Lezione 4 Dove si scopre che il lettore è come una ragazza

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Lezione 4 Dove si scopre che il lettore è come una ragazza
Lezione 4
Dove si scopre che il lettore è come una ragazza, preferisce chi lo fa ridere.
Anche lo scrittore più serio e malinconico non dovrebbe dimenticare mai che l'umorismo,
l'ironia e talvolta la comicità pura sono necessari per rendere completa la scrittura di un testo.
E non sto parlando dei libri dei comici, che oggi sono dei best seller, no no parlo proprio dei
racconti e dei romanzi di narrativa, di qualunque genere. Anche uno scrittore «del brivido»
come Stephen King scrive che avere sense of humour è indispensabile per uno scrittore.
Nell'affrontare un tema terribile come i campi di prigionia, l'autore russo Sergey Dovlatov
chiarisce bene quale possa essere il punto di vista ironico di uno scrittore censurato ed
internato: «Caro Igor' Markovic, mi arrischio a sottoporLe una proposta delicata: ecco in
sostanza di cosa si tratta. Sono ormai tre anni che mi accingo a pubblicare il mio libretto sul
campo di lavoro. E sono tre anni che cerco di farlo il più presto possibile». Dove il finale rivela
il crudele paradosso creato dall'incrocio tra la violenza del Potere e l'ostinazione creativa
dell'autore.
I modi per ridere
Attraverso lo schermo della comicità o dell'ironia, si può raccontare di tutto, ma per farlo
bisogna compiere una serie di scelte che da lettori si comprendono quasi per istinto e che
però che sono difficili da mettere in pratica quando si scrive.
Cominciamo dicendo che spesso la comicità nasce da un lavoro compiuto sulle proprie parole,
sulla lingua, oltre che sulle situazioni.
Un tipico meccanismo comico è quello del calembour: il gioco di parole ottenuto storpiando
leggermente una frase fatta. Quando vengono utilizzati un aforisma, un proverbio, il titolo di
un libro o di un film famoso, il risultato è semplice ma efficace. Proprio per questo il
calembour viene spesso usato nella pubblicità o nei titoli dei quotidiani o dei settimanali, ma
non mancano esempi di grandi scrittori, soprattutto umoristici, che fanno del calembour un
modo per ridere dei tic della società in cui vivono.
Ecco qualche esempio di uno dei nostri maggiori autori umoristici, grande utilizzatore di
calembour, Ennio Flaiano:
Amore? Mah.. forse col tempo, conoscendoci peggio
Oggi anche il cretino è specializzato.
Coraggio, il meglio è passato.
Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati…
Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori.
Lettore sei perplesso? Chi dorme non piglia sesso.
Un altro esempio linguistico tipico è quello dell'uso di una parola fuori contesto o di un errore
ripetuto, questo avviene spesso per spingere alla risata. E di solito in italiano si usano parole
straniere, soprattutto inglesi o americane.
Un effetto tipico si può ottenere anche attraverso la parodia della lingua colta, cioè giocando
con la cultura. Questo si può fare in diversi modi, per esempio parodiando lo stile di un
famoso autore, oppure le sue frasi più note, oppure ancora completando con un paradosso
una frase nota e ripetuta con deferenza da tutti.
Un esperto di questo gioco linguistico è certamente Woody Allen, ecco qualche esempio:
E' impossibile sperimentare la propria morte oggettivamente e continuare a cantare una
melodia.
L'eterno nulla va perfettamente bene se sei disponibile ad affrontarlo con un abito adatto.
Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico durante i weekend.
Sono ateo teologico esistenziale. Credo nell'intelligenza dell'universo, con l'eccezione di
qualche cantone svizzero.
Provo un intenso desiderio di tornare nell'utero... di chiunque.
Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello non dormirà molto.
Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana di più e in quella settimana pioverà a dirotto.
Non è che io abbia paura di morire, è solo che non voglio esserci quando succederà.
La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall'industria dei divani.
Ho riportato questi esempi, che forse conoscete già tutti, per rivelarvi che dietro queste perle
di comicità c'è del talento, ma anche della tecnica. Infatti sono tutte costruite in modo simile,
c'è una prima parte che potrebbe tranquillamente far parte di un testo serio («È impossibile
sperimentare la propria morte oggettivamente», «L'eterno nulla», «Non solo Dio non esiste»,
«Sono ateo teologico esistenziale. Credo nell'intelligenza dell'universo»,
«Provo un intenso desiderio di tornare nell'utero», «Il leone e il vitello giaceranno insieme»,
«Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana di più», «Non è che io abbia paura di morire»,
«La psicanalisi è un mito») e poi c'è una seconda parte che vira verso il quotidiano
contraddicendo il senso e il tono serioso dell'inizio («E continuare a cantare una melodia»,
«Va perfettamente bene se sei disponibile ad affrontarlo con un abito adatto», «Ma provate a
cercare un idraulico durante i weekend», «Con l'eccezione di qualche cantone svizzero», «...
di chiunque», «Ma il vitello non dormirà molto», «e in quella settimana pioverà a dirotto», «È
solo che non voglio esserci quando succederà», «Tenuto vivo dall'industria dei divani»). E
questo è un modo molto efficace di utilizzare insieme tono alto e tono basso, linguaggio serio
e linguaggio comico, mischiando luoghi comuni e vezzi culturali con preoccupazioni o
saggezze popolari. Anche se il vostro talento può non essere lo stesso di Woody Allen,
provatevi comunque a fare qualche esercizio di calembour, non sarà tempo sprecato.
Ed ecco un brano nel quale si finge la biografia intellettuale di un filosofo, qui il paradosso la
fa da padrone, ma in ogni caso resta la fusione tra linguaggio colto (la filosofia) e il discorso
quotidiano (il soufflé):
Lo sviluppo della mia filosofia ebbe origine nel seguente modo: mia moglie, invitandomi ad
assaggiare il suo primo soufflé, ne fece accidentalmente cadere una cucchiaiata sul mio piede
provocandomi la rottura di alcune falangi.
Benni e il «comico»
Per continuare a descrivere alcuni elementi della comicità e dell'ironia passiamo a un esempio
ormai quasi classico. Stefano Benni è uno di quegli autori capaci di «mettere in scena»
racconti comici facendo un uso accorto della parodia, ecco un esempio nel quale si mescolano
diversi riferimenti, tratto dalla raccolta Il bar sotto il mare. S'intitola Il racconto dell'uomo con
gli occhiali neri.
La storia di pronto soccorso e beauty case. Comincia subito con una citazione: «Quando il
gioco diventa duro i duri incominciano a giocare (John Belushi)».
Già a partire dall'apparato che circonda il racconto (titolo, epigrafe, ecc), Benni sottolinea che
sta inserendo i suoi personaggi in un clima preciso dal sapore cinematografico, quello creato
nel nostro immaginario dal fatto di utilizzare riferimenti precisi: John Belushi, i Blues Brothers,
ecc.
Ma poi tutto il racconto è costruito sull'uso del gioco di parole e delle situazioni paradossali.
Il nostro quartiere sta proprio dietro la stazione. Un giorno un treno ci porterà via, oppure
saremo noi a portar via un treno. Perché il nostro quartiere si chiama Manolenza, entri che ce
l'hai ed esci senza. Senza cosa? Senza autoradio, senza portafogli, senza dentiera, senza
orecchini, senza gomme dell'auto. Anche le gomme da masticare ti portano via se non stai
attento: ci sono dei bambini che lavorano in coppia, uno ti dà un calcio nelle palle, tu sputi la
gomma e l'altro la prende al volo. Questo per dare un'idea.
Fin dall'inizio si nota la parodia delle scene metropolitane di tanti film e romanzi «seri»
tradizionali e l'invenzione di un falso proverbio («il nostro quartiere si chiama Manolenza, entri
che ce l'hai ed esci senza»). La stessa cosa si può dire dei nomi dei protagonisti,
perfettamente adatti alle loro biografie quasi fumettistiche.
In questo quartiere sono nati Pronto Soccorso e Beauty Case. Pronto Soccorso è un bel
tipetto di sedici anni. Il babbo fa l'estetista di pneumatici, cioè ruba gomme nuove e le vende
al posto delle vecchie. La mamma ha una latteria, la latteria più piccola del mondo.
Praticamente un frigo. Pronto è stato concepito lì dentro, a dieci gradi sotto zero. Quando è
nato invece che nella culla l'hanno messo in forno a sgelare.
Fin da piccolo Pronto Soccorso aveva la passione dei motori. Quando il padre lo portava con
sé al lavoro, cioè a rubare le gomme, lo posteggiava dentro il cofano della macchina. Così
Pronto passò gran parte della giovinezza sdraiato in mezzo ai pistoni, e la meccanica non
ebbe più misteri per lui. A sei anni si costruì da solo un triciclo azionato da un frullatore.
Faceva venti chilometri con un litro di frappè: dovette smontarlo quando la mamma si accorse
che le fregava il latte.
Allora rubò la prima moto, una Guzzi Imperial Black Mammuth 6700. Per arrivare ai pedali
guidava aggrappato sotto al serbatoio, come un koala alla madre: e la Guzzi sembrava il
vascello fantasma, perché non si vedeva chi era alla guida.
Subito dopo Pronto costruì la prima moto truccata, la Lambroturbo. Era una comune
lambretta ma con alcune modifiche faceva i duecentosessanta. Fu allora che lo chiamammo
Pronto Soccorso. In un anno si imbussò col motorino duecentoquindici volte, sempre in modi
diversi. Andava su una ruota sola e la forava, sbandava in curva, in rettilineo, sulla ghiaia e
sul bagnato, cadeva da fermo, perforava i funerali, volava giù dai ponti, segava gli alberi.
Ormai in ospedale i medici erano così abituati a vederlo che se mancava di presentarsi una
settimana telefonavano a casa per avere notizie.
Ma Pronto era come un gatto: cadeva, rimbalzava e proseguiva. A volte dopo esser caduto
continuava a strisciare per chilometri: era una sua particolarità. Lo vedevamo arrivare
rotolando dal fondo della strada fino ai tavolini del bar.
- Sono caduto a Forlì - spiegava.
- Beh, l'importante è arrivare - dicevo io.
Beauty Case aveva quindici anni ed era figlia di una sarta e di un ladro di Tir. Il babbo era in
galera perché aveva rubato un camion di maiali e lo avevano preso mentre cercava di
venderli casa per casa. Beauty Case lavorava da aspirante parrucchiera ed era un tesoro di
ragazza. Si chiamava così perché era piccola piccola, ma non le mancava niente. Era tutta
curvettine deliziose e non c'era uno nel quartiere che non avesse provato a tampinarla, ma lei
era così piccola che riusciva sempre a sgusciar via.
Nella successiva descrizione Benni utilizza un tipico gioco di spostamento di significato: «Era
una sera di prima estate, quando dopo un lungo letargo gli alluci vedono finalmente la luce
fuori dai sandali», riservando a una parte del corpo (gli alluci) un elemento proprio del mondo
animale (lungo letargo). Più avanti gioca con abilità con l'intreccio tra erotismo adolescenziale
e immaginario fumettistico:
Beauty mangiava un gelato su una panchina.
Aggiungo tre particolari:
Uno: in estate Beauty portava delle minigonne che la mamma le faceva con le vecchie
cravatte del babbo. Con una cravatta gliene faceva tre.
Due: quando Beauty si sedeva, accavallava le gambe come neanche la più topa delle top
model, le accavallava che una faceva le carezze all'altra, e aveva delle bellissime gambe con
la caviglia snella e scarpini rossi con un tacco che ti si infilzava dritto nel cuore.
Tre: quando Beauty leccava un gelato, tutto il quartiere si fermava. Avete presente il film
quando Biancaneve canta nella foresta, e si ritrova intorno tutti i coniglietti e i daini e le
tortore e i pappataci che cantano con lei? Bene, la scena era uguale, con Beauty al centro che
leccava il suo misto da mille e tutto intorno ragazzini ragazzacci e vecchioni che muovevano
la lingua a tempo, perché venivano tutti i pensieri del mondo, dai quasi casti ai quasi reato.
Un'altro aspetto del comico che Benni utilizza con cura è il climax, cioè la successione di
eventi o frasi o parole di significato e intensità crescente, che di solito finisce con un elemento
che porta la serie alle estreme conseguenze oppure interrompe la crescita dei significati,
perché troppo paradossale o completamente irreale, per esempio: «portava delle minigonne
che la mamma le faceva con le vecchie cravatte del babbo. Con una cravatta gliene faceva
tre», la prima frase è paradossale, la seconda è totalmente esagerata.
Allora, dicevamo che era una sera di prima estate e gli uccellini stavano sugli alberi senza
cinguettare perché col casino che faceva la moto di Pronto era fatica sprecata. Si udì da
lontano la famosa accelerata in quattro tempi andante mosso allegretto scarburato e poi
Pronto arrivò nel vialetto dei giardini guidando senza mani e con un piede che strisciava per
terra, se no non era abbastanza pericoloso. Vide Beauty e cacciò un'inchiodata storica.
L'inchiodata per la verità non ci fu perché, per motivi di principio, Pronto non frenava mai. La
prima cosa che faceva quando truccava un motorino era togliere i freni. «Così non mi viene la
tentazione» diceva.
Ed ecco un altro elemento di sicuro effetto: la serie di avvenimenti surreali non realistici e
quindi buffi. La serie per essere più divertente in genere contiene un elemento incongruo,
come inserire un uomo basso, magari un leader politico, tra i sette nani:
Quindi Pronto andò dritto e finì sullo scivolo dei bambini, decollò verso l'alto, rimbalzò sul
telone del bar, finì al primo piano di un appartamento, sgasò nel tinello, investì un frigorifero,
uscì nel terrazzo, piombò giù in strada, carambolò contro un bidone della spazzatura, sfondò
la portiera di una macchina, uscì dall'altra e si fermò contro un platano.
- Ti sei fatto male? - disse Beauty. No - disse Pronto. - Tutto calcolato.
Beautv fece «ah» con la lingua mirtillata in bella vista. Restarono alcuni istanti a guardarsi,
poi Pronto disse:
- Bella la tua minigonna a pallini.
E Beauty disse:
- Belli i tuoi pantaloni di pelle.
Quali pantaloni? stava per chiedere Pronto. Poi si guardò le gambe: erano talmente piene di
crostoni, cicatrici e grattugiate sull'asfalto che sembrava avesse le braghe di pelle. Invece
aveva le braghe corte.
- Sono un modello Strade di Fuoco - disse. - Vuoi fare un giro in moto?
Beauty ingoiò il gelato in un colpo solo, che era il suo modo per dire di sì. Mentre saliva sulla
moto, roteò la gamba interrompendo la pace dei sensi di diversi vecchietti. Poi si strinse forte
al petto di Pronto e disse:
- Ma tu la sai guidare la moto?
A quelle parole Pronto fece un sorriso da entrare nella storia, sgasò una nube di benzoleone e
partì zigzagando contromano. Chi lo vide, quel giorno, dice che faceva almeno i
duecentottanta. La forza dell'amore! Si sentiva il rumore di quel tornado che passava, e non
si vedeva che un lampo di stella filante. Pronto curvava così piegato che invece dei moscerini
in faccia doveva stare attento ai lombrichi. E Beauty non aveva neanche un po' di paura, anzi
strillava di gioia. Fu allora che lui capì che era la donna della sua vita.
Quando Pronto arrivò davanti a casa di Beauty, impennò la moto e Beauty volò attraverso la
finestra, precisa sulla poltrona del salotto. La mamma se la vide davanti e disse:
- Dov'eri che non ti ho neanche sentita rientrare?
In quello stesso momento si udì il rumore di Pronto che si fermava contro la saracinesca di un
garage. Si tirò su: la moto aveva perso una ruota e il serbatoio. Roba da ridere: si riempì la
bocca di benzina e tornò a casa su una ruota sola sputando un sorso alla volta nel
carburatore.
Si stese sul letto e dichiarò a quattro scarafaggi:
- Sono innamorato.
- E di chi? - chiesero quelli.
- Di Beauty Case.
- Bella gnocca - dissero in coro gli scarafaggi, che dalle nostre parti parlano piuttosto colorito.
Il Colosso di Sedaris
Far ridere mettendo in scena semplicemente una situazione, senza ricorrere a giochi di parole
o parodie di altri testi, è difficile ma dà grandi soddisfazioni. Spesso per farlo un autore ricorre
a elementi autobiografici, infilando un se stesso con difetti più o meno ingigantiti in situazioni
imbarazzanti. Qualche volta l'ispirazione viene da qualcuno che conosciamo e che
immaginiamo in difficoltà se messo alle strette, con risultati buffi. Avete presente Woody Allen
alle prese con l'aragosta fuggita dal piatto in Io & Annie? Ebbene, quello è uno schema tipico,
che si presenta in dozzine di film o storie: l'imbranato che si trova alle prese con qualcosa che
non fa parte del suo mondo, magari di fronte alla sua ragazza. Un'altra possibilità è quella di
far convivere personaggi tra loro distanti, come nei film tipo Totò contro Maciste, oppure nel
racconto di Mark Twain, Un americano alla corte di Re Artù. E se si prendono alcuni
gentiluomini abbastanza smidollati e li si convince a intraprendere un viaggio su un fiume,
può nascere un capolavoro dell'umorismo come Tre uomini in barca (per tacer del cane), di
Jerome K. Jerome. Esilarante pure oggi.
Qualche anno fa, un giornalista di nome Roy Lewis è riuscito a far ridere migliaia di lettori
raccontando l'evoluzione di una famiglia di ominidi nel suo romanzo Il più grande uomo
scimmia del Pleistocene. Gli è bastato fornire ai suoi ominidi una paradossale consapevolezza
dell'evoluzione che stanno subendo, facendone una famiglia quasi normale della preistoria.
Un campione dell'umorismo di questi ultimi anni, invece, David Sedaris, riesce a coinvolgerci e
a farci sorridere in molti modi, sfruttando situazioni autobiografiche, modi di dire o di parlare
e perfino mettendo in scena uno scontro «epico» nell'angusto spazio di una toilette. Nel
racconto Il colosso, il protagonista si trova in un tranquillo pranzo domenicale, quando una
situazione comunissima si trasforma in un problema. Cominciamo a leggere.
Domenica di Pasqua, Chicago. Io e mia sorella Amy stavamo partecipando a un pranzo
pomeridiano a casa del nostro amico John. Il tempo era bello, e John aveva apparecchiato la
tavola in giardino perchè potessimo sederci al sole. Tutti avevano già preso il proprio posto
quando io, scusandomi, mi assentai per andare in bagno e lì, nel gabinetto, trovai quello che
in assoluto era lo stronzo più enorme che avessi mai visto in vita mia. Niente carta igienica o
altro, solo quest'unico esemplare lungo e contorto, delle dimensioni di un burrito.
Tirai l'acqua, e l'enorme stronzo ondeggiò. Si spostò un tantino, ma nient'altro. Non voleva
andarsene. Per un attimo pensai di lasciarlo lì perchè qualcun altro se ne occupasse, ma
ormai era troppo tardi. Troppo tardi perchè prima di alzarmi da tavola avevo stupidamente
comunicato a tutti dov'ero diretto. - Torno fra un attimo - avevo comunicato. - Faccio solo un
saltino in bagno -. La mia destinazione era di dominio pubblico. Avrei dovuto dire che andavo
a fare una telefonata. L'obiettivo era fare pipì, magari sciacquarmi il viso, e invece ora
dovevo vedermela con quella cosa.
Ecco che in poche righe Sedaris ci presenta il terribile antagonista, il colosso appunto, che
come talvolta accade nel genere comico ha a che fare con gli aspetti più bassi e sporchi del
quotidiano. Subito la situazione, che nella vita reale si sarebbe risolta con un po' d'imbarazzo,
diventa tragicomica. Sedaris non perde tempo e non cincischia, come in una comica del
cinema muto gli interessa solo l'azione.
Il serbatoio dello sciacquone si riempì e io feci una tacita promessa. Se quell'affare se ne
fosse andato, avrei ripagato il mondo compiendo un qualche atto di gentilezza inaspettato.
Tirai l'acqua per la seconda volta e l'enorme stronzo si rigirò pigramente su se stesso. Eddai... - dissi a bassa voce. - vattene, sciò! - Mi voltai, pronto a compiere la mia buona
azione, ma quando abbassai lo sguardo era ancora lì che galleggiava sulla superficie
dell'acqua fresca.
C'è da notare una cosa, lo scrittore resta nell'ambito di un apparente concreto realismo, ma
per ottenere il suo effetto aggiunge degli elementi lievemente surreali, che gli permettono di
rendere più ricche le descrizioni. Infatti nel bagno non c'è carta igienica e il colosso è «lungo
e contorto, delle dimensioni di un burrito» eppure galleggia «sulla superficie dell'acqua
fresca», il che ci fa pensare che siamo di fronte a un Wc dalle dimensioni considerevoli.
Inoltre Sedaris complica la situazione psicologica del protagonista, mostrandolo subito così a
disagio da formulare una sorta di voto religioso. E a questo punto ci sta bene una
complicazione.
Proprio allora, qualcuno bussò alla porta e io mi feci prendere dal panico. - Un attimo!' - Da
bambino mia madre mi aveva preso da parte e spiegato che tutti vanno di corpo. - Ma
proprio tutti - aggiunse - persino il presidente e sua moglie. - Citò i nostri vicini, il prete e
parecchi attori che ogni settimana vedevamo in televisione. Mi ero fatto un'idea complessiva,
ma, naturale o meno che fosse, col cavolo che mi sarei preso la responsabilità di quel coso.
- Un attimo, eh?
Pensai seriamente di prenderlo e scagliarlo fuori dalla finestra. Giuro, il pensiero mi attraversò
la mente, solo che John abitava al piano terreno, e a tre metri da lì c'erano una dozzina di
persone sedute intorno a un tavolo da pic-nic. Di sicuro avrebbero visto la finestra aprirsi, e
se qualcosa fosse caduto a terra se ne sarebbero accorti. Inoltre, era proprio il tipo di gente
che in una situazione del genere si alza e va a indagare. Trovando me che, con le mani
indicibilmente sudice, tentavo di spiegare che non era mio. Ma se non era mio perchè allora
prendersi la briga di buttarlo dalla finestra? Nessuno mi avrebbe creduto, all'infuori della
persona che l'aveva depositato lì, ed era alquanto improbabile che quest'ultima si facesse
avanti per rivendicarne la paternità. Ero in trappola.
- Un minuto ed esco!
Recuperai uno sturalavandini e usai il manico per spezzare lo stronzo in pezzi più piccoli e
gestibili, senza smettere nemmeno per un secondo di pensare che non era giusto, che
tecnicamente quel compito non spettava a me. Tirai di nuovo lo sciacquone e quello non
andò giù nemmeno stavolta. Su, bello. Diamoci una mossa. Mentre aspettavo che il serbatoio
si riempisse pensai: forse dovrei lavarmi i capelli. Non ce li avevo sporchi, ma mi serviva una
scusa per giustificare tutto quel tempo che stavo trascorrendo in bagno. Svelto, pensai. Fai
qualcosa. A quel punto gli altri ospiti probabilmente stavano pensando che fossi uno di quelli
che aprofittano delle cene per defecare e portarsi avanti con le letture.
- Arrivo, mi sto lavando le mani.
Un ultimo colpo di sciacquone, e tutto fu finito. Quel coso se n'era andato per sempre dalla
mia vita. Aprii la porta e mi ritrovai di fronte la mia amica Janet, che mi disse: - Con comodo,
eh? - E io rimasi lì a pensare che se la persona che aveva abbandonato lì quello stronzo
enorme non si era fatta problemi perchè mai avevo dovuto farmene io? Perchè me l'ero presa
tanto a cuore? L'avevano lasciato lì per insegnarmi qualcosa? Avevo effettivamente imparato
qualcosa? Per caso c'entrava la Pasqua? Alla fine decisi di lasciarmi la faccenda alle spalle,
quindi uscii dal bagno e cominciai ad esaminare i possibili sospetti.
Come si vede, da questo episodio Sedaris trae delle conclusioni paradossali che sono la
parodia di discorsi molto più seri («l'avevano lasciato lì per insegnarmi qualcosa? Avevo
effettivamente imparato qualcosa? Per caso c'entrava la Pasqua?») e termina con il suo
protagonista che esce dal bagno con tutte le sue paranoie confermate.
Esercizio 4
Stavolta si tratta di seguire lo schema di Sedaris, cioè mettere un personaggio qualunque alle
prese con una situazione quotidiana che, però, per qualche motivo, gli sembrerà così
insuperabile da risultare comica.