atalogo 34° Premio Sergio Amidei 2015
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atalogo 34° Premio Sergio Amidei 2015
1 Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei” – XXXIV edizione Comune di Gorizia - Assessorato alla Cultura Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei” Dams Gorizia - Università degli Studi di Udine Presidente dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”: avv. sen. Nereo Battello Giuria del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura: Ettore Scola, Marco Risi, Francesco Bruni, Silvia D’Amico, Giovanna Ralli, Massimo Gaudioso, Doriana Leondeff Direzione generale: Giuseppe Longo Direzione artistica: Mariapia Comand Segreteria di direzione: Martina Pizzamiglio Coordinamento generale: Sara Martin Coordinatore del programma e ricerca film: Simone Venturini, Martina Pizzamiglio Responsabile ospitalità e logistica: Marco Treu Responsabili pubblicazioni: Mattia Filigoi, Margherita Merlo, Filippo Zoratti Ufficio Stampa: ATEMPORARYSTUDIO di Samantha Punis e Giovanna Felluga Webmanager & Webdesigner: Tmedia Srl Fotografo ufficiale: Andrea Tomasin, in collaborazione con Andrea Barbiero Responsabile accrediti e Infopoint: Ylenia Gasparotto Operatori tecnici: Ivo Mauri, Jacopo Renner, Sandro Zanirato Progetto grafico: Remigio Gabellini Impaginazione catalogo e programmi: Auro Accurso Presentano: Karolina Cernic, Martina Pizzamiglio Traduzione e trascrizione sottotitoli: Intertitula Mostra Opere 2004-2015 di Maurizio Fava organizzata da: studiofaganel Media Team: Greta Badolato, Nicola Bertone, Giada Bigot, Fiorella Cau Mandolino, Laura Clinaz, Juan D’Auria, Sara De Leo, Giacomo Ferraro, Angela Fulizio, Cindy Marcolina, Veronica Michelin, Andrea Penzo, Andrea Rosasco, Laura Sacottelli, Valentina Vuk, Leonardo Zuppel Staff Amidei: Samanta Agrate, Erika Milagros Antonini, Giorgia Bravin, Federico Colmari, Agnese Costanzo, Jeena Cucciniello, Costanza De Angelis, Karyna Karapetsian, Khadim Moroso, Giorgia Pastore, Andrea Penzo, Nizam Pompeo, Eleonora Zaninello Collaboratori: Maria Francesca Arcidiacono, Chiara Canesin, Enrico Cavallero, Silvio Celli, Francesco Donolato, Gabriella Gabrielli, Iris MartínPeralta, Mario Milosa, Pierluigi Pintar, Igor Princic, Ignazio Romeo, Mirco Santi Si ringrazia per la preziosa collaborazione: Sabrina Baracetti, Giulia Bernardi, Thomas Bertacche, Luigi Casalboni, Roberto Cevenini, Germana De Bernardo, Cristiano Degano, Lorenzo Devetak, Adriano Durì, Elda Felluga, Marco Fortunato, Livio Jacob, Alessandra e Mauro Mauri, Roy Menarini, Chiara Omero, Adriano Ossola, Monica Paoletich, Boris Peric, Robert Princic, Leonardo Quaresima, Manuela Salvadei, Matija Spinazzola, Anna Tardivo, Daniele Terzoli, Antonella Velussi Si ringrazia anche: Fondazione Palazzo Coronini Cronberg onlus Gorizia, CEC – Centro Espressioni Cinematografiche, Cinemazero, La Cappella Underground, La Cineteca del Friuli, Consorzio Turistico Gorizia e Isontino, IAT – Ufficio del Turismo Friuli Venezia Giulia, Kinoatelje “Addotta un accreditato”: Associazione Culturale èStoria, Biolab, Farmacia “Al Corso” di Pierpaolo Marzini, Pizzeria Minimax, IOT Viaggi, Caffè Garibaldi, Torrefazione Goriziana, Ricci Immobiliare Partner Amidei Agenzia Spada Viaggi studiofaganel ASSID – Associazione degli Studenti di Scienze Internazionali Terra&Vini srl Associazione Culturale Crisalide Tmedia srl Associazione Culturale èStoria Transmedia Spa Associazione di Promozione Sociale “Progetto Mediacritica” Trieste Science + Fiction – Festival della Fantascienza Azienda Agricola BorgosanDaniele Azienda Agricola Livio Felluga Media Partner Azienda Agricola Primosic MYmovies Biolab Confcommercio Gorizia Consorzio Tutela Vini Collio Festival del Cine Espanol Fiat Aguzzoni Gorizia KB 1909 Financna delniška družba – Società Finanziaria per Azioni L’image Padova Ludoteca comunale di Gorizia – Assessorato al Welfare Mediateca.GO – Mediateca Provinciale di Gorizia “Ugo Casiraghi” Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia Qubik Caffè Serimania Mediacritica.it Affaritaliani.it Le retrospettive sono state realizzate in collaborazione con: La Farfalla sul mirino, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Cineteca di Bologna, Rai Cinema, Cineteca Lucana, 102 Distribution, Pinball London, SixSales, Arabian Horses Productions, Tamasa Distribution, Lux, Jane Balfour Services, MoMA, Sky TV, Circolo del Cinema “Immagini”, Kimuak – Euskadiko Filmategia – Filmoteca Vasca, JamesonNotodofilmfest Si ringraziano: Carmen Accaputo, Laura Argento, Olivia Averso Pellis, Jane Balfour, Ilenia Benetti, Massimo Benvegnù, Alan Berliner, Fatima Bianchi, Penelope Bortoluzzi, Josip Brezovec, Dolores Calabrò, Andrea Catellani, Alessandro Cattunar, Tommaso Cerqueglini, Leandro Chichizola, Maria Giovanna Cicciari, Kitty Cleary, Juan F. Del Valle Goríbar, Agustina Figueras, José Luis Garcia, Maria Luisa Giordano, Samuel La France, Nicola Lancellotti, Alice Lea, Andrea Mariani, Txema Muñoz, Amélie Rayroles, Gladys Reyes, Massimiliano Rossi, Andreina Sarale, Gianandrea Sasso, Santo Vizzini, Julia Yago Catalogo a cura di Mattia Filigoi, Margherita Merlo e Filippo Zoratti Testi: Nereo Battello, Diego Cavallotti, Silvio Celli, Mariapia Comand, Erasmo De Meo, Primo Lazzaro, Sara Martin, Ettore Romoli, Mirco Santi e Maria Cristina Andrian, Gabriele Baldaccini, Martina Bigotto, Nicole Braida, Leonardo Cabrini, Lisa Cecconi, Chiara Checcaglini, Eleonora Degrassi, Martina Farci, Michele Galardini, Luca Giagnorio, Francesco Grieco, Stefano Lalla, Marco Longo, Margherita Merlo, Andrea Moschioni Fioretti, Teresa Nannucci, Massimo Padoin, Vincenzo Palermo, Nicola Peirano, Edoardo Peretti, Marcello Polizzi, Juri Saitta, Alex Tribelli, Filippo Zoratti Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9788857531090 © 2015 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 PREMIO SERGIO AMIDEI 34ª edizione PREMIO internazionale ALLA MIGLIORE SCENEGGIATURA Organizzato da Comune di Gorizia – Assessorato alla Cultura Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei” DAMS Gorizia – Università degli Studi di Udine Con il contributo di Con il patrocinio di Ministero per i Beni e le Attività Culturali Agis Tre Venezie Associazione 100 Autori Confcommercio Gorizia Provincia di Gorizia – Assessorato alla Cultura L’ edizione di quest’anno del “Premio Amidei” ha luogo a pochi giorni da una dolorosa perdita per la cultura cinematografica italiana ed europea: la scomparsa di Callisto Cosulich, decano della critica cinematografica italiana, autorevole membro di giurie nonché selezionatore di festival cinematografici italiani ed europei, nel corso della sua lunga attività. Nelle edizioni passate lo abbiamo onorato con la presentazione, curata da Roy Menarini, della prima antologia di sue recensioni e contributi critici (Il cinema secondo Cosulich) e, successivamente, con la proiezione di un documentario sulla sua “educazione sentimentale” al cinema (Una lunga vacanza di Claudio Costa). A lui, dunque, dedichiamo l’edizione di quest’anno 2015. La quale edizione, pur nelle difficoltà di bilancio imposte dalle contingenze alle iniziative culturali (tutte, in misura maggiore o minore) a partire dalla riduzione delle giornate di proiezione (da dieci a sette) continua nell’impostazione ormai consolidata: Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura con sette film in concorso scelti dalla giuria presieduta da Ettore Scola e costituita dal regista Marco Risi, dagli sceneggiatori Francesco Bruni, Massimo Gaudioso e Doriana Leondeff, dall’attrice Giovanna Ralli e dalla produttrice Silvia D’Amico; Premio all’Opera d’Autore (quest’anno attribuito al regista spagnolo Álex de la Iglesia, il quale ben si inserisce nella teoria dei prestigiosi autori già premiati negli anni passati, da Ken Loach ad Abbas Kiarostami, da Paul Schrader a Patrice Leconte, dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani a Edgar Reitz e tanti altri) con una completa rassegna di tutti i suoi film e lavori televisivi. Verrà presentata la prima monografia italiana a lui dedicata, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, curata da Sara Martin, edita da Mimesis. Seguirà una tavola rotonda (Passione, cinefilia e ironia) con de la Iglesia ed Enrico Magrelli. Infine, a completare i tre momenti costitutivi della struttura, c’è il Premio alla Cultura Cinematografica: il riconoscimento andrà quest’anno a Irene Bignardi, critica cinematografica (si ricorda il suo volume: Il declino dell’impero americano) ma anche studiosa di letteratura in generale (si ricorda, tra i numerosi altri, il suo libro Brevi Incontri), da sempre impegnata nella divulgazione e diffusione della conoscenza del cinema. In suo onore verranno riproposti due straordinari gioielli cinematografici: Barton Fink - È successo a Holllywood dei fratelli Coen e Clerks - Commessi di Kevin Smith. Ci sarà una tavola rotonda (A favore del cinema: la critica, l’organizzazione e la proiezione della settima arte) con la partecipazione della stessa Irene Bignardi, di Federico Poilucci (Presidente FVG Film Commission) e Paolo Vidali (Direttore del Fondo per l’Audiovisivo del FVG). Attorno a questa triplice struttura si collocano le ormai tradizionali sezioni: Spazio Off, proposta di opere realizzate da filmmakers indipendenti italiani, giovani talenti che hanno trovato nel low budget terreno fertile per innovare, sperimentare e raccontare. Ci sarà una tavola rotonda con Fatima Bianchi, Maria Giovanna Cicciari e Penelope Bortoluzzi. Ma anche: una piccola antologia dell’humour nero (da Ciprì a Ettore Scola, passando per Monicelli, Comencini e Ferreri) e una tavola rotonda con Daniele Ciprì e Pippo Mezzapesa. E ancora: una sezione dedicata a vissuti personali capaci di trasformarsi in storia e memoria pubblica, un saggio poetico dell’opera del filmmaker newyorchese Alan Berliner e, per converso, l’utilizzo di una raccolta privata goriziana (Fondo Pellis) costituito dai lavori di Olivia Averso Pellis, documentari dedicati a feste della sua terra d’adozione (è invero nata a Tunisi nel 1925 e la sua formazione culturale è francese e magrebina insieme). Infine, ma non meno importante (anzi), la sezione dedicata alla “scrittura seriale”, ormai parte importante dell’universo audiovisivo, non più meramente sperimentale, che costituisce una delle manifestazioni del “cinema dopo il cinema” (ovvero: oltre la fine del cinema classico e cioè quello del buio in sala, su cui anche il recentissimo libro di Francesco Casetti La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene), in cui vedremo la serie Gomorra di Stefano Sollima. Ne parlerà anche il prof. Quaresima presentando il suo recente libro (L’avventuriera di Montecarlo) dedicato alle recensioni cinematografiche che negli anni Venti in Germania scrisse il romanziere Joseph Roth, il grande autore di La marcia di Radetzky e La cripta dei Cappuccini. Avv. Sen. Nereo Battello Presidente dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei” I ncuriosito dalla creazione del nuovo sito dedicato al Premio “Sergio Amidei”, non ho potuto fare a meno di andare a visitarlo appena divenuto attivo: non avrei mai immaginato di scoprire un programma così variegato e denso di appuntamenti! Il sito è accattivante (molto interessante è il loop di tonalità che accompagna il visitatore lungo tutto il suo viaggio, perfettamente in tema con il leitmotiv di quest’anno: per l’appunto I colori della scrittura), costruito con intelligenza, piacevole e di facile lettura. Ma ciò che maggiormente mi ha colpito è proprio l’incredibile ricchezza degli eventi previsti per questa 34. edizione del Premio: film di ottima qualità in visione, sezioni tematiche in grado di esplorare i più originali percorsi della cinematografia italiana e internazionale, Premi ambiti che affiancano lo storico e prestigioso Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica, testimonianze e incontri costruiti per coinvolgere pubblici di tutte le età e di tutti i gusti, appuntamenti speciali per trasformare Gorizia in una vera e propria piccola “Cinecittà”. Ecco perché, per almeno una settimana all’anno, Gorizia si immerge in un’atmosfera “magica”, quasi fuori dal tempo, fatta di pellicole, di colonne sonore, di scenografie, di tecniche di ripresa all’avanguardia... tanto che tutti noi diveniamo, ognuno a modo proprio, dei critici cinematografici. È bello vedere Gorizia “colorata” da un’energia infaticabile, con studenti in continuo movimento per le strade e le piazze, con appassionati o semplici curiosi intenti a non perdere nemmeno uno degli appuntamenti in programma e con ospiti d’eccezione che si alternano tra il Palazzo del Cinema e lo splendido Parco di Villa Coronini-Cronberg (un connubio a dir poco affascinante): e questo a evidente conferma di come il Premio Amidei sia divenuto ormai una parte integrante e insostituibile della vita culturale di questa città. Il Comune di Gorizia è profondamente legato a questa manifestazione, tanto da riservarle ogni anno un’attenzione speciale: un impegno, questo, che condividiamo con l’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei” e che ci riempie di orgoglio, in particolare quando, durante le rappresentazioni, il pubblico è costretto a sedersi sull’erba perché i posti sono tutti esauriti, oppure quando sentiamo gli applausi scroscianti ed emozionati al termine di un film, oppure ancora quando gli ospiti si compiacciono del calore e dell’entusiasmo con cui la città sa accoglierli. Vi aspettiamo, dunque, numerosi e appassionati per rendere ancora più esclusiva questa 34. edizione del Premio! Ettore Romoli Sindaco di Gorizia Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde, l’artista è la mano che con questo o quel tasto porta l’anima a vibrare. Vasilij Kandinskij, Dello spirituale nell’arte L e parole che contano non si dimenticano. Quelle di Kandinskij mi sono ritornate in mente quando abbiamo iniziato a progettare il Premio Amidei 2015, suggerendomi che i colori possono rappresentare una perfetta metafora per definire e comprendere le diverse forme, le variopinte anime e le molteplici finalità della scrittura. La critica, fin dalla notte dei tempi, ha fatto ricorso ai colori come chiave interpretativa della produzione di genere, individuando – ad esempio nel giallo o nel noir – precise formule stilistiche e narrative in cui racchiudere motivi e modelli codificati. Tuttavia il filo tematico dell’Amidei 2015 – che abbiamo intitolato appunto I colori della scrittura – non si ferma a questo: perché le potenzialità allegoriche dei colori possono illuminare l’arte della scrittura attraverso altre interessanti connessioni. La scala dei colori può esprimere la gamma delle emozioni e delle intenzioni che guidano la penna degli artisti: la malinconia può trasformarsi grazie a mani esperte in racconti blues, oppure un’intenzione corrosiva può originare storie nere. A tal proposito: alla celebre Antologia dello humour nero di André Breton del 1937 ci siamo ispirati per comporre la nostra Piccola antologia dello humour nero, un percorso inedito nella storia del cinema italiano, comprensivo di opere d’autori molto diversi (Scola, Monicelli, Comencini, Ferreri ecc.), tutti ugualmente alfieri di un’immaginazione che non ammette limiti, tutti accomunati da un’irriverente volontà poetico-polemica. Vedremo quali sono le intenzioni che animano la produzione delle filmmaker indipendenti italiane, protagoniste dello Spazio Off, che quest’anno si veste – guarda caso – di rosa. Come i colori, le storie per il cinema possono essere calde o fredde, chiare oppure scure. Molti dei film in programma riescono tuttavia a realizzare un sapiente equilibrio tra gli opposti; per esempio, dall’apparente algidità del bianco e nero dei lavori di Alan Berliner si sprigiona un calore e una complessità narrativa davvero sorprendenti; abbiamo voluto proporle perché potrebbero riallacciarsi idealmente al pensiero di Sergio Amidei, “ognuno ha una storia degna di essere raccontata”; in Berliner quest’idea si incarna in una concezione originale e assai moderna della sceneggiatura come attività di ricerca d’archivio e come composizione in sede di montaggio. Ragionare sulla scrittura significa, infatti, rileggere il passato e al tempo stesso riconoscere il futuro, vale a dire le nuove possibilità, le nuove direzioni e funzioni che la sceneggiatura può assumere e assolvere: per questo il Premio Amidei incomincia a occuparsi dal 2015 di scrittura seriale, visto il peso crescente della sceneggiatura in quell’ambito produttivo e artistico. Iniziamo da Gomorra – La serie di Sergio Sollima perché, come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, “più che una saga criminale, con quel certo andamento pletorico e in fondo prevedibile che appartiene al genere, Gomorra potrebbe essere definita una serie metafisica dove i vivi e i morti sono come spinti da un turbine rapinoso, sono fantasmi che ci perseguitano senza un attimo di sosta”. E aggiunge Grasso: “È bene ripeterlo: il primo dovere che una serie deve porsi non è l’argomento trattato ma la scrittura, l’unica in grado di restituire la complessità del reale, di esplorare temi centrali rispetto alla sensibilità condivisa, di costruire un ‘racconto mondo’ capace anche di rappresentare il Male”. Parole da non dimenticare. Il Premio all’Opera quest’anno viene assegnato ad Álex de la Iglesia con le seguenti motivazioni: “sperimentatore capace di incursioni spregiudicate nei più diversi generi e linguaggi e nel contempo autore che persegue un preciso percorso intellettuale e artistico; esploratore coinvolto nelle regioni dei sentimenti e osservatore attento del mondo contemporaneo; creatore di visioni, invenzioni, provocazioni; autore di un mondo originalissimo, insieme colorato e nero: un universo ricco di omaggi cinefili, riflessioni penetranti ed emozioni che non lasciano mai indifferenti”. Il cinema di de la Iglesia ci sembrava potesse riassumere molti dei colori a cui la scrittura può anelare, molti dei colori che ritroveremo rifranti nelle singole sezioni. Tra queste vanno ricordate anche il Premio alla Migliore Sceneggiatura e il Premio alla Cultura Cinematografica, attribuito quest’anno a Irene Bignardi: omaggiata con due capolavori, vale a dire Barton Fink - È successo a Hollywood (1991) dei fratelli Coen e Clerks – Commessi (1994) di Kevin Smith, intramontabili capolavori di e sulla sceneggiatura. Un tema sempre centrale nella proposta del Premio Amidei. Mariapia Comand Indice Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura 15 Premio all’Opera d’Autore: Álex de la Iglesia 31 Picccola antologia dello humour nero 41 Sceneggiatura seriale 69 Racconti privati, memorie pubbliche: Alan Berliner 77 Spazio Off 95 Premio alla Cultura Cinematografica: Irene Bignardi 107 Eventi Speciali 117 Indice dei film 129 Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura ANIME NERE Regia: Francesco Munzi; Soggetto: Francesco Munzi, Fabrizio Ruggirello (liberamente tratto dal romanzo Anime Nere di Gioacchino Criaco); Sceneggiatura: Francesco Munzi, Fabrizio Ruggirello, Maurizio Braucci, Gioacchino Criaco; Fotografia: Vladan Radovic; Montaggio: Cristiano Travaglioli; Scenografia: Luca Servino; Costumi: Marina Roberti; Musiche: Giuliano Taviani; Produzione: Cinemaundici, Babe Films, Rai Cinema; Distribuzione: Good Films; Origine: Italia/Francia 2014; Durata: 103’ Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2014): Premio Pasinetti al Miglior Film, Premio Schermi di Qualità – Carlo Mazzacurati (Francesco Munzi); David di Donatello (2015): Miglior Film, Miglior Regia (Francesco Munzi), Migliori Musiche (Giulio Taviani), Miglior Sceneggiatura (Francesco Munzi, Fabrizio Ruggirello, Maurizio Braucci), Miglior Montaggio (Cristiano Travaglioli), Miglior Fotografia (Vladan Radovic); BIF&ST Bari Film Festival (2015): Premio Mario Monicelli per il Miglior Regista (Francesco Munzi), Premio Franco Cristaldi per il Miglior Produttore (Luigi Musini), Premio Roberto Perpignani per il Miglior Montatore (Cristiano Travaglioli) Interpreti: Marco Leonardi (Luigi), Peppino Mazzotta (Rocco), Fabrizio Ferracane (Luciano), Barbora Bobulova (Valeria), Anna Ferruzzo (Antonia), Giuseppe Fumo (Leo), Pasquale Romeo (Ercole), Stefano Priolo (Nicola), Vito Facciolla (Pasquale), Cosimo Spagnolo (Cosimo), Aurora Quattrocchi (Rosa), Manuela Ventura (Giorgia), Domenico Centamore (Rosario), Sebastiano Filocamo (Antonio Tallura) 16 Tra le campagne dell’Aspromonte, nel piccolo paese di Africo, tre fratelli legati alla ‘ndrangheta calabrese si ritrovano ad affrontare questioni sepolte e da troppo tempo irrisolte col clan rivale dei Ferraro. Dopo uno sgarro commesso dal figlio, l’allevatore di capre Luciano, distante dalla malavita, teme il riaprirsi di una dolorosa faida. Timore che diviene realtà quando Luigi e Rocco, coinvolti entrambi in attività criminose nel Nord Italia e all’estero, lasciano i loro commerci per far ritorno alla propria terra ed affrontare per l’ultima volta il proprio passato. S ono coscienze segnate, macchiate, tragicamente predestinate, le “anime nere” che popolano il terzo lungometraggio di Francesco Munzi. La vicenda dei tre fratelli si dispiega a tutti gli effetti sui tratti classici della tragedia greca, adattando al nostro presente l’antica lotta tra volontà e predestinazione cara alla tradizione attica. Come accadeva per l’Edipo sofocleo, il cammino intrapreso dai protagonisti è guidato da un destino già scritto, immutabile e frutto di un peccato originario causa di inevitabili sofferenze e versamenti di sangue. Sarà il gesto compiuto con eccessiva inconsapevolezza dal giovane Leo a scatenare quella fatale spirale di violenza attraverso cui il fato dell’intera famiglia sarà definitivamente compiuto. Un’apparente ragazzata dalla forza dirompente e capace di infrangere deboli equilibri, riacutizzando ferite sepolte e lasciando emergere sentimenti di orgoglio e vendetta. Il piccolo paesino di Africo, verso cui Luigi e Rocco fanno ritorno, diventa dunque la Colono dove essi chiuderanno il proprio ciclo, attratti non più come Edipo da una profezia, ma da un profondo richiamo atavico che di profetico mantiene però il fine e la valenza. Il cuore dell’Aspromonte diviene infatti il palcoscenico su cui recitare l’atto finale di una diatriba ormai da generazioni radicata come un cancro in quei luoghi e rappresentata dalla faida tra due famiglie della malavita calabrese, accesa dall’assassinio del padre dei tre fratelli. E proprio questa condizione che scaturisce da un processo generazionale, condizione tramandata dai padri ai figli senza via di scampo, racchiude l’intero messaggio di Anime nere. L’esistenza di un profondo vincolo di sangue e il senso di appartenenza a una terra e alle sue arcaiche leggi trovano la loro perfetta espressione nelle azioni dei protagonisti, le cui diverse personalità, le sfumature d’animo e i conflitti interiori, con le rispettive conseguenze, sono abilmente sfruttate da Munzi nel mostrare quanto la loro condanna sia totalmente al di sopra del loro stesso volere. Emblematica risulta così la figura del fratello maggiore, Luciano, detentore di una giusta morale e dagli onesti propositi ma pur sempre segnato dalle sue radici che proprio lui avrà il compito di recidere definitivamente attraverso una tragica catarsi finale che soffochi per sempre nella violenza altra possibile violenza. Sulla riproposizione di una particolare arcaicità gioca anche tutto il fascino della messa in scena e l’originalità del soggetto della pellicola. Munzi volutamente racchiude la storia entro i confini di questo mondo lontano, distante eppure così reale e concreto, creando un contrasto sul piano visivo tra le sequenze iniziali girate ad Amsterdam e Milano e quelle ambientate poi nelle campagne della Calabria, che si riflettono nei richiami cinematografici tra influenze alla Abel Ferrara e ambientazioni prettamente neorealiste. L’intero lavoro di scenografia contribuisce ottimamente a enfatiz- zare tale scontro mostrando un profondo Sud avulso dal tempo, congelato in una situazione in cui l’antico con la sua storia e i suoi rituali ancora resiste mentre la modernità non avanza mai del tutto, simboleggiata dagli edifici fatiscenti costruiti per metà. Spinto da una ricerca del vero, il regista romano punta dunque alla ricostruzione di una precisa quotidianità, chiudendosi nelle maglie dei legami e delle regole familiari e di tutta una realtà irrimediabilmente collusa. Una tensione all’isolamento che diventa riflessiva e che mostra come in definitiva Anime nere suggerisca una denuncia silenziosa e quasi intima, affrontando la questione dal suo più profondo interno e svelando l’anima nera di un intero Paese. Marcello Polizzi 17 BANANA Banana è un ragazzo convinto che nella vita sia necessario sempre andare alla ricerca della felicità, se non per tutto, almeno per qualcosa. Così, quando la ragazza di cui è innamorato rischia la bocciatura, si impegnerà al massimo per farle prendere voti alti. Per riuscire nell’impresa, sa che può contare solamente su se stesso e sui proprio sacrifici. Ed è pronto anche a soffrire, perché nella vita nulla si conquista con facilità. Sa, però, che la regola è attaccare sempre, come nel calcio brasiliano, di cui è grande tifoso. “S Regia: Andrea Jublin; Soggetto: Andrea Jublin; Sceneggiatura: Andrea Jublin; Fotografia: Gherardo Gossi; Montaggio: Esmeralda Calabria; Scenografia: Massimiliano Sturiale; Costumi: Francesca Livia Sartori; Musiche: Nicola Piovani; Produzione: Good Films, Rai Cinema; Distribuzione: Good Films; Origine: Italia 2014; Durata: 83’ Interpreti: Marco Todisco (Banana), Beatrice Modica (Jessica), Camilla Filippi (Emma), Gianfelice Imparato (padre di Banana), Giselda Volodi (madre di Banana), Anna Bonaiuto (professoressa Colonna), Giorgio Colangeli (preside), Andrea Jublin (Gianni), Ascanio Balbo (studente universitario) 18 iamo tutti immersi nel fango, ma alcuni guardano le stelle”, diceva Oscar Wilde. Ed è quello che prova a fare Banana, il protagonista del film di Andrea Jublin: guardare le stelle, sognare, cercare la felicità. Una felicità raggiungibile auspicabilmente solo dall’innocenza adolescenziale e da chi si crede invincibile. Ma cos’è veramente la felicità? Difficile dirlo, difficile saperlo, ma quantomeno è un obiettivo da porsi. Che poi sia fattibile o meno è un altro discorso. Banana, quindi, ci immerge nella vita di un ragazzino che non ha nulla da perdere, se non il coraggio e la voglia di provarci. Quello che ne esce, però, è un ritratto amaro dove l’ottimismo del protagonista è messo a dura prova da familiari e insegnanti, caduti nel grigiore e nella depressione della vita. C’è contrasto nel film, ci sono due generazioni agli antipodi che si cercano in quel barlume che sembra non dare loro speranza. Ma Banana non si arrende e, come un eroe, si impegna contro tutto e tutti per non fare bocciare l’amica Jessica, aiutandola a ricordare Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry o le lezioni sul Romanticismo. C’è tenerezza in quello che fa, ci sono amore e vita; c’è l’innocenza di chi non ha ancora affrontato le vere difficoltà dell’esistenza; c’è la purezza di chi ha ancora il coraggio di sognare e “guardare oltre”. E allora anche giocare a calcio diventa una sfida da reinterpretare e vincere a testa alta. Lui, grande appassionato del calcio brasiliano, usa costantemente la metafora di questo sport per affacciarsi alla vita. Con la sua immancabile maglietta gialla e il numero 10 sulle spalle, Banana gioca in porta, ma immagina di fare goal, nella partita e nella sua vita. Vuole e deve giocare in attacco, perché solo così si riescono a fare cose importanti. “Le persone normali vogliono giocare in difesa e fare catenaccio ma non sono felici”, dice Banana. E lui quella felicità vuole raggiungerla a tutti i costi. Grazie alla sua voce narrante presente in tutta la pellicola, scopriamo i pensieri che lo tengono sveglio la notte o che lo portano, palla al piede, a fare tutto il campo correndo, uscendo così dagli schemi e dalle regole. Banana – per dirla con Samuel Beckett – rischia, ci prova, fallisce e ci riprova ancora. Cosa che non avviene con gli altri personaggi del film. Banana, infatti, grazie anche alla sensibilità del regista Andrea Jublin, già nominato all’Oscar nel 2008 per il cortometraggio Il supplente (premio poi andato a Le Mozart des pickpockets di Philippe Pollet-Villard), riesce a dipingere con diverse tonalità una sfera di persone troppo segnate da delusioni per aver la forza di combattere e andare avanti. Anche i dialoghi cambiano registro a seconda di chi li pronuncia, denotando una certa sicurezza nei propri mezzi e in quello che si vuol far arrivare. Il film, infatti, grazie anche alla colonna sonora firmata da Nicola Piovani, si dimostra un prodotto che riesce a conquistare per la capacità di guardare con gli occhi sinceri di un adolescente, pensare con la mentalità di un adulto e vedere la vita per quello che è. Ovvero bella, difficile, amara, cruda, impossibile, gioiosa, sognante. Perché la vita è una sfida che va accettata a tutte le età e non è mai troppo tardi per ricordarsi di alzare la testa e guardare le stelle. Bisogna crederci, provarci. O, come fa Banana, almeno giocare in attacco. Sempre. Comunque vada. Martina Farci 19 DUE GIORNI, UNA NOTTE (Deux jours, une nuit) Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne; Soggetto:JeanPierre Dardenne, Luc Dardenne; Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne; Fotografia: Alain Marcoen; Montaggio: Marie-Hélène Dozo; Scenografia: Igor Gabriel; Costumi: Maïra Ramedhan-Levi; Produzione: Les Films du Fleuve, Archipel 35, Bim Distribuzione, Eyeworks, France 2 Cinéma, Radio Télévision Belge Francophone, Belgacom; Distribuzione: BIM; Origine: Belgio/ Francia/Italia 2014; Durata: 95’ Premi: Premio Magritte (2015): Miglior Film, Miglior Regia (Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne), Miglior Attore (Fabrizio Rongione); European Film Awards (2014): Migliore Attrice (Marion Cotillard); Sydney Film Festival: Miglior Film Interpreti: Marion Cotillard (Sandra), Fabrizio Rongione (Manu), Pili Groyne (Estelle), Simon Caudry (Maxime), Catherine Salée (Juliette), Baptiste Sornin (Sig. Dumont), Alain Eloy (Willy), Myriem Akheddiou (Mireille), Fabienne Sciascia (Nadine), Timur Magomedgadzhiev (Timur), Hicham Slaoui (Hicham), Philippe Jeusette (Yvon), Yohan Zimmer (Jérôme), Christelle Cornil (Anne), Laurent Caron (Julien), Franck Laisné (Dominique), Serge Koto (Alphonse), Morgan Marinne (Charly), Gianni La Rocca (Robert), Ben Hamidou (Kader), Carl Jadot (Miguel), Olivier Gourmet (Jean-Marc), Sabine Raskin (segretaria Solwal), Damien Trapletti (receptionist Solwal) 20 Sandra, dipendente presso una ditta di pannelli solari nel quartiere operaio belga di Seraing, è costretta a mettersi in malattia a causa di una depressione debilitante. Convinto che non sarà più utile come prima, il capo dell’azienda mette i suoi dipendenti di fronte ad una drastica scelta: mille euro di bonus o il reinserimento della donna. Sandra, dopo una prima fallimentare votazione, sarà costretta a convincere, uno a uno, i suoi colleghi a scegliere lei e a dimenticarsi del sostanzioso premio in denaro. I l terminus a quo del nuovo corso del cinema militante dei fratelli Dardenne è da rintracciarsi ne Il matrimonio di Lorna (2008), opus in cui la camera a mano, più ferma del solito, e l’uso del formato 35mm rispetto al consueto 16mm alteravano anche se di poco la singolarità stilistica del loro cinéma vérité minimalista e privo di intensificazione lirica. Spuntava anche un seppur vago leitmotiv musicale a puntellare la sobria scena, alternato alle tracce intradiegetiche per riempire i “silenzi” della giovane immigrata albanese (in originale era Le silence de Lorna) che per avere la cittadinanza paga un tossicodipendente per sposarla. Con Due giorni, una notte la radicalità dei loro tableaux vivants acquista uno spessore filosofico che connette la resistenza operaia di segno universale alla resistenza quotidiana di un’eroina proletaria di stanza a Seraing, in Vallonia, abituale location dei loro film fin dai tempi di La promesse (1996). L’unità di tempo, invece, sono “i due giorni e una notte” che ha Sandra per salvare il suo lavoro, la sua famiglia e il futuro reso incerto dalla depressione e dalle massicce dosi di Xanax che la tengono ancora a galla. Il cammino alla ricerca dell’archetipo su cui i registi plasmano i loro quadretti morali della crisi è lungo settant’anni, metaforicamente segnato dai “pedinamenti zavattiniani” e dai racconti (neo)realisti in cui si inizia a seguire l’uomo ma, contraddicendo Zavattini, “non si buttano via i copioni”. Il fine cesello di scrittura, infatti, si innesta in una messa in scena che “scompare” mentre si crea, lasciando il posto alla spoglia realtà con sofisticati accorgimenti tecnici e narrativi. Basti pensare ai pianisequenza, blocchi di tempo e di senso in cui una trasandata ma sempre incantevole Marion Cotillard (candidata, per questo ruolo, all’Oscar 2015 per il premio come Migliore Attrice Protagonista, poi vinto da Julianne Moore per Still Alice) si trascina stancamente oltre i bordi dell’inquadratura e viene tallonata di tre quarti, mentre il suo dolore si può solo immaginare quando, ricurva e dinoccolata, è ripresa di spalle sotto un sole cocente che evoca terrori panici e demoni meridiani. Per lei, cigno baudelairiano che annaspa nel putrido serraglio, è lecito allontanare la pietà, sentimento che implica una superiorità dell’altro e una certa indulgenza, e provare compassione (cosentimento), massima condivisione emotiva tra gli esseri umani. Tra le parole pronunciate come una preghiera laica sull’uscio della casa dei colleghi presso cui compie la sua peregrinatio, Sandra, divorata dallo spleen del malinconico, è inizialmente un esubero, un numero fuori posto che non quadra all’interno dell’azienda. Diventa poi, grazie all’aiuto del marito Manu, eroina della lotta di classe che non si arrende a una vita senza tutele sociali, alla triste realtà dei contratti precari e dei capi sadici che fomentano l’inarrestabile guerra fra poveri. “La vita è fatta di incontri”, sentenziava il filosofo olandese Baruch Spinoza, e i fratelli Dardenne sembrano fargli eco costruendo uno spazio fisico misurabile, come già ne Il figlio, tra sé e il prossimo, tra il proprio smarrimento e le ragioni dell’altro, all’ingresso di porte e portoni, cancelli e garage delle case che la protagonista Sandra visita come una mendicante senza mai violare la sacralità degli ambienti domestici. Una poetica della soglia in cui la dimensione della sofferenza è riconoscibile, ma può essere colmata. Dall’altro. Vincenzo Palermo 21 LA FAMIGLIA BéLIER (La famille Bélier) Paula Bélier ha sedici anni e divide il suo tempo fra la scuola del piccolo centro della Normandia in cui vive e l’azienda agricola gestita dalla sua famiglia. I genitori e il fratello minore sono sordomuti, perciò la ragazzina è il tramite per relazionarsi con l’esterno quando il linguaggio dei segni risulta inefficace. Paula vive in bilico fra tranquillità e monotonia, finché uno dei suoi insegnanti non scopre il suo straordinario talento canoro. Mentre in famiglia le cose si movimentano con la discesa del padre nell’arena politica, Paula si trova a dover decidere cosa fare del suo futuro. Regia: Eric Lartigau; Soggetto: Victoria Bedos, Eric Lartigau, Thomas Bidegain (liberamente tratto dal romanzo Les mots qu’on ne me dit pas di Véronique Poulain); Sceneggiatura: Victoria Bedos, Stanislas Carré De Malberg; Fotografia: Romain Winding; Montaggio: Jennifer Augé; Scenografia: Olivier Radot; Costumi: Anne Schotte; Musiche: Evgueni Galperine, Sacha Galperine; Produzione: Jérico, Mars Films, France 2 Cinéma, Quarante 12 films, Vendôme Production, Nexus Factory, UMedia; Distribuzione: BIM; Origine: Francia 2014; Durata: 106’ Premi: Premio César (2015): Migliore Promessa Femminile (Louane Emera); Premio Lumière (2015): Migliore Attrice (Karin Viard) Interpreti: Louane Emera (Paula Bélier), Karin Viard (Gigi Bélier), François Damiens (Rodolphe Bélier), Eric Elmosnino (Fabien Thomasson), Roxane Duran (Mathilde), Ilian Bergala (Gabriel), Luca Gelberg (Quentin Bélier), Stephan Wojtowicz (il sindaco), Bruno Gomila (Rossigneux), Céline Jorrion (giornalista), Clémence Lassalas (Karène) 22 P aula Bélier si trova in quell’età in cui il futuro non è una bella pagina bianca tutta da scrivere, ma piuttosto un guazzabuglio confuso, e soprattutto distante, di fumose possibilità. Quell’arco di tempo in cui sembra quasi da copione l’isolamento dalla famiglia: l’adolescenza. La famiglia Bélier, invece, ha bisogno della sua presenza per essere in costante contatto con il rumoroso mondo attorno a loro e Paula, che si tratti di una visita dal medico per problemi sessuali tra i genitori o la vendita di prodotti caseari al mercato, è sempre presente, figura in bilico fra desideri personali e senso di lealtà verso i suoi cari. Il primo fattore ad aver decretato il successo di questo film, in grado di commuovere schivando i patetismi e di far ridere di cuore grazie alla perfetta alternanza di serio e faceto nelle situazioni quotidiane, è l’aver avuto il coraggio di parlare di “diversità” svelandola pian piano nella sfera quotidiana fino ad annullare i confini tra normodotati e sordomuti, mettendo in scena un’opera in cui alla fine tutti si ritrovano ad avere la stessa dignità. Esattamente come può accadere ai ragazzi della sua età che hanno famiglie “normali”, i genitori di Paula la imbarazzano non perché non in grado di apprezzare il coro della scuola o perché ignorano il telefono, bensì per i loro atteggiamenti spesso sopra le righe. Rodolphe e Gigi sono visti quasi attraverso lo sguardo della figlia mentre si battono per tenere compatta non solo la famiglia, ma anche la loro piccola comunità cittadina. E ben lungi dall’essere dei despoti, con il proseguire del film si sfaccettano, spiegano le loro scelte, la consapevolezza che hanno di una figlia in grado di accedere ad un mondo – quello dei suoni – loro precluso e in cui quindi non possono proteggerla. Al contempo, possiedono una loro voce fisica, attraverso un linguaggio dei segni marcato e deciso, che evita di farli diventare figure silenti cariche di patetismo, infondendo invece loro ironia e umanità. Insieme al figlio Quentin, i Bélier si compattano non per andare contro il mondo, ma per proteggere il loro, di mondo: un universo che scavalca i confini familiari per abbracciare l’intera comunità bucolica in cui vivono, una Francia quasi atemporale e ben lontana dagli sfarzi cittadini della capitale. Paula è comunque sempre la diversa in ogni ambiente: divisa tra scuola e fattoria, udente tra i non udenti e “figlia di…” tra i compagni di classe, finché la sua particolarità non si concretizza con la scoperta del suo straordinario talento canoro. Perfetto escamotage per innescare il personale “Viaggio dell’Eroe” di vogleriana memoria, il canto diventa la possibilità di un futuro diverso rispetto a quello che sembrava snodarsi davanti a lei, spezzando la quotidianità per costringere tanto lei quanto il padre, con cui condivide passione e testardaggine, a porsi delle domande in grado di scuotere la loro sfera emotiva. Accompagnata dal mentore incarnato dal suo professore di musica, Paula si trova spaccata fra ciò che vorrebbe e ciò che ritiene giusto fare senza mai scadere nel dramma. Il secondo segreto del successo di questo film giocato su continui dualismi è infatti la capacità di evocare una straordinaria empatia fra spettacolo e spettatore, creando situazioni in cui, molto probabilmente, una qualsiasi famiglia si è trovata almeno una volta. E ci si emoziona perché la regia minimale e al contempo delicata di Eric Lartigau fa entrare in risonanza con i sentimenti dei protagonisti, supportata anche dalla recitazione straordinariamente spontanea di Louane Emera e da quella marcata di François Damiens e Karin Viard. Dunque proprio la famiglia diventa per Paula fonte di ispirazione e banco di prova, mentre musica e suoni si mescolano a pensierosi silenzi formando un’insolita sinfonia in grado di fare il paio con le immagini di una famiglia straordinariamente normale. Maria Cristina Andrian 23 N-CAPACE Tra Roma e Terracina, una donna vestita di bianco si muove tra la campagna e la periferia intervistando ragazzi, anziani e il proprio padre. Tra documentario e performance teatrale, questa “Anima in pena” pone delle domande per riuscire a raccontare il nostro presente, tra vuoti sociali e sinceri imbarazzi: tutto ciò lascia intuire il luogo in cui alberga, metaforicamente, la nostra salvezza. Q Regia: Eleonora Danco; Soggetto: Eleonora Danco; Sceneggiatura: Eleonora Danco; Fotografia: Daria D’Antonio; Montaggio: Desideria Rayner, Maria Fantastica Valmori; Costumi: Alessandro Lai; Musiche: Markus Acher; Produzione: Bibi Film, Rai Cinema; Distribuzione: Bibi Film; Origine: Italia 2014; Durata: 80’ Premi: Torino Film Festival (2014): Menzione Speciale della Giuria Interpreti: Eleonora Danco (Anima in pena) 24 uando un regista si mette di fronte all’obiettivo corre sempre sul filo di un rischioso senso narcisistico e di una sincera sovraesposizione della propria intimità, percorrendo a doppia corsia la vanitosa messa in scena di se stesso e la visione “senza filtri” della realtà. Prodotti di questo genere portano inevitabilmente a dividere non solo l’opinione del pubblico, ma il senso stesso dell’opera e la rappresentazione del proprio autore, messo al giudizio che l’impulso a volersi rappresentare suscita sintomaticamente. Egotismo e debolezza, finzione e realtà sono i differenti poli del medesimo pianeta cui fanno tutti riferimento alla medesima forza, un coraggio incosciente che potrebbe mettere in ridicolo la propria figura tanto quanto elevarla a un nuovo grado di sincerità. Lo deve sapere bene chi fa teatro, perché la messa in scena di sé è sempre un equilibrio, autentico e fittizio, tra le paure e le emozioni che prova sul palco. E probabilmente lo sa molto bene anche Eleonora Danco, che nel teatro non si limita a essere attrice ma anche autrice e regista, artista che pensa al proprio ruolo fin dalla sua stessa genesi. Questo potrebbe essere il modo migliore per sintetizzare il suo esordio cinematografico, N-Capace, film fondato su un equilibrio volutamente instabile tra questi elementi. Costruito a metà tra documentario composto da interviste e inframmezzi tra l’onirico e il surrealismo buñueliano (come l’autrice stessa afferma), in cui la composizione metafisica di De Chirico si unisce all’accostamento inusuale di elementi figurativamente lontani che ricordano Magritte. È proprio in queste sequenze che compare spesso la protagonista Eleonora Danco, performer di gesti e azioni fortemente teatrali, inseriti però in un contesto reale tanto da farli apparire volutamente abulici ed estranei al quotidiano. Da questi inframmezzi si coglie quel rischio di cui si parlava in precedenza, quello di una fragile sovraesposizione di sé, cui vengono contrapposte le domande secche e vere della Danco a ragazzi, anziani e al suo medesimo padre, riguardanti la vita quotidiana, la morte, la religione e il sesso, suscitando inevitabili – e divertentissimi – imbarazzi negli intervistati. Il sottotesto ironico è la seconda anima di N-Capace, il cui titolo gioca a suo modo sul suono dialettale del termine “incapace” e internamente sottolinea l’indefinibile soglia in cui un individuo diviene capace di stare al mondo, spiazzando gli intervistati di fronte ad alcuni temi che più per convenzione sociale vengono, interiormente, poco interrogati per esser piuttosto accettati. È questo il lato fragile e veritiero di un’opera che a fianco di continue e surreali scenette, che vede protagonisti anche gli stessi intervistati, ricerca un senso di realismo sospeso e stranito, poetico per l’uso di oggetti ed elementi raffigurati puramente, ma estratti dal loro contesto per esser ricollocati così da sembrare alieni. Un letto in una piazza, una vasca piena di biscotti, un astronauta al bar, ma anche semplicemente il piede di un ragazzino lasciato a penzoloni dal ramo di un albero, sono la rappresentazione figurativa di un semplicità isolata, che nella sua purezza significativa trova una valenza metaforica. Eleonora Danco con N-Capace afferma di voler interrogare il nostro presente, e per farlo sceglie la via meno diretta, perché del resto le risposte che cerchiamo non potranno essere semplici e per ottenerle occorre fare i conti con la vulnerabile esposizione di sé, narcisistica quanto delicata e fuggevole. Massimo Padoin 25 PRIDE (Pride) Regia: Matthew Warchus; Soggetto: Stephen Beresford; Sceneggiatura: Stephen Beresford; Fotografia: Tat Radcliffe; Montaggio: Melanie Oliver; Scenografia: Simon Bowles; Costumi: Charlotte Walter; Musiche: Christopher Nightingale; Produzione: Calamity Films Production, Pathé, BBC Films, Proud Films, BFI; Distribuzione: Teodora Film; Origine: Gran Bretagna 2014; Durata: 120’ Premi: Festival di Cannes (2014): Queer Palm; Premio BAFTA (2015): Miglior Esordio Britannico da Regista, Sceneggiatore o Produttore (Stephen Beresford, David Livingstone); British Indipendent Film Awards (2014): Miglior Film Inglese Indipendente, Miglior Attrice Non Protagonista (Imelda Staunton), Miglior Attore Non Protagonista (Andrew Scott) Interpreti: Ben Schnetzer (Mark Ashton), Dominic West (Jonathan Blake), Andrew Scott (Gethin Roberts), Joseph Gilgun (Mike Jackson), George MacKay (Joe Cooper), Paddy Considine (Dai Donovan), Bill Nighy (Cliff), Imelda Staunton (Hefina Headon), Jessica Gunning (Sian James), Faye Marsay (Steph Chambers), Jessie Cave (Zoe), Monica Dolan (Marion Cooper), Liz White (Margaret Donovan) 26 Nel 1984 il governo Thatcher minaccia di chiudere settanta miniere di carbone, e il Sindacato Nazionale dei Minatori si difende con uno sciopero a oltranza. Il Movimento per i Diritti delle Persone Gay e Lesbiche, che contemporaneamente combatte le proprie battaglie costantemente represse dalla polizia, decide di supportare materialmente la difficile militanza dei minatori del Galles, in nome della ribellione alla stessa oppressione subita da parte dello stesso nemico. È l’inizio di una duratura amicizia fondata sulla solidarietà l’uno per l’altro e sul rispetto reciproco. P ride ha innanzitutto il merito di portare alla luce una vicenda di solidarietà politica e sociale misconosciuta ai più. La storia dell’improbabile legame tra il movimento londinese per i diritti dei gay e delle lesbiche e una divisione del Sindacato minatori del territorio della valle di Dulais, nel Sud del Galles, uno dei territori più produttivi di carbone, ha il respiro dei racconti esemplari da tramandare di generazione in generazione. Accanto a personaggi modellati sui reali attivisti coinvolti, tra cui Mark Ashton, Mike Jackson, Dai Donovan e Sian James, lo sceneggiatore Beresford inserisce personaggi inventati (e riduce per questioni drammaturgiche il numero di militanti coinvolti nel LGSM, in realtà molti di più), come Joe “Bromley” Cooper. Se Mark è l’esplicita e trascinante voce delle istanze del movimento, nonché vero ideatore della campagna “Lesbians and Gays Support the Miners”, il giovane Bromley, proveniente dai suburbs e da una famiglia rigidamente benpensante, accoglie il punto di vista dello spettatore: guadagna il ruolo testimoniale di fotografo ufficiale, e la sua presa di coscienza della necessità di cominciare a combattere per i propri diritti riecheggia quella dei minatori, molti dei quali ritrovatisi a picchettare per la prima volta nella vita. Lo scontro/incontro tra due realtà che rivendicano diritti esistenziali oltre che sociali e politici (quello a vivere senza essere discriminati e quello al lavoro e al proprio sostentamento) è scandito dalle tappe dell’avvicinamento, della diffidenza, della conquista e del riconoscimento reciproco, e supportato da caratteri e situazioni funzionalmente schematici, utili a definire traiettorie umane e politiche: il giovane omosessuale in fuga dalla famiglia che non lo capirà mai, quello che infine può riconciliarsi con le proprie origini, la vita da sempre “closeted” – ovvero “velato”, relativamente a persone che non hanno comunicato apertamente il loro orientamento sessuale – dell’uomo maturo, l’artista flamboyant, lo spettro dell’AIDS. Dialogando con il cinema sociale di Ken Loach e Stephen Frears, Pride abbraccia con leggerezza il nucleo profondo della storia, punteggiandosi di azzeccate connessioni che tornano a sottolinearlo in ogni momento: ricorre il motivo delle mani laicamente giunte in una stretta solidale che trascende i generi, le categorie, gli stili di vita, mentre la vicinanza immediata delle donne del villaggio alle rivendicazioni del movimento LG evidenzia la naturalità della condivisione delle battaglie. D’altra parte Mark e Dai riconoscono espressamente le contraddizioni della militanza, l’incapacità di fare fronte comune rimanendo spesso fossilizzati nelle reciproche cause, e dimostrano che vi si può porre rimedio. E infatti anche se il 4 marzo 1985 il Sindacato Nazionale dei Minatori votò per la ripresa dei lavori, vanificando le rivendicazioni degli scioperanti, l’eredità di quella strana congiuntura divenne tangibile nell’immancabile appoggio delle organizzazioni sindacali dei minatori di tutte le istanze dei movimenti inglesi LG e poi LGBT da lì in avanti, oltre che nella persona di Sian James, oggi parlamentare del Partito Laburista. Così alla fine si resta con la sensazione che il film abbia centrato in pieno l’obiettivo corroborante di ricordare che, comunque vada, valga la pena lottare. Chiara Checcaglini 27 SHORT SKIN - I DOLORI DEL GIOVANE EDO Edoardo è un diciottenne della provincia pisana come tanti, ma con un problema in più: soffre di fimosi al pene. Questo non solo gli procura dolore fisico nei momenti d’intimità, ma contribuisce a ingigantire insicurezze, paure e tensioni più generali. Lo si vede nel rapporto con Bianca: saranno proprio le scelte di vita della ragazza, nell’arco di un’estate decisiva, a spingere il protagonista a prendere di petto i suoi problemi e la sua vita. S Regia: Duccio Chiarini; Soggetto: Duccio Chiarini; Sceneggiatura: Duccio Chiarini, Ottavia Maddeddu, Marco Pettenello, Miroslav Mandic; Fotografia: Baris Özbiçer; Montaggio: Roberto Di Tanna; Scenografia: Ilaria Fallacara; Costumi: Ginevra De Carolis; Musiche: Woodpigeon; Produzione: Le Règle Du Jeu, Asmara Films; Distribuzione: Good Films; Origine: Italia/Iran/Gran Bretagna 2014; Durata: 83’ Interpreti: Matteo Creatini (Edoardo), Francesca Agostini (Bianca), Nicola Nocchi (Arturo), Miriana Raschillà (Elisabetta), Bianca Ceravolo (Olivia), Bianca Nappi (Daniela), Michele Crestacci (Roberto), Francesco Acquaroli (urologo), Anna Ferzetti (Anna), Crisula Stafida (Pamela) 28 hort Skin – I dolori del giovane Edo è uno di quei film che trovano il loro punto di forza nell’essere dichiaratamente senza troppe pretese, e che riescono a raccogliere il massimo da questo paletto auto-imposto fin dalla partenza. Il “senza pretese”, in questo caso, non è la scusa preventiva che tanto – troppo – spesso viene usata da alcuni commedianti per, poco onestamente, mettere le mani avanti alle accuse di volgarità o di umorismo convenzionale e stantio, o per assumere posizioni trincerate con le quali rispondere ai più o meno legittimi attacchi. Al contrario, il senso della definizione, nel caso del film di Chiarini, si ritrova nella volontà di raccontare una storia dalle atmosfere comunissime e quotidiane con un tono dichiaratamente sommesso e poco urlato ma tutt’altro che anonimo e inefficace, con un rapporto con la provincia di riferimento palese ma che alla fine risulta per niente provinciale (non è un caso che il film sia passato al Festival di Berlino 2015, nella sezione “Generation”; e lo confermano anche i riferimenti, dichiarati dallo stesso regista-sceneggiatore, a certe storie del fumettista e illustratore italiano Gianni Pacinotti, in arte Gipi). Volendo si potrebbe fare un paragone con le zone di mare che fanno da sfondo a tante scene del film: non hanno la fama né l’appeal un po’ costruito delle grandi spiagge e delle località più celebri, ma portano con sé quel fascino, umile e più sentito, meno evidente, di quei luoghi in cui, proprio come nel caso di alcuni personaggi del film, si ritorna sempre per ritrovare persone, atmosfere e luoghi a cui si è affezionati. Questo nonostante il tema principale – quello del problema al pene, delle relative paranoie e delle conseguenti problematiche di approccio sentimental-sessuale del protagonista – non fosse un banco di prova facile, non tanto per il rischio volgarità quanto per la possibilità di cadere in banalità o compiacimenti vari. Le problematiche fisiche e sessuali, trattate sempre con estrema delicatezza e con un umorismo anche in questo caso placido ma non inerme, sono anzi lo strumento da cui parte il classico racconto di formazione adolescenziale: non proprio ai livelli di un “MacGuffin” di hitchcockiana memoria, ma quasi. Per il giovane Edo il problema all’organo riproduttivo diventa soprattutto un pretesto per poter esprimere inquietudini, paranoie e timidezze; una maniera per esorcizzare le proprie paure e insicurezze. Anche un modo per giustificare quello che, man mano che il film scorre, pare sempre più poter diventare un futuro rimpianto: l’amicizia che in realtà è palesemente qualcosa di più con Bianca, amica di infanzia e ora vicina di casa che il protagonista rischia seriamente di farsi irrimediabilmente sfuggire. È proprio lei, con le sue scelte di vita, a spingere il Nostro a superare la fase di stallo in cui per tutta la narrazione sembra condannato, e a sconfiggere le sue paure. In fondo Short Skin è anche una storia d’amore, anche in questo caso raccontata in maniera velata e quasi sottotraccia. Il tono scelto non è lontano da quello delle commedie indipendenti d’oltreoceano, con le quali vi è in comune il voler descrivere un disadattamento e un certo senso di inadeguatezza inserendoli in un universo allo stesso tempo quasi sospeso ed estremamente realistico. Insomma, nel suo incedere pacifico e rilassato, Short Skin – I dolori del giovane Edo è una piacevole e rasserenante ventata di aria buona nel panorama cinematografico italiano, esempio di un’idea di narrazione non pretenziosa ma non per questo mediocre, lontana e libera dal ricatto della commercialità banale e del finto autorialismo. Edoardo Peretti 29 Premio all’Opera d’Autore Álex de la Iglesia I l Premio all’Opera d’Autore, istituito per omaggiare quei grandi autori che si sono cimentati nel cinema e nell’immagine, che hanno saputo distinguersi come artisti completi, in particolare nell’ambito della scrittura, della sceneggiatura e della narrazione, giungendo ad una umana e completa comprensione dell’arte e della vita, viene quest’anno conferito ad Álex de la Iglesia. Nato a Bilbao nel 1965, Alejandro de la Iglesia Mendoze è il più piccolo di cinque fratelli di una famiglia che si nutre di cultura. Il padre è un docente universitario di sociologia nella Facoltà di Economia nell’Università di Deusto. È inoltre critico cinematografico e teatrale nel giornale La Gaceta del Norte. La madre è una pittrice ritrattista e fra le fondatrici, nel 1945, della “Associacion Artistica Vizcaina”. I fratelli di Álex, Agustin e Javier, lo iniziano alla passione per i fumetti, e durante l’adolescenza si guadagna da vivere disegnando per diversi periodici e riviste. Negli anni del liceo, inizia a collaborare con diverse riviste come Trokola, El Correo Español, Tribuna Vasca, Euskadi, La Ría del Ocío. Si laurea in filosofia all’Università dei Gesuiti di Deusto e durante gli anni dell’università fa diverse conoscenze e amicizie tra cui il professore di filosofia antica, Jesús Igal, studioso del filosofo Plotino. Deciso a inserirsi nel mondo dello spettacolo, de la Iglesia lavora in televisione come scenografo ed è production designer della nerissima crime-comedy Todo por la pasta (1991), opera seconda del regista basco Enrique Urbizu. Da questa esperienza raccoglie le conoscenze necessarie per mettersi dietro la macchina da presa: il suo primo cortometraggio è Mirindas asesinas (1991), subito un successo in Spagna. Girato in 16mm e in b/n, il corto parte da una situazione comica che muta rapidamente in una commedia nera e surreale fino a trasformarsi in uno psico-thriller dalla tensione crescente. Mirindas asesinas dichiara tutti gli intenti cinematografici del regista: emozione, tensione, attenzione alle aspettative del pubblico e, soprattutto, la passione per un’idea che va portata avanti fino alla fine, non importa se difficile da visualizzare e da rendere verosimile per lo spettatore. Il cineasta più affermato di Spagna, Pedro Almodóvar, colpito dal talento esplosivo del giovane de la Iglesia, decide di sostenere, attraverso la sua casa produttrice El Deseo, il suo primo lungometraggio, Acción mutante (Azione mutante, 1993). Da quel momento in poi la carriera del regista decolla e il successo non tarda ad arrivare. Álex de la Iglesia è oggi uno dei registi più internazionali di Spagna che ha all’attivo diverse coproduzioni europee, inglesi e americane, pur rimanendo sempre fedele alla cultura e alla tradizione basca in cui si è formato. De la Iglesia è un autore con una visione per nulla idilliaca dalla vita e dell’amore e il suo cinema è intriso di aspro cinismo, di domande sul senso profondo del mondo e delle cose, ma è anche un regista capace – come pochi altri – di raccontare un universo che si tinge di nero e del vermiglio di cui è fatto il sangue, facendo sempre divertire lo spettatore per il quale nutre un rispetto quasi reverenziale. De la Iglesia è convinto che l’umorismo sia violenza; il cinema è il veicolo perfetto per mostrare entrambi gli elementi e lui ha dimostrato, fin dal suo primo folle cortometraggio, di essere un maestro nel farli coabitare all’interno della stessa opera. 32 Attraverso il suo cinema, de la Iglesia è capace di far fuggire lo spettatore dalla realtà perché lui per primo vive il cinema come una fuga; e per questo motivo lavora a ritmo quasi febbrile sperimentando la scrittura e la regia di ogni genere cinematografico, dal fantastico (Acción mutante, El día de la bestia, la serie Plutón B.R.B. Nero) al western (800 balas), al road movie (Perdita Durango), all’horror (La habitación del niño), al thriller (The Oxford Murders), alla commedia grottesca (Muertos de risa, La comunidad, Crimen ferpecto, Las brujas de Zugarramurdi), fino al documentario biografico (Messi) e al dramma puro (Balada triste de trompeta, La chispa de la vida). De la Iglesia fugge la realtà con il suo cinema e nel cinema che lo ha plasmato, quello di Hitchcock, Scorsese, Aldrich, Hawks, F.F. Gómez, Berlanga, Tourneur, Buñuel, Spielberg, Scott, Truffaut, Peckinpah e di molti altri autori di ogni epoca e scuola. Conosce ogni fotogramma delle opere dei cineasti a cui si rivolge, ama quelle opere in maniera viscerale e le omaggia attraverso la scrittura, che avviene perlopiù in coppia con l’amico Jorge Guerricaechevarría, la messa in scena, realizzata quasi sempre con la collaborazione della sua fidata troupe di professionisti (Kiko de la Rica alla fotografia, Arri e Biaffra alle scenografie, Blanco al montaggio) e le interpretazioni affidate ai suoi attori feticcio (Álex Angulo, Terele Pávez, Santiago Segura, Eduardo Antuña, Carolina Bang). Le sue passioni non sono solo cinematografiche, ma anche televisive, letterarie, fumettistiche e filosofiche. Ha pubblicato due racconti: Payasos en la lavadora (1997, riedito nel 2009) e Recuerdame que te odie (2014); ha realizzato una serie televisiva (Plutón B.R.B. Nero) e un film per la tv (La habitación del niño); si è cimentato, a inizio carriera, anche con la creazione di un videogioco live action, il cabinato laserdisc Marbella antivicio. La sua vastissima formazione culturale gli permette di attivare processi di investigazione e documentazione molto laboriosi per la stesura delle sceneggiature delle sue opere. È insidioso e al contempo affascinante il percorso di indagine del suo processo creativo; è una sfida capire a fondo le sue opere, sempre ben mascherate dietro al genere apparentemente non impegnato della dark comedy, dell’horror grottesco o del thriller. Solo rivedendole più e più volte riusciamo ad afferrare quel numero infinito di strati di cui si compongono. Álex de la Iglesia si dimostra, attraverso le sue opere, un autore capace di lavorare con diversi generi e linguaggi, un osservatore attento del mondo contemporaneo, un creatore di universi picareschi che rendono costantemente omaggio al cinema e alle altre forme d’arte di ogni tempo, un regista che sa regalare allo spettatore riflessioni penetranti ed emozioni appassionanti. Il Premio Amidei propone in questa occasione la retrospettiva completa dell’opera del regista basco, occasione unica per il pubblico italiano che non ha mai potuto vedere in sala (se non all’interno di eventi festivalieri come la Mostra del Cinema di Venezia dove de la Iglesia ha vinto il Leone d’Argento per il suo capolavoro Balada triste de trompeta) molti dei suoi film, come Muertos de risa, 800 balas e La chispa de la vida. Sara Martin 33 DE LA IGLESIA DIXIT La televisione era il buco attraverso il quale vedevamo l’universo in quegli anni. Uno strano obiettivo faceva in modo che convergessero all’interno della televisione cose impossibili da unirsi. Lì c’è il germe di questa specie di eclettismo o di confusione mentale in cui viviamo da allora. […] Vedere in televisione i Chiripitifláuticos, Dreyer, Historias para no dormir, senza alcun tipo di filtro, ci ha evidentemente dato una determinata forma mentale. La mancanza di una particolare direzione è stata da un lato molto sana e dall’altro non tanto, ma io ne sono rimasto molto influenzato perché nessuno mi ha detto se quello che vedevo era di buona qualità o no, se era importante o no. Jordi Sánchez Navarro, Freak en acción. Álex de la Iglesia o el cine como fuga, Calamar, Madrid 2005 [In Muertos de risa] Santiago (Nino) dà una festa falsa a casa sua perché Wyoming (Bruno) creda che lui stia bene. [...] In quel momento genera un’allegria fittizia solo ed esclusivamente per danneggiare un’altra persona. E tutto passa attraverso la convinzione che “lo odio perché lo amo e perché lo amo, lo necessito”. Questo è, secondo me, il fondamento ultimo dell’amore. Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 In Balada triste de trompeta non sono a casa a fare i compiti, sto raccontando la mia storia e lo sto facendo per me e per chi ci sarà dopo di me, ma allo stesso tempo voglio anche che lo spettatore si diverta e veda come io ho vissuto le cose. Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 Muertos de risa e Balada triste de trompeta sono lo stesso film. Sono come El Dorado (id., Howard Hawks, 1966) e Un dollaro d’onore (Rio Bravo, Howard Hawks, 1959) dove cambiano solo alcune componenti per raccontare la stessa storia […] anche se ci sono alcuni elementi molto diversi. In Muertos de risa, per esempio, non c’è amore. Forse uno dei due protagonisti vuol bene all’altro, all’inizio, ma quando si rende conto di aver bisogno di lui, allora comincia a odiarlo perché si accorge che da quel momento non sarà mai più indipendente. Ha bisogno dell’altro per essere lui stesso: “se non do delle sberle non valgo niente. Ho bisogno di qualcuno che prenda le sberle”. Il conflitto è tra due persone che si amano e, contemporaneamente, si odiano. In Balada triste invece i due pagliacci sono innamorati di una terza persona e ognuno dei due la distrugge a suo modo. È un triangolo amoroso drammaticamente distruttivo. Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 34 [Nella produzione internazionale Perdita Durango] mi hanno offerto per la prima volta l’opportunità di non raccontare le avventure di poveri diavoli che si trovano ad affrontare situazioni tremende, che era diventata ormai la mia carta di identità per i produttori. Perdita Durango è stata per noi una specie di pellicola della maturità, dove abbiamo potuto raccontare un’altra storia. Una storia di cowboys dove il mio eroe si identificava per i suoi stivali di serpente. Un eroe che aveva il suo mondo e la sua religione completamente diversi da tutti gli altri. E questo è il mio eroe nel film, quello che crea il suo mondo come si fa in un gioco di ruolo, e lo impone a tutti gli altri, e questo provoca, inevitabilmente, delle frizioni. E il mio eroe va avanti fino a che abbandona la veste di demiurgo del gioco e non vuole più vivere una vita dove non è lui quello che detta le regole. Romeo è quello che dice come stanno le cose e quando la realtà non è conforme al suo mondo, allora si comporta come James Cagney in La furia umana (White Heat, Raoul Walsh, 1949). Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 Con The Oxford Murders sono entrato in un progetto che non avrei dovuto fare. Sinceramente. Ma, alla fine, ne sono stato molto contento perché ho imparato moltissimo e, soprattutto, perché ho scoperto che potevo dirigere un film come quello e se non lo avevo fatto prima non era per un problema di possibilità, ma di intenzioni. Grazie a The Oxford Murders ho scoperto che cosa significa dirigere un film in un’altra lingua e, soprattutto, dirigere attori in un’altra lingua, che è qualcosa di estremamente complicato perché ti devi fidare dell’intuizione e dar loro molta libertà, anche se quando c’è qualcosa che non va in ogni caso te ne accorgi subito. Io sapevo il copione a memoria e l’avevo recitato varie volte con gli attori. E lo sai quando ci sono degli errori, perché l’intonazione è uguale in qualsiasi lingua. Dovevo dirigere con molta delicatezza attori del calibro di John Hurt ed Elijah Wood e dovevo essere molto sincero con loro: come potevo dire a John Hurt, che era stato professore di interpretazione a Oxford, in che modo doveva recitare una battuta? Quando gli spiegai questa cosa John mi rispose che non solo avrebbe recitato bene la sua parte ma che mi avrebbe aiutato in ogni modo ad ottenere il risultato che mi ero riproposto. Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 Cercando di raccontare chi è il giocatore Messi, chi è il ragazzo che sta dietro a questa persona che sembra così timida, che non vuole parlare con i media, che sembra nascondere qualcosa, che non vuole relazionarsi come il resto dei giocatori e del mondo dello spettacolo, scopri che a lui interessa solo giocare a calcio e il suo modo di esprimersi è giocare a calcio. Avrebbe preferito che non parlassimo di lui e io ho deciso di non intervistarlo per non rompere il mistero che si viene a creare attorno a questo personaggio così schivo che, proprio nella sua riluttanza, ha qualcosa di cinematografico. cineuropa.org, Intervista a Álex de la Iglesia, 71. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia Sono ossessionato dagli arredamenti. In una scenografia c’è tutto. Sei come un demiurgo che controlla assolutamente tutta la pellicola: la forma, il fondale, i personaggi e quello che sta dietro a loro […] tutto è esattamente come vuoi, hai più controllo 35 e più potere e hai la troupe chiusa in un set al tuo servizio. Quando giri in esterni, questo potere si perde […] il set è un carcere per i più. Ma per il regista è la libertà perché non sei obbligato a girare tutte le scene. Puoi andartene a casa senza aver girato nulla perché sai di poter fare il giorno dopo quello che non hai fatto oggi. Nel set interno c’è la scenografia di oggi, quella di domani che puoi raggiungere senza perdere tre ore nel traffico come avviene nei set esterni, e quella di ieri, in cui puoi rettificare gli errori che hai trovato in sceneggiatura. Per questo mi affascina girare negli ambienti ricostruiti. E si tratta anche di una concezione generale del cinema: credo infatti che il miglior cinema di sempre sia quello dello Studio System, quello dell’epoca classica di Hollywood. E i migliori film sono quelli girati in studio, dove il regista controlla assolutamente tutto e ha vicino a sé, o nell’edificio a fianco, il set, gli attori, i produttori, gli sceneggiatori […]. Il sistema produttivo dello Studio, durante l’epoca d’oro hollywoodiana, non era casuale, era il prodotto di un metodo di lavoro. Le migliori pellicole sono di quell’epoca perché coincidono con uno straordinario metodo di produzione. Jordi Sánchez Navarro, Freak en acción. Álex de la Iglesia o el cine como fuga, Calamar, Madrid 2005 La comunidad era girato in un solo piano dell’edificio. L’idea ci venne, a me e a Jorge [Guerricaechevarría], perché giungemmo alla stessa conclusione di Hitchcock, che quanti meno elementi utilizzi, più potente è il film. La questione sta nel ridurre gli elementi al massimo e fare uno sforzo supplementare perché lo spettatore, che non deve mai notare questo sforzo, né il modo in cui succede, come nel caso di Nodo alla gola (The Rope, Alfred Hitchcock, 1948), si preoccupi solo della storia. Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar, Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012 Ho trovato il portatile, un Powerbook 150, in una fermata di autobus della Gran Via di Bilbao, nel cuore della notte, durante la “Semana Grande”. Nel disco rigido c’era solo questa cartella, dallo strano nome: Payasos en la lavadora. Si tratta di una raccolta di pensieri, esperienze e ricordi senza un apparente collegamento, salvo una misantropia cronica. Non ha firma ma, leggendo alcuni dettagli del testo, sospetto che si tratti del computer di un mio vecchio vicino di casa, un tipo magro e nervoso che non vedo da mesi. Nella cassetta delle lettere c’è scritto Juan Carlos Satrústegi. È uno scrittore. Questa si potrebbe considerare la sua terza opera. Ho parlato con la sua famiglia e mi hanno detto che è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Col suo consenso mi faccio carico della pubblicazione del testo, nella speranza che questo lo aiuti a guarire presto. L’ho diviso in capitoli, ho soppresso la maggior parte degli insulti a persone e istituzioni, così come i paragrafi completamente incomprensibili – quindici righe di consonanti, la parola froci ripetuta milleduecento volte – o irrilevanti – cinque pagine dedicate alla descrizione di diversi tipi di cotiche . Ho inoltre ritenuto opportuno introdurre alcune citazioni che ho preso da un dizionario per dare al testo un tono un po’ più accademico, dietro consiglio di sua madre. Álex de la Iglesia, Introduzione di Payasos en la lavadora, Seix Barral, Planeta, Barcellona 1997 36 La tv è, attualmente, il mezzo d’espressione più ricco e fertile che possegga l’uomo. Dovevo dirlo così, senza giri di parole. Il teatro, il cinema, la letteratura, la musica, la poesia – a parte la mia – sono morti, sono fossili, oggetti da museo di provincia, esperimenti falliti di una cultura passata di moda. Oggi nessuno fa qualcosa di buono; quel poco che si poteva fare è stato fatto. Rimangono soltanto alcuni pagliacci che fanno i ridicoli. L’unica possibilità di trionfo è che i due tipi dello spot affoghino dentro la lavatrice e di poter prendere il loro posto. Cosa succede? Vi scandalizza? Sciocchi arroganti! Ascoltatemi bene: è un fatto evidente. Li abbiamo fatti morire da molto tempo. E puzzano già. Il teatro, per esempio, un gruppo di persone che gridano in una scenografia squallida. Perché gridano sempre in teatro? Perché li ascolti quello dell’ultima fila? Invece, amici miei, la televisione… la televisione è innovatrice, creativa, giovane, forte. La televisione rischia, rompe i modelli e gli schemi. Soprattutto quella privata. La pubblica ormai è perduta, finita, imita, come può, le private. È triste riconoscerlo, ma è così. Álex de la Iglesia, Payasos en la lavadora, Seix Barral, Planeta, Barcellona 1997 Quando ho cominciato a scrivere la serie tv Plutón B.R.B. Nero stavo guardando la serie completa di Star Trek, che mi affascinava e avevo voglia di fare qualcosa di fantascientifico che in Acción mutante non avevo potuto fare e che oggi era tecnicamente molto più facile da realizzare. Volevo costruire una nave spaziale, volevo gli extraterrestri e volevo divertirmi mettendo in scena un mondo che in Acción mutante avevo intuito come poter realizzare, senza aver avuto l’opportunità di portare a compimento. […]. È stato il momento migliore e peggiore della mia vita. Intervista inclusa negli extra del cofanetto dvd di Plutón B.R.B. Nero, Cameo Media SL, Spagna 2010 Giravamo ogni episodio in una media di quattro giorni e mezzo, cinque. Per un film ci avremmo messo più di due settimane e mezzo. Avevamo pochissimi soldi per fare quello che volevamo fare e abbiamo sempre cercato di trovare un compromesso tra ciò che volevamo e ciò che potevamo. E questo, a dire il vero, è il mio lavoro tanto nel cinema quanto nella televisione. Ma qui le cose sono state più drammatiche, dovevamo preparare le scene, girare, produrre, montare e post-produrre quasi contemporaneamente. La differenza fondamentale è questa: in un film hai il tempo per pensare, in televisione no. In tv hai sempre bisogno di trovare le inquadrature giuste, quelle che ti servono per raccontare la storia nel modo più semplice possibile. Il risultato deve essere dinamico, non deve essere piatto e noioso. Intervista inclusa negli extra del cofanetto dvd di Plutón B.R.B. Nero, Cameo Media SL, Spagna 2010 A cura di Sara Martin 37 Filmografia MIRINDAS ASESINAS (id., cortometraggio) Regia: Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Origine: Spagna 1991; Durata: 12’ Interpreti: Álex Angulo, Saturnino García, José Antonio Álvarez, Ramón Barea, Oscar Grijalba AZIONE MUTANTE (Acción mutante) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Spagna 1993; Durata: 97’ Interpreti: Antonio Resines, Álex Angulo, Frederique Feder, Juan Viadas, Karra Elejalde, Santiago Segura, Saturnino Garcìa IL GIORNO DELLA BESTIA (El día de la bestia) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Spagna/Italia 1995; Durata: 103’ Interpreti: Álex Angulo, Armando De Razza, Santiago Segura, Terele Pávez, Nathalie Seseña, Maria Grazia Cucinotta, Gianni Ippoliti 38 PERDITA DURANGO (Perdita Durango) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Barry Gifford, dal suo racconto 59 Degrees and Raining: The Story of Perdita Durango; Sceneggiatura: Barry Gifford, David Trueba, Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Messico/Spagna/USA 1997; Durata: 126’ Interpreti: Rosie Perez, Javier Bardem, James Gandolfini, Demián Bichir, Harley Cross, Aimee Graham, Don Stroud, Alex Cox, Carlos Bardem MUERTOS DE RISA (id.) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Origine: Spagna 1999; Durata: 113’ Interpreti: Santiago Segura, José Miguel Monzón, Álex Angulo, Carla Hidalgo, Jesús Bonilla, María Asquerino, José María Íñigo Gómez LA COMUNIDAD – INTRIGO ALL’ULTIMO PIANO (La comunidad) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Spagna 2000; Durata: 105’ Interpreti: Carmen Maura, Eduardo Antuña, María Asquerino, Jesús Bonilla, Marta Fernández Muro, Paca Gabaldón, Ane Gabarain, Sancho Gracia 800 BALAS (id.) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Origine: Spagna 2002; Durata: 124’ Interpreti: Sancho Gracia, Ángel de Andrés López, Carmen Maura, Eusebio Poncela, Luis Castro, Manuel Tallafé, Enrique Martínez, Luciano Federico, Terele Pávez CRIMEN PERFECTO - FINCHÉ MORTE NON LI SEPARI (Crimen ferpecto) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Spagna/Italia 2004; Durata: 105’ Interpreti: Guillermo Toledo, Mónica Cervera, Enrique Villén, Luis Varela, Fernando Tejero, Javier Gutiérrez, Kira Miró FILM PER NON DORMIRE LA STANZA DEL BAMBINO (Películas para no dormir - La habitación del niño, film tv) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Spagna 2006; Durata: 77’ Interpreti: Javier Gutiérrez, Leonor Watling, Sancho Gracia, María Asquerino, Antonio Dechent, Terele Pávez, Ramón Barea, Eulalia Ramón, Manuel Tallafé OXFORD MURDERS – TEOREMA DI UN DELITTO (The Oxford Murders) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: tratto dal romanzo La serie di Oxford di Guillermo Martínez; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Origine: Spagna/ Francia 2008; Durata: 108’ Interpreti: Elijah Wood, John Hurt, Leonor Waiting, Jolie Cox, Jim Carter, Alex Cox, Burn Gorman, Dominique Pinon, Anna Massey PLUTÓN B.R.B. NERO (id., serie tv) Regia: Álex de la Iglesia, Domingo Gonzalez; Creatori: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría, Pepón Montero, Juan Maidagán; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría (16 episodi), Eugenio Lasarte (3 episodi), Juan Maidagán (7 episodi), Pepón Montero (7 episodi), Álex de la Iglesia (9 episodi); Origine: Spagna 2008-2009; Durata: 35’ (episodio) Interpreti: Antonio Gil, Carlos Areces, Carolina Bang, Enrique Martinez, Manuel Tallafé, Gracia Olayo, Mariano Venancio, Enrique Villen BALLATA DELL’ODIO E DELL’AMORE (Balada triste de trompeta) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia; Origine: Spagna/Francia 2010; Durata: 107’ Interpreti: Carlos Areces, Antonio de la Torre, Carolina Bang, Manuel Tallafé, Paco Sagarzazu, Sancho Gracia, Santiago Segura, Enrique Villén, Alejandro Tejerías LA CHISPA DE LA VIDA (id.) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Randy Feldman; Sceneggiatura: Randy Feldman, Álex de la Iglesia (non accreditato); Origine: Spagna/Francia/ USA 2011; Durata: 94’ Interpreti: José Mota, Salma Hayek, Manuel Tallafé, Blanca Portillo, Jean Luis Galiardo, Antonio Garrido, Fernando Tejero, Carolina Bang, Antonio De La Torre, Santiago Segura Segura, Gabriel Delgado, Macarena Gómez, Carmen Maura, Carlos Areces, Manuel Tallafé WORDS WITH GODS - segmento “THE CONFESSION” (id.) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia; Origine: Messico/USA 2014; Durata: 10’ circa Interpreti: Juan Fernández, Paco Sagarzazu, Pépon Nieto, Mariano Venancio MESSI - Storia di un campione (Messi) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge Valdano; Sceneggiatura: Jorge Valdano; Origine: Spagna 2014; Durata: 95’ Interpreti: Johan Cruyff, César Luis Menotti, Jorge Valdano, Andrés Iniesta, Gerard Piqué LE STREGHE SON TORNATE (Las brujas de Zugarramurdi) Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría; Origine: Spagna/Francia 2013; Durata: 112’ Interpreti: Hugo Silva, Mario Casas, Pepón Nieto, Carolina Bang, Terele Pávez, Jaime Ordóñez, Santiago 39 40 Piccola antologia dello humour nero 41 42 C’ Il filosofo, fiero di sé, passò subito a dimostrare che il bianco era nero, e finì ucciso sulle prime strisce pedonali che incontrò Douglas Adams, Guida Galattica per gli Autostoppisti è un’immagine, in questa Piccola antologia dello humour nero, che colpisce più di altre: la ragazzina dagli stivali gialli che cammina in bilico su un muretto, tra il grigio dei rottami e il marrone della fanghiglia che ricopre le borgate pestilenziali di Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976). Certo, lei si muove su quel muro “come sul baratro del proprio destino”, ci ricorda giustamente Lisa Cecconi nella relativa scheda in questo catalogo, ma per noi che cercavamo di destreggiarci nel concepire questa retrospettiva, quell’immagine era incredibilmente simbolica, rappresentava la nostra lotta con la ragione per definire confini e caratteristiche dello humour nero. Ovviamente, siamo scivolati un sacco di volte. Troppe le incognite, troppe le variabili, strettissimi i limiti che c’eravamo imposti, come quello di restare all’interno della filmografia italiana (quando maestri indiscussi del genere sono gli anglofoni), o di proporre un solo film per ogni regista (sarebbe uscita una retrospettiva Monicelli/Ferreri), o ancora di coprire quante più decadi del Novecento per offrire uno spaccato il più cronologicamente completo del “genere” (altrimenti restavamo intrappolati negli anni Sessanta e Settanta). La nostra rete di sicurezza è stata André Breton e la sua Antologia dello humour nero. Nell’introduzione al suo libro, lo scrittore surrealista spiega: “Per prendere parte al torneo nero dell’humour, bisogna infatti aver superato numerose prove eliminatorie. L’humour nero è limitato da troppe cose, quali la stupidità, l’ironia scettica, la facezia senza peso [...] ma è soprattutto il nemico mortale di quel sentimentalismo dall’aria eternamente braccata – quel sentimentalismo sempre all’acqua di rose – e di una fantasia di corto respiro, che troppo spesso si spaccia per poesia”. Noi, le eliminatorie per il girone finale del nostro personale torneo, le abbiamo fatte rendendoci perfettamente conto di come spesso gli elementi “neri” siano costantemente in bilico – pure loro! – con altri elementi “rosa”, “gialli”, “blu” ecc. Ad esempio, il semisconosciuto Gente felice – Benvenuto, onorevole! (1957) di Mino Loy, decisamente nero e fuori dall’ordinario (per i tempi), conserva comunque una fortissima componente sentimentale, così come il recente Pinuccio Lovero – Yes I Can (2012) di Pippo Mezzapesa, che molti tratti ha in comune con il film di Loy (dalla tematica “cimiteriale” a quella “politica” fino alla levità dei toni). Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Ottavio Alessi [e Paolo Heusch] rischia davvero di rientrare in quella “stupidità, ironia scettica” citate da Breton, soprattutto per l’idiozia (involontaria?) con cui tratta l’argomento sesso, droga e rock’n’roll, ma Totò psycho-killer che mura la gente usando le braccia dei cadaveri come applique, come lo consideriamo? O Il gatto (1978) di Luigi Comencini, commedia certo nerissima ma dall’indiscutibile (seppur originale) virata verso il “giallo” del thriller? E i Mortacci (1989) di Sergio Citti, patchwork di funebri racconti brevi che di nero a volte hanno solo i contorni, come la storia del playboy Scopone e degli infiniti primi piani di culi femminili che lo circondano? Nessun dubbio per quanto riguarda invece i maestri riconosciuti del genere: La donna scimmia (1964) di Marco Ferreri è una delle più acute e ciniche riflessioni su un tema portante dello humour nero, la mostruosità/diversità, così come l’esplosivo spappolamento dell’istituzione “famiglia” operato da Mario Monicelli in Parenti serpenti (1992). Per non parlare dell’assoluto degrado fisico e morale di un’intera società messo in scena da Scola in Brutti, sporchi e cattivi, e in parte ripreso da Daniele Ciprì in È stato il figlio (2011), o dell’incubo kafkiano cui è vittima il neocapitalista sfrenato Ugo Tognazzi nel suo Il fischio al naso (1967), tratto da Dino Buzzati. Con questa Piccola antologia, noi pensiamo di essere rimasti in piedi su quello stretto muretto che è lo humour nero, magari con qualche perdita di equilibrio, ma senza crolli rovinosi, e così come l’Antologia di Breton anche la nostra è una provocazione, fatta per discutere. Occhio alle strisce pedonali, però… Primo Lazzaro 43 INTERVISTA A DANIELE CIPRì Se questa fosse un’intervista di Cinico Tv (1992), inizieremmo dicendo “Buonasera signor Ciprì” e proseguiremmo, sempre citando il dialogo col tale Filangeri Giuseppe, chiedendo “lei è un testimone di fede?”. Naturalmente intenderemmo la fede nel cinema, nel potere delle immagini e, perché no, nella loro capacità di raccontare l’apocalisse italiana. Ma questa non è un’intervista di Cinico Tv e Daniele Ciprì preferisce l’intuizione inconscia alla citazione palese, il sogno ad occhi aperti rispetto all’analisi delle sequenze del passato, soprattutto quando si tratta dei suoi film, sia quelli realizzati assieme al compagno di avventure Franco Maresco sia i due nati dopo il loro divorzio artistico: È stato il figlio (2012) e La buca (2014). Questo splendido 53enne, nato e cresciuto a Palermo come fotografo e divenuto autore dopo le incredibili sperimentazioni visive degli anni Novanta da un po’ di anni riesce a malapena a passare una settimana consecutiva nella sua casa di Siracusa, sempre rimbalzato in giro per il mondo in veste di regista o di direttore della fotografia per altri amici autori come Marco Bellocchio, col quale ha appena finito di girare Sangue del tuo sangue. È proprio dal set del suo ultimo film, Fai bei sogni, tratto dal libro di Massimo Gramellini che Ciprì risponde alla chiamata, condividendo alcuni momenti di una vita straordinaria. necessità di rievocare il cinema di Mario, ma non di citarlo perché sarebbe stata un’offesa, e così in È stato il figlio l’ho appunto rievocato nella figura dell’avvocato che si gratta la testa. Nel nostro cinema c’è sempre stato il desiderio di rappresentare quella commedia cinico-amara di quel periodo, tant’è vero che, quando ci siamo incontrati, lui riconosceva questo nostro modo di rappresentare il vecchio cinema italiano, pur facendo altro, cioè raccontando l’apocalisse, il non-luogo. Personalmente continuo ad avere un rapporto col cinema italiano e americano di quegli anni: non sono un citazionista, sono uno che ha amato il cinema ma non ha inventato niente. Nessuno di noi ha inventato niente. In questo 2015 si omaggia Mario Monicelli nel centenario dalla nascita ma nel 2010, assieme a Maresco, realizzasti un testamento-video sui generis con la complicità del maestro. Cosa è rimasto dell’opera di Monicelli nel tuo cinema? Tanto. Dopo la separazione con Maresco ho sentito la A quale film di Monicelli sei più legato? Il film che ho amato di più è La grande guerra (1959) anche se lui, quando ci siamo conosciuti, diceva di lasciarlo perdere perché era più legato a L’armata Brancaleone (1966) che è un capolavoro di film. Quella generazione si rifaceva al cinema americano anni Cinquanta, quello più hard, che aveva una 44 forma unica sull’immagine e che noi abbiamo rappresentato, anche meglio per certi versi, ma che poi abbiamo perso e ora, infatti, stiamo cercando di recuperarci. Ad esempio il film di Matteo (Garrone, NdR) mi ha rievocato il cinema che ho amato e con cui sono cresciuto, quello di Mario Bava, che oggi è il trash. Monicelli è stato un genio, si rappresentava come i suoi film. E poi c’è un episodio legato all’intervista che gli abbiamo fatto al cimitero… (Nella scena il giornalista Gregorio Napoli spiega cos’è un “coccodrillo” nel gergo giornalistico raccontando che la redazione scrive la data in cui il pezzo è stato terminato perché l’autore dell’articolo potrebbe morire prima del personaggio famoso protagonista del coccodrillo. A quel punto Monicelli gli dice “Vuole scrivere lei il mio coccodrillo?”) …Gregorio Napoli, che aveva fatto il coccodrillo, è morto prima di Mario. Quando lavori a un film, sia come regista che come direttore della fotografia, operi in maniera inconscia oppure, come fanno molti (ad esempio Tarantino), fai una full immersion di film che pensi possano ispirarti? Mi capita spesso di andare a rivedere delle cose ma solo per avere un input, non per imitarle. Quando giro e sono sul set mi capita di citare il cinema e dico, per esempio, “guarda questa sequenza, mi ricorda L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel” oppure “questa te la faccio alla Orson Welles” però sempre ridendo. Questa cosa, che condivido con registi come Lucio Fulci, non voglio assolutamente perderla e spero di non fare mai il citazionista. Non ho fatto scuole di cinema, per questo mi do degli input attraverso quello che ho visto, che è sempre un riferimento anche se è stato fatto tecnicamente meglio o peggio. Mentre sono sul set ricordo sempre qualche film e spero che questo si avverta in tutto quello che faccio. Non avendo fatto scuole di cinema, come hai mosso i primi passi sul set? Sono nato in una famiglia di immagini: mio padre riparava le macchine fotografiche e aveva la passione per il cinema ma, principalmente, faceva servizi per i matrimoni. In una città come Palermo che non aveva nulla da offrire, lavoravo con lui e, parallelamente, entrai nella cooperativa di Tornatore. Poi mi sono chiesto a cosa mi servisse tutto questo e son diventato un autore. Adesso insegno quello che so, faccio tre scuole anche se ora non posso farne più perché, ringraziando il cielo, lavoro molto e continuo a fare cortometraggi per i giovani. Due sono a Cannes: Sotto Terra di Mohamed Hossameldin e Sonderkommando di Nicola Ragone che ha vinto il Nastro d’Argento 2015 come Miglior Corto. Mi piace cambiare e lavorare con i giovani perché mi sento un po’ vampiro: prendo da loro e loro prendono da me. E poi anche John Ford era un grande artigiano: quando Bogdanovich lo intervista e gli chiede “come ha fatto quella scena?” e lui risponde, dopo cinque minuti di pausa, “con la macchina da presa”: era un genio. Qual è stata la tua prima esperienza cinematografica? Giravo dei corti documentari con la CLCT (Cooperativa Lavoratori Cinema e Teatro), ex cooperativa di Giuseppe Tornatore, a capo della quale c’erano due soci: Sergio Gianfalla e Giovanni Massa. Poi c’è stato l’incontro fulmineo con Franco e da lì siamo cresciuti insieme, continuando un’elaborazione e una scuola. Facevamo montaggi di cinema, analizzavamo Kubrick, Welles, Ford, e realizzavamo dei piccoli Fuori orario. La mia ex moglie aveva una tv privata (anch’io ne avevo una) e così abbiamo unito le forze, assieme anche alla cooperativa: da lì è nato l’esperimento di Ai confini della pietà, che poi era Cinico Tv. Poi, parallelamente, ho lavorato con Roberta Torre 45 perché era l’unica regista a cui tenevo, non solo perché stava con Franco. Con lei sono cresciuto ancora di più perché aveva un altro tipo di linguaggio e di scrittura con i quali mi confrontavo, portandoli a casa mia. Roberta mi ha dato grandi possibilità di sperimentare formule nuove, nel bene e nel male: abbiamo fatto Angela (2002), Tano da morire (1997), Sud Side Stori (2000), Mare nero (2006) più i cortometraggi. Poi, dopo la separazione con Franco, è successa una cosa strana: ho accettato di lavorare con i colleghi, cosa che non avrei fatto in passato per rispetto della nostra “coppia”, e c’è stato un incontro pazzesco con Marco Bellocchio. Mi chiamò dalla produzione e mi propose il film Vincere (2009). Confrontandomi con quella sceneggiatura avevo un po’ di timore perché era un film abbastanza complesso per quei tempi e per quel periodo della mia vita. Poi mi hanno convinto a farlo e da lì, attraverso non tanto Vincere ma delle persone che ho conosciuto durante la lavorazione, si sono attivate una serie di situazioni che mi hanno poi permesso di realizzare È stato il figlio. Mi sono reso indipendente dalla coppia ma anche Franco lo sta facendo: ha girato un bellissimo documentario, Belluscone (2014), e ne sta girando un altro su Franco Scaldati. Dividendo il tuo lavoro fra la regia dei tuoi film e la fotografia per altri autori, cos’è che ti dà più soddisfazione? È una domanda che mi fanno sempre! Tutte le cose che ti danno stimoli ed entusiasmo, secondo me, vanno fatte. Essendo un autore, rimango un tecnico al servizio del mio collega, non mi permetto mai di mettere bocca, a meno che non me lo chiedano. Mi piace molto questo ruolo perché mi stimola, come in passato con Roberta Torre, a fare e avere delle idee, delle possibilità: questo è il compito dell’autore, avere stimoli ed entusiasmo. Quando con Franco intervistammo 46 Antonio Margheriti, a microfoni spenti mi disse “io ho smesso di fare film nel momento in cui mi dicevano: riunioni, riunioni, riunioni!”: aveva semplicemente perso l’entusiasmo. Fino ad ora mi trovo bene in questo doppio ruolo, anche se non mi fa godere la mia casa a Siracusa, e lo farò finché avrò entusiasmo. Sai, tutto questo non l’ho mai preso come un lavoro ma come una passione che è nata da un mestiere: pensa che avevo la passione per il biliardo e l’ho abbandonata proprio perché avevo capito che il mio hobby era diventato il mio mestiere, o meglio, la mia malattia. Vent’anni dopo Lo zio di Brooklyn (1995) a che punto siamo dell’apocalisse che hai evocato assieme a Franco? È avvenuta! L’apocalisse era un nostro modo di interpretare l’abbandono, la psicologia umana. Eravamo ovunque e da nessuna parte, il nostro era un mondo dopo la guerra, dopo il disastro, quindi non erano le macerie della fame ma quelle della vita. Credo che la realtà di oggi ci dia conferma: non siamo nel mondo in bianco e nero di Cinico Tv però siamo in un disastro totale. Con Franco abbiamo sempre un po’ anticipato: per esempio al museo di Milano c’è un video del nostro ciclista (Sbarbato) che dice che Berlusconi si poteva comprare la Sicilia. Ancora non era in politica ma noi avevamo anticipato questo suo ruolo. Quel tipo di post-apocalittico veniva da un amore per il cinema fantasy, soprattutto degli anni Cinquanta e Sessanta, e il nostro desiderio è sempre stato quello di fare film di genere però raccontando, attraverso un luogo astratto, una realtà che poi era quella del popolo siciliano. Non avevamo le città ma le periferie e per questo ci dicevano che eravamo pasoliniani: con tutto il rispetto per Pasolini, sicuramente qualcosa ricordava il suo cinema ma poi con Totò che visse due volte (1998) abbiamo concluso quel percorso. Dopo è nato Il ritorno di Cagliostro (2003) che è una commedia. Quel ruolo del post-apocalittico era proprio dovuto al fatto che noi arrivavamo in televisione da una Luna spezzata in due e urlavamo vendetta. Visto che la vostra apocalisse si è avverata ora servirà un nuovo post-apocalittico. Non sarò io a dirlo, non sono un predicatore, però siamo messi male. Ci riprenderemo perché son sempre convinto che, toccando il fondo, poi risali: questo fa parte della nostra sicilianità. Cosa funziona e cosa no nel cinema italiano di oggi? Il cinema italiano ha avuto dei problemi che non sono legati all’autore o alle opere in sé. Il cinema in generale sta avendo seri problemi per quello che riguarda il viaggiare con l’opera, avere l’immaginario dell’immaginario. Credo che la nuova generazione si sia persa perché siamo in un mondo di immagini, quindi andare al cinema è come stare a casa: si chiudono le tende, si spengono le luci, ma cosa frega più a tutti! Se i film non incassano, se ne faranno di meno e questo è un problema, poi però c’è un atteggiamento da parte di alcuni media di fare un cinema che, secondo me, ormai ha perso molte stelle: la commedia. Infatti il mio film La buca, che tanti non hanno apprezzato, è un’anticommedia che, pur raccontando una storia minimale, fa una riflessione sulla fine del “luogo” del cinema e, infatti, è una storia claustrofobica. Non l’hanno percepita così ma come una commedia: l’avesse fatto un americano di sicuro non avrebbe avuto tutte queste considerazioni. Quelli che funzionano sono i personaggi che vanno in televisione e che non è che fanno cinema ma danno degli input ai ragazzini, un po’ alla maniera di Zelig (1983). Parlavamo all’inizio di Monicelli e lui raccontava la vita delle persone, come ne La grande guerra o Un borghese piccolo piccolo (1977) attraverso storie drammatiche ma che ti facevano sorridere: ecco, quello è il nostro cinema. Osservando il panorama penso che ci sia una parte di cinema italiano di grande qualità che sta cercando di recuperare, con film come Anime nere (2014) o le opere di Garrone e Sorrentino. Il problema non sono gli autori ma le sale: il cinema vive nelle sale e non può vivere solo in televisione o su internet. Lo spettacolo è quello che mancherà, gli americani lo faranno sempre meglio di noi, permettendo così a questa generazione di evadere. Sei molto legato al film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti (2015)? Il suo film è il contrario di questo spettacolo perché è un ritorno alla fiaba. Quando l’ho visto ho pensato che tutte le critiche fossero stupide perché è un film che rielabora il cinema che noi abbiamo fatto, soprattutto quello di genere. Sicuramente Matteo la pagherà perché quando fai un film di evocazione te la fanno pagare, come è successo a me. Il cinema non è in crisi di autori ma economica. Nel documentario su Monicelli, a un certo punto lui dice che sulla lapide vorrà scritto “muoiono solo gli stronzi”. Sei d’accordo? Sono un pessimista, parlo sempre della morte ma mi prendi alla sprovvista. Monicelli diceva “una volta morto voglio fare quello che non ho potuto fare prima, cioè mandare tutti a cagare” o come dico io in È stato il figlio “ita a fari tutti ‘nto culu!”. È difficile rispondere, diciamo che mi rifaccio a Mario. A cura di Michele Galardini, 21 maggio 2015 47 GENTE FELICE - BENVENUTO, ONOREVOLE! Nel piccolissimo paese di Cerchiano (600 abitanti), la popolazione è scossa da un’annosa questione: manca il cimitero. I morti infatti vengono sepolti nel capoluogo Capoduro, distante ben 16 chilometri. Una situazione insostenibile in particolar modo per il factotum Tanino, che si rivolge ad un onorevole del luogo per la concessione delle tanto agognate autorizzazioni, ma c’è un problema: Cerchiano ha un tasso di mortalità troppo basso, per legge non è possibile costruire un camposanto. A meno che, nel minor tempo possibile, un vegliardo non passi a miglior vita, raggiungendo così il fatidico quorum dei trenta decessi richiesti. D Regia: Mino Loy; Soggetto: Giuseppe Loy Donà; Sceneggiatura: Mino Loy, Adriano Baracco, Roberto Nardi; Fotografia: Amerigo Gengarelli; Montaggio: Pino Giomini; Scenografia: Gianfranco Marinoni; Musiche: Carlo Innocenzi; Produzione: Mondial Film; Distribuzione: Titanus; Origine: Italia 1957; Durata: 80’ Interpreti: Arturo Bragaglia (Tanino), Lorella De Luca (Gioia), Giulio Paradisi (Paolo), Walter Nazareno (Roberto), Scilla Gabel (Gina), Memmo Carotenuto (don Luigi), Alberto Plebani (onorevole), Armando Annuale (Anselmo “Cicoria” Maggio), Amalia Pellegrini (signora Troina), Mario Riva (Francesco), Riccardo Billi (Vincenzo), Pina Gallini (Rosalia), Renato Chiantoni (Gabriele Troina), Luciana Paoli (Lidia), Carlo Mariotti (Matteo Pasqua) 48 ell’esordio alla regia di Mino Loy (all’epoca appena 24enne) nel corso degli anni si sono perse progressivamente le tracce, fino a renderlo un piccolo cult cinematografico non solo praticamente irreperibile ma anche poco e male ricordato. I motivi di cotanta “amnesia collettiva” non sono univoci, e sono frutto di svariate e poco favorevoli congiunzioni produttive. Una buona parte dell’oblio accumulato dal film deriva addirittura dal suo stesso titolo: pare infatti che al momento della schedatura al Pubblico Registro Cinematografico (attivo dal 1944) l’opera venne indicizzata come L’incredibile attesa, salvo poi diventare al momento dell’uscita in sala Gente felice e passare in una successiva riedizione al definitivo (?) Benvenuto, onorevole! Oggi, il lavoro di Loy viene ricordato con entrambe le ultime due intitolazioni, mentre la primigenia “incredibile attesa” è svanita nel nulla. Eppure, è proprio di una grottesca e tragicomica aspettativa che si parla nel film: tutto ruota attorno alla “liberatoria” morte di un abitante del villaggio montano di Cerchiano, evento che favorisce una ridda di assurde conseguenze. A partire dalla bravura del giovane medico Paolo, vista come sciagura – tutti gli ottuagenari godono di ottima salute grazie a lui – invece che come dono propizio, fino all’ansia (verrebbe da dire “da prestazione”) della popolazione che scatena litigi e incomprensioni sulla caccia al morituro. Come si evince da questi pochi indizi, siamo dalle parti della commedia – che in alcuni gustosi sketch sfocia persino nella comicità pura –, venata però da una tendenza connaturata all’umorismo nero piuttosto insolita per l’epoca: “L’idea iniziale che ha dato origine a questo film è senz’altro buona e piuttosto fuori dall’ordinario” (Ettore Fecchi, Intermezzo, 15 agosto 1957). Il merito è da attribuire principalmente al sopraccitato Mino Loy, che con Gente felice sembra sperimentare i tratti caratteristici che ne costituiranno la futura carriera. Una carriera che ben poco avrà a che fare col registro strettamente umoristico: nei vent’anni successivi all’esordio (l’ultima regia, Questo sporco mondo meraviglioso, risale al 1971, mentre l’attività di produttore è proseguita fino al 2008, con L’allenatore nel pallone 2) l’autore di origini sarde si dedicherà perlopiù ai Mondo Movies (sottogenere che colpisce lo spettatore mescolando documentario e immagini scioccanti, il cui alfiere indiscusso è Mondo cane, 1962, del trio JacopettiCavara-Prosperi) e agli spaghetti western. Con Benvenuto, onorevole!, quindi, siamo di fronte ad un’eccezione, ad un’anomalia, che tuttavia contiene paradossalmente in nuce tutte le peculiarità che regaleranno la popolarità a Loy (e che faranno dimenticare questa sua prima prova nel lungometraggio). A completare e incorniciare le lievi e al contempo macabre peripezie del film, le misurate musiche di un altro “sommerso” del cinema italiano che merita di essere ricordato: Carlo Innocenzi, compositore attivissimo dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, sodale di Mario Mattoli e Aldo Fabrizi, di Riccardo Freda e Luciano Emmer, di Camillo Mastrocinque e financo di Lucio Fulci. Se di Gente felice (o Benvenuto, onorevole! che dir si voglia) troppo poco si è parlato in questi anni, non ne va tuttavia sottovalutata l’influenza, tramandata nel corso dei decenni e arrivata fino ai giorni nostri: vedere per credere l’epopea del Pinuccio Lovero (Sogno di una morte di mezza estate, 2008; Yes I Can, 2014) di Pippo Mezzapesa, luminoso esempio di come la realtà possa a volte superare di slancio la finzione. Filippo Zoratti 49 CHE FINE HA FATTO TOTò BABY? Totò e Pietro sono due fratelli dai caratteri opposti, tiranno il primo, succube il secondo. Vivono di espedienti, soprattutto di furtarelli: un giorno rubano una valigia in cui scoprono esserci un cadavere, che decidono di abbandonare in campagna. Durante il tragitto in macchina scambiano la valigia con quella di due autostoppiste tedesche: per recuperarla penetrano nella villa dove sono ospiti le due ragazze e un gruppo di fumatori di marijuana. Per sbaglio, Totò fa una scorpacciata di droga e, impazzendo, commette omicidi surreali. Regia: Ottavio Alessi [e Paolo Heusch, non accreditato]; Soggetto: Ottavio Alessi, Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi; Sceneggiatura: Ottavio Alessi, Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi; Fotografia: Sergio D’Offizi; Montaggio: Licia Quaglia; Scenografia: Nedo Azzini; Costumi: Nedo Azzini; Musiche: Roman Vatro [Armando Trovajoli]; Produzione: P.C.M. [Produzioni Cinematografiche Mediterranee]; Distribuzione: Cineriz; Origine: Italia 1964; Durata: 110’ Interpreti: Totò [Antonio de Curtis] (Totò Baby), Pietro De Vico (Pietro), Mischa Auer (barone Mischa), Ivy Holzer (Helga), Alicia Brandet (Inge), Gina Mascetti (moglie di Mischa), Mario Castellani (direttore dell’orfanatrofio), Alvaro Alvisi (commissario di polizia), Peppino De Martino (maresciallo dei carabinieri), Stelvio Rosi, Paolo Giusti, Edy Biagetti, Olimpia Cavalli (ospiti della villa), Renato Montalbano (postino) 50 I l film di Alessi (in realtà diretto da Paolo Heusch, ma non accreditato per problemi personali con la giustizia) è una specie di parodia di Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Aldrich, a cui si rifanno l’incipit e il finale, oltre ad alcune scene che ne ricalcano lo scheletro del plot. Rimane una delle poche pellicole anomale per “il Principe della risata”, dopo le venature giallo/thriller di Totò Diabolicus di due anni prima. Totò, infatti, qui diventa un personaggio totalmente negativo che gioca, come sempre, con una mimica caratteristica ma la applica alla follia e alla violenza. Se nella prima parte si ripetono alcuni tòpoi delle commedie classiche, tra cui la spalla comica ridotta a vittima (in questo caso De Vico) e gli spassosi giochi di parole, una volta arrivati alla villa le cose cambiano. Lo humour passa ad argomenti più seri e inconsueti per gli anni in cui è stata girata la pellicola, un cambio di registro dettato dalla materia trattata, che si può ben pensare possa aver “scioccato” gli spettatori dell’epoca. Tutto ciò può essere compreso se si pensa alla virata surrealista in cui si piomba nella seconda parte del film, così lontana dalla verosimiglianza cabarettistica, a favore invece dell’elogio dell’assurdo. Una sfida vinta grazie al mestiere. Si propone allo spettatore una commedia che, pur mantenendo gli attributi classici, può far ragionare anche su argomenti profondi. E così, sbeffeggiando le comunità in voga negli anni Sessanta tutte “sesso, droga e rock’n’roll”, si sottolinea la digressione a cui portano i comportamenti deviati e alterati. Totò mangiando le foglie di marijuana non si sballa, ma impazzisce e commette degli omicidi: una sorta di tipico ammonimento paternalistico, nonché (involontaria?) parodia di quel Reefer Madness (Louis J. Gasnier, 1938) che negli anni è diventato manifesto del più becero, didascalico e reazionario proibizionismo verso le “nuove” droghe. Totò poteva essere, grazie anche alle sue doti interpretative, il perfetto testimonial per questa battaglia e, anche se la critica dell’epoca lo denigrò, non si può che riconoscerne la brillante crudeltà interpretativa. Alessi, o chi per lui, non interferisce in alcun modo con i suoi personaggi, se non dilatando in alcuni punti le gag quasi slapstick con artifici di montaggio. Si parla di morte e di essa si ride, ma soprattutto la si collega anche al sesso, come spesso accade nelle narrazioni di genere. I due fratelli sono spinti a entrare in villa alla ricerca sì della valigia scambiata, ma anche delle due avvenenti tedesche. Almeno tre degli omicidi sono finalizzati e infarciti di morbosità: il conte Mischa Auer fa morire di crepacuore la moglie per potersi godere la “vacanza” con le bionde teutoniche, e loro, nell’atto di morire, sono svestite e giocano ad ammiccare al loro omicida. Un rapporto confidenziale che portò a vietare il film ai minori di 14 anni. Una piccola postilla merita anche la gestualità utilizzata da Totò per imitare Bette Davis, fatta tutta di occhi sgranati, ghigni sinistri e amplificazioni delle torture che fa patire al povero fratello infermo Pietro. Una raffigurazione che può ancora insegnare qualcosa a chi oggi, soprattutto nel cinema americano, si appresta a parodiare le pellicole di successo, fallendo miseramente. Andrea Moschioni Fioretti 51 LA DONNA SCIMMIA Antonio Focaccia vive di espedienti, ma un giorno incontra Maria, una ragazza che ha il corpo completamente coperto di peli. Riesce a convincerla a esibirsi in un bizzarro spettacolo come donna scimmia, con grande successo, e per assicurarsi di non perdere la preziosa fonte di guadagno, Antonio la sposa. Dopo aver entrambi accettato un lavoro a Parigi, Maria si accorge di attendere un figlio. Tornati a Napoli, durante il parto madre e figlio muoiono. Antonio mostrerà i due corpi imbalsamati nel solito spettacolo da baraccone. I Regia: Marco Ferreri; Soggetto: Rafael Azcona, Marco Ferreri; Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri; Fotografia: Aldo Tonti; Montaggio: Mario Serandrei; Scenografia: Mario Garbuglia; Costumi: Piero Tosi; Musiche: Teo Usuelli; Produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia, Cocinor, Les Films Marceau; Distribuzione: Intercine; Origine: Italia/Francia 1964; Durata: 92’ Premi: Nastri d’Argento (1965): Miglior Soggetto (Marco Ferreri) Interpreti: Ugo Tognazzi (Antonio Focaccia), Annie Girardot (Maria), Achille Majeroni (Majoroni), Filippo Pompa Marcelli (Bruno), Ermelinda De Felice (Sorella Furgonicino), Elvira Paolini (Cameriera), Ugo Rossi (Ponszoner) 52 l cinema del Ferreri della prima metà dei Sessanta è un cinema senza ombra di dubbio trasversale. Lo è in quanto non dispone il suo sistema stilistico in una sola dimensione, ma cerca di tastarne con grande capacità almeno due. È un cinema che si colloca infatti tra realismo e leggiadro surrealismo, tra naturalismo e grottesco. Come è stato giustamente scritto, “sviluppando all’estremo una situazione comune, Ferreri mostra come la vita quotidiana sia immersa in una sorta di fantascienza ordinaria. Inquietante nella sua familiarità, nel suo riempire lo schermo di mostri quotidiani, [il suo cinema] funziona come un sistema tra i più coerenti e si muove come un’astronave su una quota differente rispetto a quella tenuta da tutti gli altri autori coevi” (Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Roma-Bari 2007). La storia di Antonio e Maria diventa così la perfetta esemplificazione di tutto ciò: in quello che è essenzialmente una sorta di divertissement neorealista, si innestano forti dosi di bizzarro, di curioso, di bislacco, che fanno lentamente perdere al film – soprattutto nelle sue sfumature – il contatto con il suo referente reale. Sta allora sicuramente nella costruzione dei due personaggi principali la caratteristica più interessante de La donna scimmia, nel suo riuscire a contenerli in qualche modo sempre con una notevole dose di ambiguità. Antonio infatti sfrutta Maria ma, con il trascorrere del tempo, riesce a dare quasi l’illusione di volerle un bene sincero; nelle lacrime versate immediatamente dopo la morte della moglie a causa del parto, c’è una sorta di strana affezione, quasi autentica, che poi naturalmente si dimostrerà falsa e dunque apparente, ma che in quel momento riesce perfettamente a ingannare lo spettatore e a trascinarlo, anche se brevemente, in uno spazio dalle sembianze onestamente drammatiche. Lo stesso vale per Maria: è timida, scontrosa e schiva, ma nella scena dello spogliarello nel cabaret francese, la sua sensualità esplode più prorompente che mai. Ferreri comprende benissimo che per rendere una storia simile avvincente e allo stesso tempo malsana, bisogna agire sui dettagli impercettibili, sugli aspetti non immediatamente visibili, sul non detto o sul non rivelato. Cerca perciò logicamente di giocare tutto questo sul campo dei caratteri dei personaggi, dimostrando di riuscirci come pochi altri hanno saputo fare prima di lui. Il film in Francia fu montato con un finale differente, nel quale Maria perde la peluria, salva il figlio e Antonio è costretto a trovarsi un lavoro per mantenere tutta la famiglia. Questo però non è il cinema di Ferreri, perché i dubbi, le confusioni e le ambiguità – quelle appunto di cui parlavamo prima – si dimostrano una solida impalcatura che fin dall’inizio è pensata dal regista milanese come qualcosa da distruggere. Il finale della versione italiana (quello voluto dallo stesso Ferreri) è costruito e concepito proprio per far cadere tutte quelle minime certezze che lo spettatore credeva ingenuamente di essersi “guadagnato”, per demolire insomma quei caratteri ambigui che lo tenevano ancora in sospeso facendogli sperare che tutto, in qualche maniera, avrebbe avuto un lieto fine. Ma così non è: il film si chiude con la donna e il bambino imbalsamati e resi ennesimo spettacolo da baraccone; lo spettatore però non potrà vederli, dimostrando quanto Ferreri sia stato uno dei pochi ad aver compreso l’essenza primigenia del più spietato tra i gesti che il cinema possa compiere: quello del non mostrare. Gabriele Baldaccini 53 IL FISCHIO AL NASO Giuseppe Inzerna è un grosso industriale che opera nel settore della carta. Negli ultimi tempi, il suo lavoro è reso difficile da un fastidioso fischio al naso che accompagna ogni suo respiro. Stanco di questa situazione, Giuseppe si reca in una prestigiosa clinica privata dove il fischio è curato rapidamente ma i dottori gli diagnosticano una grave malattia e lo spostano in un reparto differente. Nuove complicazioni intervengono ogniqualvolta la condizione di Giuseppe sembra migliorare e l’industriale rimbalza da un piano all’altro della clinica, perdendo sempre più i contatti col mondo esterno. Regia: Ugo Tognazzi; Soggetto: tratto dal racconto Sette Piani di Dino Buzzati; Sceneggiatura: Alfredo Pigna, Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Ugo Tognazzi, Rafael Azcona; Fotografia: Enzo Serafin; Montaggio: Eraldo Da Roma; Scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni; Costumi: Emilio Pucci; Musiche: Teo Usuelli; Produzione: Sancro International; Distrubuzione: Cineriz; Origine: Italia 1967; Durata: 113’ Premi: Premio Saint-Vincent per il Cinema Italiano (1967): Grolla d’Oro (Ugo Tognazzi) Interpreti: Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Tina Louise (Dr. Immer Mehr), Olga Villi (Anita), Alicia Brandet (Gloria Inzerna), Franca Bettoja (Giovanna), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna), Gigi Ballista (dottor Claretta), Marco Ferreri (dottor Salamoia), Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto Forges), Cesare Gelli (dottor Paul Denning), Federico Valli (dottor Naga), Ermelinda De Felice (suora del sesto piano) 54 R icco, laborioso e dalla mentalità pragmatica, Giuseppe Inzerna è un dirigente di nuova concezione, quasi fantascientifico. Ha una moglie e una figlia bellissime e sfreccia su un’auto sportiva mentre la sua segretaria gli elenca gli appuntamenti della giornata. La sua compagnia vende prodotti usa e getta perché essi generano una domanda continua e inesauribile, infatti sta tentando di ampliare il proprio mercato brevettando biancheria e lenzuola fatte di carta. Inzerna sarebbe un vero superuomo capitalista se non avesse il volto italianissimo di Ugo Tognazzi, con tutte le sue movenze ilari e piene di umanità. È il 1967 e la commedia all’italiana è già una creatura politicizzata, dominata com’è dai mattatori che fanno ridere con amarezza. Il fischio al naso è la seconda regia di Ugo Tognazzi, che tenta la difficile impresa di adattare un racconto di Dino Buzzati. Ci riesce abbastanza bene, alleggerendo i toni drammatici e scegliendo una regia senza pretese particolari. Nonostante i temi trattati, Il fischio al naso è un film popolare e molto legato ai suoi tempi, soprattutto da un punto di vista formale. Inzerna si ritrova in ospedale quasi per caso, in un momento di pausa tra un impegno e l’altro. Non ne uscirà più perché rimarrà impigliato nelle maglie di un sistema kafkiano. Libero di andarsene quando vuole ma a discapito della propria salute, Inzerna tenta una morbida ribellione, poi comincia a sentirsi male per davvero e s’indebolisce come per magia. Nel frattempo, i membri della sua famiglia, fino allora succubi della sua figura autoritaria, acquistano nuove forze e prendono in mano l’azienda togliendola dal controllo del patriarca. A Inzerna questo non interessa perché è ormai l’ombra di un uomo. Egli pende dalle labbra dei dottori che lo fanno rimbalzare da un reparto all’altro in un susseguirsi di diagnosi contraddittorie. Quel che è certo è che Inzerna si avvicina sempre più al fatidico ultimo piano, dal quale non si fa ritorno. Il fischio al naso è un film esistenzialista ma (relativamente) leggero. È anche un incubo kafkiano ma continuamente stemperato dall’anima comica di Tognazzi e dalle musiche beat di Teo Usuelli. Il film è un campo di battaglia tra le due anime della commedia all’italiana, quella comica e quella di commento sociale (quest’ultima sembra avere la meglio; la presenza tra gli attori di Marco Ferreri non è casuale). L’introduzione di alcuni elementi fantascientifici va ad alimentare il senso del grottesco e dell’onirico che caratterizzano il film di Tognazzi, oltre a visualizzare, grazie all’iperbole, gli esiti del neocapitalismo sfrenato che già alimentavano gli incubi dell’Italia negli anni Sessanta. Si tratta di elementi tipici di un certo cinema italiano socialmente attivo, si guardi, ad esempio, La morte ha fatto l’uovo (Giulio Questi, 1968). Il fischio al naso sfiora una grande quantità di temi sensibili ma non perde la propria identità di commedia divertente e commerciabile. È comunque un’ottima prova per il regista Tognazzi che, al secondo film, ha scelto un adattamento tutt’altro che facile. Stefano Lalla 55 BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI Migrante pugliese alla periferia di Roma, Giacinto Mazzatella vive con la famiglia tra le baracche delle borgate. Despota avido e violento, provvede ogni giorno a nascondere ai parenti il milione riscosso per la perdita di un occhio. Quando impone loro anche la presenza dell’amante prostituta, moglie e figli complottano di ucciderlo con mezzo chilo di veleno per i topi. Italia reietta e lasciata a se stessa, che si trascina nell’indifferenza a pochi passi dal boom economico. Regia: Ettore Scola; Soggetto: Ruggero Maccari, Ettore Scola; Sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola; Fotografia: Dario Di Palma; Montaggio: Raimondo Crociani; Scenografia: Luciano Ricceri, Franco Velchi; Costumi: Danda Ortona; Musiche: Armando Trovajoli; Produzione: Champion Cinematografica; Distribuzione: Gold Film; Origine: Italia 1976; Durata: 115’ Premi: Festival di Cannes (1976): Miglior Regia (Ettore Scola) Interpreti: Nino Manfredi (Giacinto), Francesco Anniballi (Domizio), Maria Luisa Santella (Iside), Maria Bosco (Gaetana), Giselda Castrini (Lisetta), Franco Merli (Fernando), Giancarlo Fanelli (Paride), Ettore Garofolo (Camillo), Luciano Pagliuca (Romolo), Linda Moretti (Matilde), Giuseppe Paravati (Tato), Francesco Crescimone (commissario), Alfredo D’Ippolito (Plinio), Adriana Russo (Dora), Clarisse Monaco (Tommasina), Zoe Incrocci (madre di Tommasina) 56 A ll’inizio è un rantolio indistinto di grugniti. Un affannarsi sordo e gutturale, come quello di bestie spaventose. Poi la macchina da presa svela una matassa oscura, quasi un unico corpo mostruoso con volti e membra ammassati nel buio. I vagiti di un neonato ne sovrastano il russare. Scola, i Mazzatella, li presenta così. Un po’ animali stipati nel recinto, un po’ dannati affossati nel Girone. E sopra tutti lui, il guercio Giacinto, pater familiae armato di fucile con la protervia di un perfido Caronte. L’inferno è quello fin troppo reale delle borgate dei primi anni Settanta, di quella Roma misera e dimenticata a un passo dal San Pietro che si staglia sullo sfondo. L’Italia degli ultimi e dei migranti, quel campionario di (dis)umanità abbrutita dai morsi della fame e dagli agi di un boom economico che ammiccano lontani come sogni indecenti. Non stupisce che Brutti, sporchi e cattivi abbia avuto un’accoglienza controversa, accusato, al momento dell’uscita, di aver dipinto il sottoproletariato attraverso una lente deformante, volta a esaltarne i tratti più abietti con impietoso compiacimento. Ma la critica sociale di Scola non avrebbe avuto la stessa portata senza il filtro di un cinismo grottesco, scevro dai freni della retorica. La bruttezza amorale dei protagonisti, lontana dall’innocenza dei poveri di Pasolini o dalla nobiltà di quelli di Zavattini e De Sica, ricorda piuttosto il Buñuel di Viridiana (1961) o de I figli della violenza (1950). Ritratto scomodo e poco edificante di una migrazione tutta italiana, il film mette a fuoco le conseguenze di una condizione di totale abbandono. Nel feroce squallore dell’accampamento non può brillare magnanimità, non perché la brutalità sia appannaggio delle classi indigenti (si pensi, dieci anni prima, a I mostri di Dino Risi), semmai perché qui si manifesta al netto di affettazione e ipocrisie. I “brutti e cattivi” di Scola non dissimulano affatto le meschine perversioni. Anzi, se ne fanno scudo, come Giacinto con il fucile, ossessionato dalla paranoia che i parenti si approprino del suo milione. In questo passato così vicino, che l’Italia ha relegato al rimosso, non c’è speranza di salvezza per la comunità che brulica tra le baracche e la distanza delle istituzioni si rivela in tutta la sua inadeguatezza: dalla pensione della nonna presto dispersa tra mille nipoti ai soldi dell’assicurazione negati e nascosti dal capofamiglia, dal commissario che suggerisce a Giacinto di eliminare tutti i parenti ai programmi educativi della Rai destinati a “emancipare” soltanto la vecchia. La sommità del colle che ospita le famiglie è uno spaccato di sconfortante degrado, dove i protagonisti arrancano a fatica senza peraltro riuscire ad affrancarsene (“La via di casa la ritrovano sempre...”). Nel quadro uniforme di mirabile lordume, in cui l’orrore è eletto a cifra estetica, spiccano gli stivali gialli della bambina- chioccia. Seguita a ruota dallo stuolo dei più piccoli, che è solita rinchiudere in una specie di pollaio, è lei ad aprire e chiudere il film, camminando in bilico sul muretto come sul baratro del proprio destino. Lisa Cecconi 57 IL GATTO Regia: Luigi Comencini; Soggetto: Rodolfo Sonego; Sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Augusto Caminito, Fulvio Marcolin; Fotografia: Ennio Guarnieri; Montaggio: Nino Baragli; Scenografia: Dante Ferretti; Costumi: Danda Ortona; Musiche: Ennio Morricone; Produzione: Rafran Cinematografica; Distribuzione: United Artist Europa; Origine: Italia/Francia 1977; Durata: 115’ Premi: David di Donatello (1978): Miglior Attrice (Mariangela Melato) Interpreti: Ugo Tognazzi (Amedeo Pegoraro), Mariangela Melato (Ofelia Pegoraro), Michel Galabru (il commissario), Dalila Di Lazzaro (Wanda Yukovich), Philippe Leroy (don Pezzolla), Jean Martin (l’avvocato Legrand), Aldo Reggiani (Salvatore), Adriana Innocenti (la “principessa”), Armando Brancia (il capo della polizia), Mario Brega (killer con la barba), Pino Patti (il portiere), Fabio Gamma (guardia del corpo di Garofalo), Franco Santelli (il brigadiere), Amedeo Matacena (don Vito Garofalo), Nerina Di Lazzaro (la signora Tiberini), Bruno Gambarotta (Luigi Balestra Mugnozzo), Luigi Comencini (il vecchio violinista), il gatto Fuffi 58 Amedeo e Ofelia Pegoraro sono due fratelli che hanno ereditato dal padre un palazzo romano, per il quale un’impresa ha offerto loro un miliardo di lire, a condizione però che al momento della vendita non vi abiti più nessuno. I due cercano in ogni modo di sfrattare i diversi inquilini che abitano lo stabile, ma proprio quando avranno sloggiato quasi tutti, il loro gatto verrà ucciso da uno dei condomini ancora rimasti. Così, ad Amedeo e Ofelia non resta altro da fare che cercare il colpevole. Q uasi completamente ambientato negli interni di un palazzo romano, Il gatto, prodotto da Sergio Leone e diretto da Luigi Comencini, unisce commedia, farsa e giallo per raffigurare una serie di personaggi avidi e amorali, e realizzare così un ritratto amaro e graffiante di un’Italia cinica e antietica, concentrata unicamente sui propri interessi. Se l’atmosfera generale, le singole situazioni paradossali e i dialoghi spesso frizzanti costituiscono il carattere umoristico della pellicola, l’intreccio formato in parte da indagini, spionaggi e omicidi appartiene sicuramente al giallo. Ma mentre la comicità si evince fin dall’inizio, la struttura thrilling emerge gradualmente attraverso il proseguimento della narrazione. Infatti, se nella prima parte il genere emerge quasi di soppiatto tra le righe della commedia di costume, nel secondo tempo la trama poliziesca si fa evidente e preponderante con la scoperta di intrighi e delitti di varia natura. Un genere di cui Comencini rispetta anche alcuni particolari (inseguimenti, morti nel bagagliaio, sparatorie, ecc.), ma avvolgendoli sempre in un’atmosfera comica e quasi farsesca, volutamente paradossale e sopra le righe, realizzandone così una sorta di parodia. E anche i due gruppi investigativi presenti nel film risultano volutamente poco credibili: da un lato vi è quello ufficiale della polizia che viene continuamente sbeffeggiato in quanto pigro e spesso poco incisivo, mentre dall’altro vi è quello borderline di Amedeo e Ofelia, che invece prende l’iniziativa e guida le investigazioni. Ma i due protagonisti sono dei detective a dir poco sui generis, non solo e non tanto perché si detestano tra di loro e non hanno nessun titolo riconosciuto per svolgere le indagini, ma soprattutto per i motivi e lo sguardo che guidano le loro azioni. I due personaggi non agiscono né per giustizia né per vendetta ma unicamente per pura avidità e utilità pratica, e il loro sguardo non è né disgustato né rassegnato ma soltanto cinico e amorale, indifferente a ciò che sta succedendo sotto i loro occhi. Ed è proprio in tale aspetto che si cela il carattere più amaro e pessimista dell’opera. Se le indagini servono a rivelare i vizi più o meno gravi e più o meno illegali dei diversi inquilini, i protagonisti che li scoprono sono altrettanto sgradevoli e disonesti, mossi soltanto da desideri materiali e carnali. In tale pellicola (quasi) tutti si odiano e (quasi) nessuno si salva: non i poliziotti incapaci; non i vicini criminali; nemmeno i protagonisti odiosi e amorali, che non casualmente vengono interpretati in modo farsesco da Mariangela Melato e Ugo Tognazzi. Infatti, il secondo è autoironico a partire dall’aspetto fisico (esilaranti i bigodini con cui entra in scena e la poco credibile capigliatura riccioluta) e la prima ha degli atteggiamenti volutamente teatrali e sopra le righe. A metà strada tra farsa, commedia e thriller, Il gatto non solo fa un omaggio e una parodia a un genere (il giallo), ma unisce la sua tipica struttura narrativa ai toni sarcastici e ai significati profondamente amari della commedia all’italiana, proprio in un periodo (la fine degli anni Settanta) in cui questa stava tramontando. Juri Saitta 59 MORTACCI In un cimitero, dove il custode ruba alle salme i beni preziosi, le anime dei defunti si incontrano nell’oscurità, per raccontarsi le loro storie. Un soldato ammazzato dai compaesani che lucravano sulla sua memoria, credendolo morto in missione. Un’attrice uccisa per errore dal compagno, che ogni notte la va a trovare sulla tomba. Un playboy morto al mare per una congestione. Un americano il cui corpo viene trasportato per sbaglio in Italia. Due ladri investiti da un treno. E il marchese del Grillo, reso immortale dai proverbi che ha inventato. P Regia: Sergio Citti; Soggetto: Sergio Citti; Sceneggiatura: David Grieco, Vincenzo Cerami, Ottavio Jemma, Sergio Citti; Fotografia: Cristiano Pogány; Montaggio: Ugo De Rossi; Scenografia: Mario Ambrosino; Costumi: Mario Ambrosino; Musiche: Francesco De Masi; Produzione: Unione Cinematografica; Distribuzione: Warner Bros. Italia; Origine: Italia 1989; Durata: 108’ Interpreti: Vittorio Gassman (Domenico), Carol Alt (Alma Rossetti), Malcolm McDowell (Edmondo), Galeazzo Benti (Tommaso Grillo), Mariangela Melato (Jolanda), Sergio Rubini (Lucillo Cardellini), Nino Frassica (la guida), Aldo Giuffrè (l’impresario di pompe funebri), Andy Luotto (Scopone), Alvaro Vitali (Torquato), Eraldo Turra (Felice), Luciano Manzalini (Giggetto), Donald O’Brien (Archibald Williams), Michela Miti (la barista), Gina Rovere (Ada) 60 rogetto rimasto a lungo in sospeso, perché poco vendibile, sin dal titolo, Mortacci è un film in cui ritornano molte delle caratteristiche più facilmente riconoscibili del cinema di Sergio Citti. Come in Casotto, (1977) e come a teatro, i personaggi sono confinati in un luogo preciso e il film è costruito sulle loro interazioni, in particolare sulle conversazioni, ricche di comicità e spiritosaggini. L’influenza della narrazione orale, che già era evidente nel pasoliniano Storie scellerate (1973), si ritrova anche in Mortacci, nei flashback introdotti da ciascuno dei protagonisti, che ricostruiscono, così, le cause della loro morte. Sono sequenze dal tono eterogeneo: paradossale quella dell’attore di teatro responsabile, senza volerlo, della morte della compagna e da allora condannato a infiniti, fallimentari tentativi di suicidio; inquietante e paranoica, invece, la vicenda dell’Eroe mandato a morire dagli abitanti del suo paese, all’unanimità; grondante umorismo nero il bel duetto Vitali-Giuffrè; farsesca e quasi barzellettiera nei dialoghi l’assurda e fatale disavventura del cascamorto inseguitore di veneri callipigie; truffaldinamente boccaccesche le scene con una danzante Mariangela Melato e i sornioni Gemelli Ruggeri come finti ciechi. Eppure, non manca la coesione nel film e Citti conferma la rara qualità di far sembrare realistiche anche le situazioni sulla carta più inverosimili. Sarà la sua regia invisibile e classica, da amante di “un cinema che non distrugge la verità” (Antonio Maraldi, a cura di, Il cinema di Sergio Citti, Cesena, Centro Cinema Città di Cesena, 1984). O quel velo di vitalistico pessimismo per le sorti dell’umanità che il sensibile Citti, rifiutando le etichette di naïf e moralista, stende con pietà sulle miserie dei suoi antieroi, morti o ancora vivi, eternandone le debolezze, senza snobismo, così come si manifestano spontaneamente nei momenti quotidiani. Un cinema umanista, di osservazione antropologica e di grande rigore etico, un “percorso entro e attraverso il nero, inteso come magma esistenziale, come matrice pulsionale e germinale delle cose, della natura delle cose, della vita e del cinema dell’autenticità, nemico delle false idee pretestuose” (Giuseppe Turroni, “Il cuore della luce”, Filmcritica, n. 394, aprile 1989). Un cinema alieno già negli anni Settanta, che nel decennio successivo sembra ancora meno riconciliato, e più solitario, quasi donchisciottesco nella purezza cristallina del gesto filmico. Sognato da chissà quale entità, il mondo alla rovescia dei non morti di Mortacci si offre come chiara metafora di una civiltà ormai in estinzione, la nostra. Nel vuoto di valori, nel denaro come unico re, nell’indifferenza verso la morte, che ha perso ogni sacralità, Citti identifica i presagi dell’Apocalisse e ci ride sopra. Soltanto la struttura corale del film, fatta di una cornice e di tanti racconti, può restituire una parvenza di ordine a questa materia così caotica e sfuggente. Sulle note di un boogie woogie, soltanto il cinema, esaltazione non ingenua della vita in tutti i suoi aspetti, può dare la salvezza. Francesco Grieco 61 PARENTI SERPENTI Per le vacanze natalizie, una tradizionale famiglia italiana si ritrova a Sulmona nella casa dei nonni Saverio e Trieste per i consueti festeggiamenti. Se in un primo momento tutto sembra andare per il meglio, l’inattesa richiesta da parte dei genitori anziani di essere ospitati da uno dei figli scatena un’agguerrita diatriba tra i quattro fratelli Lina, Alfredo, Milena e Alessandro: nessuno, infatti, vuole farsi carico dei genitori. Messi da parte i litigi, troveranno insieme una soluzione poco ortodossa. P Regia: Mario Monicelli; Soggetto: Carmine Amoroso; Sceneggiatura: Carmine Amoroso, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; Fotografia: Franco Di Giacomo; Montaggio: Ruggero Mastroianni; Scenografia: Franco Velchi; Costumi: Lina Nerli Taviani; Musiche: Rudy De Cesaris; Produzione: Clemi Cinematografica; Distribuzione: CDI Compagnia Distribuzione Internazionale; Origine: Italia 1992; Durata: 105’ Premi: Nastro d’Argento (1993): Migliori Costumi (Lina Nerli Taviani) Interpreti: Marina Confalone (Lina), Alessandro Haber (Alfredo), Tommaso Bianco (Michele), Cinzia Leone (Gina), Eugenio Masciari (Alessandro), Monica Scattini (Milena), Paolo Panelli (nonno Saverio), Pia Velsi (nonna Trieste), Renato Cecchetto (Filippo), Riccardo Scontrini (Mauro), Eleonora Alberti (Monica) 62 arenti serpenti rappresenta uno degli ultimi film inscrivibili nel filone della “commedia all’italiana”, sia perché diretto da uno dei suoi maestri, sia perché ne rispetta pienamente lo stile e le caratteristiche principali. Infatti, il soggetto preso di mira da Monicelli è ancora una volta la società italiana e, in questo specifico caso, il microcosmo famigliare. Quest’ultimo ruota attorno ai nonni Saverio e Trieste i quali ospitano ogni Natale i quattro figli assieme ai rispettivi consorti e ai due nipotini. E com’è nella tradizione vengono derisi vizi e difetti degli italiani. Il film può essere suddiviso in due parti nettamente distinte. Nella prima si assiste alla presentazione da parte del piccolo Mauro della sua famiglia, del paese in cui vivono i nonni (Sulmona) e della loro casa. Seguendo un ordine ben preciso e consolidato arrivano i vari parenti e, una volta al completo, essi ripetono gli stessi “rituali” di ogni anno. I chiacchiericci tra sorelle e cognata, la cena della Vigilia, la Tombola, la Messa di mezzanotte, lo scambio dei regali, ecc. Tutte tradizioni tipiche che ogni italiano ha vissuto nella sua esistenza. L’impressione che si ha è quella di una famiglia unita e amorevole soprattutto verso i due anziani, anche se non mancano le invidie e le rivalità tra parenti. In poche parole, la classica famiglia italiana. E ciò è ancor più vero se si prende in considerazione la seconda parte del film. Il clima di festa che pervade la reunion famigliare è improvvisamente interrotto dalla richiesta di nonna Trieste di esser ospitata assieme al marito presso uno dei figli, in quanto loro ormai troppo avanti con l’età per vivere da soli. E qui cade il palco. Tutto l’amore che i figli provano nei confronti dei genitori si sgretola all’idea di doversi far carico di loro, e nasce una serie di diatribe inconcludenti tra i fratelli su chi debba assumersi tale responsabilità. Ecco che saltano fuori vecchi rancori e si svelano segreti: come l’omosessualità di Alfredo e il rapporto clandestino tra i cognati Gina e Michele. Tutto il veleno possibile e immaginabile sgorga dalla lingua di questi parenti serpenti, ognuno interessato ad uscirne vincitore e scaricare il barile addosso agli altri. Come ogni commedia all’italiana che si rispetti, se l’intero film mantiene un registro prioritariamente comico, il finale assume toni maggiormente tragici o, più appropriatamente, grotteschi. Infatti, grazie ad una tragica notizia appresa al telegiornale, figli e consorti si accordano all’unanimità e trovano l’unica soluzione possibile: togliere di mezzo i genitori! E far sembrare il tutto un malaugurato incidente. Lo stile del film è piuttosto semplice poiché il tutto deve essere in funzione della vicenda rappresentata – sempre straordinariamente attuale –, la quale è raccontata dall’innocente voice over del nipote che assiste impotente agli accadimenti e che, al termine delle vacanze natalizie, deve fare un tema scolastico proprio su quanto accaduto. Con Parenti serpenti Monicelli compie una dissacrazione della famiglia italiana frantumando l’apparenza di amore e fratellanza ed evidenziando la meschinità dei suoi vari componenti, soprattutto dei figli nei confronti dei genitori. Del resto è sempre stato così: l’amore verso i primi da parte dei secondi non è mai pienamente ricambiato. Alex Tribelli 63 È STATO IL FIGLIO Regia: Daniele Ciprì; Soggetto: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso (dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo); Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso, Miriam Rizzo; Fotografia: Daniele Ciprì; Montaggio: Francesca Calvelli, Alfredo Alvigini; Scenografia: Marco Dentici; Costumi: Grazia Colombini; Musiche: Carlo Crivelli; Produzione: Passione, Babe Films, Rai Cinema, Palomar; Distribuzione: Fandango; Origine: Italia 2011; Durata: 90’ Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2012): Premio Osella per il Migliore Contributo Tecnico (Daniele Ciprì), Premio Marcello Mastroianni per l’Attore Emergente (Fabrizio Falco); Globi d’Oro (2013): Miglior Regia (Daniele Ciprì) Interpreti: Toni Servillo (Nicola Ciraulo), Giselda Volodi (Loredana Ciraulo), Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo), Aurora Quattrocchi (nonna Rosa), Benedetto Raneli (nonno Fonzio), Alfredo Castro (Busu), Piero Misuraca (Masino), Alessia Zammitti (Serenella Ciraulo), Mauro Spitaleri (avvocato Modica) 64 In una desolata periferia di Palermo immersa nel cemento vivono i Ciraulo: padre, madre, due figli e nonni al seguito. Il capofamiglia Nicola tenta come può di barcamenarsi recuperando ferri vecchi dalle navi in disarmo, lamentando lo scarso aiuto del primogenito, ragazzo timido e svampito. Un giorno un proiettile vagante uccide la piccola di casa, Serenella. In seguito all’evento si prospetta un risarcimento milionario da parte dello Stato: la famiglia, lavando il dolore col denaro, si prepara a una nuova vita, ma nulla andrà come previsto. D opo il pluriennale sodalizio artistico con Franco Maresco, dalla televisione – gli sketch di Cinico TV (1992) al cinema – Lo zio di Brooklyn (1995), Totò che visse due volte (1998), e una brillante carriera da direttore della fotografia, Daniele Ciprì esordisce da solo al lungometraggio con È stato il figlio, dal romanzo omonimo di Roberto Alajmo. Nel tratteggiare la famiglia protagonista, Ciprì dà libero sfogo alla sua feroce ironia: dal nonno che racconta solo storielle dialettali, passando per l’inerte figlio Tancredi, succube della personalità paterna e preoccupato solo del funzionamento del vecchio televisore, alla madre, casalinga lamentosa, prona al volere e agli umori del marito. Nella galleria di figure grottesche spiccano soprattutto il capofamiglia Nicola, la nonna Rosa e l’affettato e laido usuraio cui si rivolgono i Ciraulo, oberati dai debiti dopo aver speso, ancora prima di riceverlo, parte del risarcimento in seguito alla sciagurata morte “per mafia” della figlia piccola. Al primo dà forma Toni Servillo, dalla perfetta cadenza siciliana, a suo agio nello spingere sul pedale del grottesco sbizzarrendosi in un campionario di espressioni facciali irresistibili e riuscendo a rendere il suo personaggio un concentrato di bassezze e squallore che, pur essendo l’unico a lavorare in casa, è causa ottusamente inconsapevole della rovina di quella stessa famiglia che conta per lui (solo apparentemente) più di ogni cosa. Poi la nonna, figura inizialmente secondaria che diventa a sorpresa fondamentale nel tragico finale: il viso scavato e gli occhi penetranti di Aurora Quattrocchi assumono connotati mefistofelici, la perfetta chiosa della cupa disperazione che pervade la scena madre del film. In È stato il figlio Ciprì palesa la sua ispirazione verso quel filone della commedia all’italiana anni Settanta che, attraverso la lente deformante della farsa e del grottesco, lanciava in profondità il suo atto d’accusa verso una larga parte di italiani: non più simpatiche canaglie come nei film anni Cinquanta – à la I soliti ignoti (1958) – dove ancora lo sguardo era carico di umana comprensione, ma ora vittime e al contempo complici di una discesa morale che coinvolgeva non solo la media e piccola borghesia, ma anche le classi più popolari, abbruttite dall’ignoranza e dai miti del consumo e del guadagno facile. Evidente il richiamo di Ciprì a Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Scola e a Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, citato direttamente nella scena dell’avvocato dei Ciraulo che contempla il notevole quantitativo di forfora accumulatosi sulla sua scrivania, come il Dottor Spaziani interpretato da Romolo Valli sotto lo sguardo attonito di Giovanni Vivaldi/Alberto Sordi. Allo stesso tempo però, pur rimanendo lontano da qualunque suggestione realistica (grazie anche a una fotografia, sempre di Ciprì, straniante e giocata sui contrasti) e sconfinando in qualche invenzione simbolica di troppo, È stato il figlio vuole raccontare anche dell’Italia contemporanea: l’insopprimibile familismo, la violenza connaturata alla società e non a essa estranea, la rincorsa a un benessere economico squallido e incurante di ogni rispetto umano, le lungaggini della burocrazia, la ricchezza come obiettivo fine a se stesso e non come mezzo per assicurare un futuro più dignitoso ai propri cari. Memorabile a questo proposito la scena in cui i Ciraulo discutono su come spendere i soldi del risarcimento: sordo alle richieste più concrete dei familiari, il padre sceglie di sperperare l’intera somma per una lussuosa Mercedes, in modo che tutti gli abitanti del quartiere si accorgano che sono diventati ricchi e quindi persone importanti. Una scelta assurda che segnerà il destino della famiglia: l’inutile, luccicante vettura diventerà un’ossessione per Nicola tanto da scatenare la sua reazione violenta alla scoperta di un graffio sulla fiancata causato dal figlio dopo una bravata. Un evento che tramuterà la farsa in tragedia, il grottesco in drammatico, l’amoralità scanzonata in mostruosa cattiveria priva di qualunque barlume di riscatto e di speranza. Luca Giagnorio 65 PINUCCIO LOVERO - YES I CAN Pinuccio Lovero è il becchino del cimitero di Mariotto, una piccola frazione di Bitonto. Insoddisfatto delle condizioni del camposanto, decide di candidarsi alle elezioni comunali di Bitonto nella lista di Sinistra Ecologia e Libertà, organizzando una campagna elettorale sui generis, con un programma “cimiteriale” e slogan come “Pensa al tuo domani”. L’ Regia: Pippo Mezzapesa; Sceneggiatura: Pippo Mezzapesa; Fotografia: Michele D’Attanasio; Montaggio: Andrea Facchini; Musiche: Gabriele Panico; Produzione: Fanfara Film, Vivo Film, Wakeup; Distribuzione: Microcinema; Origine: Italia 2012; Durata: 72’ Interpreti: Pinuccio Lovero, Anna Pappapicco, Nicola Cambione, Giuseppe Germano, Giuseppe Modesto, Nichi Vendola 66 Italia è un Paese strano, complesso, paradossale. L’Italia è assonnata, nemica di se stessa e dei suoi figli, spesso parossistica e altrettanto spesso non ce ne rendiamo neppure conto. Ci arrabbiamo con la Madre perché ci delude, ci tiene lontani, svilisce tutto ciò che siamo e che potremmo essere. Non ci accorgiamo di ciò che nasconde il nostro Paese tra le sue piaghe e le sue pieghe. Ci sono personaggi forti, capaci, pronti, ci sono eroi con milioni di super poteri. Ci sono soprattutto però, e sono la maggioranza, gli antieroi, figure ingenue e delicate, poetiche e piene di vitalità, gente come Pinuccio Lovero, il becchino di Bitonto. Il giovane regista Pippo Mezzapesa con i due docu-film Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate (2008) e questo Pinuccio Lovero – Yes I Can, mira a svelare il paradosso e a farci sorridere di noi stessi, delle nostre debolezze. È una maschera grottesca e malinconica quella di Pinuccio, riuscita proprio perché reale e specchio di una vis comica che rende Lovero simile ai caratteristi del miglior cinema. Sotto il simbolo di Sinistra Ecologia e Libertà – diretto e semplice il messaggio di Pinuccio, arzigogolato e verboso quello di Nichi Vendola –, il becchino buono dalle braccia “vigorose” e “solerti”, amante della notorietà (viene intervistato da Paolo Bonolis, Giancarlo Magalli e Fabrizio Frizzi), dello spettacolo e del cinema, presenta il suo programma “cimiteriale” – più loculi, ossari, verde, panchine per gli anziani – con l’irruenza di chi in quello che dice ci crede veramente. “Yes I Can” è il sottotitolo del film ed è anche il “retropensiero” del nostro candidato, oltre che motivo di “somiglianza” con Obama secondo i suoi colleghi/sostenitori, conoscitori dell’imponderabile che regna nel segreto dell’urna. Pinuccio ama ciò che fa, vuole veramente migliorare Bitonto e crede, perché si affida e confida negli altri, di poter vincere grazie al visionario e metaforico slogan “Pensa al tuo domani”, riferito ovviamente a quell’aldilà di cui le tombe sono simbolo in terra della vita oltre la morte. Sembra un gigante rispetto ai suoi rivali e a certi politici a cui siamo abituati, non si lancia in voli pindarici, promette qualcosa che può dare realmente, circostanza quasi impossibile oggi; vive la politica a misura d’uomo, incarnandone il significato etimologico, ed è proprio per questo che alla fine umiliato dice “Mi hai votato? No, e allora non lamentarti se non trovi nessun loculo libero”. L’occhio vigile di Mezzapesa segue la sua “anima bella” e insiste su di lei e sul suo paesino con la leggerezza di chi è capace di parlare del quotidiano e delle piccole cose. Il regista con forza genuina entra ed esce tra finzione e documentario, utilizzando a volte il tono amaro, a volte quello lieve. Grazie ad un personaggio tanto “eccezionale” ed esilarante quanto normale, riesce a trattare due tematiche difficili, morte e politica – e anche forse la morte di una certa politica, maneggiona, lontana dal cittadino e incapace di comprenderne i bisogni –, con semplicità e garbo. Lo spettatore impara a conoscere Pinuccio, sia il “politico”, alla ricerca di voti, sia l’“uomo”, prossimo al matrimonio con Anna, l’amore di una vita intera – a lei sono riservate le sequenze più delicate, quelle del Tango delle capinere per esempio –, e lo ama proprio grazie all’occhio del regista schietto e amorevole, ironico e umano. Eleonora Degrassi 67 Sceneggiatura seriale O rmai otto anni fa Aldo Grasso pubblicava un saggio controverso, provocatorio, illuminante: Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti dei libri e del cinema (Mondadori, 2007). Il famoso docente e critico televisivo, tracciando la storia del genere della fiction tv, dimostrava, contro ogni luogo comune e ogni pregiudizio sugli spettacoli televisivi, come le nuove serie avessero assunto il ruolo di “feuilletons” della contemporaneità, di grandi narrazioni pubbliche, diventando spesso importanti come e forse più della letteratura. Oggi le serie televisive sono entrate a far parte del vivere quotidiano; spesso ci troviamo a esprimere opinioni e a fare congetture sul destino di Carrie Mathison (Homeland) o sulle prossime decisioni politiche che prenderà lo spietato Frank Underwood (House of Cards). Oppure ci siamo trovati a vivere una sensazione di vuoto quando il personaggio di Walter White/Heisenberg nel settembre del 2013 ha concluso la sua folle parabola (Breaking Bad) o quando – in tempi recentissimi – il mondo patinato di Mad Men si è congedato dai suoi spettatori. Nel tempo i running plot si sono via via complicati sempre di più, trame e dialoghi sono diventati progressivamente più azzardati e coinvolgenti, i personaggi sono stati scritti in maniera così intensa e credibile da diventare delle vere e proprie icone dell’immaginario contemporaneo, pensiamo per esempio a Tony Soprano (The Sopranos), a Jack Bauer (24), a Carrie Bradshaw (Sex and the City) al Dr. House (Dr. House – Medical Division). Parlare di scrittura seriale ora è diventato quanto mai importante. La figura dello sceneggiatore in ambito televisivo è stratificata, complessa. Non parliamo più di “autore”, “sceneggiatore”, “produttore”, “regista”. Oggi è lo show runner la figura principale nella realizzazione di un prodotto seriale. Gli show runner sono “un curioso ibrido di artisti visionari […]. Non sono solo sceneggiatori; non sono solo produttori. Essi assumono e licenziano sceneggiatori e membri della troupe, sviluppano la trama, scrivono copioni, assegnano le parti agli attori, si occupano del budget e gestiscono le interferenze tra lo studio ed i capi dell’emittente […]. Gli show runner fanno, e spesso creano, le serie, ed oggi più che mai, le serie televisive sono le uniche cose che contano. Nella “lunga corsa” dell’economia dell’intrattenimento, gli spettatori non guardano le reti televisive […]. Loro guardano le serie. Non gli importa di come le ottengono” (Scott Collins, Los Angeles Times, 23 novembre 2007). Il Premio “Sergio Amidei”, il cui interesse principale è la scrittura in tutte le sue forme, non poteva non aprire il suo ambito di interesse a quello che oggi è il terreno più fertile. La nuova sezione, intitolata Sceneggiatura seriale, è uno spazio inedito che indaga – attraverso incontri, tavole rotonde e proiezioni – l’universo della scrittura long running, dove la forza della sceneggiatura si fa sentire con sorprendente intensità. Inauguriamo la sezione partendo dal contesto nazionale: l’Italia, anche se un po’ in ritardo, vive un momento creativamente molto vivace in ambito televisivo e lo dimostra, soprattutto, l’interesse internazionale – fino ad ora praticamente inedito – per l’eccellente produzione nostrana Gomorra – La serie, perfetto punto di partenza per una sezione che, ne siamo certi, diventerà negli anni uno degli appuntamenti più interessanti del Premio. Sara Martin 71 INTERVISTA a stefano BISES Stefano Bises, classe ‘68, vena partenopea, è uno dei più importanti sceneggiatori del panorama italiano. Sono sue, solo per citarne alcune, le sceneggiature di Un’altra vita, Questo nostro amore, Una grande famiglia. Il suo ultimo lavoro, che ha conquistato pubblico e critica, è Gomorra – La serie di cui è headwriter. Nell’intervista ci racconta la sua esperienza lavorativa – che abbraccia vari generi e vari tipi di audience – e ci dà anche un quadro felice della serialità italiana. [NdR: l’intervista contiene spoiler!] Sue sono le sceneggiature di Questo nostro amore, Un’altra vita, oltre che di Gomorra - La serie, narrazioni diverse per argomento e per pubblico. Il suo lavoro si modifica a seconda dell’argomento? Sì, evidentemente il genere, una commedia sentimentale piuttosto che un crime, influenza il tipo di scrittura, ma anche la destinazione di un prodotto impone un tipo di lavoro diverso. La scrittura per il pubblico di Sky è diversa rispetto a quella per l’audience di una grande rete generalista. Hai davanti un pubblico diverso e la narrazione deve tenerne conto. Questo non significa si lavori con più o meno cura o serietà, è l’applicazione di una professionalità differente e, oltre al piacere che mi dà frequentare generi lontani tra loro, provo una certa soddisfazione quando riesco a intercettare il gradimento di audience così diverse. Gomorra - La serie non è un’opera semplice, parla di una realtà cocente, violenta, è materia viva, è abitata da personaggi voraci, lupi, iene, avvoltoi. Come ha gestito 72 questo magma creativo, e come si è trovato a lavorare con più autori? La fatica più grande è stata superare il senso di inadeguatezza di fronte a una realtà così complessa. E dopo averla conosciuta profondamente, per restituirla nella sua autenticità, cercare di non restarne intrappolati emotivamente e creativamente. E, ancora, è stato difficile trovare le chiavi per raccontare quell’umanità dolente senza esaltazioni, moralismi o giudizi. Affrontare questa fatica con i miei colleghi – Leonardo Fasoli, Filippo Gravino, Maddalena Ravagli e Ludovica Rampoldi – con Roberto Saviano e soprattutto con il regista Stefano Sollima è stato di fondamentale aiuto. Ciò che colpisce nella serie Gomorra - La serie sono i personaggi che con ogni gesto, movimento, parola danno corpo alla voglia di successo, danaro, potere. Genny, Donna Imma, il Boss Savastano sono perfettamente caratterizzati, eccessivi e crudeli, eppure la sensazione dello spettatore è di non voler fuggire da loro, bensì di far parte della Famiglia. La scrittura ha creato un affresco di un mondo senza morale, degerato, violento, privo di speranza e bontà. Perché sembra non esserci spazio per il bene? Perché abbiamo voluto raccontare il male e solo il male. E quando abbiamo fatto affiorare il bene è stato solo per raccontare le capacità di contagio che ha il male. Quel male, in quella realtà. Il che non significa che in quelle zone non vi sia il bene o chi lotta per esercitarlo e diffonderlo, ma eravamo e siamo convinti che il male non dovesse essere raccontato per contrasto, come ha quasi sempre fatto la fiction quando affronta i temi della criminalità, ma nella sua essenza. La sfida era proprio quella di mettere in scena solo personaggi negativi senza farne degli eroi che non fossero però respingenti. E credo che se ci siamo riusciti è perché in fondo ognuno di quei personaggi ha una sua verità, riconoscibile e comprensibile, ed è in fondo una vittima. In questo periodo stanno girando la seconda stagione di Gomorra. Come si è modificata la scrittura dalla prima alla seconda stagione? La fase di scrittura dei copioni è stata più semplice perché i personaggi erano già in campo, li conoscevamo e sapevamo come parlavano e agivano, e perché conoscevamo già quel mondo e i suoi meccanismi. Più complicato è stato costruire un nuovo arco narrativo portante che sostenesse la seconda stagione, senza ripetersi, e con il problema di aver perso per strada molti personaggi importanti, come donna Imma, una figura chiave della prima stagione, che portava con sé alcuni temi narrativi forti: il ruolo della donna nelle organizzazioni criminali, e quello della famiglia. Facendo il grande salto, realizzando progetti internazionali, il panorama della serialità italiana sta vivendo un periodo d’oro. Si spinge oltre i confini nazionali, tentando di rompere gli argini, quel collo di bottiglia in cui il prodotto sembra spesso intrappolato, basti pensare al successo di Gomorra - La serie, venduto anche all’estero così come in precedenza Romanzo criminale, e alla realizzazione di ZeroZeroZero, tratto da un altro romanzo di Roberto Saviano. Cosa ne pensa di questa “età dell’oro” della serialità italiana? Penso che sia un’occasione straordinaria per dimostrare che anche l’Italia ha produttori, registi, attori, tecnici e narratori capaci di realizzare serie di alto livello in modo non casuale. Con la fortuna, o la sfortuna, di vivere in un paese che ha un patrimonio narrativo unico al mondo. Un’occasione di sviluppo artistico ed economico che non dobbiamo assolutamente sciupare; e che non sciuperemo se continueremo ad attingere alle nostre storie con onestà, autenticità, senza pudori e senza inchiodarci al racconto consolatorio o edificante, e impiegando gli unici tre ingredienti che, purtroppo in modo imprevedibile, danno vita a un successo: il talento, il coraggio e la libertà creativa. A cura di Eleonora Degrassi, 28 maggio 2015 73 GOMORRA - La serie Regia: Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini; Ideazione/Soggetto: Roberto Saviano, Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Giovanni Bianconi (liberamente tratto dal romanzo Gomorra di Roberto Saviano); Sceneggiatura: Roberto Saviano, Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Giovanni Bianconi, Maddalena Ravagli, Filippo Gravino; Fotografia: Paolo Carnera, Michele D’Attanasio; Montaggio: Patrizio Marone; Scenografia: Paki Meduri; Costumi: Veronica Fragola; Musiche: Mokadelic; Produzione: Sky Atlantic, Fandango, Cattleya, LA7, BetaFilm; Distribuzione (televisiva): Sky Atlantic, Sky Cinema 1; Distribuzione (cinematografica): The Space Movies, Universal Pictures Italia; Origine: Italia/Germania 2014; Durata: 55’ (Stagione 1, 12 episodi) Premi: Roma Fiction Fest (2014): Miglior Prodotto Italiano, Miglior Attrice Italiana (Maria Pia Calzone), Menzione Speciale della Giuria (Salvatore Esposito), Premio Scardamaglia alla Migliore Sceneggiatura (Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Filippo Gravino, Giovanni Bianconi, Maddalena Ravagli), Premio L.A.R.A. al Miglior Attore di una Fiction (Salvatore Esposito) Interpreti: Marco D’Amore (Ciro Di Marzio), Fortunato Cerlino (Don Pietro Savastano), Salvatore Esposito (Gennaro Savastano), Maria Pia Calzone (Immacolata Savastano), Marco Palvetti (Salvatore Conte), Domenico Balsamo (Massimo), Enzo Sacchettino (Daniele), Elena Starace (Noemi), Antonio Milo (Attilio Diotallevi), Fabio De Caro (Malammore), Ivan Boragine (Michele Casillo) 74 Il boss di Secondigliano Don Pietro Savastano affida al braccio destro Ciro il compito di preparare suo figlio Genny, giovane e inesperto, al ruolo di capoclan. Quando Pietro viene arrestato, il potere passa a Imma, moglie di Pietro. La donna spedisce Ciro – di cui ricambia l’antipatia – in Spagna per trattare con il boss rivale Salvatore Conte, mentre Genny viene inviato in Honduras, a gestire gli affari coi trafficanti di droga. Quando torna a Napoli, Genny appare profondamente cambiato nel fisico e nel carattere, e decide di prendere per sé il comando, rompendo gli equilibri interni al clan. Non ci sono né santi né diavoli nell’universo gangster della serie tv Gomorra. L’aver sopraffatto i rivali in guerra non distingue i vincitori dai perdenti: nessun trionfo, bensì pura sopravvivenza, ma anche nessuna tregua per chi è superstite, ovvero nessuna possibilità di salvezza e redenzione. È in questa zona grigia, così ben espressa anche a livello fotografico da Paolo Carnera e Michele D’Attanasio, che ritroviamo lo spirito di un prodotto che sceglie di raccontare la complessità del reale, piuttosto che appiattirsi in una consolante antitesi tra bene e male. Non da subito la Secondigliano di Ciro, Genny e Don Pietro si squaderna davanti ai nostri occhi come un mondo senza vere opportunità di fuga: soprattutto nelle prime puntate, avvertiamo un bagliore di inconsapevole innocenza nel volto spaurito di Genny, e dal portamento di Ciro sembra trasparire più di un dubbio sulla volontà di aderire completamente alla logica del crimine. È come se l’invito a “stare senza pensieri” evocasse la presenza di una cortina di sottili inquietudini, dietro le quali affiora l’umanità di personaggi che non sono ancora passati al “lato oscuro”, per dirla alla George Lucas. Tuttavia è proprio per la mancata adesione allo schema, caro a una certa serialità italiana, in cui non esiste confusione tra buoni e cattivi, che nessuno di questi uomini può elevarsi sugli altri. Anzi, proprio nel momento in cui siamo spinti a fare il tifo e sostenere Ciro e la sua famiglia affinché scampino dai pericoli, o soffriamo per la solitudine di Don Pietro tra le sbarre del carcere, ecco sopraggiungere un senso di distanza nei confronti di personaggi che, anche quando non commettono il male, non appaiono mai come modelli positivi. Il racconto sprigiona tutta la sua forza dirompente senza lasciare vie di fuga narrative, singole occasioni di conforto né tantomeno l’illusione di una conciliazione finale. Ci ritroviamo così prigionieri in un universo segnato dalla necessità e dalla contingenza, in cui la camorra non è soltanto oggetto da denunciare, ma rappresenta piuttosto uno spiraglio parziale, attraverso cui ci si affaccia sul mondo secondo un punto di vista unico, quello dei malavitosi. I criminali di Gomorra – La serie inseguono primati di potere e denaro non perché siano mossi da un fato invisibile, bensì perché non appaiono mai liberi da se stessi, ancor prima che dagli obblighi che li legano alle loro famiglie e alla comunità mafiosa. Grazie a una narrazione che racconta con coerenza quasi impeccabile il male dal suo interno, Gomorra non spersonalizza la figura del camorrista, ma lo rende un umano tra gli uomini, né eroe né antieroe. Tuttavia, perfettamente consci dell’impossibilità di aderire a questa realtà, non siamo spinti a solidarizzare né a immedesimarci fino in fondo, anche quando inconsciamente l’empatia ci avvicina ai caratteri dei personaggi. Dopo esserci sentiti accanto a uno di loro, subito ne veniamo allontanati, seguendo ora il capoclan ora l’ultimo dei suoi sottoposti. Continuamente si viene rimandati al quadro d’insieme, fondato anche su una straordinaria uniformità stilistica, in cui Napoli assume la portata di un racconto universale. Nicola Peirano 75 Racconti privati, memorie pubbliche Alan Berliner I l cinema amatoriale e di famiglia ormai da decenni è entrato a far parte degli strumenti creativi a disposizione di registi e artisti dell’audiovisivo interessati al potere di testimonianza intrinseco a queste fonti provenienti dal basso. Il cinema inedito è una memoria mediale che partendo dalle esperienze private vissute può permettere l’emersione di un contesto storico-politico complesso, articolato e inedito. È quello che traspare per esempio nello straordinario lavoro di messa in relazione di sfera privata e pubblica operato da Peter Forgacs in Private Hungary (1988-2002) o ancora quello che vediamo nel magnifico Soul of a Century (2002) di Michael Kuball. Anche Alan Berliner, filmmaker americano attivo fin dalla fine degli anni Settanta, che il Premio Amidei omaggia con un’ampia selezione di film, si concentra sul ri-uso creativo del found footage, anzi buona parte del suo lavoro parte dall’archivio. E, proprio dell’archivio, Berliner ha in un certo senso fatto il fulcro della sua attività, del suo metodo di lavoro. L’archivio è in questo caso lo spazio fisico del deposito, il luogo del riordino e della minuziosa catalogazione dei contenuti. Uno strumento complesso che omogeneizza e accoglie quello che l’artista ha negli anni cercato, acquistato, rilevato, ottenuto: film inediti girati da altre persone, ossia memorie filmiche private di famiglie che nel Novecento d’Oltreoceano si sono auto-rappresentate in 16mm. Ma il documentarista ha inserito nella sua raccolta di oggetti e documenti anche contenuti educational, film che oggi definiamo orfani, musiche e suoni di ogni tipo, cartoni animati e pellicole di edizione. Da buon archivista, meglio ancora da buon montatore qual è, Berliner in The Family Album (1986) gestisce e implementa il casellario che contiene il footage ritrovato. Con ironia, eleganza e notevole abilità tecnologica, esercita il suo tocco sferzante e trasforma il significato originario delle collezioni private accostando anni e luoghi fisicamente lontani, suoni e registrazioni fatte da persone che non si sono mai conosciute, in “attori” del film che sembrano ben relazionarsi fra loro sul set in cui si trovano a “recitare”. L’eterogeneità dei materiali di partenza non indebolisce la volontà di far convivere intrecciando fra loro i destini di molti in un’operazione che al contrario risulta di messa in valore della memoria collettiva americana. Una lettura documentaria dei film inediti in formato ridotto frutto della passione di cineamatori e padri di famiglia è infatti possibile grazie alla “decontestualizzazione” delle immagini che hanno fissato ricordi privati o manifestazioni locali. Il film di famiglia in sé afferma una funzione ideologica di rafforzamento dell’istituzione, lavora al consolidamento del senso di integrazione a quel nucleo. Nel passaggio all’archivio questa modalità si trasforma e agisce in uno spazio di comunicazione diverso, pubblico. La memoria filmica privata è da un lato traccia oggettiva della realtà, dall’altro, intrinsecamente, espressione intimistica e memoriale. Per questo troviamo che i lavori di Berliner funzionino come atlanti della memoria filmica intima e amatoriale, opere universali e contemporaneamente sperimentali, film collage fatti di ricerca e collezione, di accumulo e dispersione. L’opera di Alan Berliner si nutre del tempo, dell’accantonamento selettivo, dell’artefatto culturale depositato sulla pellicola, ma è anche frutto di un abile lavoro di montaggio, di una raffinata selezione e di un effervescente accostamento delle fonti. Ma ci piace pensare anche che il meccanismo della memoria audiovisiva sintetizzi l’universalità dell’esperienza e, a Gorizia, presso la Mediateca Provinciale, come a Bologna, presso Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, e altrove in Italia e nel mondo, la raccolta di queste testimonianze filmiche inedite permette di allargare la portata del passaggio di memoria fra generazioni. La trasmissione è infatti il fondamentale processo di mediazione che permette il passaggio dei contenuti culturali fra generazioni diverse e fra la dimensione personale della memoria e quella collettiva. Mirco Santi 79 BERLINER DIXIT Se non altro, il mio film (First Cousin Once Removed, 2013) prova che la memoria è la chiave per la formazione dell’identità. Se non si tiene presente questo, non è possibile trarre elementi di comprensione e di senso dal passato. In altri termini, non è possibile imparare dal passato. E se non comprendiamo le conseguenze dell’esperienza, non possiamo far emergere le loro implicazioni nel presente. L’identità è certamente una funzione della capacità di viaggiare nel tempo. Ma questo viaggio non ci porta solo dal passato al presente. Queste idee di apprendimento, di senso, di analisi dell’esperienza riguardano la possibilità di immaginare un’idea di futuro e di farsi ispirare da essa preparandosi e riponendovi le proprie speranze. Sapete, c’è sempre una ragione per vivere un altro giorno, ci sono sempre cose da fare. Si è sempre in crescita, in evoluzione. La verità è che ognuno di noi è un insieme di multipli. Anche se siedo qui, adesso, posso ricordare le esperienze fatte a undici anni. Oppure richiamare alla mente ciò che facevo a venticinque anni. Siamo tutti il compendio di differenti età e abilità cognitive, di diverse “consapevolezze cognitive” [...] La vita non è semplice; la vita non è lineare; essere umani è una questione complessa e imprevedibile. (Fonte: Rob Dickie, Alan Berliner talks about “First Cousin Once Removed”, www.mhfestival.com/news/interview/item/42-alan-berliner-talksabout-first-cousin-once-removed, ultima visita il 5 giugno 2015) Che cosa possiamo imparare dalla vita di una persona ordinaria? Ecco una domanda davvero interessante. Qual è il punto? Sto facendo film su persone che sono vissute e che sono 80 morte. Come tutti noi, hanno fatto esperienza della gioia e della tristezza. La gamma dell’esperienza umana è inscritta in ogni vita. Io, in sostanza, faccio collage. Mi circondo di cose che, secondo me, hanno una forte energia potenziale. Cose che mi piacerebbe vedere, toccare o percepire. Oppure immagini che mi interessano anche se non so esattamente che cosa farci. Capisco istantaneamente che un giorno potrei lavorarci sopra. O spero di poterci lavorare sopra. Quando ho portato a termine il film, tutte le immagini che, prendendo avvio dal mio vasto archivio, ho utilizzato e di cui mi sono appropriato non tornano in una scatola, come se non avessi più alcun tipo di rapporto con loro. Tornano nell’archivio: tutto torna in orbita, tutto torna da dove è venuto. Ciò significa che queste immagini sono di nuovo in gioco, che tutto è di nuovo in gioco. Così, da un’opera all’altra, se si tiene in particolare considerazione la forte continuità data da temi, personaggi e ossessioni che attraversano il mio lavoro, capita spesso che io richiami le stesse cose, perché nel nuovo contesto assumono un significato diverso, diventando una nuova metafora. The Family Album (1986) è stato il mio primo film ad avere veri e propri titoli e ringraziamenti. Tra questi compare la parola “serendipità”. Non è una casa di produzione. Non è una persona. È l’energia, è la “cosa”. Io ho semplicemente risposto a una cartolina affissa su un “ballon board” in cui si annunciava la vendita di home movies. Non ho idea da quanto tempo quell’avviso fosse lì. Quando ho chiamato, mi hanno detto che ero il primo a rispondere. E ancora, è centrale la serendipità connessa al ritrovamento di footage anonimo (che poi ho utilizzato in The Family Album) e all’attrazione magnetica che esercita su di me il tema della famiglia, verso cui mi sento costantemente spinto. Questo soggetto è sempre stato – ed è ancora adesso – ben radicato nel profondo della mia psiche: col tempo ho capito che questo è il mio tema. Non riuscirei a dire quanti garage e mercatini delle pulci ho girato. Di solito trovavo sempre nastri magnetici che riuscivo a comprare per un nichelino o per dieci centesimi. Chi me li vendeva pensava che io li usassi per la segreteria telefonica e che io fossi troppo spilorcio per comprare una cassetta nuova per un dollaro. Spesso non c’era alcuna registrazione, a volte non si capiva nulla, altre volte era possibile avvertire una sensazione di pura familiarità. energie non sono strettamente indirizzate al film successivo, mi dico spesso: “Questo è il momento giusto per lavorare a un progetto di installazione o a una scultura”. Questo, di solito, è il ritmo del mio processo creativo. Ogni film è il più difficile e il più tremendo da fare. Aleggia un imperativo che, seppur inconscio, è vincolante: si tratta di portare le forme e le modalità del film saggio e del film personale al loro punto di massima (e anche più oscura) tensione. Percorrere questo cammino implica molti rischi e molte paure, legati principalmente al non sentirsi al sicuro e alla necessità di andare fino in fondo. Forse ciò è successo in maniera più marcata con The Sweetest Sound (2001) e Wide Awake (2006), in cui mi sono ritrovato nell’imbarazzante, complicata e rischiosa posizione di essere il soggetto presente nel film e il filmmaker. E anche una serie di figure presenti tra queste due polarità. In altri termini, mi sono ritrovato a “spigolare” nel loro campo metaforico. Bisogna essere abbastanza aggressivi, stupidi, intelligenti e modesti per fare questi viaggi. Perché sono viaggi a tutti gli effetti: ogni film lo è. (Fonte: Yance Ford, Filmmaker Interview: Alan Berliner, www.youtube. com/watch?v=p4YYzjOnAhs, ultima visita 5 giugno 2015) A cura di Diego Cavallotti Non sono un filmmaker che può dire: “Beh, ora sto girando questo, montando quest’altro e facendo la post-produzione di quest’altro ancora”. Non riesco a fare quattro o tre film alla volta. Nemmeno due. Sono decisamente monogamo: posso lavorare solo su un film alla volta. Nei periodi in cui le mie 81 THE FAMILY ALBUM (The Family Album) Una raccolta di filmati familiari in 16mm realizzati negli Stati Uniti tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. Ne emerge un collage di esistenze private e una narrazione di vite, dall’infanzia alla maturità. Alan Berliner assembla autentici documenti di vita vissuta e racconta l’America del passato, tra ritualità, cultura e riflessioni sulla memoria. R Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Montaggio: Alan Berliner; Suono: Rick Dior; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 1986; Durata: 60’ 82 agionando sulle modalità operative di Alan Berliner, si può ben comprendere il sostrato teorico che sta alla base di The Family Album. Il principio di fondo – dichiarato dall’autore stresso – risiede nella volontà di assemblare materiale eterogeneo proveniente dagli archivi di svariati cineamatori, e di tesserlo recuperandone un intreccio. Non vi è, in questo caso, l’intento di pensare a una sequenza, scriverla e montarla secondo un’idea di causalità che sottostà al processo produttivo canonico, ma di lasciare che il film “esca fuori” nel momento in cui il regista si ritrova a dover dirimere il materiale a disposizione. Nel suo mediometraggio d’esordio Berliner opta per la reviviscenza di filmati legati alla memoria individuale e di allargarne la consistenza redigendo un saggio audiovisivo sulla memoria collettiva dell’America che fu. Un processo dal particolare al generale che fa scaturire riflessioni di largo interesse, che spaziano dalla realizzazione di un universo narrativo a partire dal found footage, alle determinazioni etnologiche derivanti dai meccanismi di costruzione del ricordo e da ciò che ne deriva nelle pratiche di fissazione della realtà. La struttura narrativa di The Family Album è determinata da una consequenzialità cronologica che agisce – nel più classico dei modi – ad imitazione della vita stessa. Pertanto, i primi minuti del film coincidono con riprese di idilli familiari legati alle performance dei bambini nei loro primi anni di età: vagiti, ninne nanne, trastulli e attenzioni da parte degli adulti. A seguire, il centro delle inquadrature si allarga e coinvolge situazioni più complesse, che riguardano divertimenti, feste, inserimenti in società. Ma c’è una ragione in tutto ciò: la tendenza – nelle famiglie dei cineamatori – di archiviare, con grande precisione, i rulli relativi ai primi anni di età dei figli, e di monitorarne i progressi. In seguito, i protagonisti crescono e acquisiscono maggiore indipendenza; i progressi divengono meno interessanti e meno individuabili e, conseguentemente, l’oggetto delle riprese si rivela più fumoso. Da ciò emerge un punto fondamentale: lo spettatore non riconosce precisi attori, e la storia non si concentra su un preciso nucleo familiare. Al contrario, la dimensione corale affiora nell’evidenziazione della moltitudine di protagonisti che agiscono come personaggio collettivo. In altri termini, il narratore assembla i numerosi home movies recuperati e, agendo per conformità, li “racconta” sfruttando un unico filo conduttore. Correlata al visivo, in The Family Album la dimensione sonora risulta di capitale importanza. A descrivere le immagini, e a raccontarne ciò che vi sta “dietro”, sono le registrazioni audio delle memorie di altri protagonisti (non necessariamente i medesimi che vediamo sullo schermo). Come le riprese, anche le registrazioni – che potremmo chiamare found recordings – hanno subìto un processo di recupero e assemblamento alla maniera del collage. Tra racconti, pianti, canti, semplici gorgoglii onomatopeici, il suono acusmatico – ovvero quello di cui non percepiamo la fonte – ha una doppia valenza descrittiva e narrativa. Talvolta si limita a narrare quanto lo schermo riporta, talaltra finge di “dialogare” con le immagini, imitando una correlazione diretta tra quanto viene detto e quanto viene mostrato. Altre volte ancora, le voci narranti raccontano quello che le immagini non possono dire. È in quest’ultimo frangente che emerge lo snodo di senso che rende The Family Album un prodotto estremamente importante. È difatti la dimensione sonora a fungere da elemento rivelatore e a determinare la pregnanza del fuori campo nella dimensione memoriale degli home movies. L’album di famiglia è qui visto come un insieme di ricordi felici, che decidono – comprensibilmente – di censurare quanto di triste vi sia dietro le immagini mostrate. Dietro la maschera di feste, risate e scherzi esibiti con tanta euforia vi è un controcanto di storie di alcolismo, di matrimoni di facciata e, soprattutto, di perdite. È la manovella della cinepresa che ci “obbliga” a vedere e ricordare. Ricordare cose e persone che, magari, avremmo preferito dimenticare o conservare chiuse nei cassetti della memoria. Leonardo Cabrini 83 INTIMATE STRANGER (Intimate Stranger) La vita di Joseph Cassuto, nonno materno del regista Alan Berliner, commerciante di cotone per il Giappone in Egitto, raccontata attraverso gli occhi di parenti e amici che l’hanno conosciuto da vicino. Dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale e il ritorno in America con la famiglia, non crolla il desiderio di ricongiungersi con una cultura in lotta per rialzarsi, quella giapponese, da sempre nel suo cuore. Quella che ne emerge è un’eredità fatta di amorevoli ricordi e risentimenti, la costruzione di una biografia per immagini tra le più originali e le più sfuggenti. P Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Alan Berliner; Montaggio: Alan Berliner; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 1991; Durata: 60’ Premi: International Documentary Association (1993): Premio IDA; American Film/Video Festival (1992): Primo Premio Blue Ribbon; USA Film Festival (1992): Primo Premio, categoria “NonFiction”; Cinéma du Réel Film Festival (1992): Premio Speciale della Giuria; San Francisco Int’l Film Festival (1992): Premio del Pubblico; Black Maria Film Festival (1991): Menzione Speciale della Giuria 84 er dare forma a questo suo secondo film, Alan Berliner decide di utilizzare una storia per raccontarne due, dipingere un eroe moderno mentre tratteggia i doppi contorni della sua anima. L’amato Mr. Cassuto o il comune Signor Nessuno, uomo d’affari o padre di famiglia, amico caro o straniero in casa propria: è l’intera vita di Joseph Cassuto a esser messa in scena, le sue esperienze, le sue scelte, le sue contraddizioni. A narrarla è la sua stessa famiglia, tre figli e una figlia, parenti, amici, lo stesso Berliner: allo spettatore sembra di entrare nel comodo salotto di casa, dove tutti si sono riuniti quasi per caso per poi decidere di aprire un vecchio album di fotografie e ricordare insieme. Mentre vengono girate le pagine del libro lungo una vita, ognuno si fa portavoce della sua visione dei fatti, ricordi felici e cicatrici mescolate in modo che si rafforzino gli uni con le altre, collaborando nella costruzione di un uomo. In tale ordinata confusione è presente un ritmo tenace, dato dal battere sui tasti di una vecchia macchina da scrivere: ogni battuta corrisponde a uno stacco, un cambio dell’immagine, non fluido come potrebbe esserlo quello di una serie di diapositive, ma un colpo molto più secco, martellante, come a volersi imprimere fermamente nella pellicola e nella mente di chi osserva. Tutto si conserva, tutto ha un suo posto nella memoria, tutto una sua importanza. Prendendo a prestito le stesse parole del regista, “Intimate Stranger cammina sul filo del rasoio tra lo smistare i panni sporchi di famiglia e lucidare i suoi preziosi gioielli”: Berliner insiste a tutti i costi nel non dividere questi due aspetti, lasciando il minutaggio scorrere nella naturalezza di una vita eccezionalmente ordinaria. Il rispetto, la gratitudine, l’amicizia, la fiducia di un popolo antico che sa ricordare, si amalgamano indistinti alla tristezza del punto di vista della dolce Rose, moglie devota e paziente, capace di “guardare oltre” gli undici mesi all’anno in cui il marito poneva un oceano di distanza tra loro, oltre le sue crisi, le sue attese, la sua vita “non normale”. Legarsi a quest’anima cosmopolita ha richiesto sacrificio: in Giappone era conservato un frammento del suo cuore gentile, in America la famiglia, la sicurezza lasciata per rincorrere il richiamo di dolci sirene. Ma non si parla mai di cattiveria nelle azioni di Joseph Cassuto, le parole dei figli più che essere piene di astio sono farcite di amarezza, di rimpianto per i tanti anni passati lontano dalla figura paterna, incapace di lasciare il proprio lavoro, il proprio modo di vivere, suo soltanto. Intimate Stranger racchiude nel suo stesso titolo quel sapore agrodolce che accompagna l’intero documentario: questo letterale “intimo straniero” non ha nazionalità, né religione, è un ossimoro, un paradosso apparente raccontato nel suo precario equilibrio emotivo. Alla fine del film rimane la sensazione leggera di essere entrati nella vita del protagonista per ri- manerne comunque al di fuori, noi curiosi estranei colti a leggere le pagine di un racconto privato, una memoria pubblica composta per il giovane Alan, per nessun altro. Margherita Merlo 85 NOBODY’S BUSINESS (Nobody’s Business) Il regista Alan Berliner intervista l’anziano e scontroso padre, Oscar. Davanti alla cinepresa si attraversano le tappe di una intera vita: dalla storia dei nonni – ebrei dell’Est Europa emigrati in America – alla carriera militare, dal matrimonio alla nascita dei figli. Fino al divorzio e ai recenti anni di solitudine. Padre e figlio si incontrano, si confrontano e soprattutto si scontrano: Oscar non ne vuole sapere di ricostruire le vicende familiari dei propri avi, lo ritiene un esercizio privo di significato; Alan al contrario indaga, riuscendo a mettersi in contatto con i primi, i secondi e i terzi cugini. Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Alan Berliner, Phil Abraham, David Leitner, Mick Worthen; Montaggio: Alan Berliner, Leslie Neblett; Suono: Joe Judd, Steve Robinson; Musiche: Roger Phenix; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 1996; Durata: 60’ Premi: Festival dei Popoli (1997): Premio per l’Innovazione nel Documentario; Jerusalem International Film Festival (1997): Miglior Documentario; Florida Film Festival (1997): Premio del Pubblico per il Miglior Documentario; San Francisco International Film Festival (1997): Golden Spire Golden Gate Award; Festival Internazionale del Cinema di Berlino (1997): Premio Caligari, Premio International Film Critics Association; Charlotte Film and Video Festival (1998): Premio Director’s Choice; National Academy of Television Arts and Sciences (1998): Emmy Award; Chicago Silver Images Film Festival (2000): Visionary Award 86 “L a mia vita non è diversa da quella di altre milioni di persone!”: Oscar Berliner non ne vuole proprio sapere, si agita sulla sedia e fulmina con lo sguardo il figlio Alan, che ha avuto l’ardire di interrogarlo sulla storia della loro famiglia. Sono due generazioni a confronto, animate da sentimenti opposti: mentre Oscar è nato in un’epoca in cui l’etnia era uno svantaggio (tutti volevano essere yankee e dimenticare per convenienza la propria provenienza), Alan vive in un Paese in cui le identità culturali si mescolano, e sempre più persone sono alla ricerca delle proprie radici e delle proprie origini. In questo caso l’albero genealogico parla chiaro: i Berliner vengono dalla Polonia. Ancora più precisamente sono ebrei, e la primigenia emigrazione fu quella di Salomon Isaac, antenato di Alan e di Oscar. “È venuto qui in America solo perché pensava sarebbe stato pagato in oro”, chiosa l’anziano (e duro d’orecchi) genitore. E ricomincia, fra i due, la battaglia. Nobody’s Business riprende le fila di un discorso già iniziato con The Family Album (1986) e Intimate Stranger (1991), riuscendo nuovamente nella non facile impresa di assumere al contempo i connotati di un documento privatissimo e di un racconto universale e condivisibile. Un risultato più complesso di quanto possa apparire, veicolato dalla capacità del regista di Brooklyn di creare una eccezionale empatia e un immediato coinvolgimento in chi guarda. Non conosciamo lo scorbutico Oscar, ma è come se lo avessimo sentito parlare altre mille volte; non sappiamo nulla della genesi del nucleo familiare dei Berliner, ma ci sentiamo fin da subito parte del discorso. Un discorso che avviene in un brevissimo lasso di tempo – appena 60 minuti, per un girato totale di quattro ore – e che si conclude quando ci sarebbero ancora molte cose da dire e sulle quali ragionare. Ma se è vero, come afferma lo stesso Alan Berliner, che “quando si dà il via ad un progetto non si dovrebbe mai sapere dove si sta andando”, risulta altrettanto realistica la consapevolezza che il cerchio non si deve chiudere, e che parte della riflessione deve restare in nuce e in mano allo spettatore. “Ogni film che faccio inizia con una sorta di lieve, debole battito cardiaco, e finisce con una forte personalità”: ecco ancora una volta nelle parole del medesimo cineasta la migliore definizione di Nobody’s Business, testimonianza commovente, bizzarra, illuminante e triste. E anche innegabilmente comica, vedere per credere il montaggio “analogico” che alterna i battibecchi del duo – Alan dietro la macchina da presa, Oscar davanti – alla sequenza in bianco e nero di un incontro di boxe. Il titolo (che letteralmente suonerebbe come “affare di nessuno”) fa riferimento in particolare all’argomento del divorzio del patriarca Berliner, parte per il tutto che sottolinea ancora una voltà l’omertà giocosa e al contempo cocciuta di un essere umano che ama nascondersi nelle grandi folle, gioen- do del proprio anonimato. Ogni assalto viene stoicamente respinto: “Non ti interessa essere ricordato? Che i tuoi discendenti sappiano chi sei stato?”; “Quando sarò metri sottoterra cosa vuoi che me ne interessi”. E in effetti, nella piccola e a suo modo insignificante esistenza di Oscar, chi mai potrebbe trovare alcun motivo di interesse? Nessuno, tranne un figlio, che in direzione ostinata e contraria – in una missione che lo porta fino alla Biblioteca Genealogica di Salt Lake City – dà vita sì ad un saggio cinematografico e ad un’opera d’arte, ma prima di tutto scrive una esclusiva lettera d’amore al proprio intrattabile padre. Filippo Zoratti 87 THE SWEETEST SOUND (The Sweetest Sound) Alan Berliner è un avvocato di Columbus, Ohio. Alan Berliner è un assistente sociale di Seattle, Washington. Alan Berliner è un fotografo di celebrità a Los Angeles, California. Stanco di essere confuso con queste persone e con chiunque altro possa avere il suo nome, Alan Berliner, il filmmaker di New York – da non confondersi col filmmaker belga Alain Berliner – decide di farla finita con la temuta Same Name Syndrome (Sindrome di omonimia). La sua soluzione: invitare tutti gli Alan Berliner del mondo a casa sua per cena. Q Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Richard Dallett; Montaggio: Alan Berliner; Suono: Bill Seery, Ian Douglas Vollmer; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 2001; Durata: 60’ 88 uello del proprio nome per molti non sembra essere il suono più dolce. A molti non piace, molti lo cambierebbero, altri rifiutano l’idea di condividere qualcosa di così personale con degli sconosciuti. Ma cosa c’è dietro a un nome? Davvero un nome può cambiarci la vita, può renderci qualcuno? Da qui parte Alan Berliner per una ricerca profonda, attentissima ai dettagli, quasi paranoica, sui nomi degli statunitensi. Giornali, archivi tv, basi di dati online, tutto è setacciato, selezionato, raccolto. Su questa solida struttura di numeri e statistiche costruisce la sua indagine lungo tre itinerari che si sovrappongono: data un’immagine, un volto, possiamo attribuirle un nome? Dato un nome possiamo desumerne degli aspetti caratteriali cui quel nome, quel suono, ci ricollega intuitivamente? Messi insieme più individui omonimi troveremo qualcosa che li accomuna e che quindi è legato a quel nome in maniera assoluta? Berliner intervista persone di qualsiasi età, fa visita alle società di omonimi, poi restringe il campo e si focalizza sul suo di nome. Chiede ai genitori il perché di tale scelta ma scopre che non c’è una spiegazione sufficientemente significativa, tranne la musicalità. È allora un nome solo una questione di suono? Rifiutando questa semplificazione contatta tutti gli Alan Berliner con lo scopo di trovare ciò che li accomuna, la loro intersezione. I risultati sono vaghi, insoddisfacenti, forse dei legami ci sono ma è difficile trovarne con poco tempo a disposizione. Emergono allora altri interrogativi, più critici, più profondi. Se il nome non avesse un reale significato riscontrabile allora ha senso averne uno? E se il senso sta solo nella musicalità, perché lasciar esistere nomi difficili anche solo da pronunciare? Il documentario si stacca dal particolare ed entra nella Storia, cita An American Romance (1944) di King Vidor, recupera immagini di Ellis Island indagando sul cambio di nome che si sospetta subirono in molti tra gli immigrati, e arriva al New England Holocaust Memorial dove, a più di due milioni di individui identificati con un numero, può essere riconsegnata una personalità attraverso la lettura di nomi e cognomi. Ma ancora non otteniamo risposte prive di ambiguità. L’unica certezza cui si giunge è che un nome non corrisponde a un’identità ma viceversa, un’identità non esiste senza nome, senza un suono. Ciò riconduce al Berliner regista: nelle sue opere il suono, il montaggio sonoro, il ritmo, hanno sempre contato quanto le immagini, con un approccio tipicamente avanguardista. I suoni hanno sempre identificato, descritto, commentato, molto più che in altri autori. Si “ascolti” la scena in cui degli intervistati riempiono un modulo sulle caratteristiche che si aspettano da un individuo chiamato Alan Berliner: le voci si sovrappongono e danno l’idea del risultato prima che una croce sia tracciata nelle caselle. C’è un suono che identifica l’attesa, uno che identifica la morte o il passato o ciò che è fissato per sempre, uno che identifica la ricerca o l’interrogarsi. Non è un caso che tra i tanti titoli pensati per il documentario e mostrati sullo schermo quello scelto è proprio “Il suono più dolce”. Aveva allora ragione la madre del regista? Il significato è il suono? L’opera si chiude con un’orchestra in procinto di suonare e una proposta: dare a ciascuno un sito web che contenga tutta la propria vita e conferisca a tutti noi una cyber-eternità non vincolata alla pronuncia del nostro nome. Era il 2001, tre anni dopo sarebbe nato Facebook. Erasmo De Meo 89 WIDE AWAKE (Wide Awake) Il videoartista e documentarista Alan Berliner sfida a viso aperto la sua insonnia. Malattia che per lui è un’ossessione affrontata un po’ ambiguamente: da un lato vengono messi in risalto i problemi fisici e nervosi, dall’altro si sottolinea l’innegabile fascino del disturbo. Il documentario mescola testimonianze reali e biografiche con una serie di fantasiose immagini di repertorio, rafforzate da un vivace uso del montaggio visivo e sonoro. C Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Ian Vollmer; Montaggio: Alan Berliner; Suono: Steve Beganyi, John Haptas, John Kashuk, Ramón Rivera-Moret, Chris Ward; Scenografia: Gene Hyfler, Sarah Lipkin; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 2006; Durata: 79’ 90 on Wide Awake il documentarista Alan Berliner ci accompagna in una delle sue ossessioni, comune a molte persone per le quali la notte non è tempo del sonno ristoratore, ma dei pensieri, delle angosce, dei progetti e della creatività: l’insonnia. Malattia affrontata in maniera funambolica e ambigua, cogliendo sia gli aspetti più negativi di sofferenza fisica e nervosa, sia quelli più affascinanti, legati alla libertà e alla rilassatezza creativa e di pensiero che chi è abituato a lavorare e a creare di notte conosce bene. Il regista originario di Brooklyn ci accompagna in questa discesa negli inferi dell’insonnia – o se preferiamo in questa salita verso un luogo malsano ma estremamente affascinante – con un documentario, al solito, fantasioso, complesso, vivace e stratificato, ambiguo come l’approccio dell’autore verso il proprio disturbo. È certamente un documentario autobiografico con le dichiarazioni dell’autore e le considerazioni dei medici specialisti da lui frequentati, così come non mancano le cronache in presa diretta (che ricordano le atmosfere di genere horror in stile Paranormal Activity, 2007) delle notti passate a girarsi nel letto, con relative reazioni infastidite della moglie, svegliata in piena fase REM dalla luce della cinepresa. Wide Awake è però soprattutto una sorta di flusso di coscienza ravvivato da continue selezioni di immagini di repertorio che, rafforzate dal sagace e fondamentale uso del montaggio visivo (curato dallo stesso Berliner) e sonoro, raccolgono da vecchi film, cartoni animati, servizi televisivi, documentari e spot pubblicitari le sequenze che diventano specchio e simbolo dell’ossessione del regista. Lo si nota fin dalle primissime scene, quando una velocissima carrellata di immagini di repertorio vede protagonisti di film spegnere la luce prima di dormire, seguita da uno scatenato susseguirsi di primi piani, sempre tratti da vecchi spezzoni, di sveglie che suonano. Alla realtà dell’autobiografia e dei tormenti personali si sovrappongono continuamente le testimonianze della finzione, soprattutto grazie al comparto sonoro che continuamente sconfina nel “campo” della realtà biografica; così, per esempio, il ticchettio delle lancette di una vecchia sveglia e il canto di un gallo in un cartone animato degli anni Venti diventano il sottofondo delle dichiarazioni e delle testimonianze del regista. Alan Berliner realizza in questo modo un’affascinante opera d’arte che non dà punti di riferimento né “narrativi” né d’impostazione, e che proprio in questo caos, simile a quello del fiume di pensieri che aggredisce nelle veglie notturne, trova il suo fascino e la sua efficacia. Pure con una giusta dose di divertimento, attraversato da una costante vena ironica e autoironica, Wide Awake coglie appieno l’essenza di un’ossessione e del rapporto ambivalente che chi ne diventa vittima prova verso l’ossessione stessa. Assolutamente consigliabile a questo punto la visione di Wide Awake di notte, proprio quando magari non si riesce a dormire; o forse è meglio di no? Edoardo Peretti 91 FIRST COUSIN ONCE REMOVED (First Cousin Once Removed) Alan Berliner realizza un personalissimo ritratto di Edwin Honig, il suo “buon amico, cugino e mentore”, attraverso un viaggio sulla perdita di memoria e sull’Alzheimer. Honig, prima di essere cugino di Berliner, è stato un poeta, traduttore, critico e docente, e la sua carriera lo ha portato a ricevere numerose onorificenze soprattutto grazie alle traduzioni inglesi dei libri di García Lorca e Calderòn de la Barca. Berliner intervista Honig negli ultimi anni di vita, combattendo contro l’avanzare della malattia che porterà alla morte lo scrittore all’età di 91 anni nel 2011. A Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Ian Vollmer; Montaggio: Alan Berliner; Musiche: Miranda Hentoff; Suono: Doug Dunderdale, Ian Vollmer; Produzione: Shari Spiegel, Alan Berliner, Lisa Heller; Origine: USA 2013; Durata: 79’ Premi: International Film Festival Amsterdam (2012): Gran Premio per il Miglior Documentario 92 lan Berliner con First Cousin Once Removed riesce a realizzare un documentario sofferto e tragico, senza però scadere nel patetismo e nella commiserazione. Ci fa conoscere Edwin Honig, scrittore e docente, attraverso un racconto originale seppur nella sua dolorosa realizzazione. Una cronaca monca, o meglio priva di linearità come è la vita di chi convive con una malattia degenerativa. Scegliere di non mostrare solo il decadimento del corpo, ma reiterare le risposte alle domande nei vari stadi della malattia saltando negli anni, è una formula che, se all’inizio destabilizza, man mano che la narrazione procede acquista sempre più forza comunicativa. È quasi dichiarato l’imbarazzo iniziale nell’affrontare la vicenda, un imbarazzo lecito e comprensibile che chiunque potrebbe misurare sulla sua pelle. I dubbi arrivano subito, all’inizio del film, attraverso le parole dei parenti e degli amici, che a più voci sottolineano la possibile umiliazione riconoscendo però la fascinazione del trattamento. Berliner supera tutte le titubanze in modo elegante, senza nascondere le sproporzioni della vita; Honig risponde alle domande ogni giorno, ma l’iniziale routine del gesto viene ammazzata dalla forza della malattia. C’è solo una certezza: l’Alzheimer cancella tutto ma, come ogni tipologia di Arte, il Cinema è un mezzo per non far dimenticare e produrre una testimonianza per il futuro. L’impossibilità di ricordare viene vinta dalla realtà: durante le conversazioni, quando la mente non ricorda vengono utilizzate le foto, i video sul computer, le parole scritte, come a dimostrare che “se non ci credi non resta che provartelo”. Una battaglia contro gli scherzi del cervello: toccante a tal proposito la sequenza in cui Honig non ricorda il significato della parola “amore”, lui che nella vita ha dimostrato di averne a profusione sia per i suoi cari che per il proprio lavoro. Sembra scontato dirlo, ma una delle componenti più interessanti che fuoriescono dalla visione di First Cousin Once Removed è il rapporto che cresce tra infanzia e vecchiaia. L’uomo malato, peggiorando, si vede regredire quasi alla fanciullezza, riuscendo a rapportarsi al meglio con il figlio del regista che, come lui, sta imparando a vivere e a conoscere il mondo. Berliner non censura, anzi ci mostra la “cattiveria” della vita quotidiana, in cui anche una semplice mossa può scatenare il dramma, e per sottolineare questo usa un montaggio nervoso, quasi avanguardistico, che si serve di suoni e immagini simboliche (crolli, fulmini, tuoni) per raffigurare il crepuscolo. First Cousin Once Removed è però soprattutto la storia di un uomo attraverso le testimonianze di chi gli è stato accanto. L’infanzia, gli onori, gli oneri, l’amore, lo studio, la vecchiaia, la gioia e il sopravvento della rabbia e della solitudine: tutti tasselli di un ideale puzzle che forma la figura di Honig attraverso, ironico dirlo, il ricordo. Un trattato su come un individuo possa perdere la memoria del passato, ma allo stesso tempo riesca a formulare pensieri importanti sul mondo e sulla variabile umana, come se non fosse successo mai niente. Un progetto personale e intimo ma che parla a tutti, soprattutto a chi ha perso la speranza nel genere umano. Andrea Moschioni Fioretti 93 Assieme ai film, durante il 34. Premio “Sergio Amidei” saranno proiettati tutti i cortometraggi firmati da Alan Berliner: Patent Pending (id., 1975, b/n, 11’, v.o.) Four Corner Time (id., 1976, b/n, 40’, v.o.) serie di quattro cortometraggi: Line (b/n, 8’), Perimeter (b/n, 11’), Traffic Light (b/n, 10’), Intersection (b/n, 11’) Color Wheel (id., 1976, col., 20’, v.o.) Lines of Force (id., 1979, col., 7’, v.o.) City Edition (id., 1980, b/n, 10’, v.o.) Myth in the Electric Age (id., 1981, col., 13’, v.o., commento di Marshall McLuhan) Natural History (id., 1983, col., 13’, v.o.) Everywhere at Once (id., 1985, col., 10’, v.o.) 94 Spazio Off 95 N el XX Secolo l’umanità ha generato una quantità di registrazioni – fotografiche, video, audio – prima inimmaginabile. Spesso a scopi di documentazione o a scopi artistici, spesso per l’industria, culturale e non, spesso per puro divertimento, ma ogni volta un uomo, più o meno coscientemente, ha sottratto un istante irripetibile al fluire del tempo. Trasferendolo su di un supporto, sottoponendolo a una codifica, ciascuno di quegli istanti è stato “desensibilizzato”, non potrà mai più essere ri-vissuto come esperienza reale, ma solo attraverso una rappresentazione. Esplorare oggi questo mondo di tracce vuol dire rinunciare all’idea che ciò che ci precede sia definitivamente passato: tutto può essere reso “presente”, revitalizzato. Nel Fedro di Platone si legge che la scrittura “ingenererà l’oblio”: affidandosi alla parola scritta, gli uomini “cesseranno di esercitare la memoria”, dove con scrittura si intende ogni tipo di memorizzazione esterna all’uomo che si ritiene affidabile. Tutte le registrazioni, questo enorme archivio di passato che non vuol passare, aiutano quindi la memoria, “luttuosa per essenza” (Derrida), o la delegano a passivi supporti extra-umani poco visitati? E visitandoli saremmo capaci di ridare al ricordo i contorni esatti necessari alla comprensione? Possiamo insomma davvero dialogare con ciò che è assente? I tre documentari dello Spazio Off di questa edizione del Premio Amidei cercano fortemente questo dialogo. La sezione, come sempre incentrata sul cinema italiano indipendente, quest’anno parla al femminile con le opere di Penelope Bortoluzzi, Fatima Bianchi e Maria Giovanna Cicciari. Tre giovani autrici che hanno spaziato dal documentario più puro, a forme più simboliche, alla video arte. Le tre opere qui presentate differiscono molto per approccio e mezzi: c’è chi punta tutto sull’immagine, chi sulla parola come testimonianza o sulla potenza dei suoni, chi fa rivivere video d’archivio o immagini fotografiche. Tutte però sono accomunate da un vuoto da riempire, una certa paura di perdere qualcosa, una volontà ingenita di trattenere ciò che svanisce. Non siamo su terreni distanti dall’Alan Berliner cui è dedicata la retrospettiva nella sezione parallela. Nella sua poetica tutto attinge o fa riferimento all’archivio di memorie “acquisite senza essere comprese” (Freud) che, grazie a un montaggio sopraffino, riesce a resuscitare barthesianamente. In quest’operazione la memoria individuale, ombra di quella collettiva custodita nell’archivio suddetto, prende sostanza e si universalizza. L’archivio privato di Berliner, visibile in Wide Awake (2006), è un capolavoro di ordine ma allo stesso tempo un’esteriorizzazione di qualcosa di compulsivo, qualcosa di simile a un horror vacui dell’uomo contemporaneo nell’atto di guardarsi indietro o di guardarsi dentro. In quest’accezione fotografare, fare cinema, trattenere in archivio, sono operazioni postmoderne di conservazione della specie, di salvezza dal vuoto. Il paese di Erto, che si aggrappa alla sua Passione per sentirsi vivo e solido, ha la stessa delicatezza e lo stesso timore degli archeologi che in Hyperion (2014) alzano un’antica colonna; la silente attesa del viaggio in traghetto della Cicciari è la stessa che si respira nella casa di Fatima Bianchi. Sono tutti tentativi di salvezza dal vuoto, cui si oppone una ricerca di senso e di realtà realizzabile. Ecco allora il fascio di luce che in Tyndall (2014) scandaglia il buio dei boschi con la stessa testardaggine di Berliner nel convincere il padre, in Nobody’s Business (1996), che anche la sua vita può essere interessante. Il found footage elimina la distanza tra assente e presente, esaltandone la continuità e la possibile convivenza: è lo strumento principe per recuperare le memorie “scritte” e ridar loro efficacia. In un certo senso possiamo, con queste opere, confutare Platone e dar ragione al Proust de La Recherche secondo cui “la realtà non si forma che nella memoria”. Quindi sì, dialogare con l’assente è possibile, e anzi, in questo caso, è fecondissimo. Erasmo De Meo 97 INTERVISTA a maria giovanna CICCIARI L a milanese Maria Giovanna Cicciari realizza un filmviaggio, personale e rigoroso, che rielaborando un illustre spunto letterario, viene messo a confronto con le fascinazioni del found footage e dell’home movie. Capace di trasfigurare la percezione di un tempo e di un luogo, quella Grecia classica culla della civiltà europea, Hyperion punta a interrogare la crisi del presente e a offrire, tra le trame di una struttura sperimentale, una proposta di riscatto per l’individuo contemporaneo, un viatico di conoscenza che passi per il rispetto dell’umanità tutta e l’amore per la natura. Il tuo documentario si propone, a un tempo, come rielaborazione e omaggio all’omonimo romanzo epistolare del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (1770 - 1843). Qual è il tuo rapporto con l’Hyperion di Hölderlin e quali ragioni interne al testo hanno ispirato il film? Ho letto Iperione – L’eremita in Grecia per la prima volta circa due anni fa. Conoscevo Hölderlin come autore per la sua opera poetica, e attraverso i film di Straub e Huillet. La lettura di Iperione, che è il primo e unico romanzo di Hölderlin, è arrivata grazie ad un articolo di Godard dedicato a Mediterranée di Jean-Daniel Pollet raccolto nel volume curato da Roberto Turigliatto e Michel Demopoulos, per la retrospet- 98 tiva dei suoi film che si era tenuta a Torino. Godard definiva Pollet un moderno Iperione, perché capace di creare “un mondo che si accorda con i suoi desideri”. Da qui si è smosso qualcosa, volevo fare un film che parlasse della Grecia, non di quella contemporanea che in quel periodo era l’occhio del ciclone della crisi economica, ma di quel luogo immaginario dove la nostra civiltà ha trovato una casa accogliente per le sue fantasie più nobili e anche più irreali. Volevo parlare di un luogo che esiste e non esiste, che ha confini spaziali che sono percorribili ma non corrispondono quasi mai alle parole che nei secoli li hanno descritti: la Grecia di Iperione è questo luogo, sospeso fra il reale e l’immaginario, e da qui sono partita. Un aspetto fondamentale del film è il suo impianto sperimentale, che colpisce per la profonda integrità poetica con cui si dispiega. Quali sono i materiali che compongono il lavoro e quali i criteri con cui hai progettato la sua struttura? La prima parte del film è fatta di inquadrature di diversa provenienza geografica e temporale dedicate al paesaggio e alla storia greca. La seconda è il piano sequenza dedicato alla tratta di mare fra Salamina e Perama. Nella prima parte le immagini si mescolano, si perdono, ritornano e si riordinano: è il tempo della memoria. La seconda parte è un piano sequenza, in cui l’esperienza dello spazio e del tempo coincidono, riportando (forse) al presente. Ispirandomi al romanzo ho pensato che il mio Iperione, il mio sogno della Grecia, potesse partire dalle fonti iconografiche di Hölderlin e potesse passare attraverso la memoria non ufficiale, la memoria filmica “amatoriale” della Grecia. Così ho filmato le illustrazioni del libro Voyage pittoresque de la Grèce e le ho messe a confronto con due film di found footage: un film “archeologico” che si intitola Triumph Over Time (1947) e un home movie di viaggio, in cui si riconoscono i meravigliosi colori della pellicola Ektachrome. Queste immagini della “Grecia vista dallo straniero” sono unite da immagini dedicate alla natura, la cui contemplazione è il cuore portante del romanzo. Ho poi infine lavorato sul testo, utilizzando alcune parti del romanzo e alcuni stralci di corrispondenza che Hölderlin scrisse durante la sua lavorazione. Dalla storia di Iperione emerge il dissidio dell’uomo moderno, alla ricerca di una piena armonia con le forme del mondo: in che modo questa riflessione riguarda anche la contemporaneità? Se penso al romanzo, al di là del film, e lo riporto all’unica contemporaneità che posso illudermi di comprendere, che è quella della mia vita, credo che l’aspetto che trovo più attuale sia soprattutto la forte e necessaria attenzione alla natura, alla terra in cui viviamo. La natura è ciò che salva l’anima ferita del protagonista del romanzo, ed è quello che, lo stiamo forse comprendendo, salverà anche noi come specie. Il secondo aspetto è forse quello più difficile da spiegare. Hölderlin parla di una “nuova umanità”, una nuova era dell’uomo che sta per arrivare. Questa idea di una “nuova umanità” nel romanzo è stata interpretata in diversi modi nel tempo: durante il nazismo, migliaia di copie di Iperione, epurato dagli aspetti più scomodi, erano state inviate ai soldati tedeschi sul fronte di Stalingrado per incitarli alla battaglia. Per fortuna questa “nuova umanità” non è stata sconfitta, e le inquadrature di Straub e Huillet ai “figli della terra” ne La morte di Empedocle sono state capaci di ridarvi un senso nuovo, tutt’ora per me vivo: l’amore per l’essere umano e di conseguenza l’amore per la natura; è la possibilità di fallire e di rialzarsi, è l’elogio della debolezza come via di conoscenza. Quali sono gli snodi della tua formazione? Io ho una formazione soprattutto teorico-letteraria, che ho poi completato a Brera (Milano) nel corso di Cinema e Video. A livello tecnico posso dire di essere un’autodidatta, verso la tecnica vivo una certa continua forma di soggezione attiva che sto cercando di comprendere ed analizzare attraverso la lettura di testi di pratica cinematografica femminista. Il Filmmaker di Milano è stato il festival che ho frequentato di più, essendo il miglior festival di cinema della città in cui abito e quello che ha supportato e mostrato i miei primi lavori. Le persone che lavorano a Filmmaker, oltre che gestire un evento, sono degli interlocutori presenti e disponibili per chi fa cinema a Milano. Per me che lo faccio quasi da sola è sempre importante avere un confronto con chi può comprendere e conosce dall’inizio il mio percorso. Qual è la tua idea di cinema? Questa è una domanda che mi mette davvero in crisi. Se devo rispondere come spettatrice, dico che il cinema mi piace tutto, dai suoi usi più selvaggi a quelli più raffinati, da quelli più domestici a quelli più avveniristici, dalla pellicola al digitale. Se poi penso ai miei film, non saprei, sto cercando di sviluppare un linguaggio provando ad essere il più possibile fedele a me stessa, alla mia felicità nel lavorare con le immagini tentando, anche nella sperimentazione, di non allontanarmi da un possibile contatto comunicativo con un eventuale pubblico. Sono solo all’inizio, credo di essere ancora giovane e poco esperta. Posso dire che il cinema è un meraviglioso momento di uscita da sé e dal tempo quotidiano e guardare e sognare sono sempre state le mie due attività preferite. A cura di Marco Longo, 6 dicembre 2014 99 HYPERION Iperione, nell’omonimo romanzo epistolare di Friedrich Hölderlin pubblicato a fine Ottocento, torna in Grecia dopo lunghe peregrinazioni, profondamente cambiato. Quel suolo suscita in lui “gioia e dolore”, vi ritrova la soprannaturale bellezza ma ne avverte l’irrimediabile decadenza. La regista Maria Giovanna Cicciari compie quello stesso viaggio ideale, alla ricerca di quella Grecia che abita solo l’immaginario occidentale, consapevole della sua irraggiungibilità. Un luogo e un tempo che hanno lasciato più tracce negli uomini che sulla terra. L’ Regia: Maria Giovanna Cicciari; Soggetto: Maria Giovanna Cicciari; Sceneggiatura: Maria Giovanna Cicciari; Fotografia: Vassily Bourikas, Maria Giovanna Cicciari; Montaggio: Maria Giovanna Cicciari; Suono: Yannis Yaxas, Massimo Mariani; Musiche: Gérard Pesson; Produzione: Maria Giovanna Cicciari, LabA; Origine: Italia/ Grecia 2014; Durata: 40’ 100 azzurro del cielo e delle acque, il mare ed i fiumi che tanta parte prendono in quest’opera, secondo la mitologia greca discendono tutti da Oceano, il dio-fiume che avvolge il mondo, indicato da Omero come l’origine di ogni presenza divina. Ma Oceano è una divinità relegata a distanze disumane, ai confini di ogni cosa, sempre al di fuori di ogni vicenda divina e terrena. Qualcuno pone l’isola di Ogigia, dove Odisseo risiedette per lunghi anni con Calipso prima di riprendere il suo viaggio, nello stesso luogo indefinito di Oceano. Quante volte da lì lo sguardo di Odisseo scruta l’orizzonte verso la propria terra, le proprie origini, con quel dolore legato alla voglia di ritorno che noi moderni chiamiamo nostalgia. È con lo stesso sguardo che Hölderlin guarda alla Grecia che non visitò mai, affidando le proprie osservazioni al viaggiatore Iperione. Il nome è ripreso da un altro Titano, fratello di Oceano, il cui nome sta per “colui che si muove più in alto”, legato al sole, alla luce, alla visibilità. Ma l’Iperione di Hölderlin non può semplicemente guardare, è costretto a guardare oltre: per sfuggire dal “pantano”, dalla “bara”, dalla solitudine, il suo sguardo raggiunge il sogno, la memoria. Maria Giovanna Cicciari sfida questo paradosso: si mette in viaggio guidata da un personaggio che non vorrebbe guardare, verso un luogo lontano e irraggiungibile come il fiume Oceano o come Ogigia stessa. Apre l’opera l’immagine di un frammento di un’iscrizione greca, un dito scorre il testo corrotto dal tempo con la sicurezza di chi stia leggendo agevolmente. Sembrano essere le indicazioni del viaggio, l’inizio del racconto, l’oggetto della ricerca. Nell’immagine successiva siamo su una piccola nave, l’occhio è puntato sulla scia che increspa il mare e confonde il riflesso del sole: siamo partiti ma stiamo lasciando qualcosa, forse la comprensibilità di quel testo e le istruzioni per raggiungere “quella” Grecia. L’acqua consuma, scava, muta forma alle cose, la sua onnipresenza in Hyperion indica probabilmente questa funzione erosiva di ogni cosa che è stata. La regista tenta più itinerari: il film d’archivio amatoriale, un antico libro, delle riprese di uno scavo archeologico. Raccoglie tutti questi passi in un unico cammino, un’unica direzione, un unico rullo di pellicola, per eccellenza materia soggetta al tempo, all’erosione, alla dimenticanza. Ad ogni materiale viene dato il giusto spazio, il giusto tempo: il tempo che richiede una stampa densa di dettagli, il tempo che richiede una ripresa fissa in un ambiente naturale, il tempo che richiede un volto di donna antica. Tutto è placido, sospeso, misterioso, persino olimpico. Nella seconda parte dell’opera la Cicciari rinuncia alla pluralità e si affida ad un unico piano sequenza in cui una telecamera fissa mostra il viaggio tra Paro e Salamina all’imbrunire. L’occhio è rivolto a prua, si guarda avanti, non si sta lasciando, si sta conquistando, ma la luce ora descrive, ora trasfigura con uno sviluppo che vira sul verde, ora viene a mancare fino a rendere il tutto inconoscibile: il blu di Oceano è diventato il nero del Tartaro in cui ogni memoria muore. Il viaggio, come per Iperione, ci ha ridato una vista meno capace, ma ora sappiamo guardare in faccia l’incolmabile distanza tra noi e una memoria possibile. La Grecia Antica ha una voce che non sappiamo più ascoltare – quando il voice over è assente non resta che silenzio – ma di cui da secoli sentiamo il bisogno, il vuoto che reclama attenzione. Erasmo De Meo 101 LA PASSIONE DI ERTO Erto, un paese delle Alpi friulane. Alla fine degli anni Cinquanta, nella sua valle impervia viene costruita la diga del Vajont. Nel 1963 un versante del monte Toc precipita nel lago artificiale della diga, provocando un’ondata che uccide quasi duemila persone. Gli ertani non hanno mai smesso di mettere in scena la Passione di Cristo. Ogni anno, da tempo immemorabile, la sera del venerdì santo un Cristo ertano viene tradito, condannato e crocifisso, mentre la Storia va avanti con le sue costruzioni e distruzioni, le sue vittime e i suoi sopravvissuti, i suoi calvari reali e immaginari. L Regia: Penelope Bortoluzzi; Soggetto: Penelope Bortoluzzi; Sceneggiatura: Penelope Bortoluzzi; Fotografia: Penelope Bortoluzzi, Stefano Savona; Montaggio: Penelope Bortoluzzi; Suono: Jean Mallet, Xavier Thibault; Produzione: Picofilms, À Vif Cinémas, Dugong Production; Origine: Francia/Italia 2013; Durata: 78’ 102 e strade di Erto, riprese dall’occhio oggettivo della macchina da presa, sono vuote, buie, spoglie. Molte volte nel cinema un luogo vuoto presume una sorpresa, una forma di vita che spunti qui o lì, invece le gialle luci dei lampioni di Erto sono immote come le pietre delle case, non verranno interrotte così come il silenzio. Ci sono poche cose drammatiche, dolorose, che inducono alla riflessione quanto un paese abbandonato, ma Erto è di più, è un paese che non si è arreso: la tremenda onda del Vajont fu una condanna a morte, ma le fondamenta delle case, delle chiese erano radicate in quel luogo, conficcate come i chiodi nelle mani del Cristo. Gli abitanti di Erto hanno sfidato e superato la legge, la predestinazione, hanno tenuto stretta la loro vita fatta di terra e miseria e sono scesi dalla croce con le proprie gambe, hanno ripreso il cammino con il pesante legno sul dorso, verso un Calvario ancora più lontano e alto, quello del ricordo e della memoria evanescente. La perpetuata tradizione della Passione, la tenacia con cui è stata portata avanti, con orgoglio e dignità, sono state un simbolo potente di unità e di reazione dopo la tragedia, quasi da trasferire nella passione cristiana le proprie sofferenze in cerca di liberazione, realizzando nella rappresentazione un involontario atto catartico. Tanto più che la spùa (così in dialetto è nominata la Passione) vista la sua tradizione secolare si era già così mimetizzata nel paese, nel suo popolo, da aver assunto nel tempo caratteri non solo religiosi. Una parte del documentario è affidata infatti a immagini amatoriali e alla lettura di scambi epistolari tra parroci, vescovi e autorità civili, che mettono in luce il carattere più folcloristico e meno ortodosso che ha avuto nel passato la rappresentazione, più volte interrotta, criticata, ritenuta non conforme e poi riabilitata grazie alle pressanti richieste degli abitanti di Erto. Basti confrontare gli abiti, in passato vistosi, improvvisati, dove non mancano attributi del tutto fuori luogo, con quelli della attuale rappresentazione, così studiati da permettere una riproduzione in quadro vivente della leonardesca Ultima cena. Oppure si può guardare a quegli elementi che la tradizione ha aggiunto attraverso la creazione schietta e collettiva tipica dei fenomeni popolari, come il perenne battere di tamburi che accompagna gli attori lungo la Via Crucis. “È il tormento di Cristo” spiegano gli ertani, quello stesso tormento rabbioso che accompagna le interviste d’epoca alle donne e agli uomini che volevano restare in paese e vivere “nelle fatiche dei padri”. Bortoluzzi organizza i materiali alternando la ricostruzione della triste vicenda alla costruzione della spùa filmando le prove degli attori, i preparativi e i momenti di pausa. Colpisce il volto dei personaggi, capace di passare dalla distensione della quotidianità all’impassibile serietà di chi quel ruolo l’ha fatto così tante volte da sentirlo naturalmente proprio. I ragazzi assistono alle prove, qualcuno recita il labiale delle battute già con un’intensità che prefigura i futuri interpreti. Una delle preghiere che si ascoltano nel documentario recita “Chi casca in acqua non potrà annegare”. Lentamente le memorie dirette del disastro si affievoliranno, verranno ricoperte da un banco di nuvole, il calvario sarà raggiunto ma per pattinarci su, come fa una ragazza nell’ultima inquadratura, e la finestra di legno resterà chiusa su quella croce portata nella casa assieme ai tamburi. Gli ertani non sono annegati. Erasmo De Meo 103 TYNDALL Sulle montagne di Brunate, nel comasco, un faro illumina il paese e il lago. Tra le case che la luce individua nella notte, quella della famiglia Bianchi è abitata dal silenzio e dalla sospensione: padre, madre e figli attraversano lentamente il quotidiano, fra gesti minimi e tempi morti, ciascuno testimoniando il proprio rapporto con un’assenza, quella di Francesco, primogenito, costretto in carcere da un periodo di reclusione. A lanciare l’ipotesi di una comunicazione sono le lettere che ogni membro della famiglia scrive a Francesco, nell’attesa del suo ritorno a casa. L’ Regia: Fatima Bianchi; Soggetto: Fatima Bianchi; Sceneggiatura: Fatima Bianchi, Daniela Persico; Fotografia: Fatima Bianchi; Montaggio: Fatima Bianchi, Paolo Ranieri; Suono: Nicola Ratti; Musiche: Tilde; Origine: Italia 2014; Durata: 29’ Premi: Filmmaker Film Festival (2014): Primo Premio Sezione “Prospettive” Interpreti: Francesco Bianchi, Benedetta Bianchi, Pietro Bianchi, Fatima Bianchi, Maddalena Bianchi, Giacomo Bianchi, Emma Romanelli, Ermenegildo Bianchi 104 effetto Tyndall è quel fenomeno fisico, noto ai più ed eternamente gravido di mistero, dovuto alla presenza di particelle luminose nell’aria. Restituito spesso in fotografia, nel film di Fatima Bianchi alimenta un intento ben lontano dalla semplice fascinazione sensoriale: è un baluginio, un flare che dà forma al racconto, ne individua l’area di azione, scandisce il suo processo. È, a suo modo, la via attraverso cui l’invisibile, con tutto il suo carico di profonda ineffabilità, dolcemente si palesa e apre uno spiraglio al possibile cinematografico. Partendo dal faro che sopra Brunate illumina il lago di Como, la notte si concede al mattino e lo sguardo si restringe, entra nella casa della famiglia Bianchi e ne ritrae i componenti. Nessuno parla: il padre fa colazione, la madre indossa gli orecchini, i figli e le figlie praticano lo yoga, suonano il violino, si rasano i capelli, stendono lo smalto sulle unghie, intonando a mezza voce le canzoni di un passato felice. Il quotidiano perde presto la rassicurante parvenza della cronaca, perché ogni gesto, ogni minima relazione con la casa e con gli altri familiari, appare cristallizzato e rarefatto: le musiche e il suono, spesso attento al fuori campo, spingono il materiale filmico verso l’astrazione, mentre la messa in quadro ribadisce il proprio discorso, trasformando l’ordinario in un fiabesco fatto di riflessi luminosi, specchi, superfici opache, intorno a cui le ombre dei personaggi sembrano testimoniare la disarmante solitudine di un vivere a vuoto. L’assenza del primogenito tra i figli di casa Bianchi, Francesco, la sua reclusione in carcere per il periodo di un anno, sono il primo motore di questa fantasmatica sospensione, che non riguarda soltanto la dinamica interna alla consuetudine, ma un senso di fatale immobilità che il labirintico accumulo degli oggetti, feticci e rituali del tempo, tende a sottolineare. C’è qualcosa dell’Interno italiano di Luigi Ghirri nell’organizzazione visiva di certe inquadrature, ma in Tyndall l’uso della profondità di campo e del dettaglio, più che preservare l’immediatezza caotica dello spazio privato, sembra nutrire la messinscena di una crisi, di uno stallo. Le brevi, silenziose lettere che ciascun componente della famiglia scrive a Francesco, offrendo un punto di vista differente e un dolore personale rispetto alla sua condizione, portano dunque con sé il tentativo di fare ordine, di non attendere passivamente il ritorno a casa dell’amato figlio e fratello, di lanciare un messaggio nello spazio e nel tempo che sia punto di partenza per una rinascita. Anche la parola è fatta di luce, proiettata sulle pareti della casa, deformata dal passaggio di un suo abitante, ugualmente viva e resistente. Fatima Bianchi riprende il materiale più che intimo del suo racconto con una tecnica volontariamente amatoriale, fatta di incertezze nei movimenti di camera e rapidi cambi di fuoco: è la forma di una confessione a metà tra la biografia e la videoarte, fatta di tableaux vivants catturati senza la forzatura dell’artificio. Quando la testimonianza dell’intera famiglia si è esaurita, di nuovo la notte è scesa a ricoprire il paese. Lo sguardo è pronto a uscire dalla villa e tornare sul faro, sul suo raggio luminoso cui, magicamente, è connessa la voce limpida e chiara di Francesco: le sue parole tranquillizzano e placano lo smarrimento dei familiari. Prima ancora del ritorno a casa, la consapevolezza della sua presenza è la cura a ogni malinconia, il ponte per immaginare nuovamente il futuro. Marco Longo 105 Premio alla Cultura Cinematografica Irene Bignardi 108 I l Premio alla Cultura Cinematografica 2015 viene attribuito a Irene Bignardi, storica firma de La Repubblica, da considerarsi uno degli esempi più rappresentativi del giornalismo cinematografico puro, lontano dalle riflessioni teoriche della critica accademica ma, al contempo, in grado di emergere quale punto di riferimento orientativo e interpretativo per larghe fasce di spettatori. Al suo lavoro critico, Irene Bignardi ha coniugato la direzione artistica di importanti kermesse cinematografiche come il MystFest (1986 - 1989) e il Festival di Locarno (2001 - 2005), compresa la sua partecipazione nella commissione degli esperti della Mostra del Cinema di Venezia durante la direzione di Gillo Pontecorvo (1992 - 1996). Come omaggio, il Premio Amidei, partendo dal suo volume Il declino dell’impero americano: 50 registi e 101 film, propone il film dei fratelli Coen Barton Fink – È successo a Hollywood, originale riflessione sul processo creativo alla base di una sceneggiatura cinematografica, e Clerks – Commessi di Kevin Smith, che proprio alla sagacia dei suoi dialoghi e del suo script deve lo status di piccolo grande cult. 109 INTERVISTA a IRENE BIGNARDI Critica cinematografica (collabora con La Repubblica dal 1976), saggista, selezionatrice per la Mostra del Cinema di Venezia, direttrice artistica di festival (MystFest, Locarno), Irene Bignardi è celebre per il suo sguardo idiosincratico e appassionato (molto discussi furono i suoi strali contro Cronenberg), cui tuttavia non manca una visione analitica precisa e attenta all’interdisciplinarità, che la rende un personaggio chiave nella storia della critica cinematografica italiana. Lei appartiene a una generazione di critici la cui formazione non deriva da specifici corsi di laurea, ma – almeno in molti casi – dal lavoro sul campo. Ci può raccontare da dove nasce la sua passione per il cinema e quali sono i colleghi che più hanno influenzato il suo lavoro? Passione? Amore, forse. O meglio, vista la non esclusività del mio rapporto con il cinema (è una vita che me la faccio anche coi libri), amicizia. Anni fa sono stata accusata da un celebre e premiatissimo regista di non essere una “cinefila”. È vero. Sono una curiosa. Di cinema, ma anche di letteratura, di musica, di arte, di realtà, di tutte le cose che compongono quel prodotto speciale che chiamavamo film e che continua a chiamarsi così anche se, avendo perso il suo supporto fisico, dovrebbe cambiare nome. E sì, da “piccola” ero ahimé circondata da pericolosi cinefili, che non vedevano al di là dello specifico filmico, delle carrellate e di altre finezze che impediscono di vedere il film come è e sempre sarà: comunicazione popolare, romanzo, melodramma del 110 Novecento. E per questo riconosco come maestro un critico come Tullio Kezich, capace di incantare con la sua prosa, il suo modo di raccontare, la densità di ciò che sapeva mettere in una recensione anche piccola. Forse qualche volta si è sbagliato (ma chi lo stabilisce?). Ma certo non si sbagliava nel suo modo di dircelo. Lei ha ricoperto ruoli importanti in numerose manifestazioni cinematografiche: ha diretto il MystFfest di Cattolica e il Festival di Locarno e ha fatto parte della commissione di esperti della Mostra del Cinema di Venezia. Quanto è stata rilevante per la sua carriera e la sua formazione l’esperienza in questi festival, e quale ruolo, secondo lei, ricoprono attualmente i festival nel sistema distributivo cinematografico? A un film, per potersi metter in mostra, conviene di più passare per un festival o puntare sulle potenzialità (soprattutto economiche) del web? Una domanda che è una traccia per una tesi di laurea? Prima di tutto io non ho avuto una carriera, ma tanti anni di lavoro spesso felice. E ogni giorno mi sono messa nella posizione di chi stava studiando e imparando. Cosa piace al pubblico. Cosa piace ai colleghi. Come mettere insieme quello smörgåsbord, per dirla gastronomicamente, che è il palinsesto di un festival. E sì, i festival sono il motore della curiosità, il circuito più importante per la promozione. Ma forse sto parlando così perché sono ormai una vecchia signora che usa il computer solo per scrivere e trasmettere mail. Le sue pubblicazioni sono spesso dedicate agli autori: penso a Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo (Feltrinelli, Milano 2000) o al recente Brevi incontri (Marsilio, Venezia 2013). Secondo la sua opinione, la vicinanza con l’autore rappresenta il punto di partenza fondamentale rispetto all’analisi del film oppure vi sono altre istanze parimenti importanti? Assolutamente no. La vicinanza del critico con l’autore è pericolosissima, e porta a travisamenti e deformazioni del giudizio. E non faccio esempi perché sono una brava ragazza. La biografia, però, di un autore che ha fatto in tutto cinque film e mezzo (il mezzo è Giovanna) e che è diventato regista dopo una vita di altre cose, è un caso a parte. che quindi per una volta il critico ha il diritto/dovere di fare il moralista. Mi diverte comunque vedere che con venti righe su un mito cinefilo mi sono fatta ricordare per sempre dalla tribù dei suoi ammiratori. Il cinema oggi sta sconfinando verso nuove forme di esperienza spettatoriale che oltrepassano la classica visione in sala (penso ad esempio alla pratica dello streaming). Andare al cinema è ancora la modalità migliore di vedere un film? Sì. Al buio, con uno schermo grande, seduti non troppo lontani dallo schermo, ben in asse, e con un amico con cui confrontare le emozioni. Vi racconto questa: David Robinson, critico del London Times, biografo di Chaplin, direttore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone e, per fortuna mio amico, venne una volta a Roma per selezionare dei film per il Festival di Edimburgo che allora dirigeva. E mi chiese “in prestito” mio figlio, allora decenne, per vedere con lui un film comico. È difficile ridere da soli. Come applaudire con una mano sola. Il cinema non è un paese per solitari. A cura di Leonardo Cabrini, 13 giugno 2015 In una sua discussa recensione lei ha scritto, riguardo a un famoso regista, “Non c’è dubbio [...] che faccia parte dei diritti del critico e dello spettatore trovarlo presuntuoso, pomposo e ripugnante”. Secondo lei quanto è necessario per un critico conciliare la parzialità dello sguardo spettatoriale con l’obiettività di quello analitico? Quale delle due componenti è più importante? Se parliamo del signore che penso e del film che penso, beh, continuo e continuerò a pensare che è un grande cineasta e un cattivo maestro, e che il cinema ha delle responsabilità serie, e 111 BARTON FINK - È SUCCESSO A HOLLYWOOD (Barton Fink) USA, 1941. Barton Fink è un giovane commediografo di New York di ormai discreto successo. In virtù del suo interessamento ai temi sociali e all’uomo comune, decide di trasferirsi temporaneamente a Hollywood per scrivere la sceneggiatura di un film di boxe di serie B, tentato da un ottimo compenso. Sebbene opti per la scelta di un hotel decisamente poco mondano, Barton viene distratto dal rumoroso vicino di stanza Charlie e non riesce a concentrarsi: si trova così in difficoltà nella stesura del soggetto. Regia: Joel Coen, Ethan Coen; Soggetto: Joel Coen, Ethan Coen; Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen; Fotografia: Roger Deakins; Montaggio: Roderick Jaynes [Joel Coen, Ethan Coen]; Scenografia: Dennis Gassner; Costumi: Richard Hornung; Musiche: Carter Burwell; Produzione: Circle Films, Working Title Films; Distribuzione: FilmAuro; Origine: USA 1991; Durata: 116’ Premi: Festival di Cannes (1991): Palma d’Oro al Miglior Film, Miglior Interpretazione Maschile (John Turturro), Miglior Regia (Joel Coen, Ethan Coen); David di Donatello (1992): Miglior Attore Straniero (John Turturro) Interpreti: John Turturro (Barton Fink), John Goodman (Charlie Meadows/Karl Mundt), Judy Davis (Audrey Taylor), Michael Lerner (Jack Lipnick), John Mahoney (William Preston Mayhew), Tony Shalhoub (Ben Geisler), Jon Polito (Lou Breeze), Steve Buscemi (Chet), Richard Portnow (detective Mastrionotti), Christopher Murney (detective Deutsch) 112 I l film di Joel ed Ethan Coen, che vinse nel 1991 la Palma d’Oro al Festival di Cannes, è il racconto onirico della frustrazione di un autore in preda ad un “blocco creativo”. I fratelli Coen mescolano come al solito vari generi cinematografici: noir e commedia si intrecciano attraverso l’horror o l’onirico. Il protagonista Barton si fa tentare dall’ingente somma di denaro offertagli dal produttore Jack Lipnick (un magnate analfabeta) e per questo lascia le sue sicurezze newyorkesi per la sciatta società hollywoodiana, dedita ai party e lontana dalle sofferenze dell’uomo comune. La sua presunzione di interesse per l’uomo semplice fa però in modo che venga preso in giro dal vicino Charlie, nonostante cerchi di mettersi letteralmente “nelle sue scarpe”. Non solo, si fa anche sedurre dalla bellezza algida di Audrey, donna d’altri tempi che ricorda Lauren Bacall e ghostwriter di un marito di successo, dipendente dall’alcol. L’idea dello scrittore genio (che invece piace tanto al “filisteo” Lipnick) viene smontata e ridicolizzata: W.P. Mayhew (ispirato liberamente allo scrittore, poeta e drammaturgo William Faulkner) vomita, urina in pubblico, schiaffeggia la moglie e impreca in preda alla sbornia. Lo stesso Barton è un individuo privo di verve, incapace di confrontarsi e di esprimersi direttamente. Charlie, figura all’apparenza bonaria e sincera, lo tratta da subito come se fosse un amico, piuttosto invadentemente si insinua nell’intimità della sua camera d’albergo e gli racconta la sua ordinaria vita. Gli incontri tra i due, vicini di stanza, avvengono però solo in quella di Barton, un luogo che è il corpo orrorifico di tutta la vicenda. Il grottesco qui, nell’intimità della stanza (o della mente, in maniera simbolica), trasuda attraverso sensazioni costruite con l’uso attento del sonoro e dell’immagine: l’atmosfera si riscalda pian piano lasciando che dalle pareti si sciolga la colla e si stacchino le carte da parati, si sentono rumori continui e forti: una zanzara (che però ad Hollywood non dovrebbe esserci), la ventola, la coppia che geme in una stanza, lo stesso Charlie che ride con una risata mefistofelica. L’Hotel Earle che accoglie Barton è una specie di luogo infernale – Steve Buscemi infatti arriva alla reception direttamente da sottoterra – apparentemente vuoto, fatta eccezione per gli stessi Charlie e Barton. Forse siamo allora dentro la testa di Barton, o in un suo sogno: questi infatti trova una Bibbia (e il testo sacro non poteva mancare ai Coen) in cui la Genesi inizia esattamente come la sua pièce teatrale di successo: “Fade in [...] Lower East Side...”. Il calore continua a salire fino a che non esplode letteralmente: Barton crede di avere scritto “la” sceneggiatura, ma questa (che inizia e finisce esattamente come la sua opera teatrale) non piacerà. Non riuscirà dunque a fare la differenza, poiché non è nel cinema che Barton potrà trovare il suo pubblico impegnato. Nell’incipit sentiamo recitare la sua commedia: qui si dice che la stessa luce del giorno può essere un sogno, se la si è vissuta ad occhi chiusi. Barton, nella sua incapacità di vivere e agire, di ascoltare veramente (Charlie glielo urla contro), vive come in un sogno. E se gli attori della sua rappresentazione parlano di un uomo di cui un giorno si sentirà parlare, e non grazie ad una cartolina, paradossalmente la fine di Barton è proprio questa: finire dentro una cartolina. Nicole Braida 113 CLERKS - COMMESSI (Clerks) Il commesso di alimentari Dante e il collega Randal passano le proprie giornate cercando di affermare se stessi, senza impegnarsi e pensarci troppo. Assieme ad un gruppo di strambi amici vivono la routine che riguarda lavoro, frequentazioni varie e amori (o presunti tali) andando a caccia di un modo per sentirsi realizzati. I diversi capitoli che si susseguono rappresentano un variegato ventaglio di accadimenti e circostanze che nel giro di ventiquattro ore accompagnano i giovani, finendo col forgiare – volenti o nolenti – le loro esistenze. K Regia: Kevin Smith; Soggetto: Kevin Smith; Sceneggiatura: Kevin Smith; Fotografia: David Klein; Montaggio: Scott Moisier, Kevin Smith; Musiche: Scott Angley; Produzione: View Askew Productions, Miramax; Distribuzione: Mikado; Origine: USA 1994; Durata: 92’ Premi: Festival di Cannes (1994): Premio Mercedes-Benz al Miglior Film della Settimana della Critica Interpreti: Brian O’Halloran (Dante Hicks), Jeff Anderson (Randal Graves), Marilyn Ghigliotti (Veronica Loughran), Lisa Spoonauer (Caitlin Bree), Jason Mewes (Jay), Kevin Smith (Silent Bob), Scott Mosier (William Black), Al Berkowitz (vecchietto), Ernest O’Donnell (Rick Derris), Kimberly Loughran (Heather Jones), Ed Hapstack (Sanford), John Henry Westhead (Olaf), Scott Schiaffo (rappresentante), Thomas Burke (operaio), Ken Clark (funzionario) 114 evin Smith esordisce alla regia con Clerks – Commessi nel 1994, nello stesso anno del cortometraggio di Wes Anderson Bottle Rocket. Non è un caso, dopo tutto, questa coincidenza cronologica: è solo la Generazione X che inizia a guadagnarsi un posto di rilievo nell’immaginario collettivo. Come la generazione dei giovani ribelli della Nouvelle Vague francese negli anni Sessanta ha proposto una serie di pietre miliari della storia del cinema, cercando di affermare prima di tutto se stessa, così a metà degli anni Novanta negli Stati Uniti d’America un gruppo di ragazzi in preda alle grandi domande della vita tentano di trovare una via di accesso ad un’esistenza che li soddisfi. La ricorrenza del bianco e nero, dei cartelli francofili e di alcune sequenze ricorrenti (corse a perdifiato, dialoghi vuoti a proposito di film e serie tv) richiamano quella ricerca di libertà e affermazione personale che costituisce una chimera per gli stessi protagonisti del film. I personaggi si nutro- no, in senso figurato e non solo, di pellicole campioni di incassi e icone culturali contemporanee, non riuscendo ad assumersi le proprie responsabilità, preferendo nascondersi al buio e nella solitudine (unico modo per avere rapporti sessuali soddisfacenti) piuttosto che confrontarsi con il mondo esterno e il cambiamento della crescita. Lontano dalla raffinatezza di enunciazione visiva e sonora del sopraccitato Wes Anderson, Kevin Smith produce un film spietato nella creazione dei suoi episodi, continuamente correlati all’inettitudine e all’ignavia dei suoi personaggi principali. Incapaci di vivere rapporti umani e compiti quotidiani in maniera adeguata, i giovani si barcamenano arrivando, ora dopo ora, a fine giornata. In questa ricerca di senso realistico e non edulcorato, il regista compone un panorama di immagini e caratteri tra i primi del genere a imporsi nell’immaginario collettivo cosciente del pubblico. Nel microcosmo autonomo a sé stante del “View Askenverse”, Jay e Silent Bob (interpretato dallo stesso regista) e i loro compagni di avventure/sventure diventano parte di un universo cinematografico ante litteram, sviluppato all’interno di una casa di produzione come solo nelle ultime produzioni Marvel si è visto. Innovazione e realismo al punto giusto, considerati come appartenenti a stereotipi culturali molto lontani da quelli presentati da Clerks e soprattutto da quelli perseguiti da Smith nei film successivi (almeno fino alla distorsione intellettuale di Tusk, 2014), hanno fruttato al regista riconoscimenti di alto livello. Ricorrendo all’idea del regista e della troupe che si occupa in toto di più aspetti della produzione filmica, Clerks si fa portavoce della generazione presentata sia fuori che dentro lo schermo, avvalendosi di richiami aulici e letterari (dalla già nominata Nouvelle Vague all’Inferno dantesco) che acuiscono ancora di più la giustapposizione tra aspirazioni e realtà, tra ambiente quotidiano e progetti da realizzare. La forza con cui Clerks si è impresso nella collettività è proprio dovuta a questa vicinanza con la generazione posta di fronte allo schermo e a una potenza visiva che, oggettivamente, è difficile ritrovare anche nei film successivi del regista. In altre parole, Clerks codifica come difficilmente prima di allora era successo il disagio di una generazione, un malessere quasi inedito per il cinema indipendente americano dell’epoca. Teresa Nannucci 115 116 Eventi Speciali 117 Amidei Kids Un film fuori dal gregge C ome da tradizione, l’edizione 2015 del Premio “Sergio Amidei” propone al pubblico di bambini e ragazzi un’esperienza cinematografica che li avvicina all’emozionante mondo del cinema. Nell’anno in cui il Premio, per la prima volta, dedica una sezione alla serialità televisiva, la scelta non poteva che ricadere su Shaun, vita da pecora – Il film, sbarcato su grande schermo dopo ben 120 episodi televisivi. I pupazzi in plastilina animati in stop motion dai maestri dello Studio Aardman (Galline in fuga, Wallace & Gromit) conquistano tutti con le loro gag comiche senza bisogno di parlare. Perché il vero cinema sa emozionare e divertire anche senza effetti digitali. Martina Pizzamiglio SHAUN, VITA DA PECORA - IL FILM (Shaun the Sheep Movie) Regia: Mark Burton, Richard Starzak; Soggetto: Nick Park, Mark Burton; Sceneggiatura: Mark Burton, Richard Starzak; Fotografia: Charles Copping, Dave Alex Riddett; Montaggio: Sim EvanJones; Musiche: Ilan Eshkeri; Produzione: Aardman Animations, StudioCanal; Distribuzione: Koch Media; Origine: Gran Bretagna/ Francia 2015; Durata: 85’ 118 Nella fattoria Mossybottom la vita è piuttosto noiosa: la sveglia all’alba, la tosatura, il pascolo, i pasti, e di nuovo a nanna. Ogni giorno la stessa storia! Shaun e il gregge escogitano allora un astuto piano per prendersi una giornata di meritato riposo: saltano ripetutamente la staccionata e fanno addormentare il fattore, portandolo in una vecchia roulotte parcheggiata nel campo. Ma qualcosa va storto: la roulotte inizia a muoversi, e senza neanche rendersene conto il contadino si ritrova nella Grande Città. Inizia la missione di salvataggio, ma addentrarsi nella metropoli per Shaun e i suoi amici non sarà facile come previsto. I ntraprendente, carismatica, geniale ed estremamente intelligente. Trattasi di Shaun, una pecora che letteralmente “non segue il gregge” guidandolo al contrario attraverso avventure eccezionali e spericolatissime. Anche per chi fosse a totale digiuno della serie animata britannica creata da Nick Park (120 episodi della durata di 7 minuti l’uno, prodotti a partire dal 2007), il passaggio al cinema risulterebbe rapido e indolore. Ci vuole poco per conoscere – e amare – i componenti della fattoria Mossybottom: dal sopraccitato Shaun al resto del gruppo ovino formato da Hazel, Nuts, Shirley e Timmy, passando per il tollerante cane pastore Bitzer e per i disordinati maiali, fino ovviamente al pacioso fattore, spesso (suo malgrado) protagonista di scorribande slapstick degne del miglior cinema muto. Al contrario, è praticamente impossibile non aver mai avuto a che fare con lo stile e la tecnica che caratterizzano Shaun: la claymation utilizzata (personaggi di plastilina animati in stop motion) è la stessa di Galline in fuga (2000), Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro (2005, Premio Oscar al Miglior Film d’Animazione) e Pirati! Briganti da strapazzo (2012). Tutti prodotti dello studio britannico Aardman Animations, di cui citiamo ancora volentieri il rivoluzionario – per l’epoca – videoclip di culto Sledgehammer (1986) di Peter Gabriel e il cortometraggio vincitore di un Academy Award Una tosatura perfetta (1995). Più relegati allo sfondo Giù per il tubo (2006) e Il figlio di Babbo Natale (2011), che passano apertamente all’animazione digitale perdendo lo spirito delicatamente “materico” degli originali. Può sembrare una questione di lana caprina (ehm... si perdoni il gioco di parole!), ma per apprezzare appieno lo humour irresistibile e il nonsense delirante degli avvenimenti che si susseguono è necessario anche comprenderne l’artigianalità di fondo, che riduce squisitamente la distanza con lo spettatore rispetto all’asettica e inattaccabile computer grafica. Questa Vita da pecora trasposta al cinema è un “ritorno al futuro” che riduce al minimo i compromessi e crea di continuo un legame em- patico con chi guarda, grande o piccolo che sia. A partire dalla mancanza di dialoghi, sostituiti da un campionario di versi e mormorii anarchici e trascinanti, capaci di dare senso e persino intenerire, ammaliare, commuovere. Come già successo nel recente Minuscule – La valle delle formiche perdute (2013), anch’esso tratto da una serie di straordinario successo in patria (la Francia). Ma dietro all’attrazione visiva c’è molto di più, la ricetta di Shaun è più elaborata di quanto si possa pensare: una sceneggiatura coerente e ritmata ad esempio (caratteristica che molti film live action non possono permettersi), la cinefilia squisita delle citazioni (e qua si passa con nonchalance da Mars Attacks!, 1996, a Il silenzio degli innocenti, 1991), la critica alla “modernità” coatta dei social network e più in generale delle mode passeggere. A proposito di mode passeggere: pare che questo, cinematograficamente parlando, sia stato l’anno di Cinquanta sfumature di grigio, vero “peso massimo” degli incassi distribuito nello stesso periodo di Shaun. Sarà, ma per chi scrive non c’è storia: alle “cinquanta sfumature di gregge” non si può davvero resistere! Filippo Zoratti 119 I deale proseguimento della retrospettiva La Grande Guerra. L’occhio del cinema (proposta durante il 33. Premio “Sergio Amidei”) e legato alla sezione Piccola antologia dello humour nero, l’edizione 2015 del Premio presenta La paura degli aeromobili nemici, cortometraggio di André Deed (Cretinetti) che esorcizza con l’ironia il terrore dei bombardamenti durante la Prima Guerra Mondiale. La proiezione sarà accompagnata da musiche dal vivo. LA PAURA DEGLI AEROMOBILI NEMICI Cretinetti, il celebre personaggio creato e interpretato da André Deed, convola finalmente a nozze con l’amata Dulcinea. Scioccato dalle norme da seguire in caso di bombardamento lette su un comunicato affisso per strada, si lascia cogliere dall’ansia interpretando ogni minimo e casuale rumore come conferma di un reale attacco aereo in corso. Ben presto il panico diventa collettivo ma l’ordine viene ristabilito da due gendarmi, giunti per scortarlo al fronte. La destinazione militare è quella che teme di più: l’aeronautica. È Regia: André Deed; Soggetto: André Deed; Sceneggiatura: André Deed; Fotografia: Segundo de Chomón; Montaggio: André Deed; Scenografia: André Deed; Produzione: Itala Film; Distribuzione: Itala Film; Origine: Italia 1915; Durata: 12’ Interpreti: André Deed (Cretinetti), Léonie Laporte (Dulcinea), Felice Minotti (l’autista e fidanzato della portinaia), Domenico Gambino (invitato al pranzo di nozze) 120 già passato più di un secolo ma l’ombra spettrale della Grande Guerra continua a trascinarsi mestamente nella memoria collettiva contemporanea. Fin dal suo scoppio l’attenzione mediatica, storica e sociale non è mai scemata, dimostrando la necessità di ribadire alle nuove generazioni l’orrore che allora scosse non solo il Vecchio Continente ma il mondo intero, reo di essersi lasciato sedurre dalla falsa chimera di una guerra lampo e dall’eccessiva fiducia dell’alto livello raggiunto nel campo dello scibile tecnologico-scientifico, che per la prima volta ci si accingeva a impiegare massicciamente nell’ambito militare. La Storia purtroppo insegna che nulla sarà più lo stesso: proprio perché prima di annientare non guardano in faccia niente e nessuno, novità come le bombe aeree o le armi chimiche si riveleranno tanto efficaci quanto subdole, spazzando via una tradizione bellica millenaria, quella della guerra preindustriale che, seppur sanguinosa, era però più “a misura d’uomo”, poiché regolata da comportamenti e strategie cavalleresche (in tutti sensi del termine). I nefasti effetti si manifestarono immediatamente non solo tra i soldati imprigionati nelle logoranti trincee ma anche nelle retrovie e nei lontani centri abitati dove la gente, già gravata dalla crisi economica e dall’assenza degli uomini partiti per il fronte, doveva ora temere pure possibili attacchi. Un altro triste primato di questo conflitto è la trasformazione di quei luoghi prima risparmiati dalla furia bellica in potenziali e insicuri teatri di battaglia, nei quali imperversano scene di panico collettive. Proprio come quelle che si vedono nel corto di Deed dove, pur in assenza di espliciti combattimenti, è chiaro che il contesto nel quale si snoda la tragicomica avventura post matrimoniale è, pur passando attraverso il filtro dell’ironia, proprio la pesante atmosfera che si respirava in Italia nel 1915 quando, dopo l’iniziale neutralità il nostro Paese decise di entrare in guerra. La dimensione aeronautica – a cui ci si riferisce indirettamente nel film, molto in auge comunque sia nella letteratura che nella cinematografia del primo Novecento – non è poi così campata in aria come si potrebbe pensare: oltre agli episodi storicamente attestati dei primi bombardamenti su obiettivi civili (i raid degli Zeppelin tedeschi sui villaggi del Norfolk risalgono proprio al gennaio dello stesso anno), la popolazione di Torino – dove appunto risiedeva l’Itala Film – doveva quotidianamente fare i conti anche con la presenza in città della neonata squadra capostipite dell’aviazione militare italiana voluta dal generale Giulio Douhet, i cui aerei non di rado avranno sfrecciato nelle vicinanze del centro, atterrendo col loro frastuono gli animi della gente già colpita da quanto riportato nei quotidiani e dalle crude immagini provenienti dal fronte. Fu per l’appunto in questo conflitto che, dopo un iniziale scetticismo nei confronti della Settima Arte, i governi ne intuirono la potenzialità comunicativo-persuasiva sull’immaginario collettivo. Tra l’enorme quantità di pellicole italiane girate a scopo propagandistico, questo film risulta particolarmente interessante proprio perché si pone in una non comune posizione neutrale rispetto alla guerra che era in corso. Una peculiarità ripresa poi pure da de Chomón ne La guerra e il sogno di Momi (una produzione targata Itala Film del 1917 in cui recitò anche la moglie di Deed), che dimostrò vividamente – in stop motion – come, pur lontano dal fronte, nessuno si sentisse più al sicuro. Bimbi compresi. Martina Bigotto 121 Olivia Averso Pellis, l’“africana” di Gorizia con la macchina da presa F rancese di nascita ma italiana per matrimonio, Olivia Averso – coniugata Pellis – ha da sempre dimostrato, grazie alla sua curiosità e alla sua sete di sapere, di potersi perfettamente integrare nella comunità goriziana, di cui fa parte dal 1946. La sua formazione culturale, francese e magrebina insieme – è nata infatti a Tunisi nel 1925 – le ha consentito di mantenere la “giusta distanza” nell’osservare, con la macchina da presa o con quella fotografica, le feste e le tradizioni popolari della sua terra d’adozione. La passione per il “cinema fatto in casa” sorge in lei osservando i lavori realizzati dai soci del Cineclub Fedic di Gorizia. Quando in famiglia fa la sua comparsa una cinepresa 8mm. Olivia, affidandosi alle scarne istruzioni che il produttore allega all’apparecchio e “rubando” con gli occhi quanto facevano i cineamatori più esperti, compie le prime, timide prove da regista. Insieme ad amici goriziani fonda il Circolo Cinematografico Goriziano che organizza in città una rassegna annuale di film non professionali. 122 Tuttavia, Olivia Averso Pellis fornisce le prove più convincenti quando lavora su commissione, come avviene, per esempio, quando il marito (presidente della Pro Loco di Gorizia), l’incarica di riprendere le parate folcloristiche che ogni anno animano il centro città o, ancor più, quando la Società Filologica Friulana le chiede di documentare i riti e le feste del Friuli Venezia Giulia. Olivia Averso Pellis confeziona così documentari etnografici di straordinario rigore e interesse, ove la regista lavora in connubio con studiose di tradizioni popolari come Andreina Nicoloso Ciceri (ecco allora Las Cidules; Il Pan e Vin; La festa dei vent’anni, ecc.) e Novella Cantarutti (suo il commento di Croci sul Vajont). Girati una quarantina d’anni fa, tali documentari assumono, col tempo, un interesse, se possibile, maggiore. In essi si rivela il talento di una donna che, giunta alla soglia dei cinquant’anni, avendo i figli ormai cresciuti, si allontana con sempre più frequenza da casa per esplorare con la cinepresa i più remoti paesi del Friuli, al fine di registrare i riti, i canti, le preghiere di popolazioni che una pervasiva civiltà della comunicazione trasformerà rapidamente. E se in un primo tempo non pochi guardarono a lei con diffidenza, in quanto “straniera”, in quanto donna e in quanto cineasta autodidatta, la sua costanza e la sua chiara voglia di conoscere seppero vincere ogni ingiustificato timore. Olivia Averso Pellis si dimostra, naturaliter, documentarista preoccupata soltanto di mettere lo spettatore in condizione di vedere (e comprendere) quanto si compie davanti alla macchina da presa. Per fare questo, la regista giunge sui luoghi senza annunciarsi, si accosta “in punta di piedi” agli eventi da riprendere, evita di interferire con essi, cerca per quanto possibile di rendersi invisibile agli “attori”. Il fatto che, anno dopo anno, si disponga a filmare la stessa festa o tradizione popolare, le conferisce nel tempo una sorta di “invisibilità” agli occhi delle persone riprese, che si abituano a considerarla quasi un elemento del paesaggio. Nel suo modo di girare è evidente la repulsione per la “bella inquadratura” fine a se stessa, per la ripresa che non racconta nulla. Con grande lungimiranza la regista – in un’epoca in cui la maggior parte dei documentaristi fece un uso indiscriminato di musiche classiche o di brani folcloristici per la composizione della colonna sonora – scelse di registrare e di restituire nei suoi film il suono e le voci catturati in presa diretta. Questo patrimonio sonoro “sporco” costituisce uno dei più importanti lasciti, oggi disseminato in parecchie decine di nastri magnetici, che Olivia Averso Pellis ci ha tramandato. Silvio Celli Il progetto di recupero dell’Archivio Olivia Averso Pellis Olivia Averso Pellis ha conferito l’intero archivio fotocinematografico all’Associazione Palazzo del Cinema – Hiša Filma, che gestisce Mediateca.GO “Ugo Casiraghi”. Si contano circa 300 unità archivistiche, fra film e nastri magnetici con registrazioni in presa diretta. Si devono poi considerare le fotografie e le diapositive (circa 40.000), la biblioteca con gli scritti di Olivia Averso Pellis su riviste di storia locale (Ce Fastu?; Sot la Nape; Borc San Roc) e il copioso materiale tecnico (cineprese, macchine fotografiche, registratori audio, moviole, ecc.). A partire dal 2014 è stato avviato un progetto di inventariazione e catalogazione dei materiali, nonché di preservazione e digitalizzazione dei film e dei nastri audio. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia e si avvale della consulenza e delle lavorazioni del Laboratorio “La Camera Ottica” (DAMS Gorizia). L’obiettivo finale di tale lavoro è di rendere le fotografie e i film del fondo Pellis accessibili a tutti, in formato digitale, affinché questo patrimonio possa essere pienamente goduto dalla comunità goriziana. 123 OGNI SINGOLO GIORNO Più di un milione di persone vive nella cosiddetta “Terra dei fuochi”, ovvero nelle province tra Napoli e Caserta, zone ora conosciute per il problema dello sversamento dei rifiuti tossici. Il medico Antonio Marfella e il parroco di Caivano Maurizio Patriciello, simboli della lotta contro l’inquinamento illecito del territorio, narrano la loro esperienza di vita in questa terra martoriata; a loro si affiancano altre voci, dal fotoreporter all’agricoltore, testimoni di un disastro ambientale e umanitario. A Regia: Thomas Wild Turolo; Soggetto: Thomas Wild Turolo, Ornella Esposito; Sceneggiatura: Thomas Wild Esposito, Ornella Esposito; Fotografia: Vincenzo Sbrizzi; Montaggio: Thomas Wild Turolo; Musiche: Poja; Produzione: Rogiosi Film; Origine: Italia 2014; Durata: 53’ Interpreti: Maurizio Patriciello, Francesco Castaldo, Vincenzo Castaldo, Vincenza Cristiano, Tina Zaccaria, Mauro Pagnano, Enzo Tosti, Antonio Marfella, Giuseppe D’Ambrosio 124 volte per comprendere un’immagine c’è bisogno di una spiegazione appropriata; altre volte, invece, il messaggio dell’autore arriva ancora prima di averla visualizzata interamente. Questo succede nell’arte, nella fotografia, nel cinema. Una singola scena o sequenza può essere percepita in diversi modi, a volte lascia spazio all’immaginazione, a volte esplicita una realtà fin troppo chiara. È quello che avviene in Ogni singolo giorno, il documentario di Thomas Wild Turolo che analizza la “Terra dei fuochi”, ovvero il territorio tra le province di Napoli e Caserta. Apparentemente il tema sembra fin troppo semplice, le inquadrature con la sola musica di sottofondo non hanno bisogno di descrizione, ma pian piano ci si addentra in una profondità dalla quale è impossibile fuggire. Sono gli uomini i protagonisti di una storia che gradualmente si trasforma in una testimonianza tanto vera quanto dura. Il documentario di Turolo, infatti, cambia punto di vista e i rifiuti – inizial- mente in primo piano – si ritrovano a far da cornice a un territorio inquinato illecitamente dall’uomo stesso. Un territorio che ha perso la propria bellezza, la propria dignità, la propria storia, provocando la morte di persone che quel posto l’hanno sempre continuato a chiamare casa. Ogni singolo giorno dà voce a coloro che sono stati feriti nel corpo e nell’anima, ma che seguitano, fermamente, a credere in un futuro migliore. A prendere la parola sono un’attivista, un fotoreporter, un agricoltore, una madre, un ragazzo con il proprio padre e una giovane donna, che sulla loro pelle, se non peggio, hanno pagato le conseguenze. Parlano per loro, ma anche per tutti quelli che non possono più farlo o che stanno ancora lottando contro la malattia. Perché sì, parte della popolazione che vive nella “Terra dei fuochi” incappa in quello che viene definito tumore “da inquinamento”. E, ovviamente, non risparmia nessuno: donne e bambini, ragazzi e uomini. Genitori che sopravvivono ai figli, impotenti mentre li vedono soffrire e morire, senza comunque mai perdere l’occasione di lottare contro un Paese che dovrebbe impedire questo biocidio a prescindere e che invece ne sa poco o nulla. Così il parroco Maurizio Patriciello, grazie a convegni e libri, si muove per l’Italia intera nella speranza di far apprendere un problema che giorno dopo giorno diventa sempre più serio. Ogni singolo giorno non è solo un film di denuncia sociale, è una testimonianza oculare e umana di quello che sta accadendo quotidianamente in un territorio martoriato dalla tossicità delle industrie e dall’insensibilità umana. Si fa fatica a vivere, si fa fatica a lavorare, come ci spiega un agricoltore che, in tutto questo, si vede diminuire costantemente la vendita dei propri prodotti per la paura che siano contaminati. È questo vivere? È per questo che si muore? Il diritto alla vita non dovrebbe dipendere da ingiustizie come questa. Lo scrittore e filosofo russo Fëdor Dostoevskij diceva che “solo la bellezza salverà il mondo”, ma nella “Terra dei fuochi” l’unica bellezza è quella dell’anima delle persone che, ogni singolo giorno, continuano a lottare, e a vivere, come se non ci fosse un domani. Martina Farci 125 YOUTH - LA GIOVINEZZA (Youth) In un lussuoso resort svizzero, si ritrovano una serie di personaggi. I principali sono un anziano compositore che ha ormai abbandonato la musica, struggendosi nel ricordo della moglie morta, e un altrettanto attempato regista che, per girare il suo film testamento, aspetta il sì di una vecchia star del cinema. C’è anche un giovane attore che cerca di liberarsi del ruolo che l’ha reso popolare, e persino Diego Armando Maradona. Tutti sono più o meno in difficoltà, in balìa di problemi professionali, famigliari, psicologici. D Regia: Paolo Sorrentino; Soggetto: Paolo Sorrentino; Sceneggiatura: Paolo Sorrentino; Fotografia: Luca Bigazzi; Montaggio: Cristiano Travaglioli; Scenografia: Ludovica Ferrario; Costumi: Carlo Poggioli; Musiche: David Lang; Produzione: Indigo Film, Barbary Film, Pathé, France 2 Cinéma, Number 9 Films, C-Films; Distribuzione: Medusa; Origine: Italia/Francia/Gran Bretagna/Svizzera 2015; Durata: 118’ Interpreti: Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree), Jane Fonda (Brenda Morel), Mark Kozelek (se stesso), Paloma Faith (se stessa), Sumi Jo (se stessa) 126 alla Roma di estenuante splendore architettonico de La grande bellezza (2013) Paolo Sorrentino passa alla più anonima Svizzera, sempre fotografata dall’impeccabile Luca Bigazzi, che sovente isola i solitari protagonisti in pittorici campi lunghi dove il paesaggio, naturale o no, sovrasta l’umano. Dall’ammiccante descrizione del neocafonal capitolino nel film precedente, si passa nel più intimista Youth, che è anche film di attese, di sguardi e primi piani, ai problemi esistenziali di un gruppo di artisti (anche del pallone: Maradona! O della levitazione: il monaco buddista) in crisi o in declino – compreso il giovane attore (un convincente Paul Dano) prigioniero del ruolo di un robot in un film commerciale –, tutti in vacanza nel lussuoso hotel svizzero dov’è ambientato quasi tutto il film. Come si capiva anche dal sottovalutato This Must Be the Place (2011), nelle coproduzioni internazionali Sorrentino non perde minimamente il suo stile, caratterizzato soprattutto dalla forte presenza di musiche eterogenee, dai dialoghi ricchi di frasi ad effetto e continuamente oscillanti tra aforismi, citazioni letterarie, cazzeggio filosofeggiante e banalità, infine – ed è probabilmente ciò che più infastidisce i suoi feroci detrattori, che preferiscono cineasti più rigorosi e sobri – dal gusto spettacolare, formalista delle immagini e dai movimenti di macchina virtuosistici. Non mancano le scene oniriche, in Youth: c’è un videoclip di Paloma Faith che, come fanno qui nelle loro performance musicali Mark Kozelek e Sumi Jo, interpreta se stessa; c’è anche un’allucinazione del regista Mick, che vede davanti a sé, nei loro abiti di scena, tutte le attrici dei film di vario genere che ha diretto. Insomma, i momenti di fuga dalla realtà, principalmente verso il passato, dove Sorrentino visivamente si può sbizzarrire, ci sono, ma anche nella concreta e quotidiana routine dell’hotel – il tempo, tema chiave del film, che sembra non passare mai o che si ripete sempre uguale – la cinepresa spesso si diverte a soffermarsi, con sguardo circense, sui corpi degli individui, inquadrati in azioni grottesche, come la massaggiatrice giovanissima, con l’apparecchio ai denti, che balla She Wolf di David Guetta e Sia. La stessa ragazza che, in questo film dove la maggior parte dei personaggi, pessimi padri, coniugi glaciali o figli allo sbando che siano, non riesce a esprimere le proprie emozioni nemmeno in presenza dei propri cari, spiega al compositore Fred l’importanza del contatto fisico come forma di comunicazione più potente della parola. Qualche scena dopo, non a caso, si ascolta la voce, extradiegetica, del grande Bill Callahan che all’inizio di The Breeze canta proprio “I’d like to touch you, but I’ve forgotten how”. L’apatico Fred, che ha fatto di tutto per non diventare un intellettuale e nella vita riesce a comprendere solo la musica, dice a un certo punto “le emozioni sono sopravvalutate”, mentre per il suo amico/doppio Mick, che vuole girare il film L’ultimo giorno della vita, le emozioni “sono tutto quello che abbiamo”. E con sottile sadismo cinefilo, è una cover della Reality de Il tempo delle mele (1980) a diagnosticare in musica ai protagonisti – vecchi che forse non sono mai cresciuti – l’incapacità di vivere la realtà e il presente, la nevrosi di una nostalgia mutatasi in cronico e rassegnato disadattamento. Francesco Grieco 127 MAURIZIO FAVA 26 GIUGNO/17 LUGLIO OPERE 2004-2015 L’ esposizione di Maurizio Fava dal titolo Opere 2004-2015 è una selezione di 24 opere relative a diversi cicli pittorici. La ricerca di Fava vede, dalla seconda metà degli anni 2000, una progressiva affermazione di un linguaggio geometrico-astratto. Le molteplici e possibili combinazioni di geometria e colore da un lato risolvono l’aspetto compositivo – la struttura dell’opera – dall’altro soddisfano la libertà espressiva dell’artista. Geometria e colore di certo sono aspetti centrali ma non esaustivi a definire la pittura di Fava che comprende anche opere in bianco e nero, un esordio figurativo e una fase gestuale. Piuttosto “il nucleo genetico di tutta la sua produzione (…) è costituito dalla continua, inesausta ricerca dell’equilibrio o – per usare una parola più pregnante e densa di suggestioni – dell’armonia”. Una ricerca declinata in una dimensione soggettiva, personale, esistenziale che concerne il superamento dei contrasti tra “mondo interiore e realtà esteriore, irrazionalità e razionalità, slanci dello spirito e leggi della materia” (F. Meroi, 2015). La 34. edizione del Premio “Sergio Amidei” è l’occasione per una prima collaborazione tra Palazzo del Cinema/Hiša Filma – Kinemax e la galleria d’arte studiofaganel. L’esposizione di Fava, infatti, si svolge in due spazi espositivi: il periodo “geometrico” sarà presentato al Palazzo del Cinema/Hiša Filma – Kinemax, mentre le cosiddette “trame” saranno esposte presso la galleria studiofaganel. In quest’ultima sede, inoltre, saranno esibite le più recenti “strutture parallele” che intendono suscitare una percezione tridimensionale, quale quella evocata dall’architettura. A cura di Sara Occhipinti e Marco Faganel Inaugurazione venerdì 26 giugno: ore 18.00 presso studiofaganel ore 19.30 presso Palazzo del Cinema/Hiša Filma - Kinemax Testi a cura di Fabrizio Meroi, Luigi Di Dato e Claudio Meninno Presentazione a cura di Fabrizio Meroi Progetto grafico: Andrea Occhipinti aka MaggotBrain 128 info: studiofaganel Viale XXIV maggio 15/c, 34170 Gorizia www.studiofaganel.com +39 0481 81186 Palazzo del Cinema/Hiša Filma - Kinemax Piazza della Vittoria, 41, 34170, Gorizia www.amidei.com +39 0481 534604 Indice dei film (titoli in ordine alfabetico) 800 balas 38 Lines of Force Anime nere Azione mutante 16 38 Messi – Storia di un campione 39 Mirindas asesinas 38 Mortacci60 Muertos de risa 38 Myth in the Electric Age 94 Ballata dell’odio e dell’amore 39 Banana18 Barton Fink – È successo a Hollywood 112 Brutti, sporchi e cattivi 56 Che fine ha fatto Totò Baby? Chispa de la vida, La City Edition Clerks - Commessi Color Wheel Comunidad - Intrigo all’ultimo piano, La Crimen perfecto - Finché morte non li separi 50 39 94 114 94 38 38 Donna scimmia, La Due giorni, una notte 52 20 È stato il figlio Everywhere at Once 64 94 Famiglia Bélier, La Family Album, The Film per non dormire - La stanza del bambino First Cousin Once Removed Fischio al naso, Il Four Corner Time 22 82 38 92 54 94 Gatto, Il Gente felice – Benvenuto, onorevole! Giorno della bestia, Il Gomorra – La serie 58 48 38 74 94 Natural History 94 N-Capace24 Nobody’s Business 86 Ogni singolo giorno Oxford Murders - Teorema di un delitto 124 39 Parenti serpenti 62 Passione di Erto, La 102 94 Patent Pending Paura degli aeromobili nemici, La 120 Perdita Durango 38 Pinuccio Lovero – Yes I Can 66 39 Plutón B.R.B. Nero Pride26 Shaun, vita da pecora - Il film Short Skin - I dolori del giovane Edo Streghe son tornate, Le Sweetest Sound, The 118 28 39 88 Tyndall104 Wide Awake Words with Gods Youth - La giovinezza 90 39 126 Hyperion100 Intimate Stranger 84 129 130 Il Premio “Sergio Amidei” Il 1992 vede la nascita dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”. Tra gli obiettivi fissati l’organizzazione, in tutti i suoi aspetti – culturale, regolamentare, finanziario, sociale e di sviluppo – del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei”. In quest’ottica, la creazione di un oggetto che in sé rappresentasse lo spirito della manifestazione e ne diventasse elemento caratterizzante fu uno dei primi cambiamenti rivelatori del nuovo corso che l’Associazione volle dare al Premio. L’oggetto raffigura idealmente un foglio, supporto di quella scrittura cinematografica che tanto amiamo, foglio che su di un lato è percorso dalla foratura della pellicola, supporto delle immagini che da quella iniziale scrittura nascono. Volendo dare a questo oggetto un titolo lo si potrebbe chiamare “dalla scrittura all’immagine”. Il progetto del Premio, come l’immagine della manifestazione, è stato in tutti questi anni curato da Remigio Gabellini, da sempre membro dell’Associazione. I volumi, i saggi, gli omaggi a registi e personaggi di spicco dell’arte cinematografica, pubblicati dal Premio “Sergio Amidei” Franca Marri, Marta Macedonio (a cura di) Premio Sergio Amidei – Vent’anni (Associazione Sergio Amidei, Gorizia, 2001) Giorgio Bacchiega (a cura di) Miklòs Jancsò. L’uomo di fronte alla storia (Transmedia, Gorizia, 2007) Giovanni Di Vincenzo Le incrinature dell’anima. Il cinema di Fabio Carpi (Grafica Goriziana, Gorizia, 2002) Béla Balàzs L’uomo visibile (Lindau, Torino, 2008) Ilaria Borghese, Mariapia Comand, Maria Rita Fedrizzi (a cura di) Sergio Amidei, sceneggiatore (Transmedia, Gorizia, 2003) Roy Menarini (a cura di) Italiana Off. Pratiche e poetiche del cinema italiano periferico 2001-2008 (Transmedia, Gorizia, 2008) Simone Venturini (a cura di) Nelo Risi. Scritture in movimento (Transmedia, Gorizia, 2004) Mariapia Comand, Stefania Giovenco, Sara Martin (a cura di) Il personaggio cinematografico (Transmedia, Gorizia, 2008) Remigio Gabellini Amarcord, Federico, amarcord! (Transmedia, Gorizia, 2005) Roy Menarini (a cura di) La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista (Transmedia, Gorizia, 2009) Roy Menarini (a cura di) Il cinema secondo Cosulich (Transmedia, Gorizia, 2005) Ugo Casiraghi Naziskino, ebrei ed altri erranti (Lindau, Torino, 2010) Mariapia Comand (a cura di) Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia (Lindau, Torino, 2006) Ugo Casiraghi Vivement Truffaut! Cinema, libri, donne, amici, bambini (Lindau, Torino, 2012) Autori Vari Omaggio a Edgar Reitz (Transmedia, Gorizia, 2007) Nereo Battello (a cura di) Omaggio a Marcel Pagnol (Transmedia, Gorizia, 2012) Maria Serena Vastano Il cinema di Sandro Petraglia e Stefano Rulli (Transmedia, Gorizia, 2007) Ugo Casiraghi Storie dell’altro cinema (Lindau, Torino, 2012) Alice Autelitano, Roy Menarini (a cura di) Dentro la critica. Testimonianze, materiali, analisi (Transmedia, Gorizia, 2007) Sara Martin Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia (Mimesis Cinema, Milano-Udine, 2015) Finito di stampare nel mese di giugno 2015 da Digital Team - Fano (Pu)