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Feticcio è una categoria teologica. Sul piano linguistico
viene da facticius, aggettivo usato da Plinio per definire oggetti
artificiali, in contrapposizione a quelli naturali", in particolare a
proposito di certi materiali, come i "fiori di sale" che si trovano
lungo il Nilo. Si tratta di un una derivazione frequentativa della
radice del verbo "facere": quello della fatticità (parola chiave
della filosofia novecentesca) è un fare grammaticalmente
frequentativo ma semanticamente simbolico, che suggerisce la
possibilità di un'azione indiretta, per analogia piuttosto che per
causalità.
Nel latino medievale e nei volgari la parola assume un senso
magico. Parole come lo spagnolo hechizo, hechicero e
hechiceria, il portoghese feitico e feiticeria hanno un senso
analogo all'italiano fattucchiera, fattura. Feticcio viene dunque
definito a partire dal XVI in ambito coloniale qualcosa di analogo
alle pratiche magiche "basse" della magia popolare, basate su
amuleti e analoghi oggetti che si suppongono dotati di potere
proprio. La nozione religiosa prevalente in questa parola non è
insomma quella di divinità, di sovranità divina, di creazione, di
destino oltremondano, ma quella, molto più pragmatica e in un
certo senso si potrebbe dire più moderna, di efficacia magica, di
capacità operativa del feticcio, la stessa del "non è vero ma ci
credo" che noi usiamo per cornetti portafortuna, amuleti vari,
"medicine" alternative. Proprio in questa accezione essa fu usata
nel Cinquecento dai Portoghesi in Africa occidentale e poi dagli
Spagnoli in America Latina (o piuttosto dai loro teologi e
missionari): i feticci venerati dagli indigeni era qualcosa di meno
di un idolo, “la prima cosa che capitava” utilizzata secondo i
colonizzatori come potere sovrannaturale dai “selvaggi”: oggetti
scelti in maniera casuale cui venivano attribuiti implicitamente
poteri soprannaturali, senza che avessero nomi né teologia. Erano
dunque cose fatte divine, con una trasposizione abusiva e stolta
di essenza: la stessa accusa che si trova già nella Bibbia (per
esempio in Deuteronomio 4:28, Isaia 40:18 e 44:16-18) a proposito
degli idoli (non degli dei): non déi, anzi "nullità" (questo è il
significato dell'ebraico elil (=idolo), non legato a el (=divinità),
ma a al (=non). Qualcosa che non c'è e cui viene falsamente
predicata l'esistenza, o meglio qualcosa che manca dell'essenza
che gli viene abusivamente attribuita:
Essi non riflettono, non hanno scienza e intelligenza per dire: "Ho
bruciato nel fuoco una parte, sulle sue braci ho cotto perfino il pane e
arrostito la carne che ho mangiato; col residuo farò un idolo abominevole?
Mi prostrerò davanti a un pezzo di legno?" Si pasce di cenere, ha un cuore
illuso che lo travia; egli non sa liberarsene e dire: "Ciò che tengo in mano
non è dunque falso?" (Is. 44:16-18).
Gli antropologi ci spiegano come l'analisi teologica dei
colonialisti del XVI secolo era un errore che sottovalutava
grossolanamente la cultura dei paesi colonizzati. Ma fu proprio in
questa accezione - il grado estremamente primitivo della
coscienza religiosa, in cui la divinità non solo non è unica né
personalizzata ma nemmeno costante e sostanzialmente diversa
dalle cose del mondo - che la nozione di feticismo ebbe successo
nel pensiero europeo. Nel 1740 le dedicò un libro Charles de
Brosses, un poligrafo illuminista, sostenendo che il feticismo era
stato anche la religione originaria degli antichi Egizi. L’idea fu
ripresa da August Comte, nel suo tentativo di periodizzare la
coscienza, dalla superstizione alla scienza. Feticismo era per lui il
livello più basso del pensiero religioso. In questa forma servì
anche da metafora a Marx per spiegare, all’inizio del Capitale, il
funzionamento “inverso” delle merci nel capitalismo, per cui il
valore, fondato su rapporti fra gli uomini e il loro lavoro verrebbe
descritto come un rapporto fra cose. Anche qui si usa la parola
per indicare un cambiamento abusivo di essenza, l'inversione fra
ciò che è vivo e ciò che è morto che si verifica nella coscienza
ideologizzata di chi vive nel sistema capitalistico.
Un’altra tappa molto importante della carriera del termine
feticcio si deve allo psicologo francese Alfred Binet (l’inventore
dei test di intelligenza). Fu lui a proporre il nome feticismo per
quella patologia sessuale che concentra o condiziona il desiderio
a oggetti parziali, cioè parti del corpo, indumenti e in definitiva
qualunque altra cosa che prende il posto dell’oggetto d’amore. Si
tratta di uno scambio abusivo in cui, come nel feticismo religioso
e in quello economico, a una cosa vengono attribuiti poteri
“spirituali”. La proposta di Binet ha avuto molto successo in
psicanalisi, interessando in particolare Sigmund Freud e Jacques
Lacan come si può vedere anche da un recente volume collettivo
pubblicato da Einaudi (Figure del feticismo, a cura di Stefano
Mistura).
Di qui, dal carattere abusivo dei feticci, il discorso si può
allargare facilmente al complesso della nostra cultura, così
interessata all’”intelligenza artificiale” e all’affettività degli
oggetti. E’ quanto ho cercato di fare, se è levito citarmi, in un
mio libro di alcuni anni fa (Fascino, Feltrinelli 1997), e che è al
centro della riflessione di studiosi come Jean Baudrillard, Bruno
Latour ma anche dello sloveno Slavoj Zizek. Come a suo tempo
il concetto di alienazione (in Lukaks, nella scuola di Francoforte
ecc.), con cui è imparentato, la nozione di feticcio appare oggi
essenziale per una riflessione filosofica sul tempo presente; ed è
sintomatico che in alcuni casi (per esempio in Latour) si noti
quanto meno una profonda ambivalenza rispetto a quest'idea. Il
punto è lo scambio, sistematico nella nostra cultura, fra ciò che è
vivo e ciò che è inerte e senza vita: il corpo umano è trattato con
successo come un oggetto nel mondo delle cose, ma alle merci e
ai dispositivi elettronici si applica una complessa e sistematica
strategia di umanizzazione. I veri feticci del nostro tempo
probabilmente non sono gruppi musicali o programmi politici,
ma i discendenti di quei robot inventati all’inizio del secolo
scorso dallo scrittore ceco Karel Capek (da una parola slava che
vuol dire “lavoratore”). E senza dubbio ancora i mondi del
divino, delle merci e dell'erotismo, da cui il nostro concetto si è
imposto come metafora fondamentale.
Per capire la rilevanza del feticcio rispetto ai comportamenti
e ai valori caratteristici del nostro tempo, è opportuno
concentrarsi sulle coppie di opposti di cui il feticcio è supposto
trasgredire il confino: vivo-morto, persona-cosa, divino-profano.
Il feticcio è in primo luogo oggetto morto, cui vengono attribuite
qualità attive, caratteristiche di chi vive, come la volontà, la
benevolenza (o malevolenza), il potere. Un celebre midrash
(commento rabbinico antico al testo biblico) racconta che
Abramo, prima di andarsene dalla casa del padre fabbricante di
idoli, li distrusse tutti a bastonate. Ai rimproveri del padre risposi
che non era stato lui il colpevole, ma che gli idoli si erano battuti
fra loro e in questo modo distrutti. L'incredulità del padre per
quell'assurda spiegazione è volta da Abramo ad argomento
teologico: se gli idoli non possono neppure muoversi abbastanza
per farsi del male a vicenda, come potrebbero essere onnipotenti?
Il fatto è che nella nostra società sono numerose le cose "non
vive" cui sono attribuite volontà, appetiti, finalità: non solo i
mostri alla Frankenstein, ma anche molte macchine complesse, e
poi oggetti astratti come gli enti statali e soprannazionali, le
società commerciali, le "persone giuridiche", "il mercato" e così
via. Un caso particolarmente significativo è quello delle marche
commerciali, entità puramente comunicative cui spesso non
corrisponde neppure una realtà giuridica, ma solo certe strategie
di vendita: tutta la pubblicità può essere utilmente considerata
come uno sforzo per dare personalità a questi puri nomi. Queste
attribuzioni hanno anche a che fare con la seconda coppia, perché
marche, società, forze di mercato ecc. non sono solo considerate
vive e attive, ma trattate come persone, capaci di seguire progetti,
di avere intenzioni, sentimenti, giudizi. Mentre, al contrario,
sempre più spesso gli esseri umani vengono considerati nella loro
indubbia qualità di oggetti del mondo, soggetti alle comuni leggi
naturali: il pensiero scientifico si sforza continuamente di
naturalizzare la condizione umana e dunque in prospettiva di
abbattere le barriere fra cià che è vivo e ciò che non lo è, fra
soggetto e oggetto.
Non può non colpire in particolare il legame fra feticismo e
mondo delle merci e del consumo. I feticci, nelle loro varie
definizioni, non sono solo (abusivamente) riconosciuti come vivi,
personali, divini; essi sono in primo luogo oggetto di passioni,
esattamente delle passioni che sarebbero (regolarmente) attribuite
ad esseri viventi, personali, divini. Sono adorati, temuti, adulati,
pregati, desiderati sessualmente ecc. per ciò che di fatto non sono
e neppure sembrano: infatti i feticci non sono in linea di principio
icone di ciò che sul piano metafisico sostituiscono, ma semmai
più spesso segni indicali che hanno efficacia semantica per
contiguità; si pensi ai classici feticci sessuali come scarpe e
biancheria
intima.
Questo
aspetto
passionale,
quest'identificazione emotiva è un obiettivo pienamente
consapevole del marketing e della pubblicità. Trasformare la
spesa in un'esperienza erotica, divinizzare le merci e le marche,
farle diventare garanti ecc. sono risultati consapevoli di una
promozione ben condotta.
In definitiva il problema cui si riconduce questa tematica è
quello del valore. E' il valore del feticcio a essere abusivo; le
merci sono valorizzate al di là del loro contenuto economico. Si
tende a pensare che valore sia una nozione principalmente
economica e che i valori (al plurale) siano i principi morali cui si
ispira una certa società. In realtà sotto a queste diverse accezioni
ne esiste una terza, linguistica, scoperta da Ferdinand de Saussure
cent'anni fa: il valore linguistico (o più in generale semiotico) è la
capacità differenziale dei segni, essenziale non solo per la
comunicazione, ma per la significatività del mondo. I valori
linguistici sono arbitrari, nel senso preciso per cui una certa
caratteristica (per esempio l'aspirazione delle dentali in fonetica,
l'essere zio materno o paterno in etnografia) può essere
considerata distintiva, e dunque fornita di valore da una certa
società e ignorata da un'altra. Mentre nelle maggior parte delle
culture l'attribuzione sociale di valore semiotico è sociale e (per
usare una parola che Saussure ha in comune con il suo
contemporaneo Freud) incosciente, nel nostro mondo
l'attribuzione di valore, almeno quello pubblicitario, è un'attività
perfettamente consapevole, programmatica e teorizzata, oggetto
di una ricca industria del senso. Quest'artificialità giustifica il
paragone teologico dell'antropologia contemporanea con il
feticismo e la critica che si porta dietro dai tempi di Isaia.
* Ugo Volli
Università di Torino
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Ugo Volli, Figure del desiderio, Cortina, Milano 2002
id., Fascino, Feltrinelli, Milano, 1997
Stefano Mistura (a cura di) Figure del feticismo, Einaudi,
Torino 2004
Emily Apter & William Pietz, Fetishism as a cultural
discourse, Cornell University Press, Ithaca 1993
Bruno Latour, Il culto moderno dei fatticci, trad. it. Meltemi,
Roma 2005