Ascesa e mecenatismo dei Gonzaga
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Ascesa e mecenatismo dei Gonzaga
SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO DI SAN MATTEO DELLE CHIAVICHE Istituto comprensivo Dosolo, Pomponesco, S.Matteo RICERCA DI STORIA LOCALE E STORIA DELL’ARTE a cura degli alunni della classe IIA a.s. 2013-2014 Indice Capitolo 1: l’ascesa dei Gonzaga p.4 Da capitani a duchi Capitolo 2: le donne di casa Gonzaga p.7 Agnese Visconti Paola Malatesta Cecilia Gonzaga Barbara di Brandeburgo Una donna del Rinascimento: Isabella D’Este p.9 Capitolo 3: il Palazzo Ducale (Introduzione) p.11 Quadro del Morone p.12 Sala del Pisanello p.13 Sala di Manto p.15 Sala Arcieri p.16 Sala di Troia p.17 Sala dei Fiumi p.18 Sala degli Specchi p.19 2 Appartamento di Isabella (lo studiolo) p.20 Appartamento di Vincenzo p.22 Galleria del Passerino e della Metamorfosi p.23 Capitolo 4: il Palazzo Te (introduzione) p.24 Giulio Romano e il palazzo p.25 Camera del Sole p.27 Camera di Ovidio p.27 Sala di Amore e Psiche p.28 Sala dello Zodiaco p.31 Sala dei Giganti p.32 Sala dei Cavalli p.33 Capitolo 5: La basilica di Sant’Andrea p.34 S. Longino e i Sacri vasi p.35 Interno di Sant’Andrea e tomba del Mantegna p.37 3 di Manjot Singh La famiglia dei Corradi di Gonzaga viveva all’ombra del monastero di S.Benedetto in Polirone, fondato dai Conossa. I vasti terreni dei monaci venivano dati in affitto o donati a chi si impegnava a coltivarli; così i Corradi divennero ricchi proprietari terrieri e presto si trasferirono in città, dove divennero i sostenitori della famiglia dei Bonacolsi, quando questi presero la città, trasformandola in signoria, nel 1273. Finì in quell’anno l’epoca comunale mantovana. Nel 1328 Rinaldo Bonacolsi, detto il Passerino, fu tradito da Luigi della famiglia dei Gonzaga; il 16 Agosto, in una notte di tradimenti ed attacchi, fu cacciato e ucciso da Luigi della famiglia dei Gonzaga, aiutato da Cangrande della scala di Verona, come ben racconta il quadro del Morone, conservato nel palazzo Ducale. Iniziò così la lunga dinastia dei Gonzaga, che terminerà solo nel 1707, quando Mantova finirà sotto l’impero asburgico e perderà la sua autonomia. Per consolidare il loro potere attuarono una un’intensa politica matrimoniale, stringendo o sciogliendo di volta in volta alleanze con le famiglie potenti italiane ed europee. La loro fortuna fu senz’altro segnata dall’alleanza con la potente famiglia degli Sforza di Milano ma anche dal loro schierarsi a favore dell’Imperatore, grazie al quale ottennero la carica di capitani e poi i titoli nobiliari di marchesi e duchi. LUIGI Nato nel 1268, visse a lungo e si sposò tre volte, firmando così alleanze con famiglie importanti dell’epoca come i Malaspina e i Malatesta. Le tre mogli aumentarono i capitali della famiglia, grazie alle doti che portarono con sé. Dopo il colpo di stato da lui organizzato contro il Passerino, il 28 agosto 1328 Luigi venne eletto capitano di Mantova. Lo stesso, nel 1335, divenne vicario imperiale di Mantova e signore di Reggio Emilia. Luigi morì il 18 gennaio 1360, lasciando al figlio Guido il titolo di capitano. LUDOVICO II A Gianfrancesco fu concesso il titolo di marchese dall’imperatore Sigismondo nel 1433, in cambio di una somma di denaro. Fu lui a chiamare il Pisanello a Mantova per abbellire le pareti del palazzo ducale. E fu sempre lui a chiamare a 4 corte Vittorino da Feltre, umanista e futuro precettore di molti membri della famiglia Gonzaga, tra cui il figlio Ludovico, futuro marchese di Mantova. Questi entrò a 11 anni entrò nella scuola di Vittorino, che fu determinante per la sua formazione. Nel 1433 sposò Barbara di Hohenzollern di Brandeburgo, nipote dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Poiché anche Barbara era giovanissima e non ancora in età da figli, frequentò la medesima scuola del marito. Nel 1451 Ludovico chiamò l’architetto Fancelli ad introdurre lo stile rinascimentale a Mantova. Grazie alle sue mosse politiche, Mantova prosperò e Ludovico dimostrò di essere un vero signore del Rinascimento anche per le sue doti di uomo d’armi e di letterato. Chiamò il Mantegna a corte, a cui commissionò la decorazione della “camera picta”, usata per ricevere importanti politici dell’epoca. Sotto il suo governo, a Mantova, si svolse la dieta, a cui parteciparono il papa, gli ambasciatori dei più potenti re europei e dell’imperatore e i rappresentanti degli stati indipendenti come Venezia o il ducato di Savoia. Il concilio aveva come scopo la definizione di una strategia contro i Turchi. Grazie a questo avvenimento la città di Mantova divenne il centro della politica internazionale dell’epoca e questo favorì la famiglia dei Gonzaga: l’anno successivo, infatti, Ludovico ottenne che il figlio secondogenito fosse eletto cardinale, e cioè, per la famiglia, ricchezza, potere e prestigio. Con il papa Pio II a Mantova giunse anche Leon Battista Alberti, che successivamente, proprio su commissione di Ludovico, realizzò le sue opere mantovane. Dopo 34 anni di regno, Ludovico morì nella sua rocca di Goito, probabilmente di pleurite, il 12 giugno 1478. FRANCESCO II Nato nel 1466 dal III marchese di Mantova, Federico I, fu presto promesso sposo alla figlia di Ercole D’Este, colei che diventerà la regina del Rinascimento: Isabella D’Este. Francesco si dedicò soprattutto all’arte della guerra, per ingrandire e potenziare il suo stato, mentre la diplomazia politica fu lasciata nelle mani della saggia e venerata moglie. Francesco II fu il primo della casata a portare la barba come facevano gli antichi Romani: molti successivamente lo imitarono. Nonostante l’interesse per la guerra, non si sottrasse al fascino della cultura e dell’arte: fu lui a commissionare al Mantegna il ciclo pittorico dei trionfi di Cesare. Fu fatto prigioniero dei Veneziani, poiché partecipò alla lega di Cambrai contro Venezia. Grazie 5 all’intercessione della moglie, fu rilasciato. Morì il 19 marzo 1519. FEDERICO II Nacque nel 1500 e aveva solo 19 anni quando suo padre, Francesco II, morì e lui divenne quinto marchese di Mantova. Già nel 1517 era stato stabilito l’accordo matrimoniale che legava il giovane Federico diciassettenne a Maria Paleologa, di 8 anni: la celebrazione delle nozze avvenne nello stesso anno a Casale del Monferrato, la terra della sposa. Sposando Maria Paleologa, Federico II sarebbe dovuto diventare marchese del Monferrato, ricca terra da sempre desiderata da principi, ma il suocero morì prima di inoltrare tale richiesta all’imperatore Carlo V. Nel frattempo Federico II si legò sentimentalmente a Isabella Boschetti, anche lei sposata, dalla quale ebbe un figlio, Alessandro e per la quale fece costruire il palazzo Te. Nel 1524, infatti, chiamò a Mantova Giulio Romano, il più prestigioso allievo di Raffaello, per realizzare una villa adatta ai suoi divertimenti. Ma nel 1527 arrivò a Mantova dal Monferrato la moglie legittima, appoggiata da Isabella D’Este, la madre che non aveva mai perdonato al figlio la relazione extraconiugale illegittima. Nel 1528 Isabella Boschetti subì un tentativo di avvelenamento: Federico accusò la moglie e chiese e ottenne l’annullamento delle sue nozze con Maria; tuttavia se la riprese dopo la morte del fratello di lei, per ottenere il Monferrato: ci riuscì. Ma poiché Maria morì, egli sposò la sorella Margherita. Nel 1530 Federico si trovò ad ospitare a Mantova l’imperatore Carlo V d’Asburgo, diretto a Roma e da questi ottenne il titolo nobiliare di duca. Federico morì a 40 anni nella residenza di Marmirolo, dove si era ritirato dopo essersi ammalato. 6 di Taha Berrou Agnese Visconti Nasce a Milano nel 1363 dalla famiglia nobile dei Visconti, signori della città lombarda; il padre è Bernabò Visconti e la madre Beatrice della Scala, i famosi Scaligeri che hanno aiutato i Gonzaga a prendere il potere a Mantova, spodestando i Bonacolsi. Nel 1375 è promessa in sposa a Francesco I Gonzaga all’età di soli 14 anni e quell’anno arriva a Mantova. Viene descritta dalla cronache come bruttina, malaticcia e triste. Tuttavia ben presto viene accusata di adulterio dal marito: si dice che l’abbia tradito con un certo Antonio da Scandiano, ma prove non furono mai trovate. In realtà il falso tradimento è inventato dal marito per liberarsi della principessa milanese e sposare così Margherita Malatesta, matrimonio che serviva a rafforzare l’alleanza tra le due famiglie e a dimostrare fedeltà verso Gian Galeazzo Sforza, che aveva spodestato i Visconti a Milano. Agnese, fedele al padre, viene decapitata il 7 febbraio 1391 con il falso amante e i due seppelliti in piazza Pallone. Per questo ancora oggi una leggenda narra che il suo fantasma si aggiri nella piazza in cerca di giustizia. Paola Malatesta Nasce a Pesaro nel 1393. È figlia di Malatesta IV della famiglia Malatesta, condottiero e signore di Pesaro e di Fossombrone, e di Elisabetta da Varano. Nel 22 agosto 1409 sposa Gianfrancesco Gonzaga. Hanno sei figli. Paola Malatesta porta ai Gonzaga la gobba, una malformazione che verrà ereditata per generazioni dai discendenti della famiglia mantovana, diventando un loro difetto. Dopo la morte del marito, si ritira nel convento di Santa Paola, da lei stessa fondato nel 1420, a Mantova. Muore nel 1449. Cecilia Gonzaga Nasce a Mantova nel 1426 ed è figlia del marchese Gianfrancesco Gonzaga e di Paola Malatesta. 7 Cecilia è passata alla storia come una donna forte e determinata in un periodo dominato dagli uomini, in cui le donne non possono nemmeno scegliere la loro vita. Si dice che da piccola già all’età di sette anni sapesse parlare il greco benissimo e fosse un’allieva di brillante intelligenza della scuola “Ca’ Gioiosa”, fondata dal grande umanista e maestro Vittorino da Feltre. Il padre la promette in sposa ad Oddantonio da Montefelto, duca d’Urbino, nonostante lei voglia diventare monaca. Ma alla morte del padre, avvenuta nel 1441, riesce a realizzare il suo sogno. Entra così nel monastero della madre, dove muore nel 1451. La medaglia qui riportata le fu regalata dal fratello, che la fece realizzare dal famoso artista Pisanello. Cecilia è ritratta seduta su rocce, mentre accarezza con tranquillità la testa di un unicorno (raffigurato come una sorta di caprone con lungo corno dritto in fronte), mansuetamente accovacciato in primo piano. Secondo la mitologia greca, gli unicorni erano bestie feroci e selvagge, catturabili solo da vergini, per cui la sua presenza è un evidente richiamo alla virtù della fanciulla. Anche la falce di luna sullo sfondo rimanda a Diana, la mitica dea vergine. Barbara di Brandeburgo Barbara Hohenzollern di Brandeburgo, figlia di Giovanni, uno dei principi elettori dell’imperatore, lei stessa nipote dell’imperatore Sigismondo, nasce il 30 settembre 1423 e viene a Mantova da bambina, a 10 anni, per sposare Ludovico II Gonzaga, da cui avrà ben sette figli. L’alleanza con l’imperatore, che aveva portato ai Gonzaga il titolo di marchesi, rafforza il potere della casata mantovana. Anche lei, essendo bambina, studia con gli altri componenti della famiglia, nella scuola di Vittorino da Feltre, divenendo una delle più importanti figure del Rinascimento italiano. Impara quattro lingue e diviene un’esperta di letteratura. Ma soprattutto è una donna intelligente che, insieme al marito, amministra e ingrandisce il patrimonio di famiglia. Insieme a tutta la sua famiglia, è ritratta da Andrea Mantegna nella famosa “Camera degli sposi”. È grazie a lei che il famoso dolce natalizio, l’anello di Monaco, arriva a Mantova e diventa uno dei dolci caratteristici del periodo natalizio. Muore nel 1481. 8 UNA DONNA DEL RINASCIMENTO: ISABELLA D’ESTE di Aurora Minelli INTRODUZIONE Isabella d’Este, moglie di Francesco II, è ricordata come “prima donna del Rinascimento italiano”. Era una donna bella, con carattere fermo e e del lusso, capace di Europa, reggere lo marito, consapevole politica internazionale, “nipote dei re dei duchi di Ferrara, marchesi e duchi affascinante, intelligente e volitivo, amante delle arti dettare la moda all’intera Stato in assenza del della sa influenza nella tanto che si definisce d’Aragona, figlia e sorella coniuge e madre dei Gonzaga”. LA VITA Isabella nacque il 17 maggio 1474 da Ercole I d’Este e Eleonora, figlia di Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli. La sorella di Beatrice d’ Este, duchessa di Milano e moglie di Ludovico Sforza, non la eguaglierà mai per peso politico e abilità diplomatiche. Il 28 maggio 1480 venne creato il contratto nuziale tra gli Este e i Gonzaga. Il suo promesso sposo, Francesco II, all’epoca non aveva ancora 14 anni; mentre lei ne aveva solo 6. Perciò il matrimonio avvenne dopo sette anni e fu celebrato a Ferrara, il 12 febbraio 1490. L’obbiettivo dell’unione era legare le due capitali e Milano. Nel 1509 governò da sola Mantova in assenza del marito, catturato dai Veneziani. Alla morte del marito gli succedette il figlio, ma essendo troppo piccolo, la madre esercitò la funzione di reggente. Quando tre anni dopo il figlio prese il comando, iniziarono le divergenze con il figlio, che aveva ereditato tutte le debolezze del padre. Decise perciò di viaggiare per le corti milanese, napoletana e romana. Nel 1527 fu testimone del sacco di Roma e il suo palazzo fu l’unico a non essere saccheggiato. Nel 1530 assistette all’incoronazione dell’imperatore Carlo V a Bologna. Ritornata a Mantova, si ritirò prima nella reggia gonzaghesca di Marmirolo, poi in quella di Solarolo, dove morì nella notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1539 all’età di 65 anni. LA VITA SOCIALE E CULTURALE 9 Isabella, quando arrivò a Mantova, si innamorò subito della corte mantovana e diede il suo contributo per crearvi un nuovo clima culturale. Divenne padrona di un’importante corte di letterati e di musicisti, chiamati a Mantova proprio da lei. Fu anche in relazione coi maggiori artisti del tempo come Mantegna e Leonardo. Ad Aldo Manuzio, tipografo veneziano, ordinò migliaia di libri, dando vita ad una delle più complete e aggiornate biblioteche personali di corte dell’epoca, in cui trovarono posto libri di letteratura classica latina e greca, testi di filosofia, romanzi cavallereschi dei cicli bretone e carolingio, raccolte di poeti e classici della letteratura italiana del Duecento e del Trecento, opere di artisti suoi contemporanei. Lei stessa ebbe modo di conoscere Ludovico Ariosto, artista ospite alla corte estense, e di seguirà la stesura del suo poema “L’Orlando furioso”. Isabella spendeva molto denaro on solo in libri, quadri, medaglioni e statue (divenne un’appassionata collezionista di sculture romane), ma anche in vestiti e gioielli, tanto da diventare il riferimento del mondo occidentale riguardo alla moda, al galateo, alla cosmesi e alla bellezza. Fu un’ottima musicista di strumenti a corda: sosteneva che essi fossero superiori a quelli a fiato. Sosteneva anche che la poesia fosse incompleta finché non veniva trasposta in musica. 10 di Giulio Longo Il palazzo Ducale è considerato da molti una vera città. Infatti è costituito da vari edifici, collegati tra loro da corridoi, cortili e gallerie, le cui parti sono state costruite in epoche diverse. I nuclei più antichi del palazzo risalgono al periodo precedente l’arrivo dei Gonzaga. Ambienti distinti e separati tra loro furono costruiti in epoche diverse a partire dal XIII secolo, inizialmente per opera della famiglia Bonacolsi. L’edificio, destinato a residenza ufficiale del capitano del popolo e del podestà in epoca medievale, appartenne poi ai Bonacolsi, fino a quando i Gonzaga presero la città con la forza e quindi si insediarono nel palazzo. Il primo nucleo dello stabile, commissionato a spese del comune da Guido Bonacolsi, fu realizzato su un’area della contrada di sant’Alessandro, demolendone le strutture architettoniche che la occupavano. Nel 1352 Luigi Corradi fece erigere nuove mura intorno alla città. Francesco fece costruire il castello di S. Giorgio, composto da quattro torri merlate e da un cortile interno; esso ebbe una funzione militare, in quanto nelle segrete venivano rinchiusi i prigionieri di guerra. Il figlio GianFrancesco ristrutturò la cosiddetta “corte vecchia” e chiamò il Pisanello, mentre Ludovico II portò il Rinascimento a Mantova, chiamando a corte artisti del calibro dell’architetto Luca Fancelli, di Andrea Mantegna e Leon Battista Alberti. Fancelli realizzò la domus nova. Francesco II continuò la ristrutturazione del palazzo e costruì un’ala nuova, posta tra il castello e la cosiddetta “corte nuova”. Isabella fece costruire lo splendido studiolo in perfetto gusto rinascimentale. Suo figlio Federico, grazie all’aiuto del grande Giulio Romano, continuò i lavori sia nel castello sia nella corte nuova. Con Guglielmo Gonzaga il palazzo diventò più organico e venne collegato alla basilica di Santa Barbara. Egli fece costruire l’appartamento verde e le stanze degli arazzi, volute come sale di rappresentanza. Famosi sono gli appartamenti del figlio di Guglielmo, Vincenzo I, i cui soffitti provengono dal palazzo di San Sebastiano. Vincenzo chiamerà a corte il Rubens. Con il 1600 inizia il declino dei Gonzaga e anche del palazzo: i pezzi migliori vengono venduti a Carlo I d’Inghilterra tramite un mercante francese, nel 1628. Il saccheggio dei Lanzichenecchi e delle truppe tedesche lascerà un segno nel palazzo. Dopo il crollo della casata, avvenuto nel 1707 con la fuga di Ferdinando Carlo, del ramo Gonzaga-Nevers, accusato di tradimento, arrivano gli Austriaci, che insediano i loro uffici e i loro archivi. Per buona parte del 700 e del 1800 il castello di S. Giorgio diventa sede delle 11 carceri cittadine e alcune parti del palazzo vengono abbattute. Nel Novecento, invece, comincia una fase di recupero del palazzo, che porterà alla scoperta del ciclo del Pisanello. Il quadro del Morone di Davide Carnevali Si accede al palazzo ducale oggi da piazza Sordello, iniziando la visita dal vecchio nucleo della cosiddetta corte vecchia. Uno scalone monumentale accompagana al pinao superiore, dove, nella sala di Sant’Alberto, si trova il celebre dipinto di Domenico Morone del 1494 “La cacciata”. Narra cioè la notte del 16 agosto 1328, in cui gli allora signori di Mantova, i Bonacolsi, furono cacciati dai Gonzaga. La scena ha un dettaglio grottesco: Rinaldo Bonacolsi, in fuga sul suo nero destriero, trova la morte battendo la testa sulla grata di chiusura del palazzo dove voleva rifugiarsi. Ciò che è interessante nel quadro è anche che esso ritrae la facciata originale del Duomo, in perfetto stile tardo gotico e in equilibrio con gli altri palazzi della piazza. L’attuale facciata, infatti, risale al 1756. 12 La sala del Pisanello di Davide Carnevali Pisanello fu un pittore veronese che ben presto divenne esponente della corrente artistica denominata “gotico fiorito o internazionale”. Chiamato a Mantova da Gianfrancesco, per lui e la famiglia creò dipinti e medaglioni. Rimase al servizio dei Gonzaga per circa vent’anni, Partecipò al saccheggio di Verona del 1439, motivo per il quale, pare, fu accusato di tradimento e allontanato da Mantova. Non poté dunque completare la sua più importante opera mantovana, passata alla storia come il “ciclo del Pisanello”. Fondamentalmente per una migliore comprensione dell'arte del Pisanello la scoperta nel 1969 di un importante ciclo di sinopie (disegni preparatori per affreschi) e affreschi con scene cavalleresche ed episodi bellici nella sala dei Duchi nel Palazzo Ducale di Mantova. Il Torneo-battaglia di Louvezerp è un affresco a soggetto cavalleresco dipinto da Pisanello tra il 1436 e il 1444 nel Palazzo Ducale di Mantova, in particolare nell'ala detta Corte Vecchia. Pare che a Pisanello fosse stato chiesto di illustrare il “Lancelot”, un romanzo che narra le imprese dei cavalieri della Tavola Rotonda e dunque parte del ciclo bretone. La scena venne imbiancata in un'epoca imprecisata e riscoperta negli anni Sessanta e immediatamente restaurata. La sala venne commissionata da Gianfrancesco Gonzaga. Nell'opera compare infatti la sua impresa del pellicano, in un voluminoso cappello del nano a cavallo subito sopra il luogo in cui si trova il cavaliere dell'impresa della ricerca del santo Graal (la coppa in ci bevve Cristo durante l’ultima cena). Se gli affreschi sono piuttosto frammentari, più completa appare invece la sinopia. Perduta è tutta la zona inferiore della decorazione, che venne completamente demolita e rifatta agli inizi del XIX secolo. Il soggetto è la battaglia di Louvezerp, tratto dalla letteratura cavalleresca. Contemporaneamente è rappresentata la scena di un torneo, che si svolge prima della partenza degli eroici cavalieri. In questo episodio Lancillotto e Tristano combattono alla presenza di Ginevra e Isotta e poi partiranno alla conquista del Graal. Alcuni cavalieri portano gli stemmi dei Gonzaga, ad indicare l’origine eroica e nobile della famiglia mantovana (motivo 13 encomiastico). La scena, incompiuta, si estendeva sulle pareti, cercando illusionisticamente di annullare gli spigoli ed è composta per semplici accostamenti di figure, con una dilatazione in tutte le direzioni, senza alcun centro focale. Ogni frammento viene analizzato e riprodotto con un'attenzione analitica, ma manca un criterio unificatore, creando così un effetto "caleidoscopio”. Da sottolineare la preziosa tecnica utilizzata dal pittore: la base ad affresco è finita con colore steso a secco (tempera) e con pastiglia e lamine metalliche (d’oro e d’argento). 14 di Giovanni Perini e Maicol Malacarne La sala di Manto, che in origine costituiva l’ingresso all’appartamento di Troia, sistemato da Federico ll Gonzaga, deve l’aspetto attuale all’intervento di Guglielmo, che dispose la creazione dell’appartamento grande del castello verso la fine del VII decennio del Cinquecento. Pertanto il vasto salone costituisce contemporaneamente l’ingresso di due diversi appartamenti. Qui Guglielmo volle che la decorazione fosse dedicata alla celebrazione della famiglia Gonzaga, partendo dalle origini stesse della città di Mantova. Otto riquadri vennero dipinti a olio su muro e raccontano sulla parete est, lo sbarco di Manto, leggendaria figlia dell’indovino Tiresia, nelle paludi del Mincio e, proseguendo in senso orario il convito di Manto, la fondazione della città di Mantova fatta dal figlio Ocno, tre scene di fondazioni urbane durante il Medioevo (la costruzione di porta Leona, la costruzione di porta Pradella e la costruzione del ponte dei Mulini) e due scene relative a lavori urbani eseguiti dai Gonzaga (Ludovico I che fortifica la corte e Federico II che cinge la città di mura difensive). Il soffitto della grande sala è ligneo a cassettoni. Nella parte superiore delle pareti ai dipinti ad olio si alternano lesene (= finte colonne incassate a rilievo nel muro) e pannelli di stucco. CURIOSITÀ SULL’ORIGINE DI MANTOVA In realtà pare che Mantova abbia origine etrusche e risalga al VI secolo a.C. Il nome deriverebbe da Mantus, una divinità infernale etrusca, a cui Ocno, suo fondatore, l’avrebbe dedicata. Furono poi i Romani a confondere Mantus con Manto, la maga indovina, figlia del greco indovino Tiresia, citato da Omero, anche a causa del poeta Virgilio, che ne parlò nelle sue opere. 15 di Giovanni Perini e Maicol Malacarne All'estremità della galleria Nuova si apre la grandiosa sala degli Arcieri, nella quale Viani sistemò, intorno al 1600, l'appartamento del duca Vincenzo. Il nome del salone viene dall’uso destinato al corpo di guardia. Vanto della sala sono certamente i dipinti esposti, anch’essi provenienti da soppressioni di chiese e monasteri: vi è la celebre tela del fiammingo Pietro Paolo Rubens, consegnata alla chiesa della Santissima Trinità nel 1605 e già parte di un maestoso trittico. La tela rappresenta la famiglia Gonzaga in adorazione della trinità: in primo piano ci sono il duca Vincenzo con l moglie Eleonora De Medici, più arretrati il padre di Guglielmo con la moglie Eleonora D'Austria. Nella sala sono conservate altre importanti opere di pittura. L’ambiente è caratterizzato da enormi mensole parietali, decorate con figure fantastiche, che sorreggono un soffitto sfarzoso di stucchi creati dal Viani. Alle pareti sono invece affrescati i cavalli dei Gonzaga, loro grande passione, per i quali erano famosi in tutte le corti d’Europa. La pittura dei cavalli è un gioco: essi sono posti dietro a tendaggi, dai quali si vedono solo alcune parti dei loro corpi, così da invogliare lo spettatore a riconoscerli. 16 di Giovanni Perini e Maicol Malacarne Il vasto salone da cui l'appartamento prende il nome è la sala di Troia, decorata con storie tratte dall'Iliade di Omero e dall'Eneide di Virgilio. Le decorazioni sono di Giulio Romano e dei suoi numerosi aiutanti e risalgono al periodo tra il 1536 e il 1539. La sala e l’appartamento di cui faceva parte furono commissionati da Federico II; essi vennero prima usati come residenza dei Gonzaga e poi come appartamento lussuoso per gli ospiti importanti. La parte inferiore, non decorata, fino all’ultimo sacco dei Lanzichenecchi del 1630 era ricoperta da mobili che contenevano oggetti preziosi. A partire dalla parete meridionale, da sinistra, sono rappresentate le vicende della guerra di Troia: il ratto di Elena, il sogno di Ecuba, il giudizio di Paride, Teti consegna le armi ad Achille, il cavallo di Troia, Vulcano fabbrica lo scudo ad Achille, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, Aiace fulminato sullo scoglio. La battaglia infuria sulla volta, al cui centro sono dipinte alcune divinità dell'Olimpo. Dalla parete corta, sul lato orientale, si vede il lago Inferiore attraverso la loggia di Eleonora. 17 LA SALA DEI FIUMI di Giada Ferrari Voluta dal duca Guglielmo intorno al 1575 per svolgere la funzione di refettorio di corte, questo salone è un esempio di trasformazione di una loggia aperta in una sala per conviti. L’attuale decorazione pittorica a pergolato risale al 1773-1775 ed è dunque in stile rococò. Sulla volta è illustrato il tema mitologico di Fetonte, che chiede il carro del sole ad Apollo, mentre sulle pareti sono state rappresentate le personificazioni dei fiumi del territorio mantovano (Po, Oglio, Chiese, Mincio, Secchia). Occupano le testate dalla sala due nicchie a forma di grotta decorate in stucco e mosaico, con vasi e stemmi, datate XVII e XVIII secolo. La galleria si affaccia su un giardino pensile, arricchito da gallerie con volte e botte; qui un tempo erano coltivate le erbe e le spezie utilizzate per preparare i cibi dei Gonzaga. 18 IL SALONE DEGLI SPECCHI di Giada Ferrari Terminato all’inizio del Seicento e realizzato in forma di loggia, aperta sul cortile d’Onore, per volere di Vincenzo I, l'ambiente fu chiuso per ospitare quadri della collezione gonzaghesca fino al 1627. Dal 1773 al 1779 fu arricchito con decorazioni e specchi di gusto neoclassico. Gli affreschi seicenteschi della volta e delle lunette presentano numerosi giochi ottici e temi mitologicoallegorici. Sul soffitto si riconoscono infatti Apollo e Diana (che guidano rispettivamente il carro del Sole e della Luna), il monte Olimpo, personificazioni di virtù (Concordia, Umiltà, Munificenza, Innocenza, Felicità e Filosofica). I giochi ottici più evidenti sono i cavalli e la donna con l'anello in mano e il braccio teso: entrambi gli affreschi sembrano muoversi insieme al visitatore. 19 L’appartamento di Isabella d’Este di Aurora Minelli LO STUDIOLO Lo studiolo era un posto privato di Isabella, ricavato all’interno del palazzo Ducale. All’inizio era situato nel castello di San Giorgio, ma poi nel 1523 venne trasferito negli appartamenti di Corte Vecchia. Isabella fu l’unica donna ad avere un suo studiolo personale, perché preferiva gli interessi intellettuali e artistici a uno stile di vita frivolo. Tra il 1519 e il 1522 Isabella si trasferì a Corte Vecchia. Le stanze del suo appartamento si trovavano tutte al piano terra e si accedeva alla nuova grotta, l’ambiente più sacro, da un’ apertura diretta nello studiolo. Resta un inventario del 1542 che permette di capire la disposizione degli oggetti; l’ambiente doveva risultare molto affollato, ma calcolato su principi di simmetria e armonia del decoro interno. Cadde in disuso dopo la morte della marchesa e le pitture vennero traslocate in un’altra zona del palazzo. Dopo di che vennero donate al cardinale di Richelieu, che le portò a Parigi. Gli altri arredi vennero venduti e dispersi, quelli riconosciuti si trovano in più musei. Qui la marchesa aveva raccolto pezzi di archeologia, antichità varie, dipinti commissionati ai più illustri artisti dell’epoca su temi mitologici e allegorici. Lo studiolo è arredato con armadi in legno lavorato, all’interno dei quali erano collocati gli strumenti musicali, la carte e il pennino per la composizione, gli oggetti per lo studio e gli esperimenti. Il soffitto della grotta è caratterizzato da decorazioni dorate su sfondo azzurro. Fa parte dell’ambiente anche il giardino segreto, che riporta un’epigrafe in latino che data la costruzione dell’appartamento 1522. Tra la grotta e lo studiolo vi è un prezioso portale marmoreo con tondi in rilievo raffiguranti un airone che ingoia un serpente (simbolo della vittoria del bene), Minerva (dea della sapienza), una civetta (sacra a Minerva), un usignolo (mito dell’infedeltà coniugale), una coppia di tortore (simbolo di fedeltà), un leopardo (indica la lussuria), una scimmia, un pavone e due figure allegoriche che ricordano la sapienza terrena, che rischia di essere ingannata se non tendo verso la sapienza divina. 20 IL MOTTO E LE IMPRESE L’impresa e il motto nel Rinascimento rappresentano un particolare modo di comunicare sentimenti, principi, filosofia di vita e condizioni. Così anche Isabella inventò i suoi. Il suo motto fu “Nec spe nec metu”, ossia ”Senza speranza, senza timore”. Con ciò Isabella esprime l’impossibilità dell’uomo di controllare la sua sorte, a cui bisogna però andare incontro con forza e determinazione. Essa è dipinta sulle pareti dello studiolo. Famosa è l’impresa del XXVII: 27 le lettere dell’alfabeto greco; 27 è la lunghezza massima della corda comprensiva di tutti i suoni musicali; 27 è il cubo di 3, numero perfetto e sacro per eccellenza… Insomma, sembra che Isabella abbia creato una specie di formula magica, unendo ciò che più l’affascinava: la musica, l’astrologia, l’alchimia… L’impresa delle pause musicali, dipinta sulle pareti dello studiolo, è bella e complessa, non a caso tra le più care a Isabella, che la utilizzò almeno dal 1502, quando la utilizzò per decorare una veste per una festa a Ferrara in onore della cognata Lucrezia Borgia. L’interpretazione di questa impresa, però, non è certa, ma forte è l’invito al silenzio, legato probabilmente alla meditazione e all’ozio inteso alla latina, ossia la riflessione e lo studio. Un simbolo di Isabella sono YS, un monogramma che significa Isabella e che si ripete spesso nel castello di San Giorgio. Un altro è YSF, che richiama il nome del marito e l’amore provato per lui. 21 L’appartamento di Vincenzo di Nicolò Bellini Il cosiddetto appartamento ducale venne creato nei primi anni del ‘600 all’interno della Domus Nova; l’autore della ristrutturazione fu Antonio Maria Viani, architetto preferito dal duca Vincenzo I Gonzaga, figlio di Guglielmo. Vincenzo I Gonzaga divenne duca di Mantova nel 1587; uomo fantasioso e volubile, amante dello spreco e della dissolutezza, le sue avventure ebbero spesso toni boccacceschi. Annullato il primo matrimonio con Margherita Farnese, Vincenzo I si risposò con l’illustre Eleonora de Medici. Gli ambienti si aprono con un ampio salone chiamato salone degli Arcieri così chiamato perché destinato al corpo di guardia. Le tre sale maggiori, ora dette di Giuditta, del Labirinto e del Crogiolo, erano un tempo chiamate delle Province, del Labirinto e del Marchese Francesco. L’ultima era così chiamata perché era abbellita con quadri che ricordavano le imprese compiute dal marchese Francesco II Gonzaga. I preziosi soffitti lignei delle tre stanze furono collocati a cura della duchessa Eleonora de’ Medici mentre il duca partecipava all’assedio di Canissa durante la terza spedizione in Ungheria contro i Turchi. Sala di Giuditta Tra le lesene rinascimentali provenienti dal cinquecentesco palazzo di S. Sebastiano, così come il soffitto, sono conservate quattro tele con Storie di Giuditta, del pittore napoletano Pietro Mango, attivo a Mantova intorno alla metà del ‘600 per Carlo II Gonzaga-Nevers. Alle pareti sono invece esposte opere di Domenico Fetti: il redentore e gli 11 Apostoli, e 6 santi su lavagna. Originariamente sulle pareti, al posto delle tele che vediamo oggi, erano collocati i Trionfi del Mantegna, venduti nel 1628 al re d’Inghilterra Carlo I per rimpinguare le casse dei Gonzaga. Sala del labirinto Deve il proprio nome al soffitto ligneo dipinto e dorato che riproduce un labirinto. Anch’esso come gli altri soffitti lignei di queste stanze proviene dal palazzo San Sebastiano e porta al proprio interno il motto “forse che sì forse che no”, probabilmente tratto da una musica popolare. Nella stanza è visibile anche un’iscrizione che allude alla battaglia di Canissa in Ungheria, episodio di una vera e propria crociata a cui prese parte il Gonzaga contro i Turchi e a cui 22 l’incertezza della vittoria e il rientro a Mantova è testimoniato dal motto, che più genericamente vuole ricordarci l’incertezza della vita. In questa sala sono esposte ampie tele che rappresentano le quattro età del mondo: l’età del ferro, l’età dell’oro, dell’argento e del bronzo, dipinte nel 1610 da Jacopo Palma il giovane. Si possono inoltre ammirare due busti in marmo di Lorenzo Ottoni, rappresentanti due principesse di Mirandola. Sala del Crogiuolo Nel vasto soffitto è raffigurato l’emblema (cioè simbolo) del crogiuolo (strumento con cui si fondevano i metalli), simbolo della bontà e della limpidezza politica di Francesco II; sotto di esso si trova il fregio con putti e cani, proveniente dalla sala dello Zodiaco. I ritratti esposti provengono da Mirandola e raffigurano i principi della famiglia Pico. E’ inoltre presente una specchiera settecentesca in vetro di Murano. La galleria del Passerino o delle Metamorfosi Così chiamata perché il cadavere imbalsamato di Rinaldo Bonacolsi, soprannominato appunto il ‘Passerino’, vi si trovava in posizione eretta. Si narra che la fortuna dei Gonzaga finì quando uno di essi decise di liberarsi del corpo del nemico battuto. La leggenda vuole che a disfarsi della mummia di Passerino fu l'ultima duchessa di Mantova, Susanna Enrichetta di Lorena la quale, stanca dell'inquietante spoglia, fece gettare il corpo nelle acque del lago. Si avverò la profezia di una maga che previde la perdita del potere a chi si sarebbe sbarazzato della mummia: i Gonzaga, infatti, caddero alcuni anni dopo, nel 1707. La galleria è formata da ambienti comunicanti. Ai soffitti vi sono storie tratte dalla Metamorfosi di Ovidio, da cui il secondo nome della sala. Dai Gonzaga in questa sala furono raccolti oggetti rari, curiosità del mondo vegetale e animale come coccodrilli e uova di struzzo, feti mostruosi, in un vero e proprio museo di Storia Naturale. 23 Il palazzo Te: introduzione di Timur Rella Verso la metà del XV secolo Mantova era divisa dal canale “Rio” in due grandi isole circondate da quattro laghi, formati dal fiume Mincio; una terza piccola isola, chiamata sin dal Medioevo Tejeto e abbreviata in Te, venne scelta per l’edificazione del palazzo attuale. Essa era collegata alle mura meridionali della città da una ponte. Le ipotesi più probabili fanno derivare il termine da "tilietum" (località di tigli) oppure dal celtico "tezza", fuso col latino "atteggia", entrambi col significato di capanna, oppure ancora dal termine gallico "terza", che significa tettoia, in riferimento tutti alle antiche e modeste abitazioni che erano state costruite nella zona. Costruito tra 1524 e il 1534, fu commissionato di Federico II Gonzaga a Giulio Romano. Ma numerosi sono i documenti che attestano come già dalla metà del Quattrocento il terreno fosse stato utilizzato. La zona risultava paludosa e lacustre, ma i Gonzaga la fecero ben presto bonificare. Agli inizi del 1500 Francesco II Gonzaga, marito di Isabella d’Este, vi fece costruire stalle per gli amati cavalli di razza e anche una casa padronale. Rimangono infatti tracce di un edificio di pregio con pitture murali nei sottotetti dell’attuale palazzo e un affresco reca la data 1502 e le iniziali del committente. Morto il padre e divenuto signore di Mantova, Federico II, suo figlio, decise di trasformare l’isoletta nel luogo dello svago e del riposo e dei fastosi ricevimenti con gli ospiti più illustri, un luogo cioè dove non doveva svolgere incarichi politici ma solo rilassarsi con la sua amante Isabella Boschetti, che qui risiedeva. 24 di Matteo Gelati Giulio Pippi, detto Giulio Romano, è stato un illustrissimo architetto e pittore del Rinascimento e della corrente del Manierismo. Nacque a Roma nel 1499 e già negli anni romani egli rivelò una grande abilità grafica, raccogliendo inoltre, il lascito raffaellesco in campo architettonico. Fin da giovane fu il suo allievo più dotato. Quando Raffaello morì, Giulio ne ereditò la bottega. Venne chiamato da Federico II Gonzaga nel 1524 come artista di corte a Mantova per realizzare il palazzo Te. Tale commissione lo impegnò per dieci anni a partire dalla fine dell'anno. Progettato a pianta quadrata con ampio cortile interno, il palazzo si ispira concettualmente alla villa rustica antica, dove si privilegiavano le vedute orizzontali, in un continuo dialogo tra architettura e ambiente circostante. Un tempo decorato con un labirinto, con quattro entrate sui quattro lati, l'entrata principale dava verso la città; si tratta di una loggia, la cosiddetta Loggia Grande, all'esterno composta da tre grandi arcate su colonne binate. A differenza dei palazzi urbani, Palazzo Te prevede una distribuzione degli spazi nobili al piano terra, leggermente rialzato, per salvaguardarlo dalle piene del Mincio, e ambienti di servizio al piano superiore. La decorazione dell’esterno e la scansione architettonica delle facciate sono tratte dal repertorio antico. Giulio Romano crea un ordine 25 unico ritmato dalla presenza di lesene (pilastri che sporgono leggermente dal muro), che reggono una trabeazione composta da architrave e fregio dorico con metope decorate (lastre poste nel fregio, decorate con bassorilievi). Le metope del lato nord sono ornate con una serie di imprese gonzaghesche, mentre questi emblemi non compaiono nelle altre facciate. Il palazzo ha proporzioni insolite: si presenta come un largo e basso blocco, la cui altezza è circa un quarto della larghezza. Tutta la superficie esterna è trattata a bugnato (comprese le cornici delle finestre e delle porte). Le bugne sono pietre lavorate sporgenti dal muro. Pare che il palazzo fosse, in origine, dipinto anche in esterno, ma i colori sono scomparsi. Il cortile principale, dove è collocato il giardino, si chiude con un’esedra, cioè una serie di archi che fungono da portali, anch’essi realizzato da Giulio Romano con bugne. 26 Sala del Sole di Sharon Singh La camera del Sole aveva la funzione di introdurre gli ospiti alle camere dedicate alle opere di Ovidio, famoso poeta latino. Questa Sala prende il nome dall’affresco centrale, che raffigura il carro del sole e quello della luna. Con un sorprendente scorcio dal basso verso l’alto, viene rappresentata l’ora del crepuscolo con i due gemelli divini, Apollo e Diana, che si danno il cambio; il dio del sole, dai riflessi rossastri, sul carro esce di scena, mentre alle sue spalle arriva la luna, dalle tonalità pallide, tirata da due cavalli e guidata da Diana: un cavallo bianco rappresenta il giorno e uno nero rappresenta la notte, a significare che la luna si muove sia di giorno sia di notte. Qui si concentra la decorazione originaria della volta: la campitura azzurra di fondo è ritmicamente scandita da compartimenti a rombi in stucco bianco, che racchiudono figurine tratte prevalentemente da monete e gemme antiche, di cui Giulio Romano era collezionista, ma anche dal repertorio dei più alti maestri del ‘500 italiano come Raffaello e Michelangelo. Negli scomparti triangolari e ai bordi del riquadro centrale, compaiono anche emblemi e imprese dei Gonzaga di Mantova. La decorazione della sala, analogamente alle altre decorazioni di quest’ala del palazzo, è risalente al 1527-1528 ed è attribuita a Giulio Romano e alla sua scuola. Sala di Ovidio La stanza deve il suo nome alle rappresentazioni mitologiche raffigurate nei fregi e tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. La decorazione della sala pittorica risulta essere realizzata intorno al 1527, tra le prime dell’intero palazzo. La stanza è rettangolare, illuminata da una sola finestra, con un soffitto “a cassettoni” e un grande camino. La decorazione si caratterizza per la presenza di riquadri con scenette tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, eseguiti su fondo scuro. Sono stati scelti gli episodi che trattano i temi dell'amore e della fertilità. Tale insistita allusione erotica ha fatto anche pensare che le camere fossero destinate ad ospitare Isabella Boschetti, amante di Federico, ma non va tralasciato il riferimento ai piaceri della poesia e della musica, come evidenziato dalla presenza del mito di Orfeo e dalla contesa tra Apollo e Pan. 27 La sala di Amore e Psiche di Valeria Barilli e Alice Orlandelli Qui Federico II ha sviluppato la grande passione per l’amore. Si tratta dell’ambiente più suntuoso del palazzo, destinato ad accogliere solamente gli ospiti più illustri per banchetti e cene. Nel registro che gira tutt’intorno c’è scritto il motivo per cui è stato costruito il Palazzo, ossia il desiderio del principe di trovare un onesto ozio che lo ritemprasse dopo le fatiche del lavoro: “FEDERICUS GONZAGA II MAR(CHIO) V S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) ET REIP(UBLICHAE) FLOR(ENTINAE) CAPITANEUS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRT(UTEM) QUIETI CONSTRUI MANDAVI”. La decorazione della camera è realizzata tra il 1526 e il 1528; le fonti registrano interventi diretti di Giulio Romano. Il tema centrale dell’intera decorazione è Amore: divinità “mostruosa”, il più potente tra tutti gli dei, temuto dallo stesso Giove, al quale nessuno può sottrarsi. Sulle pareti sono dipinte diverse favole mitologiche, che narrano di amori contrastati, clandestini, tragici e non corrisposti. Le pareti sud-ovest coinvolgono il visitatore nei preparativi di un suntuoso banchetto, al quale partecipano gli dei. Protagonisti dell’evento Amore e Psiche, sdraiati sul cline e tra loro la figlia, Voluttà. Si tratterebbe del banchetto che si svolge sull’isola di Venere, a Citerea, nel sud del Peloponneso, così come descritto nel testo umanistico da cui le vicende mitologiche sono tratte. I volti dei due sposi, però, sono di Federico II e dell’amante Isabella Boschetti. Un altro dipinto è quello di Giove, che si trasforma in serpente per sedurre le dee, in questo caso Olimpiade. Filippo il Macedone, marito di Olimpiade viene accecato da un fulmine, la stessa fine che fa il marito di Isabella Boschetti. 28 Sulle altre pareti sono dipinte numerose relazioni tra gli dei e gli uomini (Venere e Adone, Bacco e Arianna, Giove e Olimpiade), ma anche fra divinità (Marte e Venere, Aci e Galatea) o tra uomini e animali (Pasifae e il toro). L’affresco più importante della parete Nord è quello di Marte (Ares per i Greci), figlio di Giove e Giunone, e Venere, Afrodite per i Greci, la cui nascita è controversa ma è certo che fu data in sposa a Vulcano. I due fanno il bagno. Marte diverrà il suo amante ma, essendo Venere la dea dell’amore, egli non sarà l’unico. In un’altra scena Marte, infatti, vuole inseguire Adone, giovane di straordinaria bellezza, di cui la dea si è invaghita, ma Venere vuole fargli cambiare idea. Mentre cammina si punge il piede con una rosa bianca che, macchiata dal sangue della dea, diviene rossa. Il camino tra le due porte finestre e di fronte alla porta che si affaccia sulla Sala dei Cavalli, è in marmo rosso ed è sovrastato dalla gigantesca figura di Polifemo. La favola di Amore e Psiche Amore era il figlio di Venere e di Marte. Psiche, invece, era una principessa umana, la cui bellezza aveva provocato l’invidia di Venere. Così la dea ordinò a suo figlio di scendere sulla Terra e di far innamorare Psiche di un uomo vecchio e brutto. Ma Amore appena vide Psiche se ne innamorò perdutamente. Quindi, per non incorrere nelle ire di Venere, escogitò un trucco: avrebbe portato Psiche in un palazzo incantato, dove sarebbe sempre andato a trovarla nel cuore della notte senza farsi mai vedere. Intanto il padre di Psiche, preoccupato, perché la bellezza di sua figlia era tale da spaventare tutti i pretendenti, andò a chiedere aiuto ad Apollo. Il dio gli rispose di vestire Psiche da sposa e di esporla su una roccia, dove un essere non umano, che “faceva paura anche agli dei”, l’avrebbe presa e portata lontano per sposarla. Il povero re pensò che sua figlia sarebbe andata in sposa ad un mostro ma obbedì. 29 Psiche, rimasta sola, fu presa dal Vento e fu trasportata in una valle dove si addormentò. Al suo risveglio si ritrovò in un palazzo meraviglioso, tutto in marmo. La sera avvertì vicino a lei la presenza del marito nominato dall’oracolo. Ma lo sposo invisibile la avvertì: non doveva cedere alla tentazione di vederlo, altrimenti lo avrebbe perso per sempre! Così passarono i giorni e le notti, durante i quali Psiche si innamorò perdutamente di Amore. Ma un giorno, cedendo alla curiosità, decise di approfittare del sonno dello sposo per guardarne il volto. In quei tempi lontani i lumi erano ad olio e qualche goccia cadde dalla lampada su Amore, che si svegliò e poiché era stato ormai riconosciuto da Psiche, fu costretto ad abbandonarla. Psiche, disperata, cercò il suo perduto amore e si sottopose ad una serie interminabile di prove. Finché, con l’aiuto di Giove, padre di tutti gli dei, l’amore trionfò. La mortale Psiche sposò il dio Amore e fu chiamata in cielo tra gli dei, dove fu celebrato un fastoso banchetto di nozze. 30 di Simone Malagola La camera prende il nome dagli stucchi presenti nella volta, dove il tema dominante è la personificazione dei venti. Il ruolo dei venti è quello di separare la volta celeste, con le divinità e i segni zodiacali, dal mondo terreno dove, influenzate dalle stelle, si svolgono le vicende umane. La sala veniva denominata anche camera de’ Pianeti, delle Medaglie, dello Zodiaco. Motivo centrale della decorazione della sala è quello astrologico, cioè l’influsso che le stelle esercitano sull’uomo, come spiega l’epigrafe sopra la porta meridionale: “DISTAT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT” che si traduce: “dipende infatti da quali stelle ti accolgano (alla nascita)”. L’articolazione della volta in pannelli tiene conto del tema: lo schema geometrico vede la raffigurazione, al centro, dell’impresa del Monte Olimpo, attorno al quale si dispongono le dodici divinità olimpiche (affrescate o modellate a stucco), che hanno il compito di proteggere i segni zodiacali. Questi ultimi sono presentati nel perimetro della volta come bassorilievi e si alternano a dipinti con le personificazioni dei mesi. L’influsso delle diverse costellazioni, associate ai segni zodiacali, è invece raffigurato nella fascia alta delle pareti. Le storie sono racchiuse in una cornice circolare in finto marmo, dipinta in prospettiva. Giulio Romano illustra le attitudini e le attività indotte negli uomini non tanto dal segno zodiacale, quanto dalle costellazioni “extra zodiacali” presenti alla nascita. La camera fu utilizzata come ambiente riservato; qui si intrattenne, nel corso della sua visita nel 1530, l’imperatore Carlo V, dopo aver pranzato nella camera di Amore e Psiche con i membri illustri della famiglia Gonzaga. 31 La Sala dei Giganti di Cristopher Gelati La Camera dei Giganti è l’ambiente più famoso e stupefacente di Palazzo Te. Giulio Romano vi propone una sperimentazione pittorica originale e ineguagliata per secoli. L’ambiente è concepito come un insieme spaziale continuo, dove l’invenzione pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente catapultato nel mito. La vicenda che viene messa in scena è quella della Caduta dei Giganti, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. Abitanti della terra scellerati e presuntuosi, i Giganti volevano sostituirsi agli dei. Per fare ciò tentarono di conquistare il monte Olimpo, accostando tra di loro i monti Pelio e Ossa e iniziarono a scalarli. Ma in seguito Giove punì i Giganti, scatenando contro di loro la furia degli elementi e colpendoli con i fulmini infallibili, aiutato da Giunone. Lo spettatore è trasportato nel mezzo di questa scena, con la schiera numerosa degli dei dell’Olimpo, Giove alla testa, su nel cielo e la rovinosa e violenta caduta dei Giganti qui sulla terra. A dividere il cielo dalla terra stanno ai quattro angoli della camera, i venti, che soffiano tra le nubi. Più in basso crollano montagne, palazzi e templi, sotto le cui rovine giacciono in pose scomposte i Giganti. Sul lato orientale trovava spazio un camino, che ora non c’è più. L’invenzione giuliesca sfruttava anche questo suggestivo elemento architettonico, poiché il fuoco, sprigionato dal camino, proseguiva, nella finzione pittorica, nelle fiamme che escono dalla bocca del gigante Tifeo, qui dipinto sepolto sotto le rocce delle Sicilia: è lui la causa delle eruzioni dell’Etna. Da notare come tutt’intorno, ad altezza uomo, corrano lungo la camera scritte graffite, non eliminate nel corso dei restauri negli anni Ottanta perché considerate documento storico: le prime iscrizioni risalgono addirittura al XVI secolo e testimoniano i passaggi di truppe e soldati mercenari, che soggiornarono in questo palazzo. La sala non ha angoli: questo crea un effetto acustico tale per cui, bisbigliando in un angolo della sala, si può comunicare con chi sta all’angolo opposto. C’è chi ha dato un’interpretazione politica alla stanza: Giove sarebbe l’imperatore Carlo V, mentre i giganti vinti i principi italiani ribellatisi all’imperatore, a differenza dei Gonzaga, che furono sempre suoi alleati. 32 di Timur Rella I cavalli sono sempre stati la passione dei grandi re, dei principi e dei sovrani d’Europa. Anche i Gonzaga avevano le loro scuderie con bellissimi esemplari di cavalli. Quando si stava costruendo palazzo te, Federico Gonzaga disse ed ordinò a vari artisti di dipingere in una delle sale più grandi, i ritratti dei suoi cavalli preferiti. Essi furono dipinti a grandezza naturale e di alcuni di essi c’e’ scritto anche il nome. Questa stanza era dedicata alle feste più importanti, ai belli di corte e come sala da recivimento per le visite di personaggi importanti. Le pareti sono decorate con finti pilastri corinzi, finte sculture a bassorilievo e delle nicchie dove sono raffigurati i vari esemplari di cavalli. La stanza prende la luce da cinque finestre, sono dipinti anche dei finti marmi. Al centro della parete meridionale c’e’ un grande camino. I cavalli sono talmente veri che sembrano vivi, la loro bellezza la loro forza e la loro eleganza sono sublimi. Fra un cavallo e l’altro ci sono delle nicchie dove sono raffigurati personaggi antichi ed al di sopra di essi sei fatiche di Ercole. Sul soffitto è raffigurato il monte Olimpo, la sede degli dei. C’e’ dipinto tanto oro ed in mezzo ad esso ci sono ramarri e salamandre simboli di Federico. 33 di Filippo Beltrami Edificata per volere di Ludovico II Gonzaga in quella che oggi si chiama piazza Mantegna, su progetto di Leon Battista Alberti, sostituisce una chiesa benedettina dell’IX secolo, che era diventata insufficiente ad accogliere i pellegrini che ogni anno venivano a venerare la reliquia del sangue di Cristo. Dell’antica chiesa rimane il campanile tardo-gotico. Costruita sui resti di due chiese preesistenti, fu edificata a partire dal 1472 e conclusa 328 anni dopo, cioè nel 1800, e dunque rimaneggiata più volte; l’interno, infatti, si discosta molto dal progetto originario dell’Alberti. I lavori furono affidati a Luca Fancelli, perché l’Alberti morì due mesi dopo la posa della prima pietra. Nel complesso la basilica si presenta con un corpo edificato a partire dal Quattrocento, quello progettato dall’Alberti, sormontato da una cupola risalente al Settecento, progettata dal siciliano Filippo Juvara, mentre le decorazioni pittoriche dell’interno appartengono al ‘500, al ‘600 e al ‘700. La basilica ha una volta a botte, che nasconde la vera grandezza dell’edificio. Infatti Ludovico II voleva una chiesa che rappresentasse la magnificenza, la grandezza e il potere raggiunto dai Gonzaga. Ma siccome la chiesa andava realizzata in una piazza di piccole dimensioni, bisognava trovare una equilibrio tra le richieste della committenza e gli spazi disponibili. Così l’Alberti ideò una facciata proporzionata alla piazza, dunque piccola, nascondendo la reale grandezza della chiesa con la volta a botte posta sopra. La maestosa facciata richiama i modelli classici, come si vede bene dall’arco trionfale. Sotto e centrale si apre un maestoso fornice (arco di passaggio), ai lati del quale si aprono due porte con architrave sormontate da nicchie e finsetre.Sopra il frontone tipico dei templi greci si innalza la volta. L’entrata è preceduta da un vestibolo con volte e cassettoni: si tratta di uno spazio, detto “pronao”, che veniva appositamente creato affinché le persone che entravano in chiesa avessero un luogo protetto, separato dalla strada, dove ripulirsi dei peccati. 34 San Longino e i Sacri Vasi di Francesco Sanfelici La Leggenda Longino fu l’antico centurione che con una lancia (dal greco “lonke”, da cui essa prese il nome) trafisse il costato di Cristo in croce. Egli aveva problemi oculari e quando una goccia del sangue del crocifisso gli cadde sugli occhi, guarì. Da quel momento Longino si convertì. Raccolse sia la terra intrisa del sangue di Cristo sia un pezzo della spugna con la quale i centurioni l’avevano tormentato e li pose in una scatola di piombo. Tempo dopo si spogliò delle sue vesti, non accettò l’oro per il lavoro svolto e diventò un predicatore. Tornò in Italia, da dove proveniva. Arrivò a Mantova nel 36 d.C., portando con sé il santo sangue. Qui cominciò a predicare, dopo aver nascosto nell’Ospedale dei Pellegrini il suo tesoro. Poco dopo, il 15 Marzo del 37, fu decapitato, subendo anch’egli il martirio, come molti altri cristiani dell’epoca. Sul luogo della decapitazione, chiamato Cappadocia, è sorta la chiesa di Santa Maria del Gradaro. La reliquia di Cristo venne sotterrata in un’urna e per molti secoli se ne persero le tracce… La storia dei Vasi continua… I viaggi dei vasi Comunque, la leggenda prosegue. La reliquia rimane nascosta a tutti fino all'anno 804, quando viene casualmente ritrovata, accanto alle ossa di San Longino per rivelazione di Sant’Andrea, proprio dove ora sorge la chiesa a lui dedicata. Leone III e Carlo Magno arrivano contemporaneamente a Mantova per avvalorare l'importante scoperta. Il primo la autentica come reliquia e pare abbia deciso di creare la diocesi di Mantova; il secondo prende con sé una particella della reliquia e la porta in Francia, forse a Parigi. Ma nel 924 la popolazione mantovana, terrorizzata dal prossimo arrivo dei barbari ungheresi, nasconde nuovamente il sangue, dividendolo in altre due parti: una parte viene seppellita e verrà ritrovata nel 1479 vicino al Duomo, l'altra fuori 35 porta, di nuovo nell'orto dell'oratorio di Sant'Andrea, sorto accanto al luogo dell'antico ospedale dei pellegrini proprio per commemorare il primo ritrovamento. Misteriosamente, tutti perdono il ricordo della localizzazione dei nascondigli. Bisogna giungere al 1048 per un secondo e definitivo ritrovamento. E' l'epoca della dominazione di Bonifacio di Canossa e della moglie Beatrice; un mendicante cieco, di nome Adalberto, vede apparire in sogno, la notte tra il 4 e il 5 marzo, Sant'Andrea, che gli rivela il punto in cui scavare. Per vincere le resistenze di Beatrice, piuttosto scettica, il santo si presenterà altre due volte. La reliquia viene finalmente trovata, insieme al corpo di Longino. Sul posto, nell'area del monastero benedettino, viene edificata la nuova chiesa di sant'Andrea, che quattro secoli dopo sarà distrutta da Ludovico Gonzaga per far posto alla basilica attuale, progettata dall'Alberti, nel 1472. Nel 1459, quando a Mantova vi è Ludovico II Gonzaga, il papa Pio II convoca una Dieta, a cui sono invitati tutti i principi europei, per liberare Costantinopoli, caduta insieme all’impero romano d’Oriente, nelle mani dei Turchi nel 1453. Si narra che il papa in quei giorni stesse male, ma si rivolse alla sacra reliquia e ottenne un miglioramento delle sue condizioni di salute, così confermando la preziosità e autenticità del sangue di Cristo. Da quel momento comincia la venerazione ufficiale della reliquia, collocata nel 1500 nei due primi vasi, poi andati perduti. Nel 1848, infatti, durante la dominazione austriaca, alcuni soldati trafugarono i vasi cinquecenteschi d’oro e la spugna. Solo nl 1876 la reliquia torna in Sant’Andrea per volere dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, che fa eseguire due nuovi vasi a sue spese. Impossibile qui analizzare i complessi rapporti tra leggenda, mito e verità storica. San Longino non è il patrono della città; tuttavia, la figura del cavaliere apostolo compare in gran parte delle monete prodotte dalle zecche mantovane e riveste, insieme a Virgilio, il ruolo di protettore della nostra terra. I Vasi ai nostri giorni Dal suo ritrovamento la reliquia viene esposta ogni anno all’adorazione dei fedeli. La reliquia è nella cripta della basilica, custodita in una cassaforte, la cui apertura è molto complicata e che richiede la presenza di minimo quattro persone: il Prefetto, il Vescovo, il Capitolo del Duomo e un rappresentante della Fabbriceria di Sant’Andrea, che sono in possesso delle dodici chiavi necessarie. Il venerdì santo vengono estratti i due reliquiari dalla cassaforte ed esposti alla devozione dei fedeli prima di essere portati in processione. 36 di Nisrine Souhail Grandioso, solenne e classico, a croce latina, l’interno è ad una sola navata, coperta da una volta a botte. Tutta la chiesa è riccamente decorata, un gusto che ben poco ha a che fare col progetto dell’Alberti, ma che ha risentito del gusto delle epoche a lui successive, durante le quali la basilica è stata finita. Su ciascun cappelle copertura a cupola (80 m di imponente che quale si trova la accedere per ricavate nei cupola. fianco si aprono tre grandi quadrate, pure con botte. Dalla grandiosa altezza) scende una luce illumina il transetto, sotto il cripta, a cui si può una delle quattro scale pilastri che reggono la Realizzata nel 1595, la cripta è a croce greca e conserva i vasi che contengono la reliquia del preziosissimo sangue di Cristo, secondo la tradizione portato a Mantova da Longino. I vasi sono stati collocati sopra un altare in un tempietto, eretto nel 1818, dentro un’arca ornata da un bassorilievo in bronzo. Nella prima cappella a sinistra si trovano la tomba di Andrea Mantegna, qui sepolto nel 1506, ed il busto bronzeo che lo raffigura. Nella prima cappella a destra, invece, si trovano tre tondi staccati dal vestibolo della basilica. Essa è adibita a battistero ed è molto sobria perché mancano le decorazioni. Nella seconda cappella sono presenti sulle pareti affreschi con la raffigurazione del Paradiso, Purgatorio ed Inferno, mentre nella terza cappella vi è una pala con Madonna e Santi. Anche la quarta cappella è affrescata, mentre l’altare è decorato con rappresentazioni sacre riferite alla VERGINE. 37 Nella sesta cappella si trova una pala con Natività, copia cinquecentesca di un dipinto di Giulio Romano; anche gli affreschi si rifanno a disegni di Giulio Romano. Nel braccio destro del transetto, sulla destra, si apre una cappella, nella quale sono collocati dei monumenti sepolcrali provenienti da varie chiese sconsacrate della città. Nel presbiterio c’è l’altare maggiore, costruito nel 1803. Alla sinistra dell’altare va notata una statua del Duca Guglielmo Gonzaga, in preghiera del 1572. Il braccio sinistro del transetto mostra nella cappella di destra una pala di altare seicentesca, mentre sulla testata di fondo dello stesso transetto, un’uscita laterale immette in piazza Leon Battista Alberti. 38