emozioni - IC 16 Valpantena

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emozioni - IC 16 Valpantena
SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO
AUGUSTO CAPERLE
CLASSE IC
+
CLASSE 2B
DITELO CON I FIORI…
ANNO SCOLASTICO 2013-2014
Wanna Bianchi – Maddalena Panzieri
INTRODUZIONE
Perché declamare contro le passioni?
Non sono forse la sola cosa bella che ci sia sulla terra,
la fonte dell'eroismo, dell'entusiasmo, della poesia,
della musica, delle arti, di tutto infine?
(Flaubert)
Felicità, noia, rabbia, malinconia, compassione … la grammatica li definisce sostantivi astratti,
perché non li puoi misurare né circoscrivere. Eppure ci riguardano così da vicino, da rappresentare
un tratto distintivo dal resto del mondo animale. Sono sentimenti, astratti ma non meno veri degli
oggetti che ci circondano. È solo più difficile saperli gestire, perché non li puoi racchiudere tra le
mani o guardare da vicino e, quando si manifestano, possono far paura.
Per combattere la paura è importante conoscerli, farne esperienza, saperli riconoscere, senza
lasciarsi dominare, imparando così a considerarli una ricchezza, una risorsa a nostra disposizione.
Gli alunni di 1^C e 2^B hanno individuato diciannove sentimenti, di cui tutti hanno avuto
esperienza. Ogni sentimento è stato analizzato, costruendone una definizione e ideandone un
racconto perché, attraverso la narrazione, gli animi si sciolgono e la tensione lascia spazio al
sollievo.
Da sempre l'uomo ha percepito il bisogno di dare concretezza ai sentimenti astratti attraverso
l’arte, la musica, la poesia o la simbologia floreale. Fin dall’antichità, da Oriente a Occidente, si è
voluto attribuire al fiore una valenza emozionale: regalare il fiore giusto equivale ad inviare un
messaggio ben preciso per esprimere il proprio stato d'animo. Per questo, con una sorta di
ingegneria inversa, imparare il linguaggio dei fiori significa acquisire le dinamiche delle emozioni,
apprenderne la manifestazione simbolica e la possibilità di comunicarle.
Racconto e fiore sono stati quindi associati, attraverso l’affiancamento della stesura letterale e della
rappresentazione artistica floreale.
Dato che le emozioni nascono dalle relazioni e in esse si radicano, si è preferito adottare un metodo
di lavoro relazionale, utilizzando il tutoraggio interclasse: ad ogni alunno di seconda B è stato
affidato un compagno di prima C, all'interno di un sistema di monitoraggio partecipato e garantito
dall'insegnante.
Lo scopo, come ci hanno insegnato Don Lorenzo Milani e Mario Lodi, è quello di stare bene con sé e
gli altri, di produrre azioni intenzionali di integrazione e interazione, di creare partecipazione
responsabile, di valorizzare l'aiuto reciproco nella consapevolezza che, attraverso questi fattori, si
contribuisce a quella trama di occasioni e situazioni, di legami ed esperienze che rendono feconda e
vera la comunità scolastica.
EMOZIONE
DEFINIZIONE
FIORE
AMORE
L'amore è un sentimento intenso e profondo di affetto, simpatia e adesione, rivolto verso una
persona, un animale, un oggetto o verso un concetto, un ideale, ed è caratterizzato dal ritenere
il bene della persona amata più importante di se stessi.
Tulipano
RABBIA
Con il termine ira (o impropriamente rabbia) si indica uno stato psichico alterato, in genere
suscitato da uno o più elementi di provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni
inibitori che, normalmente, stemperano le scelte del soggetto coinvolto. L'iracondo è
caratterizzato da una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno o (in alcuni casi) verso se
stesso.
Garofano rosso
INVIDIA
Il termine invidia si riferisce a uno stato d'animo o sentimento per cui, in relazione a un bene o
una qualità posseduta da un altro, si prova spesso astio e un risentimento tale da desiderare il
male di colui che ha quel bene o qualità.
Narciso
TRISTEZZA
La tristezza è un'emozione contraria alla gioia e alla felicità. Essa può essere provata in
condizioni normali, durante la vita di tutti i giorni, oppure a causa di un evento particolarmente
drammatico, come una perdita o un lutto.
Calendula
GELOSIA
La gelosia è un sentimento di ansia e incertezza dell'essere umano, causata dal timore di
perdere o non ottenere la persona amata perché essa sia preferita da altri o preferisca altri.
Rosa gialla
MALINCONIA
La malinconia è un sentimento che provoca una tristezza costante.
Anemone
TENEREZZA
Sentimento di dolce commozione, di profonda, delicata dolcezza che nasce dall'amore, l'affetto,
la compassione, il rimpianto:
Edera
NOIA
Sensazione di inerzia malinconica e di invincibile fastidio, dovuta perlopiù a insoddisfazione per
la monotonia e la mancanza d'interesse della situazione in cui ci si trova
Bocca di leone
MERAVIGLIA
Sentimento improvviso di stupore, di sorpresa che nasce di fronte a cosa o a situazione fuori
dell'ordinario o del previsto.
Magnolia
ORGOGLIO
Stima esagerata di sé, della propria dignità, dei propri meriti, per cui ci si sente in tutto superiori
agli altri. Fierezza, consapevolezza delle proprie doti, dei propri meriti.
Papavero rosso
VERGOGNA
Sentimento di colpa o di umiliante mortificazione che si prova per un atto o un comportamento,
propri o altrui, sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti
Peonia
COMPASSIONE
La compassione è la partecipazione alla sofferenza dell'altro. Non un sentimento di pena che va
dall'alto in basso. Si parla di una comunione intima e difficilissima con un dolore che non nasce
come proprio.
Sambuco
SOLITUDINE
La solitudine è una condizione e un sentimento umano nella quale l'individuo si isola per scelta
propria (se di indole solitaria) per vicende personali e accidentali di vita o viene isolato dagli altri
esseri umani generando un rapporto (non sempre) privilegiato con sé stesso.
Erica
RIMORSO
Tormento che nasce dalla consapevolezza di avere commesso una cattiva azione.
Aconito
STIMA
Opinione favorevole, considerazione positiva delle qualità, dell'operato altrui.
Salvia splendens
FELICITA’
La felicità è lo stato d'animo (emozione) positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri.
Fiordaliso
PERDONO
Rinuncia alla vendetta, remissione della punizione nei confronti di chi ha commesso una colpa.
Aspodelus
NOSTALGIA
Sentimento malinconico che si prova nel rimpiangere cose e tempi ormai trascorsi o nel
desiderare intensamente cose, luoghi e persone lontane.
Pervinca
SERENITA’
Serenità è il termine con cui si descrive la condizione emotiva individuale caratterizzata, a livello
interiore ed esteriore, dà tranquillità e calma non solo apparente, ma talmente profonda da non
essere soggetta, nell'immediato, a trasformazioni di umore, ad eccitazioni o perturbazioni tali da
modificare significativamente questo stato di pace.
Artemisia
Caterina de’Manzoni – Martina Ferlini
AMORE o TULIPANO
Era un giorno di primavera. Ero felice e andai a prendere i biglietti per la mostra di quadri al
“Mulino”. Ad Amsterdam erano arrivati i quadri di Monet ed io ero appassionato all’arte. Alla
mostra incontrai una ragazza. Era alta, di corporatura esile. La sua carnagione era chiara come una
rosa bianca. Aveva i capelli biondi che le incorniciavano il viso. I suoi occhi erano azzurri come il
cielo in una giornata serena d’estate. Le sue la labbra erano rosse come i tulipani che circondavano
il museo. Il suo naso era piccolo, delicato. I suoi vestiti erano colorati e leggeri. Osservava i quadri
con molta attenzione e cura. Si capiva subito che amava l’arte come me. La guida ci riunì nell’atrio
per iniziare la spiegazione dei dipinti. Tra la folla riconobbi la ragazza. A metà della mostra ci
fermammo tutti e due ad ammirare un quadro: “Campi di tulipano con il mulino a vento di
Rijnsburg”. La guardai. Gli occhi erano fissi sul dipinto. Poi, ad un tratto, si voltò di scatto e mi
guardò. Non sapevo cosa fare. Dopo pochi istanti, con la voce tremolante, dissi: -Ciao- lei rispose
con un sorriso a sua volta: -Ciao-. La sua voce era soave, come il cinguettio di un usignolo.
D’impulso dissi: -Come ti chiami? - -Abigaille. - rispose con dolcezza- E il tuo nome è…- Mi chiamo
Ivan-. Dopo questa breve presentazione, parlammo dei quadri. Mi parlò di lei. Disse che si era
appena trasferita, e mi chiese se potevo essere la sua guida per la città. Annuii felicemente. Quella
sera la accompagnai a casa. Scoprii che abitava nel mio stesso quartiere. Arrivati a casa decidemmo
di darci appuntamento nel parco di fronte alla sua abitazione. Quando, arrivato a casa, mi buttai sul
letto, il cuore mi batteva come mai prima. Mi addormentai con la sua immagine nei miei pensieri. Il
giorno dopo, verso le tre del pomeriggio, scesi e andai al parco. Abigaille era già lì. Decidemmo di
visitare subito il museo Van Gogh, poi semmai, di visitare la città. Il museo era molto bello. Abigaille
era un’esperta di quadri di Van Gogh. Fu fantastico passare il pomeriggio con lei. Più tardi
mangiammo un gelato, camminando per la città. Passammo sopra un ponte vicino ad una aiuola di
tulipani. E subito nelle nostre menti affiorò la mostra di Monet ed il nostro primo incontro. Ci
guardammo negli occhi nello stesso istante. Capimmo subito che eravamo fatti l’uno per l’altra.
Dopo settimane di incontri, visite e appuntamenti, Abigaille mi diede una brutta notizia. Doveva
trasferirsi per motivi del lavoro del padre. Ci vedemmo per l’ultima volta davanti al quadro “Campi
di tulipano con il mulino a vento di Rijnsburg”, per ricordare il nostro primo incontro. Dopo aver
conversato per circa un’ora dell’improvvisa sua partenza, ci fu un momento di silenzio. I nostri
sguardi si incrociarono, Tutti e due sapevamo cosa stava per succedere: le nostre labbra si
toccarono e sentii il battito del suo cuore. Era come il mio. Non mi sembrava vero. Non ero così
felice da anni. Lei si alzò di scatto e se ne andò, ad un certo punto si girò e mi disse: -Addio! Ma ci
rivedremo! - e, in lacrime corse verso casa. Io restai lì pietrificato dalla tristezza. Mi rimase sempre
in mente il suo volto. E, ancora oggi, a volte in qualche altro viso, a volte in lontananza, mi sembra
di rivederla.
Martina Ferlini, Tulipano
Lorenzo Ottaviani - Marco Cocco
RABBIA o GAROFONO ROSSO
Basso, snello, capelli rossi come fuoco e occhi marrone scuro, ogni giorno che passava Fabio era
sempre più rabbioso e cattivo. I suoi genitori non sapevano più che fare. Bolle di rabbia si
riversavano all’esterno del suo essere e nemmeno il miglior psicologo della zona era riuscito a
capirne i motivi per il rancore che lo invadeva. Una mattina sua madre Anita lo svegliò per andare a
scuola, ma lui non voleva assolutamente alzarsi. Sua madre lo implorò, ma lui non si mosse dal letto
e fu costretta a tirargli una sberla. Lui piangeva e disse triste e arrabbiato: “Odio tutto il mondo, mi
volete tutti male, lasciatemi stare!” La madre lo convinse con una piccola predica e Fabio prese il
solito scuolabus, chiedendosi sempre la stessa cosa: “Perché sono così strano? Perché i miei amici
vivono una vita tranquilla ed io no? Voglio rinascere e ricostruirmi una nuova vita, o forse è meglio
fuggire e tornare quando sarò più gentile?”
Sceso dal pulmino scappò via, prendendo una stradina laterale alla scuola. Voleva fuggire!
I pochi compagni di scuola che tenevano a lui, lo inseguirono per farlo ragionare. Tutti marinarono la
scuola, ma poi se la presero con lui per averli costretti con il suo comportamento a saltare la scuola.
I suoi amici erano alti e robusti, Roberto era biondo con gli occhi azzurri e Christian era castano con
occhi marrone chiaro. Quando lo stavano per acciuffare, la polizia li vide gironzolare in orario
scolastico, erano le 8.45 e chiese loro come mai non fossero in classe, ma essi non seppero
rispondere. Li portarono in caserma e chiamarono a casa di ognuno, rintracciando i loro genitori.
Fabio a quel punto si calmò, aveva capito di essere arrivato al fondo del barile, di aver sbagliato e di
aver trascinato in questo suo malsano comportamento gli unici amici che aveva, ma ora temeva l’ira
dei suoi genitori, che però lo presero e non gli rivolsero nemmeno una parola.
La mattina seguente iniziò a comportarsi meglio cominciando con la sua famiglia. Si diresse verso la
cucina per fare colazione e vide mamma Anita, papà Mario e sua sorella Stella molto delusi di lui.
Sedette a tavola e con un forte e sforzato buongiorno provò a riconciliarsi. Non lo guardarono
nemmeno di striscio. Nessuno voleva perdonarlo, non lo consideravano più!
Allora Fabio pazzo dalla rabbia, fuggì di casa così come era, in pigiama, sbattendo la porta forte.
Era Sabato e non c'era scuola. Stella mormorò a tavola “Si era dimostrato gentile ma non gli
abbiamo dato retta, è colpa nostra, dobbiamo soccorrerlo, non è mai troppo tardi per aiutarlo!”
Anita e Mario erano troppo stanchi e arrabbiati per reagire. Stella si vestì e lo raggiunse, sapeva
dove andava sempre quando si sentiva arrabbiato; arrabbiato ed escluso.
Lo trovò in cima alla collina della città. Mentre Stella attraversava la città per arrivare all’altura
sentiva lamentele provenire dalle case ai lati della strada. “Chi diavolo ha lanciato un sasso in casa
mia?”. “Chi ha lanciato un sasso alla finestra? Ora è rotta e il mio bambino si è spaventato!”
Fabio aveva lanciato sassi ovunque. Stella accelerò il passo. Lo trovò seduto per terra, lo abbracciò,
ma lui la spinse forte, così forte che cadde a terra. E in quel momento Fabio capì di aver fatto tante
cose stupide nella sua vita ma mai come quella volta. Stella era l’unica persona che teneva a lui, che
era venuta a cercarlo, quando tutti lo avevano abbandonato.
Si rese conto che la rabbia gli creava solo guai e niente di più.
Lei si rialzò e rimase lì ad aspettare. I due si abbracciarono talmente forte da attirare l'attenzione dei
passanti.
Da quel giorno Fabio cambiò totalmente vita: tenne sotto controllo la rabbia, diventò sincero e
onesto con tutti, aiutò sempre le persone in difficoltà. Diventò un uomo.
Anna Morando – Ilaria Zanoni
INVIDIA o NARCISO
Era una mattina di gennaio e, come ormai da otto mesi, lavoravo come apprendista alla bottega di
Andrea Verrocchio. Finora non mi avevano mai commissionato un quadro, anche se una volta ho
aiutato il mio maestro a terminare un ritratto su Lorenzo il Magnifico, figlio del nobile banchiere
Piero de’ Medici.
Naturalmente Verrocchio non mi avrebbe mai fatto finire il ritratto del volto, a me sarebbero
spettati solo i particolari dello sfondo.
Diceva che me la cavavo bene con i pennelli, ma ciò non spiegava il perché non mi avesse ancora
assegnato l’esecuzione di un quadro.
Verso l’una del pomeriggio, Andrea mi disse che avrei dovuto andare a prendere i fiorini che gli
spettavano per l’opera, commissionata da Lucrezia Donati.
Mi vestii di tutto punto: era sempre meglio fare bella figura!
Torre Donati non era molto distante dalla bottega, così arrivai dopo neanche mezz’ora. Quando
entrai una donna di mezza età mi squadrò da cima a fondo e disse in tono di sufficienza: - Ehm, lei
sarebbe? - Io risposi, cercando di tenere un tono rilassato: - Sono Leonardo da Vinci, mi manda qui
Andrea Verrocchio per riscuotere la cifra pattuita per il quadro eseguito. Sentii uno sgambettare giù per le scale, da cui poi comparve la giovane donna ritratta, avvolta da
uno scialle di seta, con in mano un pezzo di carta. Quando fu abbastanza vicina, me lo consegnò.
Presi la lettera di cambio, me la infilai nella tasca interna del camice, salutai monna Lucrezia con un
piccolo inchino e mi diressi verso la bottega del mio maestro.
Era sera, stavo cenando insieme agli altri apprendisti, quando entrò un uomo, alto e magro, capelli
scuri, lunghi fino alle spalle, gli occhi coperti dal cappuccio del mantello.
Ad un certo punto si tolse il copricapo e subito lo riconobbi: era il nobile Lorenzo de Medici.
Verrocchio si alzò immediatamente dal tavolo, si pulì i baffi unti di olio e disse: - Mio signore, entri,
andiamo subito a parlare nel mio studio. - Ed egli acconsentì.
Io continuai indifferentemente a mangiare.
Poco dopo arrivarono il maestro e il giovane Medici, Andrea mi guardò con aria di sfida, d’invidia…
Verrocchio mi prese per un braccio, facendomi cadere la coscia di pollo che stavo amabilmente
rosicchiando, sembrava nervoso…
Mi trascinò con forza nel suo studio, facendomi sedere su una sedia…
Lorenzo, in tono amichevole, rivolgendosi a me disse a gran voce: - Messer Leonardo ti affido il
compito di dipingere un ritratto della mia famiglia. Io non credevo alle mie orecchie, avevo sentito bene? Lorenzo de’ Medici mi aveva commissionato
un quadro?
Guardai Verrocchio, mi stava fissando e il suo sguardo era pieno di rancore…
La mattina dopo partii alle sei e mezza per arrivare al palazzo dei Medici in anticipo per il lavoro.
Li trovai tutti in posa su una cassapanca: Vicino alla finestra erano la madre Lucrezia Tornabuoni e il
padre Piero de Cosimo de’ Medici e il fratello Giuliano.
Preparai il mio materiale e iniziai a dipingere…
Ogni giorno, ogni mese che passava il quadro era sempre più bello ed ero proprio orgoglioso di me.
Dopo circa tre mesi il ritratto era finito e a me sembrava la cosa più bella che avessi mai dipinto.
Chiesi a Lorenzo se potevo far ammirare il quadro al Verrocchio e ai ragazzi della sua bottega ed egli
acconsentì.
Il mio maestro, osservando il ritratto, rimase come estasiato da tale bellezza, ma il suo stupore
venne subito a meno quando io timidamente gli chiesi il suo parere…
Lui, con tono di superiorità, disse che non era male per un’apprendista, ma in fondo, in fondo lo vidi
bruciare d’invidia.
Verso tarda sera l’apprendista più grande della bottega, Nicolò, mi disse che il quadro che avevo
dipinto era magnifico e che questa volta avevo superato il maestro. Io tutto orgoglioso ringraziai.
Feci per girarmi quando davanti a me trovai Verrocchio, che guardò Nicolò con un’occhiata gelida,
poi si rivolse a me e disse: - Hai proprio appreso bene da me. Questo complimento non me lo aspettavo, ma nonostante quanto detto, aveva uno sguardo non
colmo di gioia, ma di inquietudine.
Forse, pensai, in fondo, in fondo anche lui sapeva che con quel quadro avevo superato ogni sua
opera.
Lorenzo de’ Medici sembrava molto soddisfatto dell’opera e pagò la cifra stipulata.
Io ci avevo messo l’anima nel dipingerlo e tratto dopo tratto, mi chiedevo se sarei mai diventato,
magari un giorno un grande pittore.
Ilaria Zanoni, Narciso
Francesca D’Angelo – Sofia Cacciatori
TRISTEZZA o CALENDULA
Dopo la separazione dei miei, mi trasferii a Londra da New York, per motivi di lavoro di mia mamma
Katy. Avevano divorziato da poco ed eravamo un po’ tutti scossi dall’accaduto.
Il giorno dopo iniziai scuola e incontrai dei bulli per strada che avevano cominciato a tiranneggiarmi
e a rubarmi soldi e merenda. Ad un certo punto era venuta in mio soccorso una ragazzina della mia
età, che aveva mandato via i tre prepotenti e che mi aveva aiutato. Ero incantato dal suo aspetto, i
suoi capelli rossi e i suoi occhi marrone profondo che avevano appena appoggiato lo sguardo sulle
mie ferite. Mi aveva chiesto: “Ti senti bene?”. Le risposi di sì e le chiesi come si chiamasse. “Mi
chiamo Priscilla e tu?”. Risposi: “Il mio nome è Alan e mi sono appena trasferito.” Mi aiutò ad
alzarmi e andammo insieme a scuola. Al termine delle lezioni, uscimmo dal cancello della scuola e ci
scambiammo il numero di cellulare.
Quel pomeriggio ci scambiammo sms tutto il tempo e io non aspettavo altro che il giorno dopo per
rivederla. Appena sveglio feci colazione in velocità a casa e mi misi subito in cammino per andare a
scuola con Priscilla. La incontrai per strada e ci incamminammo assieme.
Per strada incontrammo ancora gli arroganti di ieri che ci dissero che erano i “padroni” della scuola
e del quartiere e che nessuno poteva contraddirli. Subito dopo, Priscilla, tirò fuori dalla borsa uno
spray al peperoncino e lo spruzzò in viso a tutti e tre. Appena si accasciarono per il dolore, io e
Priscilla iniziammo a correre verso la scuola. Ci salvammo per un pelo.
Nel pomeriggio, salutai Priscilla e corsi verso casa per raccontare l’accaduto a mia mamma. Entrai
dalla porta vidi mia nonna JoJo, che mi aspettava in lacrime sul divano. Le chiesi cosa fosse successo
e mi rispose che mia madre se n’era andata per sempre. Scoppiai in lacrime anch’io e mi accasciai
per terra. Chiesi a mia nonna come fosse successo e mi rispose che mio padre si era vendicato in
maniera barbara di mia mamma per averlo lasciato.
Dopo un po’ di settimane, di udienze, mio padre venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico ed io
andai a vivere dai miei nonni materni. Dopo circa due mesi, andai a trovare mio padre e vidi in che
stato era. Pensai: “Eccolo, l’uomo che mi ha rovinato la vita e ucciso mia madre, un uomo che mi ha
dato la tristezza più grande che io abbia mai provato”.
Andai a vivere con i miei nonni, che mi aiutarono nella vita e furono, per così dire, i miei genitori.
A venticinque mi accorsi che il sentimento di amicizia verso Priscilla, l’unica luce in quel periodo di
tristezza e dolore, si era trasformato in amore. Mi resi conto che lei era una delle due cose più bella
che mi fosse capitata nella mia vita, ma nonostante la felicità provata, il ricordo di mia madre lasciò
per sempre una ferita nel mio cuore, una scheggia di tristezza che mai passò.
Filippo Ferrante – Daniele Bragntini
GELOSIA o ROSA GIALLA
Nel 1999 in una casetta sulle alpi trentine, molto spaziosa e interamente costruita in legno,
circondata da un prato fiorito, viveva un giovane ragazzo con la sua famiglia e il suo fedele cane
Saluk. Mirco, questo era il suo nome, era un ragazzo corporatura slanciata, con capelli biondi e degli
occhi azzurri come il cielo limpido d’estate.
Aveva un fratello di nome Giovanni più vecchio di un anno. I due avevano frequentato le scuole
superiori assieme. In classe di Mirco c’era Marta, una ragazza da tutti considerata bellissima, alta e
magra con capelli biondi e splendenti occhi verdi. Giovanni ne era affascinato, tanto che ogni giorno
le stava appresso in maniera quasi fastidiosa. Un giorno, durante l’ora della professoressa Rossi, lei
di nascosto lanciò a Mirco un bigliettino colorato con delle scritte all’interno. Quando lo aprì, lesse
la poesia che gli aveva dedicato e, stupito, le rispose con un grande sorriso.
Era talmente contento che si mise a sognare il loro futuro incontro, ascoltando poco niente della
lezione che si stava svolgendo. Tornato a casa, raccontò l’accaduto a suo fratello che rimase
pietrificato dalla notizia riferitagli. Lui era profondamente attratto da Marta e da quel giorno mostrò
i primi segni di rivalità nei confronti del fratello.
Iniziarono i dispetti anche pesanti, lo spiare i messaggi che lei inviava a Mirco e lo seguiva di
nascosto per vedere dove andasse. Mirco non capiva il comportamento di Giovanni e, quando
cercava di parlare con lui, la richiesta era sempre respinta.
Un giorno Marta, vedendo l’ennesimo litigio, disse a Giovanni di smetterla di essere geloso, che lei
non lo aveva mai considerato né amato. Con il passare del tempo però, Marta si stancò della
relazione con Mirco, al quale sembrava di tradire il fratello, quindi per ritrovare la pace famigliare
decisero di comune accordo di lasciarsi.
Mirco ovviamente non era felice della situazione, ma riteneva che i legami di sangue valessero di
più di un amore appena iniziato.
Ma alla fine nessuno fu felice. Mirco provò astio contro il fratello per la scelta fatta, Giovanni non
riuscì mai del tutto a liberarsi della gelosia verso il fratello e Marta era triste perché era stata invano
sacrificata.
Daniele Bragantini, Rosa Gialla
Caterina Menegatti – Chiara Tartali
MALINCONIA o ANEMONE
Alisa era una bella ragazza russa, alta, con capelli lunghi mossi e mori, arrivata a Manchester da
piccola con una zia inglese perché i suoi genitori non potevano permettersi di crescerla a causa di
una grande crisi che aveva colpito da anni ormai la zona degli Urali. Lì aveva conosciuto a scuola fin
da piccola Alexander, un ragazzo inglese molto alto biondo, con grandi occhi verdi e lucidi; con cui
condivideva tutto: erano inseparabili. Un giorno Alisa doveva comunicargli una brutta notizia, ma
non sapeva come farlo, quindi chiese di incontrarsi per discutere da soli a Werneth Low Country
Park. Quando arrivò, Alexander era già lì ad aspettarla e, appena la vide, si accorse che il suo viso
era triste e pensieroso.
Iniziarono a parlare di quando erano bambini, di tutti i momenti trascorsi insieme, dei litigi delle
avventure vissute e delle loro esperienze, quando a un certo punto Alexander chiese perché il suo
viso fosse spento. Lei scoppiò in lacrime e in un fiato confessò quello che la turbava: sarebbe dovuta
tornare in Russia dai suoi genitori, che avevano un assoluto bisogno di aiuto per la fattoria che
possedevano. Avrebbe dovuto lavorare con loro.
A questa notizia Alexander impallidì e non riuscì a trattenere le lacrime, che scendevano fini sulle
guance e nella sua mente iniziarono a scorrere le immagini e i ricordi della loro storia.
Alisa molto dispiaciuta si calmò e spiegò più nei dettagli il perché di questa improvvisa partenza.
Arrivata la sera, i due si lasciarono e ognuno andò a casa sua. Alexander si gettò sul letto e ripensò
alle parole di Alisa e al fatto che sarebbe partita l’indomani.
Il giorno dopo Alexander si svegliò molto presto per andare a salutare la sua amica, ma con stupore,
quando fu davanti alla sua casa, si accorse che era già partita senza nemmeno salutarlo.
Si informò sul volo aereo e corse all’aeroporto con la speranza di trovarla ancora lì, ma purtroppo
era già partita. Passarono giorni senza mai un contatto.
In Russia Alisa sentì enormemente la mancanza di Alexander e così decise di sfogliare i vecchi album
di quando erano piccoli. Provava una tristezza costante nel vedere e ricordare i momenti felici
vissuti assieme.
Alisa arrivò a non mangiare più, a non uscire di casa, non parlare praticamente con nessuno. L’unica
cosa che le dava un po’ di felicità e coraggio, era scrivere sul suo diario ciò che avrebbe voluto fare:
tornare in Inghilterra e soprattutto riabbracciare Alexander, che con il suo fresco profumo riusciva a
renderla forte, coraggiosa, senza timore di nulla e di nessuno.
Passò un anno e finalmente sembrava che i suoi genitori potessero concederle un periodo di
vacanza e decise così di tornare in Inghilterra da Alexander.
Quando una mattina presto suonò il campanello, Alexander aprì la porta e con stupore sentì una
voce familiare. Riconobbe subito il volto di Alisa, così appena la vide l’abbracciò con felicità e
commozione.
Il giorno dopo si sarebbero incontrati a Sale Water Park, per un pic-nic in riva al lago.
Alexander decise di farle un regalo così girò tutta la città per trovare quello perfetto.
Appena vide Alisa, con i capelli raccolti e gli occhi lucidi dalla felicità, che lo aspettava seduta sul
prato, si sedette con lei e le regalò un anello d’argento con una perla azzurra: rappresentava il
colore della malinconia come i bellissimi occhi di Alisa, che quando lo vide i suoi occhi brillarono e
se lo mise subito al dito.
Passarono una splendida giornata divertente, facendo una passeggiata in riva al lago, dando delle
occhiate alle bancarelle sparse qua e là e, quando il sole tramontò, tutti e due decisero di tornare a
casa.
La loro vita tornò come prima con tante esperienze ed emozioni; iniziarono a vedersi tutti i giorni e
a frequentarsi sempre più spesso.
Quell’anello di quel tenue turchese rappresentava ciò che aveva provato Alisa nel lungo anno
trascorso in Russia: una triste azzurra malinconia. Le mancava disperatamente la compagnia di
Alexander, da cui non si era mai staccato dal giorno del loro bizzarro incontro su una panchina del
parco vicino a casa. Avevano sempre condiviso tutto e pochissimi erano stati i litigi, così Alisa decise
di creare un regalo speciale per ringraziare Alexander per averla sempre aspettata.
Lo invitò per un tè pomeridiano, lui si presentò puntuale come sempre e attese Alisa sotto la porta
di casa. Subito le chiese per chi fosse il pacchetto regalo che teneva in mano, lei senza dire una sola
parole glielo porse. Era di forma quadrata ricoperto da una morbida carta celeste, rilegata da un
nastrino giallo e, con il cuore che batteva più forte che mai, aspettò di vedere la sua espressione.
Era una cornice creata da lei stessa con tanti fiori di anemone, con una loro foto abbracciati.
Ad Alexander spuntò un grande sorriso sul viso e schioccò un bacio sulla guancia della bella Alisa
che rimase impietrita e sfiorò con la mano il punto dove era stata baciata. Tutti e due imbarazzati
iniziarono così a camminare per mano con tutta l’intenzione di non lasciarsi più perché entrambi
sapevano che il loro era diventato un legame indistruttibile.
Nicole Comerlati – Christian Zermiani
TENEREZZA o EDERA
Nella città di Boston viveva un ragazzo di nome Leonardo. Aveva i capelli castani, gli occhi marroni,
era di media statura, il carattere estroverso e amichevole verso tutti i suoi compagni.
Andava in una scuola piuttosto piccola, dove tutti i ragazzi si volevano bene a vicenda, ma
stranamente lui era preso un po’ in giro e parlavano alle sue spalle.
Era molto intelligente, diverso da tutti gli altri e la maggior parte delle risate dei suoi compagni
erano dovute al suo modo di vestire. Aveva sempre la solita maglietta blu e i pantaloni marrone
scuro, non portava le calze e le sue scarpe erano vecchie e rovinate: indossava quei vestiti perché
non poteva permettersene migliori.
Quando i suoi compagni lo sbeffeggiavano, lui correva a nascondersi rifugiandosi in un angolo
infondo al cortile della scuola.
Tranne i suoi genitori, solo il nonno lo rispettava. Insieme trascorrevano le giornate dopo scuola.
Leonardo andava sempre da lui e gli raccontava com’era andata la giornata.
Dopo qualche anno il nonno si ammalò, ma il ragazzo non era a conoscenza della sua grave
patologia e continuò ad andare a trovarlo come prima. Passarono i giorni e la malattia iniziò a farsi
vedere sul corpo del nonno, la pelle si gonfiava e il nonno dimagriva sempre di più.
Un giorno come gli altri Leonardo andò a trovarlo e, mentre gli parlava, il nonno si sentì male. Il
ragazzo preoccupato di tutto ciò, chiamò l’ambulanza che portò il nonno in ospedale, dove fu
rivelato a Leonardo la malattia del nonno.
Il giorno dopo il ragazzo and a scuola, ma non si sentiva bene, ciononostante non disse nulla a
nessuno e fece finta che fosse un mal di pancia.
Quando tornò a casa, il semplice mal umore di prima iniziava a farsi sentire sempre più forte e sua
madre molto preoccupata lo portò dal medico per una visita.
Il dottore gli disse: “Temo che si tratti di qualcosa di serio” e la madre si spaventò perché iniziò a
presumere che fosse la stessa malattia del nonno.
Con il passare dei giorni il ragazzo peggiorò così tanto da non voler andare a scuola per timore che i
compagni lo prendessero ancora più in giro per la sua debolezza.
Una mattina però decise di vincere le sue paure e andò. All’inizio fu tutto come sempre, ma durante
l’ora di motoria, quando nello spogliatoio si tolse la maglietta, tutti videro le macchie e molti
iniziarono a chiedergli cosa gli fosse successo.
Leonardo disse la verità subito e i suoi compagni non risero più di lui ma gli augurarono di guarire e
ogni giorno gli chiedevano come stesse.
Quasi ogni settimana, quando Leonardo tornava da scuola, la madre lo portava dal suo medico per
controllare l’andamento della malattia, che purtroppo stava peggiorando.
I suoi compagni provarono rimorso per quanto avevano detto in passato e tristezza perché
sapevano che la malattia era incurabile e decisero di stargli vicino con affetto e tenerezza. ma loro
continuavano a sperare che riuscisse a migliorare.
Trascorsero molto tempo con lui per cercare di renderlo felice e di fargli passare bei momenti
insieme.
Alla fine i suoi compagni iniziarono a conoscerlo e furono tutti gentili e teneri con lui, gli facevano
regali, sorprese e lo invitavano ad uscire con loro.
Da quel giorno lui si sentì come se per la prima volta i suoi compagni avessero provato affetto per
lui e, nonostante la sua malattia, i suoi ultimi giorni di vita furono felici.
Christian Zermiani, Edera
Giulia Corazza – Federica Piras
NOIA o BOCCA DI LEONE
Noemi stava tornando a casa da scuola, da sola, sotto la pioggia.
Si sentiva come abbandonata: i suoi genitori infatti erano partiti per un viaggio di lavoro a Hong
Kong e li avrebbe rivisti fra non meno di due settimane.
Quel giorno inoltre aveva preso un’insufficienza in matematica e sperava di trascorrere il
pomeriggio con qualche amica per dimenticare quei pensieri tristi che le affollavano la mente.
Una volta arrivata a casa lasciò cadere lo zaino sul pavimento.
Aveva molta fame, così entrò in cucina per mangiare qualcosa, poi andò in camera sua a svolgere i
tanti compiti assegnati.
Una volta terminati, prese il telefono e tentò di chiamare alcuni amici, ma nessuno rispose, così
decise di guardare la televisione. Cambiava continuamente canale perché nessun programma
riusciva ad interessarla.
Era sempre più annoiata e non sapeva che fare.
Per far passare il tempo pensò di uscire di casa. Pioveva ancora però e il rumore delle gocce di
pioggia che cadevano sull’asfalto riuscì a rilassarla. Si sentiva un po’ meglio, ma era ancora tanto
tediata. Noemi avrebbe voluto qualcuno con cui parlare di tutto quello che le stava succedendo, ma
per strada non c’era nessuno.
Appena arrivata in casa si sedette sul divano e si addormentò. Dopo solo un quarto d’ora era già
sveglia. Non riusciva a non pensare ai suoi genitori: anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti a
loro, gli mancavano moltissimo.
Noemi avrebbe voluto sconfiggere quella sensazione che la faceva sentire triste, ma non ci riusciva:
era come bloccata.
Guardò l’orologio e si accorse che era ora già cena. Quel pomeriggio le era sembrato lunghissimo!
Aprì il frigorifero per prendere una delle tante cene confezionate che sua madre le aveva preparato,
mise il piatto nel forno microonde e dopo pochi minuti iniziò a mangiare.
A un certo punto il telefono di casa squillò. Corse verso il soggiorno per rispondere e, quando alzò la
cornetta, sentì la voce allegra di sua madre Luisa.
Luisa: “Ciao tesoro! Che cos’hai combinato di bello oggi?”
Noemi: “Il solito … Mi sono annoiata molto …”
Luisa: “Mi dispiace. E a scuola com’è andata?”
Noemi: “Insomma, ho preso un’insufficienza in matematica”.
Luisa: “Pazienza, rimedierai. Ora però devo riattaccare: ho una riunione con il mio capo fra cinque
minuti. Ci sentiamo domani, un bacio!”
Noemi avrebbe voluto con tutto il suo cuore rimanere ancora un po’ al telefono con sua madre …
per la prima volta in quel giorno si era sentita felice.
Mancava poco allo scoccare delle dieci.
Andò in camera sua a fare la cartella e a mettersi il pigiama. Si infilò sotto le coperte del letto e solo
dopo dieci minuti si era addormenta.
La mattina del giorno seguente, quando si svegliò, si sentì stranamente felice: era pronta per
affrontare un’altra giornata!
Federica Piras, Bocca di Leone
Tommaso Zanotti - Davide Ballini
MERAVIGLIA o MAGNOLIA
Denny stava camminando verso il parco come sempre ansioso per il suo appuntamento con Mary.
Mary era la metà che lo completava e lui per lei aveva una cotta fin dall’asilo: bionda, occhi azzurri
come il cielo, chiacchierona, ma perennemente in ritardo.
Mentre l’aspettava, andò a sedersi su un’altalena e pensò stranamente che il giorno dopo sarebbe
stato i suo compleanno e l’anno scorso i suoi genitori gli avevano regalato cose insignificanti: questo
dimostrava quanto poco lo conoscessero.
“Sono stanco di vedere i miei genitori litigare, dicono che stanno solo parlando e poi raccontano
che non abbiamo problemi economici, ma è solo una bugia per non dirmi come stanno realmente le
cose”.
Mary ascoltava in silenzio e dopo un attimo gli disse: “Fatti coraggio, tutti abbiamo delle difficoltà.
Io non sopporto i miei fratelli gemelli, continuano a stuzzicarmi e a non lasciarmi stare…Oh,
dimenticavo, tieni, questo è per te”.
Denny scartò il regalo e lo guardò stupefatto, non sapeva che dire. Se ne tornarono a casa. I suoi
stavano ancora litigando, ma lui aveva in mano il modellino ASTROX3000, regalatogli dalla sua
amata Mary.
Il giorno era il suo compleanno: compiva quindici anni. Nella casa regnava il silenzio, nessuno gli
fece gli auguri, che fossero ancora arrabbiati? Allora uscì e andò a passeggiare in collina, colse fiori
per sua madre e intaglio un bastone per suo padre. Amava usare il suo coltellino svizzero.
Ritornò triste a casa, ancora sembrava deserta. Si recò sul giardino sul retro e … “Tanti auguri
Denny” una voce risuonò forte! I suoi genitori avevano riunito parenti e amici per festeggiarlo.
Il giorno dopo si incontro con Mary, pronta ad ascoltare le sue parole di gioia. Passeggiarono a
lungo giungendo in cima alla collina che sorgeva dietro il loro quartiere, fermandosi accanto ad un
albero. Sulla corteccia era stato intagliato un cuore con dentro scritto Mary+Danny e Mary lo
guardò con un sorriso. Davvero la vita a volte è meravigliosa!
Mattia Pasquato – Giulio Ballo
ORGOGLIO o PAPAVERO
“Ehi nipotino, vieni qua; ti voglio raccontare una vecchia leggenda che parla dell’orgoglio, così
quando proverai questa emozione saprai come gestirla.”
“Arrivo nonno Gianni! Raccontami, sono curioso.”
“Molto tempo fa, c’era un ragazzino di nome Gianluca, ma da tutti chiamato “Mini Gianlu”. Il suo
soprannome era dovuto alla sua statura. Era un simpatico e allegro ragazzino, con occhi azzurri e
capelli biondi, un grazioso nasino leggermente ricurvo, una piccola bocca con denti lucenti come
perle … insomma un bel giovanotto. Viveva con suo padre e sua madre in una piccola villetta di
campagna. A dieci anni praticava basket nella squadra locale. Erano nove giocatori, tutti abbastanza
alti, circa un metro e cinquanta centimetri, eccetto Gianluca. Lui era più basso di venti centimetri.
In quella società, nipote mio, devi sapere, che gli allenamenti si praticavano una sola volta a
settimana e quindi il ragazzo non aveva molto tempo per allenarsi e dimostrare la sua bravura
incompresa. Il coach non lo considerava perché lo riteneva troppo basso, negli addestramenti non
lo guardava nemmeno e nelle partite non lo faceva mai giocare.
Il povero Gianluca non sapeva cosa poter fare per farsi notare dal mister e, dopo numerosi tentavi,
gettò la spugna e si rassegnò. Era arrivato al punto di abbandonare la squadra, ma sul più bello di
mollare la società, il coach gli aveva detto che quattro giocatori, per la partita di domenica, non
avrebbero giocare, a causa della loro Prima Comunione. A l’udir quelle parole il ragazzino urlò, saltò
e gioì, quella era l’opportunità che sognava da tutta la sua vita.
Dal giorno seguente, terminata la scuola, si allenava per due o tre ore. Era diventato un vero
fenomeno, anzi un “mini fenomeno”. Arrivò domenica mattina l’ansia del giovanotto cresceva,
pensava che tutto il suo prezioso e faticoso allenamento non fosse servito a nulla. Era agitatissimo i
suoi nervi erano molto tesi ed ecco la campana che dava il via alla partita. Finalmente la palla giunse
a “Mini Gianlu”, con una finta riuscì a scartare il suo marcatore, fare un uno due con il suo
compagno d’ attacco, trovarsi al limite dell’area dei tre punti, fintare il passaggio, provare una tripla
… e gli era riuscita: tre a zero per la squadra locale.
Gianluca aveva preso fiducia in sé, era sicuro di fare bene. Poco dopo si era ripetuta la stessa
azione, provata diverse volte in allenamento. Questa volta però non aveva tirato subito, ma era
entrato in area e con un magnifico “ciuffo” aveva fatto entrare la palla nel canestro. La panchina e
le gradinate esplosero: i tifosi e i compagni di squadra gridavano in coro “cinque a zeroooo, cinque
a zeroooo”. Il coach era orgoglioso, molto orgoglioso, ma cercava di mantenere il suo entusiasmo
per la fine della partita.
Il primo tempo proseguiva, la squadra era in parità con la rivale per 21 pari. Si era concluso con un
canestro valente tre punti, segnato da Gianluca proprio allo scadere del tempo. Il mister aveva fatto
i complimenti alla squadra, ma aveva detto ai giocatori di dare il massimo perché la partita non era
ancora terminata. Il secondo tempo era iniziato, “mini Gianlu” aveva segnato ben altri tre canestri,
ma la squadra avversaria era passata in vantaggio. Il giovanotto stava dando il meglio di sé, però
non riusciva a portare la propria squadra in testa. Quando suonò la campana, era stanchissimo,
assetato e esausto. Il coach lo incitava a continuare perché se avessero vinto quella partita,
avrebbero vinto il campionato. A quel punto Gianluca era convinto di vincere, quindi dopo averlo
detto anche ai suoi compagni, erano tornati in campo come cinque leoni. Dovevano darsi da fare
perché stavano perdendo 45 a 33. Non dovevano subire nessun canestro e dovevano farne cinque e
una tripla. Avevano cominciato bene, subito segnando due canestri, ma nessuno da parte del
ragazzo. “Mini Gianlu” scattava, correva e sudava per la soddisfazione del mister e dei compagni.
Finalmente era andato a segno, un bel tiro dalla parte angolata dell’area. In men che non si dica,
aveva servito l’assist per il quarto canestro. Mancava poco al termine, quando gli avversari
segnarono il loro quarantasettesimo punto. Il ragazzino aveva fatto ancora per una volta un assist e
un bel canestro. Mancavano trenta secondi sul cronometro. Dopo una ripartenza avversaria, la
palla aveva colpito il tabellone ed era rimbalzata fuori. Rimessa, battuta freneticamente e arrivata
nelle sue mani, Gianluca era ripartito velocemente, aveva scartato due giocatori con una finta e gli
rimaneva da scartare due avversari, ma non c’era tempo e poi servivano tre punti per vincere.
Allora decise di entrare in area, scartare un avversario e poi riuscire. E così fece, ma prima di tirare
si girò a guardare il mister, che stava piangendo, probabilmente era sorpreso dalla bravura di
Gianluca e si stava mangiando le mani per non averlo fatto giocare prima.
Il giovanotto era rientrato in sé e aveva tirato la palla, che ora stava facendo il giro del canestro, ma
quando
stava
per
uscire
-
non
chiedermi
come
-
ma
era
entrata!
Il ragazzo, la panchina, il coach e la tifoseria entrarono in campo ad elogiare il grande fenomeno; il
ragazzo in quella occasione, caro nipotino, provava una sensazione strana, che gli suscitava lacrime
e felicità. Questo, nipote mio, è l’orgoglio.
Giulio Ballo, Papavero
Viola Benatti – Emma Raule
VERGOGNA o PEONIA
Alice non era una ragazza come le altre, la distingueva la sua bellezza. I capelli sciolti biondi e lunghi
fino a metà schiena, li occhi azzurri, il piccolo viso gentile. Il suo carattere disponibile e socievole,
l’avevano resa amica di tutti, in particolare coltivava un legame particolare con Anna. Un aspetto
comune, con occhi neri, capelli lunghi ricci e neri come la pece, un po’ bassa e paffuta, Anna era
l’amica del cuore con cui trascorrere i momenti spensierati e confidarsi segreti, sebbene non
riuscisse mai a tenerli per sé.
In una scuola è facile che il pettegolezzo si diffonda, senza pensare che dietro di sé possa provocare
dolore, rovinando a volte la reputazione faticosamente conquistata.
Alice nell’ultimo periodo di maggio sembrava diversa, stranamente solitaria. Durante la ricreazione
preferiva stare seduta su una panchina in disparte a guardare il campo da calcio, piuttosto che
andare a divertirsi con le amiche. Durante la lezione più che guardare dritto in faccia la
professoressa ed ascoltare la lezione come aveva sempre fatto, scarabocchiava sul libro e disegnava
tantissimi cuoricini. Tutti, Anna compresa, avevano notato questo comportamento.
Il sei giugno era prevista la gara di pallavolo tra le classi terze e Alice si scioglie i capelli, li scosta al
lato sinistro, indossa una maglietta a maniche corte, indossa gli shorts di jeans blu e le scarpe
Doctor Martens a motivo floreale e, sempre perfetta come al solito, va in palestra e dice
chiaramente: “Non me la sento di giocare”. L’espressione delle altre è indescrivibilmente
terrificante: “Ma come? Sei il nostro asso nella manica, tu puoi fare la differenza!” Esclama in tono
arrabbiato Anna. “Non lo so, sto male”, dice Ali arrossendo. Tutte si mettono le mani tra i capelli
come per dire “Senza Alice perderemo”. Un attimo di silenzio avvolse la palestra, Alice se ne andò
tranquilla come se non fosse successo niente. Le amiche cercavano di capire che cosa fosse
successo. “Sembra tu stia benissimo” afferma Elisa. “Lo so” risponde con un filo di voce Alice.
“Allora perché non vuoi giocare?” chiede disperata Sara. “Volete proprio saperlo?” dice con le
lacrime agli occhi. Tutte la guardano e annuiscono. “Mi vergogno. C’è Marco che fa l’arbitro e ho
paura che faccia commenti negativi su di me, lui mi piace e ci tengo molto a questa partita. Non
riesco a immaginare cosa posso combinare in campo con lui nei dintorni, vi farei di sicuro perdere la
partita. Adesso che sapete chi mi piace, ma non dovete dirlo a nessuno”. Anna annuisce e la consola
“Va bene, però tu devi giocare”. Ecco quindi la professoressa pronta a posizionare le giocatrici; Alice
come sempre in campo in centro e in panchina Martina, Sara e Agnese.
Il cuore di Alice batte a mille, le gote sono tutte rosse e si sente tremare le mani.
Inizia la partita con la battuta di Gaia. L’altra squadra riceve e fa punto. Battono loro e fa punto la
squadra di Ali perché la palla va fuori.
I punti si alternano e le squadre hanno conquistato un set a testa: ora bisogna dare il meglio di sé.
Tutti sono in ansia per il punto conclusivo, le squadre sono pari a ventiquattro punti. Regna il
silenzio perché tra poco si vedrà chi sarà il vincitore. Per l’ultimo punto, batte Alice. Prima palleggia
la palla a terra, si posiziona, si concentra, per un attimo pensa di non farcela. L’arbitro fischia, tutti
puntano lo sguardo su di lei e la palla va a finire in rete. Hanno perso. Alice scappa via e si nasconde
in bagno. Da fuori si sentono i singhiozzi, è la prima volta che perdono, oltretutto per colpa sua.
Tutti pensavano che con lei avrebbero vinto di sicuro e ora sono rimasti stupefatti. Infatti non osa
pensare a Marco, alle sue compagne, a tutti gli spettatori, a come l’avrebbero giudicata. Non
avrebbe dovuto giocare, ora si vergognava davvero! Non avrebbe mai voluto uscire da quella
stanza.
Poggia il viso alla porta e sente che fuori le compagne la prendono in giro, sparlando di lei.
Raccontano senza alcuna pudore a Marco cosa Alice provi per lui, sottolineando che il motivo della
perdita era la sua presenza come arbitro. Marco al contrario la difende, afferma che Alice è una
brava giocatrice, poi bussa alla porta del bagno e chiede ad Alice di aprire. Lei apre, vede Marco,
rimane scioccata. Corre fuori e piange, tutto il trucco le cola dagli occhi. Ora Marco sa tutto. E Anna,
perché non l’ha difesa? Qualcuno le prende la mano, si gira di scatto, Marco la guarda negli occhi e
ora davvero non si è mai vergognata tanto. “Ti amo” dice lui e se ne va. Lei rimane incantata.
Ora che fare? Nel frattempo Anna la chiama al cellulare per scusarsi e chiedere perdono del suo
comportamento. Marco la ama e la vergogna è del tutto passata: adesso può ritornare a scuola a
testa alta.
Emma Raule, Peonia
Alessandro Rancan – Davide Causevic
COMPASSIONE o SAMBUCO
Alla scuola elementare c’era un bambino solitario, silenzioso e molto gentile. Alessandro era di
media statura, biondo, con gli occhi azzurri e la solita camicia a scacchi bianchi -turchesi e i vecchi
jeans blu. Un giorno caldo di primavera lo chiamarono da casa sua per dirgli che il suo papà stava
molto male a causa di un problema al cuore. Alessandro fece velocemente lo zaino e tutti i suoi
compagni di classe lo salutarono.
Quando arrivò in ospedale andò da suo padre e lo vide sdraiato su un lettino attorniato da
infermieri e attaccato alla macchina per l’ossigeno. Lui e sua madre piangevano per le condizioni del
padre e marito. Di seguito arrivo un dottore giovane e alto che stava monitorando il padre di
Alessandro e alla famiglia disse che avrebbero dovuto operarlo al cuore, che le speranze erano
poche, ma che i medici dell’ospedale avrebbero fatto tutto il possibile per salvarlo. Dopo pochi
giorni il padre fu sottoposto ad intervento e riuscì a superarlo: nel giro di una settimana lo
avrebbero dimesso.
Quando arrivò a casa, Alessandro lo riempì di baci e ringraziò il Cielo per la fortuna avuta. Il giorno
dopo quando tornò a scuola tutti erano interessati alla salute di suo padre. Sembrava andasse tutto
per il meglio, ma i successivi controlli non diedero esito positivo: il cuore era debole e troppo
affaticato. Il padre era sempre più debilitato, così venne ricoverato.
Alla fine lui morì e tutti i suoi parenti non c’è la fecero a non piangere
A scuola Alessandro era sempre più triste. Tutti i suoi compagni comprendevano i suo dolore,
provarono pena e cercavano di aiutarlo come potevano.
Il 21 maggio, a pochi giorni dalla scomparsa del padre, ci sarebbero stato il funerale. Alessandro era
sconsolato e in testa gli frullavano tanti pensieri: ora che non c’era più il padre, la madre doveva
lavorare di più per mantenere la famiglia, quindi dovevano diventare più autonomi, dovevano fare
commissioni, dovevano andare a scuola a piedi ed infine dovevano rinunciare a cose inutili come
pacchetti di figurine e a giocattoli che guardavano una volta all’anno per poi dimenticarsene. E
come avrebbero fatto senza la dolcezza e la gentilezza del padre che era sempre disponibile,
nonostante la stanchezza, a stare con loro, giocare e divertirsi assieme?
Iacopo Corradi – Giovanni Peruso
SOLITUDINE o ERICA
Luca viveva con la famiglia in un paese vicino a Torino. Era un ragazzo timido e aveva pochi amici.
Era molto gracile per i suoi undici anni. Aveva deciso di andare in una scuola secondaria pubblica, al
contrario dei suoi pochi amici che aveva avevano scelto di frequentare una scuola privata.
Mancavano una decina di giorni all’inizio dell’anno scolastico e Luca era molto teso perché avrebbe
conosciuto nuove persone e per lui non era facile fare amicizia, ma anche perché iniziava la scuola
secondaria. Fino ad allora era stato tutto facile e invece ora iniziava il difficile.
Trascorse gli ultimi giorni con ansia e paura. Quando entrò in classe, si sentiva escluso dagli altri; i
suoi compagni iniziarono a fare conoscenza e lui era seduto in un angolo senza qualcuno con cui
parlare. I primi giorni furono molto difficili, ma si teneva tutto dentro senza dire niente ai suoi
genitori. Luca era un ragazzo silenzioso, ma dotato di molta intelligenza e già dai primi compiti in
classe emergeva la sua bravura. I suoi coetanei lo prendevano in giro dicendogli: “Secchione,
secchione, sei un secchione”. Lui non rispondeva, correva in bagno piangendo, ma continuava a
tenersi tutto dentro. Ogni giorno che passava si sentiva sempre più solo.
Sua madre lo aveva iscritto alla squadra di calcio del paese, dove si allenavano i suoi compagni, ma
Luca non era contento perché non voleva essere preso in giro dai bulli anche a calcio, soprattutto
da Paolo: il bullo più bullo della scuola che era un fenomeno col pallone.
Al primo passaggio sbagliato in partita, Marco, un amico di Paolo, si innervosì e chiese all’allenatore
di far uscire Luca. Il mister, che non era contento degli errori del ragazzo, lo mise in panchina. Lui
iniziò a piangere senza farsi vedere da nessuno, neanche da sua madre che lo incitava a ogni partita,
ma questo non bastava.
Il giorno dopo a scuola chiese a Paolo se potesse giocare con lui, ma quest’ultimo gli rispose
bruscamente “no” e buttò la merenda del ragazzo per terra.
Luca continuava a non avere amici e nessuno con cui confidarsi.
La professoressa di italiano aveva organizzato un’escursione in montagna per tutta la classe. Il
giorno della gita partirono con il pullman fino ai piedi della montagna e da lì camminarono sino al
rifugio che era situato in cima al monte. La stradina per accedere alla baita era molto ripida e
stretta. Paolo e Marco decisero di fare uno scherzo a Luca lanciandogli un sasso di media misura in
testa, ma al ragazzo cadde un braccialetto sul sentiero e mentre si chinò a raccoglierlo, il sasso lo
oltrepassò senza toccarlo. Lui si rialzò e continuò a camminare. I bulli fecero una smorfia di
disappunto. Arrivati a metà percorso iniziò un acquazzone e i ragazzi si rifugiarono sotto una roccia
sporgente, ma siccome era piccola, non tutti riuscivano a starci. Luca era uno degli ultimi, ma
comunque era riuscito a entrare. Marco lo vide e lo spinse all’esterno facendolo cadere in una
pozzanghera. Luca rimase fuori al freddo. Nessuno gli disse: “Dai! Su! Vieni che ci stai anche tu!”,
tutti pensavano a loro stessi senza preoccuparsi del ragazzo escluso. Luca si sentiva le gambe
pesanti e non sapeva se farsi avanti e chiedere di poter entrare o stare fermo ed aspettare che
finisse il temporale. Scelse la prima alternativa: si fece avanti con un po’ di timidezza e chiese:
“Posso entrare anch’io?”. Nessuno lo ascoltò e, per la seconda volta, Marco lo buttò in una
pozzanghera. Luca, questa volta, si rialzò e reagì dandogli uno spintone talmente forte da farlo
cadere. Si sentì un tonfo pesante, tutti si girarono e la professoressa vide il ragazzo colpevole tutto
bagnato e con le lacrime che scendevano dagli occhi. Capì subito la situazione, ma sapeva che
dietro a quell’ atto di violenza c’era ben altro, quindi fece finta di non aver visto e non lo punì. I
ragazzi aiutarono Marco ad alzarsi, che guardò con occhi di sfida Luca. Sapevano entrambi che non
sarebbe finita lì.
Quando tornò a casa decise di raccontare tutto ai suoi genitori che scelsero di fargli cambiare
scuola e di fargli praticare uno sport diverso: il tennis.
Il ragazzo era finalmente felice ed aveva dimenticato Marco e Paolo.
Giovanni Peruso, Erica
Elisa Righetti – Lucia Moser
RIMORSO o ACONITO
Come ogni sera si ritrovava nella camera a piangere. Da quando era in Italia nemmeno il fratello
riusciva a consolarla, nonostante anche lui provasse lo stesso e la capisse. Aveva cercato per
l’ennesima volta di convincere gli zii a tornare in Afghanistan, sempre con lo stesso risultato. Senza
che se ne accorgesse, la zia entrò nella cameretta e la guardò. Poi la scosse con delicatezza e lei
fece un salto. Viola la guardò storto e si girò dall’altra parte. “Vattene!” gridava nella mente;
“Vattene, lasciami da sola! Non ti basta farmi star male a parole?” La zia la prese per le spalle e la
girò. Le prese il viso e le asciugò le lacrime. La guardò nei grandi occhi verdi e arrossati, poi le fece
una carezza sui lunghi capelli lisci, castani e arruffati. Le labbra carnose ebbero un tremito e le
guance rosee vennero rigate da una lacrima. “Non piangere...” “Non piangere? Non piangere?!
Sarebbe un miracolo se ci riuscissi! Come pretendi che io non pianga?” La cacciò dalla stanza e si
chiuse a chiave dentro.
Niente, nessuno, nemmeno suo fratello Luca l’avrebbe fatta aprire.
Il mattino dopo, lunedì, si svegliò con uno strano presentimento, come se quella fosse una buona
giornata. Si vestì in fretta e scese in cucina, quasi calpestando Lord Tubbinghton, il suo gatto. “Ciao
piccolo.” Entrò in cucina e vide Luca che mangiucchiava una brioche, accarezzando distrattamente il
loro cane Zeus. Quando la vide sorrise e le chiese com’era andata la serata. Lei lo guardò storto, poi
prese il bricco di latte e un bicchiere.
Si erano sistemati bene. Nonostante il viaggio fosse costato un patrimonio, erano riusciti a trovare
un buon appartamento vicino alla scuola. Lo avevano riverniciato di verde e blu e in ogni stanza
Viola e Luca avevano dipinto uccelli o altri animali. Ora stava guardando il gregge di pecore che
affollava il muro della cucina quando l’occhio le cadde sull’ora. Finì il latte e andò in camera. Le
sette e mezza. Ce l’avrebbe fatta. Preparò la cartella e se la mise in spalla. Scese di corsa le scale e
attraversò l’atrio con gli sguardi di alcuni gufi incollati alla schiena. Spinse dentro il gatto e chiuse la
porta. Salutò suo fratello che la guardava dalla finestra della sua stanza e si incamminò.
Appena svoltato l’angolo, vide Noa, il suo compagno di banco. Non aveva niente contro di lui, anzi,
era carino con lei. Lo salutò da lontano e lui, scherzoso, si guardò intorno con faccia stupita e si
indicò il petto con la bocca spalancata. Viola rise e si avviarono insieme, parlando. Davanti a scuola
videro Maria e Andrea, due ragazze che sedevano nella fila dietro di loro in classe. Si salutarono ed
entrarono, poco prima che suonasse la campanella.
Le prime tre ore passarono lente, ma finalmente arrivò la ricreazione. Noa, Andrea e Maria si
sedettero su una delle panche in fondo al cortile, mentre Viola cercò un gruppo a cui aggregarsi, ma
sentendosi chiamare, si voltò verso il trio e sorrise vedendo Noa che si sbracciava, chiamandola ad
andare da loro. Trascorsero il quarto d’ora della ricreazione a parlare di tutto e a ridere.
Durante le due ore di arte si trasferirono nell’aula di artistica e i quattro si sedettero vicini. La
professoressa assegnò un disegno da dipingere e subito Viola si mise al lavoro. Arrivata a metà si
fermò, con la mano che le doleva. Guardò gli altri e vide che erano a malapena a un quarto. Andrea
alzò lo sguardo sul suo disegno e spalancò la bocca. “Come hai fatto?” “Beh, sai, con la matita...”
Noa ridacchiò e tutti andarono avanti. Poco prima del suono della campanella misero via i fogli e
prepararono le cartelle. Poi si sistemarono davanti al cancello per poter uscire per primi. Tornarono
a casa insieme e si diedero appuntamento per trovarsi nel pomeriggio, verso le quattro al parco.
Lì parlarono del più e del meno e alla fine Viola venne a scoprire che Andrea era bravissima a
cantare, Noa a ballare e Maria a raccontare storie.
Una parola tira l’altra e lei raccontò di come si fosse trasferita dall’Afghanistan, di come ne sentisse
la mancanza e dei suoi zii che sembravano non aver rimorso per questo. Lei sì invece, un terribile,
opprimente rimorso.
Andrea allora si alzò e le prese la mano, sorridendole. Maria annunciò: “In nome dell’assemblea dei
Casinisti (che saremmo noi), giuriamo solennemente di aiutarti nel tuo caso di malinconia, cercando
di convincere i tuoi zii a tornare in Afghanistan!” Poi fece una vocetta da segretaria dicendo parole a
caso e assicurando i ‘clienti’ che il servizio si sarebbe concluso con successo, facendo scoppiare a
ridere gli altri. Verso le sei si salutarono e si diedero appuntamento per andare a scuola insieme il
giorno dopo, che trascorse esattamente come quello e come i seguenti.
Il sabato, dopo essersi incontrati al parco, Noa e Viola stavano tornando a casa parlando quando un
gruppo di ragazzi si avvicinò a loro con aria minacciosa. Quello che doveva essere il leader, si mise
davanti a Noa e lo fissò negli occhi. Viola lo riconobbe subito. Si chiamava Assef e con la sua famiglia
si era trasferito con loro. Ora che ci pensava, aveva visto spesso suo zio e il ragazzo parlottare sul
balconcino che dava sul mare della loro casa. Lui si mise le mani sui fianchi e disse con voce forte:
“Lasciala in pace.” “Perché?” “Noa...” “Zitta tu. Lasciala in pace, perché altrimenti ti faccio pentire di
averle mai rivolto la parola.” “E come fai?” “Noa, andiamo...” “No, aspetta Viola. Voglio capire come
me la farà ‘pagare’.” “Abbassa la cresta ebreo, perché mi toccherà farti male sul serio” “Ebreo?”
Noa la guardò. “Non ora Viola” “D’accordo. E tu- disse, rivolgendosi ad Assef – lascialo in pace, o ti
denuncio.” “Le donne non hanno potere di nulla- -In Afghanistan, forse, ma siamo in Italia Assef. Ho
forse più potere di te di farlo” Assef la guardò negli occhi. Rimase per un po’ a fissarla e poi distolse
lo sguardo. Guardò in cagnesco Noa e fece cenno al gruppo di andarsene. Li guardò un’altra volta e
se ne andò. Viola li osservò svoltare l’angolo, poi si voltò verso Noa e disse: “Ebreo?” “È una lunga
storia” disse lui sospirando.
Da quel sabato Viola riuscì a imparare ad amare l’Italia. E non provò più rimorso per l’Afghanistan.
Anzi. Appena ne sentiva parlare, sorrideva.
Nicola Giarola – Roberto Busato
STIMA o SALVIA SPLENDENS
Luca, pur essendo una schiappa, giocava in una squadra di calcio molto forte. Aveva un padre che
era calciatore di professione, però purtroppo il figlio non aveva ereditato le stesse doti. Tuttavia
amava il calcio, si divertiva a praticarlo. In ogni partita giocata veniva insultato e deriso, ma era
l’unico portiere della squadra e quindi aveva l’obbligo morale di giocare.
Un giorno, durante una partita, una palla partì colpendogli il naso così forte da farlo svenire.
Quando si risvegliò, si ritrovò in ospedale con trauma cranico e un collare per immobilizzare il collo.
Doveva tenerlo per dieci giorni e non avrebbe potuto giocare a calcio per un mese o almeno fino a
quando ci sarebbe stato dolore. Assisteva quindi ad allenamenti e partite dalla panchina, ma era
dispiaciuto di non essere con i suoi compagni di squadra a divertirsi, sebbene fosse di poca utilità.
Dopo qualche giorno l’allenatore gli comunicò che avevano trovato un nuovo portiere, non potendo
rimanere a lungo senza, e il suo ruolo era stato assegnato, niente di meno, ad Andrea.
Andrea, il suo acerrimo nemico!
All’inizio erano stati amici inseparabili, ma dopo un grosso litigio, finito con una lotta, non si più
frequentati né parlati. La notizia, quindi rese triste Luca: se avessero visto Andrea giocare, per lui
non ci sarebbe stata alcuna speranza di essere accolto nuovamente nella squadra. Si promise che si
sarebbe impegnato a giocare in qualunque ruolo, anche a costo di farsi veramente male.
Arrivò il giorno in cui si dovette togliere il collare e il pomeriggio stesso, dopo aver svolto i compiti,
andò al campo da calcio vicino casa sua, dove si allenò duramente. Quando tornò a casa era pieno
di tagli, ma nonostante tutto nei giorni successivi continuò ad allenarsi sempre più duramente.
Un giorno, tornando a casa dopo, trovo per strada Andrea. Lo seguì fino a casa sua dove vide sua
madre che lo picchiava dicendo che non si comportava bene e non era in grado di fare nulla.
Vedendo ciò capì perché gli avesse rubato il ruolo: voleva dimostrare a sua mamma che era in
grado di fare qualcosa e che non era un fannullone che sapeva combinare solo guai.
Il giorno seguente Luca tornò ad allenarsi al campo e lì trovò Andrea che piangeva. Il ragazzo,
appena lo vide, scappò e si rifugiò su un albero. Luca allora andò a parlargli. Gli raccontò che sapeva
cosa succedeva con sua mamma, che lo capiva e che se voleva potevano giocare a calcio insieme.
A lui piacque l’idea. Il martedì successivo andarono all’allenamento di calcio insieme. A Luca fu
assegnato il ruolo di attaccante e, nessuno voleva crederci, segnò il suo primo goal. Forse era
portato per quel ruolo e dopotutto non era per niente un schiappa. Forse quei duri allenamenti
erano serviti a qualcosa.
I giorni passarono e le partite si susseguirono. Nell’ultima partita del campionato, che segnava il
vincitore della coppa, Luca giocava da titolare e tra gli spettatori c’era anche l’osservatore della
squadra della città: l’Hellas Verona. Luca lo sapeva e per questo era molto emozionato.
Alle prime azioni aveva le gambe bloccate e sbagliò un goal facilissimo. Col passare dei minuti si
sbloccò e iniziò a giocare come aveva sempre fatto. Nel pubblico c’era anche il padre che vedendo il
figlio giocare si commosse. Dopo molto tempo del suo ritorno in campo gli arrivò un messaggio
dalla federazione calcistica Hellas Verona. La lettera chiedeva se volesse partecipare a un provino
per entrare a far parte della squadra. Il provino andò benissimo e non ebbe problemi a farsi
accettare nella squadra. Lui voleva sicuramente andare al Hellas Verona, ma prima voleva
consultare il suo migliore amico. Andò a chiedere ad Andrea se a lui andasse bene la sua
convocazione. Luca, infatti, era felice perché poteva diventare un giocatore molto famoso, ma era
allo stesso tempo triste perché non avrebbero più giocato a calcio insieme. Andrea gli disse di
accettare senza indugi.
Un giorno mentre Andrea stava giocando a calcio da solo, gli comparve davanti Luca: non si era
dimenticato del suo amico e, avendo un po’ di tempo libero, era tornato per giocare assieme.
Andrea andava a vedere tutte le partite giocate in casa e tifava per lui.
Tra gli spettatori allo stadio c’era sempre anche il padre di Luca che un tempo l’aveva visto rompersi
il collo per un tiro. Ora invece suo figlio aveva trovato la sua strada da solo al di là di ogni aspettativa
e lui, come padre, era orgoglioso, la sua stima era immensa.
Roberto Busato, Salvia Splendens
Elisa Rose Arcosti - Gaia Barbieri
FELICITA’ o FIORDALISO
La sveglia era suonata: cavoli, era il primo giorno di scuola alle medie! Da tutta l’estate aspettavo
questo momento, ma allo stesso tempo cercavo di scordarmelo. Era un insieme di emozioni
contrastanti e mi sentivo confusa. Misi i miei jeans preferiti ed una maglia scollata con sopra
disegnato un gatto. Mangiai i soliti cereali, ma in porzione ridotta e uscii di casa presto perché ero
curiosa di scoprire come fosse la scuola e in che classe sarei finita.
In macchina la tensione saliva sempre di più. Mi chiedevo chi sarebbero stati i miei compagni e se
mi fossero stati simpatici. “Forse ci sarà anche Eleonora in classe mia … altrimenti sono davvero
spacciata”. Già, avevo una migliore amica e non sapevo se fossi riuscita a sostituirla in caso non
fosse stata in classe mia. Ci conoscevamo da quando eravamo piccole e abbiamo trascorso l’infanzia
insieme. Siamo inseparabili, come le maglie di una catena di ferro.
Essendo timida, Eleonora era sempre lì a darmi coraggio nelle interrogazioni. Mi incitava con piccoli
gesti da sotto il banco, mi difendeva e mi aiutava ad essere me stessa e a non cercare di essere
come lei, solo perché era più coraggiosa di me. Era di più di una migliore amica, era una medicina
contro la timidezza e la tristezza.
Neanche il tempo di pensare a come sarebbe stato senza e di cosa mi sarebbe mancato di più di lei
che era già ora di scendere.
Mi ritrovai davanti a un cancello enorme.
Era spaventoso nella sua maestosità, tanto che mi parve di vedere il cancello di un orfanatrofio. Mi
venivano i brividi solo al pensiero. “Ma no, che pessimista: sono solo ad una scuola”.
Mi feci coraggio ed entrai. Percorsi il vialetto con ai lati dei fiori, i fiordalisi. Li osservai, notai che
erano bellissimi e questo lo interpretai come un segno positivo: forse la scuola non era così brutta
come stavo immaginando.
Mi guardai intorno e vidi un grande cortile pieno di alunni: erano i “primini”. Infatti, ogni anno, gli
insegnanti erano soliti accoglierli con un discorso di benvenuto e di augurio di un buon inizio
scolastico.
Mi sedetti su una delle mille sedie messe in fila, proprio vicino a Eleonora. Aprii bocca per salutarla
dopo la lunga estate trascorsa senza di lei, ma la Dirigente richiamò l’attenzione di tutti per iniziare
il suo lungo, solito e noioso discorso. Almeno a me sembrava noioso, ma c’era anche chi ne
rimaneva commosso come Luca, uno dei tanti miei ex compagni di classe delle elementari venuti
qui, nella cosiddetta “Scuola più bella del mondo”.
Iniziò il discorso in cui si ricordava di studiare, di ascoltare, di eseguire i compiti e di rispettare le
regole.
-Che noia! - Confidai ad Eleonora.
- A chi lo dici Aurora! - Ribatté sbuffando.
Fulminate da un’occhiata di una professoressa diventammo rosse. Eravamo abituate ad essere le
preferite delle maestre e a non essere mai riprese. Non pensavo che i professori fossero così severi
e bravi a sgridare gli alunni con delle occhiate spaventose.
Arrivò il momento più importante della giornata: ciascuno sarebbe stato diviso nella propria classe.
Finalmente prestai attenzione, dopo tutto quello sbuffare!
L’attenzione non era mai stata una delle mie migliori qualità e me ne vantavo. Andrea, un mio
compagno di classe delle elementari, era sempre attentissimo alle spiegazioni delle maestre e
ascoltava tutto per filo e per segno. Non volevo diventare come lui: secchione, taciturno e
antipatico. “Sarà pure intelligente, ma come lui non voglio essere!” Pensavo sempre durante le
verifiche o nelle interrogazioni, sentendolo parlare, spiegando tutto nei minimi dettagli.
La Dirigente passò la parola ad una professoressa che iniziò a chiamare in ordine alfabetico gli
alunni nelle proprie classi. Era bionda, alta e snella con una voce melodica che mi diede tutt’altra
idea dei professori. Indossava una sciarpa verde con dei fiorellini gialli e bianchi. Ogni tanto diceva
delle battute per calmare la visibile tensione degli alunni.
Io ero capitata in 1aA e aspettavo impaziente di sapere dove sarebbe andata Eleonora. Ero ansiosa e
la nostra agitazione e preoccupazione saliva sempre di più, fino a quando chiamò: - Eleonora
Bianchi, classe … - (il nostro cuore batteva a mille) – 1aD-.
Il mio cuore si fermò e pensavo ai ricordi che avevo delle nostre avventure: l’estate a Venezia,
l’inverno in montagna a giocare con la neve … che bei tempi! Però ora era tutto finito, tutto sarebbe
andato nel dimenticatoio.
La professoressa Savoldi accompagnò la classe 1aA fino all’aula, spiegandoci che lei sarebbe stata la
nostra insegnante di italiano e storia.
Entrai triste con i miei nuovi compagni e non ascoltavo la professoressa che ci introduceva
l’esperienza della scuola media. Pensavo solo alla mia migliore amica, come sarebbe stata senza di
lei e se fossi riuscita a dimenticarla.
Ci diede un fogliettino da attaccare al libretto per le comunicazioni scuola-famiglia che
rappresentava l’orario scolastico con tutte le materie. Non notai neanche che, a differenza
dell’anno precedente, le lezioni erano divise per ogni singola ora e non per due. I libri da portare
erano di più e il peso nello zaino raddoppiava. “Quanti libri inutili per tante materie. Lo sono anche
di più senza che io ed Eleonora ci scarabocchiamo sopra!”.
Alle 13:00 la campanella suonò e tutta la scolaresca si precipitò al cancello per tornare a casa.
Varcai la porta d’ingresso di casa mia distrutta dal dolore, troppo forte da controllare. Raccontai a
mia madre che era stata un’esperienza bellissima, ma in realtà ero consapevole che non era stato
così e che era solo un enorme bugia. “Speriamo non mi cresca il naso come Pinocchio!” Pensai
ironicamente rallegrandomi.
Era ora di cena, non avevo fame. Andai in camera, trovando la scusa che dovevo studiare storia. Le
dissi che ci tenevo ad essere preparata i primi giorni di scuola, sperando che lei ci cascasse.
La mattina seguente mi alzai di pessimo umore. Mi avviai lungo vialetto che portava alla scuola
molto lentamente. Osservai nuovamente i fiori, sembrava quasi che mi parlassero e che mi tirassero
su di morale. Mi sentii osservata, mi girai, mi assicurai che non vi fosse nessuno e ne strappai uno
per annusarne il buon odore. Speravo che, come avevano fatto il giorno prima, mi rallegrassero.
Qualcuno mi toccò gentilmente la spalla, mi girai spaventata di scatto e vidi un visino docile, dagli
occhi azzurri come il mare e labbra rosee come una delicata rosa.
Diventai rossa perché non sapevo cosa dire o come reagire a qualsiasi cosa lei mi avesse detto. Mise
la sua bocca tra le sua biancastre e vellutate mani. Mi bisbigliò: - Anche io ne ho preso uno sta
mattina-.
Sorrisi e mi presentai. Lei, con un sorrisino furbetto e misterioso mi disse: - Io ti ho già vista e so il
tuo nome, ma tu non sai il mio perché ieri eri troppo immersa nei tuoi pensieri per prestare
attenzione alla professoressa che aveva pronunciato il mio nome. Scoprirai chi sono in classe-.
Incuriosita, corsi subito verso l’insegnante che aspettava la classe 1a A. Andammo nell’aula, al
secondo piano e la professoressa fece l’appello. Chiamò una ragazza, Ilaria Rossi, che alzò la mano
svelta e attenta. Mi fece l’occhiolino e io ebbi una sensazione strana come se sapessi già che era
simpatica.
Arrivata la ricreazione mi venne incontro e mi disse:
-
Che hai di merenda? –
-
Ho delle schiacciatine alla pizza. Tu? –
-
Ho una mela succulenta. Mia mamma mi dice sempre di mangiare cose sane, come la
verdura. La odio! –
-
Ah ah ah! – e ci mettemmo a ridere.
Scoprii che aveva un fratello di nome Ettore di nove anni e una sorella, Debora, di quindici, che
aveva già il fidanzato ed andava in giro con il suo motorino.
-
Che romantico! Non sei un po’ gelosa? –
-
Si, un po’, ma solo perché è bello e simpatico. Anch’io vorrei avere un fidanzato così!
-
Scommetto che ne troverai uno facilmente, Ilaria! –
-
Spero … anche tu non sei male. Staresti bene con mio fratello, se fosse più grande! -.
Driiiiiiiiiiiiiin! Era già finita la ricreazione ed ero sopravvissuta senza Eleonora. Un miracolo! Non
avrei mai pensato di rimanere senza di lei un giorno e di non andare in panico o in disperazione. In
più avevo conosciuto una ragazza misteriosa, piena di sorprese e dal carattere più buono di
qualsiasi persona al mondo.
Salii in classe sentendomi diversa, nuova, provavo un’emozione particolare. Mi sentivo come in un
mondo fantastico tutto mio. Mi sentivo come se fossi andata al mare ed avessi preso la conchiglia
più bella del mondo o come se avessi pescato un pesce d’oro che esaudisce tutti i tuoi desideri.
Osservai quel fiore che avevo nell’astuccio con tutti quei petali di un blu mare e sorrisi. Strano, ma
vero. Tutti i miei pensieri erano positivi: avevo iniziato le scuole medie e non ero più una bambina,
avevo una nuova migliore amica strepitosa e mi tenevo sempre in contatto con Eleonora … cosa
volevo di più dalla vita?
Niente, il mio paradiso era quello!
Gaia Barbieri, Fiordaliso
Daniel Kaempfer – Ovidiu Radu
PERDONO o ASPODELUS
"Oggi vi racconterò la storia di un ragazzo, Lucio, e del suo migliore amico, il suo cane Giurino" disse
la mamma ai due figlioletti Daniel e Ovidio, che si rallegrarono per la storia che la mamma
racconterà loro. "Lui è Lucio e questo è il suo amico quadrupede Giurino: un doberman, razza molto
discussa, considerata brutale e spesso usata per farne una macchina bellica. Lucio ha un rapporto
lungo e complesso rapporto con Giurino, una storia fatta di belli e brutti momenti. Tempo fa Lucio
subì un incidente che lo rense invalido e non gli permise più di lavorare. Seguirono settimane di
buio, di sere che cedevano troppo presto alla luce del giorno. Poi un giorno arrivò Giurino e il sole
rubò qualche ora alla notte. Passò il tempo e un giorno tra Lucio e Giurino si spezzò l’idillio …
"Mamma, cos’è l’idillio?" chiese Daniel. La mamma rispose "Significa: felicità, come una poesia,
infatti in greco significa proprio ‘piccola composizione’. Comunque andiamo avanti … Un
movimento interpretato male, un’occhiata che ferisce, un rimprovero troppo aspro o forse chissà …
Sta di fatto che il cane lo aggredì in modo violento. Giurino, lo morse duro. Braccio e piede subirono
lesioni profonde che costrinsero il ragazzo al ricovero in ospedale e il cane dentro un recinto del
canile di Genova. Lucio era pieno di rabbia: aveva accolto quel cane maledetto e veniva ripagato in
questo modo! Un dolore sordo lo pervadeva, a tratti colorato con l’odio più nero.
Ma in ospedale Lucio ebbe il tempo di riflettere. Non si sottrasse alle sue responsabilità. Forse
aveva sbagliato qualcosa nell’educazione di quel cane, forse era un cane sbagliato, forse era
violento, ma lui non lo voleva perdere. Non si abbandonano gli amici migliori, non gli si negano il
perdono e un abbraccio alla prima occasione, come non lo si fa per il figlio che ha trovato la cattiva
strada. Ma i figli non sono cani, o no? Dipende. Per molte persone solitarie, anziane, il cane non è
solo un animale, ma un amico per la vita. Lucio decise così che il suo cane era lo specchio
dell’educazione che lui gli aveva dato e quindi, una volta uscito dall’ospedale, decise di andare al
canile. Tante scartoffie, tanti discorsi con i gestori del posto e poi si portò fuori Giurino. Gli occhi del
cane erano languidi, pronti a chiedere scusa. Lucio dimenticò l’accaduto, pronto ad offrire una
seconda opportunità all’animale.
"E dopo questo, cosa successe mamma?" chiese Ovidio. "Ora è tardi. Ve lo racconterò un’altra
volta…"
Matteo Ballini – Matteo Montolli
NOSTALGIA o PERVINCA
“Vai a chiamare il nonno, Jason!” Urla la madre al figlio. “Digli della festa di questa sera, devono
venire tutti i parenti, oggi si festeggia il tuo compleanno.”
La madre distoglie lo sguardo dalla camicia che sta stirando, per guardare il ragazzo uscire dall’uscio
di casa.
La sera scende velocemente e diventa subito buio, un mantello nero avvolge tutta la città e ben
presto la famiglia Morrison si ritrova unita intorno ad un solo tavolo, ci sono tutti i parenti del
piccolo Tom, il festeggiato.
La festa procede come aveva sperato la mamma.
Tom riceve numerosi regali.
La festa non finisce tardi perché il cuginetto Jack deve andare a letto presto, ha solo due anni.
Nell’angolino buio, rimane una sagoma ma non si riconosce il viso perché la luce del caminetto non
riesce a rischiarare il viso, ma si sente solo il suo respiro, lento e profondo.
Tom si avvicina, la figura si muove ed esce dal cono d’ombra.
È il nonno Fedric che sta piangendo.
All’improvviso inizia a parlare e dice: “Quando avevo la tua età, non restavo qui in casa a giocare alla
playstation, uscivo a lavorare nei campi, alcune volte scappavo e con il nonno di David rubavo le
caramelle dalla drogheria.
Mi ricordo una volta … era calata la sera da ormai due ore e io ero con la mia fidanzata, tua nonna
Lucy. Avevamo cenato nel ristorante più sublime della città “Da Berry” per poi scappare dalla
finestra del bagno per non pagare il conto. Ci siamo fatti accompagnare a casa con la luna piena con
la vecchia macchina di mio cognato Frank … Ah che bei tempi, che bei tempi.”
Il nonno farfugliava cose a tratti incomprensibili, pensava ormai da anni che la sua vita non servisse
più a niente: era perso nei ricordi, sembrava come se un buco gli si fosse aperto nel cuore. Come un
disco rotto ritornava costantemente su quei tempi che lui tanto ammirava.
In quel momento le sue labbra si tirarono in un sorriso sghembo e un ultimo respiro uscì dalla
bocca. Il suo corpo cadde a terra.
Dal viso di Tom scese una lacrima che disse più di mille parole e ricordò per sempre il nonno Jason
come un eroe, il suo particolare eroe.
Matteo Montolli, Pervinca
Carlo Zarattini – Adele Annecchini
SERENITA’ o ARTEMISIA
Era un mercoledì, un triste e cupo mercoledì pomeriggio. Ero appena tornata da scuola. Entrata
dalla porta, salutai ad alta voce, ma la mia voce echeggiò nella casa. Non ebbi risposta. Appoggiai la
cartella sul divano e mi voltai. Restai stupita nel vedere i miei genitori seduti rigidi, come due pali, al
tavolo della cucina che mi fissavano. Percepii un’aria di tensione, quella situazione mi stava
mettendo a disagio. La mia preoccupazione aumentava, mi chiedevo cosa fosse successo o cosa
avessi fatto di male perché avevano tutta l’aria di dovermi sgridare e molto.
Mi diressi verso loro un po’ titubante. “Siedi” mi disse mio padre con la voce più seria del solito.
Sedetti come era stato richiesto e subito mia madre prese la parola. “Tesoro, tu … tu hai notato che
in questi ultimi mesi io e tuo padre discutiamo spesso e non andiamo molto d’accordo, vero? Per il
bene della famiglia non possiamo andare avanti così, lo capisci vero, Maria?” Non sembrava più lei,
era diversa. Era la prima volta che la sentivo con quella voce titubante e così insicura di se stessa,
ma lo capii subito. “Io e tuo padre abbiamo deciso di non vivere più sotto lo stesso tetto per molte
ragioni”. Mano a mano che mia madre parlava, cominciai a stare sempre peggio. Tutto un grande
giro di parole per dirmi che si sarebbero separati. Cominciai a sudare freddo, mi tremavano un po’
le mani e il cuore mi batteva forte come quando hai un’interrogazione di storia o peggio ancora di
scienze e non hai studiato nulla.
Nella mente regnava una gran confusione. Ero delusa, delusa da loro perché questo avrebbe
cambiato la mia vita per sempre. Niente più momenti felici di famiglia o vacanze insieme che a me
piacevano tanto, niente di niente. Sempre sola con mamma o con papà. Non credevo di meritare
quello. Li avevo sempre ascoltai, con loro non avevo segreti, li rispettavo sempre e da scuola
portavo a casa buoni voti. Non come alcune mie compagne di classe i cui genitori non si
interessavano di loro e nemmeno le consideravano. Ero davvero delusa. I miei continuavano a
parlare e a dirmi che sarebbe andato tutto bene, ma più tentavano di rassicurarmi e più io mi
convincevo che sarebbe stato un disastro. Mi sentivo come il cuore stretto in una morsa e non
riuscii più a trattenere le lacrime dentro gli occhi. Ad un certo punto mi alzai con le guance rigate, li
guardai e dissi loro che mi avevano delusa, poi corsi in camera mia e mi chiusi a chiave. Rimasi lì per
tutta la serata, piangevo ed ero arrabbiata con loro. Non riuscivo ad accettare la loro separazione.
La mattina dopo, quando mi specchiai, presi spavento. I miei capelli lisci ed ordinati si erano
trasformai in un ammasso di fili arruffati e scompigliati, le mie carnose labbra erano tutte
screpolate, i miei occhi marroni erano gonfi e rossi per il troppo pianto, odiai anche le mie lentiggini
che di solito mi davano soddisfazione. Cercai di rimediare il mio aspetto raccogliendo i capelli a
coda di cavallo e truccandomi un po’, ma non cambiò nulla. Mi trascinai per la casa e mi preparai in
fretta perché volevo uscire il prima possibile.
Per circa due settimane queste furono le mia mattine. Facevo sempre fatica a incominciare la
giornata. Ero di malumore e, anche se a scuola cercavo di essere più normale possibile, venivo
sempre richiamata dai professori per la mia continua distrazione. Le mie compagne non facevano
che ripetermi “Sei strana!” Oppure “Tutto bene Maria?” O ancora “Ti è successo qualcosa?”.
Intanto a casa con mia madre non parlavo molto e non rispondevo quasi mai ai messaggi di mio
padre, che nel frattempo si era trasferito a casa della nonna.
Furono delle settimane terribili perché non riuscivo a sfogarmi con nessuno, nemmeno con le mie
compagne che non si erano dimostrate per niente vere amiche. Continuavano a sottovalutare il mio
stato d’animo e parlavano solamente di ragazzi e continuavano a mettersi in mostra e a parlare di
stupidaggini.
La mia tristezza e la mia angoscia finirono grazie ad una persona: Aischa.
Aischa era una ragazza solare e gioiosa, piuttosto bassa di statura, diciotto anni d’età. Aveva la
carnagione scura che contrastava con i suoi denti bianchissimi, la bocca carnosa dello stesso colore
della pelle sempre illuminata da un radioso sorriso. Aveva gli occhi di un grigio perla, i capelli corti e
il naso tipici africani. La vidi per la prima volta ad un incontro di catechismo (ci andavo solo per
distrarmi e stare fuori casa il più possibile) dove era venuta per una testimonianza. Ci raccontò la
sua incredibile e commovente storia. Era nata in un paese nell’Africa nera dove, come la sua gente,
viveva con la sua famiglia in una capanna come tante. Un giorno, in una guerra tra le tante guerre
tra tribù che caratterizzavano il Centro-Africa, i suoi genitori e il suo fratellino di soli due anni
persero la vita su una mina anti-uomo. Aischa rimasta orfana di padre e madre e venne allevata
dagli zii in Africa e con loro aveva raggiunto l’Italia, dove ormai viveva da dieci anni.
Mentre descriveva la sua storia, io mi immaginavo tutto. Vedevo bombe, capanne distrutte …
pensai ai miei genitori e mi venne voglia di piangere e di correre ad abbracciarli. A fine incontro
anche se un po’ timidamente, mi avvicinai e le raccontai la mia situazione con la speranza che mi
desse dei consigli e che mi aiutasse.
All’inizio ero un po’ titubante, poi cominciai e trovarmi a mio agio e a parlare disinvolta. Per la prima
volta in quelle strazianti settimane mi sfogai con qualcuno. Lei mi ascoltava attentamente con quei
suoi occhi grigi fissi su di me.
Quando finii di raccontare, mi disse che mi stavo sbagliando, di provare a mettermi nei loro panni.
Dopo quell’incontro cominciai a osservare mia madre. La vedevo sempre stanca e una volta la vidi
guardare la mia foto con papà e sospirare. Lì capii che anche lei stava male e che, come io avevo
bisogno di lei, lei aveva bisogno di me.
In quel momento capii che era tempo di sistemare tutto. Le parlai e lei mi spiegò i motivi della loro
separazione, che io non avevo voluto ascoltare. Dopo una lunga chiacchierata ci abbracciammo
felici.
In quel momento mi sentii leggera, avevo trovato la tanto attesa serenità!
Adele Annechini, Artemisia