) degli anni ’70-’80 e lo SCOT delle forme
intercomunali francesi.
Ricordare la stagione dei Comprensori in Emilia-Romagna è molto importante
perché fu un primo tentativo di riorganizzazione dei modelli di governance volta a
sostituire le Province con una dimensione intercomunale più pertinente.
Non a caso i confini degli ambiti ottimali potrebbero ricalcare per la maggior
parte quelli dei vecchi Comprensori.
Nonostante il sostanziale fallimento di quell’esperienza, dovuto soprattutto al
rafforzamento delle Province da parte dello Stato centrale, sono ancora molto
attuali alcuni spunti presenti nel PTCC, disciplinato dall’articolo 8 della legge
regionale n.47/78.
In particolare, il PTCC provvedeva a:
-
Individuare le zone da sottoporre a norme di tutela per la difesa del suolo,
dell’ambiente e delle risorse naturali, attribuendo a tali norme il valore di
Piano territoriale paesistico;
-
Definire il piano delle attività estrattive;
-
Disciplinare le fasce di tutela a fiumi, canali, laghi, golene e zone umide;
-
Individuare le zone a prevalente destinazione agricola e forestale,
definendo norme urbanistiche quadro per le zone agricole che dovevano
essere recepite dai PRG. Inoltre, si dovevano classificare le diverse zone
agricole in funzione delle caratteristiche morfologiche e delle diverse
attività agricole;
-
Individuare le aree necessarie alla realizzazione di opere pubbliche di
carattere nazionale e regionale;
-
Definire la viabilità di interesse comprensoriale, compresa la rete
ferroviaria, tenendo conto delle indicazioni del piano regionale;
185
-
Dimensionare la capacità ricettiva turistica;
-
Predisporre il dimensionamento dei diversi settori produttivi nel rispetto
delle previsioni regionali, in base alle ipotesi demografiche e occupazionali
del Comprensorio;
-
Dimensionare e localizzare, individuando nella cartografia: le aree
necessarie per la realizzazione di attrezzature pubbliche di interesse
comprensoriale, le aree destinate a nuovi insediamenti produttivi di
interesse sovralocale e le aree destinate a insediamenti commerciali
superiori ai 1500 mq;
-
Definire i criteri per il dimensionamento delle aree di espansione comunali;
-
Predisporre normative volte a garantire uniformità dei PRG comunali;
Il PTCC era quindi un piano che oltre a declinare sul territorio le strategie
nazionali e regionali (soprattutto in materia infrastrutturale), gestiva direttamente
la tutela ambientale e paesaggistica e definiva con scrupolosità i criteri di
gestione del territorio agricolo.
Inoltre, era uno strumento che interveniva con estrema cogenza nella definizione
dei servizi e degli insediamenti di portata sovralocale, garantendo al contempo
l’uniformità delle scelte dei Comuni, i cui PRG erano subordinati ai criteri dettati
dal PTCC.
Analizzando il PTCC del Comprensorio Bassa Reggiana del 1985, si possono già
evidenziare alcuni principi tutt’ora molto validi e moderni come la ricerca di un
assetto policentrico di centri compatti che non consumano nuovo suolo ma
riqualificano superfici edificate esistenti.
Per questo si indicavano tra le misure da attuare l’edificazione lungo le linee di
trasporto pubblico ferroviario o l’istituzione di un agroparco con cui tutelare il
valore produttivo e paesaggistico della campagna.
Il tutto era supportato da un preciso studio dei trend e degli scenari demografici
ed occupazionali su cui dimensionare la futura offerta.
Il riferimento dello SCOT francese è invece necessario per le caratteristiche delle
Unioni dei Comuni dell’Emilia-Romagna, molto simili a quelle di una
Communautés d’agglomeration.
186
La proposta di legge per il riordino territoriale introduce analogie anche dal
punto di vista delle competenze delegate alla forma associativa, soprattutto sulle
funzioni urbanistiche, sulle politiche per la casa e sui servizi sociali.132
Vi è però una differenza sostanziale nell’approccio dello SCOT rispetto a quello
del PSC.
In primo luogo lo SCOT è un piano concepito per la scala intercomunale degli
EPCI, mentre il PSC intercomunale è la declinazione sovralocale di uno strumento
ancora correlato alla dimensione comunale.
La natura dello SCOT è quindi molto più indirizzata al coordinamento e
all’indicazione delle scelte locali, attuate attraverso i PLU, integrando alla
pianificazione urbanistica anche quella di settore.
Piuttosto, si rintracciano analogie tra lo SCOT e il PTCC: entrambi i piani sono
sostenuti da uno studio delle proiezioni demografiche, economiche e delle
esigenze della popolazione sui vari temi (domanda abitativa, di trasporto, di
servizi ecc.) e da un’analisi approfondita del tessuto agricolo e forestale.
Lo SCOT ha quindi l’obiettivo di stabilire gli indirizzi e le strategie da declinare poi
al livello operativo comunale, ponendo una particolare attenzione al rapporto tra
spazi naturali ed edificati e stabilendo i criteri per uno sviluppo urbano
sostenibile e coerente.
Inoltre, la regola “extension limitée de l’urbanisation”, che vieta ai Comuni posti a
meno di 15 km da una Città di 15.000 abitanti di urbanizzare nuovo suolo, ha
costituito un grande incentivo alla realizzazione degli SCOT.
Lo SCOT è la dimostrazione che un piano di coordinamento territoriale può
trovare una scala pertinente anche alla scala intercomunale.
Le Unioni dei Comuni potrebbero quindi verosimilmente elaborare piani capaci di
assorbire anche i compiti dei PTCP, i quali sarebbero fortemente indeboliti se
sviluppati da Province di secondo livello.
132
Si ricorda che le CA hanno tra le competenze obbligatorie: la pianificazione strutturale, i trasporti
urbani, le politiche abitative e le “Politique de la ville”, ovvero azioni per la riqualificazione urbana
collegate al reinserimento sociale. A queste vanno aggiunti i blocchi di competenze opzionali, come
smaltimento dei rifiuti, bonifiche ambientali, acquedotti, viabilità e parcheggi e gestione delle
attrezzature sportive e culturali. Le Unioni dei Comuni dell’Emilia-Romagna saranno invece obbligate a
esercitare in comune la pianificazione urbanistica, la polizia locale e la protezione civile e la pianificazione
dei servizi sociali.
187
Per concludere, l’analisi delle strategie in atto sul territorio della Bassa Reggiana
fanno emergere quali siano i temi sui quali c’è già oggi una sensibilità
sovracomunale.
Le problematiche ambientali, legate soprattutto alla gestione delle aree golenali
del Po e al sistema di bonifiche che attraversa le campagne di tutti gli otto
Comuni, rendono ineludibile una visione d’insieme. Legare la tutela ambientale a
quella agricola è oggi quanto mai necessario per attivare strategie coerenti contro
il consumo di suolo e per la preservazione di importanti valori culturali, produttivi
e paesaggistici.
La pianificazione in materia di protezione agricolo-ambientale è strettamente
correlata alle scelte insediative, soprattutto degli ambiti produttivi, e di
rivitalizzazione dei centri storici.
Un altro tema fondamentale, che s’evince dallo studio fatto, è quello dei trasporti
e delle infrastrutture: seppur sia vero che le scelte in questi ambiti sono di natura
sovra-regionale, una visione d’insieme univoca intercomunale sugli assetti
infrastrutturali ha certamente più voce in capitolo rispetto ai singoli Comuni
nell’andare a trattare gli assetti delle politiche regionali.
È emblematico il caso della TiBre ferroviaria, un’opera fondamentale per garantire
collegamenti commerciali più rapidi, per sgravare le linee storiche dei treni merci e
riqualificare ampie superfici centrali. Lo scarso peso politico della Bassa reggiana
in materia di politiche territoriali ha portato la Regione a eliminare il progetto dal
PRIT 2020.
Partendo da questi esempi e da questi presupposti si può quindi provare ad
immaginare quale può essere il modello auspicabile per la cooperazione
intercomunale in Emilia-Romagna, considerando possibile immaginare anche a
questa scala quello che chiamerei un piano territoriale di coerenza intercomunale
(PTCI d’ora in avanti).
In primo luogo esso dovrà essere alternativo al PSC intercomunale, pur
riprendendone alcuni aspetti derivati dall’ultima riforma, per essere interpretato
sia dagli enti locali che dai professionisti come uno strumento nuovo e diverso
rispetto a un piano che è stato interpretato secondo vecchie logiche.
Il nuovo piano dovrà essere “leggero” e capace di destrutturare dei processi
burocratici piuttosto che crearne di nuovi, animato quindi da una natura
188
strategica e selettiva dei problemi e incardinato su pochi ma precisi punti da
precisare in fase operativa, ritenendo il POC uno strumento ancora valido in
questo senso. Ciò è fondamentale per evitare il rischio di diffusione lenta dello
strumento, che invece deve avere iter approvativi rapidi per colmare i vulnus
derivanti dalla scomparsa dei PTCP e per l’urgenza imposta delle dinamiche di
consumo di suolo.
Stabilire principi di perequazione e l’istituzione di un ufficio di piano unico sono
due presupposti necessari affinché il piano abbia successo.
Pur non entrando nel dettaglio delle modalità di perequazione, che richiederebbe
una tesi a parte, è opportuno ricordare come in Francia sia stata una delle cause
della diffusione degli EPCI. Inoltre, la perequazione è una misura che garantisce la
coerenza delle scelte, in quanto non scatena gli appetiti “sviluppisti” dei singoli
Comuni per incamerare risorse.
Una soluzione potrebbe essere quella di gestire gli oneri di urbanizzazione a
livello di Unione dei Comuni o rendere l’IMU una tassa di natura intercomunale.
Creare struttura tecnica permanente, tra l’altro già prevista dalla normativa attuale
in caso di delega al livello intercomunale delle competenze di pianificazione
urbanistica, è fondamentale per poter garantire un costante supporto informativo
utile a calibrare le scelte e le strategie.
Un ultimo incentivo alla formazione in tempi rapidi del PTCI può essere la
soluzione adottata in Francia che vieta di urbanizzare nuovo suolo per i Comuni
che non si sono dotati del nuovo strumento urbanistico e che distano meno di 15
km da un centro di 15.000 abitanti.
Con queste premesse è quindi possibile indicare quali dovrebbero essere i
documenti che dovranno costituire il PTCI:
-
Un quadro conoscitivo approfondito sulle dinamiche e i trend in materia
economica, sociale, ambientale e sulle tendenze insediative e del consumo
di suolo. Questo quadro dovrà essere completato dalla stima della
domanda abitativa (sociale e non) e di spazi per l’insediamento di attività
produttive e commerciali, dalla domanda di servizi e attrezzature collettive
e da quella trasporto e mobilità. A questi dati dovranno essere aggiunti
quelli relativi all’offerta abitativa disponibile e quelli relativi al suolo
urbanizzato disponibile alle trasformazioni;
189
-
Un documento di gestione del suolo che, sulla scorta del quadro
conoscitivo, definisca e perimetri le aree edificate consolidate, quelle
edificate in cui sono possibili processi di sostituzione e le aree agricole e di
tutela ambientale che diventano inviolabili, permettendo l’edificazione ex
novo solo in funzione di un rapporto costi/benefici vantaggioso per tutto
il pubblico.133
L’obiettivo è quello di introdurre norme più stringenti
rispetto alla sola subordinazione di nuova edificazione alla verifica della
presenza di terreni già edificati disponibili. La necessità di una maggior
cogenza sul tema del consumo di suolo è dettata dalla natura del territorio
emiliano, il quale occupa una buona parte della Pianura Padana e non può
più permettersi di perdere ogni giorno ettari di terreno fertile.134
Attraverso questo documento si introdurranno anche le gerarchie del
tessuto insediativo, stabilendo poi le modalità e le indicazione per la
riqualificazione dei centri storici, per la rivitalizzazione dei tessuti urbani
periferici e per una tutela attiva del paesaggio e dell’ambiente (da precisare
in sede operativa e nel regolamento edilizio);
-
Un programma di sviluppo sostenibile attraverso il quale esplicitare le
strategie e le visioni del territorio nel medio-lungo periodo (vent’anni).
Questo programma dovrà indicare qual è il disegno della città pubblica
(servizi, attrezzature, edilizia sociale) e quali sono gli obiettivi in materia di
sviluppo economico, in materia infrastrutturale e sul trasporto e la
mobilità.
Si determineranno, quindi, quali saranno le aree consolidate, dismesse o
da recuperare entro cui attuare il piano, stabilendo i criteri di massima che
saranno poi puntualizzati dal POC.
Il programma di sviluppo dovrà definire in modo incrementale i propri
obiettivi, partendo da quelli di fattibilità immediata a quelli realizzabili in
un orizzonte temporale più ampio, secondo una lista di priorità per il
territorio.
133
Commissione Europea, 2012.
Queste misure sono in sintonia con il DDL “Valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del
consumo di suolo”, più noto come DDL “Catania” dal nome del Ministro per le politiche agricole che l’ha
proposto. Il comma 1 dell’articolo 2 del DDL determina “l’estensione massima di superficie agricola
edificabile sul territorio nazionale, tenendo conto dell’estensione e della localizzazione dei terreni agricoli
rispetto alle aree urbane, dell’estensione del suolo che risulta già edificato, dell’esistenza di edifici
inutilizzati, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche” .
134
190
L’approccio è strategico e non normativo, capace di indicare criticità e
risorse e sulla base di queste stabilire la realizzazione del programma.
Per questo motivo è necessaria una struttura tecnica efficace ed efficiente,
che monitori costantemente lo stato del territorio e la realizzazione del
piano, indicando cambiamenti di strategia se necessari.
Attraverso questa struttura, il PTCI si presenta come uno strumento che cerca di
indicare un futuro realistico del territorio mantenendo però una grande
flessibilità nel recepire i cambiamenti e le dinamiche che accadono nel contesto
territoriale.
In una stagione in cui si finanziano maggiormente singole progettualità, secondo
un modello di garbage can, che programmi ispirati da un’unica ratio, è
fondamentale assumere un’ottica orientata alla ricerca di accordi e situazioni che
rendano possibile il raggiungimento di obiettivi selettivi, inseriti in una logica
strategica incrementale.
Tenendo come punto fermo il vincolo sui suoli agricoli e di tutela ambientale, che
può apparire come una soluzione drastica, si pongono basi invariabili su cui
basare l’equilibrio territoriale, obbligando davvero a concepire città e centri più
compatti e progettati secondo criteri più sostenibili.
In un Paese che ha sempre fatto di varianti e deroghe una sua caratteristica,
consumare altro suolo alla luce dei dati che provengono dagli studi europei e
dell’Istat sarebbe un atto irresponsabile che porterebbe ad una ipoteca sul futuro
della sostenibilità dei nostri territori.
191
CONCLUSIONI
Le recenti evoluzioni politiche del dicembre 2012 hanno cambiato ulteriormente il
quadro legislativo a cui far riferimento.
La crisi del Governo Monti, la mancata conversione del D.L. n.188/2012 sul
riassetto delle Province e il rinvio della riforma all’anno successivo come stabilito
dalla legge di “Stabilità”, rischiano di generare una situazione di caos istituzionale
peggiore di quella prodotta dalle riforme stesse.
Si pone quindi un problema di “recentismo” rispetto a molte analisi e valutazioni
condotte in sede di tesi, le quali potrebbero mancare di un riscontro normativo in
un futuro prossimo.
Ciò nonostante, il lavoro svolto pone considerazioni e soluzioni che trovano una
loro validità a prescindere dai recenti avvenimenti, anche perché frutto di una
riflessione sul tema del governo del territorio ad una scala pertinente antecedenti
ai processi di riforma dell’ultimo anno.
A questo punto, il problema del riordino istituzionale può essere solo rimandato
alla prossima legislatura ma non è più eludibile, dopo un lungo processo,
mediatico e legislativo, che ha messo costantemente in discussione il futuro degli
enti locali.
Inoltre, alcune misure introdotte sull’obbligo di gestione associata delle funzioni
fondamentali per i piccoli Comuni sono diventate legge ordinaria della
Repubblica e non inficiano i processi di riforma in atto in Emilia-Romagna sulla
definizione degli ambiti ottimali.
Innanzitutto la tesi ha voluto valutare gli effetti e gli impatti che la riforma delle
Province avrebbe provocato.
Benché l’opinione pubblica si sia concentrata soprattutto sulla modifica delle
circoscrizioni, le trasformazioni più consistenti vi sarebbero state sul profilo
istituzionale e su quello delle competenze.
La ricerca dell’efficienza economica e dell’equilibrio dei conti pubblici avrebbe
reso le Province enti di secondo livello, svuotate di funzioni e risorse e con
territori molto più ampi da governare.
192
I dati offerti dagli studi condotti da CERTeT-Bocconi, dimostrano che le Province
sono state fino ad oggi l’ente pubblico più virtuoso e che una loro cancellazione
o una loro riorganizzazione non genererebbe risparmi al bilancio statale.
Di contro, la riforma porterebbe molto probabilmente a reiterare modelli di
governo del territorio che si sono rivelati col tempo dannosi.
Un ente provinciale di secondo livello aumenterebbe, quindi, la frammentazione
amministrativa e territoriale.
La mancanza di una rappresentanza scelta direttamente dai cittadini favorirebbe
negli equilibri istituzionali soprattutto i Comuni capoluogo e i grandi centri,
consolidando il modello centro-periferico gerarchico.
Non è un caso, infatti, che i vertici dell’ANCI, avessero accolto con favore le misure
introdotte dalla “Spending review”, sostenendo che con le nuove Province
sarebbero stati finalmente i Comuni a coordinarsi in autonomia.
Inoltre, il venire a meno della rappresentanza diretta indebolirebbe notevolmente
la cogenza e il ruolo dei PTCP, con il rischio di rendere quasi inutile uno dei pochi
strumenti urbanistici in grado di porre un freno al consumo di suolo.
Questo scenario, che rimane comunque futuribile e probabile, porterebbe ad
un’aggravarsi dei problemi di frammentazione che oggi vive il nostro Paese.
La logica della rete può essere un’alternativa capace di scardinare questo modello
di governo del territorio e su cui costruire politiche urbanistiche capaci di
garantire maggiore coerenza delle scelte insediative.
La cooperazione intercomunale è ad oggi lo strumento amministrativo migliore
attraverso cui la logica della rete può concretizzarsi.
I riferimenti internazionali, in particolare quello francese, dimostrano che
l’associazionismo tra Comuni permette di governare i processi e le dinamiche
territoriali con politiche ad una scala pertinente.
La Francia ha mostrato in tema di riordino dello Stato un modus operandi
completamente diverso a quello italiano.
In primo luogo l’esito finale della diffusione degli EPCI non è stato casuale e
frutto di scelta frettolose e dettate dall’urgenza, bensì è la conseguenza di un
processo graduale e durato più di un decennio.
Alla buona riuscita delle riforme hanno contribuito sia lo Stato centrale sia la
capacità dal basso di costruire reti tra i Comuni, evidenziando una reciproca
193
fiducia tra istituzioni che manca in un’Italia in cui si tende più a cercar di
screditarsi vicendevolmente.
Un altro punto fondamentale è stato nel porre elementi di chiarezza sulle
competenze e sulle funzioni, cercando di evitare il più possibile quelle
sovrapposizioni portatrici di frammentazione politica e delle politiche.
Il principio della coerenza territoriale che è alla base dell’intercomunalità francese,
non solo ricerca la scala più adeguata per erogare servizi ma anche quella
migliore per garantire coesione territoriale nelle scelte di lungo periodo.
Nel caso italiano, si sono riordinate le Province secondo standard demografici e di
estensione territoriale che hanno generato accorpamenti che producono spesso
enti di secondo livello talmente grandi da farli somigliare più a delle Regioni.
Inoltre, le Communautés assumono molte delle competenze che in Italia sono state
assegnate fino ad oggi alle Province, rendendo evidente come questa transizione
da un modello gerarchico ad uno di networking sia possibile.
Ciò avviene in particolare in materia urbanistica, dove sono gli SCOT a livello
intercomunale a garantire la coerenza e il coordinamento delle scelte dei singoli
Comuni.
La recente riforma sulle Communautés del 2010 introduce molti correttivi per
garantire una maggior solidarietà territoriale e per rafforzare la logica della rete,
interna ai singoli EPCI e tra gli EPCI stessi.
La ricerca di dimensioni ottimali, per via prefettizia, per superare il problema della
perimetrazione opportunistica dei confini, e l’elezione diretta dei rappresentanti
delle Communautés sono due innovazioni che porteranno entro il 2014 a una
diffusione degli EPCI su tutto il territorio nazionale e alla loro piena
legittimazione democratica e istituzionale.
Una
riforma
frettolosa
e
piena
di
contraddizioni
come
quella
della
razionalizzazione delle Province, può essere quindi l’occasione per sviluppare
davvero in Italia un nuovo modo di concepire la governance dei territori.
Un ruolo chiave lo avranno certamente le Regioni, cui lo Stato centrale ha
delegato la gestione della ripartizione delle competenze tra gli enti locali.
Esse sono davanti a due strade possibili: o procedere verso una centralizzazione
regionale anche di molte competenze amministrative, che aumenterebbe il
divario tra i territori, o promuovere maggiormente la cooperazione intercomunale
194
dal basso per la gestione dei servizi e come dimensione ottimale per elaborare
visioni e politiche.
L’Emilia-Romagna è certamente la Regione più matura da questo punto di vista,
presentando l’esperienza di Unioni dei Comuni più diffusa e avanzata in Italia.
Non a caso, anche l’ultimo disegno di legge in materia di riordino territoriale
tende a rendere l’Unione dei Comuni l’ente principale per l’esercizio delle funzioni
fondamentali e l’unica forma di associativismo tra Comuni finanziata e
incentivata.
In più, la ricerca di ambiti territoriali ottimali per l’esercizio associato (di almeno
30.000 abitanti, o 15.000 se si tratta di Comuni montani) sui quali far coincidere
una sola Unione va nella stessa direzione già stabilita in Francia di permettere
solo un’intercomunalità che ricada su territori pertinenti.
Questa proposta potrebbe costituire un passo importante verso la creazione di un
sistema regionale costruito attorno a Unioni dei Comuni che rispecchiano territori
omogenei e pertinenti, a loro volta in rete entro un unico frame regionale.
Ciò garantirebbe un maggior equilibrio tra le varie aree della Regione, non più
divisa in Province con un centro e una periferia ma costruita su una rete
orizzontale di territori.
In tal modo si premierebbe davvero l’Italia dei Comuni, che dal basso può essere
capace di innovare i processi decisionali e portarli alla scala effettiva dei problemi
e delle dinamiche territoriali e socio-economiche.
In tutto questo, la pianificazione urbanistica e territoriale può trovare un nuovo
ruolo, più concreto e meno legato ai rituali che fin ad oggi l’hanno
contraddistinta.
La possibilità di pensare a strumenti di piano al livello intercomunale si fa oggi
sempre più concreta e la delega delle funzioni di pianificazione territoriale alle
Unioni dei Comuni, come previsto dal progetto di legge sul riordino territoriale
dell’Emilia-Romagna, può aprire ad una stagione di sperimentazioni.
Davanti alla necessità di dover garantire il ruolo di coordinamento territoriale
anche a fronte della dissoluzione delle Province, la pianificazione territoriale
intercomunale può essere la risposta più immediata per ovviare a questo vulnus
che si verrebbe a creare.
195
In tal modo, ci sarebbe, forse, anche maggior coerenza e solidarietà delle scelte
insediative, in quanto sarebbero ponderate su un territorio più omogeneo di
quello delle Province e realizzate a partire da scelte condivise.
È quindi alla scala intercomunale che si può immaginare di creare una stagione di
piani più attenti e cogenti sui problemi del consumo di suolo e in grado di
garantire una maggior sostenibilità.
La forza della rete può quindi essere il mezzo attraverso cui ricomporre un quadro
territoriale ed amministrativo frammentato.
Una rete che non annullerebbe i Comuni, ma che ne valorizzerebbe il ruolo
sociale e identitario e che su di essi farebbe perno.
È dal sacrificio dei Comuni, che dovranno cedere sempre più sovranità ad
organismi intercomunali, che si può immaginare un nuovo sistema di governance
dei territori e una nuova organizzazione dello Stato periferico.
Di certo queste riforme possono venire dal basso, ma necessitano anche di una
guida centrale forte e capace di creare un percorso di riordino territoriale.
Questo processo dovrà essere graduale e saper guardare lontano, senza fermarsi
alle contingenze di bilanci o farsi suggestionare da campagne mediatiche che,
come s’è visto, erano spesso prive di contenuti.
196
ALLEGATI
1. Estratti delle interviste realizzate
1.1 Intervista alla Dott.sa Fiorini Graziella, funzionaria del Servizio “Affari
istituzionali e delle autonomie locali” Regione Emilia Romagna (realizzata in data 4
settembre 2012)
D. Negli ultimi vent’anni la Regione Emilia Romagna ha investito molto
sull’associazionismo tra comuni. Qual è stato il percorso?
La Regione a fine anni ’90 ha inventato lo strumento dell’Associazione
intercomunale, un unicum rispetto alle altre regioni, per facilitare un processo
d’integrazione sempre più spinto, che doveva trovare il proprio culmine nella
costituzione delle Unioni, ovvero un ente con personalità giuridica.
Dal 2009 s’è scelto di non finanziare più le Associazioni, perché una forma molto
fragile e poco stabile che può essere modificata con troppa facilità, in quanto
basta che un comune scelga di non partecipare ad una convenzione e l’impianto
generale rischia d’essere messo in discussione.
Inoltre, le Associazioni prevedevano un Comune capofila che esercitasse le
funzioni per conto anche degli altri, ma non c’è un ente vero e proprio che
subentra nella gestione al posto dei comuni.
L’altro ente che abbiamo, equiparato alle Unioni, è la Comunità Montana, che
però, nelle nostre intenzioni, dovrebbero essere a breve superate e diventare
anch’esse Unioni.
Oggi, infatti, puntiamo esclusivamente sulle Unioni dei Comuni come ente
volontario, dal momento che le Comunità Montane sono enti obbligatori con
confini stabiliti da un decreto del Presidente della Regione e lascia poco liberi i
Comuni.
La prospettiva del riordino territoriale è questa: Regione, Area Vasta e Unioni,
eliminando i rapporti diretti con i singoli Comuni.
Anche tutta la normativa relativa agli obblighi di funzioni associate da parte dei
piccoli Comuni sarà indirizzata sulle Unioni e non sulle convenzioni.
197
S’è deciso di incentrare tutto il discorso sulle Unioni perché si crede fortemente
che questo ente sia l’unico capace di abbinare i compiti di gestione dei servizi alla
creazione di vere e proprie politiche di lungo periodo.
D. Qual é la situazione delle Unioni oggi?
Al momento la situazione è un po’ eterogenea: da un lato abbiamo Unioni forti,
consolidate e che svolgono in modo associato moltissime funzioni, dall’altro ci
sono dei territori molto disgregati e incapaci di cooperare.
Inoltre anche i comuni capoluogo dovrebbero mettersi in discussione in questo
senso, benché siano esenti dai problemi di gestione che hanno i piccoli, i
problemi territoriali, economici e sociali vanno oltre i loro confini e richiedono
un’ottica intercomunale.
L’altro elemento importante è l’integrazione montagna-pianura, vista la debolezza
intrinseca della prima: si vorrebbe che le Unioni che nasceranno dal riordino
comportassero questo per non lasciare isolata la montagna.
Il coinvolgimento dei Comuni medio-grandi, anche quando non sono obbligati,
l’integrazione delle varie aree territoriali e il raggiungimento di una maggiore
efficacia/efficienza dovranno essere i principi base e i criteri per il riordino
territoriale.
Soprattutto l’efficacia dovrà diventare un punto fondamentale, in quanto
dovremmo mirare i contributi per premiare le Unioni virtuose.
Di sicuro le politiche della Regione e i bandi saranno sempre più rivolti alle sole
Unioni e non più ai comuni singoli, rendendo le forme associative l’ente principe
con cui si intenderà dialogare e concordare le scelte.
D. Con la revisione delle circoscrizioni e con il depotenziamento delle Province, le Unioni
possono assumersi in futuro funzioni di coordinamento d’area vasta?
Le Unioni sono enti che possono svolgere in forma associata, come già precisato
dal TUEL, solo funzioni comunali. Se in futuro, anche breve, la regione volesse
conferire direttamente proprie funzioni o funzioni oggi in capo alle Province alle
Unioni non potrebbe, dovrebbe trasferirle ai comuni, per il principio di
sussidiarietà la gestione associata diventerebbe poi la dimensione naturale.
Ovvio che si dovrà aspettare la fine del processo di riordino delle Province che ha
ancora molti elementi d’incertezza, come il pronunciamento della Corte
198
Costituzionale, dal momento che diverse Regioni hanno fatto ricorso già dopo il
decreto “Salva Italia”, e tempi molto stretti per la sua attuazione.
Inoltre, bisognerà attendere anche il parere del CAL per definire i nuovi ambiti
territoriali delle future Province che poi la regione dovrà approvare e mandare al
governo.
D. In Emilia Romagna, il cammino di riordino territoriale ha spesso coinciso con quello di
riforma degli strumenti urbanistici. Con i recenti obblighi statali per l’individuazione degli
ambiti ottimali, come si evolverà questo processo congiunto?
Per quanto riguarda il riordino territoriale, la Regione sta elaborando una legge
che deriva dal decreto 78/2010 e tutta la legislazione statale in materia di gestione
associata obbligatoria delle funzioni fondamentali per i piccoli comuni, poi
confluite nella Spending Review di Luglio.
Con questa legge la Regione andrà a definire gli ambiti ottimali per le gestioni
associate, una nuova disciplina dell’incentivazione sulle Unioni e norme
successorie per le Comunità Montane che, come già detto, dovranno diventare
Unioni e prenderne le caratteristiche.
Il punto di partenza del riordino è stato individuato nel distretto socio-sanitario,
anch’esso però messo in discussione e oggetto di un processo di revisione degli
ambiti parallelo a ciò che sta succedendo alle Province.
I confini di questi nuovi ambiti dovranno coincidere con quelli delle forme
associative, con al massimo la presenza di due Unioni in casi particolari: in questo
caso, le Unioni dovranno però fare convenzioni per alcuni servizi che per una
gestione ottimale richiedono una scala maggiore.
L’idea è quella di impostare su questi confini ambiti ottimali grandi, coincidenti o
coerenti col distretto socio-sanitario, ritenendo che la dimensione piccola non
rispecchi i territori pertinenti e non sia competitiva. Proprio per questo tutte le
forme associative di 2-3 Comuni dovranno evolversi e integrarsi a Unioni più
grandi.
L’unica leva che la Regione ha per indurre i Comuni, anche quelli al di sopra delle
soglie che rendono obbligatoria la gestione associate, a costituire Unioni è quella
degli incentivi.
199
Ci sono alcune funzioni che riteniamo più importanti, come quelle amministrative,
la gestione del personale, la contabilità, l’informatica, gli uffici tecnici ecc. in modo
da dare struttura e corpo all’ente.
In materia urbanistica si sta iniziando a puntare molto sulla gestione associata,
come è evidente dall’ultimo bando sulla redazione di piani intercomunali rivolti
prettamente ad Unioni dei Comuni.
Un bando molto avanzato, che richiede la redazione, la gestione e l’approvazione
non nei singoli consigli ma a livello di consiglio d’Unione: un grado molto alto
d’integrazione politica e per questo solo quattro realtà hanno partecipato,
numero non altissimo anche perché molti comuni hanno già approvato il loro
PSC.
C’è da dire che il cammino sta andando avanti per step ed è già significativo che
si sia aggiunto al piano associato, dove comunque ogni Comune approva e
gestisce da solo il proprio il piano, al piano intercomunale.
Quando con la nuova legge in materia di ambiti si decideranno le nuove forme
d’incentivazione, è verosimile che sia solo il piano intercomunale ad essere
finanziato.
L’Unione potrà e dovrà diventare l’ente che fa pianificazione d’area vasta in un
nuovo assetto del riordino territoriale.
È ovvio però che le Unioni hanno solo funzioni conferite, ovvero quelle spettanti
ai Comuni e quindi l’unico strumento che per adesso è realizzabile è il PSC
intercomunale.
1.2 Intervista all’Arch. Gianferrari Corrado, Dirigente della Struttura “Pianificazione
territoriale” dell’Unione dei Comuni “Terre di Castelli” (intervista realizzata in data
5 settembre 2012)
D. La pianificazione d’area vasta trovava, in Emilia, il proprio perno nelle Province. In tempi
molto prossimi tutto ciò verrà in un qualche modo a mancare: possono essere le Unioni i
nuovi enti capaci di coordinare territori più ampi?
L’Emilia Romagna con la legge 3 del ’99 ha delegato e scaricato sulle Province
degli aspetti molto importanti della pianificazione sovracomunale, a differenza di
altri contesti.
200
È vero anche che in parallelo la Regione ha puntato a incrementare e ad
agevolare i processi d’integrazione che hanno portato alle Unioni. Fin dall’inizio
s’è evidenziato che l’Unione, in quanto ambito territoriale più ampio, si poneva in
una misura intermedia tra Provincia e Comune che però non trova un ambito di
riferimento giuridico nello strumento di pianificazione.
In realtà le Unioni, se ben pensate e se non nate solo per espedienti di
finanziamento, rappresentano un’identità per la cultura, l’attività sul territorio e le
caratteristiche morfologiche che le rendono più omogenee, identificabili e
compatte delle Province prefettizie.
Non a caso le Unioni prendono spesso il nome delle caratteristiche fisiche e
culturali espresse dal territorio.
Un rischio futuribile di coesione, ma appianabile, potrà derivare dallo
scioglimento delle Comunità Montane che porterebbe alcune Unioni di valle o
pedecollinari ad inglobare parti di territori montuosi.
Ciò è successo per la nostra Unione, a cui sono stati aggiunti tre Comuni di
montagna che hanno dinamiche e caratteristiche diverse dal nostro territorio, ma
che tutto sommato dal punto di vista del tessuto sociale e dei servizi sono
abbastanza omogenei al nucleo originario.
C’è bisogno, certamente, di una cultura che vada oltre il campanile e istruisca sulla
necessità e sulla bontà della scelta dell’Unione e che accompagni questo
processo.
Se l’Unione è effettivamente fedele al territorio ed è calibrata ad un territorio
reale, offre servizi efficienti e si fa capire la logica di base, molte paure dei cittadini
si dissipano velocemente.
Il tema dell’intercomunalità dovrebbe esser fatto proprio, quindi, anche dalle città
più grandi, proprio in un’ottica dell’individuare i territori reali.
Ovviamente l’Unione ha ancora dei limiti perché i cittadini vedono ancora nel
Sindaco il proprio rappresentate: ciò rende quasi necessario il passaggio che
manca, ovvero quello di avere un’elezione diretta anche dei rappresentanti
dell’Unione.
201
D. L’Unione “Terre di Castelli” è nota per l’esperienza di piano urbanistico associato. Può
spiegare come mai è stata fatta questa scelta e qual è stato il processo che ha portato alla
redazione del piano?
Per quel che riguarda la pianificazione, ad oggi le Unioni sono equiparate ai
Comuni dal punto di vista legislativo e quindi gli strumenti utilizzabili a livello di
Unione sono quelli previsti per i Comuni (PSC, POC e RUE).
L’esperienza della nostra Unione è un’esperienza a metà, per scelta politica dei 5
comuni fondatori: s’è deciso di fare il PSC insieme ma l’urbanistica non è stata
delegata dai comuni all’Unione, a differenza di altre funzioni e servizi.
C’è quindi una fase di doppio binario: l’Unione agisce ma i singoli Comuni si
approvano autonomamente il PSC entro i propri confini amministrativi: ciò è
senza dubbio una piccola contraddizione.
Nel 2005 abbiamo iniziato a ragionare sull’idea di un PSC in forma associata, ma è
dal 2008 che di fatto s’è iniziato questo processo tramite un accordo territoriale
tra i 5 comuni per condividere le scelte strategiche sui modelli di crescita e
sviluppo su una scala d’area vasta.
Il percorso è stato un po’ travagliato, anche se ci sono elementi oggettivi che
hanno rallentato i tempi, come il cambio delle giunte nel 2009.
Inoltre, nel frattempo è mutata velocemente la situazione economica e sociale e
ciò ha portato a rivedere il quadro conoscitivo di partenza.
Non essendo la competenza urbanistica delegata all’Unione, una volta composto
il PSC nel suo insieme, ogni Comune se lo approverà autonomamente entro i
propri confini amministrativi.
Il livello minimo che si spera di poter garantire è che, per lo meno, al di là della
coerenza dei 5 PSC ci sia anche una maggiore omogeneità in termini gestionale,
normativa e regolamentare.
Il modello è quello del piano associato, diverso da quello del piano
intercomunale che la Regione ha introdotto nel 2009, quindi dopo che eravamo
già partiti con l’iter.
Ciò non toglie che ci siano impegni formali verso la regione: il PSC deve essere
davvero unico per l’Unione, come poi s’approva è una questione di geometria
istituzionale.
202
Il disegno è quindi unitario sul territorio dei cinque Comuni e ogni Comune
approva lo stesso PSC, così come accadrà con il RUE.
Ogni Comune dovrà poi operare autonomamente i propri POC, che dovranno
essere in coerenza col PSC.
Teoricamente un Comune potrebbe poi fare una variante del PSC nel proprio
territorio: per fortuna la legge del 2009 ha scaricato il PSC di operatività cogenti e
ha posto delle invarianti strategiche che potrebbero essere, a mio avviso,
vincolate ad un livello di Unione nel caso si vogliano cambiare.
Un altro elemento d’innovazione forte introdotto dalla legge 6/2009 è quello del
percorso partecipativo e che come Unione stiamo affrontando.
In un primo momento ci accordammo perché ogni Comune gestisse
individualmente, secondo le proprie tradizioni, il confronto con la popolazione e
le parti interessate.
Negli anni è però maturata un’altra tendenza: dal momento che le scelte
strategiche sono uniche per tutto il territorio dell’Unione, anche il percorso
partecipativo e di ascolto deve essere unico.
Ovviamente le riunioni e le assemblee saranno fatte in tutti i Comuni, ma il
modello che a breve partirà sarà lo stesso.
Affinché la partecipazione non sia solo un siparietto, ma sia effettivamente
concreta, ci siamo affidati a società ad hoc e sarà interessante vedere se ci saranno
risultati effettivi.
L’ambizione, in origine, era quella di mettere in campo panche percorsi
perequativi, riguardo ai quali, però, manca una vera cultura che rende il tutto
molto complesso da attuare concretamente e tecnicamente, in quanto mancano
modelli attuativi rassicuranti.
D. La vostra scelta è stata quella di dare al PSC un forte contenuto strategico. Dopo tutti
questi anni crede che il PSC sia uno strumento che si adatta e si presta alla dimensione della
pianificazione intercomunale?
In un primo momento la nostra scelta poteva sembrare una forzatura, così anche
come era stato interpretato il PSC nel primo decennio; con la riforma del 2009 s’è
precisato il ruolo dello strumento strutturale, depurato di ogni traccia del PRG
come zonizzazioni e indici, che ha assunto elementi di strategicità che lo rendono
più idoneo ad un ambito territoriale intercomunale.
203
I sindaci stanno ora dettando le linee strategiche da assumere nella pianificazione
e sono tutti obiettivi che travalicano i confini amministrativi: politiche per le aste
fluviali, politiche di tutela della collina, politiche di rilancio di un territorio in cui le
imprese sono legate da rapporti che vanno oltre i comuni.
Come già detto la legge del 2009, il PSC non arriverà più a dare indici e a vincolare
aree, cosa che spetta solo ai POC che rimangono comunali; nel caso un Comune
volesse introdurre delle varianti, ciò permette che nelle invarianti strategiche il
PSC possa inserire delle condizioni per cui si rendono necessari meccanismi di
concertazione che obbligano il ritorno ad un livello di Unione.
Il PSC, quindi, si colloca oggi come strumento ideale e principe più idoneo alle
Unioni.
C’è un rischio: il PSC di Unione e il PTCP come devono dialogare? Sono doppioni o
possono trovare un equilibrio tra livelli distinti? Personalmente ritengo che il
PTCP non avesse nelle origini immaginato il territorio per ambiti di Unione e
quindi si approccia sul territorio indifferentemente rispetto ai territori coerenti.
Ciò provoca dei contrasti tra le scelte a livello di Unione e quelle già attuate o
indirizzate dal PTCP.
D. Oggi molti Comuni hanno già adottato il proprio PSC, il quale rischia di essere ormai
anacronistico perché progettato in tempi economico – sociali diversi. Sarebbe quindi giusto
che anche in questi contesti si iniziasse un percorso di pianificazione intercomunale, più
attento alle dinamiche attuali, anche se vorrebbe dire mettere a bilancio una spesa ingente.
Come si potrebbe incentivare questo processo?
Questo processo potrebbe essere aiutato con uno sforzo giuridico in più da parte
della Regione in cui si dice: nei casi in cui si hanno già PSC comunali può essere
un incentivo il poter scavalcare o sospendere o ridiscutere gli elementi della
pianificazione provinciale.
In tal caso l’Unione si può portare in casa pezzi di pianificazione che oggi sono in
capo al PTCP, che un domani torneranno in mano alla Regione ma che potrebbero
essere poi distribuiti ad un livello d’ambito ottimale come quello intercomunale.
204
1.3 Intervista all’Arch. Ugo Baldini, presidente CAIRE (realizzata in data 11
settembre 2012)
D. Crede che la dimensione intercomunale sia oggi d’attualità nel panorama sia
amministrativo sia, soprattutto, della pianificazione territoriale?
La mia sensazione è che ci sia un problema sul come stabilire l’intercomunalità, se
questa è data dall’alto o su basi volontaristiche.
Per esempio, la stagione dei comprensori intorno agli anni ‘80 fu molto
interessante, ma poi le Province si mangiarono i comprensori e non sempre
questo ente s’è comportato bene nei processi di pianificazione, anche se ciò non è
avvenuto in Emilia Romagna.
Di recente mi sono dato l’obiettivo di capire quali sono, in Italia, i capoluoghi:
ovvero quali sono i centri che hanno avuto ruoli direzionali e che storicamente
hanno da sempre guidato i territori.
Bisognerebbe capire se intorno all’idea storico – urbanistica di capoluogo
coincidano le forme di organizzazione dei territori, come i sistemi locali del lavoro.
Idealtipicamente si potrebbe decidere di andare in questa direzione, stabilendo
quali sono i capoluoghi d’Italia dando loro la possibilità di fare domanda per
costituire aree intercomunali, promuovendoli sia con incentivi che con minacce di
tagli nel caso ciò non avvenga.
Cosa rimarrebbe fuori? Forse qualche area marginale montana, nel caso non ci
fossero baricentri, che però troverebbe vantaggi ad attaccarsi ad un’area forte di
pianura.
Anche le aree più deboli, in questa logica, possono trovare una loro
specializzazione se ci fosse un’area forte centrale come perno di un territorio,
divenendo così complementari ad essa.
Questo tipo di intercomunalità premierebbe davvero l’Italia dei Comuni.
Una cosa di questo tipo sta avvenendo oggi nella Provincia di Trento, che
d’accordo coi Comuni ha diviso il territorio in comunità che fanno pianificazione
territoriale.
C’è quindi da capire se attorno a questa logica i Comuni saranno in grado di
imporre una logica di selezione dei problemi e non ripropongono dei processi
burocratici autoreferenziali, mal istruiti, lunghi e sbagliati.
205
Questo potrebbe essere un modo con cui le Province scompaiono, lasciando al
loro posto dei territori omogenei, nati dal basso e costruiti attorno a criteri che
vanno verso le reali problematiche di una comunità.
Inoltre, un’intercomunalità più forte, con una governance diretta e un’autorità
unica sulla pianificazione, renderebbe molto più semplice gestire problemi
complessi come quello della perequazione territoriale.
D. Non sempre, nella pianificazione emiliana riformata con la legge 20/2000, la parte
strutturale e strategica del piano è emersa con forza. La riforma del 2009 chiarisce
ulteriormente il ruolo del PSC ma permangono ancora dei dubbi. Come crede si possa fare
una buona pianificazione strategica oggi, considerando che spesso dietro a questo nome s’è
fatta più un’operazione retorica che di sostanza?
Credo che il PSC come intenzioni sia interessante, ma ora bisogna capire se in un
qualche modo deve essere uno strumento che seleziona gli obiettivi ed è
orientato a risolvere i problemi o è solo un’altra stagione di riti. Noi italiani siamo
orientati ai riti e non ai risultati; spesso quando si deve andare incontro a dei
risultati e realizzarli, si scappa perché sono imprese non sempre facili.
La pianificazione deve avere la capacità pre-vedere e non lavorare su una
domanda espressa sulla quale si arriva in ritardo.
Anni fa, degli amministratori del Rubicone ci diedero un incarico per fare
un’operazione intercomunale al di fuori dalle leggi, all’epoca vigeva ancora il PRG.
Così creammo il “Masterplan del Rubicone” dove l’obiettivo era quello di discutere
e dividere le politiche tra quelle che potevano essere messe velocemente in
campo e condivise, quelle che richiedevano ancora delle riflessioni e delle
fattibilità e le politiche da escludere perché non c’erano ancora le condizioni
affinché si potessero realizzare.
Dentro queste politiche v’era tutta una parte organizzativa, perché qualsiasi
obiettivo necessita di un’organizzazione, minima, per perseguirlo, quale? Unire
alcuni uffici/servizi? Delocalizzarne altri? Crearne di nuovi?
Questa operazione è riuscita molto bene e il prodotto è stato poi un piano
regolatore capace di selezionare rapidamente gli obiettivi e li distribuiva nei tre
ordini di fattibilità, così come i processi conoscitivi.
206
Questo piano si presentava come un vero e proprio processo d’implementazione
che andava da ciò che si può fare subito a ciò che si può fare in un orizzonte di
tempo più ampio.
Quindi, una pianificazione che parte dalle politiche, che hanno bisogno
d’informazioni elaborate per individuarne la fattibilità tecnica, e forse, ma non
necessariamente, di norme. Un approccio non normativo che dica criticità ed
esigenze, come realizzarle e con l’apparato realizzativo che si ha a disposizione.
Questa esperienza ha avuto buon fine, è riuscita ad ottenere buoni risultati per il
territorio interessato, ed è ancora adesso un mito tanto che molti sostengono sia
il “Masterplan del Rubicone” uno degli ispiratori della legge 20/2000.
Peccato, però, che il Masterplan non voleva dire fare la legge regionale, ma era un
accordo tra le parti che produce soluzioni organizzative, normative e fattuali.
Invece, la legge regionale divide la pianificazione in tre momenti di adozione,
cosa che ha allungato almeno del doppio il processo decisionale, causando un
danno clamoroso senza alcun effetto di riordino territoriale vero e proprio.
Alcune zone come quella bolognese hanno tentato fin dall’inizio di darsi una
visione intercomunale ma con una gran fatica nell’applicare norme in una logica
ancora legata all’approccio burocrazia/territorio.
Io vedo che anche nel Veneto, il PAT, che dovrebbe essere il piano più strategico,
rischia di essere un qualcosa di troppo lento e in cui il PII fa fatica ad adeguarsi,
tant’è che ci sono già molti ricorsi perché non c’è coerenza.
Quindi, un conto sono le buone intenzioni nel volere avviare processi strategici,
altra cosa è invece introdurre una dimensione strategica libera di esercitarsi e di
produrre nel tempo accordi selettivi che dovranno poi essere quelli che guidano
la pianificazione urbanistica.
La selettività è un punto fondamentale, soprattutto perché oggi si finanziano
progetti senza chiedere la strategia da cui discendono; capita, quindi, che si
finanzino i progetti che si hanno nel cassetto, creando più danni che vantaggi
allo sviluppo.
C’è da recuperare la nobiltà del pensiero strategico, che è un pensiero difficile,
non retorico e che richiede studio, fattibilità e alternative.
In più c’è da monitorare se tutto ciò che è stato predisposto è stato poi anche
operato e se ciò che s’è realizzato è ancora corrispondente ai bisogni o ci sono
nuovi bisogni che obbligano a cambiare strategia.
207
Essere selettivi non è solo un impegno intellettuale ma anche etico nel dover
decidere come usare bene le poche risorse che si hanno, le quali devono produrre
più ricchezza si quella che è concessa all’inizio.
La legge regionale sarebbe quindi da destrutturare, ripartendo da un momento
strategico che renda chiaro e decida quale disegno si vuole per la città pubblica,
che nei POC dovrà solo essere precisato.
Oggi la sfida, anche per la pianificazione, deve essere “Come fare di più con
meno”, invece si è ancora in un quadro di norme ridondanti.
L’urbanistica deve accettare di non essere un’urbanistica che risolve i problemi di
tutti, ma deve diventare uno strumento in mano al welfare, alla mobilità, la
sicurezza ecc.
D. Cercando di unire i due filoni principali di cui s’è parlato, come si deve unire la
pianificazione territoriale all’intercomunalità? Come deve essere un piano davvero
strategico che deve intervenire in contesti che molto spesso hanno adottato di recente i loro
strumenti urbanistici?
Proprio per questo ci vuole uno strumento leggero, istituito dalla legge, come un
masterplan, capace di destrutturare e non riapra un processo burocratico
complicato, che contenga solo le trasformazioni e i temi più forti.
Forse il termine “piano strategico” è stato oggi abusato e ha perso molto del suo
significato, forse è migliore il termine “schema” utilizzato anche in Francia.
Dopodiché la coerenza è importante, però questo piano dovrà essere soprattutto
convincente
e
condiviso:
convincente
perché
deve
essere
accettabile
disciplinarmente, condiviso perché non deve prendere in giro la gente, che non si
deve sentire eterodiretta.
1.4 Intervista alla Dott.sa Elena Gamberini, direttore generale dell’ Unione dei
Comuni “Bassa Reggiana” (realizzata in data 12 settembre 2012)
D. Qual è la storia e quali sono le caratteristiche dell’Unione dei Comuni “Bassa Reggiana”?
Quali i servizi e le funzioni svolte in modo associato?
L’Unione “Basa Reggiana” si estende su otto comuni, di cui cinque rivieraschi e tre
d’entro terra, con una popolazione di 70.000 abitanti e con circa 29.000 nuclei
famigliari.
208
Abbiamo il grande privilegio di coincidere con il Distretto socio – sanitario, cosa
che non è comune e che ci permette di coincidere già con quelli che molto
probabilmente sarà riconosciuto come ambito ottimale.
I servizi principali erogati dall’Unione sono due: quelli sociali, attraverso l’ASP
(Azienda servizi alla persona) e l’ufficio di piano “minori, anziani, disabili”, e quelli
educativi.
L’anno scorso abbiamo costituito l’Azienda Speciale dell’Unione per i servizi
educativi, che è stata una scelta forte e preferibile ad altre alternative più soft;
inoltre l’Unione ha anche un centro di formazione professionale, che oggi non
sfrutta ancora tutte le potenzialità ma che può diventare una leva fortissima.
Grazie al trasferimento dei servizi educativi i dipendenti dell’Unione sono passati
da tre a circa un centinaio.
Altre funzioni conferite sono: l’ufficio appalti, la protezione civile (seppur sia più
un coordinamento), il difensore civico, l’informatica, lo sportello unico per le
attività produttive e l’ufficio personale per la parte giuridica ed economica, anche
se su queste ultime due funzioni il Comune di Guastalla non ha aderito per
ragioni politiche.
La nostra è quindi un’Unione molto forte sulla parte socio – educativa e sulle
funzioni di staff mentre sulla parte urbanistica e tecnica siamo ancora fermi.
In Emilia siamo partiti tutti dalle singole funzioni, ma se a monte non c’è il
progetto e l’orizzonte dell’area vasta il rischio è quello della frammentazione.
Qui in Bassa Reggiana è probabilmente il momento storico per mettere sul piatto
il tema della pianificazione strategica.
Un limite è sicuramente quello dell’essere ente di secondo livello, cosa che limita
pesantemente l’elaborazione di una visione di medio – lungo termine.
In questo contesto la pianificazione strategica è quindi fondamentale, perché è la
premessa con cui si ragiona sul governo delle politiche pubbliche locali e da
quelle fai discendere i servizi, coerenti con le priorità politiche. Noi invece stiamo
facendo il contrario.
Oggi c’é la paura e il timore di chiedersi come si vuole il territorio tra 10-20 anni,
sia perché s’è persa cultura politica in questo senso sia perché i limiti elettorali
obbligano a visioni più corte.
209
Sul tema della pianificazione strategica, che è trasversale, si trova anche l’interesse
del mondo delle imprese, a patto che si presenti un piano di azioni concrete e
selettive e integrato tra urbanistica e welfare.
Le parole chiave del prossimo programma quadro dei finanziamenti europei
saranno partenariato pubblico/privato e governance: per questo la visione di
territorio d’area vasta e una pianificazione di questo tipo sono fondamentali.
Nel programma di lavoro del 2009 avevamo immaginato alcune cose sul riordino
territoriale e un documento politico d’indirizzo sul nuovo piano di riordino che
coinvolgesse i PSC; addirittura eravamo arrivati a pensare alla possibilità di avere
un unico RUE per la Bassa Reggiana.
Di ciò non s’è fatto nulla anche perché sono cambiate molte giunte e nel
frattempo ogni Comune ha finito e adottato il proprio strumento urbanistico.
Questo anche perché l’Unione deve essere soprattutto nella testa delle persone e
tutti devono capire che iniziare a delegare pezzi di sovranità propria a questo
strumento non arreca danni alla comunità.
La logica dal basso e volontaristica dovrebbe aiutare questo processo, anche se
ancora lento.
D. Quali sono oggi le problematiche e le esigenze più comuni alle Unioni?
Per le Unioni medio-grandi, ovvero superiori ai 30.000 abitanti, sono tipiche del
panorama emiliano e toscano si pongono due temi principali: la gestione
associata dei servizi, che è il punto di partenza per creare e strutturare l’Unione, e
dare una connotazione al territorio attraverso politiche pubbliche che vadano
oltre i servizi.
Oggi il tema dei servizi è superato, perché si da ormai per assodato il principio di
economicità e di risparmio che deriva dall’associarsi, piuttosto c’è da domandarsi
come farli e strutturarli dal punto di vista più qualitativo.
Un’Unione deve lavorare molto sul tema identitario, che non è banale anche per
la pianificazione strategica, che deve essere capace di impostare la propria azione
anche su un unico comune denominatore.
Un tema caldo è quello delle fusioni dei Comuni, soprattutto per i Comuni
piccolissimi e i piccoli e per alcune Unioni che hanno una tradizione più
consolidata a cooperare.
210
Oggi in Emilia si sta avviando anche questo percorso. È ormai noto il caso della
Valsamoggia, che da Unione di cinque Comuni diventerà presto un unico
Comune di circa 30.000 abitanti.
Sono in corso anche altri studi di fattibilità, molti dei quali richiesti da Unioni più
grandi, più o meno sull’ordine di grandezza di quella della Bassa Reggiana.
Non credo però che per dimensioni più grandi la fusione sia lo strumento
migliore, ma sia meglio avere qualche fusione all’interno di un livello di Unione
da consolidare.
Altro problema importante è quello della rendicontazione e l’informazione di ciò
che fa l’Unione: ciò serve per dimostrare che i servizi svolti in modo associato non
solo portano risparmi ma anche qualità.
Inoltre è fondamentale comunicare sempre più cosa fa l’Unione, anche come
mezzo per far conoscere questo ente a tutti i cittadini e abbattere così pregiudizi e
leggende metropolitane.
La rendicontazione deve essere costante nel tempo e far vedere anche
l’evoluzione della gestione: per esempio, ci sono servizi che una volta associati
necessitano di un periodo di start up prima che portino a vantaggi, altri che
hanno un’efficacia immediata che però deve essere costantemente monitorata,
altrimenti diventa solo uno spot iniziale per convincere della bontà di una scelta.
Per concludere, riflettendo anche sul recente dramma del sisma, il tema della
ricostruzione può e deve porre la questione del riordino dello sviluppo locale: è
sempre necessario ricostruire i servizi negli stessi posti? O si può ricostruire anche
con logiche intercomunali?
Queste domande valgono la pena di porsela anche chi non è stato colpito dal
terremoto, proprio perché la logica associata destruttura i confini e permette di
interpretare i territori in modo diverso.
211
2. Tavole dei piani provinciali e regionali
2.1 Tavola n.P3b “Sistema della mobilità”, PTCP 2010 Provincia di Reggio Emilia
212
2.2 Tavola n.P3a “Assetto territoriale degli insediamenti e delle reti della mobilità e
del territorio rurale”, PTCP 2010 Provincia di Reggio Emilia
2.3 Carta A “Assetto strategico del PRIT 2020”, Regione Emilia-Romagna
213
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Decreto legge n.78/2010, “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica”.
Decreto legge n.201/2011, “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici”.
Decreto legge n.95/2012, “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi cittadini”.
Decreto legge n.188/2012, “Disposizioni urgenti in materia di Province e Città
metropolitane”.
Decreto legislativo n. 267/2000, “Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali”.
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Disegno di legge della Presidenza del Consiglio dei Ministri 16 novembre 2012,
“Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo”.
Legge n.142/1990, “Ordinamento delle autonomie locali”.
222
Proposta di legge n.194 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 della Costituzione, riguardanti la soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.332 XVI Legislatura, “Deleghe al Governo per la riforma e la
semplificazione del sistema istituzionale e amministrativo territoriale”.
Proposta di legge n.1098 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132, 133 e all’VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione, per la
soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.1242 XVI Legislatura, “Modifica all’articolo 133 della
Costituzione in materia di mutamento delle circoscrizioni provinciali e di
istituzione di nuove Province”.
Proposta di legge n.1259 XVI Legislatura, “Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione, in materia di soppressione delle Province e
conseguente razionalizzazione dell’organizzazione territoriale della Repubblica”.
Proposta di legge n.1263 XVI Legislatura, “Modifiche alla Costituzione per
l’abolizione delle Province e l’istituzione dei controlli di legittimità sugli atti delle
regioni e degli enti locali”.
Proposta di legge n.1284 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.1694 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 e all’VIII disposizione transitoria della Costituzione, per la
soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.1836 XVI Legislatura, “Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione, per la razionalizzazione dell’organizzazione territoriale
della Repubblica mediante la soppressione delle Province”.
223
Proposta di legge n.1989 XVI Legislatura, “Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione, e in materia di soppressione delle Province e di
conseguente razionalizzazione dell’organizzazione territoriale della Repubblica”.
Proposta di legge n.1990 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.2010 XVI Legislatura, “Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione, nonché agli Statuti speciali della Regione siciliana e
delle regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia, in materia di soppressione delle
Province”.
Proposta di legge n.2242 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114 e 133 della
Costituzione per la trasformazione delle province in enti di secondo grado”.
Proposta di legge n.2264 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di soppressione delle Province”.
Proposta di legge n.2579 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114 e 133 della
Costituzione in materia di Province e Città metropolitane”.
Proposta di legge n.3118 XVI Legislatura, “Individuazione delle funzioni
fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale e
degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni
amministrative, Carta delle autonomie locali, razionalizzazione delle Province e
degli Uffici territoriali del Governo. Riordino di enti ed organismi decentrati”.
Proposta di legge n.4439 XVI Legislatura, “Modifica all’articolo 133 della
Costituzione, in materia di mutamento delle circoscrizioni provinciali e di
soppressione delle Province, nonché norme per la costituzione delle città
metropolitane e il riassetto delle Province”.
224
Proposta di legge n.4493 XVI Legislatura, “Modifica dell’articolo 133 della
Costituzione, in materia di istituzione e soppressione delle Province nonché di
modificazione delle circoscrizioni provinciali”.
Proposta di legge n.4499 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114 e 133 della
Costituzione in materia di istituzione, modificazione e soppressione delle
Province”.
Proposta di legge n.4506 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119,
120, 132 e 133 e introduzione dell’articolo 115-bis della Costituzione, in materia di
province e di città metropolitane”.
Progetto di legge n.4887 XVI Legislatura, “Modifiche agli articoli 114, 118, 119 e 133
della Costituzione, in materia di istituzione e soppressione delle Province nonché
di funzioni e circoscrizioni territoriali delle medesime”.
2. Leggi e proposte di legge dello Stato francese
Loi n.71-588 du 16 juillet 1971 sur les fusions et regroupements de comunes.
Loi n° 66-1069 du 31 décembre 1966 relative aux communautés urbane.
Loi n° 92-125 du 6 février 1992 relative à l'administration territoriale de la
République.
Loi no 99-586 du 12 juillet 1999 relative au renforcement et à la simplification de
la coopération intercomunale.
Loi n° 2000-1208 du 13 décembre 2000 relative à la solidarité et au
renouvellement urbains.
Loi n° 2010-788 du 12 juillet 2010 portant engagement national pour
l'environnement.
225
Loi n° 2010-1563 du 16 décembre 2010 de réforme des collectivités territoriales.
Loi n° 2011-525 du 17 mai 2011 de simplification et d'amélioration de la qualité du
droit.
3. Leggi e proposte di legge della Regione Emilia-Romagna
Legge regionale n.6/1995, “Norme in materia di programmazione e pianificazione
territoriale e modifiche e integrazioni alla legislazione urbanistica ed edilizia”.
Legge regionale n.24/1996, “Norme in materia di riordino territoriale e di sostegno
alle Unioni e alle fusioni di Comuni”.
Legge regionale n.3/1999, “Riforma del sistema regionale e locale”.
Legge regionale n.20/2000, “Disciplina generale sulla tutela e l’uso del suolo”.
Legge regionale n.11/2001, “Disciplina delle forme associative e altre disposizioni
in materia di enti locali”.
Legge regionale n.6/2004, “Riforma del sistema amministrativo regionale e locale.
Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti
con l’università”.
Legge regionale n.10/2008, “Misure per il riordino territoriale, l’autoriforma
dell’amministrazione e la razionalizzazione delle funzioni”.
Legge regionale n.6/2009, “Governo e riqualificazione solidale del territorio”.
Legge regionale n.23/2009, “Norme in materia di tutela e valorizzazione del
paesaggio”.
226
Proposta di legge di iniziativa della Giunta regionale, oggetto assembleare n.3415,
“Misure per assicurare il governo territoriale delle funzioni amministrative
secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
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