Lezione 3 Genetica/sociobiologi/La sesta estinzione…

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Lezione 3 Genetica/sociobiologi/La sesta estinzione…
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La genetica
di Saverio Forestiero
La storia della genetica si può dividere in due fasi: una precedente e l’altra
successiva al 1953, anno in cui viene scoperta la struttura del DNA, la molecola
della vita. Nella prima parte del secolo vengono poste le basi della genetica
classica, nella seconda parte la genetica diventa molecolare conseguendo risultati
spesso inattesi, culminati nella conoscenza anatomica del genoma della nostra
specie. Accanto ai biologi hanno partecipato e partecipano alle sue imprese
scienziati con le formazioni più diverse: donne e uomini provenienti dalla
matematica e dalla fisica, dalla chimica, dalla medicina.
Il microscopio utilizzato da Mendel
È conservato nel museo
dell’abbazia di Saint Thomas a
Brno, Repubblica Ceca. Nel
giardino del convento di Brno,
dove entra come monaco
agostiniano nel 1843, Mendel ha
l’opportunità di compiere i
primi esperimenti sulle piante di
pisello (Pisum sativum) che lo
portano alla formulazione delle
leggi sulla trasmissione dei
caratteri genetici.
Uno sviluppo a ritmi travolgenti
La parola genetica fu impiegata per la prima volta nel 1906 dal biologo inglese William Bateson (1861-1926), il fondatore della genetica moderna, in una conferenza sull’ibridazione tenuta alla Royal
Horticultural Society di Londra per indicare la scienza “dell’eredità
e della variazione”: dunque lo studio scientifico dei fattori responsabili delle somiglianze e delle differenze osservabili tra individui
imparentati per discendenza. Con le loro prime ricerche i genetisti
del Novecento riescono a stabilire che la comparsa in un individuo
dei caratteri ereditati dai genitori è controllata da unità discrete che
chiamano geni; che la manifestazione di forme differenti di un carattere sono dovute direttamente a forme alternative dei geni dette
alleli; e, ancora, che, rispetto a un certo carattere, un individuo può
essere omozigote (quando le sue cellule contengono due copie
uguali di un gene) oppure eterozigote (se le copie sono differenti).
A partire da queste e da altre semplici e tuttavia fondamentali acquisizioni, la genetica si sviluppa a un ritmo travolgente, particolarmente nella seconda metà del secolo e svelando anche i meccanismi
dell’evoluzione biologica si è posta al centro della biologia del Novecento.
Per la maggior parte del tempo i genetisti si sono concentrati nell’identificazione di singoli geni e nella caratterizzazione delle loro funzioni; da una ventina d’anni, però, si è andata rafforzando la convinzione che sono veramente pochissimi i geni che agiscono da soli, e che geni e proteine (che dei geni sono il prodotto diretto) interagiscono continuamente tra loro. Il destino biologico di ogni organismo, dal lievito di birra alla drosofila, all’uomo, dipende infatti da
complesse reti di interazioni tra molecole. La recente scoperta di
questi network e la loro analisi è stata resa possibile dall’impiego di
strumenti tecnici sofisticati che hanno permesso una manipolazione
fine e precisa del materiale genetico.
Si tratta della cosiddetta tecnologia del DNA ricombinante: un
complesso di tecniche e di reazioni chimiche in cui rientrano gli enzimi di restrizione che tagliano il DNA in punti predefiniti, la reazione a catena della polimerasi (PCR) capace di isolare e amplificare un frammento di DNA a partire da una miscela di DNA, il clonaggio genico, l’ibridazione del DNA, il suo sequenziamento con
cui si può conoscere l’esatto ordine di successione lineare delle basi costitutive di un filamento di DNA.
Dalla “riscoperta” di Mendel alla teoria
cromosomica dell’eredità
Gli esperimenti di Mendel sui piselli vengono pubblicati nel 1866
ma il suo lavoro e i due principi rivoluzionari che egli ne fa deriva-
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re vengono semplicemente ignorati per trentaquattro anni. Si tratta
della legge della segregazione (i due alleli di ogni carattere si separano alla formazione dei gameti e poi si uniscono a caso al momento della fecondazione) e della legge dell’assortimento indipendente
(alla formazione dei gameti, coppie di alleli differenti si separano indipendentemente l’una dall’altra).
Poi, nel 1900, l’olandese Hugo de Vries (1848-1935), il tedesco Karl
Correns (1864-1933) e l’austriaco Erich von Seysenegg Tschermack
(1871-1962), tutti e tre botanici, arrivano, ognuno per proprio conto, alle stesse conclusioni di Mendel, stavolta subito accettate: inizia
per la biologia l’era della genetica.
Come spesso accade nella ricerca scientifica, le varie linee di indagine della genetica non procederanno ordinatamente seguendo un
piano prestabilito, ma divergeranno o convergeranno secondo
traiettorie erratiche che intercetteranno nei momenti più proficui le
conoscenze di citologia, di biochimica e, più tardi, di biologia molecolare, producendo nuovi esaltanti sviluppi. Nel 1902 l’americano
Walter Sutton (1877-1916) e il tedesco Theodor Boveri (1862-1915)
evidenziando con opportune colorazioni dei corpuscoli intracellulari osservano che questi, chiamati poi cromosomi, si comportano in
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La genetica
Hugo de Vries
Hugo de Vries (1848-1935),
botanico olandese, fotografato
mentre esegue esperimenti di
incrocio su alcune specie di
fiori. A de Vries va riconosciuto
il merito di aver introdotto nel
1901 il concetto di mutazione,
ponendolo alla base dei
meccanismi di evoluzione
e speciazione.
accordo con gli ipotetici agenti ereditari proposti da Mendel. In
successive ricerche riescono a dimostrare che i cromosomi sono
strutture individuali e differenziate, e li candidano a contenitori dei
“fattori mendeliani” dell’eredità (i futuri geni). Nello stesso anno
l’inglese Archibald Garrod (1857-1936) individua l’esistenza di un
rapporto tra tali fattori e attività metaboliche ipotizzando correttamente che l’alcaptonuria (anomalia genetica che ha come effetto artropatie e colorazione scura delle urine a causa di un accumulo di
acido omogentisico nel sangue) dipende da un cambiamento, una
mutazione, del fattore mendeliano che lo rende incapace di produrre l’enzima che controlla il metabolismo dell’acido omogentisico. Un
poco alla volta si va chiarendo la logica che lega i geni al funzionamento dell’organismo. Garrod parla di errori congeniti del metabolismo: è la prima prova di eredità mendeliana nell’uomo e la posa della prima pietra dell’edificio della genetica medica.
Nel 1903 anche il francese Lucien Cuénot (1866-1951), che studia
l’ereditarietà della colorazione della pelliccia del topo, ipotizza che
gli effetti dei geni sulla pigmentazione fossero mediati da proteine
enzimatiche. Quell’anno William E. Castle (1877-1944), pioniere
della genetica americana, collega le frequenze alleliche a quelle genotipiche. Due anni dopo, lavorando sul coleottero della farina (Tenebrio molitor), la ricercatrice americana Nettie M. Stevens (18611912) mette in evidenza l’esistenza dei cromosomi sessuali. Nello
stesso anno l’inglese Reginald C. Punnett (1875-1967) pubblica il
primo manuale di genetica: Mendelism. Nel 1906 a Cambridge William Bateson (1861-1926) e Punnett scoprono nel pisello odoroso il
fenomeno del linkage (associazione) tra caratteri: geni associati sullo stesso cromosoma non segregano indipendentemente ma insieme; dunque un’importante eccezione alla legge di Mendel dell’assortimento indipendente. Nel 1908 Punnett ricorre all’aiuto di un
collega matematico di Cambridge Godfrey H. Hardy (1877-1947)
per spiegare perché un carattere dominante non riesce automaticamente a soppiantare quello recessivo. Hardy formula il problema
matematicamente, dimostrando che, date certe condizioni, le sequenze geniche delle popolazioni naturali rimangono costanti per
molte generazioni. È il celebre principio dell’equilibrio genico di
Hardy-Weinberg derivato pochi mesi prima, all’insaputa di Hardy,
anche dal medico tedesco Wilhelm Weinberg (1862-1937); un principio che sta alla base della genetica di popolazione. Nello stesso
1908 lo svedese Herman Nilsson-Ehle dà la prova sperimentale che
i caratteri con variazione continua sono controllati da multipli fattori mendeliani (eredità multigenica dei caratteri quantitativi).
Nel 1909 il danese Vilhelm Johannsen (1857-1927) riprende dagli
scritti di De Vries, il termine gene definendolo come “la particella
che possiede le proprietà mendeliane di segregazione e di ricombinazione”. Johannsen conierà anche i termini di genotipo e fenotipo.
L’aspetto innovativo della sua ricerca è l’elaborazione di un concetto operativo di gene: il gene è un ente teorico inventato per spiegare i risultati degli incroci; non è ancora dotato di realtà materiale.
Quell’anno, il 1909, Bateson e Punnett fondano a Cambridge la rivista “Journal of Genetics”. La teoria cromosomica dell’eredità, che
Genotipo e fenotipo
I due termini sono stati introdotti nel lessico
della genetica da Johannsen. Il genotipo indica la
costituzione in geni di un individuo (o di una popolazione), cioè il suo patrimonio di caratteri ereditari, contenuti nei cromosomi; il fenotipo è l’espressione visibile delle caratteristiche genetiche.
Tra i due possono esservi differenze, dovute in particolare alla presenza nel genotipo di caratteri recessivi, che cioè non sempre si manifestano visibilmente, e di coespressioni geniche, che modificano
l’espressione fenotipica dei singoli geni. Inoltre il
fenotipo è determinato anche dalle interazioni fra i
geni e l’ambiente, che può condizionare decisamente il risultato finale. Il fenotipo, dunque, non è
solo un indizio della costituzione genetica, ma è
l’espressione finale di un equilibrio dato dal patrimonio genetico dell’individuo e dagli scambi
informativi che instaura con l’ambiente.
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
Il DNA
DNA significa “acido desossiribonucleico”; si
tratta di molecole estremamente lunghe, formate da
molte migliaia di desossiribonucleotidi di quattro tipi
differenti. I nucleotidi che le compongono sono unità
elementari che si condensano in polimeri lineari, gli
acidi nucleici, con la funzione di immagazzinare e
trasmettere le informazioni genetiche.
La sequenza in cui sono legate le molecole di
DNA è caratteristica per ogni dato tipo di organismo:
infatti il DNA è il substrato molecolare dell’informazione genetica, codificata nella sequenza lineare della sua molecola polimerica. Il compito di realizzare
la trascrizione e la traduzione in molecole proteiche
dell’informazione portata dal DNA spetta poi a un altro acido nucleico, l’RNA.
I nucleotidi che stanno alla base dei due acidi sono molto simili fra loro e formati dagli stessi componenti: una base eterociclica azotata, o purinica (adenina e guanina, a cui ci si riferisce con le lettere A e
G) o pirimidinica (citosina e timina nel DNA, e citosina e uracile nell’RNA, indicate con le lettere C, T e
U), uno zucchero a 5 atomi di carbonio (desossiribosio nel caso del DNA e ribosio nel caso dell’RNA, da
cui i nomi) e acido fosforico. Come è stato scoperto
nel 1953 da J. Watson e F. Crick, la molecola di DNA
è costituita da una doppia elica, simile a una scala
che si avvolge su se stessa, in cui l’impalcatura è co-
stituita da due filamenti lineari appaiati ma con
orientamento opposto e avvolti attorno a uno stesso
asse. Gli immaginari pioli di questa scala sono costituiti dalle basi azotate, che sporgono da ciascun filamento all’interno dell’elica e uniscono le due catene
con ponti idrogeno: la base azotata G si accoppia
sempre alla base azotata C, e la base azotata A si accoppia con la base azotata T. Grazie a questa specificità di accoppiamento, nel DNA le sequenze nucleotidiche delle due catene sono complementari, e la sequenza delle basi su un’elica determina anche la sequenza sull’altra. Ciò spiega le due funzioni fondamentali che il materiale genetico svolge nella cellula:
l’autoduplicazione e la direzione della sintesi degli
altri materiali cellulari, in primo luogo delle proteine.
La replicazione del DNA avviene infatti secondo un
meccanismo semiconservativo: la doppia elica del
DNA si apre in punti precisi nei quali si inserisce il
complesso enzimatico della DNA polimerasi, che catalizza la sintesi della catena complementare spostandosi lungo tutta la molecola. Le due eliche originali perciò fungono ciascuna da stampo per la formazione di due nuove sequenze complementari, così da avere un filamento nuovo e uno vecchio in ogni
nuova doppia elica. Il DNA poi, con un meccanismo
analogo a quello della autoduplicazione, dirige anche la sintesi dell’RNA.
Ottocento, Scienza
e tecnologia:
Charles Darwin, Il secolo
dell’evoluzione
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si va faticosamente delineando, riceve un forte impulso dalle ricerche compiute dal genetista della Columbia University di New York
Thomas Hunt Morgan (1866-1945) sui numerosissimi mutanti del
moscerino della frutta e dell’aceto Drosophila melanogaster. Un primo risultato di Morgan e della sua scuola (Alfred H. Sturtevant,
Calvin B. Bridges, Hermann J. Muller) arriva nel 1909 con la scoperta (confermata nel 1911) dell’esistenza del linkage anche nella
drosofila: quando i geni coinvolti nel controllo di certi caratteri erano vicini, fisicamente associati (linked) sullo stesso cromosoma, allora quei caratteri vengono trasmessi insieme. Da qui la deduzione
che lungo i cromosomi i geni dovessero essere disposti in una sequenza lineare.
Una seconda scoperta è l’eredità legata al sesso, illustrata dal fatto
che il carattere occhi bianchi di Drosophila melanogaster risulta collegato al cromosoma X. Nel 1912 il laboratorio di Morgan propone
su base teorica anche la nozione di ricombinazione, il fenomeno
dello scambio di materiale genetico tra cromosomi omologhi permesso alla meiosi dal meccanismo di crossing over. Viene dimostrato che la probabilità di ricombinazione aumenta con l’aumentare
della distanza fisica tra i geni sul cromosoma: nascono così le prime
mappe cromosomiche (quella della drosofila sarà terminata nel
1925) che consentono di individuare la posizione dei geni portatori
delle diverse caratteristiche ereditarie sui cromosomi. Nel 1915 viene pubblicato il volume The mechanism of Mendelian heredity nel
quale Morgan e i suoi tre allievi interpretano il mendelismo alla luce della teoria cromosomica dell’eredità. Nel 1916 Alfred H. Sturtevant (1891-1970) traccia la prima mappa di associazione. Quello
stesso anno a proposito del rapporto tra mutazione e selezione nei
fenomeni evolutivi, Morgan sostiene, diversamente da De Vries, che
la mutazione è incapace di produrre nuove specie.
Nel 1925 Hermann J. Muller (1890-1967) dimostra il potere mutagenico dei raggi X: l’esposizione ai raggi aumenta la frequenza delle mutazioni e delle aberrazioni cromosomiche; la mutazione è perciò assunta tra le cause dell’evoluzione delle popolazioni di organi-
smi. Nel 1928 Morgan si trasferisce da New York al Caltec di Pasadena in California. Nel 1933 otterrà il premio Nobel.
La genetica di popolazione e l’evoluzione
L’approccio matematico ai fenomeni dell’eredità è presente particolarmente tra i genetisti interessati all’evoluzione biologica. A partire
dagli anni Venti i modelli matematici che connettono genetica ed evoluzione vengono sviluppati in Inghilterra dallo statistico Ronald A.
Fisher (1890-1962) e dal biologo John B.S. Haldane (1892-1964), negli Stati Uniti dal biologo Sewall Wright (1889-1988). Nel 1922 Fisher pubblica i risultati delle sue ricerche sulle conseguenze evolutive dell’eredità mendeliana, nel 1928 elabora una teoria sull’origine
della dominanza; nel 1930 esce il suo The Genetical Theory of Natural Selection che segna attraverso la genetica di popolazione la rinascita della biologia evolutiva, praticamente scomparsa dal panorama
biologico subito dopo la “riscoperta” delle leggi di Mendel. Negli anni che vanno dal 1924 al 1932 Haldane sviluppa una teoria matematica dell’evoluzione mirata a precisare gli effetti della selezione naturale (o artificiale) sulle frequenze geniche e a stimare la pressione di
selezione sulla popolazione per effetto di un singolo gene. Lo scritto
più importante di Wright viene pubblicato nel 1931; pur con metodi
matematici differenti, egli corroborava i modelli di Fisher senza però
accettarne le conclusioni. La sua idea di microevoluzione è che la selezione sia tanto più efficace quanto più agisce su complessi di geni
piuttosto che su geni singoli. Inoltre Wright giudica di grande importanza ai fini evolutivi la dimensione demografica delle popolazioni e dimostra per via matematica che le oscillazioni casuali delle frequenze geniche (la cosiddetta deriva genica) sono più avvertibili nelle piccole popolazioni rispetto alle grandi. Nella sua teoria c’era dunque spazio per un’evoluzione non darwiniana delle popolazioni. Sono questi tre modelli, insieme a quelli proposti dai precursori Hardy
e Weinberg, a fondare la genetica di popolazione. Un grande impulso agli studi genetici della microevoluzione si ha nel 1966 quando applicando la tecnica dell’elettroforesi a proteine umane si scopre l’esi-
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La genetica
stenza insospettata di una grande variabilità genetica nei campioni
esaminati. Analoghi studi compiuti su altre specie animali e su vegetali confermano nei decenni successivi l’esistenza di molti ed elevati
polimorfismi enzimatici, in alcuni casi interpretabili come adattativi e
prodotti dalla selezione naturale, ma nella maggioranza dei casi senza
alcun influenza, cioè neutrali, rispetto alla capacità di adattamento
delle popolazioni al loro ambiente. Su questa neutralità della variabilità molecolare il genetista giapponese Motoo Kimura (1924-1994)
svilupperà a partire dal 1967 la sua teoria neutralista dell’evoluzione.
Gli anni Trenta e Quaranta
Dagli inizi degli anni Trenta fino al dopoguerra si realizza un processo di maturazione della genetica e il suo consolidamento teorico anche attraverso la sperimentazione su organismi molto diversi
(in effetti la scoperta di Garrod sull’uomo e quella di Beadle e Tatum sulle muffe – vedi oltre – erano tra loro molto collegate), con
punti di vista alternativi e spiegazioni originali a fenomeni nuovi e
insoliti. Per oltre mezzo secolo gli approcci dei genetisti furono sostanzialmente due soli: quello formale e quello citogenetico.
L’approccio formale conduce all’identificazione delle entità responsabili di caratteri fenotipici dotati di variazione e perciò facilmente apprezzabili dall’osservatore (come nel caso delle varianti di
colore, morfologiche e di certe varianti biochimiche). I modelli
sperimentali più importanti per l’analisi formale dovevano essere
organismi come drosofile, muffe, topi, batteri, protozoi, facili da
tenere in laboratorio e con tempi di riproduzione rapidi che ne favorissero gli incroci: l’uomo era da escludere. Quale fosse la natura materiale del gene e come funzionasse erano questioni ovviamente precluse all’analisi formale, ma adatte all’approccio della genetica cellulare. La citogenetica si basava sull’osservazione al microscopio di struttura, proprietà biochimiche, organizzazione, funzionamento ed evoluzione del materiale ereditario.
Tra i suoi modelli sperimentali migliori risaltano la drosofila e il
mais. A livello citogenetico, il bandeggio dei cromosomi giganti
delle ghiandole salivari delle larve di drosofila (ossia la tecnica che
consente di identificare in maniera univoca un determinato cromosoma) non solo ha permesso di confermare l’esistenza della duplicazione genica (fornendo perciò un meccanismo potente e pre-
Joshua Lederberg
Joshua Lederberg (1925-),
microbiologo americano,
è uno dei sostenitori della teoria
esobiologica.
I geni
Un gene è l’unità funzionale del materiale ereditario, che costituisce una porzione di cromosoma; a
livello molecolare, rappresenta l’intera sequenza di
acidi nucleici necessaria per codificare la sintesi di un
polipeptide o di una sequenza di RNA. Accanto a
queste sequenze, i cosiddetti geni strutturali, sul cromosoma sono presenti sequenze che hanno una funzione esclusivamente regolatrice, controllano cioè il
livello di espressione dei geni strutturali: per esempio
forniscono segnali di accensione e spegnimento della
trascrizione questi ultimi, in seguito a stimoli provenienti dall’interazione con l’ambiente. Nell’insieme,
tutti i geni presenti nel nucleo costituiscono il patrimonio genetico o genotipo di un individuo, ereditato
per metà dalla madre e per metà dal padre. Infatti, poiché le cellule di un nuovo organismo hanno origine
dalla fusione dei due gameti, uno paterno e l’altro materno, conterranno tutte due copie, o alleli, di ciascun
gene. Se gli alleli sono identici, l’individuo si definisce
omozigote per quel gene; se invece gli alleli sono differenti, l’individuo viene detto eterozigote. In generale e semplificando, in un individuo eterozigote uno
ciso per spiegare l’evoluzione del genotipo), ma ha prodotto la prova citologica dell’esistenza dell’effetto di posizione: il cromosoma
non è solo un aggregato di geni ma un sistema integrato dimodoché il valore adattativo di un gene, la sua efficacia, diventa funzione del contesto in cui esso si trova nel cromosoma.
L’analisi della fisiologia del gene porta a una grande scoperta quando nel 1935 due americani, il genetista George W. Beadle (19031989) e il biochimico Edward L. Tatum (1909-1975) dimostrano, impiegando mutanti metabolici della muffa del pane (Neurospora crassa), che la sintesi delle proteine dipende dai geni, e cioè che la mutazione di un gene influenza la sintesi dell’enzima corrispondente: ogni
gene codifica per una proteina. Questa teoria, conosciuta attraverso
la formula “un gene-un enzima”, porterà loro il Nobel del 1958 per
la fisiologia e medicina. La comprensione dei processi riproduttivi
degli organismi ricevette un impulso nel 1946-1947 dall’inattesa scoperta, dovuta a un dottorando in genetica, Joshua Lederberg (1925-),
dei due alleli (quello cosiddetto dominante) tende a
manifestare il proprio effetto, conferendo un particolare carattere (fenotipo) all’individuo e mascherando
l’effetto dell’altro allele, che viene detto recessivo.
L’azione dei geni dipende in primo luogo dalla loro
costituzione chimica, data dalla sequenza dei nucleotidi, ma anche dalla posizione che il gene occupa sul
cromosoma e dai suoi rapporti con gli altri geni: essa,
infatti, si manifesta mediante la trascrizione dell’RNA
messaggero, che diventa il substrato per i ribosomi responsabili della traduzione dell’informazione genica.
Queste grosse unità aggregate di proteine e RNA ribosomale leggono i nucleotidi dell’ RNA messaggero a tre
a tre, determinando la corretta sequenza aminoacidica
delle proteine. Va però sottolineata una differenza fra i
geni procariotici e quelli eucariotici: i primi sono costituiti da una sequenza codificante unica e il futuro RNA
messaggero ricalca l’intera sequenza di DNA. I geni eucariotici, invece, sono formati da sequenze codificanti,
gli esoni, intervallati da introni, che non contengono
nessuna informazione genetica, ma sono fondamentali
per l’esatta formazione dell’RNA messaggero.
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
Novecento*, Scienza e
tecnologia: L’eugenica,
Dall’ingegneria genetica al
progetto genoma umano,
La biochimica, La biologia
molecolare, La
sociobiologia, Le
applicazioni mediche della
genetica, L’evoluzione
dell’evoluzionismo
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I cromosomi
I cromosomi sono corpi granulari che derivano dalla condensazione del DNA nucleare nelle cellule eucariote e hanno la funzione di conservare e trasmettere l’informazione genetica. In interfase, durante la normale fase di vita cellulare, l’elica di DNA contenuta
nel cromosoma è poco condensata e si trova unita a
proteine basiche, chiamate istoni. Questi complessi
prendono il nome di nucleosomi e si organizzano uno
dietro l’altro a formare “un filo di perle”: si tratta di una
prima fase di condensazione che permette all’elica di
DNA di passare da uno spessore di 2 nm a uno di 10
nm, per poi riavvolgersi a spirale dando vita a cilindri
spessi 30 nm, che costituiscono la fibra di cromatina.
Questo stato è fondamentale per lo svolgimento delle
funzioni del metabolismo cellulare, poiché fa sì che i
geni presenti sui filamenti di DNA siano facilmente accessibili ai fattori che concorrono al processo di trascrizione. Durante la duplicazione della cellula, la cosiddetta metafase, continua la condensazione: le fibre
di cromatina si organizzano in ampie anse che si attaccano a un’impalcatura proteica acida. Particolari
sequenze, dette SAR – scaffold attachment regions –
guidano l’adesione di queste all’impalcatura. Questa
ultima struttura si avvolge su se stessa in ampie anse,
con diametro di 600-700 nm (per ogni singolo cromatidio), dando vita alla struttura finale del cromosoma
come viene visto al microscopio. Solo in questa fase
infatti i cromosomi sono facilmente osservabili al microscopio ottico nella loro forma e individualità e possono essere contati, studiati e confrontati perché intensamente colorabili con alcune sostanze.
e al suo professore Tatum, che una miscela di differenti genotipi del
batterio Escherichia coli può produrre ricombinanti genetici. Si tratta della coniugazione: in pratica avevano scoperto nei Procarioti l’analogo della sessualità degli Eucarioti. Nel 1958, a soli 33 anni, Lederberg divise il Nobel con Beadle e Tatum. Qualche anno dopo, nel
1950, la citogenetista americana Barbara McClintock (1902-1992)
del Cold Spring Harbor Laboratory di New York pubblica un articolo in cui dimostra l’esistenza nel mais di segmenti di cromosomi
capaci di spostarsi da un sito all’altro del genoma. Questa scoperta
di materiale genetico mobile (questi elementi trasponibili vengono
chiamati trasposoni), insieme all’ulteriore dimostrazione di una certa intrinseca instabilità del materiale genetico, non suscita alcun immediato interesse tra i genetisti, nonostante metta in crisi l’assunto
che i geni abbiano il loro posto fisso sul cromosoma. Quando poi i
trasposoni vengono trovati nei batteri si intuisce il loro ruolo potenziale nel trasferire la resistenza agli antibiotici da un batterio all’altro.
Altri casi vengono descritti nei batteriofagi e nei tripanosomi ove si
dimostra il loro ruolo nel sottrarre il parassita alla risposta immunologica dell’ospite. Questa visione dinamica del genoma era in anticipo sui tempi; è una grande scoperta, ma solo alla fine degli anni Settanta verrà accettata dai genetisti. Molti di loro divennero interessati a una possibile correlazione nelle cellule umane fra i trasposoni e i
retrovirus, i geni virali da poco scoperti, dato che alcuni geni che
convertono le cellule sane in tumorali (oncogeni) si possono presen-
In ogni cromosoma, la sequenza del DNA lineare
contiene sempre tre elementi: i lunghi tratti della molecola di DNA contenenti i geni e denominati ARS
(dall’inglese Autonomously Replicating Sequences,
sequenze replicate autonomamente); un centromero
(o cromocentro o cinetocoro) cui si connettono le fibre del fuso durante la divisione nucleare; infine i telomeri, cioè le parti terminali del cromosoma, che
hanno la funzione di consentire la replicazione completa del tratto di DNA lineare. Fondamentale per il riconoscimento dei singoli cromosomi è la posizione
del centromero (verso la parte centrale o verso quella
apicale), che è costante per ogni cromosoma. In metafase i cromosomi appaiono fessurati longitudinalmente (a eccezione del loro centromero), così che
ognuno risulta formato da due parti identiche, dette
cromatidi.
Il numero, la dimensione e la forma dei cromosomi possono variare ampiamente negli organismi eucarioti appartenenti a specie diverse, ma costituiscono
uno dei caratteri di maggior costanza per tutte le cellule degli individui appartenenti alla medesima specie; i cromosomi hanno le stesse forme e dimensioni
e sono uguali a due a due (cromosomi omologhi). In
ognuna di queste coppie, uno deriva dal padre e l’altro dalla madre; essi conservano la propria forma di
generazione in generazione. In molti animali e in
molte piante si osserva poi una coppia di cromosomi
particolari, d’aspetto diverso nei maschi e nelle femmine: si tratta dei cromosomi sessuali (o eterocromosomi o allosomi), mentre gli altri sono detti autosomi.
tare anche come retrovirus e integrarsi nel genoma della cellula sana.
La McClintock è insignita del Nobel per la fisiologia e la medicina
nel 1983. Nel 1952 Frederick Ranger ricostruisce la sequenza amminoacidica dell’insulina; per questo nel 1958 guadagnerà il premio
Nobel per la chimica.
L’evoluzione della genetica dopo il 1953
Nonostante la crescita della genetica sia stata sotto molti aspetti rivoluzionaria, i suoi progressi sono in parte avvenuti mantenendo una
continuità teorica con le scoperte del passato; ancora oggi, infatti, le
basi della genetica classica novecentesca (la separazione tra genotipo
e fenotipo, la natura discontinua e casuale della mutazione, l’ordinamento lineare del materiale ereditario) non sono state contraddette
dalla genetica molecolare. In parte però hanno provocato una rottura del quadro teorico precedente (specialmente per quanto riguarda
l’identità e la definizione di gene, e l’idea innovativa che riconosce
nel materiale ereditario una struttura gerarchica). Lo sviluppo della
genetica molecolare ha mostrato che acquisizioni come le leggi mendeliane o il concetto premolecolare di gene rappresentano in realtà
solo casi particolari di situazioni molto più generali. Dagli anni Sessanta in avanti il processo conoscitivo della genetica ha assunto una
modalità autocatalitica accelerando a tal punto i propri sviluppi che
le scoperte dell’ultimo ventennio del Ventesimo secolo superano di
gran lunga tutte le precedenti della storia della genetica.
S. Forestiero
1
L’erosione della biodiversità
LA SESTA ESTINZIONE
Il problema dell’erosione della biodiversità è all’ordine del giorno come dimostra la
sua costante presenza nei mass media, e tuttavia nel nostro Paese, purtroppo, ancora non
si riesce a traghettarlo da argomento di conversazione-chiacchiera-propaganda a tema su
cui confrontarsi seriamente e a cui provare a dare individualmente e collettivamente un
avvio di soluzione. Cercherò, quindi, di ragionare anche attorno a certi ostacoli retrostanti
la difficoltà di passare dalle parole ai fatti; una difficoltà che spesso si presenta
nell’affrontare problemi ecologici di rilevanza sociale. Direi che l’identificazione di
questi punti critici relativi al rapporto tra conoscenze naturalistiche e azioni di intervento
credo sia un prerequisito necessario, benché insufficiente, nell’ideare qualunque strategia
efficace (e compatibile con la democrazia) per risolvere anche solo parzialmente i
problemi ambientali.
LA BIODIVERSITÀ
La diversità biologica si riferisce alla varietà degli organismi viventi e ai sistemi
ecologici in cui essi si trovano. Gli oggetti biologici, differenti in numero e frequenza, si
trovano a diversi livelli di organizzazione: dagli ecosistemi nel loro complesso alle
strutture chimiche che costituiscono le basi molecolari dell’eredità. Pertanto il termine
comprende i differenti ecosistemi, le specie, i geni nonché le loro abbondanze relative. La
biodiversità rappresenta, dunque, l’insieme delle differenze osservabili tra gli esseri
viventi; descrivibili in rapporto ai geni, alle specie e agli ecosistemi ed esprimibili
attraverso numeri. Qualsiasi caratterizzazione della biodiversità deve rifarsi a tre
discipline: la genetica che fornisce la descrizione dello stato della variazione intra e
interspecifica; la sistematica che dà una rappresentazione organizzata delle differenze tra
tutte le specie di organismi; l’ecologia che ricerca le regole che presiedono al
funzionamento dei grandi sistemi ambientali in cui la diversità genetica e quella
tassonomica si trovano necessariamente integrate. Esistono una storia e una geografia
della biodiversità su cui ci limitiamo a dire solo che l’attuale biodiversità è il risultato di
un processo storico lunghissimo iniziato tra 3.900 e 3.400 milioni di anni fa con la
comparsa della prima cellula. Considerando il fatto che l’evoluzione biologica è un
fenomeno irreversibile ne deriva che l’attuale biodiversità è un fatto contingente,
storicamente determinato.
Quello di biodiversità è un concetto moderno, ha carattere sintetico, presenta
risvolti teoricamente interessanti per la genetica, la biosistematica, l’ecologia e la
biogeografia. Ma qui ci interessa sottolineare il suo impiego anche in ambito applicativo:
S. Forestiero
1
L’erosione della biodiversità
conservazione della natura, agricoltura, didattica e comunicazione delle Scienze naturali.
È stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo tenuta a Rio de
Janeiro nel maggio 1992, a dare al tema della biodiversità una risonanza enorme. La
diversità biologica era indagata da decenni ma la parola risale solo al 1987 quando fu
coniata nell’Ufficio del Congresso degli Stati Uniti per la Valutazione della Tecnologia.
Fino ad allora il discorso sulle differenze tra i viventi era rimasto circoscritto agli addetti
ai lavori. Poi, a metà degli anni Ottanta, quando fu certo che le estinzioni di piante,
animali e la perdita di interi ecosistemi procedevano così velocemente da mettere in
pericolo anche il benessere della nostra specie (il tasso di estinzione stimato è tra 100 e
1000 volte superiore a quelli paleontologici) la biodiversità diviene tema di discussione
anche fuori dei circoli scientifici. La nozione si carica subito di connotazioni
extrascientifiche: economiche, politiche, giuridiche, etiche. A quel punto, il discorso,
ampliato fino a comprendere riflessioni sui costi economici e sociali delle violente
modificazioni antropiche dell’ambiente, si trasforma in un discorso sul “problema della
biodiversità” cioè sulla “erosione-perdita di biodiversità”.
L’EROSIONE E I SUOI EFFETTI
Le stime sull’erosione della biodiversità sono molto difficilii, per mille ragioni tra cui
spicca l’incompleto (e non si sa nemmeno di quanto) censimento delle specie (per non
dire delle varietà) di organismi viventi. Dati grezzi a parte, le ricadute della perdita di
biodiversità sugli ecosistemi e in particolare sulla nostra specie sono impressionanti. La
diversità biologica è la risorsa più preziosa a disposizione dell'Uomo anche per l'immenso
potenziale applicativo offerto da molte specie. Tra le 250.000 Angiosperme circa 30.000
sono dotate di parti commestibili, ma solo 3.000 specie rappresentano una risorsa
alimentare per l'uomo. Tra di esse, 200 sono state addomestiche e vengono coltivate; di
queste una ventina di specie è costituita dai cereali su cui si fonda l'alimentazione
dell'umanità, e tre specie in particolare (frumento, riso, mais) soddisfano da sole il 50%
del fabbisogno alimentare dell'uomo. Altro effetto dell’erosione della biodiversità è il
declino degli impollinatori, con conseguenze drammatiche per la vegetazione. Anche la
medicina dipende fortemente dalle specie selvatiche. Negli Stati Uniti il 57% dei 150
farmaci più prescritti contiene composti, o deriva da composti, di origine naturale; nei
Paesi in via di sviluppo l'80% della popolazione ricorre a rimedi derivati da piante; in
tutto il mondo oltre 120 principi attivi sono ricavati per estrazione da circa 90 specie
diverse di organismi. Alcuni di essi, come per esempio la digitossina, non sono ottenibili
per via di sintesi oppure, come nel caso della vincristina, manifestano un'efficacia
maggiore dell'analogo sintetico. Lo screening biochimico della flora mondiale è solo
agli inizi: poco più del 3% dei vegetali superiori è stato indagato per rilevare la presenza
S. Forestiero
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L’erosione della biodiversità
di alcaloidi e, purtroppo, le scoperte in questo campo sono ancora del tutto fortuite, come
nel caso della pervinca del Madagascar una modesta piantina fonte di due alcaloidi con
spiccata attività antitumorale nel trattamento della malattia di Hodgin e della leucemia
linfocitica acuta infantile. La perdita di molecole di interesse farmaceutico sintetizzate da
microrganismi, animali e piante in via di estinzione sarebbe una danno irrimediabile. La
D-tubocurarina impiegata come miorilassante, il chinino e la chinidina, antibiotici come
l’eritromicina, la neomicina e l’anfotericina,
l’aspirina originariamente estratta dal
salice, la citarabina capace di indurre remissione della leucemia mielocitica acuta sono
tutti esempi di molecole della biodiversità. Sul piano epidemiologico si vanno sommando
sempre più evidenze che i fattori di alterazione della biodiversità influenzano
l’emergenza di malattie infettive, in molti casi attraverso la rottura dei legami tra i sistemi
di controllo biologico che limitano l’emergenza e la diffusione delle specie dannose e dei
patogeni. La situazione si aggrava perché spesso le nuove malattie a loro volta sono una
minaccia per la salute di singole specie degli ecosistemi di cui innalzano il tasso di
mortalità. Il primo caso di estinzione di specie dovuto a infezione riguarda Partula
turgida, una chiocciola polinesiana la cui unica popolazione è stata infettata e uccisa dal
microsporidio del genere Steinhausia.
LA RICERCA DI UNA SOLUZIONE
Accanto alla nozione scientifica di biodiversità si è rapidamente sviluppato in
Occidente un grande dibattito socialmente costruito che, focalizzandosi sul progressivo
impoverimento delle ricchezze biologiche, ha rilanciato la riflessione sul rapporto uomonatura e sull’indispensabile compromesso tra necessità ambientali e necessità dello
sviluppo economico; esigenze però tradizionalmente conflittuali nella società moderna. E
il discorso è rimasto tale, senza produrre effetti retroagenti sulle cause che lo hanno
provocato. In sostanza, molte parole e nessuna azione politica.
Al momeno, l’erosione della biodiversità, fenomeno oggettivamente drammatico
sembra dunque destinato a rimanere solo un tema di conversazione. Perché questo
succede forse non è un mistero dato che la sensibilità naturalistica, per non dire delle
relative conoscenze, è praticamente inesistente nel nostro paese ed è minima in molti altri
paesi occidentali. E qui mi riferisco all’Occidente non perché ad altre longitudini sia
meglio in assoluto, ma solo perché sappiamo che il nostro stile di vita è ecologicamente
molto dispendioso. La mancanza di conoscenza della natura produce conseguenze assai
negative sulle nostre società e, oggi, grazie alla globalizzazione, anche sulle altre società
umane. Penso, sia chiaro, non tanto alla mancanza nei cittadini consumatori di elementari
conoscenze-nozioni naturalistiche quanto piuttosto alla mancanza di “competenza
naturalistica”. Competenza come qualcosa che somiglia piuttosto a una conoscenza in
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L’erosione della biodiversità
azione, dunque qualcosa di veramente molto lontano dall’insieme inerte di nozioni, pure
utilizzabili, su animali, piante, rocce, clima ecc. che molti pensano siano le scienze
naturali. E parlando di competenza naturalistica non mi riferisco affatto alle minuzie
tecniche dei naturalisti (il nome di quella piantina, il numero di pezzi della zampa di un
insetto, la composizione petrografica di una roccia, ecc.), ma proprio alla capacità che
ogni naturalista ha, al pari di ogni indigeno illetterato di una foresta tropicale, di cogliere
il nesso tra le cose della natura nonostante le scale diverse a cui prodotti e processi si
possono manifestare e, in una certa misura, nonostante la distanza nel tempo e nello
spazio. Qualsiasi naturalista ha sperimentato-imparato l’importanza delle differenze tra
gli individui di una popolazione, tra le popolazioni di una specie, tra le specie di una
comunità ecologica e le differenze tra gli ecosistemi. C’è dunque bisogno di
un’educazione a cogliere i nessi, le relazioni tra le cose, tra i fenomeni. La conoscenza è
sempre una lotta contro gli stereotipi: il rapporto tra locale e globale non è frutto della
mondializzazione, è una cosa vecchia di molte centinaia di milioni di anni. Ben venga
allora qualunque forma di sapere che aiuti a sviluppare, nei giovani e negli adulti, la
capacità di capire l’importanza capitale delle differenze e il rapporto che c’è tra diversità
e stabilità, la capacità di rappresentarsi la biosfera come un insieme di reti interconnesse
(un nodo delle quali è la nostra specie) in cui tutto ha un senso (dunque un valore), pure
se quel senso non fosse immediatamente riconoscibile come il nostro. E c’è anche
estremo bisogno che, a un certo punto, i cittadini-consumatori siano esposti al problema,
invitati a ragionare sul problema, perché è chiaro che su questioni così importanti è
dissennato affidarsi completamente e soltanto a degli esperti. Bisogna democratizzare il
problema, mettendolo nelle mani dei cittadini e chiedendo loro di esaminarlo prima di
giudicare e decidere. Certo assistendoli, aiutandoli a capire.
In un workshop a porte chiuse, tre giorni a fine maggio del 1994 al Museo di Storia
Naturale di Parigi, sui rapporti tra diversità biologica e diversità culturale, ebbi la fortuna
di incontrare e conoscere Darrell Posey, un etnobiologo americano, all’epoca all’Istituto
di Scienze forestali di Oxford, che ha lavorato per oltre un ventennio tra i Kayapó
dell’amazzonia brasiliana. Posey, scomparso qualche anno fa, era uno studioso molto
competente con una formazione accademica completa (dalla laurea in entomologia al
PhD in etnobiologia) e si vedeva. Ma, parlando di come fronteggiare i velocissimi
fenomeni della sesta estinzione, quello che più colpiva l’interlocutore era la sua
straordinaria capacità di entrare concretamente nel problema. Afferrava il cuore della
questione e procedeva con una capacità analitica invidiabile a isolarne gli aspetti più
salienti in vista di una possibile ma comunque necessaria soluzione (e nel caso delle
contromisure all’erosione della biodiversità questi aspetti sono davvero molto eterogenei:
S. Forestiero
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L’erosione della biodiversità
tassonomici, evolutivi, ecologici, geografici, demografici, economici, di diritto nazionale
e internazionale e naturalmente anche squisitamente politici). Nello specifico caso dei
Kayapó, una popolazione senza scrittura la cui vita dipende direttamente dalla foresta
amazzonica del bacino dello Xingu, la soluzione trovata e praticata da Posey fu di
integrare i dati di bioprospezione che gli enti di ricerca occidentali andavano
raccogliendo sulla biodiversità forestale locale con i modelli indigeni tradizionali di
gestione ambientale in maniera da elaborare nuove strategie di sfruttamento delle
ecorisorse.
A un problema concreto bisogna dare una risposta concreta. Significa sporcarsi le
mani con le incertezze del caso, la penuria di dati e di informazioni; significa mettere le
proprie conoscenze a servizio della comunità. Darrell Posey riteneva che la lotta contro
l’erosione della biodiversità fosse in verità un problema sempre e innanzitutto culturale.
Nel senso specifico che l’insieme delle azioni da compiere per tentare di frenare
l’erosione galoppante e l’estinzione irreversibile deve essere sostenuto da motivazioni
profondamente radicate dentro ciascuno di noi. Motivazioni che vanno suscitate e
alimentate tanto razionalmente quanto emotivamente. Questo è un punto della massima
importanza. Potrà forse sembrare un paradosso, ma non credo ci sia conoscenza umana
senza emozione (anche la conoscenza eminentemente razionale, che si manifesta come un
progetto della ragione, ha un cuore irrazionale). La scienza occidentale è una delle forme
più alte (ricche e complesse) di conoscenza prodotte dalla nostra specie. Ed è una
conoscenza intimamente alleata della Natura: il suo oggetto di interesse. Affinché sia
efficace ai fini che ci proponiamo, la conoscenza scientifica deve però diventare un
sapere offerto a chiunque ne sia desideroso. La conoscenza (governata da Eros), si dice
nel Simposio, è amore per quello che ci manca. Per conoscere la verità c’è bisogno di
passione; si conosce infatti solo se si ama. D’altra parte gli scienziati amano il loro
lavoro, la ricerca, e spesso ne sono completamenti assorbiti, e non pochi di loro riescono
a parlarne anche emozionandoci, trasmettendoci la loro passione.
In conclusione credo che i mutamenti di stile di vita necessari per affrontare sul
campo il problema dell’erosione della biodiversità abbiano bisogno di forme di
partecipazione alla conoscenza che accanto all’esame delle “ragioni della ragione”:
motivi utilitaristici come la funzionalità degli ecosistemi, la nostra dipendenza da
migliaia di specie diverse di organismi e dai cosiddetti servizi ecosistemici (le forniture di
ossigeno, azoto, acqua, ecc.), diano spazio anche all’espressione individuale delle
“ragioni del cuore”: dunque ai valori estetici, ricreativi ed etici della biodiversità. Ma ciò
non sorprende se, come sostiene E.O Wilson, le ragioni del cuore non sarebbero altro che
S. Forestiero
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L’erosione della biodiversità
un prodotto della biofilia, l’amore per la natura da cui proveniamo: un tratto della nostra
specie geneticamente determinato.
i
Se ne conoscono circa 2.000.000 di specie, ma le proiezioni parlano di numeri totali anche 15 volte maggiori. Le
conoscenze sono tassonomicamente, ecologicamente e biogeograficamente a macchia di leopardo: alcuni gruppi, alcuni
ambienti, alcune aree geografiche sono meglio note di altre. È chiaro che in mancanza di una adeguata conoscenza
della fisiologia anche la descrizione della patologia sarà difettosa. L’unica certezza è che diversamente dalle precedenti
5 grandi estinzioni del passato, l’attuale è dovuta ad una sola specie, la nostra, e che procede a velocità enorme. I dati
indicano il suo inizio a circa 120.000 anni fa con l’emigrazione degli antenati di Homo sapiens dall’Africa;
l’incremento successivo si ebbe con la nascita e l’affermarsi dell’agricoltura nel Neolitico, per poi aumentare ancora
con l’esplosione demografica collegata all’industrializzazione. Le recenti facilità di spostamento e comunicazione tra i
vari continenti hanno contribuito enormemente ad accelerare il fenomeno di estinzione massiva. Campionando tra i dati
emerge per esempio che negli ultimi due millenni è scomparso il 20% delle specie di uccelli a seguito
dell’antropizzazione delle isole, mentre oggi ne è minacciato l’11%; la scomparsa di oltre il 70% dei generi di
mammiferi delle Americhe coincide con l'arrivo dell'uomo sul continente americano circa 11.000 anni fa; quasi tutti i
grandi marsupiali, i grandi rettili e circa la metà delle specie di uccelli non volatori dell’Australia si sono estinti dopo
l’arrivo dell'uomo; i coloni polinesiani delle Hawaii hanno sterminato la metà circa dell'avifauna terrestre. Il 20% dei
pesci d’acqua dolce del mondo è in via di estinzione o forse è già estinto; nei soli Stati Uniti si sono estinte
recentemente oltre l’1% di piante (più di 210 specie su 20.000), ma a livello globale si lamentano circa 250 specie
estinte e circa 4.500 in pericolo; in Austria è minacciato di estinzione il 22% di invertebrati; nelle foreste planiziali
dell’Ecuador occidentale un’area di 1 km2 contiene 1.200 specie vegetali, di cui il 25% endemico, l’8% nuove per la
scienza, 43 specie presenti in un solo biotopo, di alcune si conoscono pochi individui, talora uno solo. Limitandosi solo
a mammiferi (circa 4.500 specie note), uccelli (circa 9.700) e anfibi, se ne registrano estinti e in pericolo,
rispettivamente: 77 e 1.101, 133 e 1.213 di. Gli anfibi (circa 4.100 specie), un gruppo ovinque molto sensibile ai
mutamenti ambientali, ha perduto sinora 35 specie e ne ha 1.856 in situazione critica. Trenta anni fa le foreste tropicali
mondiali si riducevano ad un tasso dello 0,9% l’anno ; venti anni fa la velocità era raddoppiata arrivando all’1,8%. Tra
le cause dirette dell’estinzione spiccano la sottrazione e la frammentazione degli habitat (per es. per conversione di
terre all’agricoltura), l’arrivo di specie invasive estranee, il tasso di consumo delle risorse maggiore di quello di
rinnovamento, l’inquinamento, le modificazioni globali del clima. Tra le cause indirette si registrano gli eccessi
demografici e dei consumi, la struttura socioeconomica delle nazioni povere che per es. minimizzano gli incentivi alla
conservazione, la debolezza degli organi di governo, della politica e dei sistemi legislativi.
■ IL
SECOLO
DI
ERNST
M AY R ■
Uno storico compleanno
Il grande zoologo tedesco, autore di contributi fondamentali alla teoria evolutiva,
festeggia il suo centesimo anniversario. Ed è tuttora in piena attività
S AV E R I O F O R E S T I E R O
IL
GRANDE VECCHIO della biologia evolutiva,
Ernst Mayr, professore emerito di zoologia
ad Harvard, compie 100 anni il 5 luglio
prossimo e con quasi ottanta anni di ricerca sulle
spalle continua a dominare il palcoscenico degli studi evolutivi dell’intero Novecento. I meriti scientifici di Mayr sono molti e anche molto significativi. A
cominciare dalla circostanza per cui, insieme a studiosi come Dobzhansky, Huxley, Rensch e Simpson,
è stato uno dei padri fondatori della Teoria Sintetica
dell’Evoluzione (Tse), elaborata grosso modo negli
anni tra il 1937 e il 1946. Come è risaputo, gli artefici della Tse riuscirono ad articolare una serie di acquisizioni disciplinari locali (di genetica, biosistematica e paleontologia) in un corpo teorico complessivo, capace di spiegare un’enorme ed eterogenea messe di osservazioni e dati sperimentali fino a quel momento teoricamente scorniciati.
Prima della nascita della Tse una biologia evolutiva non esisteva. Qua e là spuntavano spiegazioni
darwiniane, specialmente se entrava in gioco l’adattamento, ma senza rilevanti conseguenze generali.
La Tse e la nascita della biologia evolutiva sono un
tutt’uno e Mayr oltre a esserne un artefice ne è stato
il costante, instancabile promotore. Questo sin dall’inizio, quando nel 1946 fu tra i fondatori della Società per lo Studio dell’Evoluzione e divenne direttore di Evolution, il periodico societario che è ancora
rivista leader del settore.
Il contributo di Mayr alla Tse riguarda essenzialmente il problema della specie: statuto ontologico, definizione, origine. In una serie di articoli e libri
oramai classici Mayr ha dimostrato che le specie sono entità biologiche concrete e non enti nominali,
che non vanno considerate in termini tipologici e
adimensionali, ma invece trattate come entità pluridimensionali e politipiche. Mayr ha promosso l’affermarsi del pensiero popolazionale in biosistematica, ha dimostrato l’importanza dell’isolamento geografico ai fini della formazione di nuove specie e ha
approfondito e perfezionato l’analisi dei meccanismi
di isolamento riproduttivo iniziata da Dobzhansky.
Il suo sforzo teorico maggiore risiede nella definizione di specie basata sul ben noto “concetto biologico”.Nell’elaborazione della sua definizione Mayr
è in un certo modo riduzionista: la specie è fatta di
popolazioni (al limite una sola) e l’appartenenza di
una popolazione (che è l’oggetto biologico evolvibile) a una o a un’altra specie viene stabilita da una relazione di natura riproduttiva. La novità è che l’appartenenza di una popolazione ad una certa specie
non costituisce più una proprietà essenziale, immutabile, inerente l’ontologia dell’oggetto popolazione,
ma diventa, invece, proprietà relazionale e modificabile nel tempo. La probabilità di successo riproduttivo varia al passare delle generazioni ed è circolarmente connessa al grado di parentela genetica (opportunamento definita) tra le popolazioni.
Il grande lavoro di Mayr sulla specie, pur con
molti limiti, rappresenta un progresso sia sul versante della definizione sia su quello della spiegazione
causale dei fenomeni speciativi. Avviene così che
Mayr scriva le pagine di un libro sulla speciazione,
una sua “Origine delle specie”, che, nonostante il titolo del 1859, Darwin non ha mai trattato. Con la
morte della concezione idealistica della specie e col
trionfo del punto di vista popolazionale, Mayr raggiunge una meta importante: il “concetto biologico”
e il “modello di speciazione geografica” vengono accettati e si impongono rapidamente e universalmente. Con qualche eccezione, però. Ci sono organismi
e concrete circostanze empiriche per i quali il modello allopatrico non sembra proprio applicabile.
Perciò la sua universalità viene messa in discussione.
In pratica, viene avanzata l’ipotesi, risalente ai tempi
di Darwin, che in casi particolari e in certi gruppi tassonomici (per esempio nei fitoparassiti) vi possa essere una speciazione non accompagnata da isolamento geografico: lo chiamano modello di speciazione simpatrica.
Beh, la risposta di Mayr è violenta: difende la sua
creatura contro ogni critica, non sente ragioni e nel
trambusto più di uno studioso ne fa le spese. Un caso per tutti. La polemica con Michael White che va
suggerendo, dati alla mano, la possibilità di meccanismi alternativi a quelli della speciazione geografica, basati su riarrangiamenti cromosomici (tipo inversioni e traslocazioni) capaci di spiegare assai meglio del modello mayriano l’esistenza di specie gemelle con distribuzione parapatrica in certe sue ca-
20 ■ DARWIN ■ LUGLIO/AGOSTO
SECOLO
DI
ERNST
M AY R ■
RICK FRIEMAN / CORBIS / CONTRASTO
■ IL
Mayr posa accanto al suo ritratto nella biblioteca di Harvard che porta il suo nome. Nella pagina seguente, lo studioso in una foto dello scorso anno.
vallette australiane, prende toni assai ruvidi. D’altra
parte il problema della speciazione è intrinsecamente complesso, la capacità argomentativa di Mayr è
formidabile, la sua conoscenza della letteratura
scientifica praticamente perfetta e il suo ascendente
sugli evoluzionisti è in crescita: non c’è scampo.
Caso abbastanza raro tra gli scienziati, Mayr coltiva
con successo interessi epistemologici e storiografici
verso la biologia e quella stessa teoria evolutiva di cui
è coautore. Questo è un altro dei suoi meriti scientifici. Mayr è sempre stato convinto che la biologia
darwiniana, quella che risponde alle domande sui
21 ■ DARWIN ■ LUGLIO/AGOSTO
■ IL
SECOLO
DI
M AY R ■
pronta tutta tedesca, humboldtiana, della sua formazione giovanile. Ma nonostante la cultura di provenienza, il modello di Mayr rimane Charles Darwin
con cui condivide più di un punto: il giovanile esotico viaggio iniziatico, gli arcipelaghi tropicali, una
curiosità insaziabile, l’acuzie osservativa, la dedizione al lavoro e la prolificità intellettuale, lo sviluppo
di un unico lungo ragionamento su come la biologia
spieghi il mondo dei viventi e stabilisca il posto dell’uomo nell’evoluzione.
Buon compleanno professor Mayr!
Saverio Forestiero, Università di Roma Tor Vergata
RICK FRIEMAN / CORBIS / CONTRASTO
perché cercandone le risposte nella storia degli organismi, abbia bisogno di scrutinare continuamente
i concetti di cui si serve. Concetti e teorie sono ferri
del mestiere altrettanto importanti dei microscopi e
dell’altra strumentazione di laboratorio. La manutenzione concettuale e la conoscenza storica della propria disciplina diventano indispensabili per il suo
progresso. La sua attenzione verso la storia e la filosofia della biologia tout court non sono perciò un
vezzo senile, non hanno valore esornativo ma sono
funzionali alla sistemazione dei dati, sono parte integrante nell’elaborazione di modelli interpretativi
adeguati e, su un diverso piano, rimandano all’im-
ERNST
Una vita tra navi, libri e musei
E
rnst Mayr nasce il 5 luglio
del 1904 a Kempten in Baviera. Seguendo la tradizione
famigliare si iscrive a medicina
ma gli interessi naturalistici e
una specifica curiosità per l’ornitologia sono così pressanti da
indurlo a seguire anche i corsi
di scienze naturali a Berlino
dove nel 1926 si addottora in
zoologia. Nel 1928 Erwin Stresemann, famoso ornitologo del
Museo Zoologico berlinese,
insieme a colleghi dell’American Museum of Natural History (Amnh) di New York e
agli specialisti di Tring (vicino
Londra, il museo privato del
barone Rothschild) incarica il
giovane zoologo di cercare nei
territori inesplorati della Nuova Guinea gli uccelli del paradiso, i cui soli esemplari conosciuti alla scienza sono all’epoca quelli cacciati dai nativi.
La spedizione è in gran
parte finanziata dal barone
Walter Rothschild, appassionato dilettante di storia naturale e insuperato collezionista di
animali esotici.
Le collezioni Rothschild
(tra cui la più grande raccolta
ornitologica del mondo con
300.000 uccelli in pelle, e oltre
2.200.000 farfalle) riempiono
le sale del Museo di Tring appositamente fondato dal giovane Walter nel 1892. Mayr si reca in Nuova Guinea una prima
volta nel 1928, vi torna poi
l’anno successivo per conto del
Museo di Berlino.
Nel 1930 è la volta dell’arcipelago delle Salomone che
visita al seguito della Spedizione Withney ai Mari del Sud
dell’Amnh. Trasferitosi negli
Stati Uniti nel 1931, lavora al
museo di New York dal 1932 al
1953, ne studia le raccolte ornitologiche melanesiane compresa la magnifica collezione
Rothschild venduta al Museo
nel 1932. In quegli anni pubblica un centinaio di lavori specialistici di sistematica e zoogeografia degli uccelli. Dal
1953 è Alexander Agassiz Professor of Zoology all’Università di Harvard, qualifica che
mantiene tuttora come emerito. Dal 1961 al 1979, vi dirige
il Museo di Zoologia comparata. Il Dipartimento di Ornitologia dell’Amnh lo nomina curatore emerito.
Con 700 articoli comparsi
sulle più prestigiose riviste
scientifiche del mondo e con
una ventina di libri tra cui titoli fondamentali come Systematics and the Origin of Species
(1942), Animal Species and Evolution (1963) e The Growth of Biological Thought (1982) Mayr rappresenta uno straordinario caso di longevità intellettuale. La
sua ultima fatica è What evolution
is (2001), dove con una vivacità e una limpidezza di pensiero
22 ■ DARWIN ■ LUGLIO/AGOSTO
sorprendenti per un ultranovantenne, riesce ancora una
volta ad affascinare il lettore ragionando insieme a lui su fatti
e teorie.
Naturalmente le sue peculiari capacità gli hanno permesso di sviluppare competenze
straordinarie in molti campi diversi: dall’ornitologia alla zoogeografia, dalla sistematica generale alla biologia evolutiva
fino alla storia e alla filosofia
della biologia.
Non c’è spazio per segnalare anche solo alcuni tra i premi prestigiosi, le onorificenze,
le decine di lauree e dottorati,
le infinite associature con cui
università, accademie, società
scientifiche e governi di tutto il
mondo hanno voluto onorare
l’eccellenza dei suoi studi e la
dedizione di tutta una vita allo
studio dell’evoluzione biologica, l’impresa scientifica di un
grande scienziato.
412-711_Vol1_Scienza.QXD
6-06-2007
12:09
Pagina 696
La sociobiologia
di Saverio Forestiero
Il comportamento cooperativo, indispensabile alla costituzione delle società
animali e umana, sembra contraddire in apparenza un punto fermo della teoria
darwiniana: la competizione tra individui (diretta e indiretta) presente nella
selezione naturale, causa dell’adattamento genetico. La sociobiologia è la teoria
integrata che spiega in termini bioevoluzionistici i meccanismi garanti della
socialità animale. La sua estensione all’uomo, insieme all’idea del suo fondatore
Edward Otis Wilson di un progetto culturale egemonico e riduzionista a scapito
della psicologia, dell’antropologia e della sociologia tradizionali, hanno sollevato
nell’ultimo quarto di secolo accese polemiche.
Ape operaia
I caratteri morfologici delle api
differiscono nelle tre caste
componenti la specie: femmine
feconde o regine, femmine
sterili od operaie, maschi o
fuchi. Le operaie costituiscono
la massa lavoratrice e guerriera
che si occupa dell'allevamento e
riscaldamento delle covate, della
pulizia, difesa, ventilazione e
costruzione dell'alveare, di tutti
i lavori necessari alla vita della
colonia e della raccolta del
miele. L’esistenza di fenomeni
altruistici tra gli imenotteri
sociali costituisce uno dei primi
problemi analizzarli dalla
sociobiologia.
Ottocento, Scienza
e tecnologia: Charles
Darwin, Il secolo
dell’evoluzione, L’eugenica
696
Il problema dell’altruismo e la nascita della
sociobiologia
La sociobiologia, in quanto teoria generale del comportamento sociale degli organismi, nasce dal lavoro di sintesi compiuto su dati di
etologia, genetica ed ecologia di popolazione e di biologia evoluzionistica da Edward Otis Wilson (1929-), con lo scopo di comprendere e spiegare i meccanismi evolutivi soggiacenti il comportamento sociale. Poiché necessita di cooperazione, infatti, il comportamento sociale solleva un grosso problema; se l’evoluzione dipende
dalla competizione, non si vede in che modo la cooperazione abbia
potuto evolversi. Wilson, studioso di formiche, era particolarmente
interessato agli imenotteri sociali (formiche, vespe, api) caratterizzati dal fenomeno delle caste sterili. E molte pagine del suo libro del
1975, Sociobiologia, la nuova sintesi, giudicato come il manifesto
della teoria sociobiologica, trattano di questi insetti. La sua ricerca
muove quindi da un problema ricorrente nella teoria dell’evoluzione, e cioè, come spiegare l’esistenza delle caste sterili negli imenotteri sociali e, più in generale, l’esistenza di fenomeni altruistici (si
definisce altruistico l’atto che non aumenta la probabilità di sopravvivenza – o l’idoneità riproduttiva – di chi lo esegue, ma quella – o
l’idoneità riproduttiva – del beneficiario). La questione era già stata sollevata da Charles Darwin nel capitolo dell’Origine delle specie
(1859) dedicato agli istinti e agli insetti sociali. Essendo consapevole che la selezione naturale (in quanto meccanismo agente a livello
di individuo) non può spiegare l’origine e l’evoluzione delle caste,
Darwin avanza l’idea che possa esistere un meccanismo, che chiama
selezione applicata alla famiglia, che avvantaggia il gruppo di parenti di un individuo sterile (un’ape operaia, ad esempio) a discapito
dell’individuo.
In anni precedenti la Teoria sintetica dell’evoluzione il modellista
americano Sewall Wright (1889-1988) aveva impiegato l’espressione selezione tra gruppi, pensando a una selezione che fosse il risultato di una diversa probabilità di riproduzione non tra individui ma
tra popolazioni di individui (selezione tra popolazioni, selezione interdemica). Poi, negli anni Quaranta, affrontando altri problemi,
Wright elabora un modello di diffusione di geni svantaggiosi per
l’individuo portatore. Il modello prevede che copie di questi geni
svantaggiosi (e quelli per l’altruismo sono svantaggiosi per la fitness
dell’altruista) si sarebbero potuti diffondere anche solo per deriva
genica, ma a patto di essere presenti in gruppi molto piccoli di individui. Anni prima il genetista inglese John Burdon Sanderson
Haldane, indagando sull’altruismo, si era chiesto quale potessero
essere le condizioni demografiche ideali facilitanti la diffusione di
caratteri altruistici, arrivando a concludere che semmai fossero esistiti geni per l’altruismo essi si sarebbero potuti diffondere solo all’interno di piccoli gruppi di individui. Haldane precisa che il piccolo gruppo avrebbe dovuto essere formato da individui imparentati la cui probabilità di fare figli aumenta grazie alla presenza di
questi geni per l’altruismo in un individuo del gruppo, del quale abbassano la vitalità. Il fatto interessante è che Wright e Haldane giungono per vie completamente diverse alla stessa conclusione: geni
svantaggiosi per un individuo si possono conservare e diffondere a
patto che il gruppo di appartenenza dell’individuo sia molto piccolo. Negli anni Sessanta il genetista inglese John Maynard Smith
(1920-2004) trattando di selezione sopraindividuale conia l’espressione selezione di parentela (kin selection) per indicare l’affermarsi
di caratteristiche che favoriscono la sopravvivenza dei parenti più
stretti di un individuo (sia discendenti diretti come i propri figli che
discendenti indiretti). La kin selection è tanto più importante quanto maggiore è il grado di parentela tra gli individui.
In un settore diverso, quello dell’ecologia, negli stessi anni, alcuni
studi popolazionistici arrivano alla conclusione che la regolazione
demografica delle popolazioni di certi roditori artici si compie attraverso una selezione interdemica, una selezione analoga alla selezione
di parentela. Poi nel 1962 l’ecologo inglese Vero Copner WynneEdwards (1906-1997) ipotizza che certe popolazioni animali esercitino un controllo demografico spontaneo, in funzione delle risorse
alimentari disponibili, attraverso un meccanismo genetico che chiama selezione di gruppo. Nel suo libro, Animal Dispersion in Relation
to Social Behaviour (1960), Wynne-Edwards scrive che fenomeni come il territorialismo e le gerarchie sociali possono essere visti come
dispositivi etologici di controllo delle nascite evolutisi a vantaggio
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La sociobiologia
La genetica delle popolazioni
La genetica delle popolazioni si propone di analizzare geneticamente le popolazioni naturali, cioè
l’insieme di individui di una stessa specie che vivono in una medesima area, in particolare utilizzando
i metodi matematici e statistici della biometria. I
principi mendeliani sono validi infatti anche per la
trasmissione dei geni all’interno di un gruppo di individui o di una popolazione naturale; una caratteristica che ha interessato gli studiosi, in particolare,
è il vantaggio riproduttivo degli individui portatori di
caratteri favorevoli, che, dunque, saranno più probabilmente trasmessi alla discendenza. Il concetto
fondamentale è quello di frequenza genica (la frequenza con cui determinati geni sono presenti in
una popolazione); di questa si esaminano anche variazioni, modalità e cause della variazione. La genetica di popolazione, infatti, richiede uno studio che
tenga conto di tutte le varianti alleliche dei geni presenti negli individui che la compongono. Poiché
non è possibile osservare tutti gli individui di una
popolazione, il genetista ricorre al campionamento.
Esistono molte difficoltà nello stabilire le frequenze
dei geni: per esempio i geni recessivi non sono rivelabili negli eterozigoti. Tali difficoltà vengono aggirate costruendo modelli semplificati delle popolazioni e risolvendo i problemi matematicamente rispetto ai modelli. Una legge fondamentale nella genetica di popolazione è quella di Hardy-Weinberg,
che la frequenza e la distribuzione analizza dei geni di una popolazione; in un certo senso equivale alle leggi di Mendel, che rendono conto invece di come avviene la trasmissione dei geni in singoli organismi. Secondo la legge di Hardy-Weinberg, i fattori principali che governano i cambiamenti evolutivi
di una popolazione sono le mutazioni, le migrazioni (intese come flusso di geni tra popolazioni), la dimensione della popolazione, l’accoppiamento non
casuale e la selezione naturale.
della specie, in quanto impediscono la sovrappopolazione, Quest’idea è però criticata da molti biologi, tra cui uno dei massimi teorici
dell’evoluzione, l’americano George Williams, che ne mette in risalto le debolezze teoriche. Comunque il libro stimola molta ricerca
teorica e sperimentale su numerosi aspetti della socialità. Tra le diverse ipotesi avanzate per spiegare l’esistenza dei differenti tipi di atti altruistici descritti in letteratura si impone quella dell’inglese William Hamilton (1937-2000) basata sulla kin selection.
L’idea sottostante la teoria di Hamilton è che quanti più geni in comune un beneficiario ha con un donatore-altruista, tanto più il donatore ottiene un beneficio dall’essere altruista: un altruista (ammesso che sia capace di riconoscere i propri consanguinei) tende ad
aiutare i parenti stretti più di quanto non faccia con quelli lontani.
Hamilton elabora un modello estremamente verosimile di come si
sia potuta affermare nel corso dell’evoluzione la socialità delle api,
fra le quali le operaie formano una casta di femmine sterili. Per risolvere il dilemma Hamilton introduce il concetto di fitness complessiva (inclusive fitness) di un individuo, da intendersi come la
somma della fitness diretta (cioè la normale idoneità riproduttiva individuale, pari al numero di figli prodotti che raggiungono l’età
adulta) e della fitness indiretta (cioè gli effetti benefici, prodotti dal
comportamento dell’individuo, a favore di altri individui imparentati ma non diretti discendenti). Hamilton riesce a dimostrare, perciò, che anche se un individuo non si riproduce (fitness diretta pari
a zero, come nel caso dell’ape operaia), la sua fitness complessiva
può essere positiva se con il suo comportamento avvantaggia altri
consanguinei non diretti discendenti; per esempio con il suo “sacrificio” l’ape operaia avvantaggia la sorella regina con la quale – per
speciali meccanismi genetici di determinazione del sesso – condivide il 75 percento dei geni; mentre la quantità di geni in comune tra
i fratelli è del 50 percento: la parentela tra sorelle è maggiore di
quella tra fratelli.
In una popolazione, perciò, un comportamento altruistico può
evolvere se esso aumenta la fitness complessiva dell’individuo che lo
attua. La scoperta fatta da Hamilton, una tra le maggiori conquiste
conoscitive della biologia del Novecento, ha un’enorme importanza teorica perché riconduce l’evoluzione dei comportamenti altruistici all’interno della spiegazione darwiniana classica basata sulla selezione individuale. La kin selection è infatti una semplice variante
della selezione individuale.
Dall’altruismo del fenotipo all’egoismo del gene
I concetti di fitness complessiva e di kin selection permettono di
concludere allo zoologo Richard Dawkins di Oxford che l’altruismo è un fenomeno “di superficie”, fenotipico, perché a livello genotipico permane un sostanziale “egoismo” dei geni. Un’azione è
solo in apparenza altruistica se l’individuo che la esegue aumenta la
probabilità che vengano riprodotte copie identiche dei propri geni
nei consanguinei, se l’individuo incrementa cioè la propria fitness
globale: a livello genotipico i comportamenti altruistici accrescono
dunque la fitness di chi li esegue, sono quindi “egoistici” e non rappresentano un problema per la teoria della selezione naturale.
In Il gene egoista, pubblicato nel 1976, Dawkins fa un passo in più
rispetto al darwinismo (secondo cui l’evoluzione per selezione è sostanzialmente riducibile a una competizione tra organismi) sostenendo che a competere sono i geni, le uniche entità che perdurano
attraverso le generazioni: gli individui non sarebbero altro che contenitori, veicoli al servizio dei geni. L’adesione di Dawkins alla sociobiologia porta con sé l’idea che tutti i prodotti fenotipici dell’evoluzione, compresi tutti gli adattamenti osservabili, non sono niente altro che dei dispositivi evolutisi per favorire il successo riproduttivo dei geni. La sua è una teoria genecentrica che verrà tenacemente e aspramente criticata dal paleontologo Stephen Jay Gould
(1942-2002). A proposito del genecentrismo, Richard Lewontin,
genetista ad Harvard, ha giustamente osservato che non c’è nessun
motivo teoricamente fondato per cui si debba privilegiare nell’analisi evoluzionistica i geni e non i fenotipi, suggerendo che forse questa preferenza possa essere condizionata dal fatto che i fenotipi sono caduchi (scompaiono con la morte dell’individuo), mentre il
DNA è imperituro e che questo colpisce noi mortali. Ma se questo
fosse il motivo, si tratterebbe allora di un’opzione metafisica, infondata scientificamente.
Novecento*, Storia:
Politiche razziali e politiche
eugeniche
La sociobiologia umana
È accertato che la cooperazione è indispensabile alla formazione
delle società animali. Per spiegarne l’origine e la diffusione oltre alla possibilità di un reciproco vantaggio tra individui non imparentati (altruismo reciproco di Robert L. Trivers), c’è l’idea di selezione di gruppo di Wynne-Edwards, respinta quasi subito dagli evoluzionisti, e quella della kin selection con cui Hamilton riesce finalmente a spiegare l’apparente paradosso dell’altruismo.
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
Formiche
In ogni formicaio abitano in
media 500.000 individui e in
casi eccezionali alcuni milioni.
Per la maggior parte gli abitanti
appartengono alla casta delle
operaie, mentre le regine sono
presenti in numero variabile da
alcune centinaia ad alcune
migliaia.
Wilson fonda la sua teoria sociobiologica su questo modello applicandolo non solo agli insetti sociali ma anche a specie di uccelli e
mammiferi, per poi estenderla all’uomo. La posizione complessiva
di Wilson è che la socialità e la cultura umane dipendono dal genotipo degli individui e che i comportamenti umani, così come si
esprimono per esempio nella scelta sessuale, nella formazione della coppia e della famiglia, nell’etica e nella religione, sono darwinianamente finalizzati all’incremento del successo riproduttivo individuale. Applicando la propria teoria alla suddivisione dei ruoli
tra i sessi, Wilson spiega che i maschi sono selezionati per l’aggressività, la caccia, la mobilità, la promiscuità sessuale e le femmine
per la raccolta del cibo, la nutrizione e la cura della prole. Naturalmente l’applicazione diretta dei principi evoluzionistici alla socialità umana allo scopo, esplicitamente dichiarato da Wilson, di pianificare le società future, suscita negli Stati Uniti e in Europa una
vera e propria ribellione. Le proteste sono di varia provenienza:
Novecento*, Scienza
e tecnologia:
Dall’antropologia fisica
all’antropologia genetica:
il dibattito sull’evoluzione
umana, Dall’ingegneria
genetica al progetto genoma
umano, La genetica,
L’etologia, L’evoluzione
dell’evoluzionismo
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dalla biologia alla psicologia, all’area delle scienze sociali. Alcune
sono argomentate in termini scientifici: per esempio mettevano in
luce le scarsissime conoscenze circa la base genetica del comportamento non solo nella nostra specie ma più in generale nei mammiferi e nella maggior parte dei gruppi animali; altre, sottolineando la
circostanza che i caratteri etologici sono fortemente epigenetici e
che la loro ereditabilità è quindi molto modesta, attaccano poi l’idea che si possa parlare di “geni per l’altruismo”, segnalando la pericolosa ipersemplificazione collegata a questo tipo di assunto; altri critici negano che si possa validamente trasferire alla nostra specie un modello costruito guardando agli insetti.
Come di solito avviene in casi simili, vi sono molti malintesi. Alle
critiche, alcune sicuramente di merito, di Richard Lewontin e
Stephen J. Gould (entrambi colleghi di Wilson ad Harvard) che denunciano le posizioni di Wilson, Dawkins e altri come una forma
estrema di riduzionismo e di adattamentismo, se ne aggiungono altre, mosse dalla preoccupazione degli effetti deresponsabilizzanti
collegati al brutale riduzionismo e al determinismo genetico che, a
loro giudizio, sono caratteristici dell’approccio di Wilson che pretende di spiegare con l’innatismo e la determinazione genetica la
posizione subalterna della donna nella società, o il formarsi delle
classi e lo status sociale individuale. Nel corso degli anni, negli Stati Uniti in particolare, Wilson e la sua teoria sono attaccati da circoli intellettuali che intravedono il possibile impiego distorto e socialmente pericoloso che gruppi politici conservatori avrebbero potuto
fare delle spiegazioni sociobiologiche.
Si ritiene che la sociobiologia sia politicamente schierata per il mantenimento dello status quo e che i fenomeni della socialità umana vadano descritti e compresi in termini antropologici e sociologici e
non riduzionisticamente interpretati in termini genetici. E tuttavia,
nonostante alcune inopportune o erronee semplificazioni della sociobiologia, l’idea espressa da Wilson nel libro del 1978 On human
nature che sia possibile adottare principi e argomentazioni evoluzionistiche per scrutinare l’accettabilità o meno delle teorie etiche
generali, ci sembra un aiuto prezioso a pensare e ad agire nel migliore dei modi possibili.
L’innatismo
L’innatismo è una dottrina filosofica che afferma l’esistenza nella mente umana non soltanto di idee acquisite con l’esperienza, ma anche originariamente presenti alla mente stessa. In un certo senso, si può dire che
il precursore dell’innatismo fu Platone, secondo il quale la conoscenza razionale consiste nel ricordare ciò
che l’anima ha visto nel mondo delle idee prima di venire imprigionata nel corpo. È tuttavia solo col razionalismo moderno che si afferma un innatismo compiuto:
non possono essere considerate tali la filosofia platonica né quella aristotelica: nella prima il mondo non è affatto conosciuto completamente dall’uomo, mentre per
la seconda i principi primi, sebbene definiti “immediatamente evidenti”, sono comunque visti nell’esperienza. È in particolare con Cartesio, Spinoza e Leibniz che
si afferma la teoria per cui le conoscenze più decisive
l’uomo non le ricava dall’esperienza, ma le possiede
già in sé, appunto come idee innate; si tratta delle conoscenze che hanno caratteri di necessità e universalità, come l’idea di verità, dell’anima, di Dio.
Da queste teorie si differenzia l’innatismo kantiano, che afferma il carattere innato non di contenuti
conoscitivi ma solo di un fattore della conoscenza,
cioè delle forme a priori.
Teoria sintetica
S. Forestiero
LA TEORIA SINTETICA DELL’EVOLUZIONE
1. INTRODUZIONE
Nonostante la teoria darwiniana dell'evoluzione fosse stata ampiamente accettata dalla
maggioranza dei biologi subito dopo il 1859, anno di pubblicazione dell'Origine, tuttavia a
partire da un ventennio più tardi, e per oltre mezzo secolo, le spiegazioni gradualiste e
selezioniste dell'evoluzione biologica persero terreno sotto l'incalzare delle teorie
mutazioniste dei genetisti mendeliani. Il passaggio dalla situazione tipica dei primi
decenni del Novecento, dominata dal saltazionismo dall'ortogenesi e dal neolamarckismo,
a quella odierna in cui la spiegazione darwiniana fornisce il paradigma di riferimento, fu
dovuto alla messa a punto di un modello esplicativo integrato dell'evoluzione conosciuto
da tutti come “Teoria sintetica” (Mayr e Provine, 1980).
Nel 1974, l'Accademia americana delle Arti e delle Scienze affidava a Ernst Mayr
l'organizzazione di una conferenza dedicata alla Teoria sintetica dell'evoluzione. La
conferenza, frazionata in due sessioni seminariali tenute a maggio e a ottobre di quello
stesso anno, vide la partecipazione di storici dell'evoluzionismo e di una trentina di
biologi tra cui comparivano anche alcune tra le maggiori personalità che negli anni tra il
1937 e il 1947 avevano partecipato a quell'evento storico che Julian Huxley nella seconda
edizione del libro dedicato alla sintesi moderna dell'evoluzione, Evolution, the modern
synthesis (Huxley, 1942, 1963), etichettò come teoria neo-darwiniana, sintetica o integrativa
dell'evoluzione.
Con l'aiuto di William Provine, Mayr curò poi la stampa dei contributi alla conferenza,
pubblicati qualche anno più tardi nel volume The evolutionary synthesis, "Sintesi evolutiva":
un'espressione che oggi è sinonimo di Teoria sintetica dell'evoluzione (Mayr e Provine,
1980).
I partecipanti alla conferenza furono sostanzialmente tutti d'accordo nel sostenere che la
Sintesi moderna consistette nella confluenza di una serie di acquisizioni disciplinari
provenienti dalla genetica, dalla sistematica e dalla paleontologia in una teoria unitaria
dell'evoluzione.
Tra i caratteri principali di questa teoria troviamo il gradualismo anagenetico e
cladogenetico, l'idea che la variazione è organizzata in un "fondo" o pool genetico di
proprietà della popolazione, il riconoscimento che soggetto di evoluzione è la
popolazione, la convinzione che la selezione è uno dei principali fattori di evoluzione
nonché l'unica causa dell'adattamento.
1
Teoria sintetica
S. Forestiero
2. FINO AL 1937
Di solito si fa iniziare l'elaborazione della Teoria sintetica con il 1937, data di
pubblicazione di un libro di Theodosius Dobzhansky dedicato al rapporto tra genetica e
origine delle specie, in cui l'autore discute sul metodo più idoneo per riunire in un unico
quadro teorico dati informazioni e conoscenze sull'evoluzione.
Oggi le posizioni di Dobzhansky sono così indistinguibili dai principi base della teoria
evolutiva corrente da poter apparire fin troppo ovvie, ma quando furono esposte per la
prima volta esse suonarono eterodosse e in contrasto con le vedute di moltissimi
mendeliani. I genetisti sperimentali del primo Novecento, infatti, sostenevano l'idea che il
nucleo della teoria evolutiva dovesse essere rappresentato dalla variazione genetica e non
dalla selezione naturale.
Più articolata, invece, era la posizione di Thomas Hunt Morgan, che negli anni Dieci,
avendo potuto osservare su Drosophila molti esempi degli effetti delle piccole mutazioni, si
convertì al gradualismo dopo avere sostenuto per oltre un ventennio posizioni
anticontinuiste e antiselezioniste (Sturtevant, 1959; cit. in Provine, 1971).
In quegli anni il fattore ereditario, la variazione, era diventato un passe-partout esplicativo
di successo, esteso anche alle questioni sociali, e la selezione naturale, sebbene da alcuni
genetisti ammessa in linea di principio, veniva giudicata fenomeno non osservabile e
tantomeno misurabile, perciò non integrabile in una teoria evolutiva fondata sulle
osservazioni quantitative "esatte" dei genetisti (NordenskiØld, 1929).
Tutto ciò era frutto della riscoperta delle leggi di Mendel che nel 1900 avevano aperto un
nuovo inesplorato campo di ricerche. L'evoluzione biologica veniva rappresentata come
un fenomeno complessivamente discontinuo e gran parte dei biologi sperimentali degli
anni Venti e Trenta ancora vedeva, perciò, nella natura discontinua della variazione
genetica la chiave di accesso alla comprensione dei meccanismi fondamentali
dell'evoluzione.
La produzione di nuove specie e l'adattamento erano spiegate ricorrendo alle mutazioni
del patrimonio ereditario. L'idea che la mutazione fosse di per sé adattativa era un punto
qualificante della teoria evolutiva di Lamarck, e non deve stupire troppo se la
maggioranza dei genetisti sperimentali dell'epoca era lamarckiana visto il ruolo adattativo
assegnato alle mutazioni.
Furono antidarwiniani e antiselezionisti studiosi di grande prestigio, sia mendeliani
antigradualisti come William Bateson (autore che coniò il termine "gene") sia saltazionisti
puri come Hugo de Vries; era loro convinzione che le variazioni di tipo continuo fossero
2
Teoria sintetica
S. Forestiero
troppo piccole per produrre pressioni selettive significative e che quindi sorgente di
variazione essenziale per l'evoluzione potessero essere solo le mutazioni di grande
portata.
Risale a quegli anni il contrasto tra mendeliani e biometrici; i secondi pur sostenendo
correttamente l'importanza della variazione continua e di piccola entità ai fini evolutivi,
credevano erroneamente che l'eredità avvenisse per mescolanza: posizione inaccettabile
dai mendeliani. Intanto, grosso modo nello stesso periodo degli anni Venti in cui Morgan
stava completando la mappe cromosomiche di Drosophila e Hermann Joseph Müller
dimostrava l'esistenza della mutagenesi, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti andava
maturando a opera di Ronald Alymer Fisher, John Burdon Sanderson Haldane e Sewall
Wright un approccio teorico all'evoluzione anche esso nato dal dibattito sull'ipotetica
continuità dell'evoluzione e l'ipotetica efficacia della selezione naturale.
Fisher era uno statistico interessato alla teoria dell'evoluzione ma privo di competenze
biologiche, Haldane era un giovane e brillante biochimico passato alla genetica e alquanto
versato in matematica, diversamente da Wright, che era anche egli un biologo ma con una
scarsa formazione iniziale in matematica.
Nell'elaborazione di una modellistica matematica della genetica di popolazione si
dovettero affrontare e risolvere tre principali categorie di problemi: 1) dare una misura
quantitativa del grado di parentela tra i membri di una popolazione panmittica; 2)
esprimere analiticamente i diversi tipi di accoppiamento; 3) rendere in forma quantitativa
i differenti fattori di evoluzione (selezione, deriva, ecc.).
I lavori di Fisher sulla dominanza, il polimorfismo bilanciato e sul rapporto tra varianza
genetica ed evoluzione, quelli di Wright sugli effetti dell'inincrocio, sull'importanza della
deriva nelle piccole popolazioni, sul coefficiente di parentela e sull'interazione tra loci
genici, e i modelli di Haldane sulla selezione a carico di geni autosomici furono alla base
della genetica matematica di popolazione, ovviamente insieme alle più antiche trattazioni
di Wilhelm Weinberg e di Godfrey Harold Hardy risalenti al 1908 e oggi note come
principio di Hardy-Weinberg.
Nel corso di tre anni consecutivi Fisher (1930), Wright (1931) e Haldane (1932)
pubblicarono i loro scritti più importanti fondando la genetica teorica di popolazione. Il
loro lavoro riuscì a superare i contrasti tra mendeliani e biometrici dimostrando l'assenza
di conflitto tra posizione mendeliana (eredità discreta), gradualismo (variazione continua)
e darwinismo (efficacia della selezione naturale). Ognuno di questi tre autori produsse un
3
Teoria sintetica
S. Forestiero
proprio modello matematico che coglieva e teorizzava solo alcuni aspetti del processo
evolutivo, in qualche caso i modelli proposti potevano confliggere e tuttavia la sintesi tra
mendelismo e darwinismo era stata realizzata a livello della teoria genetica.
Affinché maturasse la possibilità di una sintesi tra teoria e prassi e affinché essa fosse più
ampia, transdisciplinare, era necessario che le previsioni dei singoli modelli venissero
provate sperimentalmente e che le acquisizioni della genetica fossero articolate con quelle
della sistematica e della paleontologia a due diverse scale si occupavano dei risultati dei
cambiamenti evolutivi.
3. ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLA TEORIA SINTETICA (1937-1946)
Se la popolazione pensata dai genetisti teorici era un'astratta entità statistica, non così
avveniva per le popolazioni di organismi osservate sul campo dai naturalisti e in
laboratorio dai genetisti sperimentali degli anni Trenta.
Gli storici concordano nell'assegnare al libro di Dobzhansky il valore di promotore e
catalizzatore della Teoria sintetica. Singolarmente, la figura del suo autore aveva una
doppia natura: a una solida formazione di entomologo specialista di Coccinellidi, univa le
competenze di genetista acquisite nel laboratorio di T.H. Morgan. Di origine russa,
emigrato ventisettenne negli Stati Uniti, era uno dei pochi in occidente, insieme a N. W.
Timoféeff-Ressovsky, a conoscere l'importante produzione scientifica dei biologi russi
dell'epoca (Severtsov, Koltsov, Vavilov, Philipchenko, Schmalhausen, ecc. ), tra cui
spiccava un fondamentale saggio teorico di Sergei Chetverikov (1926) sui rapporti tra
eredità mendeliana e processi evolutivi (pubblicato in inglese 35 anni dopo, nel 1961).
Nel libro di Dobzhansky si trovano combinati l'approccio di Chetverikov all'evoluzione
della popolazione (basato sul meccanismo mutazione-selezione) con la citogenetica di
Morgan. Figura ponte tra due culture di ricerca, Dobzhansky dimostra che i processi
evolutivi sono analizzabili con le idee, i principi e i metodi della genetica opportunamente
associati a osservazioni a breve termine di popolazioni naturali e di laboratorio.
L'importanza delle discontinuità tra le specie e la necessità del loro studio è riconosciuta
come un fatto di primaria importanza: il primo capitolo del libro è dedicato alla
descrizione e ai metodi di analisi di quella che oggi si chiama biodiversità, mentre l'ultimo
capitolo riguarda la specie e la speciazione. In mezzo sono trattati temi quali le mutazioni
in quanto sorgente di novità genetica, la loro presenza anche nelle popolazioni naturali,
l'efficacia della selezione, la poliploidia, la natura dei meccanismi di isolamento, la sterilità
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Teoria sintetica
S. Forestiero
degli ibridi. Se l'approccio di Dobzhansky allo studio dell'adattamento fu particolarmente
felice, non altrettanto può dirsi della sua trattazione della cladogenesi. Per esempio, per
primo scrive di "meccanismi di isolamento" tra le specie ma lo fa includendovi,
erroneamente, anche l'isolamento geografico.
Il problema della specie nel suo complesso, con la dimostrazione che le specie sono entità
biologiche concrete e non enti nominali, l'introduzione del pensiero popolazionistico in
sistematica, lo studio della variazione geografica discontinua (con le Rassenkresis di
Rensch o specie politipiche di Huxley) e di quella continua (i clini di Huxley),
l'importanza della distribuzione geografica allopatrica e di quella simpatrica e finalmente
l'individuazione dei meccanismi di speciazione geografica, tutto questo insieme di
tematiche fu brillantemente affrontato nei lavori di Mayr (1942), Huxley (1942) e Rensch
(1939).
Mayr, in particolare, precisò la definizione di specie elaborando il ben noto "concetto
biologico di specie" e contribuì alla sintesi anche con le sue competenze di biogeografo .
Mayr, oltre ad essere stato uno dei grandi protagonisti della Teoria sintetica (nel 1946 fu
tra i fondatori della Società per lo Studio dell'Evoluzione e primo direttore di Evolution, la
rivista della SSE), viene universalmente riconosciuto come il biologo che più di ogni altro
si è dedicato, e con grande successo, all'aggiornamento ed alla sistematizzazione storicocritica delle conoscenze sull'evoluzione che nei decenni post-Sintesi sono andate via via
accumulandosi (si veda per es. Mayr, 1982).
All'epoca della Sintesi , i paleontologi erano fieramente avversi al darwinismo; tra loro vi
furono studiosi neolamarckiani e studiosi antilamarckiani, saltazionisti e ortogenisti, ma
nessuno di essi accettò il gradualismo selezionista dei neontologi.
Un'interpretazione diretta della macroevoluzione in termini di analisi genetica era
impossibile, e anche il paleontologo americano George Gaylord Simpson giudicava
opportuno tenere distinta la teoria della microevoluzione da quella macroevolutiva.
Tuttavia egli abbozzò un'analisi causale della macroevoluzione dato che era interessato a
dimostrare la consistenza dell'evoluzione paleontologica con le inferenze della genetica. Il
suo libro, Tempo and mode in evolution, iniziato nel 1938 praticamente terminato nel 1942 e
stampato nel 1944, è un'opera assolutamente innovativa per molte ragioni, tra cui
l'impiego di grafici sulla stima delle velocità di evoluzione o di tabelle sulle distribuzioni
di frequenza, tutti materiali che denunciano l'interesse di un approccio quantitativo ai
problemi paleontologici. Simpson, interessato ai meccanismi dell'evoluzione, modellizza i
dati e le informazioni sui fossili ispirandosi alla demografia, alla genetica di popolazione
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Teoria sintetica
S. Forestiero
(prova a trasferire i "paesaggi adattativi" di Wright all'evoluzione dei cavalli), elabora la
nozione di "zona adattativa", ipotizza l'esistenza di una "evoluzione quantica". Quello di
Simpson, dunque, non un libro pieno di prove e di nuovi dati sui fossili, ma, piuttosto, un
libro di idee, ricco di suggerimenti e di modelli, pieno di interesse per la creazione di
nuove ipotesi interpretative di dati peraltro già noti.
4. DOPO IL 1946: ESTENSIONE DELLA TEORIA SINTETICA
Anche se la Teoria sintetica si giudica praticamente conclusa con la pubblicazione del
lavoro di Rensch, tuttavia la Sintesi si estende e si complessifica per una durata di molti
anni dopo quella data. Importantissimo, per esempio, il contributo del morfologo ed
embriologo russo Ivan Ivanovic Schmalhausen (1946) che dedica un'approfondita analisi
all'evoluzione darwiniana delle popolazioni in rapporto alla variazione ambientale. Il suo
lavoro si fonda su un approccio organismico; percependo chiaramente la natura
gerarchica dei sistemi viventi, si adopera ad illustrare i rapporti tra le proprietà
dell'organismo e quelle del genoma e tra quelle organismiche e quelle della popolazione:
un approccio dialettico ripreso in anni recenti dai critici dell'adattamentismo.
Schmalhausen conduce una sofisticata analisi del rapporto tra genotipo e ambiente,
sviluppa il concetto di norma di reazione e quello di selezione stabilizzante, illustra i
possibili meccanismi sottostanti la plasticità fenotipica, individua nel rapporto tra
selezione e processi di sviluppo uno dei grandi temi futuri della teoria dell'evoluzione.
Qualche anno dopo, George Ledyard Stebbins (1950) estende la teoria sintetica alla
botanica chiarendo il peso della poliploidia e della ibridogenesi nella speciazione delle
piante. Va osservato che anche il libro di Stebbins (una rarità per l'epoca, dato lo scarso
sviluppo degli studi sulle popolazioni naturali di vegetali) viene pubblicato nella collana
Columbia Biological Series della Columbia U.P., come era già avvenuto per le opere
fondamentali di Dobzhansky, Mayr e Simpson. Negli anni seguenti Dobzhansky pubblica
due altre edizioni del suo libro, Simpson pubblica altri volumi sugli stessi argomenti, così
fanno pure Mayr e Stebbins (per una esaustiva rassegna bibliografica si vedano Mayr e
Provine, 1980 e Mayr, 1982).
Con il passare del tempo la Teoria sintetica viene modificata, ma intanto adesioni e
diffusione della teoria crescono. Un effetto non voluto ma facilitato dall'irrigidimento
della Teoria sintetica e dalla sua pervasività è stato l'adattamentismo: una forma distorta e
ipersemplificata della teoria dell'adattamento.
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Teoria sintetica
S. Forestiero
Se si confrontano le grandi scoperte della biologia molecolare e della sociobiologia, o le
più recenti acquisizioni delle neuroscienze e della biologia dello sviluppo, con i risultati
della Teoria sintetica si vede che, nonostante l'enorme crescita di conoscenze dovuta agli
sviluppi post-Sintesi di queste discipline, tuttavia nessuno di questi campi disciplinari ha
elaborato una teoria sostitutiva della rappresentazione "sintetica" dell'evoluzione. Qualche
storico della biologia (Smocovitis, 1996) ha però lamentato la mancanza di consapevolezza
del principale effetto della teoria sintetica per le ricerche evoluzionistiche. Gli architetti
della Sintesi, infatti, sono stati per molti versi anche i fondatori di un intero nuovo campo
di ricerche: la biologia evolutiva, disciplina che emerge come il prodotto scientificamente
e culturalmente più originale e significativo della Teoria sintetica dell'evoluzione.
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Modificato da: S. Forestiero, Teoria sintetica;
in A. Fasolo (diretto da),
Dizionario di Biologia, 2003, UTET, Torino
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