lascia stare i santi

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lascia stare i santi
LASCIA STARE I SANTI
Uno di fronte all'altro. Finalmente.
Quanto tempo era passato, e adesso, come vecchi amici, si ritrovavano.
-Ti trovo bene, Gesù, hai una bella cera. Peccato per quei buchi nel corpo. Ma anche voi,
Maddalena, e San Giuseppe, come siete ben conservati! Sembrate anche più giovani dal nostro
ultimo incontro...Vi ricordate?
Dall'altro lato nessuno apriva bocca.
-Dai, fate un piccolo sforzo, amici...in fondo saranno trascorsi quindici, diciotto anni al
massimo...anni di merda, quelli! Io vi odiavo, ve lo confesso, non appena vi vedevo mi
trasmettevate la vostra angoscia, sempre così tristi, imbronciati. Il vostro essere vittime mi
faceva veramente incazzare, sapete? E quella vecchiaccia maledetta che si era fissata con
voi...”che panneggi corposi...che atmosfera uggiosa...che volti grevi e dolorosi...” ma vaffanculo tu
e i panneggi corposi!....Se ti piacciono tanto portateli a casa, ma non farli sorbire a me....
Comunque, cari ragazzi, adesso quella stronza sarà ripiena di fango fin dentro le narici, e noi
siamo ancora qui... è ora di approfondire il nostro rapporto...ho saputo che andate molto di
moda, in giro. Mi hanno detto che le vostre belle facce valgono quanto un giro del mondo in
barca. E siccome io mi sono francamente stufato di rischiare il culo per ventimila lire al giorno,
vi porto con me. Qualcuno ha qualcosa da dire? Altrimenti, amici, come si dice nei matrimoni,
taccia per sempre...Allora, nessuna obiezione, vero, possiamo andare?
San Giovanni Battista sembrava il più contrariato di tutti.
-Ma come fai, figliolo, a rubare il dolore di Cristo?
-San Giovanni bello, fatti i cazzi tuoi. Non è niente di personale, davvero, ma ne ho bisogno. E
devo anche far presto, perchè quelle sentinelle lì fuori già mi sembrano emanare odore di
cadavere.
-Che Dio abbia pietà di te!
-Hai finito la predica?
-Ma un bel Rubens non ti andrebbe bene?
-Eh, mio caro San Giovanni, lo sai bene che il Rubens adesso non è molto quotato. Non fare il
furbo. Limitati a fare il santo.
Umberto Londi, con quell'affresco, aveva risolto molte cose. Aveva risolto i buchi delle pareti,
aveva risolto gli squarci del soffitto, aveva risolto alcune vertenze con certi amici, aveva risolto
il problema di come incollare il pranzo con la cena.
San Giovanni & Company se ne stavano adesso buoni buoni sotto il pavimento di casa sua.
Dopo tanti tentativi andati a vuoto quei graditi ospiti avevano fatto conoscenza con la sua
stamberga, anche se per poco tempo, perchè inevitabilmente si sarebbero dovuti accomodare
in qualche altro sito. E da quel sito Umberto se ne sarebbe uscito con una slavina di soldi.
Pazienza. Tanto Gesu' ad essere tradito ci aveva fatto il callo.
Umberto Londi era un bravo ed onesto ladro ma aveva sempre avuto poca fortuna: cinque
mesi prima del “colpaccio” un cane l'aveva fatto rotolare per terra all'uscita di una gioielleria, e
addio diamanti. Una volta ancora più lontana la sfiga aveva preso le fattezze di un bambino
stronzo e ciccione che l'aveva urtato con quel suo mappamondo roteante, facendogli saltare per
aria tutto l'incasso di un supermercato.
Forse aveva sbagliato la squadra: Tonino era un nevrotico con molto coraggio e poca materia
celebrale, Giuseppe era un uno che prima di puntare il revolver contro una signora chiedeva il
permesso, Manlio era in gamba ma troppo stronzo per potere fidarsi di lui.
Aveva fatto bene ad abbandonarli prima della sortita alla galleria d'arte, anche se un po' gli
dispiaceva, dopo tanti anni vissuti fianco a fianco.
Ma i lati positivi schiacciavano di gran lunga le malinconie nostalgiche. Umberto li provò subito,
la settimana dopo il furto d'oro.
Tiziana l'aspettava sotto casa.
Invece che vedere spuntare “il Londi” a bordo della sua lambretta metalizzata, però, gli si
presentò davanti un signore in taxi.
Completo ancora fumante di ago e filo, sigaretta leggera fra le dita, brillantina cosparsa nei
capelli scolpiti ora ora dal miglior barbiere di Milano. E uno sguardo nuovo che non aveva
prezzo. Uno sguardo che pareva guardare dall'alto in basso anche Dio in persona.
-Come va lassù, vecchio?
-Si vivacchia.
-Ti danno noia i tuoi ospiti?
-Sono bravi ragazzi, lo sai. Qua sopra solo roba scelta.
-Senti, mi dispiace di averti preso il tuo figliolo e i suoi amici, ma il lavoro è lavoro.
-Tranquillo, ci sono tanti quadri come quello in giro.
-Comunque, ora vado. Ah, guarda qui che abito! Ti piace? E sapessi quanti soldini ho adesso nel
mio cassetto...Scusa se prima non credevo nella tua esistenza, ero uno scemo. Esisti, esisti,
eccome!
Umberto si divertita con queste sue pippe mentali. Era stato sempre un po' toccato. Immagiva
sempre di fermare a parlarsi con gli abitanti del Paradiso e con tutti i santoni che ci risiedevano.
Lo eccitava interagire con loro e dare la sua voce al Santo dei Tali di turno.
-Cazzo!- esclamò Tiziana, appena lo vide in tutto il suo fulgore.
-Ciao, cara. Ti trovo sorpresa, che accade?- Umberto era una gran simpatica faccia da culo.
-Ma sei tu?...Hai vinto la lotteria? Perchè non posso credere che uno come te abbia imbroccato
un colpo così grosso.
Tiziana Gervasi conosceva da tempo Umberto e le sue poco brillanti operazioni. Qualche volta
l'aveva anche costretta a farle da palo.
-Tiziana, fa freddo qui all'aperto. Ne parliamo in compagnia di qualche aragosta calda, vuoi?
-Cazzo se voglio.
La Gervasi era di umilissime origine e di umilissimo lessico.
Il carattere estroverso di Umberto lo faceva trovare a proprio agio in qualsiasi ambiente. Potevi
essere al Ritz o sotto i ponti parigini, lui stava sempre bene.
La sua compagna non era così altrettanto tranquilla. Non aveva tutti i torti, e non solo per i suoi
modi da basso popolo. Era vestita come una stracciona in mezzo a una giostra di smoking e di
abiti di seta.
-Sei nervosa, Tizi?
-Tu che dici, guarda come sono vestita!
-Tu sei sempre vestita così.
-Ma io ogni giorno non vado in posti così.
-Preferisci cenare a casa di Tonino?
-Mi prendi per il culo?
-Francamente sì.
-Ma mi vuoi spiegare che hai combinato?
-Io non ho combinato niente.
-Già, vero. Non hai combinato niente. E questi vestiti li hai raccolti dalla spazzatura.
-Secondo te come ho fatto?
-Non posso credere che tu e quei quattro pirla che ti porti dietro abbiate fatto bingo.
-Infatti non è così. E quei pirla non c'entrano niente.
-Devo chiamare una chiromante per leggere i tuoi pensieri o me lo dici direttamente con la tua
bocca?
Il dialogo fra i i due fu interrotto da una piramide di aragoste. Rosse, grandi e invitanti.
Tiziana si avvinghiò come un polipo sulla più vicina.
Umberto la guardava divertito.
-Porca tro...!!
-Sono calde, cara?
-Ho un labbro che mi sta scoppiando, cazzo!
-Vacci piano. Sono morte ormai, non fuggono mica. E poi ti consiglio di aprirle prima, si gustano
di più.
-Ma tu che ne sai di aragoste?
-Le mangio da una settimana.
Tiziana chiuse il forno dentato e diede ascolto al dotto Umberto: spalancò la corazza dei
crostacei come se stesse squartando un tacchino appena cacciato. Masticava avidamente e
sputava brandelli di aragosta sulla tavola. I ricconi attorno la guardavano in maniera altezzosa,
ma lei aveva occhi (e bocca) solo per quel ben di Dio posato sul piatto. Con le lunghe dita tirava
fuori pezzi di crostaceo aggrappati impauriti ai denti.
Mentre la vorace amichetta stuprava il menù Umberto tirò fuori un fogliaccio di carta
puzzolente. Ma ne fece mostra come se avesse esibito una collana di diamanti.
-E questo che cazzo è?
-Leggi.
Tiziana spolpava e leggeva a ritmo. Uno sputo energico fece saltare un' oliva dall'altra parte del
tavolo. Aveva capito di che si trattava, evidentemente.
Sulla colonna di sinistra sfilavano nomi di artisti e di santi, su quella di destra un'orgia di zeri, di
due e di quattro.
Tiziana si asciugò frettolosamente la bocca e donò due occhi nuovi a Umberto.
In cinque anni e mezzo di conoscenza non l'aveva mai guardato con quella dolcezza e con quella
ammirazione.
-Hai fatto questo colpo, tu...davvero?
-Lo hai appena letto.
Tiziana allungò la mano unta che odorava ancora di aragosta e champagne e la posò sopra
quella di Umberto. Lui la imitò.
-Lo sa nessuno?
-Allora mi credi davvero cretino.
-No, non ti ho mai creduto cretino. Lo sai che ti voglio bene.
− Me lo dimostrerai, allora? Fino ad oggi non è che me ne sia accorto.
− Te lo dimostrerò tutte le volte che vuoi.
Quel repentino e sospetto mutamento d'animo non importava ad Umberto.
Gli bastava che la sua Tiziana andasse a vivere con lui, in un'altra casa, in un'altra città.
In un'altra vita.
Il cesso di Luigi non ne poteva più. Aveva dovuto ingoiare, quella sera, fiumi e fiumi di vomito
verde acqua. Ma lui era ancora lì, dopo un ora e mezza, con le mani ancorate ai lati del water e
con quella bocca che si stava squagliando.
Tutta colpa della merda che Luigi mandava giù. Ma non era colpa sua. Quella sera per andare a
letto tranquillo e non ritrovarsi durante il sonno con lo stomaco imbufalito, mise insieme tre
pezzi di polenta gelida del giorno prima con una fetta di mozzarella che aveva trovato nel suo
armadio, il tutto condito in un trionfo di ketchup, non più rosso come in origine ma
decisamente più incline a un nero lutto.
Alla testa in fondo al cesso Luigi era in fondo abituato: il menù della casa era ogni giorno più
“moderno”. Ma che doveva fare, morire di fame e aspettare che le mosche facessero polpette del
suo corpo? Andare a chiedere l'elemosina?
O peggio, andare da suo zio? Mai, ne andava della dignità: perchè “il gigietto” aveva un senso
altissimo della dignità umana. Anche se in quella casa di dignitoso non c'erano neanche i
pomelli delle porte.
Erano tempi magri, per Gigi: quattro mesi fa era riuscito a portare via quattromila euro da un
ristorante di lusso, somma che aveva poi giustamente divisa con il resto della sua truppa.
L'ultimo acuto del Gigi. Da allora il Cicala era stato arrestato, Berto si era messo a fare il facchino
e Giorgia l'aveva mollato. Gli rimanevano ancora tre, quattro compari. Uno più morto di fame
dell'altro.
Il dodici ottobre Luigi decise di fottersene altamente della dignità dell'uomo e chiamò suo zio.
Le mani di Silvien si muovevano scatenate a ritmo di samba sulla schiena rugosa di Umberto.
Era l'ora del massaggio. Una delle poche cose belle che rimanevano della vita del Londi. Silvien
fu l'ultima sua conquista: strappata alle sabbie di fuoco di Rio ed estradata nella reggia da
principe bizantino di Umberto. Ogni tanto si fermava, la dominicana, per permettere al vecchio
di tirare il fiato e succhiare dalla canuccia colorata un goccio di cocktail rosa di sua invenzione.
E pensare che qualche mese fa era attaccato ad una tenda ad ossigeno ed ora se ne stava lì, il
pascià, tra i profumi della campagna pugliese ed ozi degni di Nerone.
Di Tiziana, la prima sgangherata moglie, rimaneva un'unica foto, in un angolo del soggiorno: si
erano separati dopo tre anni. Adesso lei era una apprezzata operatrice di moda a Milano.
Salire all'altare per Umberto era una sorta di hobby: la seconda volta fu con Laura, poi toccò a
Gina e quindi a Teresa. Poi basta, per un decennio. L'ultima con Bianca, che se era andata
quattro anni fa per un tumore al collo.
Adesso Umberto si era ritirato, gli bastavano i massaggi di Silvien per tenere in allegria la
pellaccia da 74enne nella quale non si riconosceva, in quelle rughe violente che gli deturpavano
il volto ed il sorriso.
Un sorriso che si allargava a dismisura quando il vecchio ammirava in estasi il “Giardino dei
desideri” di Bosch, nel salone: quel gozzovigliare spensierato di membra intrecciate aveva il
potere di mettere in moto la macchina del tempo e catapultarlo in una giovinezza remota.
-Come si sta lì, ragazzi?
-Da Dio, c'è anche lui.
-Posso partecipare?
-Accomodati, qui c'è posto per tutti.
-Allora non mi trovate vecchio?
-Ma i vecchi non esistono! Vieni!
Giovane o vecchio, il cervello di Umberto continuava a inebriarsi con i suoi incredibili viaggi
mentali.
Da dissoluto qual era e qual era sempre stato, avrebbe potuto avere, adesso, molto di più di
quanto era riuscito ad ottenere da San Giovanni Battista. Ma quando hai una Ferrari tra le mani,
pensava il Londi, non puoi tenere l'accelleratore trattenuto. Devi spingerlo, quel cazzo di pedale,
finchè non ti scoppia fra i piedi!
Comunque, gli restavano sempre la sua reggia, le sue piscine, la Silvien, e il Giardino di Bosch.
C'era anche Arturo Brazzi, il giardiniere. Un giovanottone che aveva preso il posto del suo
povero nonno Anselmo, il fu giardiniere di casa Londi.
Erano i due angeli custodi del vecchio, che ormai aspettava la fine. Il suo rene stava ormai
alzando bandiera bianca e i soldi per un trapianto non c'erano più.
Il giardino della reggia di Puglia sembrava rubato a quello della reggia di Versailles: stessi
sentieri serpeggianti, stesse ariose macchie d'albero regolari , e qua e là una Venere nuda, un
Apollo del Belvedere, un Cavaliere errante, un cherubino. Un paradiso.
Il posto più bello per crepare in santa pace.
Era deciso: dopo giorni e giorni di dubbi amletici Luigi avrebbe composto quel maledetto
numero e subito una disgustosa umiliazione.
Umberto era ufficialmente lo zio del Gigi, ma di fatti fu qualcosa di più.
Lorenzino Londi, il padre, era morto venti anni prima, fatto a pezzi dal suo stesso cane. Dai
tredici ai ventiquattro anni Luigi si trovò sotto l'ala protettiva dello zietto, che cercò di farlo
studiare e aprirgli una strada decorosa o meno traballante della sua.
Ma non c'era niente da fare. Gigi assomigliava troppo a Umberto e alla fine seguì le orme del
parente, che da pazzo qual era ne fu soddisfatto.
Dopo il colpaccio alla galleria d'arte lo zio era divenuto una celebrità: “l'amico di San Giovanni”,
lo chiamavano. Il nipote venerava Umberto e aveva cominciato a venerare anche San Giovanni,
la sua immagine gli si stampò impressa durante tutta l'adolescenza e non se l'era mai scollata di
dosso. Si era messo in testa sin da subito che anche lui avrebbe percorso quella strada, magari
stringendo amicizia con qualche altro santone. E quando qualcosa gli andava storto, portava
pazienza e diceva a sé stesso: “ci pensa San Giovanni!”
Ma i vecchi adagi avranno anche un loro motivo di esistere, e “non tutte le ciambelle riescono
col buco” si addiceva perfettamente alla personale vicenda del Gigi, la ciambella sformata.
Cinque volte in pochi anni era finito ad ammirare “i tramonti i prigione”, come diceva De Andrè,
e per cinque volte le tasche dello zione caro dovettero intervenire per tirarlo fuori dai guai. La
quinta volta lo zio si ruppe i coglioni e lasciò la sua impronta stampata sulla faccia del nipotino,
abbandonandolo al suo destino all'uscita di un penitenziario.
Il vecchio non aveva torto: come ladro e svaligiatore Luigi Londi non aveva mai fatto strada, se
non quella che lo avrebbe portato dritto dritto al carcere di turno.
Ma adesso il vegliardo gli serviva, come ad un cavallo serve il fieno per campare. C'era un bel
progettino in vista che i suoi compari avevano adocchiato, ma stavolta non potevano
permettersi di mandare tutto a puttane.
Bisognava riuscire nel colpo, e c'era bisogno di gente esperta.
Con molta tensione, Gigi prese il cellulare, svuotò un bicchiere d'acqua, buttò giù un respiro
sofferto e fece quel numero che non voleva uscire dalla tastiera.
Ogni distanza è relativa: una vasca può essere buona anche per giocarci a pallone.
La vasca di Umberto presentava queste caratteristiche: quindici metri per dodici, c'era spazio
per organizzare una festa.
Ma alle feste chiassose il vecchietto preferiva un comodo tete-a-tete con Silvien, tra un
massaggio e l'altro. Ogni tanto il giardiniere buttava un occhio dalla mastodontica finestra che
dava sulla vasca.
-Vuoi cena?
-Grazie, cara. La solita cotoletta, poco cotta. E un po' di insalata.
-Va bene. Mangi in vasca?
-No, ti raggiungo tra poco in salone. Apparecchia, intanto. Volgio farmi cullare qualche altro
minuto dalla schiuma.
Silvien lo congedò con un sorriso a trentadue denti, tutti bianchissimi.
Umberto chiuse gli occhi e mise piede nel più bel giardino che Bosch avrebbe mai potuto
dipingere. In mezzo a ninfe inghirlandate, animali esotici e un sole caldo che disegnava raggi
divini che gli penetravano in profondità nella pelle.
La quiete non sarebbe durata a lungo.
Da Milano, in via Cavour, stava arrivando una telefonata.
-Chi è?
-Sono un amico di Umberto Londi.
-Tu come chiama?
-Sono...gli dica che sono un vecchio amico di Milano.
-Tu aspetta.
Silvien arrivò con il cordless in mano nel salone, dove Umberto stava consumando lentamente la
sua cotoletta. Con un gesto deciso del braccio fece segno che non voleva essere disturbato.
- E' suo amico vecchio di Milano.
-Amico di Milano? E come si chiama?
La dominicana riappoggiò la cornetta all'orecchio.
-Tuo nome quale?
-Sono...sono Giovanni.
-Si chiama Giovanni.
Il vecchio strappò incazzato dalla bocca il pezzo di carne.
-Non ho nessuno amico che si chiama Giovanni. Mandalo a fare in culo e metti giù.
-No, signore no vuole parlare con nessuno. Io deve chiudere.
-Ma chi cazzo sei tu? Sono suo nipote, Luigi, passamelo stronza!
-Stronzo tu!
Umberto scattò dalla sedia e prese l'apparecchio.
-Ma che cazzo vuoi, la gente a quest'ora mangia!!Non lo sai?
Attimi da brividi. Parlare o mettere giù? No, Gigi sapeva che doveva farsi avanti.
-Sono io.
Lo zio forse intuì di chi fosse la voce, ma volle la conferma.
-Chi tu?Hai un nome?
-Dai che mi hai riconosciuto.
-Sei lo stronzo?
-Si, bravo, hai indovinato.
-Allora è meglio che ti mandi al diavolo da solo prima che lo faccia io!
-No, mi devi ascoltare, per favore!
-Sei una nullità, fottiti!
− La nullità si attaca a un chiodo, se metti giù! Te lo giuro su mio padre!
− Non dire stronzate e lasciami in pace!
− Domani allora compra il giornale, vecchio bastardo!
Il cuore duro di Umberto ebbe un sentimento di pietà, o semplicemente non aveva il coraggio
di convivere con un rimorso.
-Chiama domani, alle otto.
-Grazie.
Il vecchio scaraventò il cordless sulla moquette e tornò al tavolino di cristallo, per finire la
cotoletta. Fredda.
Gigi per festeggiare spese tre euro e si comprò un cartoccio.
Alle ventidue e dodici il prosciutto e il formaggio chiamarono la birra. Gigi si infilò nel primo
pub aperto. Adesso possedeva la temerarietà per spendere fino a cinque o sei euro.
Gelata, quella bevanda, come piaceva a lui: era talmente catturato da quell'attimo di fresco
piacere che neanche aveva dato uno sguardo allo zoo nel quale aveva messo piede.
Una cerchia di cadaveri e moribondi abbandonati languidamenti sui divani color pastello, un
pavimento incatramato di sputi e whisky, qualche rincoglionito che si dondolava da solo in
mezzo al locale ascoltando la musica che usciva dal suo cervello.
“Che bel posto di merda mi sono scelto”, pensò Luigi, mentre staccò il labbro dal boccale di
vetro. Consumò le ultime gocce, tirò via dalla tasca scucita quattro euro più trenta centesimi di
mancia, e guadagnò l'uscita. Tre secondi prima di trovarsi fuori da quella topaia puntò i piedi.
All'estremità dell'angolo destro del bancone vide qualcosa di strano: un elemento incongruente
con il resto del letamaio.
Le curve dei capelli le coprivano per metà il volto, ma quella mezza faccia conquistò Luigi. Con
la mano accarezzava un piccolo bicchiere di Gin, con l'altra la ragazza fece cenno all'amichetto
di farsi avanti.
Come comportarsi? Era stato preso in contropiede. Diede le spalle per qualche secondo alla
ragazza del bancone e provò a calmarsi. Il rapporto con l'altro sesso per Gigi non era mai stato
una delle cose più facili, a causa del suo carattere schizzoso, da “bestia”, come gli ripeteva
Giorgia.
Una volta a quella poveraccia l'aveva piantata in asso, tra la macedonia e il caffè, in una delle loro
sporadiche uscite al ristorante: il Cicala l'aveva chiamato per una puntatina ad una gioielleria
fresca di apertura. E Giorgia dovette pagare di tasca sua la cena per due.
Gigi scacciò via la ex dalle testa e procedette verso la tipa. Si sedette con molta nonchalance,
almeno secondo quello che il suo vocabolario interpretava per nonchalance, con una gamba che
penzolava fuori dalla sedia e l'altro arrotolato dietro il piede della ragazza.
L'approccio sembrava funzionare: la ragazza del Gin sorrise dolcemente al suo corteggiatore. E
Gigietto si sentiva già in grado di competere con George Clooney.
La mano pallida della tipa lasciò il Gin da solo, sul banco, e si posò sulla sedia del Londi. La sedia
del Londi cominciava a tremare.
Un attimo, e i pantaloni rosso fuoco del Gigi furono devastati da un'alcolica cascata del Niagara.
La testa della ragazza sbattè violentemente contro lo stomaco di lui, facendo volare la sedia dal
culo del latin-lover.
Tutti giù per terra, a nuotare fra le onde del Gin.
Mentre il vento lo prendeva a sberle senza pietà, il Clooney della Lombardia fece quattro conti:
tre euro per il panino, quattro, cinque per la birra, dieci, venti per il vestito fottuto...Quella
serata gli stava costando troppo.
Il vecchio macinino a due ruote barcollava come la tipa del Gin, sbalestrato a destra e a sinistra
dal dio Eolo. La signorina spugna si stringeva ai fianchi del Londi, graffiandolo con le sue unghia.
Lo stantuffo a vapore arrivò alla prima fontana: dopo qualche secondo sotto quel diluvio di
acqua ghiacciata, la ragazza riaprì gli occhi e si asciugò la bocca, dalla quale uscirono a fatica
quattro parole.
-pzz vrd......
-che dici? Non ti capisco...
-pzz verdi....
Piazza Verdi. La tipa abitava lì. Ancora qualche pugno invisibile del vento e Gigi sarebbe uscito
vivo da quella incredibile nottata.
-Scendi, cosa, sei arrivata. Abiti qui vero?
-Grze...ciao..
La ragazza appoggiò leggermente le labbra sulla guancia del suo salvatore e scese dal motorino.
Salì con molta incertezza cinque gradini e senza voltarsi si tirò dietro il portone.
Gigi Clooney accarezzò il tatuaggio a forma di bocca che la tipa gli aveva impresso con il
rossetto. Asciugò due gocce di Gin dal sedile bucato e mise in moto, nello stesso momento in cui
una pioggerellina fastidiosa cominciava a stuzzicargli la fronte.
Alle otto del mattino, quando i suoi occhi si riaprirono, aveva di nuovo davanti la ragazza del
pub. Gigi Londi si era svegliato con quel pensiero.
“Potevo anche chiederle il nome”, pensò fra sè e sè mentre con il rasoio sradicava l'erbaccia
nera dalla sua faccia. “In fondo è tornata sana e salva grazie a me”, continuò a dirsi trastullando il
cervello, mentre avvitava la teiera del caffè.
“E se ritornassi a casa sua, tanto so dove abita ormai”, riflettè sorridendo, mandando giù
avidamente la tazzina.
“E se chiamassi tuo zio, coglione?”. Nella conversazione si inserì prepotentemente l'unico
neurone in buona salute.
Neanche dovesse partecipare a una gara di atletica contro Carl Lewis, Gigi Mennea corse a 120
all'ora in direzione del cellulare. Con tutta l'ansia del mondo digitò per la seconda volta il numero
della reggia pugliese.
Le grosse mani di Arturo si muovevano danzando, facendosi spazio in mezzo a quella selva
naturale di betulle e margherite: una leggiadra scorciata a un petalo scomposto, una tenera
spolverata sulle membra di un Apollo. E il giardino ringraziava.
Le forbici del giardiniere si fermarono, al suono del telefono.
-Chi parla?
-Sono il nipote di Umberto. Me lo passate, per favore?
-Attenda un attimo.
-Sono qui, Arturo, vai, vai.
Il vecchio non si era dimenticato dell'appuntamento.
-Allora.
-Buongiorno, zio. Il nipotino cercò subito di ammorbidirsi con le buone maniere lo zio d'oro.
-Ti avevo detto alle otto, no? Credo che non sia una cosa molto urgente, se mi chiami con più di
un'ora di ritardo.
-No, zio, scusami, ma ho avuto una nottata un po' movimentata.
-Che vuoi?
-Senti, so che ti ho fatto penare molto negli anni passati..
-Te ne accorgi adesso?
Gigi capì che era meglio andare subito al sodo.
-Mi devi aiutare ad organizzare una rapina in villa.
-Scusa, nipotino. Non ti ho sentito bene, c'è un'interferenza con il manicomio.
-Zio, viene da me quella interferenza. Lo sai bene.
-Ah, da quando sei diventato pazzo? Ti ricordavo solo stronzo.
-Avevi promesso di aiutarti.
-Io non ho promesso nessun aiuto.
-Sì, che l'avevi promesso!
-Ma ti sei rincoglionito? Sono sedici anni che ho chiuso col lavoro! Addio nipote!
-Aspetta!!
-E non chiamare più!
-Avrai la metà.
-La metà dell'incasso di un supermarket non mi interessa.
-Non vado più per negozietti, zio! E' roba di seicentomila euro, e trecentomila te li becchi tu!
Trecentomila euro.
Solo con trenta avrebbe potuto pagarsi l'operazione. Luigi, senza saperlo, aveva avuto un gran
culo.
-Spiegami tutto.
-Ah, ti piacciono ancora i soldi, vero?
-Ho detto spiegami tutto.
-D'accordo, zio. Ti chiamo nel pomeriggio, però. Adesso devo sbrigare una cosa urgente.
-Lo spero per te, ci sono seicentomila euro che aspettano.
-A più tardi, zio.
Umberto Londi sperava di non dover avere più nulla a che fare con quella vita: ma per
continuarla, questa vita, doveva ritornare in quella vecchia.
Gli orsi e i procioni vanno in letargo d'inverno, Cecco Ralli prediligeva la stagione primaverile.
Dopo dodici minuti di toc toc ininterrotto, Luigi Londi perse la pazienza e si scelse un bel
pietrone grigio. Chissà se il rumore del vetro avrebbe ridestato l'animale Ralli.
-Ou, Cecco, sono io il Londi.
La tana del Ralli faceva risplendere, a confronto, la baracca di Gigi.
Luigi si muoveva con un certo disgusto, tra quei pantaloni lordi, quei resti di cibo, quelle calze
imbalsamate sulla sedia.
“Potrebbe aprire una discarica, qua dentro”, pensava, mentre si avvicinava alla camera da letto
del compare.
Di colpo Gigi volò dal tappeto sul quale stava camminando, e finì muso a terra.
Un dolore acutissimo alle spalle gli fece sputare una bestemmia da far morire di crepacuore tutta
la Terrasanta. Neanche il tempo di girarsi dall'altra parte che il suo bel faccino ricevette un altro
colpo ben assestato.
-Chi cazzo sei? Bastardo!!! Che vuoi da me, stronzo?
L'epiteto di “bestia” al Ralli calzava a pennello. La sua irrazionale furia omicida continuò a
scagliarsi sul Gigi che cercò di farsi largo scalciando da tutte le parti come un bisonte
rincoglionito. Uno di quei calcioni arrivò dritto in bocca alla belva, che rotolò per terra,
lanciando il bastone spezzato alle sue spalle.
Se ci fosse stato Bruce Lee, lì in mezzo, avrebbe fatto un bell'applauso al Londi.
-Pezzo di idiota, ma che cazzo fai??
-Ma chi sei, il Londi?
-No, quello stronzo di tuo padre che ti ha messo al mondo!
-Scusa, Gigi, ho sentito il vetro spaccarsi e credevo....credevo volessero aggredirmi...
-Aggredire te? Per che cosa, per portarsi via le tue mutande bucate, stronzo?!!
Il Ralli timidamente chinò il capo, come un cane dopo essere stato bastonato dal suo padrone.
-Perdonami, Gigi.
E il suo compare non poteva fare a meno di perdonarlo, consapevole di trovarsi davanti non un
uomo, ma un incrocio sperimentale tra un gorrila e una puzzola.
-Senti, facciamo finta che non sia successo niente, Cecco, perchè sono troppo contento.
− Perchè sei contento?
− Perchè seicentomila euro fanno ritrovare il buon umore, amico.
− Seicentomila? Villa Speroni?
− Esatto.
− La bocca della belva si distese a dismisura, facendo mostra dei suoi diciotto denti
colorati.
− Ma avevi detto che era troppo difficile? Troppo pericoloso..
− C'è lo zio.
− No!!Tuo zio, il maestro?
− L'ho convinto. Dammi la piantina della villa. Più tardi devo richiamarlo e cominciare
a spiegargli il piano.
− I diciotto denti fecero marcia indietro, scomparendo dentro la bocca.
− Cecco....non avrai perso la piantina, vero?
− No, no...la piantina ce l'ho io...
− Bravo, tirala fuori.
− Sì, aspetta. Aspettami nella cucina.
− Sbrigati.
− La piantina. Dove si era cacciata? Dentro una pantofola? In bagno? Sotto il letto?
Nascosta nell'armadio?
− In quel bordello, trovare qualcosa era impresa da Mission Impossible. Ma Cecco
aveva perso anche il numero di Tom Cruise.
− Mentre attendeva che la puzzola avesse tirato fuori la pianta, Gigi frugò un po'
intorno.
Aprì il piccolo frigorifero. Non l'avesse mai fatto.
Adesso sapeva che odore facessero i cadaveri in piena putrefazione.
“Ma che cazzo si mangia questo qui”?
Tra la robaccia amucchiata e appallotolata nel frigo, si distingueva un pezzo di
caciocavallo dentro una cipolla, un cubo sciolto di burro nero, uno yogurt dal colore
verde e dal sapore indecidibile, un cracker con dei peli sopra, e schifus in fundus, una
tazza con del latte avariato. Dentro c'era una mosca che faceva i tuffi.
− Un istante prima di chiudere quella valigia degli orrori, il suo occhio si posò su una
scatoletta di tonno. Dentro c'era anche la sorpresa: la piantina di Villa Speroni.
−
−
−
−
−
−
−
−
−
−
-Il mio solito cappuccino, Gianni.
- Subito
-Per favore, anche una brioscina.
- Certo.
Gianni, sorridendo, appoggiò la brioscina sul vassoio.
Il suo cliente esibiva un signorile comportamento anche quando doveva sollevare
una tazza: un movimento circolare da destra verso sinistra, un assaggio degustativo
accompagnato con un certo distacco, una rotazione ariosa della tazza.
− Gianni raccolse il vassoio, con la tazzina vuota e dieci euro accanto ad un pezzettino
di brioscina.
− -Sempre generoso lei.
− -I soldi sono soltanto cartaccia, ricordalo.
− -Dottore, se ha altra cartaccia che le avanza, io sono sempre qui.
− Il baffuto lord salutò con un bel sorriso il suo datore di cappuccino.
− -Un caffè ristretto, per piacere.
− Gianni riprese a smanettare velocemente la macchinetta del bar.
− -Posso offrirle io, quel ristretto, signorina?
− Il vecchio lord si rimaterializzò all'improvviso.
− -Grazie, non c'è bisogno...davvero..
− -La prego, potrei anche offendermi..La volpe tirò fuori uno dei suoi migliori sorrisi
d'occasione.
-D'accordo, non so che dire...grazie...
-Come vanno gli studi?
-Gli studi?
-Vedo un bel paio di tomi minacciosi, nello zainetto.
-Ah, si...no, io faccio lezioni private per gli studenti..
-Mi perdoni la gaffe...è così giovane che mi chiedevo cosa ci facesse a quest'ora una ragazza
al bar, invece di essere a scuola.
La moretta rise intimidita.
-E cosa insegna, se posso chiederglielo?
-Dò ripetizioni di latino e storia.
-Ah, un umanista. Interessante. Chi preferisce, Catone o Virgilio?
La ragazza mandò giù rapidamente il caffè e raddrizzò il monospalla.
-Guardi, devo andare...davvero...per me è davvero tardi...
-Ma si figuri, non vorrei privare quei fortunati delle sue meravigliose lezioni.
Gianni seguiva con attenzione maniacale l'evolversi della scena.
− Senta, signorina, a casa possiedo diversi libri di lettaratura e lingua latina. Se lei vuole,
sarei lieto di consegnarglieli la prossima volta. Penso le possano servire.
− La ringrazio, ma non mi sembra il caso, lei è gentile e...
− Domani pomeriggio, qui, al bar. Che ne pensa? Tra un cornetto alla crema e un altro
ristretto potremmo parlare anche del De Rerum Natura.
− Rieccolo lì, il subdolo sorriso dalla irresistibile forza magnetica.
− Non so che dirle..
− Mi dica a che ora le è più comodo.
− D'accordo, facciamo alle 17, allora?
− Va bene.
− ora devo scappare, però, arrivederci...
− A domani.
− Gianni non riusciva a staccare gli occhi da quell'uomo.
-Ma come fa?
-Come faccio a fare cosa?
-Ma come..ogni giorno ne pesca una!
-Caro Gianni, un giorno di questi terrò una lezione sull'argomento solo per te. D'accordo?
Adesso, mi spiace, ti devo salutare.
-Quando ha tempo. Io aspetto da mesi queste sue lezioni, però! Arrivederci.
Il barista sapeva bene che non esistevano regole scritte sulle pagine dei libri.
Guglielmo Speroni, d'altra parte, era un abilissimo autodidatta.
Il vecchiaccio aveva recuperato la tempra dei giorni che furono: quel giorno sbucò fuori dalle
lenzuola prima di Silvien, e corse a preparare il caffè per due.
Mentre aspettava che la vecchia teiera d'argento eruttasse fuori il suo contenuto, fece qualche
esercizio di ginnastica: un po' di stretching e qualche bel respiro profondo.
Qualche giorno prima, dopo quei leggeri movimenti, avrebbe avuto bisogno del soccorso Aci di
Silvine: ma quel giorno saltava come un grillo. Forte, vispo, giovane.
Scolò con gusto il caffè corposo e ne versò un altro po' sulla tazzina gialla per la sua dominicana.
Con la mano afferrò la campana dello zucchero: quella pazza ne faceva incetta.
La pazza spalancò in quel momento i suoi enormi occhi neri: per la prima volta trovò il letto
vuoto.
-Umberto, Umberto!
-Sono qui, amore, in cucina.
-Perchè tu già alzato?
-Oggi sono mattiniero, cara. E' una bellissima giornata. Vieni qui che prendiamo il caffè sul
terrazzo.
-Io arriva.
Umberto guardava il suo corpo con disgusto: ancora poco tempo e un bel viaggio a Parigi lo
avrebbe fatto rinascere. E il suo rene putrido, magari, lo avrebbe buttato giù nella Senna.
Il bravo Arturo aveva già sciolto il guinzaglio alle sue forbici. Il vecchio si affacciò sul terrazzino
per vederlo all'opera.
-Vacci piano, Arturo, non fare del male alle mie piante!-disse sorridendo come un bambino.
-Buongiorno, signore. Già in piedi?
-Non solo, adesso ti aiuto a mettere a posto il giardino!
-Il giardino, signore? Ma ..
-Ma mi credi un moribondo, Umberto? Guarda che posso fare meglio di te!
-Accetto la sfida, signore! La aspetto!
Umberto fece un segno di risposta alla maniera militare, appoggiando due dita sul capo e
indirizzandole verso Arturo.
Rientrò in cucina.
Mentre mescolava il caffè di Silvien, Umberto Londi si svegliò.
“E se non riuscisse? Se facessimo cilecca”?
La vecchiaia è una brutta cosa, specie quando si campa facendo il ladro.
Se avesse potuto entrarci lui, di persona, in quella villa, era sicuro di riuscire. Ma per quello che
poteva fare, con la carcassa malandata che si trascinava dietro, doveva limitarsi a dirigere le
operazioni dal vertice.
Gli vennero in mente i trascorsi con il figlio-nipote, fuori dal carcere, tanti anni prima.
Se avesse fatto fiasco, addio trecentomila, addio rene nuovo, addio vita, Silvien e caffè.
Gli occhi del vecchio si fecero piccoli piccoli, schiacciati dalle pesanti arcate sopraccigliari. La
bocca s'incurvò amaramente verso il basso.
“Quel figlio di puttana ha in mano il mio destino”.
Cinquantadue stanze e tre ore di tempo. Un colpo che avrebbe scoraggiato Arsenio Lupin.
Più la guardava, quella maledetta cartina, più Gigi tormentava i suoi capelli. Al primo piano c'era
il salone principale, otto porte agli angoli, in fondo un bagno poco più grande dell'appartamento
del Londi. Finestre enormi e colorate, come quelle che si vedono nelle chiese gotiche.
Al secondo piano un'altra trafila di stanze e stanzoni, scale a chiocciola, finestroni. Idem al terzo.
E da qualche parte, in qualche sperduto ma custodito angolo di quella dimora faraonica,
dovevano esserci anche i seicentomila. Roba da pazzi, pensava il Londi. Oltre un miliardo di lire
in casa. Ma se le informazioni del Beracchi erano esatte, doveva essere proprio così.
“Non sono normali, quelli, Gigi, tengono quei soldi come fossere quattro spiccioli. Così, da usare
per i loro capricci, per i loro party. E ogni tanto arrivano carichi di roba con dei camion nel loro
giardino. Valli a capire”.
Gente bizzarra, la famiglia Speroni. Discendenti da una casata nobiliare del XII secolo.
Il Marchese Ugo Alibrando Speroni fu sciolto nell'acido, in pieno medioevo, per una questione
di debiti; alla sorella, Elagarda, il marito tagliò le braccia per avere accarezzato un suo parente; e
il bisnonno del capofamiglia Guglielmo, Gerardo, fu trovato scorticato in un pozzo dal figlio.
I compari di Luigi tenevano d'occhio da tempo gli Speroni, da fuori, mentre da dentro le notizie
arrivavano per bocca della talpa Beracchi.
Tre mesi fa la talpa sputò la notizia bomba. Gli Speroni avrebbero presenziato a un ricevimento
di gala a casa Galbiati, altre teste coronate del Milanese.
La bomba consisteva nel fatto che tutti i quattordici Speroni avrebbero lasciato la villa deserta,
avvenimento mai accaduto da quando la banda del buco aveva messo gli occhi su di loro.
Stranamente qualche Speroni era sempre rimasto dentro, la sera, quando gli altri uscivano.
La talpa era riuscita a sentire che tutti, domestici compresi, avrebbero partecipato a quel
ricevimento. La reggia, dalle 21 alle 24 circa, sarebbe rimasta a disposizione del Londi.
Unico ostacolo, a questo punto, sarebbe rimasto la squadra di calcio a quattrozampe di casa
Speroni. Nove cani fra alani, spitz asiatici e pastori belga.
Non sarebbe stato un ammasso di peli a fermare Gigi e i suoi.
Il Capo della brigata, con quella cartina davanti, cominciò a fantasticare con i suoi neuroni
impazziti: si vide ubriaco in qualche pezzo di sabbia bianca dei Caraibi, con un harem a sua
disposizione e tanti soldi che lo circondavano ridendo e ballando.
Il cellulare da 40 euro sul tavolo richiamò Luigi Londi sul pianeta Terra.
Bisognava chiamare il vecchio, adesso.
−
−
−
−
−
Allora hai deciso?
Sì, ormai sto partendo.
Ma sei sicuro di quello che fai?
Non ho altra scelta!
Auguri, allora, noi ti aspettiamo qui.
− Torno presto, ragazzi, non state in pensiero.
Il vecchio si stava congedando dai suoi amici dipinti, quando il suo occhio si fissò su Giovanni
Evangelista che indicava con la mano il povero Gesù in croce.
Forse voleva dire al Londi “attento a non finire come lui”?
Con la coda dell'altro occhio, quello sinistro, vide la valigia che Silvien gli aveva preparato la sera
prima. Un paio di maglioni, qualche camicia, roba per una settimana.
-Sei pronto, Arturo?
-Sto arrivando, signore.
Aveva saggiamente deciso di portarsi in trasferta, all'ultimo momento, anche il giardiniere: un
viaggio in treno, in due, si sopporta meglio. E poi c'erano quei 74 anni che non li
abbandonavano mai, e non si può mai sapere a quell'età...
-Signore, come mai andiamo in treno?
-Soffri le rotaie, Arturo?
-No, però mi chiedevo se con l'aereo..
-Il treno dà meno nell'occhio, Arturo, specie nel mio caso..
-Come vuole, comunque quando vuole possiamo partire.
-Saluto Silvien e ti raggiungo.
-Intanto sistemo la macchina.
La bella addormentata era ancora nel suo letto. Il principe grigio le diede un bacio sulla fronte,
senza svegliarla. Si diede una lustratina ai capelli, prese la sua borsa e uscì di casa.
Dal finestrino della macchina salutò le Veneri e gli Apolli che continuavano a danzare in
giardino. In mezzo a loro, Ermes, dio dei ladri, augurava buona fortuna al suo allievo.
-Arturo, per piacere, prendimi un pacco di fazzoletti e il giornale.
-Certo, signore.
La stazione, da quanti anni non la vedeva. Era invecchiata decisamente peggio di Umberto.
Mentre era assorto a guardare quel luogo irriconoscibile, si sentì tirare fortemente per il
braccio. Un ragazzino cercò di strappargli la borsa che teneva incollato all'arto, e con uno
strattone mandò il vecchio gambe all'aria.
-E vaffanculo, vecchio!!
Il “maestro” messo sotto da un bamboccio. Questo non poteva sopportarlo.
Con uno scatto imprevedibile, Umberto allungò il bastone e lo fece incastrare tra le gambe del
piccolo. Anche lui finì giù.
Una scena da saloon. Dai finestrini del rapido alcuni vecchietti cominciavano a urlare e fare il
tifo per il loro coetaneo.
Il bamboccio si alzò velocemente, lasciando cadere la borsa per la fretta. Umberto lo raggiunse
nuovamente col bastone, in piena nuca. Il furetto scappò via terrorizzato.
Il giardiniere lasciò cadere per terra quotidiano e fazzoletti, non appena vide il principale al
suolo.
-Che è successo?
-Niente, Arturo, mi hanno dato il benvenuto alla stazione.
-L'hanno aggredita?
-Un bebè ha cercato di fottermi la borsa.
-E dov'è ora?
-Ora starà vedendo le stelle che gli girano per la capoccia- sentenziò il vecchio con tono fiero.
Arturo lo osservava tra l'ammirato e il sorpreso. Quel rottame aveva cancellato per incanto
acciacchi e dolori. Si chiese se fosse lui a doverlo difendere o il contrario.
Sfogliava quelle pagine, dure come mattoni di granito, con un occhio sul fondo del locale e l'altro
sul quadrante del suo Rolex. Di tanto in tanto adocchiava Gianni che lo derideva sotto i baffi. Lui
rispondeva con i suoi occhi.
“Arriverà, arriverà...”
Dopo ventiquattro minuti di battaglia, i germani stavano dominando il campo e Guglielmo
pensava sempre più ad una energica ritirata da quel campo insidioso. Il “De Bello Gallico” lo
stava sfinendo.
Quasi volendo prendersi gioco dei suoi nemici, sottolineava con un pennarello rosso quelli che
secondo lui avrebbero dovuto essere i passi salienti. Cerchiava alcuni nomi sconosciuti.
Ogni tanto, a margine, si prendeva la briga di inserire una propria interpretazione con quel suo
frasario elitario e coinvolgente.
Tirò giù un altro mezzo bicchiere di limonata fredda.
Appena vide arrivare Marta da lontano, ancora sfocata e nascosta fra altre teste, si asciugò i
baffetti umidi e poggiò la limonata accanto all'ordigno di Cesare. Con un gesto perentorio e
mussoliniano della mano ordinò a Gianni di portare qualcos'altro da bere.
La mano affusolata e stanca si risvegliò e cominciò a serpeggiare frenetica, armata di
evidenziatore, tra le righe minuscole del tomo. La piccola bocca si muoveva velocemente, come
se stesse tenendo a se stesso una lezione sulla materia. La postura di Gugliemo divenne
d'incanto solida.
Si stava avvicinando. Con quei dieci-dodici secondi che gli rimanevano, accesse l'interrutore del
cervello e si stampò a memoria una frase a caso di Cesare.
-Ubi non accusator, ibi non judex.
La ragazza rise sorpresa da quell'accoglienza erudita.
-Vedo che conosce bene il latino...
-Ne mastico qualche parola, cara, per tenermi in allenamento. Si sieda, prego.
-Grazie.
-Gianni ci sta portando una limonata.
-Non doveva disturbarsi.
-Macchè. Guardi qui, invece! Ogni promessa è debito.
-Ma ha svaligiato la biblioteca dell'Università?
-Le ho detto che ero ben fornito. Tenga. Sono tutti suoi.
-Non so davvero come ringraziarla. Ma...vedo che stava leggendo..cos'è...il De Bello Gallico..!
-Ah, sì, mentre....l'aspettavo mi divertivo a sfogliare un po' di pagine...mi ha portato indietro
negli anni....
-Le piace ancora?
-Sì..certo...Cesare era una delle mie passioni.
Da funambolo qual era staccò una pupilla dalla faccia della tipa e la portò a sondare quelle
pagine aperte. Tre secondi per inghiottire una pillola di cultura.
-L'ho trovata una rievocazione appassionata ma anche di grande portata etnologica, questa
introspezione sui costumi celtici....
-Però...se ne intende comunque...posso prendere anche questo?
-Ma me lo chiede? Li ho portati apposta per lei!
Gianni, dal balcone, catalizzò l'attenzione sui due piccioncini. Versò la limonata in due alti
bicchieri di vetro senza staccare l'occhio dal suo obiettivo.
-Grazie, Gianni.
La ragazza alzò la mano per portare il bicchiere alle labbra. Un piccolo cerchio nero le si era
stampato sul mento.
-Che cos'è quel brutto livido?
-Ah...niente di grave...Sono caduta l'altra volta...una sciocchezza...
-Ha problemi di equilibrio?- per scardinare la difesa avversaria Gugliemo puntava sembre su
una sottile vena di umorismo britannico.
La tipa rise a denti stretti e cominciò ad essere più esplicativa.
-Vede, lei è stato così premuroso e gentile che voglio dirle la verità....mi sono ubriacata qualche
sera fa....lo so è una vergogna...però...
-Ma no, può capitare a tutti...anche questo qui, guardi, ci andava forte col vino!- con la mano
indicò l'autore imbronciato del De Bello Gallico, stampato sulla copertina.
-eh, sì...ha ragione...però guardi...io non sono il tipo che si ubriaca, davvero....ma ero molto
triste qualche sera fa...e mi sono ritrovata in un pub...così....
-Capisco. Non se ne deve mica vergognare o farsene una colpa. Scommetto che non è colpa sua,
è qualcuno che l'ha indotta a bere. Dica la verità.
-Sì...in effetti è così...mi sono lasciata..mi ha lasciato..
-Il suo lui?
-Sì...dopo due anni.....è stato terribile...per me, almeno...ero stordita, confusa...
-Vede? Non è stata colpa sua..posso chiederle come è finita la serata?
-Sì...bè..sono stata fortunata se vogliamo...un ragazzo ha avuto pena di me e mi ha
riaccompagnato a casa...sana e salva!- la tipa brindò alla sua salute con un altra goccia di liquido
giallo.
-Però, davvero fortunata, di questi tempi non c'è molto da fidarsi...
-No, no, davvero, ho incontrato un angelo custode quella sera...ma le prometto che non
succederà più!- la ragazza cominciava a sciogliersi e ad ammiccare divertita al suo
interlocutore.
Da lontano, Guglielmo, sentì l'eco di un rumore. Aveva capito che poteva essere solo quel
simpatico imbranato di Gianni.
Il barman, in effetti, se ne stava appostato nel suo recinto, mimetizzato tra una grappa e una
soda.
Era già al terzo bicchiere rotto, quel pomeriggio. Con il dito bagnato indicò ridendo Guglielmo,
di fronte a lui. “E' colpa sua”- gli stava dicendo.
Il professore di seduzione rispose sollevando leggermente la testa. Poi allungò la sua mano
verso quella della sua preda.
-“Per lui che è un bravo ragazzo, per lui che è un bravo ragazzo, per lui.....che bravo ragazzo!!”
-Ormai non si ricorda neanche più come finisce.
-Lascialo cantare, è così contento!
-Allora sei dei nostri, “Cic”?
-Certo che sono con voi, Gigi. E penso che una persona in gamba ti faccia comodo. Guarda qui
che gente ti porti appresso!
Con il braccio il Cicala indicava l'animale Ralli che sbraitava sopra il tavolo del Londi, più
ubriaco di un hooligan dopo una vittoria del Celtic Glascow. Stava festeggiando il ritorno del
figliol prodigo all'ovile, il Cicala che tornava nella tana del lupo.
La talpa Beracchi per dare una giusta cornice all'evento aveva portato pollo arrosto e birra per
tutti, alimenti solitamente sconosciuti alle mura di casa Londi.
-Quando arriverà tuo zio?-fece il Cic.
-Dovrebbe arrivare nel pomeriggio, intorno alle cinque. Stasera parleremo con lui.
-Ci pensi, Beracchi, il “maestro” che ci fa da capo. Che onore, eh?
− Se falliamo anche questo colpo giuro che mi faccio missionario!
− Non possiamo fallire, stavolta, fidati- disse estremamente rilassato Gigi.
− Ma per l'allarme come facciamo?
− A quello ci pensa mio zio. Così ha detto.
− E cioè, che farà, ipnotizzerà le cellule sensoriali?
− Non ti preoccupare, ha detto che quel problema è già risolto. Non so altro, ce lo
spiegherà stasera.
− Quella casa non è proprio come questo buco, Gigi, lo sai, no?- il Cicala si mostrava il
meno ottimista del gruppo.
− So che abbiamo poco tempo, ma se facciamo tutto con la massima sincronizzazione
e non facciamo cazzate...
− Hai studiato un piano?
− Mi hai scambiato per Cecco?
− Come faremo? A parte la stronzata dei cani, dico...
− Dopo aver disattivato il congegno d'allarme, tu e il Beracchi vi fate il lato nord-est del
primo piano; io e Cecco tutta la parte ovest. Dovrai occuparti anche della biblioteca
centrale, questa qui in mezzo. Spostala, distruggila, falla esplodere con una bomba,
basta che vedi quello che c'è dietro..
− Ho capito.
− Il primo che finisce di cercare di sotto passa all'ala ovest del secondo piano, la più
grande. Gli altri due vanno nella zona più piccola, dove ci sono bagno e camere da
letto. Lo stesso per il terzo piano.
− Terzo piano? Ma dove cazzo abitano, al Grand Hotel?- il Beracchi interruppe Luigi.
− Comunque, non dovrebbe essere così difficile. Tre ore dovrebbero anche avanzare. Cicala, tu
invece li hai portati i ferri?
- Si, Gigi, li ho portati, ma non ti aspettare mitragliatrici...l'espressione del Cicala la diceva
lunga.
Il capo si passò fra le mani quelle stoviglie arrugginite, scuotendo la testa e sospirando con un
filo di voce.
-Che te ne pare- fece entusiasta il Beracchi.
Luigi lo fulminò con lo sguardo.
-Le avete rubate a mio zio, per caso? Perchè appena arriva è capace pure di incazzarsi...
Il Cicala alzò le spalle e rise.
-Te l'avevo detto, Gigi, non dovevi aspettarti gioiellini..
-Ma nemmeno ordigni dei moti carbonari cazzo!
-Qual è il problema?
-Il problema? Ma avete provato a spararci con sti cosi?
-Sinceramente no. Tu dici...
-Dico che vi saltano in mano di sicuro.
-Facciamo una prova?- si inserì il Beracchi.
Altro lampo negli occhi di Gigi.
-No, non roviniamo la suspance! Aspettiamo di essere in villa!
Il Cicala afferò uno di quei residui bellici.
Il capoccia gliela sfilò prima che potenesse caricare.
-Tu mi servi sano. Dàlla al mongoloide.
-Cecco, vieni! Ti va di sparare?
La bestia alzò la faccia dal piatto che stava saccheggiando e tirò fuori un sorriso atroce.
-Vai, spara a quel limone. Tu sei quello che ha la mira migliore.
-Ma non è che facciamo casino?
-Qui ci abito solo io e qualche sorcio- disse Gigi.
Il Ralli impugnò la pistola e si leccò la bocca con la lingua. Sputò. Lo faceva sempre per
concentrarsi.
Luigi era stato eccessivamente severo con quel revolver: la casa fu bombardata da pezzi di
limone. Il ferrovecchio era intatto, stabile e fumante.
-C'è altra frutta in casa, Gigi?- fece Cecco raggiante, con il naso gocciolante di limone.
-Asciugati il muso, stronzo.
-Non avete neanche finito l'insalata, signore.
-Non mi va, non ho tanta fame. E poi la chiami insalata questa?
-Lo sa com'è, nei vagoni ristoranti...non possiamo mica aspettarci un piatto di ostriche..
-Vagoni ristoranti di merda...che hai detto, ostriche?
-Sì, ostriche...
-La mia prima moglie! Quella era pazza di ostriche, e anche di aragoste...!
Il viso del vecchio si rivitalizzò di colpo.
-Mi ricordo la prima volta che vide un'aragosta in faccia...per poco non svuotava tutto l'acquario
del locale!..
-La signora Tiziana?
-Sì, lei...signora...adesso, forse..dovevi vederla com'era prima! Hai presente una zingara?
Arturo annuì sorridendo.
La mano svelta di Umberto si allungò verso la bottiglia di vino. Ne versò tre quarti a lui e un dito
al fido giardiniere.
-Lo sa che non bevo....
-Un po' di vino non uccide nessuno, Arturo...il piombo fa male, quello sì, ma il vino no,
fidati...bevi dai....
I tre quarti di bianco sparirono fluidamente dentro la gola di Umberto.
-Buono?
-Sì, abbastanza....
-Ti perdono perchè non bevi, Arturo...questa brodaglia farebbe schifo anche a un barbone...
Arturo cominciò a grattarsi il collo con due dita in modo nervoso.
-Che succede?
-Senta, signore..io non mi sono permesso fino ad ora...però..
Il vecchio lo fissò con un sorriso affettuoso. Aveva già intuito dove volesse andare a parare.
-Il colpo che deve fare...dico.. è sicuro?
-Ti sei messo d'accordo con Silvien anche tu?
-No, ma visto che..
-Ma se non mi sono fatto convincere da lei, hai speranze tu di farlo, caro Arturo? Bevi, bevi, e
non ci pensare. E' una cosa che riguarda me, poi, e tu sei qui solamente come mio aiuto..
-Aiuto? Cioè, che dovrei fare?
-Al tempo te lo dirò.
Quella laconica risposta aveva lasciato visibilmente insoddisfatto il giovanotto.
-D'accordo, ma non una parola con mio nipote...avevo promesso che te ne avrei parlato a
Milano...per mio nipote, sai. Comunque, non preoccuparti, lo so che sei un ragazzo onesto, non
voglio farti diventare un ladruncolo come me!
La tensione accumulata dal giovane si andava sgonfiando.
-Dovrai solo stare immobile, e segnalarci se vedi qualche persona. Basta, tutto qui. Il palo, non
devi fare altro.
Ancora mezzo bicchiere di bianco.
-Andateci piano, vi fa male.
Umberto lo squadrò nervosamente.
-Ho una corazza di ferro nella pancia, non lo sai? Allora, dicevo..tu sarai fuori dalla villa, e ci
avvertirai se ce ne sarà bisogno.
-E come farò?
-Le apparecchiature le ho portate io, ovviamente, quelli lì sono dei morti di fame...
-Ma sono quelle che conservava nel salone? Funzionano ancora?
-Le cose buone durano cent'anni, Arturo. Lascia fare.
Il vino cominciava a fare effetto, il vecchio ormai andava a briglie sciolte.
Sbattè con violenza sul tavolino una piccola mappa.
-Ecco, curiosone, questa è la pianta della villa che mi sono ricostruito. Ovviamente se quello che
mi ha detto mio nipote è esatto.
-Signore, ci sono altre persone...forse è meglio posarla per ora...
-E quanto ti preoccupi, Arturo mio! Zitto e ascolta.
Eccitato dall'alcol il dito tremolante cominciò a muoversi come una trottola impazzita, lungo
decine di perimetri segnati con l'evidenziatore. In meno di tre minuti, il Londi diede una
descrizione minuziosa dell'assetto della villa. Il ragazzo faceva fatica a stargli dietro.
-Il vero problema è il sistema d'allarme. Gigi mi ha detto che agli angoli dei muri ci sono delle
cellule sensoriali sensibilissime, all'avanguardia. Cose da scienziati, Arturo.
-E come farà allora?
-Non sarò uno scienziato, caro, ma ricordati che nel mio ramo ero un'autorità.
Umberto posò una piccola scatoletta grigia sopra la piantina. Cominciò a segnare con delle
crocette le cellule d'allarme disegnate all'interno della casa.
-Ecco, con la mia scatola magica queste sensibilissime cellule se la prenderanno nel culo!
-Ma cos'è?
Cos'è...indovina!...un piatto di spaghetti non mi pare...
Arturo girò l'apparecchio dall'altro lato per tentare di capirci qualcosa.
-Non ti sforzare, te lo dico io cos'è...un decodificatore. Penso che vada bene anche per la nostra
casetta.
Il Londi si asciugò la bocca e allontanò il bicchiere tentatore.
-Per oggi basta vino! Soddisfatto?
-Bè, ne ha bevuti quattro bicchieri...sarà lei soddisfatto...
Senti, fammi un piacere..vado nello scompartimento. Me lo porti un caffè?
-D'accordo.
-Prenditene una tazza anche tu, o sei pure allergico a questo?
-Lo prendo, lo prendo.
-Bravo. Ti aspetto dentro.
Umberto, allontanandosi dal vagone ristorante, cominciava a sentire la pancia ribollire
animatamente. La corazza di ferro si era arrugginita da un pezzo.
Appena sentì pronunciare quel nome, Cecco si lasciò andare ad una risata incontrollabile.
Nell'euforia assestò un calcione a uno dei piedini del tavolo, facendolo ballare in maniera
vertiginosa su se stesso. Il Cicala fu sbalzato fuori dalla sedia, Gigi fece in tempo a scansarsi,
conoscendo già la pericolosità dell'animale sulla sua pelle, e la talpa, per chissà quale legge
misteriosa della fisica, si ritrovò sotto il tavolino fra le gambe impazzite del Ralli.
Tutta colpa della ditta Carrubbo, o meglio i fratelli Carrubbo.
Una banda di handiccapati, una specie di banda bassotti sfigata dell'hinterland milanese. Li
aveva evocati, tra una coscia di pollo fredda e una birra calda, il Cicala.
-Sei sicuro, Cic? Ci hanno già provato?
Il compare tirò fuori dal suo zainetto grigio un fogliaccio giallo, che in origine doveva essere
una pagina di quotidiano. “Banda sorpresa dai cani, tutti in cella”- recitava il trafiletto.
-Che teste di cazzo!- fece Gigi, sbattendo il pugno sulla foto di uno di loro.
-Hai capito? Pure loro avevano tentato il nostro colpo!
-Ma sono ancora dentro?
-No, sono tutti fuori adesso. E' roba di tre anni fa. L'indulto gli ha parato il culo.
-Pensi ci riprovino?
-Quelli là?
-No, vero?
-Ma se si sognano ancora quei mostri che li hanno sbranati!
-Meglio così.
-A proposito, quand'è che dobbiamo fare il soprallugo io e il Beracchi?
-La vigilia del colpo, quindi...il 16.
-D'accordo.
Cecco tirò fuori dal frigorifero una bottiglia d'acqua poco invitante.
-Ei, Gigi, ma da te l'acqua arriva marrone?
-Stai zitto tu, che hai il latte pieno di mosche!
Di nuovo giù a ridere. Ralli si attaccò tranquillamente alla bottiglia. Il Beracchi finì di spazzolare
il piatto, dove rimanevano briciole di pollame.
Drrrrrrrrrrrrrrrrr. Drrrrrrrrrrrrrrrrrrr. Drrrrr.
Cecco lanciò un urlo da isterico appena vide il comodino del Londi muoversi da solo.
-Il terremoto!!
Il Beracchi rimase attonito, con un frammento di pollo che gli penzolava dalla lingua.
Il Cicala si girò verso Gigi, che ridacchiava divertito.
-Il terremoto è nel tuo cervello!
Aprì il comò indemoniato. Dentro c'era una svegliatta rossa.
-Tranquilli, non suona più. Ha una tenuta limitata. Insomma è uno schifo di sveglia.
Cecco buttò un sospiro di sollievo, la lingua del Beracchi arpionò quel rimasuglio di ala, il Cic si
voltò di nuovo, questa volta verso l'orologio appeso al muro.
Le quattro. Era ora di affacciarsi alla stazione.
Umberto era diventato giovane. Camminava e sbatteva tra i pali della luce, alcuni accesi ed altri
spenti. Scotland Yard urlava dal megafono. Era buio. Londra di notte terrorizzava Umberto. Il
suo orecchio fu inotizzato e trascinato da una dolce cantilena, un fischio soffice e vellutato a cui
non seppe resistere.
La melodia lontana adesso appariva più nitida: era nata da un mucchio di siepi.
In mezzo a quel fogliame il giovane e spaurito Londi intravide una testa con addosso pochi e
folti capelli scompigliati, una fronte alta e spaziosa come quella di Cesare, due occhi scaltri, un
collo snello e nervoso, due dischi volanti attaccati al posto delle orecchie, una bocca piccola e
vivace.
Lo aveva già visto da qualche parte, quel ragazzo, ma non ricordava dove, come, in che
circostanza.
L'omino circondato dall'oscurità e dalle fratte rise all'amico, senza preoccuparsi del rumore che
provocava e che avrebbe attirato gli sbirri. Cercavano lui.
Attorno a loro era tornato di nuovo il vuoto, gli agenti erano stati inghiottiti dal silenzio e Londra
diventava sempre più nera e fredda.
Il ragazzo continuava a ridere, e dal taschino fece scivolare giù verso la mano una quantità
impressionante di pietroline. Incominciò a tirarle, alcune verso est, altre in direzione sud, quelle
che rimanevano furono equamente distribuite tra il lato nord e il lato ovest.
Rieccoli, gli sbirri. Stavano impazzendo. Gridavano imprecazioni incomprensibili e torcevano le
loro teste da una parte all'altra, giravano in continuazione, si scontravano fra di loro come nelle
comiche di Stanlio e Ollio, buttavano il cappelletto per terra e sparavano colpi in aria per
sfogarsi. Intanto l'uomo delle pietroline si stava facendo delle gran risate, protetto da quella
piccola vegetazione e dai pali spenti della luce.
Umberto continuava a guardarlo, come se fosse davanti ad un documentario vivente su qualche
strano animale canadese o dell'Oceania. Quella bestia l'aveva già vista da qualche parte. Si piegò
per osservarlo meglio e per mettersi al riparo dalle colt, e si accorse di avere qualcosa infilata
nella tasca del pantalone, gonfio come una mongolfiera.
Allungò la mano e tirò fuori un rotolo di carta appiccicoso, mezzo bianco e mezzo giallo con
delle strane macchie marroni intorno. Srotolò quel mistero.
Era la fotocopia dell'omino delle pietre. Soltanto un po' più magro, con i capelli ben ordinati
all'indietro, una giacca e una cravatta che gli stringeva la gola, un piccolo segno verticale che
scendeva dal naso, e una faccia molto incazzata. Sotto c'era segnata una cifra che però era stata
scarabocchiata dall'usura e dal tempo. Anche il nome, sotto quei numeri, era coperto per metà.
Ma il cognome era integro, tranne che per le due lettere finali. Ma quella R iniziale, quella O che
la seguiva poco lontana, quella N che si intratteneva con loro, e quelle B, I, e G accatastate
dall'altra parte gli furono più che sufficienti per trovare una identità al rebus che aveva lì
davanti.
Quel gran genio di Ronnie Biggs.
Quel maestro di Ronnie Biggs.
Il grande Biggs.
Quell'uomo che aveva raccolto l'eredità in terra di Ermes, colui che riuscì a svuotare il GlascowLondra dei suoi due milioni e mezzo di sterline. Sua maestà Biggs.
Il sovrano avvicinò il giovanotto verso di sè.
Gli chiese come si chiamava, e da lì in avanti il Londi scalò le marce della bocca e proseguì in
quinta fino ad entrare in riserva di saliva.
Neanche avesse davanti Padre Camillo, il vecchio sacerdote della sua parocchia, il futuro ladro si
confessò totalmente al suo interlocutore. Sognava di diventare come lui, gli disse, mentre lo
guardava sempre più inebriato e sognante. Ronnie gli aggiustò il giaccotto come si fa con un
vecchio amico e gli spiegò due-tre cose. Gli spiegò che non avrebbe mai più dovuto pronunciare
quella sigla infamante. “I ladri non esistono, noi non siamo ladri”.
La sua bocca scattante gli fece capire che doveva considerarsi una persona buona, migliore della
altre, perchè rubava per sé, e quindi voleva dire che si trattava bene, si voleva bene.
Gli inculcò nella testa il dovere di circondarsi soltanto di persone capaci, e di non fare come lui,
che su quel treno fece l'errore di portarsi dietro un macellaio senza cervello che spaccò la testa
al macchinista fino a farla schizzare fuori dal collo.
Gli suggerì di fare pochi colpi ma buoni, di non sposarsi mai e di fare collezione di donne, di
togliersi di mezzo i colleghi più in gamba di lui.
La lezione alla University of London fu interrotta all'improvviso.
Il palo senza colore che li proteggeva dall'alto li tradì come un infame: s'illuminò ferocemente
sopra le loro teste e sopra le loro facce. Umberto vide Ronnie rintanarsi come una talpa sotto
quel cespo di rose e foglie gialle. Si girò di scatto, violentato da un torrente luminoso che si
sprigionava da una torcia indemoniata.
Accanto alla lampadina vide incollata una mano, accanto a quella mano ne vide un'altra che
stritolava una pistola e la puntava in avanti.
Umberto Londi ebbe il tempo di dire “io” quando la mano indietreggiò verso il calcio della colt, e
dalla bocca scura e profonda di questa uscì fuori un tondino di piombo luccicante e velocissimo
che andò a stamparsi sopra il naso del Londi, creando un buco grande come un terzo occhio.
Cadde per terra spaccandosi la testa nella polvere.
Il braccio destrò si irrigidì, un attimo dopo di sciolse e aprì la mano che ospitava il fogliaccio
ingiallito con il viso di Ronnie.
Un attimo dopo, Londra non c'era più. Quelli di Scotland Yard furono risucchiati con la loro città.
Era scivolato nel nulla anche quel silenzio pieno di ansia e mistero, ed era apparso un rumore
fastidioso, duro e impertinente.
I pali della luce furono sradicati via e al loro posto correvano case e monti.
Il foglio si trasformò in una tazzina di caffè e il palmo bianco e liscio che reggeva la faccia di
Biggs divenne secco e sfigurato da linee profonde.
Milano cominciava ad apparire dai finestrini. Una pioggia pesante rimbombava sui vetri
appannati. Qualcuno guardava attonito ed estraneo l'orizzonte, qualcun'altro cominciava a
sistemarsi i bagagli ansimante, altri erano felici di essere arrivati.
Nel piccolo bagno una persona si buttava addosso cati d'acqua per rinfrescarsi, si asciugava il
collo e stringeva in mano una piccola scatola e un pezzo di carta fatto a palla.
Il controllore tirò fuori due dita per assaggiare l'intensità dell'acqua piovana, alzò gli occhi e
capì che il peggio doveva ancora venire. Sopra quel rapido, si stavano disegnando quattro o
cinque nuvole dense e nere.
L'uomo del cesso poggiò il cellulare sul lavandino e nascose la scatola. Cercò nella sua rubrica il
numero che gli interessava. Lo compose. Dall'altro lato qualcuno rispondeva contento.
La stazione. Il trenò arrivò puntuale, con la sua mezz'ora di ritardo.
Umberto Londi, nel suo scompartimento, era ancora davanti al caffè.
I pantaloni erano macchiati di quel brutto nero pece, una mano buttata di lato, l'altra incastrata
nel sedile, la tazzina adagiata di lato all'altezza dell'ombelico.
Gli occhi sbarrati fissavano Milano, tanti anni dopo.
Vedi Milano e poi muori.
Le pupille di Gigi scattavano a destra e a sinistra. Questo no, quest'altro nemmeno.
A turno, sbucavano dal portoncino decine di persone. Alte, basse, grasse, vecchie, storpie,
strabici, muscolosi. Ma dello zio non c'era traccia.
Il Cicala, nervoso, teneva imprigionate le unghia con i denti.
L'esuberante Cecco lanciò un urlo da provetto Tarzan. Gigi gli molllò uno scappellotto.
-Forse è meglio che lo andiamo a prendere noi- disse il Cic.
-Andiamo- rispose Gigi.
-Ma allora non è neanche in grado di scendere da solo?
-Ma che dici, sta benissimo. Si sarà addormentato.
I tre setacciarono gli scompartimenti come segugi. Ancora nessuna traccia del parente
fantasma.
In fondo rimanevano gli ultimi dieci stanzini. Luigi chiamò a voce lo zio.
-Cazzo...
Il tono sconfitto del Cicala richiamò Gigi, dietro di lui.
-Che c'è??
Il compare si spostò, facendo entrare il nipote nella cripta di Umberto.
La testa era scivolata di lato, verso il finestrino. Un rigolo di caffè segnava il pavimento. Una
mano si era aperta, ma adesso non rispondeva più. Le labbra semichiuse avrebbero voluto dire
qualcosa.
-Un infarto....
Gigi non fu in grado di dire altro.
Il Cic sferrò un diretto contro il finestrino duro. Ralli d'un tratto fu assalito dallo sconforto.
Il nipote afferrò la camicia dello zietto e avvicinò rabbioso la sua faccia.
-Proprio ora dovevi schiattare....
Nessuno aveva il coraggio di buttar giù un po' di fiato.
Lo specchietto retrovisore rifletteva i cerchi di fuoco di Gigi. Accanto il Cicala, turbato,
osservava il Ralli che si mangiava le mani, sudato e triste.
Si poteva distinguere in maniera nitida e pulita il cigolio misterioso che il motore di quella
macchina si portava appresso da anni, tanto era profondo il silenzio di quel cimitero a quattro
ruote.
La rabbia di Gigi sembrava soffocata a fatica: strattonò avanti e indietro il freno a mano ad ogni
semaforo in maniera brutale e feroce, come se avesse urgente bisogno di sfogarsi con qualcuno.
Il compare, lì di fianco, si guardava bene da fargli notare che continuando così avrebbe
anzitempo mandato in pensione quella vecchia carcassa.
-Ma tuo zio è partito da solo?-Cecco l'ardito.
Come una frusta. Rapida a partire, e veloce a rientrare.
Così la mano del Capo si posò sulla mascella pesante del Ralli.
-Certo che è partito da solo, coglione!!
Cecco si ritirò ancora più indietro, nascondendosi dietro la nuca del Cic e spiaccicando la faccia
contro il finestrino ghiacciato. Il più possibile lontano da quella furia.
Il Cic strinse la mano dell'amico nervoso e la rimise al volante.
Gigi sfondò il pedale del freno: Cic sbattè contro il cruscotto e finì schiacciato in mezzo al sedile,
Cecco fu scaraventato all'altra estremità della macchina impiastricciandosi la faccia contro un
mozzicone di sigaretta.
Fortunatamente Luigi scelse di liberare la propria repressa rabbia nei pressi di una traversina
dimenticata da Dio e dagli altri automobilisti, altrimenti quella frenata avrebbe potuto
trasformarsi in un harakiri a catena.
Il pazzo uscì fuori e puntò dritto contro un bidone pieno di immondizia fino all'orlo. Rifilò un
calcio a quella montagna di letame come neanche avrebbe potuto fare un professionista del
football made in Usa. Pezzi di cocco, salsa e merda furono sbalzati fuori dalla loro culla fetida.
Gli spaghetti annegavano nell'acqua bollente, passando da una punta all'altra dal forchettone di
legno, e alcune briciole si dissolvevano, ogni tanto, nel profondo mare salato.
Poco distante dal cuoco Renato il cameriere Charlot danzava e canticchiava con il suo ricco
vassoio in mano, in mezzo ai tavoli del ristorante, con quel suo ritornello strambo e
affascinante.
Il cuoco roteava gli spaghetti a tempo con la musichetta, schioccando le dita e fischiettando,
trasferendosi con l'immaginazione dentro quel vecchio film, non badando alla pasta incustodita
che se ne stava andando in malora, rammollita e sfatta, imprigionata fra le unghia del
forchettone.
Chaplin non era una passione di Domenico, che se ne stava sbracato sul divano rosso, con una
gamba penzoloni, aspettando la cibaria per la truppa. Ingannava il tempo spezzando tronchetti
di legno con i denti e con le dita, mentre Charlot davanti a lui ballava infastidito.
Il più seccato però era Vincenzo, la cui salma riposava vicino alla finestra, con un braccio
appoggiato al vetro e l'altro incastonato nel mento. Di tanto in tanto chiudeva gli occhi e
riposava, poi li riapriva sperando di affacciarsi e trovare davanti a sé quello che aspettava.
Ma fuori dalla casa dei Carrubbo c'era il solito meccanico che bestemmiava e distruggeva le
macchine dei clienti, i soliti tre piccioni che si sbeccavano a sangue attorno a un pezzo di tonno
nero, le solite macchine che andavano e venivano a 180 all'ora in quel tratto di strada rubato
all'utodromo di Imola, il solito edicolante che sfogliava incazzato i giornali e aspettava qualcuno
che glieli sfilasse dalle mani.
Le pupille stanche e assonnate di Vincenzo furono ridestate da un tintinnio metallico e duro,
prodotto da un cacciavite che sballonzolava impazzito tra un bicchiere di vetro e una vecchia
brocca di porcellana a fiori: il cuoco stava radunando la truppa, oscillando fra le mani lo
scolapasta fumante.
Domenico salutò Charlot con un gesto di disaprovvazione, non vedendo l'ora di potersi liberare
da quella visione, lasciando la sua sagoma sudata scolpita nel divano.
Vincenzo si allontanò dalla finestra, perchè non c'era nulla di nuovo all'orizzonte.
Renato riempì oltre l'orlo i piatti di tutti e tre. Bagnò i bicchieri con un po' di Moltancino
rimasto in credenza, e augurò a tutti buon appettito. Anche se forse, a guardare quei pezzi di
spaghetti uniti con l'attack fra di loro, bisognava augurarsi buona fortuna.
E per fortuna del cuoco i suoi due clienti erano di bocca buona e non badarono neanche a quello
che stavano mangiando, troppo presi e concentrati nella loro avida voglia di riempire le loro
pance. Con un gesto orizzontale e netto della mano, Domenico consigliò a Renato di mandare
fuori dalle scatole Chaplin. Vincenzo mandò giù per la gola un po' di vino e poi si girò verso il
panorama. Non riusciva a staccarsi da quella mattonella di vetro.
Con la bocca macchiata di rosso e ripiena di spaghetti di pongo, il cuoco fece cenno a Vincenzo
di impegnarsi a finire il piatto, invece che stare a osservare gli uccellini come un poeta che
cerca l'ispirazione della sua vita.
Il capo si diede pace e risucchiò lo spaghetto lasciato a metà. Il compare di fianco abbandonò il
campo di battaglia prima della fine, lasciando qualche nemico qua e là, nel lago rosso del ragù. Il
cuoco spruzzò del pepe sopra quegli otto spaghetti rimasti orfani e li fece accomodare nel suo
palato, che ancora aveva qualche posto libero per i fratelli ritardatari.
Vincenzo sollevò la manica della camicia a quadri e si accorse che le lancette avevano già
superato l'orario prestabilito. Si alzò dalla sedia e andò dritto dritto verso il telefono.
Renato non perse tempo a completare il proprio sterminio di guerra, e con la forchetta che
grondava pezzi di carne si avvicinò feroce all'ultimo gruppetto di spaghetti rimasti ancora vivi
sulla tavola.
Non ci furono superstiti.
Sotto una tempesta. Sotto torrenti di pioggia appuntita, senza un ombrello con cui ripararsi,
indifeso contro le forze della natura maligna e selvaggia.
Si guardava attorno, e non c'era nessun da chiamare, nessuno su cui appoggiarsi, nessuno a cui
fare sentire la propria voce debole e stanca, che non riusciva più a uscire dalla bocca bagnata.
Correva da una parte all'altra della piazza vuota, con il cuore che sbatteva sempre più
prepotente sotto la pelle.
Gigi cercò di uscire da quella piazza, ma non ce la fece.
Pochi attimi dopo, si vide camminare da solo, con una pistola in mano e un marsupio attaccato
alle spalle. Gigi vide Luigi che entrava da una porta, poi usciva velocemente e poi le manette, poi
le grate, i secondini, gli sputi e gli insulti, il tribunale, e il sole invisibile, e le pareti che lo
schiacciavano. E poi magari fuori, e poi di nuovo dentro.
Girò la manopola rossa dall'altra parte, così incazzato e rabbioso da svitarla e farla cadere sui
suoi piedi. Afferrò una tovaglia e se la schiacciò in faccia.
Si violentò i capelli con le mani arrossate e si asciugò il naso con della carta igienica.
Davanti a lui, disegnato su quella tavolozza appannata, c'era ancora Luigi.
Quel ragazzo gli fece pena, e allora Gigi capì che non poteva lasciare da solo, non poteva voltargli
le spalle.
Asciugò la barriera di nebbia che lo separava dal suo amico e i due si sorrisero.
“Stai tranquillo”.
Luigi avvolse un lenzuolo tra i fianchi e uscì dal bagno ancora mezzo nudo. Andò spedito verso il
cucinotto, dove c'erano Cecco, il Beracchi e il Cicala.
I tre compari si girarono, destati dallo scalpettio dei piedi nudi e bagnati sul pavimento.
-E' tutto come prima.
-Tutto cosa, Gigi?- chiese il Cic.
-Il colpo. Si fa lo stesso.
Il Cicala si girò verso la talpa per vedere la sua reazione. Il Beracchi accese di nuovo gli occhi.
La Bestia riprese ad eccitarsi e fremere sulla sedia. Lanciò l'urlo della foresta.
Le risate libere e sfrenate dei quattro moschettieri risuonarono per tutta la baracca.
Il dito schiacciò il numero tre, nel momento stesso in cui la porta cominciò a vibrare.
Renato aprì e la persona si materializzò. Sotto quel cappuccio verde scuro, sotto quello zuccotto
a righe e sotto quegli occhialloni neri notte, c'era Arturo.
-Scusa il ritardo, Vicè.
-Te la sei fatta a nuoto?- fece il cuoco.
-Dai, siediti e asciugati- il capo non si dimostrò infastidito del ritardo.
-C'è un po' di caffè, ragazzi?
-Vallo a prendere tu, Domenico.
Arturo si scotolò violentemente i capelli, come fanno i cani inzuppati e insofferenti all'acqua.
Annusò in giro l'aria e capì che lì dentro avevano mangiato da poco. Girò lo sguardo verso
Renato.
-Mi dispiace, non c'e' rimasto nulla.
-Si è mangiato tutto lui, lo credo- lo interruppe Domenico, che poggiò la tazzina tiepida sul
tavolino di legno.
-Accontentati del caffè per adesso- disse più seccato Vincenzo- tra poco Renato va a comprare
dei panini.
Il giardiniere assaggiò e mise subito giù quell'intruglio insipido.
-Allora, tira fuori le cose.
-Certo, le ho qui.
Arturò sfilò dalle tasche larghissime e profonde del giubotto la piccola console grigia.
Dall'altro lato del giaccone uscì invece la piantina spiegazzata.
Il viso severo e pesante di Vincenzo si alleggerì, non appena vide la scatola magica. Conosceva
molto bene quei marchingegni. Anche i più sofisticati.
Fece cenno al giardiniere di aprirgli le stanze della villa. Arturo srotolò il foglio.
-E' bella grande, però- Renato spezzò il silenzio della concentrazione.
-No, sarà facile vedrai, questa amichetta ci aiuterà- il compare gli rispose battendo delle piccole
amichevoli pacche sulle spalle metalicche dell'apparecchio.
Incrociò lo sguardo di Arturo.
-Hai fame, vero?
-Cazzo se ho fame!
-E te lo sei meritato sto panino benedetto, dài!
-Se volete cucino io!- Renato si intromise.
-Per me fa lo stesso, ragazzi.
-Per noi, no, Arturo!- fece Vincenzo ridendo e schiaffeggiando in maniera scherzosa il cuoco che
si fingeva offeso. Domenico lo rincuorò con un piccolo bacetto sulla fronte.
Uscirono tutti a mangiare e brindare a colpi di coca cola, in attesa dello champagne pagato dalla
famiglia Speroni.
Domenico addentava il cartoccio e guardava Vincenzo. Vincenzo succhiava dalla cannuccia
arancione e guardava Renato. Renato mangiava il panino e guardava il panino, perchè aveva
troppa fame ed era troppo stupido. Arturo era già alle quinta fetta di pizza a taglio.
Fino a quell'istante, la conversazione scivolò su piani decisamente dolci e culinari: il cuoco diede
un saggio sulla preparazione dei fagioli, il giardiniere raccontò quanta immondizia gli fecero
ingoiare in treno col vecchio, e Domenico si agitò in una stucchevole propaganda a favore del
cibo geneticamente modificato.
Peppe il Cannocchiale era una tavernetta molto alla buona: quattro tavolini sbilenchi assortiti in
maniera disordinata e bizzarra, sedie scomode come i letti dei fakiri, servizio che, quando c'era,
lasciava decisamente a desiderare. Lì dentro ci lavorava una cameriera sui cinquanta, grassa
come un ippopotamo in doce attesa e incazzata come una iena defraudata della sua preda.
Giravano strane voci sul suo conto, qualcuno diceva che fosse mentalmente instabile, in realtà
era solo sgarbata con i clienti perchè non riusciva a trovare un lavoro più soddisfacente di
quello. Poi c'erano altri due filippini che gironzolavano lì intorno, quando ne avevano tempo e
voglia, e infine Peppe il padrone, etichettato il Cannochiale perchè gliene serviva giusto uno per
poter leggere qualcosa scritto su un foglietto.
-Secondo voi quello è ricco?-Renato cominciò con il solito gioco.
-Ma chi, quello col cappotto grigio?
-No, quello con la giacca nera.
-Diciamo che se la passa meglio di noi, ma ricco non lo è- fece Cic.
-Guarda quello, guarda quello!
-Quale, Renato?
-Ciecato, quello che si è seduto adesso al tavolino all'angolo con i pantaloni marroni.
Vincenzo compose una leggera smorfia fra i baffetti.
-Quello ti sembra ricco? Dài un occhio alla scarpa, lì c'è spazio per farci entrare un topo.
-Cazzo, è vero! Ha la scarpa bucata.
-E poi secondo te uno che ha soldi da buttare viene da Peppe a spezzarsi i denti con le sue pizze
d'acciaio e a sporcarsi la lingua con i suoi cocktail colorati?
Domenico rise e fece ribollire il suo cocktail giallo paglia.
All'improvviso si avvicinò Moby Dick al tavolo dei quattro. La sua presenza era sempre
preannunciata da un sottile traballamento dei mobili di cartapesta. Il suo respiro pesante e
scontroso, poi, era un terribile marchio di fabbrica.
Il mostro spiaccicò il conto sopra il piattino con una veemenza da wrestler.
Si allontanò, portandosi dietro il tranbusto acustico con il quale era arrivata.
Domenico sgranò gli occhi e sfilò una pallina di mozzarella dalla bocca.
-Da quando Peppe è diventato un gioielliere, ragazzi?
Vincenzo stirò la mano verso il compare che gli passava il conto. Sembravano Dio e Adamo
nella Creazione di Michelangelo.
-Questo è impazzito!- il capoccia scattò dalla sediolina e di corsa guadagnò l'entrata del locale.
-Calmati, Vicè- Renato provò inutilmente a farlo ragionare.
Quando Vincenzo partiva non poteva più essere fermato. L'anno prima aveva incrinato le
costole a un ragazzino che lo aveva guardato male alla fermata del bus, un'altra volta aveva
picchiato un uomo con tanta foga da fargli sputare cinque denti e ridurlo su una sedia a rotelle.
Questa volta, però, tiro fuori un coltello a serramanico.
I tre ragazzi al tavolo lo guardavano impietriti e impotenti, mentre con l'arma dietro la schiena il
pazzo procedeva spedito e fumante contro Peppe.
Il padrone della bettola non si mosse dal tavolo su cui stava facendo dei conti: la paura e
l'aggressione inaspettata gli avevano incollato il culo alla sedia. Prima che la furia lo raggiungese
spiegò le corde vocali tremanti e lanciò un urlo di soccorso.
Arturo decise di intervenire, mentre gli altri due rimasero bloccati ai loro posti.
Il Cannochiale emise un altro gemito, questa volta di dolore. Il suo salvatore si precipitò verso di
lui. Di colpo, Vincenzo si spostò sulla sinistra lasciando libero campo a Peppe.
Il proprietario gli bloccò il collo stringendolo duramente con entrambe le mani, mentre il coltello
del capo entrò e uscì dodici volte come un missile dalla pancia del giardiniere.
La mano pelosa di Peppe allentò la presa, quando vide che il suo salvatore cominciò a sgonfiarsi
lentamente verso il basso. Vincenzo diede l'ultima firma sul suo corpo scucendogli la gola.
Renato e Domenico arrivarono per vedere l'opera completata e finirono di banchettare
all'impiedi, sbriciolando pezzi di pane sulla faccia irrigidita di Arturo.
Vincenzo ingrassò la cassa dell'amico ristoratore con quattro banconote da cinquecento euro,
poi diede una cospicua mancia alla Befana e si allontanò con i suoi ragazzi.
Al giardiniere non toccò neanche una fetta della torta.
“Credere alle superstizioni è da ignoranti, ma non crederci porta male”: la massima popolare di
Eduardo risuonò dentro le lunghe orecchie di Gugliemo, quando vide il suo giaccone di cammello
mutato in pelle di leopardo, cosparso di macchie grosse e a tinte fosche.
Poi l'occhio masochista si concentrò più in basso, dove una ventina di minuti prima facevano la
loro bella figura i due fratelli mocassini, lucidi come palle da biliardo. Ma il mostro a quattro
ruote non risparmiò neanche loro, facendoli inondare da un maremoto di acqua fangosa.
Tanto era profondo quel cratere, tanto andava di fretta quel demonio di camionista, che uno
schizzettino, piccolo ma odioso, raggiunse anche la faccia di cera di Gugliemo, andandosi a
spiaccicare all'estrema destra di quella foresta pelosa che chiamava baffi.
Col senno di poi capì che sarebbe stato meglio ascoltare la moglie, devota fedele dell'universo
scaramantico: “non uscire oggi, è il 13. Resta a casa”.
Ma gatti neri, calendari, specchi e scale non facevano parte del mondo di Gugliemo.
Mancavano pochi minuti all'appuntamento. Cercò di sciogliere nell'acqua di una fontana i segni
più imbarazzanti di quella doccia fredda imprevista.
Agitando la mano come una pala, il Rolex scivolò sul polso e gli disse che si erano fatte le cinque.
Era l'ora.
Sarebbe arrivata da un momento all'altro, e per pochi istanti il lord della Brianza perse il suo
aplomb da etichetta. Cominciò a girarsi intorno e fremere sulle gambe.
Si scelse una panchina lì vicino e decise di ridarsi un contegno. Diede un'ultima spazzolata
manuale al soprabito, schioccò le scarpe fra di loro, allungò le dita fra i capelli, e riprese a
respirare in maniera profonda e controllata.
Maledetto numero 13.
I Santi protettori della sfiga si abbatterono di nuovo contro il miscredente e buttarono una voce
nel cielo, destando il signor Eolo che riposava stretto fra le nuvole. Quest'ultimo rispose.
Speroni con mezza coda dell'occhio beccò una specie di capannino. Prima di andare per la terza
volta in poche ore sotto la doccia, lo raggiunse.
La pellaccia del cammello mostrava tracce di sudore. Il padrone dell'animale strofinò le mani
sulla cute della bestia. Per eseguire il lavoro più velocemente, si aiutò anche con l'altra mano.
Appresso, in soccorso, se ne aggiunse una terza, più bianca e più lunga delle sue.
“Non sempre sono gli uomini ad arrivare in ritardo”.
Marta lo colse di sorpresa e sorrise, sventagliando i capelli contro la pioggia.
Marco cercava di fare del suo meglio, ma quel cerchietto di caffè non voleva staccarsi dalla
guancia di Hemingway. I soliti incivili. Leggono, bevono, macchiano.
Gugliemo passò in rassegna con lo sguardo titoli e facce in quantità industriale: la rivoluzione
messicana, Melville, Bronte, Pelè, gli Scapigliati, la guerra fredda, Montale, Cernobyl, Defoe,
Bevilacqua, la cucina bavarese, le piramidi maya, gli scoiattoli, lo zapping, Manzoni.
-“Certo che hanno scritto su tutto”- osservò Speroni grattandosi il mento, in pacchiano
atteggiamento da pseudo-intenditore.
“-C'è un po' di disordine, però. Marco, perchè non dividete tutto per settori?”
“-Sì, ci stiamo pensando”. In realtà pensava solo a lavare la faccia di Ernest.
Marta era cresciuta in mezzo a quella biblioteca post-moderna. Adorava, soprattutto d'inverno e
quando qualcuno la faceva innervosire, prendere un cappuccino con Pasolini o poter dividere il
suo caffè con i mille di Garibaldi. Si muoveva tra quei scatoloni e quegli scaffali come Heidi fra le
Alpi svizzere. Il suo habitat.
Per non essere da meno il suo amichetto imbracciò un saggio di De Felice.
“Andiamo di sopra, ci prendiamo qualcosa, vuole”?
“Voglio che mi dai del tu”, lo rimproverò lui.
Marta arrossì leggermente e da perfetta garibaldina obbedì.
“Ti va di bere qualcosa”?
“Adesso mi va”!- Guglielmo scattò sulle gambe e mise a dormire De Felice sopra un piatto di
strhudel.
La saletta del caffè era un campionario di tipologie umane. C'era la signora avvolta nel foulard
rosa che si coccolava Tolstoj versandogli del tè, il rasta puzzolente che ammorbava le narici di
Engels, un professore universitario che si sfogava con Einstein.
Certamente Marco e i suoi colleghi non si erano spaccati la schiena per rendere più accattivante
il posto, che aveva come unica e squallida scenografia delle tendine verde acqua e qualche tocco
di blu e arancio che ravvivava appena la parete ricoperta di graffi.
La giovane insegnante e l'elegante amico si scelsero un angolo appartato, vicino alla finestra che
dava su un parco giochi.
-Aspetti un bambino quadrato? Non me l'avevi detto!
-Te ne sei accorto finalmente!
-Che cos'hai lì sotto?
-Un regalo per te.
-Un regalo? Ma dài!
-Te lo meriti, Guglielmo. Dopo tutti quei libri che mi hai portato l'altro giorno mi sentivo in
debito.
-Dall'aspetto si direbbe proprio un libro.
-Sì, mannaggia, ci scommettevo che l'avresti capito subito!
La ragazza passò il pacco a pallini rossi dall'altro lato del tavolino.
Guglielmo stracciò quegli scandalosi addobbi decorativi e fece una brutta sorpresa.
Pensava di averli annientati, quei bastardi teutonici, ma erano ancora vivi. Non riuscì ad evitare
al pomo d'adamo di sobbalzargli in maniera vistosa.
Marta sbattè all'indietro una fila di capelli e indietreggiò lungo lo schienale.
-Nooo. C'è l'hai già?
-Ee...ma che scherzi?
-Aaa...meno male, ero terrorizzata. Pensa che figura. Ma scusa, hai fatto una faccia....
Lo Speroni chiese aiuto alla sua fedele arte fantasiosa.
-Sì, ci credo...ma tu non sai che cosa è questo volume....ce l'aveva mio nonno uguale!
-Tuo nonno? Ma se questa è l'ultima edizione del “De bello Gallico”! E' appena uscita. Ci sono
saggi e commenti mai pubblicati!
Altro salto della morte del pomo.
-Scusami, Marta!Che sciocco, hai ragione, quella era un'altra edizione!
Balorda fantasia.
-Scusa, davvero, ma sembrano così rassomiglianti...
-Ti piace, allora? L'altro pomeriggio mi sembravi così preso dalla lettura di Cesare....
-Ma stai scherzando? Siamo cresciuti a pane e Cesare in famiglia!
Marta recuperò il sorriso timido e la posizione sulla sedia, Guglielmo uscì vivo da quel campo
minato e incastrò bene le gambe sotto il tavolo.
-Sta arrivando Marco!
-Ecco i cappuccini.
-Grazie.
-Brava, come fai a sapere che mi piace il cappuccino?
-Scusa, te lo sei preso già l'altra volta no?
-Ah già, madonna, sono proprio senza testa oggi!
Punì la seconda sbadataggine bacchettandosi le mani con il suo autore preferito.
Intanto la sala andava liberandosi dei suoi ospiti, il foulard rosa andò via accompagnato dalla sua
padrona, il rasta dai suoi forti effluvi. Un giovane barbuto nascondeva indisturbato Stephen
King sotto la felpa.
Una nebbia calda e vaporosa divideva Marta e Guglielmo.
Strinse i denti e voltò gli occhi dall'altra parte, per soffrire di meno. Il filo di scotch nero fece sei
o sette giri intorno al polpaccio, imprigionando la beretta fra le sue braccia elastiche.
Qualche pelo della gamba fu sradicato via, ma il Cicala lo aveva messo in conto, e sopportò.
Il Beracchi stava terminando di imbottirsi le guance di pane e salame, mentre il suo collega lo
guardava con una chiara espressione di disaprovvazione.
-Sei pronto?
-Certo, Cic.
-E che ci fa la tua pistola nel comodino?
-Adesso la prendo.
-Vedi che non sei pronto. Muoviti.
-Ma a che ci servono le pistole, scusa?
-Gigi vuole così. E poi non si può mai sapere. Sbrigati, dài.
La talpa finì il lavoro e sfidando il suo intestino trangugiò mezzo panino in un sol colpo,
aiutandosi con un po' di aranciata.
Prese il suo ferro da stiro e se lo legò alla caviglia alla meno peggio, si imbacuccò con un
giaccone nero pesante come quattro impermeabili e mise in caldo le mani dentro i guanti
marroni.
Gigi dormiva nella sua stanza. Cecco riposava nel letto accanto, anche se il suo era un riposo
coatto, voluto dal capoccia. Per un semplice sopralluogo due persone bastavano e avanzavano.
Ogni tanto girava la testa verso il padrone e tirava fuori la lingua come i bambini.
Quella casa era un igloo: la colonnina della temperatura oscillava quotidianamente tra i tre e i sei
gradi: l'unica stufa a disposizione dei residenti era andata in pensione una settimana prima, un
po' per i tanti anni di servizio sulle spalle e per l'età avanzata, un po' perchè quel clima antartico
aveva messo ko anche la sua pellaccia metallica. Il Ralli si impegnò personalmente nel darle la
buonauscita: quattro calci e qualche sputo condite da variopinte invettive.
I quattro gradi di quella giornata scesero per qualche istante sotto lo zero: una folata polare
investì le spalle del Beracchi, mentre dal fondo della sala arrivò l'eco delle bestemmie di Cecco.
-Ma che cazzo fai, Cic, chiudi sta' porta!!
-Perfetto, è buio pesto ormai. Possiamo uscire.
La talpa insaccò il capo in un beretto di lana, il compare avvolse il collo in una copertina nera.
Le sette e un quarto: intorno all'ora di cena, se il motore della Golf non si fosse tramutato in un
blocco di ghiaccio, i due sarebbero arrivati in via dei Marmi.
Scoprì che quando piangeva era ancora più carina. Non l'aveva mai vista piangere.
Soffiò il naso e tamponò il viso bagnato accarezzandosi con un fazzoletto. Scaldò il palato con un
po' di cappuccino. Alzò gli occhi verso di lui coprendosi gli occhi con la mano.
Guglielmo avvicinò la sinistra e con il suo tovagliolo spazzò via dal suo viso quelle macchie nere
che si erano create con il rimmel.
-Basta, adesso, per favore. Altrimenti fai commuovere anche me!
-Sì, sì....scusa...è stato un attimo...
-Posso capirti, lo sai. Ho anch'io una figlia della tua età circa.
-Dici davvero?
-Certo, potrei esserti padre. So che troncare una storia ti può buttare molto giù . Avessi visto
Chiara, i fiumi di pianti che si faceva!
-Eh, sì...hai ragione. Sei il primo a cui ho raccontato la mia storia con Ennio, sai...
-Ma non abbatterti però, sei giovane...
-Giovane e senza una lira....
-Non mi avevi detto che avevi un lavoro?
-Sì, lavoro....quattro lire....vivo da sola...sai cosa fanno..
-Comunque, dalla descrizione che hai fatto di lui, non starei a dannarmi più di tanto fossi in te.
-No?
-No, assolutamente. Hai fatto un ritratto di un perfetto stronzo!
Marta allargò la bocca e scacciò via le lacrime con un sorriso di liberazione.
-Ma lo sai quante ne potrei raccontare io di queste storie?
-Ma perchè, anche a te...ti hanno lasciato molte volte?
-A me personalmente no, ma io sono un dinosauro, sono fatto all'antica. I miei antenati però, di
cose strane...
-I tuoi antenati?
-Sì, ma ti sto parlando di cose avvenute in pieno Medioevo...una volta per esempio ho letto di
una mia antenata, mi sembra si chiamasse Mantini...Eldegarda Mantini. Sai che faceva questa
qui?
-Che cosa? Pure lei aveva problemi sentimentali?
-Esatto. E sai come li risolveva? Ogni volta che finiva una relazione, faceva impiccare uno dei
suoi gatti!
-Noo, dici davvero...
-E' tutto scritto, Marta. Questa roba era sempre sulle cronache dell'epoca, sulle riviste..
-Incredibile...
-Non fare come lei, mi raccomando...
-No, io amo gli animali, stai tranquillo...
-Anche perchè sai cosa le hanno fatto un giorno? Il marito le mozzò di netto il braccio per
gelosia.
-Poverina...che parenti curiosi hai però...
-Senti, ti faccio una proposta...anche per sdebitami del libro...ti piacerebbe venire a casa mia?
-Da te?
-Sì, ho la biblioteca piena di questi racconti assurdi, fogli di giornali, roba da museo....E anche
un album pieni di incisioni dei miei parenti, così potrai vederla anche in faccia questa pazza di
Ermengarda!
-D'accordo. Molto volentieri.
-Così conoscerai anche mia moglie e i miei parenti. Sei mai entrata in una villa nobiliare?
-Villa....no.....decisamente no.
-Allora spero sia un doppio piacere, per te.
-Certo, ti ringrazio...ma non so...insomma, in quell'ambiente...
-Non ti preoccupare, non ti troverai mica a disagio. Pensi che siamo ancora mummie da XIII
secolo? I miei sono simpaticissimi, anche mia moglie...attenta, però, che quella vorrà incastrarti
con il bridge...! E' più pazza delle mie trisavole, quando si trova un mazzo di carte fra le mani...
Marco comparve dietro di loro, sostenendosi con un paio di colpi di tosse.
-Mi sa che abbiamo fatto tardi. Scusaci, Marco, togliamo il disturbo.
-Figurati, tornate quando volete.
Guglielmo salutò il commesso con una scappellata da lord inglese e un sorriso ammicante,
seguendo Marta verso l'uscita.
Il ragazzo passò il panno giallo da una estremità all'altra del tavolino rimasto solo.
Diede una sbirciata verso l'orologio a muro e decise che per oggi si era annoiato abbastanza.
Restavano da sistemare soltanto poche cose.
Incolonnò la fila degli ultimi arrivati, scrollò la polvere dai baffi di Stalin, lucidò la pelata di Vialli,
innervosì lo stomaco davanti a un piatto di pasta con le sarde, calò il sipario sulla strada
incrociando le tende fra di loro.
Sfogliava le carte come le margherite. M'ama, non m'ama, mi serve, non mi serve.
Non poteva perdere.
Primo, perchè davanti ai suoi occhi e stretto fra i suoi polpastrelli c'era un raduno di re che si
pavoneggiavano, davanti al servo jack, sfoggiando i loro baffi eleganti e ben curati; secondo,
perchè quel colpo era sicuro di vincerlo e quando se la sentiva la giocata andava sempre bene;
terzo, perchè calata nel profondo della lunga calza nera dormiva la sua calibro nove.
Ma i quattro amici coronati non riuscivano a tranquillizzare il Beracchi. Conosceva molto bene
Sam Manolunga, Samuele Manitta. Era un grande giocatore. E, secondo la talpa, anche un grande
baro.
Di lui lo infastidiva tutto: odiava le birre gialle con le quali si circondava al tavolo verde, odiava la
marca delle sue sigarette, odiava il suo sorriso beffardo e la sua parlata dialettale. Detestava
anche il suo modo di respirare: lento, irriverente, senz'altro irritante.
Poche mani prima, Manolunga si era mangiato un piatto di ottantamila euro. Al Beracchi tre assi
accompagnati da due donne non furono sufficienti. Ma adesso avrebbe avuto la sua rivincita.
Lo slang lombardo-piemontese del nemico spezzò la catena della sua concentrazione.
-Cinquentamil.
“Il porco fa cinquantamila! E adesso gli faccio vedere io a questo coglione”.
Arrotolò le dita della mano come una gru e scavò un solco sotto la pedana delle fiches: ne tirò su
quattro di colore verde oliva, otto rossicce, sette marroni e due azzurre.
Le fece scivolare dal palmo verso il centro del tavolo, al rallentatore: una fiche cadeva e sbatteva
la testa, un'altra la seguiva e così via, fino all'ultimo tondino marrone.
Ognuna di quelle fiches sembrava volere deridere l'avversario.
La talpa stappò il mezzo sigaro alla vaniglia dalla bocca e fece scattare la lingua.
-Cinquanta più altri cento.
Dodici secondi esatti, e rimase in gioco solo Sam.
Dopo essersi divorato il labbro con i canini, spinse verso il centro del ring un'altra carovana di
rettangoli e quadrati colorati.
Il Beracchi rovesciò il suo mazzo sopra la montagna di soldi.
-Non si può vincere sempre, Sam!
Allungò la mano verso il Porco, quasi a volersi scusare pubblicamente per quel poker di re così
sfacciato.
-Non si può vincere sempre, hai ragione. Ma si può vincere due volte di fila.
Il braccio teso del Beracchi svenne. L'altro, quello destro, si scaraventò verso le carte di
Manolunga. Le piegò con tale veemenza che la regina ci rimise la testa.
Otto, nove, dieci, jack, donna. Tutti ricoperti di fiori.
I quattro sovrani furono spodestati da un improvviso colpo di Stato.
-Vaffanculooooo!!!!
Come il miglior Giuliano Gemma avrebbe fatto, la furia spazzò il tavolino con un calcione di
fuoco. Sam fu sbalzato accanto alla sedia rovesciata.
E come il miglior Tex Willer avrebbe fatto, sfilò la pistola che venne dal nulla e la fece sfogare
contro il maledetto baro.
Il primo colpo stese Pippo Spizza, il cugino Manolunga che se ne stava tranquillo nel suo
angolino da osservatore. Il Bronson della Val Padana aggiustò la mira e si concentrò sul vero
obiettivo. Gli versò addosso mezzo caricatore.
Prima che Sammy schiattasse, afferrò la pistola che teneva custodita nel doppiopetto. Riuscì a
bucare una gamba al Beracchi.
Come un clacson chiama un clacson, un colpo chiama un colpo.
Dopo il proiettile del moribondo ne seguirono altri. La talpa non riuscì a vedere neanche da dove
arrivasse, quella pioggia di piombo, mentre si trascinava zoppicante fuori da quel pub.
Si infilò nella Mercedes grigio scura e mise in moto, finendo di spezzarsi il piede.
Voltò la nuca dietro di sé e vide quattro macchine che lo inseguivano. I fanali che lo tallonavano
da più vicino si scoperchiarono e cacciarono fuori due mitragliatrici.
Le gomme della Mercedes scoppiarono e la macchina cominciò a zig-zagare ubriaca da un lato
all'altro della strada. Beracchi girò il volante in tutte le direzioni come un disperato, sentendosi
come il capitano del Titanic, abbracciato al suo timone nel momento del disastro.
Mollò la guida e si gettò verso sinistra.
Si svegliò.
La macchina stava continuando il suo viaggio ad occhi chiusi. Prima che la Golf finisse
inghiottita fra le braccia di un crepaccio, il Cic con una mossa degna di Ayrton Senna
la riportò sulla retta via.
-Ti sei svegliato, cazzo! Ci voleva un incidente!
-Ma che è successo? Che hai fatto?
-Uno stronzo di gatto mi stava facendo finire fuori strada!
-Un gatto.....ma vaffan.....Vai piano, vai......
Cic sbuffò e proseguì a sessanta all'ora, ancorando le mani al volante. Il Beracchi si toccò il
polpaccio: la calibro 9 era al suo posto.
Le cabine telefoniche andavano estiguendosi a una velocità folle. Per beccarne una dovette
girare come un dannato mezza Milano. Il suo Nokia era finito improvvisamente in coma, senza
alcuna avvisaglia del malore.
Rimase qualche minuto in quell'ascensore piantato a terra, voltandosi nervosamente
all'indietro ogni due tre minuti e attorcigliando il filo ingombrante intorno al pollice.
Il medio dava ordini precisi. Dall'altro lato una voce sottile e calma annotava tutto.
Uscì dalla tana trasparente e lasciò l'apparecchio oscillando su se stesso, appeso a un filo.
Raggiunse un negozio che si trovava a qualche isolato di distanza. Qualcuno lo aspettava.
“Qualcuno” si fece trovare già pronto, imbracciando dei candelotti e trascinando fuori dallo
stanzino un paio di piccole casse di legno.
Il suo cliente prese la roba e scomparve, più velocemente di quanto fosse arrivato.
“Qualcuno” chiese a se stesso a cosa potesse servire quella roba. Diede un occhio al palmo della
mano che stringeva un mucchio di rotoli verdi e rossi: a cosa servisse, la roba, non gliene
importava poi molto.
Una sbarra di incisivi. Denti enormi e incastrati fra le mascelle bagnate. Grumi di bava che
scendevano lente e calde dalle bocche eccitate.
Arrivò un altro cancello d'amianto. Alto, peloso, con il naso che schiumava rabbia.
Una muraglia cinese di cani.
Cic fece sgusciare dal tascone una sfilza di panini al formaggio imbottiti di sonnifero, la Talpa
ballava il tip tap sui ciottoli del cancello per scaldarsi i piedi.
La banda di pulci scaldò le mascelle. In meno di due minuti strati di grasso e di formaggio si
sciolsero, come neve al sole, fra le loro sbarre d'amianto.
Il Beracchi interruppe la sua personale imitazione di Fred Astaire. Si voltò verso il compare che
fissava le palle degli occhi di quei mostri. Impassibili.
Le zampe di marmo avrebbero dovuto sfaldarsi come la sabbia. Ma non lo fecero. Rimasero
turgidi e duri, quei piedistalli, a sostenere il branco.
La Talpa tirò fuori la scorta di riserva. Altra poltiglia. La passò al Cic che la schiacciò
violentemente fra i denti del Labrador di fronte a lui. Fece scivolare il sacco nero fra le inferriate
del cancellone della villa.
La seconda dose cominciava a fare effetto. I cerchi vivi di due pastori maremmani
cominciavano stancamente a calare, le bocche di fuoco di altre due belve mollemente si
richiusero su se stesse, le colonne marmoree iniziarono a traballare e a perdere d'equilibrio.
Un muso finì a terra, sopra un cumulo di fango insecchito. Gli altri lo seguirono appresso.
La strada finalmente era libera.
Cic e Beracchi aggirarono i corpi intorpiditi dei cani. Per tranquillizzare il compagno, il Cicala
aprì e richiuse come una persiana le sopracciglie del suo amico Labrador. Nessun segnale di
risposta. La via era davvero spianata.
Davanti i loro occhi comparve una immensa fontana a forma di nuvola, puntellata di statue di
bronzo e da una cerchia di putti allegri che facevano la doccia sotto la cascata di acqua fredda.
Tra una testa di Madonna e un braccio di Apelle, il profilo della Reggia si accendeva con il
chiarore della luna.
Quanto si piaceva. Da quanto non si piaceva.
La stoffa rossa cadeva scivolosa sulle spalle e si gonfiava all'altezza della cinta, un nastro nero
brillante le imprigiovava i capelli raccolti all'indietro, una cascata di perle le abbracciava il collo,
un piccolo serpente d'oro le stringeva teneramente il polso.
Quei vestiti se li era quasi dimenticati: giacevano in fondo all'armadio da parecchi mesi, sepolti
da chili di polvere grigia, in attesa di essere resuscitati al momento buono. Era arrivato, quel
momento.
Marta si sentiva di nuovo viva. E quegli abiti non avevano più la voce di Renato.
Era tutto cambiato, si specchiava e vedeva un'altra lei, che odiava la sua rivale del passato,
detestava la sua autosottomissione, deplorava il suo vittimismo.
Adesso pensava a Guglielmo, forse poteva funzionare. Desiderò fortemente convincersi di
questo. Aveva sempre voluto incontrare una persona matura, che avesse con sè il dono
dell'udito e non solo quello della parola, che le leggesse gli occhi senza bisogno di farsi guidare da
altro.
Forse era Gugliemo.
Aprì il cassettino dei nastri. Una fortissima brezza marina la investì.
Si vedeva lì, sdraiata su quel giaciglio di pietre e sabbia, intrappolata fra le braccia di lui.
Ferragosto: erano andati a trovare una coppia di amici che avevano una bella villetta vista mare.
Quella giornata trascorse mollemente, tra un sole impietoso, qualche attimo di tenerezza, i
discorsi interrotti dall'incomprensione, i silenzi carichi di rimpianto, un tramonto arancio che
chiudeva l'estate e i desideri.
Marta non volle venire meno alle sue promesse.
Il sole passato di ferragosto venne oscurato da una eclissi che veniva dal presente.
Voci che sembravano giungere dall'aldilà. Grida salite in terra direttamente dal buco nero degli
Inferi. Le gambe scarne di Cic cominciavano a ballare come quelle del Labrador. La Talpa lanciò
un'occhiata di ansietà verso di lui.
La Reggia non era spenta. Non completamente. Emergeva un'unica fonte luminosa, rossastra,
non nitida, quasi dissolta e incrociata con macchie d'ombra. Era l'unica stanza illuminata, al
centro della Villa. I due compari la tenevano d'occhio da fuori, sulla soglia di casa che portava
verso l'atrio.
Istintivamente il Beracchi azionò la retromarcia al suo piede destro, suggerendo all'amico di
rimandare la visita. Il Cic ingrugnì il mento e fece capire al compare di non averne nessuna
intenzione: attaccarono le spalle al muro e scivolarono via via verso il portone d'ingresso.
Non faticarono molto ad aprirlo.
Davanti a loro sbucava dall'oscurità il profilo di grossi gradoni di pietra: la scala principale che
portava al primo piano. Cic aveva ingogliato a memoria la planimetria del luogo.
Strofinò la mano contro il basso ventre e fece sgusciare l'arma dai suoi pantaloni, precedendo il
compare verso la salita che incombeva.
Mancavano gli ultimi quattro gradoni, quando le urla dell'Aldilà materializzarono di nuovo: più
profonde, più confuse, più minacciose.
La Talpa, con il petto affatticato dal fiatone, non ci pensò mezza volta e scese le scale, perdendosi
nel buio, fuori dalla soglia e lontano ormai dalla vista del Cicala.
Facendo fare un grosso sforzo al suo apparato uditivo, il Cic riuscì a capire qualcosa di
quell'accozzaglia di urla e parole, che secondo dopo secondo andavano tramutandosi in lamenti
inquietanti. Incominciava anche lui a sentire la paura addosso alla pelle.
Nascose la beretta sotto la camicia e saltò a due a due le scale, arrivando all'uscita.
Cercò di visualizzare in poche frazioni di secondo la Talpa, ma i suoi occhi rapidissimi non
riuscirono a trovarlo.
Una mano. Una mano che si appoggiava ad un'altra mano. La fontana.
La vide da lontano. Il Cic divorò ettari di erba lucida all'inglese facendo leva sulle gambe secche e
scattanti. Attimo dopo attimo, la mano di carne che si stringeva alla mano di marmo bianco
diventeva sempre più grande.
Ebbe il tempo velocissimo di dischiudere le labbra attaccate fra loro dalla paura, quando la mano
viva si staccò dalla mano marmorea e si avventò verso il collo teso del Cicala.
La pigra luce rossastra dell'interno si sciolse completamente nel buio.
Peggio di una bomba ad orologieria. Peggio di un gessetto che stride su una lavagna. Peggio di
un trapano che tritura un marciapiede.
Il tic tac del vecchio orologio a muro stava incrinando i nervi di Gigi: alle quattro del mattino
erano ancora uno di fronte l'altro, da parecchie ore. Quelle sbarre pesanti e arrugginite che
cadevano a cadenze ritmate da una parte all'altra del quadrante lo stavano facendo impazzire.
Il sonno cadeverico di Cecco non veniva minimamente intaccato da alcun fastidio. Dopo avere
restitito stoicamente all'ora tarda e al salame affumicato di casa Londi, fece scivolare
lentamente la testa sui braccioli sgualciti del divano giallo, scendendo sempre più giù verso un
letargo animalesco.
Alle quattro e ventitrè gli occhi di Luigi fissavano ancora le frecce grigie che lo tormentavano: se
avesse avuto un po' di forza di scorta si sarebbe avventato su quel mostruoso segnale orario.
Ma a dargli veramente alla testa era il pensiero dei suoi due amici.
“Che cazzo stanno facendo? Dove sono? Quanto ci mettono? Che hanno combinato? Perchè non
tornano? Quando arrivano?”
Il suo cervello stava scoppiando, a forza di dovere contenere tante domande e tanti enigmi; le
risposte che di rimando inviava al suo padrone di certo non lo facevano stare più sereno.
“Bastardi figli di puttana, hanno fatto il colpo da solo! Si sono fatti beccare! Mi hanno fregato il
piano! Sono scappati con tutti i soldi! Mi hanno lasciato qui con il coglione e hanno fatto i loro
comodi!”.
Poi il pensiero corse alla Talpa infida.
“Merda!!Era stanotte allora il giorno di via libera, non domani! Mi ha sempre preso per il
culo!Sapeva tutto!”
La sua immagine riflessa attraverso lo specchio dell'orologio a muro lo spogliò davanti a se
stesso: eccolo lì, il grande Gigi, disperato, fregato dai suoi amici, rimasto a mani vuote ad
aspettare seduto il ritorno di due fantasmi. Un perfetto fallito.
Dalle stelle alle stalle: da un comodo giaciglio di piume a una dura e gelida piattaforma di
cemento. Peggior risveglio la bestia non poteva averla.
Cecco era stato scaraventato fuori di casa dal Gigi: si svegliò stordito, più rincoglionito del
solito, con un leggero malessere fisico all'altezza del culo. Sotto di questo c'era un pietrone
marrone avvolto in un foglio di carta stroppicciato.
“Fottiti tu e i tuoi amici pezzi di merda”.
Messaggio laconico, senza altre aggiunte o post scriptum a dover puntellare la situazione.
La furia omicida che trasudava da quelle violente lettere bastò alla belva per non avanzare
spiegazioni in proposito; strinse le due ali del giubbotto e le legò con la cinta dei pantaloni, si
scrollò addosso alcune goccie di pioggia dalle spalle, starnutì, si tolse dalla bocca un po' di sputo
incatramato e si alzò da terra.
Proseguì dritto, scomparendo lungo il fondo della strada, non facendosi domande.
Fragile come una fetta biscottata: come quella fetta davanti ai suoi occhi, assalita dal peso della
marmellata di pere che la stava scareventando verso l'abisso della tazza.
Gigi andava sgretolandosi: si sentiva a pezzi, del tutto privo di forze, mentre guardava quella
tenera immagine della sua allegoria esistenziale.
La fetta si spezzò in due come la sua schiena e mentre lei cadeva fra le braccia del latte lui cadeva
sui suoi gomiti, disperandosi come un bambino e bestemmiando come un dannato.
Nel mezzo del dramma personale, ebbe la sua apparizione: la ragazza del pub.
Doveva essere lei, sì, era sicuro si trattasse di lei, anche se da quella distanza e da
quell'angolazione la sua immagine non era del tutto distinguibile.
Ne scorse un pezzo di viso, la cascata di capelli chiari e mossi, il nasino che tanto lo aveva
atratto la prima volta, e con quel vestito rosso che le accendeva il sorriso: stava montando sul
suo motorino, a poche decine di metri da casa Londi.
Avrebbe voluto fermarla, parlarle, sfogarsi, trattenerla a sé, anche per un solo attimo.
“Come era bella col vestito rosso”.
Non si mosse.
Non ce la faceva, tutta la carica e tutta l'adrenalina che ribollivano dentro il suo corpo erano
scomparse. Evaporate nel nulla. Dissolte dalla disperazione.
Ma soltanto quella visione ebbe lo strano dono di farlo sentire meglio, di nuovo vitale: sentì il
sangue di nuovo irrobustirsi dentro le vene, le gambe solide e non più smorte e flaccide, il
braccio che accarrezzava la tazza duro e sveglio.
Ripensava a quella stramba sera del night, alla sua fanciullesca gioia dopo la chiamata allo zio
per la rapina, al suo cartoccio che odorava di caviale, alla caduta della tipa ubriaca sopra le sue
ginocchia, al freddo e al vento aspro di quella notte, alla carezza dolce della ragazza sotto casa, al
suo sguardo allampanato e sognante, perso in pensieri bellissimi.
Sulle sottili labbra disegnò una leggera curva che saliva verso il naso.
Lo zio. La seconda apparizione.
Le urla assatanate del vecchio al telefono, le discussioni animate, e poi di nuovo quel signore
che per lui era stato come un padre, che l'aveva abbandonato al suo destino, dentro un treno alla
stazione di Milano, in quella giornata che avrebbe dovuto essere più bella di quella del night.
Il vuoto. Nero. Il buio senza buchi di luce. Un'ombra cavernosa e opprimente. Così, adesso,
vedeva Gigi Londi il suo futuro.
Finalmente accompagnò il cucchiaio alla bocca e succhiò quello che rimaneva della fetta
biscottata. Addentò con foga un'altra fetta. Finì il latte in un sol sorso.
Si asciugò il viso ricoperto di zampilli bianchi. Si alzò dalla sedia e si avvicinò dritto alla finestra
che dava sulla strada.
Rimase qualche attimo davanti a quel panorama insignificante, che a lui parve di nuovo
bellissimo e vivido: lo riempì di nuovo di speranze e di sogni, di desideri e di rivincite, e
ridisegnò con gli occhi quel vecchio motorino e la sua padrona, mentre addomesticava la
bizzosa chioma luminosa e la infilava dentro il casco bianco.
Questa volta lei si girò e salutò Luigi.
Una sauna che odorava di caffeina.
Sin da quando era un bambino di cinque o sei anni passava giornate intere in mezzo a quegli
effluvi meravigliosi, caldi e corposi, che sembravano avessero l'effetto di trasportarlo in una
dimensione nuova, esterna al mondo, solo sua e di nessun altro.
I vapori di un caffè bollente ritempravano il suo cervello, i suoi muscoli, la sua testa, la sua
anima.
Se ne stava lì, quel pomeriggio, Gigi, incurante delle persone che passavano ridacchiando
accanto a lui, immobile e sognante, davanti al suo caffè nero, come se stesse cullando sogni
irraggiungibili. Degli occhi altrui, non gliene importava niente.
Quando giudicò l'effetto inebriante aver toccato tutti i suoi sensi, alzò le palpebre e inclinò la
testa. A piccoli sorsi consumava la bevanda, guardandosi intorno con una espressione beata e
vagamente languida.
In particolare lo attraeva quella specie di clown che si dimenava al bancone del bar, che
armeggiava coktail e tazzine come se fossero delle bombe pronte ad esplodere da un momento
all'altro. L'imbranataggine del barman gli ricordava un po' la sua nel proprio lavoro.
Rise velatamente sotto i baffetti e fece scivolare dolcemente l'ultimo piccolo rivolo scuro dal
bicchierino di plastica. Se lo volle godere intensamente, sciacquandolo nel palato e sbattendolo
da una parte all'altra della gola prima di farlo accomodare in fondo alla trachea.
Era mancato poco che ci rimanesse. L'ultima goccia impazzì e lo fece sussultare, tossire, sputare
come un dannato.
Ancora lei.
Questa volta non fu lui a costruirla nell'aria, ma si palesò in tutta la sua fresca vividezza
all'ingresso del bar.
Non volle perdere tempo: si strizzò i baffetti inzuppati di caffè in un piccolo tovagliolo, si stirò
frettolosamente i capelli e si avvicinò verso di lei in maniera spedita.
Si era appena seduta di fronte al clown, per ordinare il suo solito succo di limone, quando si
accorse con la coda dell'occhio che qualcuno le si piazzò di lato, in modo trafelato e scomposto.
Si girò leggermente dall'altra parte.
-Non mi riconosci?
La ragazza non rispose.
-Ma forse non mi ha visto bene...
-Non la conosco, mi lasci in pace.
-Sono quello che l'ha portata a casa, quando era ubriaca, quella sera, si ricorda? Al pub!
Marta ruotò il busto verso Gigi. Rimase qualche secondo immobile a scrutarlo.
In quel momento il Londi non aveva la forza di sollecitare un solo nervo.
La tipa scoppiò in una risata libera, sguaiata, cercando di coprire la bocca con la mano.
-Scusami, scusami!-Ti ricordi, allora?
-Certo, sei quello che mi ha salvata!
-Sì, diciamo di sì-, Gigi cominciava a scrollarsi di dosso un po' di tensione.
-Mi devi perdonare, davvero, ma non ti avevo riconosciuto!
-Fa niente, è passato un po' di tempo!
-Sì, ma....c'è qualcosa...sì, questi baffi, non li avevi, vero?
-Ah, i baffi, vero! Ecco perchè! Sì, li ho fatti crescere da poco!
-Lo vedi? E' colpa tua! -Un'altra risata.
Gigi in quell'istante si sentì assalito da una brezza di gioia che nessun caffè avrebbe mai potuto
portargli con i suoi effluvi trasparenti.
“Si è ricordata che non avevo i baffi, quindi mi ricordava....sì, mi ricordava...non ero solo io che la
pensavo, dunque....”
Mentre torceva i suoi neuroni con queste disquisizioni, Marta cominciò a bere il succo di
limone, mentre continuava a guardarlo divertito.
-Scusa, ma noi non ci siamo neanche presentati quella sera! Io mi chiamo Gi..Luigi.
-Marta, piacere.
-Ma poi, come ti è andata da quella sera? Hai avuto altri problemi? Voglio dire...
-No, no, grazie a Dio no! Sì, ho passato dei momenti non ....insomma, ho avuto un po' di casini..
-E ora?-Luigi la interruppe eccitato.
-No, adesso, sto bene, molto meglio...
Marta lo scrutò ancora una volta, disegnando il volto di Guglielmo sopra quello di Gigi.
Lui incominciò a fremere e a ballare con le gambe incastrate sul tavolino, ma cercò di non farsi
scoprire in quella sua fanciullesca gioia e piantò un braccio dall'altra parte del balcone a
sorreggersi. Lo fece, o cercò di farlo, con estrema nonchalance.
Avrebbe voluto chiederle tantissime altre cose, ma non volle sembrarle inopportuno. Si fece
coraggio, pensando che quella sera avrebbe fatto il colpo alla villa da solo.
-E come mai...cosa...stai meglio, no? Come mai....?
Era un disastro con quella bocca. Incastrare una frase con l'altra era un problema che non si era
mai posto, le sue esperienze precedenti non lo richiedevano affatto. Aveva sempre avuto a che
fare con ragazze dei sobborghi, gente più bestiale di lui. Così era anche l'ultima, Giorgia, che si
esprimeva più facilmente con l'arte dei gesti che con le parole. Lei era diversa. I suoi modi
ricercati e naturali al tempo stesso quasi lo mettevano a disagio, avevano il potere di metterlo
in soggezione e farlo pentire di non essere andato mai aldilà della quarta elementare.
Marta affondò le dita lungo i lati dei capelli e rise di nuovo.
-Sai, fortunatamente ho avuto la possibilità di incontrare una persona....una persona
speciale....una persona che è riuscita a salvarmi....forse è la persona giusta...la conosco ancora
poco, ma chissà...magari questa volta potrei essere fortunata...
Accompagnò le ultime cinque parole con un sorriso dolce, leggero, quasi timido, alzando gli occhi
lievemente di nuovo in direzione di Luigi, e di nuovo trasformando quel volto acerbo, giovanile,
che non gli trasmetteva niente, con le fattezze mature, rassicuranti e forti di Guglielmo.
Mancò davvero poco che questa volta a svenire non fu lui fra le braccia di Marta.
“Sta parlando di me, ne sono sicuro....una persona, speciale, che l'ha salvata, e sono io, sono
stato io quella sera, e conosce da poco quella persona, sì, è proprio di me che sta
parlando...oddio....non me lo sto immaginando....”
Marta poggiò il lungo bicchiere di vetro e imbracciò il monospalla, alzandosi dalla sedia.
-Mangiamo insieme domani sera?
Le labbra di Gigi sputarono automaticamente quella frase, senza nessun controllo, guidate da
una forza e da una sicurezza sconosciute.
La ragazza si bloccò per qualche secondo e fermò i suoi occhi davanti a quelli di Luigi.
“Ma questo qua ci sta provando”?
Era troppo contenta, troppo viva e felice per rispondere con un freddo “no” a quella ingenua
richiesta.
Una cenetta non le sarebbe costata nulla, lì gli avrebbe spiegato bene le cose, se magari avesse
confuso.
-D'accordo, va bene. A domani sera, allora.
-Ti prometto una cena incredibile. Domani avrò molti soldi.
Gigi non sapeva più quello che stava dicendo: mescolava assieme la faccia di Marta, i milioni
della Villa, il ricordo del caffè e tirava fuori stronzate assurde.
Marta si sforzò di non ridere a quella sua “uscita” naif.
Ciao.
Ciao.
Gigi uscì dal bar velocemente, trascinato dal suo entusiasmo e dal futuro d'oro che lo attendeva.
Marta fece finta di uscire dal bar. Seguì con gli occhi quel pazzo allontanarsi, poi entrò
nuovamente al bar e si sistemò in un tavolino.
Finalmente potè tirare fuori quelle risate che le stavano esplodendo dentro la bocca.
Si sistemò i capelli, guardò l'orologio. Le cinque. Guglielmo stava per arrivare.
Quando si trovò davanti agli occhi quel pastore tedesco, gli venne in mente suo padre.
Pensò a quando gli raccontarono di come fu mangiato vivo da quel cane, di quando ritrovarono
il suo corpo scorticato e livido, di quando scoprirono le sue ossa gonfie e tumide.
Sfilò un tubo azzurro dal giaccone e lo diede in pasto alle belve che lo guardavano con il loro
sguardo assatanato.
Dal contenitore uscirono file e file di polpette, dolci come il pane e amare come il veleno che
custodivano nell'interno della carne.
Mentre guardava con gusto quella scena, non si accorse che dietro di lui si stavano avvicinando
altri due setter inglesi.
Il maschio affondò i canini all'altezza della coscia, mentre la femmina gli diede un morso in
mano e poi si avventò sul braccio, piantandosi con le zanne al giubotto di Gigi.
Aiutato dalla rabbia riuscì a centrare con la gamba libera il muso del maschio, in un attimo
prese il piccolo revolver sotto il maglione e lo scaricò sulla coppia di setter.
Nonostante la femmina avesse la mandibola aperta e fracassata, con un'ultima folata di energia
si attaccò nuovamente al Londi, imprigionandogli il polpaccio. Gigi la bucò da parte a parte, a
pochi centimetri di distanza: la pallottola schizzò dalla bocca della pistola, trapassò come coltello
nel burro la testa della cagna e uscì sotto il collo, riversando grumi di sangue nero e rosso sul
prato immacolato.
Gigi guardò il caricatore e tirò una smorfia: aveva quasi finito tutte le munizioni per sfondare
quei depositi ambulanti di pulci. Pulì il silenziatore e passò avanti alle due carcasse.
Finalmente potè alzare gli occhi sopra la linea dell'orizzonte e vide davanti a sé lo splendore della
Reggia. Gli ricordava in maniera incredibile la dimora pugliese dello zio, dove era stato solo una
volta, da ragazzino, tra un uscita e l'altra dal carcere minorile.
Era tutto spento. Non una luce, non un sentore di vita, non un barlume di presenza umana.
“Allora era davvero oggi il giorno di via libera”: Luigi si ripetè ad oltranza questa frase, mentre si
avvicinava alla villa, costeggiando le marmoree statue di Apollo, Dafne e Teseo, e gettando
l'occhio sulla meravigliosa fontana che sgorgava acqua cristallina sopra le teste degli Dei.
Si chiedeva cosa potessero avere fatto i suoi compari, si chiedeva cosa potesse essere accaduto,
si chiedeva che fine avessero fatto. Si chiedeva, e non riusciva a rispondersi.
Era riapparso, senza nessun preavviso. Pensava ormai di esserselo tolto di torno.
Sbucò fuori, in camicetta azzurra e pantaloncini arancio, tra Socrate e Tito Livio.
Lo guardò con odio, con gli occhi fissi e sbarrati verso quell'immagine, ma con dentro una
rabbia nuova, potente, che le consentì di accartociarlo senza patemi, senza sofferenze, con
estrema naturalezza.
Marta cervava di mettere ordine in quella cameretta che sembrava una biblioteca, con gli
scaffali tracimanti di codici, traduzioni, tabelle di metrica, volumi e saggi storici, nasi di Cesare e
Pompeo, arringhe di Cicerone e quant'altro.
Dovette fermarsi. La foto del suo ex cominciava a batterle sulla pancia.
Aprì il frigo e imbracciò una scatola grande di yogurt, la sua più grande risorsa contro i
momenti di sconforto. Era arrivata a una vera e propria venerazione per il Dio Yomo, facendone
incetta quasi ogni giorno, e pescando sempre qualche gusto mai provato, o che nessuno escluso
lei aveva il coraggio di provare.
Quella sera ingurgitava cucchiaini di melograno e pompelmo rosso, con pezzi di frutta secca
frullata e mescolata a chicchi di caffè macinato. Mandava giù quella originale accozzaglia di
colori e sapori, e sentiva dentro di sé lo stesso dolore che aveva provato poco prima. Rivide lui,
davanti a quel cancello in tenuta da mare, ridere di gusto davanti a lei.
Mentre continuava spedita a scavare il fondo dello yogurt, ripensava a lui e a quando la prendeva
in giro, all'inizio del loro rapporto, per qualche rotondità troppo evidenziata sulle guancie.
Adesso aveva perso tutte quelle imperfezioni di peso, era diventata magra e asciutta, ma ogni
tanto si guardava allo specchio e si rimproverava, trovava sempre qualcosa per rimproverarsi.
Un piccolo difetto fisico riusciva a martellarla per giorni, fin quando non l'aveva eliminato dal
suo corpo.
Mise giù lo yogurt. Catturata da una soffocante sensazione di angoscia, srotolò il tappetto delle
flessioni e cominciò a fare leva sul corpo.
Gigi si trovava a due passi dall'atrio. A dividerlo dalla Reggia rimaneva solo un vecchio portone
di legno, che non si sarebbe rivelato certo il più insormontabile degli ostacoli.
Tirò fuori i suoi attrezzi, e appoggiò la mano alla porta che lievemente cominciò ad aprirsi da
sola verso l'interno. Era aperta. Era già aperta.
Istintivamente, roteò la testa indietro e poi avanti, mandò i suoi occhi a sondare intorno il
terreno, uno a sinistra, l'altro a destra. Poi si girò ancora alle spalle, ma non vide nessuno.
Sistemò gli attrezzi dentro la sacca, ed ebbe il tempo di infilare il piede destro all'interno
dell'atrio, nello stesso momento in cui un rumore confuso ma forte lo fece indietreggiare sui
suoi passi, di nuovo fuori dal portone.
Chiaramente, adesso, riuscì a distinguere il rumore di passi felpati, veloci, ansimanti, dirigersi
verso di lui. Vide che attorno a lui non c'era possibilità di nascondersi, e decise così di infilarsi di
nuovo all'ingresso, sotto il grande scalone principale, sperando di non essere visto.
Dalla griglia di quelle scale affondate nel buio vide uscire due, quattro, infine sei gambe. Si
rintanò ancora più sotto, e uscì il revolver. La mano cominciava ad emozionarsi.
Rimase rigido come un blocco unico di ghiaccio per qualche secondo, facendo attenzione a
buttar giù le minime espirazioni indispensabili.
Attorno a lui tornò il vuoto e il silenzio.
Strisciò da sotto le scale e si avvicinò all'uscita. Vide quei profili scuri allontanarsi dalla Villa.
Riconobbe una zucca pelata con un pendaglio vistoso afferrato all'orecchio, e una specie di
nano che correva più forte dell'altro.
Appena vide quelle bizzarre fisionomie, gli vennero in mente loro. Renato, Vincenzo.Era sicuro
che fossero loro. I fratelli Carrubbo.
Un altro enigma che entrò nel cervello di Gigi. Che ci facevano là? Come sapevano? Chi li aveva
avvertiti? Accanto alle loro facce, si accostarono gli altri due visi giocondi e sorridenti di Cecco e
Beracchi.
Si erano messi assieme, i bastardi. Così tradusse la sua mente.
Scattò con rabbia esplosiva verso l'atrio della casa, voleva andare fino in fondo alla cosa. Non
riusciva a darsi pace. Pensava a quanto avesse faticato per mettere in piedi quel piano e a
quanto si fosse impegnato per istruire i suoi amici. Pensava a come lo avessero ripagato.
Entrò dentro, accolto dal solito sottofondo senza voce. Tirò fuori anche il secondo revolver e si
diresse dritto verso il salone.
Stricò la schiena lungo il rettilineo del muro, avvicinandosi lentamente.
Di fronte a lui riconobbe il profilo di una tenda rossa. Aprì il sipario davanti a sé.
Luigi fermò i suoi occhi.
Domenico Carrubbo lo guardò impietrito.
Marta e Harold Lloyd non si vedevano da almeno quindici anni: stavano dando “Preferisco
l'ascensore”, il suo film più famoso. Da ragazzina passava interi pomeriggi con l'occhialuto dalla
faccia imbranata, anziché perdere tempo con Ghoete o Manzoni: si ricordava ancora di quando
il padre spolverò la sua cameretta di quei vecchi film, dopo che a casa arrivò la pagella che
assomigliava davvero a un film comico.
Il buffo attore si trovava in un ristorante, intento a scambiarsi occhiate con la sua vicina di
tavolo che però non sembrava gradire le avances del cavaliere: a Marta, dopo qualche minuto,
venne in mente il tipo del bar, che sembrava saltato fuori da una pellicola di Harold Lloyd.
Ripensava ai suoi avventurosi tentativi d'approccio e ai suoi sguardi allucinati. Si mise
nuovamente a ridere. Continuò a vedere il film.
Lloyd ordinò una banana e la ingogliò per intero con tutta la buccia.
In quel momento a Marta venne in mente un'altra cosa: la cena.
Aveva promesso a quel bizzarro tipo che si sarebbero dati appuntamento per l'indomani, ma se
ne ricordò tardi, quando ormai Guglielmo l'aveva invitata a casa sua.
Afferrò il cellulare e mandò frettolosamente un sms sbrigativo all'amichetto: “domani non
posso uscire, facciamo dopodomani sera. Ciao, non ti offendere”!
Continuò a fissare Lloyd, mentre sciaquava una piramide di piatti nella cucina del ristorante.
Domenico Carrubbo.
Le palle degli occhi erano sgretolate davanti a Gigi, aperte all'inverosimile e coperte di zampilli
rossi dentro la pupilla. La bocca era chiusa, serrata fra le labbra, si muoveva freneticamente
verso il basso. Cominciava a uscire qualche timida linea di sangue lungo il mento.
Il collo si aprì al passaggio del pugnale.
Un altro squarcio gli spalancò il torace. Adesso il sangue scendeva vigoroso, fitto e intenso, e
lentamente andava afflosciandosi il blocco di marmo granitico.
I cerchi sbarrati chiusero la visuale davanti a loro, una mano si aggrappò all'estremità della
tenda.
Dietro le gambe di Mimmo Carrubbo andavano scoprendosi un altro paio di rami secchi:
cominciavano a muoversi verso il Londi, con un passo felpato e calmo.
Luigi, per qualche attimo, fu vittima dello stesso sortilegio del disgraziato davanti a lui,
tramutandosi in denso ghiaccio inamovibile.
Scrollò una gamba, poi un braccio, ebbe la forza di tornare indietro, strisciando, forte, ancora
più forte, finchè scomparve fuori dalla Villa, dissolvendovi nella volta cupa della notte.
Una tarantola nel buio.
Gigi mangiò chilometri e chilometri di strada ad una velocità impressionante, tagliò traversine e
viuzze come un rasoio impazzito, schizzando verso la sua baracca.
Sbattè la porta dietro le sue spalle. Si toccò la fronte, gelida e ricoperta di sudore.
Si grattò nervosamente la lingua, scoprendo di avere finito la riserva di saliva.
Entrò in cucina e trascinò una sedia verso il fornello. Si guardò le mani e si spaventò della sua
paura: davanti aveva due trottole eccitate e convulse, non riusciva a farle stare ferme, non
volevano rispondere ai suoi comandi.
L'agitazione delle mani si cosparse in ogni sezione del corpo e dell'anima.
Assestò quattro calci a un vecchio mobile, scaraventò verso la porta una vecchia seggiola
sdrucita, sentenziò una raffica di bestemmie.
Niente lo riusciva a calmare.
Quei coltellacci e quelle gambe e quegli occhi e quella Villa: tutti i fantasmi di quella notte
sbattevano in faccia a Gigi.
Anche gli occhi lo stavano abbandonando, preda dei loro incubi: non c'era più la sagoma di un
tavolino ma un cubo che si muoveva intorno a sé, al posto delle finestre quadri minacciosi.
Zoppicò verso il frigo. Si riempì la pancia di acqua gelata, mangiò un paio di banane come se
non avesse visto traccia commestibile da giorni.
Prese una scatola di camomilla. La strappò e se la versò sulle scarpe.
Ci riprovò un'altra volta, nonostante le gambe andassero sempre più a tempo di rumba. Capì
che era più conveniente sedersi. Appoggiò un braccio nella mattonella fredda del tavolo.
In pochi secondi non pensò più all'infame, alla Villa, al sangue che bagnava il pavimento.
Si addormentò in cucina, stringendo fra le mani la miracolosa bustina di camomilla.
Gigi si svegliò con la bocca completamente asciutta: schiacciò le labbra un paio di volte fra di
loro, gorgheggiò qualche grume di saliva e spalancò le braccia.
Erano le undici passate. Il Londi se ne accorse perchè il sole lo aveva svegliato con i suoi raggi
robusti che inondarono la cucina con torri di luci afose. Si grattò con fare spasmodico i capelli,
chiuse e riaprì gli occhi di continuo per vederci qualcosa, decise di alzarsi da quella sedia
fastidiosa.
Si guardò intorno spaesato, osservando le tracce che ricordavano la notte convulsa: bustine di
camomille distese sul pavimento, alcune stracciate e assalite da una striscia di formiche, la
scatoletta dello zucchero inclinata lateralmente.
Una piccola luce che si attivava e si spegneva a intermittenza lo richiamò: il cellulare che aveva
dimenticato sopra il fornello. Un nuovo messaggio.
““Domani non posso uscire, facciamo dopodomani sera. Ciao, non ti offendere”!
Mittente: Marta. Data: ieri. Ora: 22.31.
Gigi ne capì poco. Non ricordava chi fosse quella Marta, non ricordava a cosa stesse riferendosi.
Diede un'altra occhiata a quel messaggio criptato. Scrollò la testa e rimise il telefonino al suo
posto, sopra il fornello.
Si strappò i vestiti che si erano appiccicati alla pelle e si infilò prepotentemente sotto la doccia.
I primi fili d'acqua fredda lo fecero ripiegare su se stesso, poi timidamente cominciarono a
riscaldarsi e a ritemprare il suo corpo: si schiaffeggiò con bordate di liquido caldo che
lentamente lo aiutarono a riprendere i sensi.
L'intima cabina trasparente si stava trasformando: tralci di piante esotiche si avvilupparono
lungo i lati del box, putti e santi si accoccolarono sopra i bordi, la cipolla della doccia divenne una
lampada luminosa e sfrontata che fissava Gigi, davanti a lui riapparve il più piccolo dei Carrubbo
e il suo sangue, e quelle gambe e il loro coltello.
La tensione che andava gonfiandosi dentro Gigi fece nascere un pugno che mandò la doccia e i
suoi indesiderati ospiti in mille pezzi.
Stava recuperando conoscenza: chiuse i polsini della camicia e le immagini della Villa
emergevano ancora più nitide, strinse la cinta e ripensò a quel messaggio sul telefonino, infilò la
giacca verde oliva e riuscì a dare un volto a Marta.
L'appuntamento. La cena. Il dialogo matto al bar. Dovevano vedersi quella sera.
Gli ritornarono in testa le cazzate dette quel pomeriggio, galvanizzato dal bottino che poi non
avrebbe visto la sera dopo, e cominciò a sciogliere i nervi e la paura con le quali si era svegliato.
Si mise davanti allo specchio: vide riflesso il telefonino sopra il letto.
Ripensò al messaggio. Tirò fuori un'equazione dal cervello.
Niente cena. Rinviata a domani. Serata libera. Risultato: la Villa.
-E da dove arriva questo scotch, Gianni?
-Che intende dire, dottore?
-Te l'ho chiesto venti minuti fa!
-Eh, porti pazienza, qui è sempre più pieno ...
-E ti lamenti?
-No, no, speriamo che vada sempre così...più gente c'è più lavoro..
-E bravo Gianni va..portami un po' di ghiaccio però..
-Certo.
-Gianni?!
-Si, dottore..
-Non andarlo a prendere direttamente in Alaska questo ghiaccio però!
-Faccio presto!
Guglielmo Speroni si divertiva a chiaccherare col suo amico barista.
Alle quattro e un quarto del pomeriggio tracannare due bicchieri di scotch era roba da medaglia
al valore civile. Speroni aveva uno stomaco con i controcoglioni.
La verità era un'altra: doveva prepararsi a ingurgitare fiumi nauseabondi al gusto limone, e
preraparava la pancia al difficile compito scaldandola a dovere. Non aveva paura di stare male.
Per far ribollire quella cassaforte di salute c'era bisogno di ben altro.
Guglielmo voltò gli occhi verso l'amico barista. Il ghiaccio era ancora lontano.
Si destreggiava come un funambolo a destra e a sinistra, in avanti e di lato, indietro e di traverso,
moltiplicandosi le mani e le braccia per servire tutti gli avventori, e il Gesù Cristo del pub Mecchi
distribuiva le bevande, provvedendo alla divisione dei caffè e dei liquori.
Indice sollevato vuol dire “muoviti”. Pollice di lato equivale a “mi sto arrabbiando”.
Il vocabolario gestuale di Guglielmo era scattato.
Il figlio di Nostro Signore si fece largo tra gli Apostoli ubriachi.
-Ecco qui il ghiaccio, vede, detto fatto!
-Si si...
-Ma non le fanno male tutti questi bicchieri!? A quest'ora poi...
Gianni aveva ormai guadagnato la fiducia di Guglielmo, e sapeva che poteva permettersi queste
sortite nelle scelte personali dello Speroni.
-E a te non fanno male tutti quei clienti da solo?
-E che ci vuole fare, il capo ha cacciato Fakurk...
-Chi ha cacciato?
-Fakurk, il ragazzo di colore che mi aiutava...non se lo ricorda? Una volta le ha pure macchiato la
giacca con il wisky!
Gianni non ce la fece a contenere un piccolo sorriso divertito.
Speroni chinò il capo leggermente scocciato da quel ricordo.
-Ah, il marocchino..come no, me lo ricordo, me lo ricordo...
Avrebbe voluto terminare la frase con “brutto negro stronzo puzzolente parassita”, ma preferì
non far aspettare oltre il suo secondo scotch.
-Io torno in trincea, signore.
-Vai, vai, Gianni, che ti bevono tutto quelli...
Speroni afferrò con decisione il lungo collo del bicchiere.
Fece scivolare con grazia lungo la trachea spalancata il nettare prezioso a base di orzo maltato.
Il raffinato degustatore aprì un'altra pagina del suo vocabolario.
“Mignolo inclinato verso destra”. “Prova superata”.
Dal bancone delle bottiglie Gianni buttò fuori un soffio liberatorio.
Dietro la nuca di Guglielmo, il naso di Gigi si distendeva sempre più avanti.
L'orzo, insieme al caffè, era il grande amore delle sue narici. Ma a differenza della nera bevanda
la birra costava decisamente di più, e quindi si accontentava di fruirla a mezzo olfatto.
Sarà stato l'espresso che si era sorbito qualche minuto prima, o forse il gusto intenso e ricco del
malto d'orzo, ma Gigi ebbe un'altra delle sue apparizioni.
Davanti a lui, ma ancora lontana, si avvicinava ridendo e sfoggiando la sua nuova chioma.
Imbracciava un tomo molto lungo, rettangolare e ricoperto di macchie verdi, che sul dorso
disegnava il viso di quel geniaccio di Vincenzo Van Gogh.
L'occhio lungo dello Speroni, più acuto di un'aquila, l'aveva già visualizzata a distanza.
“Sta venendo qui da me. Calmati, calmati, fermo”.
Gigi cercava di tenere a bada Luigi.
Avanzava elegantemente verso di lui con passi distesi, e più si avvicinava più sbiadivano gli
accenti forti di caffeina e birra, e più prendeva formo e corpo l'inconfondibile odore di Marta.
“Gamba destra protesa all'esterno”. “Muoviti con la limonata”.
Gianni afferrò la pagina numero 9 del vocabolario Speroni-Italiano e si affrettò a sfornare un
paio di caffè dalla macchinetta nervosa.
“Eccola, sempre più vicina. Fai finta che non la vedi. Fai finta che non l'aspetti. Fai finta di
prenderti per il culo”. Gigi era sempre più nervoso.
Senza nessun preavviso, senza nessun segnale d'allarme, la ragazza sterzò la propria
carrozzeria verso sinistra, tagliando la strada che si dirigeva al casello Londi.
Gigi si vide davanti il brutto muso di Mike Tyson che lo mandava all'aldilà con un uppercut
feroce.
“Si è fermata da quello stronzo”!
Gigi non trovò più parole e pensieri.
-Lo riconosci questo?
Marta inaugurò la conversazione con il suo proverbiale e generoso sorriso.
-Il vecchio Vincent!
-Pensavi mi fossi dimenticata?
-Ma scherzi? E comunque poi te lo restituisco. Giuro!
-Ma dai...
-Mia moglie cercava questo libro da anni!
-E' fortunata allora! E' un libro vecchissimo.
-Stasera potrai ringraziarla di persona.
-Non vedo l'ora di conoscerla.
-Dai, siediti.
Velocemente si avvicinò la mano del barista con le due limonate d'obbligo.
-Grazie, Gianni. Sempre scattante il nostro ragazzo!
-Grazie, signore. Buongiorno, signorina.
-Buongiorno.
-Vai, vai, Gianni. Grazie.
Gianni si allontanò mestamente, avrebbe voluto scambiare due o tre parole meno ufficiali con
quella ragazza.
Dietro le corde del ring, Gigi riprese a boccheggiare.
Srotolò l'occhio acciaccato dal bullo Tyson.
Non voleva crederci, eppure era così. Marta se la faceva con quello stronzo.
Erano uno di fronte all'altro e Gigi intuì che fra i due si era cementata una certa intimità.
“Sono solo amici, scemo. Stai tranquillo, non impazzire”.
“Pezzo di coglione, saranno amanti da cinque mesi almeno. Guarda come la tocca!”
Al Madison Square Garden cominciò il primo round fra i due neuroni di Gigi.
Il neurone buono cercava di aiutarlo e quasi ci riusciva, quello cattivo che non si faceva i cazzi
suoi non perdeva occasione per stendere nuovamente al tappetto il suo padrone.
“E almeno girati handiccapato! Non farti vedere”.
Gigi Garibaldi obbedì alla vocina e si voltò ruotando all'indietro la sediolina di plastica.
Le orecchie indiscrete cominciavano a rizzarsi verso l'alto, riuscendo a percepire solo alcune
parole, soltanto alcuni stralci di frasi condite da risate crudeli.
-Lo sai che stai bene con questo nuovo taglio?
-Ti piace davvero? Io ero indecisa fino all'ultimo momento...un nervoso....
-No, no, davvero. E' un bel taglio, fresco, mi piace.
Quelle piccole curve di capelli ipnotizzarono anche Gianni.
Sciacquava le tazzine e non riusciva a staccare gli occhi dalla tipa, poi si accorgeva che avrebbe
potuto attirare Vista di Falco e fu costretto a ritirare lo sguardo dal suo orizzonte preferito.
-Senti, a che ora stasera?
-Facciamo alle otto, d'accordo?
-Perfetto.
-Puntuale stavolta, però!
-Tranquillo, non farò aspettare la tua signora.
-Sarei venuto a prenderti io, ma devo aiutare quella pazza con la tavola e il resto, è una maniaca
della perfezione...
-Tranquillo!
I due finirono di svuotare i bicchieri e si alzarono.
Lo stridolio delle sedie attizzò nuovamente le antenne di casa Londi.
“Non ti girare, non ti girare”. Puntualmente si girò.
Per fortuna erano già di spalle, e Marta non potè vederlo. Ma lui vide lei e questo fu ancora
peggio per il morale di Gigi.
Avrebbe voluto assestare un poderoso calcio in culo al terzo incomodo e avventarsi su di lei.
Non ne aveva il coraggio né la forza, in quel momento.
Ammirò la chioma scorciata della tipa, che le lasciava scoperto il collo sopra il quale apparve un
piccolo animale sorridente.
Con quel piccolo tatuaggio la trovò ancora più irresistibile.
Guglielmo e Marta uscirono dal bar.
Gianni sospirò col suo bicchiere in mano.
Il Londi ordinò birra d'orzo per placarsi, alla faccia dei cinque euro.
Quando tirò fuori il motorino da casa qualche nuvola grigia cominciò ad affacciarsi.
Quando fece trenta o quaranta metri la pioggia inzuppò completamente l'interno del leggero
giubbetto jeans.
Quando lasciò definitivamente la baracca alle spalle, i capelli gli si erano ormai appiccicati sulla
fronte. Gigi dovette soffiarci sopra a più riprese per evitare di sfondare qualche muro o finire
contro un camion.
Via dei Marmi. Non la trovò.
Le sue pupille riuscirono a correre più veloce della Lambretta ma quell'indirizzo non volle uscir
fuori.
Altri colpi di singhiozzo del motore. Altre bestemmie del Londi. Altro cato d'acqua, sempre più
impertinente. Una gobba di pioggia gli incurvò la schiena.
Cominciò a prendere forza pure un alito di vento.
La stufa a quattro ruote iniziò a tremare e a ondeggiare lungo il ciglio della strada, mentre Gigi
soffiando e sbuffando continuò a sondare vie e traversine, vicoli e incroci.
Era sicuro che la Villa fosse là in zona, sebbene ci avesse messo piede solo un paio di volte
qualche tempo fa. La notte non lo aiutava. La luna non volle fargli da torcia.
Attorno a lui c'era il buio più profondo. Qualche macchinone sfrecciava accanto alla carriola e
quasi riuscì a ribartarla.
A un palmo di mano dalle ruote della Lambretta il Londi vide materializzarsi qualcosa.
Qualcosa che si mosse a fatica, alzandosi e crollando di continuo.
Ebbe il tempo di capire che si trattava di un cane. O di quello che ne rimaneva, con le zampe
tranciate da qualche automobilista, il muso schiacciato e aperto, la mascella penzoloni.
Prima di dagli il colpo di grazia sfondandolo con il motorino, Gigi riuscì a sterzare da un lato.
La vecchia stufa prese il largo e il suo padrone altrettanto, ma da tutt'altra direzione.
Il catorcio andò a morire tra le braccia di un cartellone pubblicitario che sponsorizzava cocacola, il Londi slittò con i piedi e le ginocchia fino al primo ostacolo che riuscì a fermarlo.
Dopo qualche minuto di torpore, Gigi riattivò le braccia facendo leva sul busto e alzandosi da una
pozza di fango gelata.
Non osò toccarsi la faccia. Sentiva di essersi tagliato all'altezza della guancia sinistra.
Avvicinò la mano alla ferita e se la riportò agli occhi pitturata di rosso.
Come un assetato nel Sahara immerse totalmente la testa in una pozza d'acqua. Strofinò il viso
vigorosamente, fino a farsi male. Cosparse il pezzo di pelle tagliata con un pugno di fango secco.
Si girò dove aveva visto per l'ultima volta la sua Lambretta.
Le luci del motorino illuminavano il cielo scuro, mentre la carcassa giaceva silenziosa, senza il
suo solito singhiozzo. Poco lontano il bastardino aveva smesso di ansimare.
Gigi si rimise all'impiedi appoggiandosi ad un muro. Scrollò quelle maledette ciocche che
andavano sempre a sistemarsi in mezzo agli occhi.
“Numero 43”. Un metro più a destra trovò scritto “via dei Marmi”. Di fronte a lui riconobbe il
profilo appuntito del cancellone di Villa Speroni.
Il Londi sorrise.
Dopo tanta sfiga, finalmente l'incidente al posto giusto.
Qualche minuto dopo e il cancello della Villa non fu più un ostacolo.
Nessun cane in giro. Niente sangue di cane in giro.
Qualcuno aveva pulito.
L'altra notte le vie serpentinate dei giardini erano chiazzate di nero e di rosso, adesso avevano
riacquistato il loro tono bianco e lucido. Per il resto era tutto come si ricordava, seppure in
maniera confusa.
L'orgia di putti e santi che si sciaquavano vezzosamente le membra sotto le fontane di bronzo,
una Venere che svettava sopra tutti inorridita, un Apollo e il suo carro abbondonato là davanti,
qualche giovane in attesa di prendere parte all'allegro festino.
E ancora, la fotocopia della dimora pugliese di zio Umberto.
All'altezza del finestrone centrale, al primo piano, un raggio di luce giallastra si irradiava in
profondità.
In mezzo, bagnato da quel torrente irreale di luminosità, Gigi scorse qualcosa. Qualcuno.
In pochi secondi, si trovò faccia a faccia con il portone della Reggia.
Il portone si mise da parte e il Londi, sempre più inquieto, passò avanti.
Un rimbombo si materializzò sopra la sua testa.
Un eco lontana. Parole confuse e nascoste. Rumori senza identità.
Gigi salì le scale strozzando sempre più forte il calcio del revolver.
Ancora quelle strane parole, che adesso si fecero più nitide, chiare, ritmate. Parole che Gigi non
riuscì a decifrare. Mano a mano che il Londi proseguì, capì la direzione di quell'assemblaggio
assurdo si suoni e voci.
Provenivano dalla tenda dove comparve il giardiniere.
Sguinzagliò la pistola, liberandola dalla sicura. Il passo andò rallentandosi, ma tirando sempre
dritto.
Con la mano libera che gli rimase sollevò senza rumore la tenda.
La prima cosa che vide furono due ragazzi molto giovani, vestiti con un indumento lungo,
bianco, ornato sobriamente. In mano avevano delle piccole coppe e qualche ostia.
Davanti a loro, ma di spalle al Londi, una persona adulta, ricoperta dalla testa ai piedi di un
tessuto nero e lucido, bagnato di riflessi grigio-gialli dalla luce fioca di qualche candela.
Attorno vide le sagome di altre persone, ma non riuscì a scrutarle nitidamente perchè la fonte
luminosa dei candelabri si spense in prossimità delle loro teste.
L'uomo in mezzo ai due ragazzini liberò dal proprio collo un pacchiano amuleto rosso.
Ancora una volta, dalla sua bocca uscirono quelle parole ritmate che il Londi aveva già sentito.
Latino. Era latino.
Inutile provare a tradurlo.
Uno dei ragazzi passò l'ostia a quella specie di santone che continuò a snocciolare versi che per
Gigi non ebbero alcun senso.
Un fortissimo rumore sbilanciò i nervi del Londi.
Le persone senza volto cominciarono a tirare da una parte e dall'altra un intreccio di corde
larghe e spesse. Mentre tirarono verso il centro della stanza una grande ossatura di legno
iniziarono a lanciare bestemmie contro Cristo.
L'impalcatura di legno era una grande croce. Al posto di Gesù c'era Marta.
Marta.
Gigi istintivamente si avvicinò, non riuscendo più a dare comando alle sue gambe.
“Non poteva essere lei. Non era lei. Sembra lei ma è un'altra. E' lei”.
Nonostante avesse la faccia buttata da un lato e due righe diagonali segnate dal sangue che le
attraversavano il viso, il Londi riconobbe l'unica ragazza di cui si era mai innamorato.
Non parlava più. Non c'era più. Solo il suo corpo.
Era già morta.
La statua di Gigi continuò a osservare quello che stava svolgendosi in quella stanza.
Il Santone ricoperto di nero tirò fuori un sacco da una specie di bacinella.
Le sue mani tirarono fuori altre mani.
Il ragazzino poggiò quei due pezzi di carne sopra un basso altare di marmo bianco e cominciò a
dar voce alla solita nenia latineggiante. Alla sua voce, flebile ma sinistra, si accodarono quelle
degli altri personaggi senza volto.
La statua di Gigi incominciò a mostrare qualche crepa: il braccio divenne nervoso e instabile, le
gambe iniziarono a scendere inerti verso terra.
La mano sinistra, unica arteria a rispondere all'appello, si aggrappò disperatamente a una
colonna.
Lo pseudo-sacerdote della serata si fece di nuovo avanti.
Bagnò le mani senza padrone con acqua benedetta e si avvicinò al corpo di Marta.
I due occhi del Londi lo seguirono.
Il Santone salì sopra una piccola scala e accostò la sua testa a quella della ragazza.
Le accarezzò la capra che riposava lungo il suo collo.
La capra. Gigi ricordò quel particolare. Una capra innocente.
L'uomo baciò l'animale e accarezzò Marta.
Attorno nessuno fece il minimo rumore. Il silenzio rese ancora più irrespirabile l'aria.
Le gambe di Gigi spezzarono la catena di quella pesante quiete.
Quasi svenne su se stesso, cadde pesantemente senza nemmeno accorgesene.
Se ne accorse il Santone, che girò il suo cappuccio verso l'ingresso della camera.
Non vide nulla perchè non c'era nulla da vedere.
Per fortuna del Londi il buio della stanza si concentrò dove era steso il suo corpo.
Il cappuccio fece dietro-front.
Le gambe sfinite del Gigi non persero l'occasione per sparire.
Il Londi uscì strisciando, senza far uscire fiato e paura.
-Conosce questo segno?
-Che cos'è?
-Non lo conosce?
-Cos'è, un cervo?
-E' una capra, lo conosce?
-Una capra?
-La finisce di rispondermi con l'eco cazzo!
-Intanto si calmi, giovanotto!
-Va bene, sto calmo. Ma mi risponda, per favore!
-No, non è un segno particolare.
-Ma è sicuro che non ha a che fare con qualche associazione segreta, che so..
-Associazione?...Ma di che sta parlando?
Gigi non ebbe il coraggio di dire ciò che aveva visto.
-Grazie.
-Ma... prego...
Si allontanò dall'impiegato della biblioteca chiedendosi cosa fare.
Mentre scendeva i gradini del palazzo, rivide Marta al bar.
Comparve di nuovo davanti a lui che si nascondeva, a braccetto con lo stronzo della limonata.
“Ecco, di nuovo, si alza dalla sedia. Ride. Imbraccia il monospalla. Scuote i capelli e solleva il
collo. La capra. La scritta.”
I piedi di Luigi si impuntarono sull'ultimo scalino.
“Baret....Bahet....Bahahet...”
Qualcosa del genere.
“Banet...Bapet”....
A due a due divorò lo scalone che portava dentro la biblioteca pubblica.
-Senta, senta, lei...!
-Si? ...Ancora lei?
-Mi stia a sentire...c'era qualcosa scritto...
-Una scritta?
-Si, una scritta, sotto la capra, sotto quella capra di merda!!
-Si ricorda cosa c'era scritto?
-Adesso sono un po' confuso, qualcosa con la B...tipo Bahet..Bapet...Banet...
Il commesso lo guardò incuriosito e vagamente impressionato.
-Mi aiuti cazzo! Le dico Bahet, Bafet, non le viene in mente niente...!
Il ragazzo occhialuto ebbe come un sussulto. Indietreggiò di un passo. Lanciò un'altra strana
occhiata contro il Londi.
-Allora??
-Baphomet?
-Baphomet!!!Bravo! E' questa la parola!
Gigi esultò eccitato come un bambino, mentre dentro rimase incazzato come un diavolo.
-Ma è sicuro, mi stia a sentire, si calmi un attimo, è sicuro??
-Cosa??
-E' sicuro che la scritta è davvero Baphomet?
-Le dico di sì, sono sicurissimo!!L'ho visto due volte!Sì! E' così! Mi creda!
L'interlocutore del Londi abbandonò l'aria incuriosita e conservò solo quella impressionata.
L'apprensione del commesso mise in agitazione Gigi che arrestò l'eccitazione momentanea.
-Perchè, che vuol dire?
-Mi segua.
-Sì ma che vuol dire...?
-Mi segua.
Il professor Longhi era un uomo che incuteva paura. Una montagna di centimetri ricoperta di
peli. Aveva una chioma brizzolata e lunga che ricadeva verso le spalle e formava una piccola
montagnetta rigonfia all'altezza del cranio. Due occhi piccoli quanto scaltri. Sopra di loro, una
ingombrante montatura interamente bianca che addolciva i tratti ben marcati del volto.
Gigi lo guardò quasi impaurito, chiedendosi come potesse quell'armadio a quattro ante tenere
quel passo scattante, rapido, sicuro. Il prof si diresse verso di lui.
“Cagliacco. Agenore Cagliacco. Ecco chi mi ricorda questo bestione”.
Agenore Cagliacco era uno degli incubi dell'infanzia del piccolo Londi. Maestro di terza e quarta
elementare. Segni particolari: gran pezzo di merda.
Il primo giorno di scuola non si scorda mai. Cagliacco riuscì a stampargli a memoria anche tutti
i giorni di quel maledetto biennio.
La prima punizione era stata un errore. Gigietto, come lo chiamavano i suoi compagni, se ne
stava tranquillo in fondo alla classe. Senza rivolgere uno sguardo alla lavagna o alla mummia di
turno, ma neanche provocando il minimo disturbo.
Uno dei tanti ripetenti di quella classe aveva provocato una rumorossisima scorreggia.
Artificiale o naturale, nessuno l'aveva mai capito.
Sta di fatto che c'era andato di mezzo Gigietto. Cagliacco lo aveva puntato sin dal primo giorno.
Il Londi se l'era cavata con un paio di ore dietro la lavagna e con un paio di robusti scappellotti.
Le altre volte non era stato così fortunato.
Una scena muta durante la temuta interrogazione di geometria gli era costata due denti.
La sberla made in Cagliacco gli aveva schiacciato la mandibola come una morsa, facendo
eruttare due piccoli incisivi dalla parte destra della bocca. Gigi non aveva avuto il coraggio di
mostrar la minima reazione. Ci teneva a non pranzare con il brodino a otto anni.
Ne seguirono altre, di sberle e calci in culo. Fino a quel 30 ottobre, quando il maestro Cagliacco
fu sagomato a forma di piadina sotto le ruote di un tir.
Il giorno dopo Gigi non l'aveva mai potuto dimenticare. Venne fuori un mezzo scheletro, calvo,
malaticcio e magro, con l'aria sofferente di un Gesù.
Aveva tirato fuori la sua matita e cominciato a fare la lezione a se stesso.
Ogni tanto alzava il muso dal libro e portava il dito al naso verso gli alunni. Questi gli
rispondevano alzando il loro dito preferito.
Non l'avrebbe mai pensato, il piccolo Londi, che la sua faccia e il suo culo avessero potuto avere
nostalgia delle carezze del vecchio maestro.
Gigi riacquistò i suoi 33 anni. Davanti a lui, avanzò sempre più vicino il professor Longhi.
Sottobraccio aveva un tomo colossale, enorme, una bibbia.
-E' lei quello della capra?
-Sì, ho chiesto io a...
-Bene, venga, andiamo nella sala C. A quest'ora non c'è nessuno.
-Sì, professore.
Gigi si fece guidare docile come un agnello dal prof.
-Lorenzetti, ritorni pure al suo lavoro, grazie.
-Certo, professor Longhi.
Il commesso si allontanò dai due con aria dimessa, biascicando un paio di insulti. Avrebbe
voluto prendere anche lui parte a quella riunione.
-Entri, ragazzo.
-Sì, grazie...
Il gigante chiuse il grosso portone alle sue spalle. Chiuse a chiave.
Davanti a Gigi si palesò uno scenario mai visto prima.
Un filotto di scaffali tracimanti di libri, codici, volumi antichi, mappamondi.
Al centro c'era un tavolo altrettanto grande, rettangolare, fatto apposta per loro due.
-Se si vuole sedere...
-Professore, però vorrei capire subito io...
-Si sieda e le dirò tutto quel che vuole sapere.
Quel dannato omone riusciva a mattere addosso al Londi ancora più agitazione di quanta ne
avesse avuta prima.
-Perchè ha chiuso a chiave, Professore?
Longhi lo guardò con aria intenerita, accennando a un piccolo sorriso che subito si richiuse.
Appoggiò il tomo sul tavolo.
Sopra quel libro non c'era alcuna scritta, nessun titolo.
Solo una copertina nera, e in basso, sulla destra, la faccia sorridente della famosa pecora.
-E' questa la pecora che va cercando, giovanotto?
-E' la stessa, professore. E' quella che dico io, cioè....è quella che ho visto.
-Va bene.
Ferdinando Longhi si tolse il gilet marrone. Srotolò le maniche della camicia. Si grattò la barba da
Matusalemme e invitò il Londi a mettersi comodo.
Una parola. Comodo. Il suo collo era attraversato da una striscia di corde di violino, la faccia era
diventata paonazza e calda. La mano tamburellava sul tavolo a ritmo sempre più sostenuto.
La prima cosa che Longhi gli fece vedere fu una fotografia. Una vecchia fotografia, in bianco e
nero, rarefatta. Al centro di quella foto campeggiava un uomo pelato con un vistoso pizzetto.
Nessuna ambientazione, nessuno sfondo riconoscibile. Solo lui. E solo lui bastava a riempire la
scena, con quello sguardo tagliente, profondo, affascinante.
Il professore osservò prima la faccia del tizio pelato e poi quella del Londi.
Il Londi guardò spaesato e nervoso quella fotografia che doveva avere almeno una quarantina
d'anni.
-Allora, ha mai visto questa persona da qualche altra parte?
-Questo qui?
-Sì, questo qui.
-No, professore, io..
-Sicuro, da nessuna parte?
-Ma no, le dico di no, una faccia così non si scorda mica...
-Appunto, una faccia così non si può dimenticare.
Il Londi chiuse il forno qualche secondo. Poi si fece coraggio.
-Ma chi è 'sto pelato, professore?
Il prof lo squadrò severamente.
-Lei non ha mai sentito parlare di Anton Szandor LaVey?
-Anton Szandor LaVey?
-Lui.
Mai altro nome gli sembrò più sconosciuto.
-Sinceramente no, mi dispiace.
-Non deve conoscerlo per far piacere a me, ragazzo.
-Sì, professore, non so...mi dica lei...
Longhi rinserrò gli occhiali verso il naso.
-Anton LaVey era un californiano molto eccentrico.
Gigi istintivamente attorcigliò le gambe intorno alla sedia.
-In che senso eccentrico?
-LaVey è stato un inserviente di circo, un domatore di leoni, un ipnotizzatore nei night club, un
attivista della Lega per la Libertà Sessuale, un fotografo della polizia di San Francisco.
-Questo qui ha fatto tutte queste cose?
-Stia a sentire.
-Sì, mi scusi.
-Ascolti qui. “Ogni uomo è il proprio Dio e responsabile del proprio destino”. Questo diceva
Anton LaVey.
Gigi ributtò un occhio verso quell'enigmatica foto.
-Era un religioso?
-Non propriamente. Anton Szandor LaVey era il fondatore della Chiesa di Satana.
Guglielmo Speroni scalò freneticamente le marce del suo bolide. Dopo aver tagliato la strada a
mezza Milano, arrivò spedito al bar dell'amico Gianni. Il barista gli aveva lasciato il solito buco
libero, accanto alla sua smart nera.
Scarpe nere lucide, rigoroso completo blu scuro, camicia bianca di seta, occhiali neri. Lo
Speroni era elegantissimo come sempre. Quel giorno c'era un motivo in più per esserlo.
Fece scivolare l'orologio verso il polso e si accorse di essere in perfetto orario per
l'appuntamento.
Ma della macchinetta rossa ancora nessuna traccia. Per ingannare l'attesa consumò lentamente
una delle sue anoressiche sigarette di qualità.
-Venga, signor Speroni.
-Ei, Gianni. Ma la nostra amica?
-Venga dentro, arriverà tra poco.
Guglielmo lasciò cadere il mozzicone e lo strascicò mollemente con la suola.
-Ma è possibile che non si possa mai fumare nella tua bettola?
-Eh, che vuole, fosse per me....!
Gianni e il suo amico entrarono dalla porta di sicurezza nel retro.
Il barman fece accomodare l'ospite in un piccolo ridotto alle spalle del bancone del bar.
-Allora, dimmi un po' chi è questa ragazza.
-Si chiama Teresa Viglia. Ventotto anni, l'ho conosciuta qualche sera fa. E' perfetta per noi.
-Sicuro, vero? L'altra volta abbiamo dovuto fare la guerra con Marta.
-Tranquillo. E' un'appassionata, una specie di maniaca, non aspetta altro.
-Ottimo. Ma quando arriva?
-Tra una decina di minuti dovrebbe arrivare.
Gianni consultò il vecchio Sector giallo, sopra il quale rideva allegra la sua capra.
-Che vuol dire Chiesa di Satana?
-Non ne ha mai sentito parlare, immagino.
-No.
-Deve sapere che intorno alla metà degli anni '60 il nostro amico Lavey si era stancato di
imboccare i leoni e si dedicò ad altro. Insieme ad un cineasta underground, Kennet Anger, diede
vita a una sorta di parodia della Chiesa cristiana. Una specie di stravagante microcosmo dove
l'uomo si libera di tutte le proprie inibizioni e dei vincoli religiosi, e si abbandona
completamente alla libertà assoluta, alla pienezza della vita.
-La pienezza della vita?
-Esatto. Era questo lo scopo di questi cialtroni. Ma dopo un po' di tempo Anger capì con chi
aveva a che fare e mollò Lavey. E Lavey divenne l'unica star della Chiesa di Satana, divenne un
vero personaggio e raccolse tantissimi seguaci, anche in Europa. Deve inoltre sapere che il rito
principale di questa Chiesa era la messa nera, una vera presa in giro della messa cristiana, dove
vengono profanati oggetti sacri, ostie consacrate. In alcuni casi le messe nere prevedono anche
sacrifici animali ed umani, e questo vale soprattutto per il nostro amico Lavey.
Gigi non staccò gli occhi dal professore ma il suo cervello era ritornato dentro quella Villa, e vide
di nuovo, ancora più vicino, quel maledetto crocifisso che quasi lo schiacciava.
-Professore, queste...questa Chiesa...usava anche crocifissi durante queste messe?
Ferdinando Longhi ebbe un attimo di smarrimento. Non si aspettava quella strana domanda.
-Crocifissi?
-Sì..
-Non so, crocifissi...qui non ne parla, ma non lo posso escludere...Perchè mi ha fatto questa
domanda?
Gigi avvicinò il palmo della mano alla faccia e si asciugò. Non aveva il coraggio di guardare
Longhi.
-Continui, per favore, professore...
-Sì....le dicevo dei sacrifici umani. Queste messe vengono istituite dalla Chiesa di Lavey e dei suoi
seguaci principalmente per ottenere piaceri terreni. Parlo di denaro, donne, potere, in contrasto
con la tradizione cristiana che mira alla trascendenza dell'anima...Spesso, nel corso della loro
storia, queste messe si riducevano a veri e propri atti di stupro di giovani ragazze. Era il
cosiddetto “rito di iniziazione”, che andava a sancire il culto dell'unione sessuale.
Ancorato a quel gigantesco crocifisso riapparve il corpo sfregiato di Marta. Si voltò verso Gigi
che la guardava da lontano.
-Professore, quindi, si tratta di veri stupri...insomma, queste ragazze non sono d'accordo con
loro...
-Aspetti, non è detto che le ragazze in questioni non siano accondiscendenti....possono anche
esserlo. Quando non lo sono, sono costrette a esserlo, certo.
Gigi strinse i pugni sotto il tavolo e sollevò le gambe. Il collo si gonfiò e macchie rosse gli si
piazzarono sulla faccia. Sentì le vene uscirgli prepotentemente da sotto la pelle. Avrebbe voluto
far saltare per aria tutta la biblioteca.
-Ragazzo, che succede? La vedo turbato....
-No, no.....no. C'è altro da sapere?
Il Longhi si convinse sempre di più di avere di fronte a sè uno squilibrato.
Ma non volle interrupere la lezione.
E tre. Terza ammacatura. Il cofano era già sistemato, adesso era venuto il turno del fanale
anteriore destro e della fiancata sinistra.
Teresa Viglia guidava come una cagna. E lo sapeva.
Con una mano allungava e attorcigliava il mezzo metro di chewingum che le penzolava dalla
bocca, con l'altra cercava di addomesticare il volante.
Era una ragazza dark, si sentiva nera nell'anima. Uno scheletrino ballava attacato allo
specchietto retrovisore. Dentro quella macchina si respirava un inquietante odore di morte,
dopo che aveva inondato l'interno della vettura con terribili essenze orientaleggianti.
Con qualche minuto di ritardo, arrivò al bar dell'amico Gianni.
Sbocciò la seconda Panda della giornata e si avviò verso il locale.
-E' lei, dottore. Ha fatto quattro colpi di clacson.
-Dài, falla entrare.
Gianni sgusciò la testa da quella specie di loculo esterno al bar e chiamò con la mano la sua
amichetta.
-Ciao, Teresa.
-Ciao, Gianni, come stai? E' arrivato..
-Sì, è dentro. Vieni che ti aspetta.
-Come ti sembro vestita?
-Dài, dài, vai benissimo, entriamo.
-Ecco, lei è Teresa.
-Buongiorno, signor Speroni.
-Solo Guglielmo. Ciao, Teresa.
-Sì, d'accordo come vuole. Come vuoi.
-Allora, sei veramente un'amante di culti e messe nere?
-Sì, mi sono appassionata alla cosa da tanti mesi ormai...è iniziato così tutto per scherzo...un
giorno che non avevo niente da fare mi sono flippata con internet e ho setacciato tutti i siti di
satanisti, messe, ho fatto ricerche sui culti che già conoscevo, e poi ho scoperto nuovi...
Dio le aveva piazzato una mitragliatrice al posto della lingua.
Guglielmo fece finta di ascoltarla, impostandosi la testa e lo sguardo, ma davanti a sé vedeva già
cosa ne sarebbe stato di quella ragazza.
Gianni giocò a ping pong tra gli occhi di Teresa e quelli dello Speroni.
Alla fine del monologo di quella nevrotica, i tre si misero d'accordo.
La lezione su Anton Lavey era giunta alla seconda ora.
-Allora, veniamo alla sua capra, giovanotto.
-La capra?
-Non voleva sapere della capra?
-Sì, certo, certo. Mi dica..
Il corpo di Gigi rimase nella biblioteca, la testa se ne era già andata da un pezzo.
-Il simbolo di questa organizzazione, della Chiesa di Satana, è questa stella a cinque punte che
iscrive la testa di una capra chiamata Baphomet. Dentro la stella, come vede da questa
immagine, ci sono due circonferenze parallele. Tra questi spazi abbiamo alcune lettere ebraiche,
ognuna corrisponde a una punta della stella. Dietro queste lettere si celano i nomi di Belial,
Leviatan, Lucifer e Satan. Ha capito? Ei, lei, ha capito dico?
-Sì, Leviatan...Sì...Vedo...
-Lei vede ma non guarda.
-Come?
-Mi dice che le è preso? E' da qualche minuto che ha una faccia strana...
Il Londi guardò il prof come un cane bastonato guarda il padrone, ma al posto di rispondergli
gli rifilò un'altra domanda.
-E' successo anche in Italia? Voglio dire, queste cose qua..
-Sì, le ho detto, se mi avesse mai sentito, che l'influenza di LaVey raggiunse l'Europa con
moltissimi seguaci. In particolar modo questi rituali si diffusero nel Nord Italia, in Piemonte
soprattutto e in altre zone.
-Esistono anche ora?
-Bè, dopo la morte del fondatore l'istituzione della Chiesa di Satana perse molto del suo fascino
iniziale, ma ci sono le figlie adesso che continuano la scia, mi pare...
-Quindi, esistono....
-Certo, ci sarà ancora qualche costola di questa Chiesa sparsa qua e là, ma non so con
precisione dove...ma senta un po'..
-Devo scappare. E' tardi, professore.
Gigi scattò come una molla.
-Grazie di tutte le informazioni che mi ha dato, professor Longhi, davvero, grazie.
L'omone lo salutò stringendogli la mano e cercando di leggere negli occhi di quello strano tipo.
Gigi si fiondò dritto verso il portone chiuso a chiave.
-E' chiuso, giovanotto! Non si ricorda?
-Mi apre, per favore...
Ferdinando Longhi si avvicinò silenziosamente verso quel rebus che non riusciva a risolvere.
Si posizionò fronte a fronte con quella faccia stravolta dalla paura e dalla rabbia.
Il corpulento dotto senza perdere tempo gli afferrò un braccio e volle saziare le sue curiosità.
-Ma che fa, professore!!E lasci!!Mi lasci il braccio...!
Inutile divincolarsi per Gigi. Era come fare a braccio di ferro con l'Uomo di Neandertal.
Longhi gli aprì il polsino e tirò su la manica della camicia.
Rimase fermo ad osservare il braccio peloso della sua preda.
-Ma che si è messo in testa, professore???!!
Il cacciatore allentò la presa.
-Non mi buco, io, professore!!!Non mi buco!!Non sono un drogato!!Per chi mi ha preso??!
Il Longhi fece due passi indietro e rimase imbambolato a chiedersi se avesse commesso un
gesto indelicato.
Gigi, seccato, stiracchiò le pieghe della sua ex camicia nuova.
Sfilò le chiavi dalle mani del prof e girò la serratura per conto suo.
Si girò dall'altra parte pronto a guadagnare l'uscita.
Ancora quella presa.
Il Longhi lo strinse nuovamente a sé.
Gigi lo guardò spazientito.
-Vuole controllare l'altro braccio?
Il Longhi, quasi timidamente, gli fece l'ultima domanda.
-Perchè voleva sapere tutte queste cose?
Gigi restituì la manona al leggitimo proprietario e scrollò le spalle.
-Sono un ricercatore.
Luigi Londi divenne un punto lontano, disperdendosi in profondità nel corridoio.
Ferdinando Longhi rimase in compagnia di se stesso e delle sue domande.
Gigi si spogliò dei suoi vestiti.
Indossò una bella tunica bianca, una corona di spine cinta sulla testa e un paio di sandali bucati.
I partecipanti del festino incomiciarono a imprecare e a far segno al novello Gesù di muovere il
culo.
Il Cristo dei Navigli continuò fiero la sua marcia.
Si guardò attorno spaesato e sperò di trovare una faccia amica.
Un Pietro barbuto, un San Giovanni, un San Francesco, un San Matteo. Niente.
C'era solo Giuda e tutta la sua chiassosa famiglia.
Seduto sulla poltrona di casa Londi c'era l'imperatore Nerone. Come al solito era nervoso.
Il sovrano fece un fischio e dallo sgabuzzino uscirono fuori Spartacus e una truppa di schiavi.
Tutti con la frusta calda in mano.
In pochi secondi la schiena di Gesù Londi divenne una griglia rovente.
E più piangeva e chiedeva pietà, più feroci e forti arrivavano le schioccate dalle mani di
Spartacus e dei suoi.
“Mi bloccano le mani”.
“Mi bloccano le mani e i piedi, e le braccia e il collo”.
“Mi schiantano al muro”.
Il secondo fischio di Nerone sfondò le orecchie del figlio di Nostro Signore ma soprattutto fece
uscire dalla propria tomba l'illustre Anton LaVey.
“Eccolo, è davanti a me. E' proprio come l'ho visto in biblioteca. Stesso pizzetto ben curato,
stessi occhi di fuoco, il cranio rasato...E' lui”.
Il pelato dallo sguardo luciferino strisciò verso Gigi.
Gli si avvicinò talmente tanto da far sbattare il suo naso contro quello del Londi.
Senza avvertirlo, gli addentò una braccio.
Gigi non provò nessun dolore.
Vide solo il suo braccio staccarsi dal suo corpo, e Spartacus che gli sfondava il costato e un altro
che gli strappava la mano, e Giuda che lo ricopriva di sputi e un altro che gli scippava la gamba
da sotto gli occhi.
“Non ci vedo più. E' buio. Non ho più i miei occhi. Sento che mi hanno preso anche quelli. Me li
hanno presi e se li stanno bevendo”.
Si toccò il collo e riconobbe il profilo della capra. Era uno di loro.
La sua stanza si impregnò di incenso e morte.
Sentì che attorno a lui stavano banchettando con le sue carni.
Nel silenzio soffocante di quella camera risuonò solo il rumore delle mandibole di quei mostri.
La cena era finita. L'ultima cena.
Gigi Cristo resuscitò, si tolse la corona di spine e la tunica sporca di sangue.
Si sciaquò la faccia e vide che i suoi carnefici avevano lasciato la stanza.
Si piazzò davanti allo specchietto circolare del cesso e vide un uomo distrutto.
Non lo riconosceva più. Sudato, ansimante, stravolto.
Giurò in quel momento che Anton LaVey e i suoi amici l'avrebbero pagata.
Certificati, richieste, autorizzazioni, burocrazia, permessi. “Fanculo”.
Gigi non aveva tempo da perdere. Nuccio Scaloppa era la sua risposta, altro che permessi.
Lo Scaloppa era un tipo sulla trentina, capelli schiantati verso la nuca e tenuti buoni da chili di
gel liquido, un neo sulla gota sinistra che gli permetteva di esibirsi con gli amici nelle vesti di
Bob De Niro, occhi serrati, quasi socchiusi. Due spalle robuste e minacciose, una voce adeguata
alla corpatura.
E un bel negozio di armi in via Garibaldi.
“Non può negarmi questo favore, Nuccio non può farlo”.
Era convinto di risolvere la cosa in poco tempo, un salutino ipocrtia, due sorrisi e quattro
ricordi, sei pacche sulle spalle e otto revolver nuovi nello zainetto.
Gigi Londi era un ragazzo eccessivamente ottimista.
Il naso di Nuccio si rifletteva sulla gobba della Colt Super Automatic 38: come ogni mattina
passava in rassegna le sue amiche pistole. Le lucidava a tal punto da farle emettere un bagliore
che si irradiava per tutto il negozio. Le trattava come fossero pezzi di argenteria.
Dentro quel piccolo locale si era anche ritagliato uno spazio nostalgico: Smith e Wesson modello
Victory, Owen Gun, Thompson M1A1, Boys 55, MP 3008 e altre. Una collezione storica, roba
della seconda guerra mondiale. Roba per chi aveva soldi da spendere.
In attesa di qualche cliente, pensò di spazzolare perbene anche quella preziosa anticaglia.
-Buongiorno.
-Buongiorno, dottor Melli.
-Ci siamo sentiti ieri al telefono, si ricorda?
-Certo, certo. La sua pistola è arrivata proprio stamattina.
-Ah, perfetto.
-Un attimo che gliela prendo.
-Grazie.
Quando doveva vendere qualcosa, per Nuccio, era sempre un piccolo dolore.
Era costretto a separarsi da uno dei suoi figli. Prima di metterli nelle braccia dei nuovi papà,
spesso, dava loro un ultimo sguardo.
Così, con un mezzo groppo in gola, dovette liberarsi anche di quella pistola.
Il Melli lasciò “TuttoArmi” quando fece il suo ingresso Gigi Londi.
Di prima botta l'amico non lo riconobbe. Si erano incrociati l'ultima volta circa tre anni fa.
Gigi all'epoca era leggermente più in carne, l'aspetto più curato.
-Ma guarda!!Gigi!!
-A...!E ci vuole mezzo minuto per salutarmi, stronzone?!
Il Londi tramutò le braccia in chele di polpo e si avvinghiò al caro e prezioso amico.
-Ma come stai, Gigietto??
-Dài, non chiamarmi così...ancora!!
-Da quanto non ci vediamo?!Neanche me lo ricordo!
-Eh....un bel po' in effetti....come ti va?
-Ma guarda...bene, devo dire. Hai visto qua che ho ingrandito tutto...
Gigi si guardò attorno e pregustò il suo bottino.
-Bello, bello...bravo, bel lavoro. E vanno bene le cose, gli affari?
-Sì, vanno bene....potrebbero andare anche meglio, ma non posso lamentarmi...Ti ricordi dove
mi hai conosciuto..lavavo vetri alle pompe di benzina...
-Eh..ma tu sei in gamba...lo sapevo che ti saresti piazzato bene....
Mentre parlava Gigi sondò l'interno dei suoi pantaloni fetidi. Tirò fuori un foglio arrotolato.
-Che hai, la lista della spesa?
-Della spesa...sì, diciamo di sì....
-Non mi dire che ti serve un'arma?
-Bravo!Hai indovinato!!
-No, bravo tu!!Finalmente hai deciso di rinnovarti!!
Il padrone del locale tirò fuori un sorriso di scherno che a Gigi non piacque.
-Perchè?- fece Gigi tra il sorpreso e il nervoso.
-Come perchè? Mi ricordo che andavi in giro con pezzi del Risorgimento!! Ah, ah...vabbè dài...
-Eh, lo so, bravo....ma sai com'è...voglio fare le cose perbene adesso...
Il Londi cercò di non farsi prendere dalla foga e rintanò la rabbia che stava affacciandosi.
-Che ti serve?
-Ecco qua, questa è la lista...
-Vedere, vedere. Chissà se hai acquistato un po' di buon gusto in questi anni..
“Ancora quel ghigno da ebete. Che testa di cazzo”.
-Tu mi sottovaluti Nuccio! Io ho sempre avuto fiuto nel lavoro!
L'amico fece una carrellata con gli occhi lungo la lista. Ne sembrava entusiasta.
-Hai capito il Londi...ti avevo sottovalutato, qui c'è roba che vale!
-Hai visto??
Questa volta toccò a lui tirare fuori il sorriso da ebete.
-Aspetta tre secondi che vado a prenderti tutto!
-Ah, certo!! Grazie, Nuccio! Grazie!
Gigi uscì sollevato da quella risposta.
“Sta andando tutto bene. Mi sta facendo questo favore. In fondo è un bravo ragazzo. Dopo il
lavoro quasi quasi gli riporto la roba”.
Nuccio ritornò carico di armi da fuoco. Sembrava Rambo.
-Ma..ci sono tutte quelle che ti ho scritto nella lista?
-C'è tutto, c'è tutto, ma ti sembra che questa sia una bettola...qua c'è tutto!
-No, no per carità...meglio così..ma comunque poi ti riporto tutto...tranquillo...
-Sì, ci mancherebbe altro...aspetta che faccio i conti...
Gigi si immobilizzò.
“Gran figlio di puttana. Altro che amico. Questo qua mi vuole vendere tutto”.
-Tranquillo, che ti faccio un bello sconto!
Altri due sorrisetti finti come i capelli di Mike Bongiorno.
Gigi non sapeva cosa fare. Non si aspettava quell'uscita di Nuccio. Era sicuro che avrebbe capito
al volo che quelle armi il suo caro amico non aveva nessuna intenzione, e possibilità, di pagarle.
-Ma che stai facendo con la calcolatrice?
-E mica sono Einstein...!!
-Nuccio, io i soldi per tutta quella artiglieria non ce li ho!
L'amichetto poco sveglio pensò a una delle battute del Londi. Rispose con un sorriso.
All'ennesima vista di quella fastidiosa griglia di denti ingiallita, Gigi crollò.
-Ma che cazzo ti ridi???!!!
Questa volta era impossibile equivocare.
-Gigi, ma che ti è preso...
-Che mi è preso????? A te che ti è preso stronzo!!! Ma come, mi vedi dopo tre anni e ti chiedo un
cazzo di favore, ti chiedo un piccolo prestito, e tu che fai!!!!!! Mi fai il conto, mi fai??
-Ma, scusa, che ne sapevo io che volevi questo prestito....
-Ancora che mi prende per il culo!!!!Mi conosci da diciott'anni!!!Quando mai ho avuto i soldi per
comprarmi sta polveriera!!
-Gigi, che ne so io...magari...
-Magari!?? Magari adesso ho i soldi....non dirmi che è questo che pensavi o ti spacco la faccia
contro uno dei tuoi fucili....Se mi guardo allo specchio mi viene da farmi l'elemosina!!!Ma
guardami, cazzo!!Guarda come sono vestito, guarda, ho buchi daperttutto! Pure nei pantaloni!!
Sembro un mendicante di piazza Buenos Aires e tu mi dici che posso comprarmi......!!!
Non riuscì a finire la frase per quanta rabbia gli era salita in corpo.
Ma non era colpa di Nuccio Scaloppa. Non c'era lui di fronte a Gigi. C'era il fantasma di Anton
LaVey.
Nuccio rimase imbambolato e imbarazzato davanti a quella esplosione di angoscia inaspettata.
Gigi si ancorò al tavolino della cassa e si passò una mano tra i capelli bisunti.
Biascicò qualcosa dalla bocca impastata.
-Che hai detto?
-Me lo fai questo favore, allora?
-Gigi, io vorrei aiutarti ma non posso...non posso mica regalarti tutta 'sta roba....devi capire
anche me...
-No, ti ho chiesto solo un prestito. Poi ti ridò tutto, Cristo!
-Mi spiace davvero, ma non posso farlo...il negozio è tutto quello che ho...non posso
davvero...Stavolta mi stai chiedendo troppo....
Un silenzio tombale si era diffuso all'interno del “TuttoArmi” di via Garibaldi.
Senza farsi notare dall'amico chino su sé stesso, Nuccio gli infilò due carte da 100 euro nel
taschino.
Il disgraziato lentamente fece leva sui gomiti e si rimise all'impiedi.
Ma il corpo e la mente di Gigi Londi erano esausti.
Non avevano la forza di inventarsi più niente e si trascinarono fuori dal negozio.
Milano era sparita dentro la nebbia.
La nebbia di Gigi.
Non c'erano più strade, viali, macchine, persone. Solo odori confusi, macchie vaporose, luci e
ombre che si abbracciavano in un vortice di pensieri senza ragionamento.
Il marciapiedi su cui barcollava era divenuto un prolungamento della sua vita: scorreva via,
lontano, verso una direzione imprecisata, senza pretese di sboccare in un terreno fertile. Il cielo
si era ingrigito, quattro folate di vento impertinente resero ancora più duro ciondolare lungo la
strada. Ogni tanto una pupilla si risvegliava e si concentrava su qualcosa di inutile, tanto per
ingannare il vuoto del tempo che non voleva trascorrere veloce.
Passava accanto ad altre persone che di lui non sapevano niente, eppure gli sembrava che
quegli occhi e quegli sguardi sfrontati lo mettessero spalle al muro, lo vollessero accusare di
qualcosa. Si specchiava impetioso dentro le facce degli altri.
Avrebbe voluto essere inghiottito da una delle sue solite visioni, come quel giorno in cui la
colazione gli fu addolcita da Marta che lo salutava dal motorino.
Marta. Si sforzava di non pensare a lei, ma la testa non glielo permetteva.
Si fermò a un bar.
Ordinò un caffè. L'unica brezza calda che riusciva a ritemprargli i sensi.
Ma il vento corposo che uscì dalla tazza durò troppo poco.
Trasferì le sue ossa stanche fuori dal locale.
Obbligò la mano impigrita a trovargli un fiammifero. Ravanò dentro la cavernosa tasca, tanto
profonda quanto lercia.
Con le dita toccò la testa di due fiammiferi, ma il tatto gli rivelò che non erano da soli.
Era come se fossero distesi su un tappeto frusciante. Un tappeto sconosciuto per casa Londi.
La mano tirò fuori da quel cesso di vestito due cerini e due banconote da cento.
Duecento euro. Le dita incredule solleticarono il manto di quelle oscure carte verdi.
“Che ci fanno qua?”.
Gigi mandò indietro velocemente il nastro del suo cervello.
Nuccio Scaloppa.
Il secondo 0 della banconota si trasformò nel faccione di Nuccio Scaloppa. Eccolo di nuovo lì, con
il suo sorrisino ebete, a sbefeggiare l'amichetto Gigi.
“Allora vuole morire”.
Il sangue ricominciò a bussare sotto le vene. I nervi ricominciarono a scuotersi. Il cuore
ricominciò a battere violento dentro la pelle.
La testa ricominciò a provare quel senso di rabbia cieca e sorda.
Il Londi accortociò i due pezzi di carta dentro la giacca.
Dietro-front: così ordinò la sua coscienza. Il corpo obbedì.
Luigi Londi marciò selvaggiamente verso il civico numero 16 di via Garibaldi.
Prese posto dietro un muro in cemento armato, in attesa che la luce pallida del pomeriggio
milanese si mettese da parte.
Dopo un'ora e dodici minuti, la faccia di Gigi era coperta nel buio.
Diede una scrollata al vecchio Swatch che segnava l'ora esatta per muoversi.
Affacciò la testa verso il “TuttoArmi”. Mezza saracinesca era già calata. L'altra metà l'avrebbe
chiusa lui.
Si guardò attorno mentre dentro gli scoppiava la guerra.
Nessun disturbatore. Via spianata. Ancora un occhio alla strada e uno allo Swatch.
Ultima perlustrazione dentro il taschino.
“Allora vuole morire”.
Nuccio stava ripassando gli ultimi conti della giornata.
Mise le ultime scartoffie al loro posto. Richiuse gli ultimi cassetti.
Controllò l'ultimo ordine. Mise a posto l'ultimo fucile fuoriposto.
Lucidò l'ultimo revolver. L'ultimo suo minuto.
La penultima fotografia davanti ai suoi occhi fu il calcio di quella gloriosa Smith & Wesson.
L'ultima fu il viso sconvolto dell'amico Gigi che gli apparve riflesso sul vetro di uno scaffale.
Nuccio non ebbe il tempo e la forza di muoversi. Gli bastò l'incontro brevissimo con quella
faccia sconosciuta a paralizzarlo.
Il Londi in una frazione di secondo gli schiacciò ferocemente il volto sul mobiletto, prese la
pistola e gliela diede forte in mezzo agli occhi, gli sgonfiò il respiro spremendogli il collo, gli
spalancò la nuca contro il pavimento che cambiò colore.
Gigi uscì fuori le due banconote e le restituì al generoso propietario, incastrandogliele fra i denti.
Coprì gli occhi spalancati con un paio di sputi secchi.
-Non ho bisogno dei tuoi soldi, grazie lo stesso.
Gli sibilò dentro l'orecchio la sua riconoscenza.
Riempì lo zainetto con la lista che aveva preparato quella mattina.
Poi uscì e calò il sipario di ferro del “TuttoArmi”.
“Ciao scema!!! Ce l'ho fatta!!Appuntento dom sera!!!Potevi venire anche tu fifona!!!!
Ti ricordi la scommessa???Mi devi una pizza !!!! T.v.b. Lo stesso cacona bye!!!”
Il vecchio Eriksson di Teresa fumava come una ciminiera. Le sue dita secche e affilate avevano
tormentato quella tastiera scolorita dal primo pomeriggio, mentre dall' altra parte della città la
memoria del Nokia di Manuela stava esplodendo a furia di incamerare messaggi deliranti.
Quante volte aveva tentato di trascinarla con sé, Manuela. Teresa non ci era mai riuscita.
A tredici anni gli era già venuta la fissa dell'occultismo e delle magie nere grazie alle ripetizioni
serali che la madre, mezza rincoglionita dall'alcol e dalle droghe, teneva nella cucina di casa.
Il suo più grande desiderio era sempre stato quello di poter fare una chiaccherata con il padre,
che se era andato prestissimo quando lei aveva solo sette anni: lo trovarono steso sulla statale
che portava verso casa, con il busto sagomato e appiattito come Gatto Silvestro dopo un frontale
con un camion.
Ma richiamare in vita il vecchio balordo era in realtà solo un pretesto della moglie, che avrebbe
voluto ricoprirlo ancora una volta di insulti per aver passato gran parte della vita a fianco di
quattro balordi e dimenticandosi della sua famiglia.
Oggi Teresa da sola viveva nella casa dei suoi, dopo che il fegato della madre era stato
completamente divorato dalla cirrosi epatica.
Continuava a smanettare nella pancia del cellulare mentre attorno la stanza era avvolta in una
cappa di fumo giallognolo, sempre più pregna dell'odore di canne ed aromi.
Una voce lenta e quasi afona usciva dal piccolo stereo poggiato contro la parete ingiallita,
mentre sopra il letto si stagliava sfrontato il faccione di Eminem e il suo dito medio tirato verso
l'alto.
Con una mano Teresa continuò a dare parole alla sua eccitazione, con l'altra si bagnava la gola
ingerendo vodka alla menta, e se ne avesse avuto un'altra ancora probabilmente si sarebbe
preparata la sesta canna del pomeriggio.
Le piaceva moltissimo allegerirsi il cervello con quell'erba miracolosa: l'istante che aspettava
con più trepidazione arrivava di solito dopo il terzo rifornimento, quando i pensieri pesanti che
si conficcavano nella testa prendevano l'ascensore e al loro posto volavano disegni, facce e
cazzate di vario genere con cui passare allegramente il tempo.
Automaticamente la mano sinistra di Teresa Viglia abbandonò il collo lungo della bevanda russa
e afferrò il tubetto delle spezie magiche.
Ne sradicò un pugnetto e cominciò ad assotigliarlo a mò di piadina, ma stando ben attenta a non
rinchiudere troppo il dolce sapore che quelle spighe del Paradiso emanavano.
Dopo aver dato vita alla sua materia informe, il Canova delle canne si passò tra le mani la più
bella opera d'arte di umana creazione: la osservò sorridendo beata, poi se la strascicò vicino alle
narici che si protesero sovraeccitate e mandarono l'effluvio giù verso la gola.
Dopo quegli intensi preliminari arrivò il momento di godersi totalmente il suo capolavoro.
Imprigionò, senza ferirla, la striscia delle erbe fra le sue labbra già macchiate di verde scuro.
Accese la punta della canna e si distese completamente per terra, poggiando la testa contro il
cuscino rosso e fermando le gambe sopra le zampe di un vecchio divano.
Chiuse lentamente gli occhi e li spedì a costruire il mondo desiderato di Teresa Viglia.
Uno straniero senza nome chiamò a sé Gigi e lo interrogò.
L'interrogato si avvicinò sospettoso verso quell'Entità astratta.
Questa sospirò profondamente e poi parlò.
“Sai davvero quello che vuoi? Sai davvero quello che stai facendo? Sai davvero quali
conseguenze verranno dopo?”
L'interrogato si voltò di scatto infastidito, senza preoccuparsi di rispondere.
Lo straniero senza nome non si diede per vinto.
“Sai se è davvero la cosa giusta? Sai quanto soffrirai dopo quello che farai?”
Gigi rigirò gambe e piedi e si scontrò muso a muso con lo straniero impiccione.
“Sai che dovresti imparare a farti i cazzi tuoi, una volta nella vita??”
L'Innominato ammutolì. Forse il suo interlocutore era riuscito a farlo tacere per sempre.
Forse no.
“Non sarebbe meglio pensarci un poco sopra? Non credi di essere troppo affrettato nelle tue
scelte?”
La migliore virtù è la pazienza. Una frase del genere al piccolo Gigi dissero un tempo.
Il Gigi cresciuto volle seguire l'esempio che gli impartirono quel tempo.
Non rispose alla nuova invocazione dello sconosciuto.
Andò in cucina, si scrosciò le orecchie arroventate con l'acqua gelida del rubinetto ed emanò un
paio di rutti acuti.
Si diresse verso la camera da letto, sopra il quale stavano composti uno accanto all'altro i gioielli
del “TuttoArmi”.
L'orecchio destro aveva perso il suo colorito rosso, ma un fastidioso ronzio lo perforava in
profondità.
Ancora lui.
“Sai se davvero è questo ciò che vuoi”?
Il pezzo più vicino alla sua mano. Revolver nero, piccolo calibro. Lucido e scattante.
Insieme a lui si diresse nuovamente verso il salottino.
Distese il braccio e il suo prolungamento metallico verso lo straniero senza nome.
“Che hai detto”??
Lo straniero non sapeva se parlare o non parlare. Si sentiva quasi sconfitto del tutto, ma forse
avrebbe potuto tentare un'ultima sortita.
“Sai se davvero......”
Gigi Londi non si preoccupò dei sette anni di sfiga. Peggio di così non poteva andargli.
Schegge di specchio lo sfiorarono all'altezza del collo e della guancia, altre si fermarono ai suoi i
piedi e altre ancora lo oltrepassarono velocemente come piccoli razzi.
In quella stanza era piombato un silenzio inespugnabile.
La coscienza di Luigi Londi alzò bandiera bianca.
Un puntino nero si muoveva per una via larga, ricoperta di foglie gialle: un cappellaccio
schiacciato sulla tempia per non farselo sradicare dal vento, un cappotto ingombrante che gli
saliva fino alla bocca, due scarpe vecchie e robuste, e una polveriera che camminava dietro le
sue spalle.
I due anziani mocassini si arrestarono davanti a quella grata di ferro. Per la terza volta, in poco
tempo, si trovarono di nuovo uno di fronte all'altro.
Per la terza volta il cancello Speroni non la fece molto lunga e aprì le sue braccia metalicche al
passaggio del Londi. L'occhio lungo di Gigi scavalcò parapetti e statue, e si avvicinò da lontano al
finestrone della Villa.
Come una discoteca: luci gialle, rosse e verdi che rimbalzavano a intermittenza sulle finestre e
coloravano l'interno della Reggia. Il fascio luminoso e variopinto proseguiva in diagonale fuori
dai vetri, dando luce e forma al sentiero che Gigi stava seguendo.
Il gettito verde della lampada investiva in pieno il faccione di Gianni: con le braccia secche e
gonfie teneva fermo il collo di Teresa, mentre Guglielmo finiva di stordirla con le sue sentenze
latineggianti. Il barista avvicinò l'amica allo Speroni e gli consegnò il braccio sinistro che venne
forgiato con uno stampino rovente all'altezza dell'omero: la ragazza aveva ormai esaurito tutte
le forze, pure quelle che le avrebbero consentito di gridare e provare dolore.
Il Sacerdote di nero vestito avvicinò la bocca baffuta a quella sottile di Teresa e le lasciò addosso
il suo profumo di incenso.
Poi staccò le sue labbre dalla ragazza e le aprì per un'altra sfilza di riti.
Dall'alto San Giovanni vedeva tutto.
Quando il primo scarpino insonorizzato di Gigi si appoggiò al pavimento, tutto divenne più
chiaro. I rumori indefiniti presero consistenza, le urla sbiadite si caricarono di forza, gli odori
lontani arrivarono pacatamente.
Luigi Londi tenne fede alla sua promessa e non cedette minimamente con i nervi.
Inghiotti l'aria che si stava dipanando verso di lui e puntò gli occhi verso la scala.
Qualche metro sopra la testa di Gigi, Elisabetta Londi tirò fuori la sua potente voce.
Altre parole e altre frasi lontane nel tempo che si accavalarono a quelle del marito e a quelle degli
amici di famiglia: tutte le bocche si mossero coordinate a scandire i versi che sancivano il rito di
iniziazione. La testa di Teresa Viglia fu l'ultima parte del suo corpo a sorreggersi: alla fine però
seguì anche lei la direzione delle braccia puntate verso il pavimento, e si reclinò in silenzio
verso il basso.
Dieci o docici metri più lontano dal corpo finito di Teresa, sbucò la testa di Gigi.
La testa del Londi cercò di tenere fede al patto, ma la mano vigliacca cominciò a mostrare i segni
di una paura nervosa.
“Stai ferma, non ti agitare, calmati”.
La mano era ormai fuori dal suo controllo: neanche fosse all'ultimo stadio del più cocciuto dei
morbi di Parkinson, quella falange a cinque punte si sbatteva verso l'alto e verso il basso,
barcollando verso la cinta dei pantaloni e un attimo dopo cercando conforto contro il petto che lo
guardava con un senso di ansietà.
La malattia partita dalla mano si allargò a chiazza d'olio su tutto l'organismo di Gigi: le
articolazioni si fecero rigide, la gola cominciò a tamburellare col pomo d'adamo, la mente si fece
stuprare da migliaia di immagini.
Zio Umberto, la Talpa, l'handiccapato, Marta, Cagliacco e il bar, la biblioteca, il vecchio
professore di scuola, la Villa e la Reggia, i Carrubbo.
Identità, teste, corpi e anime che andavano a mescolarsi dentro il cervello di Gigi e fondersi in un
indigeribile marasma unico, un frullatore di pensieri impossibile da mandare giù.
“Resisti, resisti”.
Il peso fu reso ancora più schiacciante da quel mix di improperi latini, che andarono a
conficcarsi dentro le sue orecchie con assordante brutalità.
A quelle immagini di plastica se ne sovrappose un'altra. Reale.
“Resis....”
Era Marta. Era l'involucro di Marta.
Le pupille sgranate di Luigi la trovarono riversa su sé stessa, distesa su un lato oscuro di quella
stanza. Il corpo era già livido, le braccia e le gambe erano diventati tronchi immobili, gli occhi
due fari bianchi senza luce.
I due fari illuminarono di rabbia Gigi.
“Sta guardando me”...
Un attimo. A Luigi Londi bastò un attimo. Un istante per dare voce alla sua secolare e repressa
sete di odio e di violenza, una frazione di esistenza per mandare in frantumi tutto ciò che
l'esistenza gliel'aveva rovinata.
La spalla fece scivolare lo zaino verso il petto, la mano sinistra aprì la cerniera e la gemella
sinistra sfilò il mitra del fu Nuccio Scaloppa.
Il Sacerdote Guglielmo Speroni ebbe il tempo di affacciarsi verso la tenda che proteggeva Gigi,
l'amico Gianni non si accorse di nulla, la potente voce da soprano di Elisabetta Londi si ruppe
all'improvviso. Alle altre quattro persone a volto coperto non fu concessa l'ultima grazia di
rivedere la luce.
Le uniche cose che rimasero in piedi furono le gambe di Luigi Londi.
Tutto il resto, corpi, crocifissi, amuleti, ostie, quadri, tele, non esiteva più.
Luigi Londi si stupì dell'odio che Gigi fu in grado di tirar fuori.
Le pallotole non risparmiarono neanche San Giovanni. Una scheggia lo colpì in piena fronte.
Le piccole leve del carnefice si mossero in automatico verso i cadaveri. Incrociò il suo sguardo
con il loro. Li odiava ancora di più. Sentì ancora i nervi fremere e avere voglia di esplodere di
nuovo verso quel gruppetto di ossa morte.
Il pensiero di Marta lo richiamò.
Si diresse tremando verso di lei. S'inginocchiò e si fermò ad osservare i suoi occhi spenti che
non potevano più comunicare. Non riconobbe più Marta in quel corpo senza voce.
Non poteva essere quel corpo. Non riuscì neanche a toccarla, a sfiorarla. Si alzò piano da terra
come un fantasma, sforzandosi di non piangere.
Raddrizzando lo sguardo si accorse che Marta non era sola. Dietro di lei, si accorse di qualcosa.
Era Vincenzo Carrubbo, e dietro di lui riconobbe la Talpa Beracchi senza un braccio.
Attorno a loro spuntavano pezzi di corpi anneriti e sfregiati che non avevano più nessun nome.
Fece due passi indietro, sfuggendo inorridito da quel panorama di morte: la mano ferma di
Teresa lo sgambettò e Gigi finì steso a terra.
Si massaggiò la nuca e alzò gli occhi verso l'alto. Si sentiva spiato da qualcuno.
Sopra la sua testa troneggiava, inchiodato alla parete, San Giovanni.
Da quando aveva messo piede in quella stanza non si era accorto della presenza di quel grande
quadro, abbandonato quasi in un angolo a fare da comparsa in mezzo ad altari e crocifissi.
Gigi sentiva gli occhi del Santo incollati su di sé. “Ecco chi mi spiava”. Il religioso guardava il
Londi con un aria indefinibile, un misto di rimprovero e compassione che lacerava l'animo del
ragazzo.
Gigi poggiò il dito sulla nuca del Santo, centrata in pieno da uno dei suoi proiettili impazziti.
Buttò un occhio verso la sua mano e indietreggiò di qualche passo.
“Sei tu il colpevole”.
Il serbatoio di sangue tornò a circolare dentro il corpo di Gigi, inondando vene e nervi, cervello
e testa, gambe, braccia e cuore.
“E' colpa tua”.
Davanti a sé Luigi Londi si accorse della reale fisionomia del nemico: era l'amico dello zio
Umberto, quel San Giovanni che aveva cambiato il corso della vita del vecchio e che non aveva
risparmiato il destino del nipote.
“Per colpa tua mi sono ridotto così, per colpa tua mi sono messo a fare il ladro e a seguire la
strada di mio zio”.
Zio Umberto, “l'amico di San Giovanni”.
“Per colpa tua ho fatto di quel vecchio un idolo, un punto di riferimento, uno da imitare....a lui
hai portato fortuna e soldi, e a me che hai portato...?.....”
Gigi si sentì ingannato da quell'uomo barbuto che gli stava di fronte.
“Se il vecchio non ti avesse mai incontrato, io sarei stato un altro, avrei fatto altro in questa
merdosa vita in cui tu mi hai trascinato, avrei potuto usare meglio la mia vita, lo capisci,
bastardo, lo capisci?....E ti veneravo, ti veneravo! Pensa che stronzo...! Se mi andava a buca un
colpo, tra me e me dicevo “ci pensa San Giovanni!....Fanculo...”
Obbligò la sua testa a girarsi e i suoi occhi a impazzire intorno a quei cadaveri.
Marta lo fissava con più pietà, l'amico sembrava quasi sorridergli, persino quel Carrubbo entrò
in profondità dentro Gigi.
“Adesso ci penso io a San Giovanni”.
Si raddrizzò davanti al suo nemico. Si asciugò con il naso le lacrime secche che gli tagliavano a
fette il viso, scrollò nervosamente un braccio verso lo zaino.
Il braccio ritornò al padrone offrendogli in dono una FN Minimi.
Gigi si passò e ripassò fra le mani quel pezzo di artiglieria leggera, poi la strinse con forza e
decise di far parlare la mitragliatrice.
San Giovanni stoicamente non mosse un muscolo e subì il suo secondo patibolo.
Il buco in fronte si allargò a dismisura fino a diventare un terzo occhio, mentre gli altri sputi del
mitra gli perforarono collo, mandibola, naso, petto, braccia e spalle.
La FN Minimi aveva un solo difetto che Gigi non conosceva: era troppo nervosa.
Non si limitò a scaricare la sua ira contro il bersaglio prescelto, ma si lasciò prendere la mano e
squarciò quel poco che era rimasto da squarciare.
Fino a otto secondi prima, l'ultimo crocifisso di Villa Speroni riposava tranquillo ancorato alle
sue funi. Venne anche il suo turno.
Il carnefice del santo non si accorse neanche di avere scalfito quel traliccio di corde che si
allentavano mollemente, e rigirò lo sguardo verso Marta e i suoi amici.
Come un lamento. Come un lamento leggero, sfumato, soffuso.
Un lamento che s'irrobustì all'improvviso.
Luigi Londi non fece in tempo a rivolgere la sua attenzione verso la sorgente di quel lamento.
Il corpo di legno lo abbracciò con tutta la sua forza, affossandolo contro il pavimento.
La faccia gli si compresse sulla terra, e un gettito di sangue schizzò velocissimo in avanti a
vestire di rosso l'abito di Marta.
“Come era bella col vestito rosso”.
Gigi sentì che tutti gli organi lo avevano abbandonato, ma i suoi occhi no.
Riuscì appena a scoperchiare le due fessure e a vedere per l'ultima volta Marta.
Un'opera d'avanguardia, un capolavoro dell'espressionismo francese. Pochi tocchi di colore,
sparsi in maniera dolce e attraente, a riscaldare un'atmosfera di sensualità estrema. La figura in
mezzo al quadro era il cuore del calore.
Ecco cosa vide con i suoi occhi Luigi Londi, tre secondi prima di morire.
Il suo corpo si addormentò lentamente, la sua testa si svuotò di ogni pensiero, gli occhi si
ritirarono dolcemente.
Quel corpo steso a terra era Luigi Londi: sotto quel crocifisso riposavano intrecciate le sue
gambe, sotto quell'ammasso di legno si nascondevano le sue braccia.
Un povero cristo.
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