di FRIEDRICH NIETZSCHE

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di FRIEDRICH NIETZSCHE
COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA
di FRIEDRICH NIETZSCHE
PRIMA PARTE
IL PROLOGO Dl ZARATHUSTRA
1
Giunto a trent'anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago natio, e si ritirò sui monti. Là,
per dieci anni, senza stancarsi, godette del suo spirito e della sua solitudine. Ma alla fine il
suo cuore mutò, e un giorno si alzò con l'aurora, avanzò verso il sole e così gli parlo:
"O astro grande! Cosa sarebbe mai la tua gioia se non vi fossero coloro che tu illumini!
Per dieci anni sei venuto quaggiù nella mia caverna: e certamente ti sarebbero divenuti
noiosi la tua luce e il tuo percorso senza di me, la mia aquila e il mio serpente.
Ma noi ti aspettavamo tutte le mattine, tu ci davi la tua ricchezza e ne ricevevi in cambio le
nostre benedizioni.
Vedi! Sono nauseato della mia saggezza, come l'ape che ha fatto troppa provvista di
miele; ho bisogno di mani che si tendano verso di me.
Io vorrei denaro da elargire, finché i saggi tra gli uomini si rallegrassero di nuovo della loro
follia e i poveri della loro ricchezza.
Per giungere a questo debbo discendere: come fai tu, quando a serà tramonti dietro il
mare e porti la tua luce nel regno dei morti, tu, astro pieno di ricchezza e di vita!
Io debbo, come te, tramontare, come dicono gli uomini, verso i quali io voglio discendere.
Perciò benedicimi, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una gioia
troppo grande!
Benedici il calice che vuol traboccare, finché ne scaturisca l'acqua dorata che porti
ovunque il riflesso della tua gioia!
Guarda: il calice vuole di nuovo vuotarsi, e Zarathustra vuole di nuovo essere uomo."
Così cominciò la discesa di Zarathustra.
2
Zarathustra scese da solo dalla montagna e non incontrò nessuno. Ma quando giunse nella
foresta, improvvisamente si imbatté in un vecchio, che aveva lasciato la sua capanna per
cercare radici nella foresta. E così il vecchio parlò a Zarathustra:
"Non mi è nuovo, questo viandante: molti anni fa passò di qui; ma ora egli è mutato.
Allora portavi la tua cenere sulla montagna: ora vuoi forse portare il tuo fuoco nella valle?
Non hai timore del castigo che attende gli incendiari?
Sì, io riconosco Zarathustra. Puro è il suo sguardo, e nella sua bocca non si annida alcun
ribrezzo. Non avanza egli come un danzatore?
Zarathustra è cambiato, Zarathustra è divenuto un bambino, Zarathustra si è svegliato:
cosa vuoi tu fare con gli addormentati?
Come in mezzo al mare tu vivevi in solitudine, e il mare ti portava sul suo seno. Ahimè,
ora vuoi tu scendere a terra? Vuoi tu trascinare il tuo corpo da te stesso?"
Zarathustra rispose: "Io amo gli uomini."
"Qual è la ragione" disse il santo "per cui mi sono ritirato nella foresta e in solitudine? Non
è, forse, perché anch'io ho amato troppo gli uomini?
Ma ora io amo Dio: non amo più gli uomini. L'uomo è cosa troppo imperfetta per me.
L'amore degli uomini mi ucciderebbe."
Zarathustra rispose: "Ma io non parlavo d'amore! Io porto un regalo agli uomini."
"Non dar loro nulla," disse il santo "togli piuttosto loro qualcosa e portala via con loro; sarà
la cosa migliore che potrai loro fare: purché faccia del bene anche a te!
E se vuoi dar loro qualcosa, non dar più di un'elemosina, e attendi che ti invochino perché
tu gliela dia!"
"No," ribatté Zarathustra "io non do elemosine. Non sono abbastanza povero per farlo."
Il santo rise di Zarathustra e replicò: "Allora vedi un po' se accettano i tuoi tesori! Sono
diffidenti verso gli eremiti e non credono che la nostra missione sia dl distribuire loro doni.
I nostri passi risuonano troppo solitari per le vie. E come quando di notte, stando nei loro
letti, sentono un uomo camminare assai prima che il sole sorga, certamente si
domandano: dove va quel ladro?
Non recarti tra gli uomini! Rimani nella foresta!
Va' piuttosto tra gli animali! Perché non vuoi tu essere come me, orso tra gli orsi, uccello
tra gli uccelli?"
"E che fa mai il santo nella foresta?" chiese Zarathustra.
Il santo rispose: "Compongo canzoni e le canto, e quando compongo canzoni, rido, piango
e borbotto fra me stesso. Così innalzo le mie lodi a Dio.
Cantando, piangendo e rimuginando fra me, io lodo quel Dio, che è mio Dio. Ma tu qual
regalo ci porti?"
A questo punto Zarathustra salutò il santo e disse:
"Che cosa posso darvi? Lasciatemi andare, piuttosto, prima che vi tolga qualcosa!" Così si
separarono l'uno dall'altro, il vecchio e l'uomo, sorridendo come sorridono due fanciulli.
Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò al suo cuore: "E mai possibile? Questo vecchio
santo nella sua foresta non sa ancora che Dio è morto."
3
Quando Zarathustra giunse nella più vicina città, situata al confine della foresta, vi trovò
molta folla adunata sul mercato: poiché era giunta notizia che un funambolo vi avrebbe
dato spettacolo. E Zarathustra così parlò al popolo:
"Io vi annunzio il Superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa
avete voi fatto per superarlo?
Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di
questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo?
Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una risata, una penosa vergogna. Questo deve
essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna.
Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme.
Una volta eravate scimmie, e anche oggi l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia.
Chi tuttavia è fra voi il più saggio, non è che un essere disarmonico, un ibrido fra la pianta
e il fantasma. Vi dico io forse di divenire piante o fantasmi?
Ascoltate, io vi insegno il Superuomo!
Il Supenuomo è il senso della terra. E così il vostro volere dica: il Superuomo deve essere
il senso della terra!
Vi imploro, o miei fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di
speranze ultraterrene! Sono degli avvelenatori, consapevoli o meno: Sono spregiatori della
vita, gente che sta morendo, avvelenati essi stessi da se stessi: la terra è stanca di loro:
possano per sempre scomparire!
Una volta il crimine contro Dio era il più grande peccato; ma Dio è morto, e con lui sono
morti anche i colpevoli di quel crimine. Oggi la colpa più orribile è peccare contro la terra,
e tenere in più alto pregio le viscere dell'impenetrabile che, il senso della terra!
Una volta l'anima guardava con dispregio il corpo: e questo dispregio era il più alto valore:
essa lo voleva magro, orrido, affamato. Così immaginava di sfuggire al corpo e alla terra.
Ahimè, era l'anima stessa che era magra, orrida, affamata: e la crudeltà era la sua voluttà!
Ma anche voi, fratelli miei, ditemi: che dice il vostro corpo della vostra anima? Non è essa
meschinità e sozzura e tristo piacere?
L'uomo è veramente un fiume melmoso. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume
così sudicio senza rimanerne insudiciati.
Ascoltate, io vi insegno il Superuomo: egli è questo mare, in esso può sprofondare il
vostro grande disprezzo.
Qual è la massima esperienza che potete vivere? L'ora del grande disprezzo. L'ora nella
quale anche la vostra gioia diventa uno schifo, così la vostra ragione e la vostra virtù.
L'ora nella quale voi dite: ‘Che me ne importa della mia felicità! È una cosa povera e
sporca e un misero conforto. Proprio la mia felicità, dovrebbe da sola bastare a giustificare
l'esistenza!’
L'ora nella quale vol dite: 'Che me ne importa della mia ragione! Forse avete fame di
sapienza come il leone ha fame del suo cibo? Ma non è che cosa povera e sporca e un
misero conforto!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia vlrtù! Essa non è riuscita ancora a
farmi immpazzire! Come sono stanco del mio bene e dei mio male! Tutto ciò non è che
povero e sporco e un misero conforto!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia giustizia! Io non vedo ch'io sia
ancora divenuto un carbone ardente. Ma il giusto è un carbone ardente!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia compassione! Non è compassione
la croce alla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia compassione non
è una crocefissione'.
Avete già parlato in questo modo? Avete già urlato in questo modo? Ah, se vi avessi udito
già gridare in questo modo!
Non il vostro peccato; è la vostra contentezza soddisfatta che grida vendetta al cospetto
del cielo, la vostra avarizia stessa che nel vostro peccato grida vendetta al cospetto del
cielo!
Dov'è il fulmine che vi abbia lambito con la sua lingua? Dove la follia della quale voi
abbiate dovuto essere vaccinati?
Vedete, io vi insegno il Superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!"
Quando Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: "Abbiamo sentito abbastanza
parlare del funambolo; fatecelo finalmente vedere!" E tutto il popolo rise di Zarathustra.
Ma il funambolo, che credette che il discorso fosse fatto per lui, cominciò a prepararsi.
4
E Zarathustra vide il popolo e si meravigliò. Allora parlò così:
"L'uomo è una corda, tesa tra l'animale e il Superuomo, una corda sopra un precipizio:
Un pericoloso oltrepassamento, un pericoloso andamento, un pericoloso volgersi indietro,
un pericoloso trasalire ed arrestarsi.
Ciò che è grande nell'uomo, è che egli è un ponte e non una mèta: ciò che può venire
amato, è che egli è un transito e una catastrofe.
Amo coloro che non sanno vivere, sia pure come decadenti, perché sono coloro che vanno
oltre.
Amo i grandi dispregiatori, perché sono i grandi adoratori e le grandi frecce della nostalgia
verso l'altra riva.
Amo coloro che non cercano al dl là delle stelle una ragione per naufragare e sacrificarsi:
ma si sacrificano alla terra, onde far sì che la terra sia un giorno del Superuomo.
Amo colui che vive per riconoscere, e che vuol conoscere, onde far sì che un giorno viva il
Superuomo. E così vuole il proprio tramonto.
Amo colui che lavora e scopre, onde costruire la casa del Superuomo, e preparargli il
terreno, gli animali e le piante: perché è uno che vuole la propria rovina.
Amo colui che ma la sua virtù: perché la virtù è una volontà di naufragio e una freccia dl
nostalgia.
Amo colui che non trattiene per sé goccia alcuna di spirito, ma vuole essere interamente lo
spirito della sua virtù; perché è uno che avanza come spirito sopra il ponte.
Amo colui che fa della sua virtù la stia inclinazione e il suo destino: perché è uno che a
causa della sua virtù vuole e non vuole più vivere.
Amo colui che non vuole avere molte virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è
maggiormente un nodo a cui si appende un destino.
Amo colui la cui anima si spende generosamente; e non vuole essere ringraziato, e
neanche ringrazia: perché è uno che sempre dona e non si preoccupa della propria
conservazione.
Amo colui che si vergogna quando il dado della sorte cade in suo favore, e allora chiede a
se stesso: sono forse un falso giocatore? Poiché è uno che vuole inabissarsi.
Amo colui che fa precedere le sue azioni da parole d'oro, e sempre mantiene più di quanto
promette: perché vuole la sua rovina.
Amo colui che giustifica i posteri ed è un compimento per i trapassati: perché è uno che
vuole che il presente lo distrugga.
Io amo colui che maltratta il proprio Dio, perché è uno che ama il suo Dio, e dovrà andare
in rovina per l'ira del suo Dio.
Io amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e può andare a fondo anche per
un piccolo evento: perché è uno che passa volentieri sopra il ponte.
Io amo colui la cui anima trabocca, tanto da dimenticare se stesso, e tutte le cose sono in
lui: tutte le cose divengono la sua rovina.
Io amo colui che ha libero spirito e libero cuore: così che la sua testa è soltanto un viscere
del suo cuore, ma il suo cuore lo sospinge verso l'abisso.
Io amo tutti coloro che sono gocce pesanti che cadono ad una ad una dal nembo oscuro
che pende sugli uomini: e annunciano che il fulmine arriva, e come annunciatori vanno
verso la loro rovina.
Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia pesante del nembo: ma il
fulmine si chiama Superuomo.
5
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, guardò in faccia di nuovo la gente e
tacque. "Eccoli lì," disse al suo cuore "ridono: non mi comprendono, io non sono una
bocca adatta per orecchi.
Sarà prima necessario spezzar loro gli orecchi, perché imparino ad udire con gli occhi?
Sarà necessario far fracasso come i timpani e i predicatori di penitenze? O credono solo a
coloro che balbettano?
Hanno in se qualcosa di cui sono orgogliosi. Ma come la chiamano? Cultura la chiamano
che li distinguono dai caprai.
Perciò ascoltano malvolentieri l'espressione di 'disprezzo', indirizzata ad essi. E allora io
parlerò al loro orgoglio.
Parlerò loro della cosa più, spregevole di tutte: che è l'ultimo uomo."
E così parlò Zarathustra al popolo:
"È tempo che l'uomo definisca la sua mèta. E tempo che l'uomo pianti il seme della sua
più alta speranza.
A ciò il suo terreno è ancora abbastanza ricco. Ma esso diverrà un giorno povero e debole
e nessun albero di alto fusto vi crescerà più.
Guai! Viene il tempo nel quale l'uomo non scaglierà pii la freccia della sua nostalgia al di là
dell'uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare.
Io vi dico che bisogna avere ancora in se stessi il caos, per poter generare una stella
danzante. Io vi dico che avete ancora il caos in voi.
Ma guai! Viene il tempo in cui l'uomo non avrà più stelle da generare. Guai! Viene il tempo
dell'uomo giunto all'estremo limite della sua spregevolezza, che non saprà più neanche
disprezzarsi.
Ecco! Io vi mostro l'ultimo uomo.
Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è stella? Così
chiedé l'ultimo uomo e ammicca.
La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei andrà saltellando l'ultimo uomo, che
renderà tutto piccino. La sua schiatta è indistruttibile come la pulce di terra; l'ultimo uomo
è quello che vive più a lungo di tutti.
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Hanno abbandonato le regioni dove era duro vivere: perché c'è bisogno di calore. Si ama
ancora il prossimo e ci si strofina a lui: perché c'è bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si va avanti guardinghi. Pazzo chi ancora
incespica sulle pietre o sugli uomini!
Ogni tanto un po' di veleno: esso fa sognare gradevolmente. E alla fine molto veleno, per
gradevolmente morire.
Si lavora ancora, poiché il lavoro è un modo di passare il tempo. Ma si cerca di fare in
maniera che questo divertimento non danneggi.
Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative. Chi vuole
ancora dominare? Chi vuole ancora obbedire? L'una e l'altra cosa sono troppo
impegnative.
Non un pastore e il suo gregge! Ognuno vuole la medesima cosa, ognuno è uguale; chi
sente altrimenti, va diritto al manicomio.
In altri tempi tutti erano pazzi, dicono i più raffinati e ammiccano.
Si è saggi e si sa tutto ciò che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C'è ancora
chi s'arrabbia; ma ci si rappacifica presto per non sciuparsi lo stomaco.
Si possiede la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte: ma si
rispetta la salute.
Abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e ammiccano."
E qui finì il primo discorso di Zarathustra, che è detto anche "prologo", perché a questo
punto lo interruppe lo schiamazzo e l'allegria della folla. "Daccelo, quest'ultimo uomo, o
Zarathustra" gridarono; "fa' che noi siamo questi ultimi uomini! Il tuo Superuomo te lo
regaliamo!" E tutto il popolo giubilava e schioccava la lingua.
Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:
"Non mi comprendono: io non sono una bocca adatta per le loro orecchie. Ho vissuto
troppo a lungo nelle montagne, e troppo ho ascoltato la voce dei ruscelli e degli alberi: ora
io parlo loro come fanno I caprai.
Incrollabile è la mia anima, e chiara come la montagna nell'ora che precede il meriggio.
Ma essi credono che io sia freddo e che non sappia che irridere con scherzi atroci.
E mi guardano e ridono: e mentre ridono continuano ad odiarmi. Nel loro riso è il gelo."
6
Ma allora accadde qualcosa che rese ogni lingua muta e ogni occhio attonito. Il funambolo
aveva cominciato la sua opera: era uscito da una piccola porta e stava avanzando sul filo,
che era teso fra due torri; sospeso lassù in alto, stava sopra il mercato e la folla. Quando
giunse a metà del suo cammino, la piccola porta si aprì ancora, e un suo compagno
verzicolore, simile ad un buffone, ne saltò fuori e a passi rapidi lo seguì: "Avanti, piedi
dolci," gridò la sua voce terribile "avanti, poltrone, contrabbandiere, viso pallido! Vorrei
farti assaggiare il mio calcagno! Che cosa stai facendo qui fra le torri? Dentro la torre devi
stare, ti dovrebbero mettere in gattabuia, tu che impedisci il passaggio a chi è migliore di
te!" E ad ogni parola che diceva, gli si avvicinava sempre più: ma quando fu giunto ad un
passo da lui, accadde la cosa più spaventosa, che fece ammutolire tutti e restare con gli
occhi incantati: sibilò in aria un grido come di diavolo e quell'individuo spiccò un salto
oltrepassando colui che gli impediva il passaggio. Questi, quando si vide sopravanzato dal
suo compagno, perse la testa e la corda; lanciò via la stanga e precipitò, più rapido di lei,
come un viluppo di braccia e gambe nello spazio. Il mercato e la folla sembrarono il mare
quando la tempesta lo sommuove: fu tutto un rimescolio e un accavallarsi, soprattutto nel
punto dove il corpo doveva cadere.
Ma Zarathustra rimase fermo al suo posto, e proprio accanto a lui cadde il corpo, ridotto a
maipartito e spezzato, ma non ancor morto. Dopo un poco tornò la coscienza al
disgraziato, che scorse Zarathustra in ginocchio accanto a sé. "Che fai tu lì?" disse
finalmente; "io sapevo da molto tempo che il diavolo mi avrebbe dato un calcio. Ora mi
trascina all'inferno: vuoi vedere se ti opponi a lui?"
"In realtà, amico," rispose Zarathustra "non esiste ciò che tu dici: non c'è né diavolo né
inferno. Morirà più presto la tua anima del tuo corpo: non avere paura di nulla!"
L'altro lo guardò con diffidenza: "Se tu dici la verità," esclamò "allora io non perdo nulla
perdendo la vita. Non sono molto più di un animale, a cui è stato insegnato a danzare a
forza di percosse e di bocconcini".
"Ma no" disse Zarathustra; "tu hai fatto del pericolo la tua professione, e su questo non c'è
niente da dire. Ora tu muori in seguito alla tua professione: e io per mia parte ho
intenzione di seppellirti con le mie mani."
Quando Zarathustra disse questo, il morente non rispose più; ma mosse la mano, come se
cercasse la sua mano per ringraziarlo.
7
Frattanto scese la sera, e il mercato s'avvolse d'ombra: e la gente cominciò ad andarsene,
perché anche la curiosità e l'orrore si stancano. Ma Zarathustra sedeva accanto al morto
che giaceva in terra, immerso in pensieri: per modo che aveva dimenticato il tempo. Infine
si fece notte, e un vento freddo soffiò sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo
cuore:
"Veramente Zarathustra ha fatto oggi una buona pesca! Non ha pescato un uomo, ma un
cadavere.
L'essere umano è strano e senza senso: un buffone può divenire per lui fatale.
Voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: chi è il Superuomo, il lampo che
scoppia dalla nuvola oscura uomo.
Purtroppo sono ancora lontano da loro, e il mio senso non parla ai loro sensi. Sono ancora
per gli uomini qualcosa di mezzo fra un pazzo e un cadavere.
Scura è la notte, tenebrosi sono i sentieri di Zarathustra. Vieni, compagno freddo e rigido!
Ti porterò via e ti seppellirò con le mie mani."
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Quando Zarathustra ebbe detto questo al suo cuore, si caricò la salma sulle spalle e si
pose in cammino. Non era ancora andato avanti cento passi, che un uomo gli si fece
incontro e gli sussurrò all'orecchio qualcosa... ed ecco! Colui che parlava era proprio il
buffone della torre. "Va' via da questa città, Zarathustra" gli diceva; "qui sono in troppi ad
odiarti. Ti odiano i buoni e i giusti, e ti chiamano nemico e spregiatore; ti odiano i credenti
della retta fede, e ti chiamano pericolo pubblico. La tua fortuna era che si ridesse di te: e a
dire il vero tu parlavi loro come un buffone. La tua fortuna era che ti accompagnavi a
questa carogna; umiliandoti in tal modo, ti sei salvato per oggi; ma ora esci da questa
città, altrimenti domani io salto su di te come un vivo sopra un morto."
E quando ebbe detto questo, scomparve; ma Zarathustra continuò ad andare per i vicoli
scuri.
Alla porta della città, si imbatté nei becchini: essi gli misero le fiaccole vicino al volto,
riconobbero Zarathustra e lo schernirono: "Zarathustra porta via il cane morto: bene,
Zarathustra è divenuto un becchino! Le nostre mani sono troppo pulite per questo arrosto.
Forse Zarathustra vuoi sottrarre al diavolo il suo boccone? Va bene così! Buon appetito!
Purché il diavolo non sia un ladro migliore di lui! Allora li acchiappa entrambi e se li
mangia!" E ridevano tutti insieme e complottavano.
Zarathustra non disse parola e continuò per la sua strada. Quando fu andato avanti per
due ore, lungo foreste e paludi, dopo aver tanto, udito l'ululo affamato dei lupi, venne
fame anche a lui. Si fermò allora ad un casolare solitario, in cui ardeva un lume.
"La fame mi sopraffà" disse Zarathustra "come un brigante. Mi sopraffà nelle foreste - e
nelle paludi, nella notte fonda.
Strani capricci ha la mia fame. Spesso mi prende dopo il pasto; invece oggi non è venuta
per tutto il giorno: dove se ne è stata?"
Così pensando, Zarathustra batté alla porta della casa. Apparve un vecchio che portava in
mano la lampada, e chiese: "Chi viene da me a trovarmi durante il mio cattivo sonno?"
"Un vivo e un morto" disse Zarathustra. "Datemi da mangiare e da bere, perché io ho
dimenticato di farlo di giorno. Colui che dà da mangiare all'affamato porge sollievo
all'anima sua: così parla la sapienza."
Il vecchio uscì, ma tornò subito offrendo a Zarathustra pane e vino. "È una brutta zona
per affamati" disse; "perciò io abito qui. Animali e uomini vengono da me, il solitario. Ma
dì' pure anche al tuo compagno di mangiare e di bere, perché è più stanco di te."
Zarathustra rispose: "Il mio compagno è morto, sarà difficile convincerlo." "Questo non mi
riguarda" disse il vecchio di cattivo umore; "chi batte alla mia casa deve anche prendere
ciò che io gli offro. Mangiate e statevi bene!"
Zarathustra continuò il suo cammino ancora per due ore, fidandosi della strada e della luce
delle stelle: perché era abituato a camminare di notte e amava vedere in volto tutti coloro
che dormivano. Ma quando cominciò a ingrigire, si ritrovò in una profonda foresta, senza
più alcuna traccia di strada. Allora mise il morto nel tronco cavo di un albero dietro il suo
capo - poiché voleva proteggerlo dai lupi affamati - e si distese per terra sul muschio.
Subito si addormento, stanco morto, ma con l'animo saldo.
9
A lungo dormi Zarathustra, e non solo l'aurora si inarcò sulla sua persona, ma anche tutto
il corso del mattino. Infine aprì gli occhi: sorpreso, Zarathustra scorse la foresta e il
silenzio; sorpreso, scorse il suo intimo. Poi si alzò rapido, come un navigatore che scopre
d'un tratto terra, ed esultò: perché vide una nuova verità. E così parlò allora al suo cuore:
"Una luce si è accesa in me: ho bisogno di compagni, e vivi; non compagni morti e
cadaveri, da portare con me ovunque io voglia.
Ma viventi compagni, che mi seguano, perché voglion seguire se stessi, e proprio là dove
io voglio.
Una luce si è accesa in me: non alla folla deve parlare Zarathustra, ma a del compagni!
Zarathustra non deve diventare pastore e cane di un gregge!
Io sono venuto per strappare molti al gregge. La folla e il gregge mi devono avere in odio:
pei pastori Zarathustra vuole essere un brigante.
Dico pastori, ma essi si dicono i buoni e i giusti.
Dico pastori: ma essi si chiamano credenti della retta fede. Guardali lì, i buoni e i giusti!
Chi odiano essi di più? Colui che infrange le loro tavole di valori, il distruttore, l'assassino:
ma questi è appunto il creatore.
Guardali lì, i credenti di tutte le fedi! Chi odiano essi di più? Colui che infrange le loro
tavole di valori, il distruttore, l'assassino: ma questi è appunto il creatore.
Compagni cerca il creatore, compagni del raccolto: perché tutto è in lui maturo per il
raccolto. Ma a lui mancano le cento falci: e così egli strappa le spighe ed è inquieto.
Compagni cerca il creatore, coloro che sanno affilare le loro falci. Si suole chiamarli
annientatori e spregiatori del bene e del male. Ma essi sono i mietitori e coloro che fanno
festa. Collaboratori cerca Zarathustra, che mietano e festeggino con lui: che ha mai egli a
spartire con greggi e pastori e cadaveri?
E tu, mio primo compagno, statti bene! Io ti ho ben seppellito nel tuo albero cavo,
mettendoti bene al riparo dai lupi. Ma ora mi separo da te, perché il tempo è passato. Fra
l'una e l'altra aurora è giunta a me una nuova verità.
Non pastore io debbo essere, né seppellitore di morti. Non voglio parlare più con la folla:
per l'ultima volta ho parlato con un morto.
Voglio attirare a me i creatori, i mietitori, i banchettanti: voglio loro mostrare l'arcobaleno,
e tutte le gradinate del Superuomo.
Ai solitari canterò il mio canto e a coloro che vivono a coppie; e chi ha ancora orecchi per
l'inaudito, a quegli voglio rendere pesante il cuore con la mia gioia.
Io voglio andare per il mio cammino verso la mia mèta: saltando sulla testa di coloro che
indugiano e si tirano volentieri da parte. Il mio passo sia la loro rovinà!"
10
Questo disse Zarathustra al suo cuore, quando il sole stava a mezzogiorno: guardò allora
con sguardo interrogativo il cielo, perché udiva su di lui il grido acuto di un uccello. Ed
ecco! Un'aquila roteava in larghi giri per l'aria, e ad essa stava appeso un serpente, non
come una vittima, ma come un amico: perché si teneva attorcigliato al suo collo.
"Sono i miei animali!" esclamò Zarathustra, e si rallegrò nel cuore.
"L'animale orgoglioso sotto il sole e quello più astuto sotto il sole; ecco ché essi vanno in
cerca di novità.
Vogliono informarsi se Zarathustra viva ancora. Sono io tuttora realmente vivo?
Fu più pericoloso per me vivere tra gli uomini che tra gli animali. Sentieri pericolosi
percorre Zarathustra. Possano condurmi i miei animali!"
Quando Zarathustra ebbe detto questo, pensò alle parole del santo nella foresta, sospirò e
parlò così al suo cuore:
"Potessi essere più saggio! Potessi essere interamente saggio, come il mio serpente!
Ma io voglio l'impossibile: e prego il mio orgoglio di andare sempre d'accordo con la mia
saggezza!
E se un giorno mi abbandonerà la saggezza - ahimè, essa ama volar via! - che il mio
orgoglio possa ancora volare insieme con la mia follia!"
Così cominciò la discesa di Zarathustra.
I DISCORSI DI ZARATHUSTRA
DELLE TRE METAMORFOSI
"Io vi annuncio tre metamorfosi dello spirito: come lo spirito diviene cammello, e da
cammello leone, e da leone bambino.
Molte cose sono gravose per lo spirito; per lo spirito forte, paziente e rispettoso per
natura: il suo vigore ha desiderio di difficoltà e di cose estremamente pesanti.
Che cosa è pesante? chiede lo spirito paziente, mentre si inginocchia al pari di un
cammello e desidera essere ben caricato.
Qual è la cosa più pesante, o voi eroi? chiede lo spirito paziente; che io la prenda su di me
rallegrandomi del mio vigore.
Non è forse ciò un umiliarsi per far male al proprio orgoglio? Lasciar risplendere la propria
stoltezza, per beffarsi della propria sapienza?
O è questo: abbandonare la propria causa, quando questa sta per trionfare? Sugli alti
monti salire, e tentare il tentatore?
O è questo: nutrirsi di ghiande e d'erba della scienza e per amore dl verità soffrire la fame
dell’anima?
O è questo: essere annullati e mandare via i consolatori e stringere amicizia con i sordi,
che giammai possono udire ciò che tu vuoi?
O è questo ancora: scendere nell'acqua putrida quando è l'acqua della verità, e non
allontanare da sé né i freddi ranocchi ne i rospi impetuosi?
O è questo: amare coloro che ci disprezzano, e tendere la mano al fantasma, quando ci
vuoi far paura?
Tutte queste cose pesanti lo spirito paziente vuol sopportare: poi come il cammello che
carico va a passo veloce lungo il deserto, anche egli s’incamminana verso il suo deserto.
Ma nel deserto solitario avviene la seconda metamorfosi: lo spirito diviene leone, vuole
catturare la propria libertà ed essere padrone del suo deserto.
Va così in cerca del suo ultimo signore: vuole divenirne il nemico come del suo ultimo dio,
e ottenere vittoria lottando con il grande drago.
Che cosa è il grande drago, che lo spirito non vuoi più chiamare suo signore e Dio? 'Tu
devi' si chiama fl drago. Ma lo spirito del leone dice: 'Io voglio'.
'Tu devi' gli sbarra la via; sfavillando d'oro l'animale coperto di scaglie cornee e su ognuna
delle quail riluce in oro: 'Tu devi!'
Millenari valori splendono su quelle scaglie; e così parla il più possente del draghi: 'Ogni
valore delle cose riluce sul mio corpo'.
'Ogni valore è già stato creato e ogni valore creato sono io stesso. In realtà, non deve più
alcun io voglio esistere!' Così parla il drago.
Fratelli miei, perché c'è bisogno del leone in ispirito? Non è forse sufficiente il paziente
animale che rinuncia ed obbedisce?
Crear nuovi valori, questo non lo può fare neanche il leone: ma conquistarsi la libertà per
nuove opere, questo egli può fare.
Conquistarsi la libertà significa dire un sacro no di fronte all'obbligazione: ecco, miei
fratelli, per che cosa necessario il leone.
La facoltà dl affermare valori nuovi: questo è ciò che appare un orribile sopruso agli spiriti
pazienti e sottomessi. In realtà, sembra loro una rapina e azione da animale rapace.
Una volta egli amava il 'tu devi' come la più sacra delle cose: ora gli è necessarto trovare
la follia e l'arbitrio anche nella cosa più sacra, onde sottrarsi al proprio amore e
conquistare la sua libertà: il leone occorre per attuare questa rapina.
Ma ditemi, fratelli miei, che potrà dunque fare il fanciullo, che già il leone non fece? Perché
dunque il leone predatore dovrà ancora ritornare fanciullo?
Il fanciullo è innocenza e dimenticanza, ritorno al principio, gioco, ruota che da sé gira,
movimento iniziale, sacra affermazione.
Sì, per il gioco della creazione, o fratelli miei, un sacro dir di sì alle cose: ecco, lo spirito
vuole la propria volontà, chi ha perduto l'universo vuole conquistare il suo universo.
Di tre metamorfosi dello spirito io v'ho parlato: come lo spirito divenne cammello, e il
cammello si fece leone e il lèone, infine, fanciullo."
Così parlò Zarathustra. Allora egli viveva nella città che è chiamata: La vacca variopinta.
LE CATTEDRE DELLA VIRTÙ
Elogiavano a Zarathustra un saggio, che sapeva parlare bene del sonno e della virtù: e
che, per questo, era molto stimato e ricompensato; e tutti i giovani si assiepavano intorno
alla sua cattedra. Zarathustra si recò da lui e con gli altri giovani si sedette davanti alla sua
cattedra. E così parlò il saggio:
"Onore e pudore per il sonno! Questa è la prima cosa! E sfuggite tutti coloro che dormono
male e stanno svegli di notte!
Davanti al sonno, è timoroso anche il ladro. Egli si insinua sempre durante la notte
silenziosamente. Al contrario la ronda notturna è sfacciata, suona senza pudore il suo
corno. Dormire non è arte da poco: intanto è necessario stare svegli tutto un giorno senza
interruzione.
Dieci volte al giorno dovrai vincere te stesso: ciò produce infine una buona spossatezza ed
è un buon papavero per lo spirito.
Dieci volte al giorno dovrai inoltre fare la pace con te stesso; dato che la vittoria su se
stessi è amarezza; e chi non si è riconciliato con se stesso dorme in malo modo.
Dieci verità al giorno tu dovrai discoprire; altrimenti anche durante la notte tu andrai
cercando la verità, e lo spirito tuo sarà inquieto.
Dieci volte al giorno dovrai ridere ed essere allegro; altrimenti durante la notte ti darà
fastidio lo stomaco, che è il padre di ogni tribolazione.
Pochi sanno ciò: ma bisogna possedere tutte le virtù per dormire bene. Testimonierò io
forse il falso?
Commetterò adulterio?
Desidererò per me la donna del mio prossimo? Tutte queste cose non si accordano con un
buon sonno. Ma anche quando possedessimo tutte le virtù, bisogna altresì saper fare
un'altra cosa: mandare al tempo giusto a dormire anche le virtù.
Perché non litighino tra loro, quelle donnette a modo! E sul conto tuò, infelice!
Pace con Dio e col prossimo: questo ci vuole per un buon sonno. E in pace anche col
demonio del 'prossimo! Altrimenti durante la notte verrà a infastidirti.
Onore e rispetto per le autorità, e anche verso l'autorità corrotta! Questo vuole il buon
sonno. E che colpa ne ho io, se l'autorità cammina spesso e volentieri a gamba zoppa?
Il miglior pastore, per me, sarà sempre colui che guiderà le sue pecore verso il più verde
pascolo: questo si accorda con un buon sonno.
Non voglio molti onori, né grandi tesori: fanno infiammare la milza. Ma male si dorme
senza una buona reputazione ed un piccolo tesoro.
Una compagnia piccola mi è più grata di una maligna: tuttavia deve saper andare e venire
al momento opportuno. Questo soltanto si accorda con un buon sonno.
Molta soddisfazione mi danno i poveri di spirito: essi mi conciliano il sonno. Sono gente
contenta, specialmente quando si dà loro sempre ragione.
Così passa la sua giornata l'uomo virtuoso. Quando poi scende la notte, mi guardo bene
dall'invocare il sonno! Perché il sonno, che è il padrone delle virtù, non vuole essere
invocato!
Invece torno col pensiero a ciò che ho fatto e detto durante il giorno. Rimuginando,
interrogo me stes. so, paziente come una mucca: quali sono oggi state le dieci vittorie che
hai riportate su te stesso?
E quali sono state le dieci rappacificazioni e le die, cl risate, con cui ho fatto felice il mio
cuore?
Così pensando e cullato da quaranta pensieri, d'un tratto il sonno mi sopraffà, non
invocato, lui, il padrone delle virtù.
Il sonno batte ai miei occhi, ed essi divengono pesanti. Il sonno mi palpa la bocca; ed essa
rimane aperta.
Veramente giunge a me con passo leggero, come un ladro amatissimo, e trafuga i miei
pensieri, così che io rimango lì in piedi, sciocco come questa cattedra.
Ma non a lungo resto così: ecco che già mi sdraio."
Quando Zarathustra ebbe udito il saggio dire queste cose, rise nel suo cuore: perché una
luce si era fatta in lui. E così parlò al suo cuore:
"Un pazzo mi senbra questo saggio con i suoi quaranta pensieri: ma tuttavia credo che del
dormire proprio se ne intenda.
Beato chi vive nella vicinanza di questo saggio!
Un sonno tale è contagioso e penetra anche attraverso uno spesso muro.
Un incanto si annida nella sua cattedra. E non per nulla i più giovani si sono seduti intorno
al predicatore di virtù.
La sua saggezza si chiama: stare svegli, per poi dormire bene. E in realtà, se la vita non
avesse alcun altro senso, e io dovessi scegliere un non-senso, questo mi sembrerebbe il
non senso più degno dl essere scelto.
Ora comprendo ciò che una volta veniva ricercato oltre ogni cosa, quando si cercava un
maestro di virtù. Un buon senso e virtù papaveracee!
Per tutti questi tanto declamati saggi, la sapienza aveva il significato di un sonno senza
sogni: la vita non aveva per loro miglior senso di questo.
Anche oggi ve ne sono taluni, e non sempre così onesti come questo: ma la loro ora è
ormai suonata. E non a lungo rimarranno in piedi: presto saranno a terra.
Felici coloro che hanno sonno: perché chineranno la testa e si addormenteranno presto."
Così parlò Zarathustra.
DEI TRASCENDENTALISTI
"Una volta anche Zarathustra volle gettare la sua illusione oltre l'umanità, come tutti i
trascendentalisti. Il mondo mi si presentò allora come opera di un Dio sofferente e
tormentato.
Il mondo mi sembrò il sogno e la poesia dl un Dio; nebbia colorata agli occhi di un divino
essere malcontento.
Bene e male, gioia e dolore, io e tu: nebbia variegata mi sembrarono davanti allo sguardo
del creatore. Il creatore aveva voluto distogliere gli occhi da se stesso; e così aveva creato
il mondo.
Per colui che soffre, distogliere l'occhio dal suo dolore e dimenticare se stesso è gioia
inebriante. Gioia inebriante e oblio mi apparve un giorno il mondo.
Questo mondo, perennemente imperfetto, immagine di eterna contraddizione, copia, e
imperfetta copia, gioia inebriante per il suo imperfetto creatore: così mi apparve un giorno
il mondo.
E così anch'io una volta lanciai la mia follia oltre l'umanità, come tutti i trascendentaliti. Ma
proprio al di là dell'umanità?
Ahimè, fratelli miei, quel Dio, che io creavo, era opera di un uomo e follia, come tutti gli
dèi!
Era un essere umano! un misero frammento di umanità e di io: era sorto dalla mia cenere
e dalla mia passione, un fantasma, e veramente! no, egli non proveniva dall'aldilà!
Che cosa accadde, fratelli miei? Io superai me stesso, me misero, portai le mie ceneri sulla
montagna, e inventai per me stesso una fiamma più splendente. Ed ecco! Il fantasma
scomparve ai miei occhi!
Ora che ho raggiunto la guarigione, mi sarebbe dolore e tormento credere a fantasmi di
questo genere: dolore e avvilimento. Così io parlo ai sognatori dell'aldilà.
Il dolore e l'incapacità crearono ogni aldilà e quella breve follia della felicità, che solo colui
che più soffre conosce.
La stanchezza, che con un balzo vorrebbe raggiungere l'ultima mèta, sì, con un balzo
mortale, quella misera, ignorante stanchezza, che non può più nemmeno volere: essa creò
tutti gli dèl e l'aldilà.
Credetemi, o miei fratelli! fu il corpo, che disperò del corpo, e con le dita dello spirito
infatuato andava cercando le pareti estreme.
Credetemi, fratelli miei! Fu il corpo, che disperò della terra, ed ascoltò parlare il ventre
dell’essere.
E allora volle penetrare con la testa attraverso le estreme pareti, e non solo con la testa,
per giungere 'all'altro mondo'.
Ma 'l'altro mondo' è molto ben nascosto agli esseri della terra, quel mondo inumano e
disumano, che non è che un celestiale Nulla; e il ventre dell'essere non parla all'uomo, se
non come uomo.
In verità, è molto arduo dimostrare ogni essere, è difficile indurlo a parlare. Ditemi, fratelli,
non è forse più facile dimostrare la più strana delle cose?
Sì, questo Io, con le sue contraddizioni e confusioni, è ancora il più adatto ad affermare il
suo essere, questo Io che crea, che vuole, che giudica, e che è la misura e il valore delle
cose.
E questo Essere dabbene, questo Io, non ci parla che del corpo, e non vuole che il corpo,
anche quando medita e fantastica e svolazza con le ali infrante.
Sempre più onestamente impara ad esprimersi, questo Io: e quanto più impara, tanto più
trova parole e onore per il corpo e la terra.
Il mio Io mi insegnò un nuovo orgoglio, e io lo insegno all'umanità: non introducete più la
testa nella sabbia delle cose divine, ma portatela libera ed alta, questa vostra testa
terrena, che crea il senso della terra!
Una nuova volontà io insegno all'umanità: seguite consapevoli questa strada, che
l'umanità ha seguito ciecamente, e abbiatela cara, e non cercate di strisciare in disparte,
come i malati e i moribondi!
Malati e moribondi furono coloro che ebbero in disprezzo il corpo e la terra e scovarono il
paradiso e le gocce di sangue redentrici: ma anche quei dolci e loschi veleni li trassero dal
corpo e dalla terra!
Volevano sfuggire alla propria miseria, e le stelle erano per loro troppo in alto. Allora
sospirarono: 'Oh, se esistessero delle vie celesti, per penetrare in un'altra esistenza, in
un'altra felicità!' E così inventarono le astuzie e le loro piccole bevande di sangue!
Credettero così di essersi liberati dei loro corpi e della terra, ingrati! Ma a chi dunque
dovevano il tormento e la delizia dei loro rapimenti? Alloro corpo e a questa terra.
Zarathustra è benevolo con i malati. In verità, non lo irritano le loro arti consolatrici né la
loro ingratitudine. Possano essi guarire e superare se stessi e generare un corpo più forte!
Né Zarathustra s'adira con il convalescente, quando guarda con tenerezza alla sua illusione
e nel mezzo della notte si aggira intorno alla tomba del suo Dio: ma le sue lacrime restano
per me malattia e corpo malato.
Molte persone malate sempre vi furono tra coloro che fanno poesia e cercano Dio; e
odiano selvaggiamente chi anela sapere e la più giovane delle virtù, che si chiama:
sincerità.
Si volgono sempre indietro verso i tempi oscuri: certamente allora follia e fede erano
un'altra cosa; l'annebbiata ragione era un modo di somigliare a Dio, e il dubbio peccato.
Molto bene conosco quelli che si credono simili a Dio: ed essi pretendono che si creda
loro, e che dubitare sia peccato. So molto bene a quale cosa essi credono di più.
In realtà, non al trascendente né alle gocce di sangue redentrici, bensì soprattutto al
corpo, mentre il loro corpo è per essi la vera cosa in sé.
Il guaio è che esso è malato: e desidererebbero uscir fuori dalla loro pelle. Perciò
ascoltano con piacere i predicatori della morte e predicano essi stessi l'aldilà.
Ascoltate piuttosto o fratelli, ciò che dice il corpo sano: che una parola più sincera e più
pura.
Il corpo puro e sano, perfetto e ben quadrato, parla con maggiore sincerità: parla dal
senso stesso della terra."
Così parlò Zarathustra.
DEI DISPREGIATORI DEL CORPO
"Ora voglio dire la mia parola a coloro che disprezzano il corpo.
Non serve a me che essi cambino le parole o i loro insegnamenti, ma che si stacchino
finalmente davvero dal loro corpo; e divengano muti.
'Sono corpo e anima' dice il bambino. E perché non dovremmo parlare come i bambini?
Ma lo sveglio, l'esperto, dice: io sono tutto corpo e niente altro tranne questo, e l'anima
non è che una parola per esprimere qualcosa che è sostanzialmente corporea.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un senso unitario, guerra e pace, gregge
e pastore.
Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, o fratello, che tu chiami 'spirito',
piccolo strumento e gioco della tua grande ragione.
'Io', tu dici, e vai fiero di questa parola. Ma la cosa più grandiosa è - anche se non vuoi
crederlo - il tuo corpo e la tua grande ragione: questa non dice Io, ma è Io.
Ciò che il senso percepisce, ciò che lo spirito intende, non ha mai fine in se stesso. Ma
senso e spirito desidererebbero convincerti di essere il fine di ogni cosa: così sciocchi essi
sono.
Strumenti e giocattoli sono senso e spirito: dietro di loro è nascosto il vero Sé. Il Sé ricerca
anche con gli occhi del senso,ascolta anche con le orecchie dello spirito.
È sempre il Sé che ascolta e ricerca: conforta, costringe, conquista, distrugge. Comanda
ed è anche il signore dell'Io.
Dietro ai tuoi pensieri e sentimenti, fratello mio, sta un forte dominatore, un saggio
sconosciuto: è il Sé.
Nel tuo corpo dimora, è il tuo stesso corpo.
C'è più senno nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E perché mai il tuo corpo
avrebbe dunque bisogno della tua migliore saggezza?
Il tuo Sé ride del tuo Io e dei suoi orgogliosi sobbalzi. 'Che cosa mai sono per me questi
salti e voli del pensiero?' dice fra sé. 'Un circolo vizioso per giungere al mio scopo. Io sono
la briglia dell'io e il suggeritore dei suoi pensieri.'
Il Sé dice all'Io: 'Ecco, avverti il dolore!' E quello soffre e pensa come riuscire a liberarsi
dal dolore; e proprio per ciò deve pensare.
Il Sé dice all'Io: 'Ecco, senti il piacere!' E quello gode e pensa come gustare quel piacere; e
proprio per questo deve pensare.
A coloro che disprezzano il corpo io voglio dire una parola. È il loro disprezzare che
costituisce il loro apprezzamento. Chi creò l'apprezzamento e il disprezzo e il valore e il
volere?
Il Sé creatore creò l'apprezzare e il disprezzare, e la felicità e il dolore. Il corpo creatore
creò lo spirito come una lunga mano del suo volere.
Anche nella vostra follia e disprezzo, o dispregiatori del corpo, servite al vostro Sé. Io vi
dico: è il vostro stesso Sé che vuol morire e si volge via dalla vita.
Non può più fare quello che gli è più caro: creare al di là di se stesso. Questo è ciò che
vorrebbe fare con tanta passione, questo è tutto il suo fervore. Ma ormai è troppo tardi:
perciò il vostro Sé vuol morire, o dispregiatori del corpo.
Tramontare vuole il vostro Sé, ed è perciò che voi siete divenuti dispregiatori del corpo!
Poiché non riuscite più a superare voi stessi.
E perciò siete in collera con la vita e con la terra.
Una stupida invidia traluce nel fosco sguardo del vostro disprezzo.
Io non andrò per la vostra via, o disprezzatori del corpo. Per me voi siete ponti per il
Superuomo!"
Così parlò Zarathustra.
DEI PIACERI E DELLE PASSIONI
"Fratello mio, se possiedi una virtù, e questa virtù è tua, tu non l'hai in comune con
nessuno.
Ma tu vuoi darle un nome e carezzarla; tu vuoi tirarle le orecchie e spassartela con lei.
Ma ecco! Così facendo, tu finisci per avere il suo nome in comune con la solitudine e
divenire tu stesso moltitudine e volgo con la tua virtù!
Meglio faresti a dire: 'Inesprimibile e senza nome è ciò che fa il tormento e la tenerezza
del mio spirito ed è la fame delle mie viscere'.
Sia la tua virtù troppo alta per la dimestichezza di un nome: e quando parli di lei, non
vergognarti di balbettare.
Dunque parla e balbetta: 'Questo è il mio bene, questo è ciò che io amo, ciò che a me
completamente piace; solamente così io voglio il bene.
Non lo voglio come una legge di Dio, non come un regolamento e un rimedio per l'uomo:
né sia come un segnavia dell'aldilà e del paradiso.
Una virtù terrena è ciò che io amo: poca prudenza è in lei, e ancor meno raziocinio.
Ma questo uccello si è fatto qui da me il nido: per questo lo amo e mi sta a cuore; esso
abita qui da me e cova le sue uova d'oro'.
Così tu devi balbettando elogiare la tua virtù.
Una volta tu avevi delle passioni e le dicevi cattive. Ma ora non hai che virtù: esse sono
venute fuori dalle tue stesse passioni.
Tu hai collocato la tua più alta mèta in queste passioni: e così esse sono divenute le tue
virtù e le tue felicità.
E anche se tu appartenessi alla razza dei rabbiosi o dei libidinosi o dei maniaci religiosi o
dei vendicativi:
alla fine tutte le tue passioni diverrebbero virtù e I tuoi demoni si tramuterebbero in
agnelli.
Una volta tu avevi nella tua cantina dei cani selvatici: ma alla fine si trasformarono in
uccelli e in leggiadre cantanti.
Dai tuoi veleni traesti il tuo balsamo; mungesti la mucca del tuo dolore; ed ora tu bevi il
dolce latte delle te mammelle.
E nulla di male sorgerà mai più da te, tranne il male, che sorge dalla lotta delle tue virtù.
Fratello mio, se avrai fortuna, tu avrai una sola virtù e nulla di più: così passerai più
facilmente oltre il ponte.
È onorevole possedere molte virtù, ma è un grave destino; e molti andarono nel deserto e
si uccisero, perché erano stanchi di essere battaglia e campo di battaglia delle virtù.
Fratello mio, sono la guerra e la battaglia un male? Ma necessario è questo male,
necessario è l'astio e la diffidenza e la calunnia tra le tue virtù.
Vedi come ogni tua virtù desidera ciò che vi è di più alto: essa vuole tutto il tuo spirito,
che sia suo araldo, vuole tutta la tua potenza nell'ira, nell'odio e nell'amore.
Ogni virtù è invidiosa dell'altra, e gran brutta cosa è l'invidia. Possono le virtù per invidia
andare in rovina.
Chi è avvolto dalla fiamma dell'invidia, alla fine volge, come lo scorpione, contro se stesso
il pungiglione avvelenato.
Ohimè, fratello mio, non hai tu mai veduto una virtù diffamarsi e trafiggersi da se stessa?
L'UOMO È QUALCOSA CHE DEVE ESSERE SUPERATO; perciò devi amare le tue virtù:
poiché esse ti manderanno in rovina."
Così parlò Zarathustra.
DEL PALLIDO DELINQUENTE
"Voi non volete uccidere, voi magistrati e immolatori, prima che la bestia abbia annuito?
Ecco, il pallido delinquente ha annuito: da quel suo sguardo parla un grande disprezzo.
'Il mio io è qualche cosa che deve essere superato: il mio io è per me il grande disprezzo
dell'uomo': questo dice il suo sguardo.
Quando egli giudicò se stesso, fu il suo attimo più sublime: non lasciate che il sublime
ridiscenda di nuovo nella bassezza della sua natura!
Non vi è liberazione per colui che soffre di se stesso, tranne una rapida morte.
La vostra sentenza di morte, o giudici, sia di pietà e non di vendetta. E mentre voi
uccidete, cercate di giustificare voi stessi la vita!
Non basta che voi vi riconciliate con colui che uccidete. La vostra tristezza sia amore verso
il Superuomo: così soltanto potrete giustificare il vostro sopravvivere! 'Nemico' dovete dire, ma non 'malfattore'; 'malato' dovete dire, ma non 'mascalzone';
'pazzo' dovete dire, ma non 'peccatore'.
E tu, giudice rubicondo, se avessi il coraggio di dire ciò che hai nel pensiero, ognuno
griderebbe: 'Allontanatevi da questo sudiciume e da questa vipera!'
Ma altro è il pensiero e altra è l'azione, altra ancora l'immagine dell'azione. La ruota delle
cause non si volge fra di loro.
Un'immagine fa ingiallire quest'uomo pallido. Quando compì la sua azione, era pari ad
essa; ma non riuscì a sopportarne l'immagine, dopo che l'ebbe compiuta.
Prese a considerare se stesso come attore di un’azione. Per me ciò è follia: l'eccezione di
un attimo divenne la sua stessa sostanza.
La corda tiene legata la gallina; il colpo che egli ha fatto, ha legato la sua povera ragione:
io la chiamo follia dopo l'azione.
Ascoltate, voi giudici, v'è ancora un'altra follia: e questa è prima dell'azione. Ahimè, voi
non mettete abbastanza a fondo le mani in quest'anima!
Così parla il giudice rubicondo: 'Che cosa ha ucciso in sostanza questo assassino? In realtà
ha voluto soltanto rubare'. Ma io dico a voi: la sua anima voleva sangue, non rapina:
aveva sete della voluttà del coltello!
La sua povera ragione non è riuscita a comprendere questa follia e l'ha convinto. Gli ha
detto: ‘Ma che te ne fai del sangue: non vuoi almeno compiere una rapina? prenderti una
vendetta?'
Ed egli porse l'orecchio alla sua povera ragione e come piombo la sua parola ha pesato su
di lui; allora egli ha rapinato quando ha ucciso. Non voleva vergognarsi della sua follia.
Ed ora dl nuovo il piombo della sua colpa grava su di lui, e di nuovo la sua povera ragione
è così rigida, così paralizzata, così pesante.
Se egli solo potesse scuotere la testa potrebbe sbarazzarsi del suo peso: ma chi scuote la
testa?
Che cos'è quest'uomo? Un mucchio di malanni, che per colpa dello spirito si riversano nel
mondo: e lì cercano la loro preda.
Che cos'è quest'uomo? Un viluppo di feroci serpenti, che raramente stanno in pace fra
loro; e allora se ne vanno ciascuno per conto proprio è cercano vittime nel mondo.
Guardate questo povero corpo! Ciò che egli soffrì e verso cui si tese è ciò che questa
povera anima stessa immaginò; lo immaginò come piacere di uccidere e sete della voluttà
del coltello.
Chi ora diviene malato è colui che viene sopraffatto dal maligno, che ora è egli stesso
maligno: vuoi fare del male con ciò che gli fa male. Ma vi furono anche altri tempi ed altro
male ed altro bene.
Una volta il dubbio e la volontà egoistica venivano ritenuti male. In quel tempo il malato
diveniva eretico e strega: come eretico e come strega soffriva e voleva far soffrire.
Ma questo non entra nelle vostre orecchie: farebbe loro male, secondo voi. Ma che me ne
importa del vostro bene!
Molto del vostro bene mi ripugna, mentre non mi ripugna in realtà il vostro male. Mi
piacerebbe che essi avessero una follia che li rovinasse, come questo pallido delinquente!
Veramente mi piacerebbe che la loro follia si chiamasse verità o fedeltà o giustizia: ma essi
hanno la loro virtù che li fa vivere a lungo, miseramente contenti di sé.
Io sono una ringhiera sul fiume: che mi afferri chi mi vuole afferrare! Ma non sono la
vostra gruccia."
Così parlò Zarathustra.
DEL LEGGERE E DELLO SCRIVERE
"Di tutto ciò che è scritto, io amo soltanto ciò che è stato scritto col sangue. Scrivi col tuo
sangue, e ti accorgerai che il tuo sangue è spirito. Non è facile capire il sangue degli altri:
io odio coloro che hanno il vizio di leggere.
Chi conosce che cosa è un lettore, non si sente più di far nulla per lui. Ancora un secolo di
lettori, e lo spirito stesso sparirà dal mondo.
Che ognuno ormai possa imparare a leggere è un fatto che alla lunga ammorba non solo
lo scrivere ma anche il pensare. Una volta lo spirito era Dio, poi divenne uomo, e ora non è ormai che plebe.
Chi scrive in sangue e in aforismi non vuole essere letto, ma appreso a memoria.
Nelle montagne, il sentiero più breve è da vetta a vetta: ma per percorrerlo è necessario
avere lunghe gambe. Gli aforismi debbono essere vette: e coloro a cui essi vengono detti
devono essere grandi e di alta statura.
L'aria sottile e pura, il pericolo prossimo, e lo spirito pieno di una gioconda malignità:
questo è ciò che concorda bene insieme.
Voglio avere intorno a me dei coboldi, perché io sono coraggioso. Il coraggio che allontana
i fantasmi si crea dei coboldi; è un coraggio che vuol ridere.
Il mio sentimento non va più d'accordò col vostro: questa nuvola che vedo sotto di me,
questo nero e questa pesantezza di cui io rido; proprio questa è la vostra nuvola
temporalesca.
Voi guardate in alto, quando tendete verso l'elevazione. E io guardo giù nel profondo,
perché sono già esaltato.
Chi di voi può insieme ridere ed essere esaltato?
Chi sale sugli alti monti, ride sopra tutte le tragedie e tutte le tristizie seriose.
Occorre essere spensierati, violenti, ironici; così ci vuole la sapienza: essa è una femmina
e ama sempre solo il guerriero.
Voi mi dite: 'La vita è dura da sopportare'. Ma perché avreste mai di mattina tanto
orgoglio e a sera tanta dedizione?
La vita è dura da sopportare: ma non prendete arie da volermi intenerire! Tutti insieme
siamo dei begli asini, maschi e femmine.
Che cosa abbiamo in comune con il bocciolo di rosa che comincia a tremare perché una
goccia di rugiada vi si è posata sopra?
È vero: noi amiamo la vita, non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati
ad amare.
C'è sempre qualche pizzico di follia nell'amore. Ma c'è anche sempre qualche pizzico dl
ragione nella follia.
Ed anche a me, che sono buono verso la vita, sembra che le farfalle e le bolle di sapone, e
gli uomini ad esse simili, siano coloro che sanno meglio che cosa è la felicità.
Queste animule leggere, pazzerelle, graziose, mobili, svolazzano qua e là per curiosità; e
ciò induce Zarathustra a commuoversi fino alle lacrime e al canto.
Per me io crederei solo ad un Dio che sapesse danzare.
Quando vidi il mio diavolo, scoprii che era serio, esauriente, profondo, solenne: era lo
spirito della gravità, in virtù del quale cadono tutte le cose.
Non è con l'ira, ma con il riso che si uccide. Uccidiamo dunque lo spirito della gravità!
Ho imparato a camminare: da allora mi lascio andare. Ho imparato a volare: da allora non
voglio più ricevere, spinte per muovermi.
Ora io sono leggero, ora io volo, ora io vedo sotto di me, ora danza un dio in me."
Così parlò Zarathustra.
DELL'ALBERO SUL MONTE
L'occhio di Zarathustra aveva veduto che un giovane cercava di sfuggirlo. E quando una
sera se ne andava solo per i monti che circondano la città, che è detta "La vacca
variopinta", ecco che scorse camminando quel giovane appoggiato ad un albero, che
guardava con occhio stanco nella vallata. Zarathustra afferrò l'albero presso cui il giovane
sedeva e così parlò:
"Se io volessi scuotere quest'albero con le mie mani, non vi riuscirei.
Ma il vento che non vediamo lo tormenta e lo piega dove vuole. Sono le mani invisibili
quelle che più i ci piegano e ci tormentano."
Allora il giovane si levò allarmato e disse: "Sento Zarathustra; proprio ora pensavo a lui."
Zarathustra ribatté:
"Perché ti spaventi per questo? Accade con l'uomo quello che accade con l'albero.
Quanto più vuole crescere verso la luce, tanto più tenaci si radicano le sue radici, nel
terreno, giù, nell'oscurità, nel profondo, nel male. "Sì, nel male!" urlò il giovane. "Come è
possibile che tu abbia scoperto la mia anima?"
Zarathustra sorrise e disse: "Taluna anima non si riesce mai a scoprirla veramente, fosse
anche un'anima da noi scoperta."
"Si, nel male!" gridò ancora il giovane. "Hai detto la verità Zarathustra. Io non ho più
fiducia in me stesso da che voglio salire in alto, e nessuno ha più fiducia in me; com'è che
ciò accade?
Io mi muto troppo rapidamente: il mio oggi distrugge il mio ieri. Spesso salto i gradini
mentre salgo, e questo i gradini non me lo perdonano.
Poiché sono in alto, mi trovo sempre solo. Nessuno parla con me, il gelo della solitudine mi
fa tremare. Ma che cosa voglio mai in realtà lassù?
Come mi vergogno del mio salire e incespicare! Come rido del mio asmatico sbuffare!
Come odio chi vola! Come sono stanco di stare in alto!"
E qui il giovane tacque. Zarathustra guardò l'albero a cui stavano entrambi appoggiati, e
parlò così:
"Quest'albero sta qui solo sul monte; è cresciuto alto sull'uomo e sull'animale.
Se volesse parlare, non troverebbe nessuno che lo comprenda, tanto in alto è cresciuto.
Ora attende e attende; che cosa attende? Sta troppo vicino a dove stanno le nuvole:
attende forse il primo fulmine?"
Quando Zarathustra ebbe detto questo, il giovane gridò gesticolando: "Sì, Zarathustra, tu
dici la verità. Quando volevo salire e salire, tendevo verso la mia dissoluzione, e tu sei il
fulmine che attendevo! Guarda, che cosa sono ío ancora da che tu sei apparso? È l'invidia
di te, che mi ha distrutto!" Così parlò il giovane, e pianse amaramente. -Ma Zarathustra
pose il suo braccio intorno a lui e lo condusse via con sé.
Quando furono andati avanti per un buon tratto dl cammino, Zarathustra cominciò a
parlare così:
"Mi dilania il cuore. Meglio delle tue parole, il tuo occhio mi dice tutto il pericolo che corri.
Ancora tu non sei libero; stai solo cercando la libertà. E la tua ricerca ti ha reso pallido,
stanco e insonne.
Nei liberi cieli vuoi salire, e di stelle ha sete la anima tua. Ma anche i tuoi cattivi istinti
hanno sete di libertà.
I tuoi cani selvaggi vogliono la libertà; abbaiano di gioia nella loro cantina, quando il tuò
spirito tenta aprire tutte le loro prigioni.
Tu sei per me ancora un prigioniero, che ha sete dl libertà: ahimè, ai prigionieri della tua
specie l'anima si fa saggia, ma anche amaramente astuta e cattiva.
Anche il liberato dello spirito deve purificarsi. Molta ragione e muffa gli è rimasta
attaccata: il suo occhio deve tuttora purificarsi.
Sì, conosco il tuo pericolo. Ma ti scongiuro, per il mio amore e la mia speranza: non gettar
via il tuo amore e la tua speranza!
Tu ti senti tuttora nobile, e nobile ti sentono tuttora gli altri, che ce l'hanno con te e ti
guardano con occhio cattivo. Sappi che a tutti il nobile dà noia.
Anche ai buoni dà noia il nobile: ed anche se lo dicono un buono, tentano di metterlo da
parte.
Il nobile vuole creare il nuovo e una nuova virtù. Mentre il buono vuole solo il vecchio, e
conservare tutto ciò che è vecchio.
Non è tuttavia questo il pericolo del nobile, che egli diventi un buono, ma che diventi un
maligno, uno sprezzante, un annientatore.
Ahimè, ho conosciuto degli uomini nobili che perdettero la loro ultima speranza. E finirono
col negare ogni altra speranza."
Così parlò Zarathustra.
DEI PREDICATORI DI MORTE
"Esistono dei predicatori di morte: la terra è piena dl gente a cui occorre predicare la fuga
dalla vita.
La terra è piena di gente inutile; la vita è corrotta dalla troppa quantità. Quanto è bene in
tal caso sospingerli, col miraggio della 'vita eterna', fuori di questa vita!
'Itterici': così vengono detti spesso i predicatori di morte, o 'uomini neri'. Ma io ve li voglio
mostrare in altri colori.
Sono in realtà esseri orrendi, che portano in loro la belva rapace, e non hanno altra scelta
che il piacere o la macerazione. E anche i loro piaceri non sono che macerazione.
Non sono neppure diventati uomini, questi esseri schifosi: predichino dunque pure la
rinuncia alla vita e se ne vadano alla malora!
Sono i tisici dell'anima: appena nati cominciano a morire e si volgono verso dottrine di
stanchezza e di rinuncia.
Vogliono essere morti, e noi dovremmo realmente salutare con gioia questa loro volontà!
Guardiamoci bene dallo svegliare i morti e profanare i viventi sarcofagi!
Incontrano un malato o un vecchio o un cadavere; è subito dicono: 'Ecco la confutazione
della vita!'
Ma sono essi i confutati, il cui occhio scorge soltanto un volto dell'esistenza.
Avvolti nella loro pesante gravità, vanno alla ricerca delle piccole occasioni funebri:
aspettano e digrignano i denti.
Oppure cercano lo zuccherino, e intanto si prendono .gioco del loro infantilismo:
s'attaccano alloro fuscello di vita e ridono del fatto di stare attaccati a un fuscello.
La loro saggezza suona così: Pazzo chi resta in vita; e pazzi appunto siamo noi! Questa è
in realtà la più grande follia della vita!'
'La vita è soltanto dolore': così dicono altri; e non mentono: cercate dunque di smetterla!
Cercate di far sì che essa si spenga, se è soltanto dolore!
E così suoni la dottrina della vostra virtù: 'Tu devi uccider te stesso! Ti devi sottrarre alla
vita con le tue mani!'
'La volùttà è peccato', così dicono gli uni, che predicano la morte; 'lasciateci camminare
sull'orlo della strada senza generare figlioli!'
'Generare è penoso' dico gli altri; 'a quale scopo generare ancora? Non si generano che
dei disgraziati!' E anch'essi sono predicatori di morte. 'Occorre la compassione' dicono i terzi. 'Prendete ciò che io ho! Prendete ciò che io sono!
Tanto meno mi legherà la vita!'
Se fossero veramente uomini compassionevoli, cercherebbero di togliere la vita al loro
prossimo. Essere cattivi sarebbe infatti in tal caso la loro vera bontà.
Ma vogliono soltanto liberarsi della loro vita: e che importa loro di legarvi tanto più agli
altri con le loro catene e i loro doni!
E anche voialtri, per cui la vita e affannoso lavoro e inquietudini: non siete stanchi della
vita? Non siete maturi per la predicazione della morte? Voi tutti che amate il lavoro
accanito e la rapidità, il nuovo, l'inusato, in fondo riuscite a sopportarvi male, la vostra
laboriosità è maledizione e volontà di dimenticarsi.
Se credeste di più alla vita vi dareste meno in preda al nomento. Ma non avete abbastanza
stoffa per saper aspettare, e neanche per saper essere pigri! Da ogni parte risuona la voce
di coloro che predicano la morte: e la terra piena di coloro a cui è necessano predicare la
morte. Oppure ‘la vita eterna': che per me è la stessa cosa, verso cui essi si avviano in
fretta!"
Così parlò Zarathustra.
DELLA GUERRA E DELLA MASSA DEI GUERRIERI
"Dai nostri migliori nemici noi non vogliamo essere risparmiati, e neppure da quelli che noi
amiamo dal fondo del cuore. Lasciate dunque che io vi dica la verità!
Fratelli miei in guerra! Io vi amo dal profondo del cuore, io sono ed ero vostro pari. E sono
anche il vostro migliore nemico Lasciate dunque che io vi dica la verità!
Io ben conosco l'odio e l'astio dei vostri cuori. Voi non siete sufficientemente grandi per
poter ignorare l'odio e l'astio. Ma siate almeno abbastanza grandi per non vergognarvi di
loro!
E se non potete essere santi della cognizione, siatene per lo meno i guerrieri. Essi sonò i
compagni e i precursori di tale santità.
Io vedo molti soldati: potessi scorgere molti guerrieti: 'Uni-forme' si chiama quella che
portano: potesse essere non 'uni-forme' ciò che si nasconde sotto di essa!
Voi per me dovete essere quelli il cui occhio seinpre ricerca un nemico - il vostro nemico. E
in qualcuno di voi l'odio divampa al primo sguardo. Il vostro nemico dovete cercarvi, la
vostra guerra dovete condurre, e per i vostri ideali! E se il vostro ideale soccombe, pur
tuttavia la vostra buona fede dovrà gridare al trionfo!
Dovete amare la pace come un mezzo per nuove guerre. E la pace breve più che la lunga.
Non vi consiglio il lavoro, ma il combattimento.
Non vi consiglio la pace, ma la vittoria.
Sia il vostro lavoro un combattimento, la vostra pace una vittoria!
Non si può tacere e starsene tranquillamente seduti, se non con la freccia e l'arco al
fianco: altrimenti si fanno chiacchiere e si litiga. La vostra pace sia una vittoria!
Voi dite che è la buona causa che santifica la guerra. Ma io vi dico che è la buona guerra
che santifica qualunque causa.
La guerra e il coraggio hanno compiuto cose più grandi che l'amore del prossimo. Non la
vostra compassione, ma il vostro valore fino ad ora ha salvato le vittime.
'Che cosa, è buono?' voi chiedete. Essere valoroso è buono. Lasciate che le ragazzette
dicano che essere buono è ciò che è insieme grazioso e toccante.
Vi considerano senza amore: ma il vostro cuore è puro, e io amo il pudore della vostra
cordialità. Voi avete vergogna del vostro flusso, e altri hanno vergogna del loro riflusso.
Siete brutti? Ebbene, fratelli miei, avvolgetevi nel sublime, che è il mantello della
bruttezza!
Quando il vostro spirito diverrà grande, diverrà anche temerario, e nella vostra sublimità vi
sarà della malvagità. Io vi conosco.
Nella malvagità si incontrano il temerario con il debole. Ma si fraintendono l'un l'altro. Io vi
conosco.
Voi dovete avere solo nemici da odiare, non nemici da disprezzare. Dovete essere
orgogliosi del vostro nemico: allora le vittorie del vostro nemico saranno anche le vostre
vittorie.
Rivolta: questa è la distinzione dello schiavo. La vostra distinzione sia l'obbedienza! Il
vostro stesso comando sia l'obbedienza!
A un buon guerriero suona più gradito 'tu devi' che 'io voglio'. E tutto ciò che a voi è caro,
voi dovete lasciare che prima ve lo comandino.
Il vostro amore alla vita sia amore alla vostra speranza più alta: e la vostra speranza più
alta sia il più alto ideale della vita!
Ma il vostro più alto ideale voi dovete lasciarvelo comandare da me: esso dice che l'uomo
è qualcosa che deve essere superato.
Dunque, vivete la vostra vita di obbedienza e di guerra! Che importa una lunga vita? Quale
guerriero vuole mai essere risparmiato?
Io non vi risparmierò, perché vi amo dai profondo, del cuore, o miei fratelli nella lotta!"
Così parlò Zarathustra.
DEL NUOVO IDOLO
"Da qualche parte esistono ancora popolazioni e greggi, ma non da noi, fratelli miei; noi
abbiamo degli Stati.
Stato? Che cosa è mai? Ebbene! Aprite le orecchie, perché sto per dirvi la mia parola sulla
morte dei popoli.
Stato si chiama il più freddo di tutti i freddi mostri. Freddo anche nel mentire; una
menzogna che lingueggia dalla sua bocca: 'Io, lo Stato, sono il popolo'.
È una menzogna! Creatori erano coloro che crearono i popoli e trasmisero in loro una fede
e un amore: e così servirono la vita.
Ma distruttori sono questi che tendono trappole e le chiamano Stato e vi appendono sopra
una spada con cento avidità.
Dove esiste ancora un vero popolo, questi non ammette Stato, che anzi odia come una
iettatura e un peccato contro il costume e il diritto.
Io vi do questo segno: ogni popolo parla il suo linguaggio del bene e del male: il vicino
non lo cornprende. E quello infatti un parlare che si è inventato da sé, secondo il costume
e il diritto.
Ma lo Stato mente in tutte le lingue riguardo al bene e al male: mente, qualunque cosa
dica; e anche ciò che ha lo ha rubato.
Tutto in lui è falso; eon denti rubati morde, il mordace. Persino le sue interiora sono false.
La corruzione delle espressioni sia del bene che del male è il contrassegno dello Stato.
Invero questo contrassegno indica volontà di morte. E in realtà, attrae i predicatori di
morte!
Molti, troppi sono stati messi al mondo: per i superflui è stato creato lo Stato!
Guardate, dunque, come esso li alletta, i superflui! Come li inghiottisce e li mastica e li
rimastica!
'Sulla terra nulla vi è più grande di me: io sono il dito ordinatore di Dio': così rugge la
belva. E cadono in ginocchio non soltanto coloro che hanno lunghi orecchi e vista corta!
Ohimè, anche a voi, grandi anime, mormora le sue tristi bugie! Ohimè, individua i cuori
ricchi, che si sanno prodigare!
Sì, ha individuato anche voi, o vincitori dell'antico Dio! Voi vi siete stancati nel
combattimento, e ora la vostra stanchezza serve al nuovo idolo!
'Desidera circondarsi di eroi e uomini d'onore, il nuovo idolo! Ben volentieri si delizia della
luce solare delle coscienze pulite, la fredda bestia!
Tutto vi vuole dare, se voi lo adorate, il nuovo idolo: così acquista la magnificenza delle
vostre virtù e lo sguardo dei vostri occhi orgogliosi.
E con voi egli vuole adescare le moltitudini in eccesso! È un'opera infernale che così è
stata inventata, un cavallo di morte, tintinnante nelle guarnizioni di onorificenze divine! Una morìa per molti è stata così ideata, che si pavoneggia come vita: ma in realtà è un
servizio reso dal cuore a tutti i predicatori di morte!
Ecco lo Stato, dove tutti bevono veleno, buoni e cattivi: lo Stato, dove tutti si perdono,
buoni e cattivi: lo Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama 'vita'.
Guardateli, questi superflui! Essi si rubano le opere degli inventori e i tesori dei saggi:
chiamano istruzione il loro furto, e tutto diviene per causa loro malattia e sconcezza!
Guardateli, questi superflui! Sono sempre malati, vomitano la loro collera e la chiamano
'giornale'. Si divorano l'un l'altro e non riescono neppure a digerirsi.
Guardateli, questi superflui! Si procurano ricchezze e con queste divengono più poveri.
Vogliono autorità, e prima ancora la leva del potere, molto denaro; gli impotenti!
Guardate come si arrampicano, le agili scimmie! Si avviticchiano l'una sull'altra e così si
trascinano nella melma e nell'abisso.
Tutti vogliono giungere al trono: questa è la loro follia; come se la felicità fosse sul trono!
Spesso sul trono c'è invece la melma; spesso anche il trono è ñella melma. Tutti pazzi e scimmie, tutti sovreccitati. Il loro idolo, la fredda bestia, puzza: tutti puzzano
per me, gli idolatri.
Fratelli miei, volete forse asfissiare nelle, esalazioni delle loro bocche e della loro avidità?
Piuttosto rompete la finestra e balzate all'aperto.
Fuggite sulla strada al cattivo odore! Fuggite l'idolatria dei superflui!
Fuggite sulla strada al cattivo odore! Fuggite dal vapori di questi sacrifici umani!
Ancora oggi la terra è libera per le grandi anime.
Liberi sono anche molti luoghi per i solitari e le anime gemelle, intorno a cui soffia l'odore
di tranquilli mari.
C'è ancora una vita libera per le grandi anime. Chi poco possiede, tanto meno è
posseduto: sia lodata dunque la piccola povertà!
Dove lo Stato finisce, comincia l'uomo che non è superfluo: comincia il canto della
necessità, la melodia singolare e irrepetibile.
Là dove lo Stato finisce, guardate dunque là, fratelli miei! Non vedete l'arcobaleno e il
ponte del Superuomo?"
Così parlò Zarathustra.
DELLE MOSCHE DEL MERCATO
"Fuggi, amico mio, nella solitudine! Io ti vedo stordito dal chiasso dei grandi uomini e
punzecchiato dagli aculei dei piccoli.
Il bosco e la roccia sapranno degnamente tacere con te. Sii simile all'albero che tu ami,
quello dall'ampia ramaglia: che è sospeso quieto sul mare e silenzioso ascolta.
Dove finisce la solitudine, comincia il mercato; e dove comincia il mercato, comincia anche
il chiasso dei grandi attori drammatici e il ronzio delle mosche velenose.
Nel mondo, le cose migliori non sono utili a nulla, senza che qualcuno le rappresenti: il
popolo chiama grandi uomini i commedianti.
Il popolo capisce poco la grandezza, cioè la creazione. Ma ha senso per tutti i commedianti
e gli attori drammatici di cose grandi.
Ma il mondo fa pernio intorno agli scopritori di nuovi valori: vi gira intorno invisibilmente. Il
polo e la fama girano invece intorno agli attori orpmmatici: così 'va il mondo'.
L'attore drammatico ha spirito, ma ha poca coscienza dello spirito. Crede sempre in ciò
con cui riesce più fortemente a far credere gli altri: credere in se stesso!
Domani ha una nuova fede e dopodomani un'altra. Ha sensi irascibili, come il popolo, e
umore volubile.
Chiama 'dimostrare' il distruggere. E 'persuadere' il far impazzire. E il sangue gli sembra la
migliore delle ragioni.
Una verità che penetri solamente in orecchie fini la chiama bugia e nullità. In realtà, egli
non crede che agli dèi che fanno un gran rumore nel mondo!
Il mercato è zeppo di gravi burloni, e il popolo si gloria dei suoi grandi uomini essi sono
per lui i signori dell'ora.
Ma l'ora li spinge: ed essi ti spingono a loro volta. E anche da te vogliono un sì o un no.
Ahimè, forse che tu vuoi metterti a sedere su una sedia in mezzo al pro e al contro?
Non essere geloso di questi assolutisti e violenti, tu, amante della verità! Giammai la verità
si è appesa al braccio di un assolutista. ' Fuggi i burloni e torna indietro verso la tua
sicurezza: solo sul mercato possono aggredirti con un sì o un no.
Lento è il processo dl maturazione in tutti i pozzi profondi: bisogna saper attendere a
lungo, per sapere che cosa è caduto nelle loro profondità.
Tutte le grandi cose accadono fuori dal mercato e dalla fama: gli scopritori di nuovi valori
sono sempre vissuti lontani dal mercato e dalla fama.
Fuggi, amico mio, nella tua solitudine: io ti vedo punzecchiato dalle mosche velenose.
Fuggi lassù dove spira una forte e rude atmosfera!
Fuggi nella tua solitudine! Sei vissuto troppo a lungo vicino ai piccoli e ai meschini. Fuggi
la loro invisibile vendetta! Contro dite essi non possono se non vendicarsi!
Mai più alzerai il braccio contro di loro! Essi sono innumerevoli, e non è tuo compito fare lo
scacciamosche. Innumerevoli sono i piccoli e i meschini; e più d'un superbo edificio è crollato a causa delle
gocce di pioggia e dell'erbaccia che vi cresceva intorno.
Tu non sei una pietra, ma già sei scavato dalle molte gocce. Le troppe gocce potrebbero
spezzarti e farti scoppiare.
Io ti vedo stanco di queste mosche velenose, ti scorgo punto a sangue in cento luoghi; e il
tuo orgoglio non vuole neppure adirarsi.
Desiderano con tutta innocenza il sangue, bramano sangue le loro anime anemiche; e così
ti punzecchiano in tutta innocenza.
Ma tu; profondo, tu soffri troppo profondamente anche delle piccole ferite; e prima ancora
che tu guarisca, il medesimo Verme velenoso finisce per strisciarti sulla mano.
Tu sei troppo orgoglioso per uccidere questi golosi. Ma bada di non dover poi sopportare il
destino della loro velenosa ingiustizia!
Ronzano intorno a te anche con la loro lode: ma la loro lode non è che invadenza.
Vogliono la vicinanza della tua pelle e del tuo sangue.
Ti adulano come un dio o un demonio; gemono davanti a te come davanti a un dio o a un
diavolo. Che importa? Non sono che adulatori e piagnoni.
Spesso si rivestono anche di un piacevole aspetto. Ma questa è stata sempre la prudenza
dei vigliacchi. Perché i Vigliacchi sono prudenti!
Nelle loro misere anime pensano di te molte cose, perché tu desti i loro dubbi! Il molto
pensare suscita dubbi.
Ti puniscono per tutte le tue virtù. Ti perdonano di vero cuore solo i tuoi errori.
Poiché tu sei indulgente e giusto, e dici: 'Sono innocenti nella loro piccola esistenza'. Ma la
loro misera anima pensa: 'Colpa è ogni grande esistenza'.
Anche quando sei indulgente con loro, essi tuttavia si sentono da te disprezzati; e
ricambiano i tuoi benefici con oscuri malefici.
Il tuo silenzioso orgoglio va sempre contro il loro gusto; sono felici, quando tu sei una
volta così modesto da mostrarti presuntuoso.
Ciò che noi riconosciamo in un uomo, lo accendiamo in lui. Guardiamoci quindi dai piccoli!
Davanti a te essi si sentono piccoli, e la loro inferiorità cova sotto la cenere e brucia,
preparando contro dite una invisibile vendetta.
Non hai osservato come spesso sono divenuti muti, quando ti sei avvicinato a loro, ed
hanno perso ogni forza, come il fumo di un fuoco che sta spegnendosi?
Sì, amico mio, tu sei la cattiva coscienza per i tuoi vicini: perché essi sono indegni dite.
Perciò ti odiano e desidererebbero succhiare il tuo sangue.
I tuoi vicini saranno sempre delle mosche velenose; ciò che è in te grande è appunto ciò
che li rende velenosi e li accomuna alle mosche.
Fuggi, amico mio, nella tua solitudine, là dove spira una forte e rude atmosfera! Non è tuo
compito fare lo scacciamosche."
Così parlò Zarathustra.
DELLA CASTITÀ
"Io amo la foresta. Nella città si vive male: vi sono troppi libidinosi.
Non è forse meglio cadere nelle mani dl un omicida, che nei sogni di una donna libidinosa?
Guardate quegli uomini: il loro sguardo dice che sulla terra non c'è nulla di meglio che
stare coricato con una donna.
Melma è nel fondo delle loro anime; guai, se la loro melma possiede per caso uno spirito!
Foste almeno interamente bestie! Ma alla bestia appartiene l'innocenza.
Forse che io vi consiglio di uccidere i vostri sensi?
Vi consiglio solo l'innocenza dei sensi.
Forse che io vi consiglio la castità? La castità in alcuni è una virtù, ma in altri è quasi un
vizio.
Taluni si astengono: ma la cagna della sensualità occhieggia con astio da tutto ciò che essi
fanno.
Persino nelle alture della loro virtù e fin nel freddo del loro spirito li segue questa bestia
con la sua inquietudine.
E come ci sa fare la cagna della sensualità nel mendicare un pezzetto di spirito, quando le
si rifiuta un pezzetto di carne!
Voi amate le tragedie e tutto ciò che spezza il cuore? Ma io nutro forti sospetti a proposito
della vostra cagna.
Voi avete occhi troppo terribili e guardate avidi i sofferenti. Forse che la vostra libidine si è
travestita e si chiama compassione?
E vi dedico anche questa allegoria: non pochi, che vollero scacciare il loro diavolo, finirono
essi stessi tra i maiali.
A colui il quale la castità riesce pesante, bisogna sconsigliarla, affinché non divenga per lui
la strada dell'inferno, della melma e della concupiscenza dell'anima.
Parlo forse di cose sudice? Non è questa la cosa peggiore.
Non quando la verità è sudicia, ma quando essa è superficiale, chi conosce scende di mala
voglia nelle sue acque.
In realtà, vi sono alcuni che sono casti nell'intimo: ma essi sono più indulgenti di cuore,
ridono più volentieri e più spesso di vol.
Essi ridono anche della castità e si chiedono: 'Che cosa è la castità?
Non è forse una pazzia? Ma questa pazzia è venuta a trovarci, non siamo stati noi a
cercarla.
Abbiamo dato ad essa la nostra ospitalità e il nostro cuore: ora essa abita con noi, e può
rimanervi quanto desidera!’ "
Così parlò Zarathustra.
DELL'AMICO
" ‘Uno è sempre intorno a me' pensa l'eremita. 'Sempre uno via uno: questo alla fine
produce il due!
Io e Me siamo sempre in premuroso colloquio: come sopportare ciò, senza un amico?'
L'amico per l'eremita è sempre il terzo: il terzo è il sughero che impedisce che il colloquio
tra i due cada nel fondo.
Ahimè tutti gli eremiti hanno troppa profondità. Perciò bramano tanto un amico e le sue
alture.
La nostra fede negli altri tradisce ciò in cui noi desideriamo credere. La nostra brama di un
amico ciò che ci tradisce.
Spesso si vuole con l'amore superare l'invidia. Spesso si finisce per aggredire e farsi un
nemico, solo per celare la nostra vulnerabilità.
'Sii almeno mio nemico!' Così parla il vero rispetto, che non osa domandare amicizia.
Se si vuole davvero un amico, bisogna anche avere il coraggio di scendere in guerra per
lui: e per eondurre una guerra, bisogna saper essere nemio.
Bisogna onorare il proprio amico anche nel nemico.
Puoi forse avvicinarti al tuo amico senza passare dalla sua parte?
Nel proprio amico si deve avere il proprio miglior nemico. Devi essergli il più vicino
possibile con il cuore quando ti opponi a lui.
Vuoi presentarti al tuo amico senza abiti? E fare onore al tuo amico, ché tu ti presenti a lui
come sei? Egli così ti manderà al diavolo!
Chi non sa nascondere, indigna: tante sono le ragioni per nascondere la vostra nudità!
Solo se foste degli dèi avreste il diritto di vergognarvi dei vostri abiti!
Tu non ti acconcerai mai abbastanza bene per il tuo amico: infatti tu devi essere per lui un
dardo e un desiderio ardente verso il Superuomo.
Hai mai guardato il tuo amico dormire, per conoscere come è fatto? Che cosa è invece
d'ordinario il volto del tuo amico? È il tuo proprio volto, rispecchiato in uno specchio rozzo
e imperfetto.
Hai mai guardato il tuo amico dormire? E non ti sei spaventato che avesse quell'aspetto?
Oh, amico mio, l'uomo è qualcosa che deve essere superato.
L'amico deve essere maestro nell'indovinare e nel tacere: tu non devi voler vedere ogni
cosa. Il tuo sogno ti sveli ciò che il tuo amico fa da sveglio.
L'indovinare sia la tua compassione; affinché tu sappia prima se il tuo amico vuole
compassione. Forse egli ama in te l'occhio puro e lo sguardo dell'eternità.
La compassione per l'amico si deve nascondere sotto una ruvida scorza; in lui dovrai
trovare di che romperti i denti. Così le cose appariranno dolci e fini.
Sei tu aria pura e solitudine e pane e medicina per il tuo amico? Qualcuno non riesce a
spezzare le proprie catene, e tuttavia è un redentore per il proprio amico.
Sei tu uno schiavo? In tal caso tu non puoi essere amico. Sei un tiranno? In tal caso tu
non puoi avere amici.
Troppo a lungo nella donna si celarono uno schiavo e un tiranno. Perciò la donna non è
ancora capace di amicizia; essa conosce solo l'amore.
Nell'amore della donna è ingiustizia e cecità per tutto ciò che essa non ama. E anche
nell'amore cosciente della donna c'è sempre, insieme con la luce, aggressione, lampo, e
notte.
La donna non è ancora capace di amicizia: le donne sono sempre gatte, e uccelli. O, nel
migliore dei casi, vacche.
La donna non è ancora capace di amicizia. Senonché, ditemi, o uomini, chi di voi è mai
capace di amicizia?
O quanta miseria in voi, o uomini, e quanta avarizia dell'anima!. Ciò che voi date all'amico,
io la darei anche al mio nemico, e non ne diverrei per questo più povero.
Esiste il cameratismo: potesse esistere anche l'amicizia!"
Così parlò Zarathustra.
DEI MILLE E UN LIMITE
"Zarathustra vide molti paesi e molti popoli: scoprì così il bene e il male di molti popoli. Né
Zarathustra trovò una forza più grande sulla terra del bene e del male.
Nessun popolo potrebbe vivere, se non sapesse giudicare il bene e il male; ma se vuole
sopravvivere, non dovrà giudicare allo stesso modo del suo vicino.
Molte cose che da un popolo sono credute buone, da un altro sono ritenute scherno e
infamia: così ho visto. Ho visto qui molte cose ritenute cattive che là sono circondate da
purpurei onori.
Giammai un vicino comprende l'altro: sempre si stupisce nel suo animo della follia e della
malvagità del vicino.
Una tavola dei valori pende sopra ogni popolo. Ma una tavola delle proprie vittorie su se
stesso; è là voce della sua volontà dl potenza.
E per lui degno di lode ciò che gli appare arduo; egli chiama buono ciò che è difficile e
proibito: ciò che io libera dal massimo affanno, il raro, il difficile: e lo tiene in conto di
sacro.
Ciò che lo fa dominare, ciò che lo fa regnare, vincere e splendere, con raccapriccio e
invidia dei suoi vicino: questo è per lui il supremo, la cosa prima, la misura, il senso di
tutte le cose.
In realtà, fratello mio, se tu conoscessi l'affanno: di un popolo e la sua terra e il cielo e il
suo vicino: tu indovineresti di certo la legge dei suoi valori, e perché egli salga questa
scala verso le sue speranze.
'Tu devi essere sempre il primo, e superare gli altri: la tua gelosa anima non deve amare
nessuno,i tranne l'amico': ciò faceva tremare l'anima a un greco: e così egli marciava sul
sentiero della grandezza.
'Dire la verità e destreggiarsi bene con l'arco e lei frecce': ciò sembrò al tempo stesso caro
ed arduo a quel popolo [persiano] dal quale proviene il mio nome; ii nome che mi è al
tempo stesso caro e pesante.
'Onorare il padre e la madre ed essere pronto a fa re la loro volontà fino alle radici
dell'anima': que sta tavola della vittoria su se stessi se la impose un altro popolo [ebreo], e
con ciò divenne potente ed eterno.
'Dimostrare fedeltà, e per amore della fedeltà porre l'onore e il sangue anche in cose
cattive e pericolose'; con questa dottrina, un altro popolo vinse se stesso, e così facendo
divenne gruvido e pesante di grandi speranze [rif. Al popolo tedesco].
In realtà, gli uomini offrirono a se stessi tutto il bene e tutto il male. In realtà, essi non lo
assunsero semplicemente, non lo trovarono, non cadde loro come una voce dl cielo.
Fu l'uomo ehe pose un valore nelle cose, per sopravvivere; che per primo diede un senso
alle cose: un umano senso! Perciò egli si chiama 'uomo', cioè: l'apprezzatore.
Stimare è creare: uditelo, o creatori! Stimare è di per sé il tesoro e il gioiello di tutte le
cose stimate. Per mezzo della stima esiste il valore: e senza il valore il nocciolo
dell'esistenza sarebbe vuoto. Uditelo, o creatori! Permutazione di valori significa
permutazione di creazione. Sempre distrugge chi vuole essere un creatore.
Creatori furono dapprima i popoli, poi i singoli; in realtà, il singolo stesso è l'ultima delle
creazioni. Un tempo i popoli posero sopra di sé una tavola del bene. L'amore che vuoi
dominare e l'amore che vuole obbedire si crearono insieme queste tavole.
Più antico è l'entusiasmo, per la massa, che il piacere dell'Io: e finché la buona coscienza
si chiama massa, solo la cattiva coscienza dice: Io.
In realtà, l'Io scaltro, senza amore, che ricerca il proprio vantaggio nel vantaggio altrui:
questo Io non è l'origine della massa, bensì il suo tramonto.
Gli amanti e i creatori crearono il bene e il male. Fuoco d'amore e fuoco d'ira arde in tutti i
nomi di virtù.
Zarathustra vide molti paesi e molti popoli: ma nessuna potenza più grande Zarathustra
trovò sulla terra che le opere degli amanti: e il loro nome è ‘bene' e 'male'.
In realtà, una mostruosità è la potenza della lode e del biasimo. Dite, fratelli, chi mal la
soggiogherà? Dite, chi potrà gettare il giogo su questa bestia dalle mille teste?
Mille obiettivi ci furono finora, poiché ci furono mille popoli. Solo il giogo delle mille teste
ora manca, manca l'unico obiettivo. L'umanità è ancora senza obiettivo.
Ma ditemi dunque, fratelli miei: se all'umanità manca ancora lo scopo, non manca anche
essa stessa?"
Così parlò Zarathustra.
DELL'AMORE DEL PROSSIMO
"Voi fate ressa intorno al vostro prossimo e in cambio ne ricevete belle parole. Ma io vi
dico: il vostro amore del prossimo non è che il cattivo. amore per voi stessi.
Voi vi rifugiate presso il prossimo fuggendo voi stessi, e desiderate anche fare di ciò una
virtù: ma io intuisco il vostro 'altruismo'.
Il Tu è più vecchio dell'Io; il Tu è stato proclamato sacro, ma l'Io non ancora: perciò
l'uomo fa ressa intorno al prossimo.
Forse che io vi consiglio l'amore per il prossimo? Piuttosto vi consiglio la fuga dal prossimo
e l'amore per i più lontani!
Al di sopra dell'amore per il prossimo c'è l'amore per il più lontano e per il futuro; al di
sopra dell'amore per gli uomini, stimo l'amore per le cose e per i fantasmi.
Questó fantasma che ti precede, fratello mio, è più bello di te; perché tu non gli doni la
tua carne e le tue ossa? Ma hai paura di lui e corri dal tuo prossimo.
Voi non vi sopportate e non vi amate abbastanza: ed ecco che volete invogliare il vostro
prossimo all'amore e fregiarvi del suo errore.
Io vorrei che voi non andaste d'accordo col vostro prossimo e con i suoi vicini; così sareste
costretti a crearvi da voi stessi il vostro amico e il suo cuore traboccante.
Quando volete parlar bene di voi stessi, invitate un testimone; e solo quando lo avete
indotto a pensar bene di voi, allora anche voi pensate bene di voi.
Non mente solamente colui che parla contro la sua coscienza, ma a maggior ragione, colui
che parla contro la sua incoscienza. E così voi parlate nelle vostre relazioni e con voi
ingannate anche il vicino.
Così parla il folle: 'Il rapporto con gli uomini corrompe il carattere, soprattutto quando non
se ne ha'.
L'uno va verso il prossimo perché cerca se stesso; e l'altro perché desidera perdersi. Il
vostro cattivo amore per voi stessi fa della vostra solitudine una prigionia.
I più lontani sono coloro che pagano il vostro amore per il prossimo; non appena vi
trovate in cinque, il sesto deve sempre morire.
Io non amo neppure le vostre feste: vi scorgo troppi attori; e anche gli spettatori spesso
hanno un aspetto da attori.
Io non vi insegno a trovare il prossimo, ma l'amico. L'amico sia per voi la festa della terra
e un presentimento del Superuomo.
Io vi insegno a trovare l'amico e il suo cuore traboccante. Ma bisogna essere disposti a
divenire una spugna, se vogliamo essere amati da cuori traboccanti.
Vi insegno a trovare l'amico, nel quale sta un mondo finito, un guscio del bene; l'amico
creatore, che ha sempre un mondo compiuto da elargire.
E come il mondo per lui rotola in pezzi, così anche si riforma in nuovi giri, come il divenire
del bene dal male, come il divenire dei fini dal caso.
Il futuro e il remoto siano la ragione del tuo oggi: nel tuo amico devi amare il Superuomo
come l'origine di te stesso.
Fratelli miei, io non vi consiglio l'amore del prossimo: io vi consiglio l'amore del più
lontano."
Così parlò Zarathustra.
DELLA VIA DEL CREATORE
"Vuoi tu, fratello mio, ritirarti in solitudine? Vuoi tu cercare da te stesso la via? Indugia
ancora un poco e ascoltami.
'Chi cerca, perde facilmente se stesso. Ogni isolamento è colpa': così parla la massa. E tu
appartieni da lungo tempo alla massa.
La voce della massa risuonerà ancora in te. E quando tu dirai: 'Io non sono più una sola
coscienza con voi', le tue parole risuoneranno come un lamento e un dolore.
Vedi, questo tuo dolore lo generò la coscienza una: e l'ultimo barlume di questa coscienza
brilla ancora sulla tua malinconia.
Ma tu vuoi andare per la via della tua malinconia, che è la via verso te stesso? Mostrami
dunque il tuo diritto e la tua forza.
Sei tu una nuova forza e un nuovo diritto? Un moto primario? Una ruota che gira da sé?
Puoi anche forzare gli astri a fare perno intorno a te?
Ah, è tanta la cupidigia delle tue altitudini! Tanto lo spasimo degli ambiziosi! Dimostrami
che non sei cupido e ambizioso!
Ah, vi sono tanti altri pensieri che non fanno niente più di un mantice: soffiano e rendono
sempre più vuoti.
Tu ti dici libero? Voglio udire da te il tuo pensiero dominante e non che tu sei sfuggito da
un giogo.
Sei poi tu tale, da avere il diritto di sfuggire al giogo? Vi sono taluni che gettano via la loro
ultima opera, e con essa la loro servitù.
Libero da che cosa? Che importa ciò a Zarathustra! Chiaro me lo deve dire il tuo occhio:
libero a che scopo?
Puoi tu dare a te stesso il tuo male e il tuo bene e appendere sopra te stesso la tua
volontà come una legge? Puoi tu essere giudice di te stesso e vendicatore della tua legge?
È terribile l'essere solo con il giudice e il vendicatore della propria legge. Così è lanciato un
astro nel desolato spazio e nel gelido alito della solitudine.
Oggi tu soffri ancora a causa dei molti, tu, l'uno: oggi tu hai ancora tutto il tuo coraggio e
le tue speranze.
Ma un giorno l'isolamento ti renderà stanco, un giorno il tuo orgoglio ti piegherà e il tuo
coraggio si sgretolerà. Allora tu griderai: 'Io sono solo!'
Un giorno tu non vedrai più la tua altezza e sentirai troppo vicino quanto in te è basso; la
tua stessa sublimità ti farà paura come un fantasma. Allora tu griderai: 'Tutto è falso!'
Vi sono sentimenti che cercano di uccidere il solitario; se non vi riescono, sono condannati
a morire! Ma tu sapresti essere un assassino?
Tu conosci bene, fratello mio, la parola 'disprezzo'. E l'angoscia della tua giustizia, del
dover essere giusto verso coloro che ti disprezzano?
Tu costringi molti a mutare opinione nei tuoi riguardi; di ciò ti fanno gran carico. Tu sei
giunto loro vicino, ma sei passato oltre: non te lo perdoneranno mai.
Sei passato oltre: ma quanto più tu sali in alto, tanto più piccolo l'occhio dell'invidia ti
vede. Il trasvolatore è odiato più di tutti.
'Come volevate essere giusti con me!' tu devi dire. 'Io eleggo la vostra ingiustizia come la
parte che mi spetta!'
Ingiustizia e sudiciume essi vomitano sul solitario: ma, fratello mio, se tu vuoi essere un
astro, non devi per questo meno illuminarli!
E guardati poi dai buoni e dai giusti! Ben volentieri essi crocifiggono quelli che si trovano
da se stessi le proprie virtù; odiano il solitario.
Guardati anche dal santo candore! Tutto ciò che non è ingenuo, gli appare profano; gioca
anche volentieri con il fuoco, con i roghi.
E guardati altresì dagli attacchi del tuo amore! Troppo velocemente il solitario stende la
mano a chi incontra.
A certi uomini tu non devi dare la mano, ma solo la zampa: e io voglio che la tua zampa
abbia anche gli artigli.
Ma il peggior nemico che tu puoi incontrare, sei sempre tu stesso; tu stesso sei, che stai in
agguato nelle caverne e nelle foreste.
Solitario, tu percorri la via verso te stesso! E la via passa davanti a te stesso, e ai tuoi
sette demoni!
A te stesso sembrerai eretico e indovino e folle e scettico e profano e cattivo.
Tu devi essere pronto a bruciare nella tua stessa fiamma: come ti puoi rinnovare se prima
non ritorni cenere?
Solitario, tu percorri la via del creatore: un dio tu vuoi crearti dai tuoi sette demoni!
Solitario, tu percorri la via dell'amante: tu ami te stesso e perciò ti disprezzi, come sanno
disprezzare gli amanti.
L'amante vuole creare, perché disprezza! Che cosa sa dell'amore, chi non ha dovuto mai
disprezzare ciò che amava!
Con il tuo amore e con la tua creazione vai verso il tuo isolamento, fratello mio; più tardi
la giustizia ti verrà dietro zoppicando.
Con le mie lacrime vai verso il tuo isolamento, fratello mio. Io amo colui che vuole creare
oltre se stesso e così perisce."
Così parlò Zarathustra.
DELLE DONNETTE VECCHIE E GIOVANI
"Perché vai strisciando così timido, all'imbrunire, Zarathustra? E che cosa nascondi con
precauzione sotto il tuo mantello?
È forse un tesoro che ti fu donato? O un bambino, che è nato? O forse tu stesso vai per la
via dei ladri, tu amico dei cattivi?"
"In rèaltà, fratello mio," disse Zarathustra "è un tesoro che mi è stato donato: è una
piccola verità, ciò che io porto.
Ma essa è ribelle come un giovane bimbo, e se io non le tenessi la bocca, essa griderebbe
clamorosamente.
Oggi, mentre me ne andavo tutto solo per la mia via, all'ora in cui il sole discende, mi sono
incontrato con una vecchia donnetta che così ha parlato alla mia anima:
'Molte cose disse Zarathustra anche a noi donne, ma non ci parlò mai della donna'.
Ed io le ho risposto: 'Ma della donna si deve parlare solo con gli uomini'.
'Parla anche a me della donna' ha ribattuto; 'io sono abbastanza vecchia, e dimenticherò
presto ciò che mi dirai.'
Ed io ho compiaciuto la vecchia donnetta e così le ho parlato:
'Nella donna tutto è un enigma, e tutto nella donna ha una soluzione: questa si chiama
gravidanza.
L'uomo è per la donna un mezzo: lo scopo è sempre il figlio. Ma che cosa è la donna per
l'uomo?
L'uomo vero vuole due cose: il pericolo e il gioco.
Perciò egli vuole la donna, che è il giocattolo più pericoloso.
L'uomo deve essere addestrato alla guerra, e la donna per il riposo del guerriero: ogni
altra cosa è follia.
Frutti troppo dolci il guerriero non li vuole. Perciò egli vuole la donna; è sempre amara
anche la donna più dolce.
La donna comprende i bambini meglio di un uomo, ma l'uomo è più infantile della donna.
Nel vero uomo è nascosto un bimbo: e vuole giocare. Sù, donne, scopritemi dunque il
bambino nell'uomo!
La donna sia un giocattolo, semplice e fine, simile alla gemma, illuminata dalle virtù di un
mondo che ancora non è nato.
Il raggio di una stella brilli nel vostro amore! Sia la vostra speranza: Possa io partorire il
Superuomo!
Nel vostro amore sia l'eroismo! Con il vostro amore lanciatevi su colui che vi fa paura.
Nel vostro amore sia il vostro onore. Altrimenti la donna poco capisce dell'onore. Ma
questo sia il vostro onore: amare più di quanto siete amate, e non essere mai seconde.
L'uomo tema la donna, quando essa ama: essa fa ogni sacrificio, e ogni altra cosa è per lei
senza valore.
L'uomo tema la donna, quando essa odia: perché l'uomo nel profondo dell'anima non è
cattivo, ma la donna è invece malvagia.
La donna chi odia più di tutto? Così disse il ferro alla calamita: 'Io odio te più di tutto,
perché tu trai a te, ma non sei abbastanza forte per trattenere.
La felicità dell'uomo si chiama: io voglio. La felicità della donnasi chiama: egli vuole.
Vedi, solo ora il mondo è divenuto perfetto! Così pensa ogni donna quando obbedisce con
tutto il suo amore.
E la donna deve obbedire e trovare una profondità per la sua superficie. Superficie è
l'anima della donna, una pelle mobile e impetuosa sopra un'acqua bassa.
Ma l'anima dell'uomo è profonda, la sua corrente schiumeggia nelle caverne sotterranee:
la donna ne presente la forza, ma non la comprende.'
La donnetta vecchia mi ha risposto: 'Molte cose belle ha detto Zarathustra, soprattutto per
quelle che sono ancora abbastanza giovani.
È strano, Zarathustra conosce poco le donne, e tuttavia ha ragione in quello che dice di
loro! Questo forse avviene perché alla donna nessuna cosa è impossibile?
E ora, per mio ringraziamento, ecco una piccola verità! Io sono abbastanza vecchia per
donartela!
Avviluppala bene e tappale la bocca: altrimenti urlerà clamorosamente, la piccola verità.'
'Dammi, donna, la tua piccola verità!' ho esclamato. E così ha aggiunto la vecchia
donnetta:
'Tu vai dalle donne"? Non dimenticare la frusta!' "
Così parlò Zarathustra.
DEL MORSO DELLA VIPERA
Un giorno Zarathustra si era addormentato sotto un albero di fico, faceva caldo, e aveva le
braccia piegate sul volto. Una vipera passò e lo morse nel collo, così che Zarathustra urlò
dal dolore. Come ebbe tolto le braccia dal volto, guardò il rettile: allora questi riconobbe
gli occhi di Zarathustra, si contorse impacciato e voleva fuggir via. "No" disse Zarathustra;
"ancora non hai avuto il mio ringraziamento! Tu mi hai svegliato a tempo, la mia strada è
ancora lunga." "La tua strada è ormai breve, disse cattiva la vipera; "il mio veleno uccide."
Zarathustra sorrise. "Quando mai un drago è morto per il veleno di un rettile?" disse. "Ma
riprenditi il tuo veleno! Tu non sei abbastanza ricca, per donarmelo." Allora la vipera si
gettò di nuovo sul suo collo e gli leccò la ferita.
Come Zarathustra, una volta, narrò ciò ai suqi discepoli, questi gli chiesero: "E quale, o
Zarathustra, è la morale di codesto racconto?" Zarathustra così rispose:
"I buoni e i giusti mi chiamano l'annullatore della morale: il mio racconto è immorale.
Ma se voi avete un nemico, non rendetegli bene per male: ciò lo farebbe vergognare.
Bensì dimostrategli che egli vi ha fatto qualcosa di bene.
E piuttosto andate in collera con qualcuno, che farlo vergognare! E e qualcuno vi inveisce
contro, a me non piace affatto che voi vogliate benedire. Meglio che inveiate un po' anche
voi!
E se vi hanno fatto un grosso torto, subito ricambiatelo con cinque piccoli! È terribile lo
spettacolo di colui che, tutto solo, è oppresso dall'ingiustizia.
Sapevate già questo? Un'ingiustizia condivisa è come una mezza giustizia. Prenda su di sé
l'ingiustizia colui che può sopportarla!
Una piccola vendetta è più sopportabile che nessuna vendetta. E se il castigo non è anche
un diritto e un onore per il trasgressore, io non so che farmene dei vostri castighi.
È più nobile darsi torto che darsi ragione, particolarmente quando si ha ragione. Però, per
far questo, bisogna essere molto ricchi.
Io non voglio la vostra frigida giustizia; dietro l'occhio dei vostri giudici, io intravedo
sempre il boia e la sua fredda mannaia.
Dite, dove si trova la giustizia che sia amore con occhi aperti?
Inventatemi dunque l'amore che sopporti non solo ogni punizione, ma anche ogni colpa!
Inventatemi dunque la giustizia che assolva tutti, tranne il giudice!
Volete ascoltare anche questa? In colui che vuole essere giusto fin nel profondo, anche la
bugia diviene gentilezza verso gli uomini.
Ma come potrei io essere giusto fin nel profondo?
Come posso io dare a ciascuno il suo? Mi basti questo: io do a ciascuno il mio.
Infine, fratelli miei, guardatevi dal far torto agli eremiti. Come può un eremita
dimenticare? Come può contraccambiare?
Un eremita è come un profondo pozzo. È facile gettarvi dentro una pietra; ma, quando
questa è arrivata al fondo, dite, chi mai potrebbe riportarla fuori?
Guardatevi, dall'offendere l'eremita! Ma se l'avete fatto, allora abbiate anche il coraggio di
ucciderlo!"
Così parlò Zarathustra.
DEI FIGLI E DEL MATRIMONIO
"Io ho una domanda riservata soltanto a te, fratello mio: come uno scandaglio, io lancio
questa domanda nella tua anima, per sapere quanto essa sia profonda.
Tu sei giovane e desideri figli e matrimonio. Ma io ti chiedo: sei tu un uomo che ha il
diritto di desiderare un figlio?
"ei tu il vittorioso, il superatore dl te stesso, il do minatore dei sensi, il signore delle tue
virtù? Questo ti domando.
O forse parla nel tuo desiderio la bestia e la necessità? O l'isolamento? Oppure il
disaccordo con te stesso?
Io voglio che la tua vittoria e la tua libertà mirino ad un figlio. Tu devi erigere viventi
monumenti alla tua vittoria e alla tua liberazione.
Tu devi costruire al di sopra di te stesso. Ma prima devi essere costruito te stesso,
squadrato nel corpo e nell'anima.
Tu non devi solo trapiantarti, ma trapiantarti in alto! A questo aiuta il giardino del
matrimonio!
Tu devi creare un corpo superiore, un moto primario, una ruota che gira intorno a se
stessa; tu devi creare un creatore.
Matrimonio: così io chiamo il volere di due, di creare quell'uno che è più di chi lo ha
creato. Io chiamo matrimonio il rispetto reciproco di due che vogliono questa volontà.
Questo sia il senso e la realtà del tuo matrimonio. Ma ciò che i troppi i superflui chiamano
matrimonio, ahimè, in qual modo chiamarlo?
Ahimè, la meschinità delle anime appaiate! Ahimè, la sozzura delle anime appaiate! Ahimè,
il tristo compiacimento dei due!
Chiamano tutto questo matrimonio; e dicono che i loro matrimoni sono conclusi in cielo.
A me non importa proprio nulla di quel cielo dei superflui! No, nulla m'importa di quelle
bestie prese alla rete del cielo!
Stia lontano da me anche quel Dio che si avvicina zoppicante per benedire ciò che non ha
unito!
Non ridete di questi matrimoni! Quale figlio non ha un motivo per piangere dei suoi
genitori?
A me, per esempio, un uomo sembra meritevole e maturo per il senso della terra: ma
quando vidi la sua donna, la terra mi parve una casa di matti.
Sì, vorrei che la terra si scuotesse, quando un santo e un'oca si congiungono.
Uno andò come un eroe alla ricerca della verità, e alla fine riportò solo una piccola, ben
fatta bugia. E la chiama il suo matrimonio.
L'altro era schifiltoso nei rapporti e nelle scelte. Ma una volta e per sempre rovinò la sua
compagna: e questo fu il suo matrimonio.
Un altro cercava un'ancella con le virtù di un angelo. Ma all'improvviso divenne l'ancella di
una donna, e ora sarebbe necessario che ritrovasse il modo di ridivenire un angelo.
Io ho sempre trovato che i compratori sono avveduti, e che tutti hanno occhi astuti. Ma
anche il più scaltro compera la sua donna nel sacco.
Molte brevi follie: ecco ciò che voi chiamate amore. E il vostro matrimonio pone fine a
queste piccole follie, trasformandole in una lunga stupidità.
Il vostro amore per la donna e l'amore della donna per l'uomo: ohimè, potesse essere
compassione verso i sofferenti e nascosti dèi! Ma di solito non si tratta che dell'incontro di
due bestie.
Sennonché, anche il vostro migliore amore è solo un'entusiastica allegoria e una penosa
passione. È solo una fiaccola, che deve illuminarvi verso strade più alte.
Voi dovete un giorno amare voi stessi! Dunque è necessario che impariate prima ad
amare! Perciò dovete bere l'amaro calice del vostro amore.
Amarezza è anche nel calice del miglior amore: così essa si fa anelito verso il Superuomo,
così si fa tua sete, o creatore!
Sete del creatore, freccia e anelito verso il Superuomo: parla, fratello mio, è questa la tua
volontà di matrimonio?
Io credo sacra una tale volontà, e sacro un tale matrimonio."
Così parlò Zarathustra.
DELLA LIBERA MORTE
"Molti muoiono troppo tardi, mentre alcuni muoiono troppo presto. Ancora suona strano
l'insegnamento: 'Muori all'ora giusta!'
Muori all'ora giusta: così insegna Zarathustra.
Certo, coloro che non vissero nell'ora giusta, come potrebbero morire all'ora giusta? Non
fossero mai nati! Così io consiglio ai superflui.
Ma anche i superflui si danno grandi arie con la loro morte; e anche la noce vuota vuole
essere spezzata.
Tutti prendono sul serio la morte: ma la morte non è ancora una festa. Gli uomini non
hanno ancora imparato come si consacrano le feste più belle.
Io vi mostro la morte che compie e risolve, ed è uno stimolo e una solenne promessa per i
viventi.
Muore vittorioso colui che realizza la sua vera morte, circondato da coloro che sperano e
da coloro che giurano.
Si dovrebbe imparare a morire così, e non dovrebbe esservi festa dove chi muore così non
consacrasse i giuramenti dei viventi!
Morire così è la miglior cosa, ma la seconda è morire in battaglia ed esalare una grande
anima.
Odiosa al combattente come al vincitore è la vostra morte sghignazzante, che s'avvicina
strisciando come una ladra, e tuttavia sopraggiunge poi come padrona.
Io lodo anche la mia morte, la libera morte, che viene perché e quando io la voglio.
Quand'è che la vorrò? Chi ha uno scopo e un erede vuole la morte al tempo giusto per il
suo scopo ed il suo erede.
E per rispetto allo scopo e all'erede egli non appenderà più ghirlande secche al santuario
della vita.
In realtà, io non voglio somigliare ai funaioli: essi trafilano le loro corde per lungo, e ciò
nondimeno retrocedono sempre.
Taluni divengono troppo vecchi per le loro stesse verità e vittorie; una bocca senza denti
non ha più il diritto di possedere tutte le verità.
E chi vuole aver fama deve per tempo congedarsi dagli onori e praticare la difficile arte: al
momento giusto, andarsene.
Bisogna smettere di lasciarsi mangiare, quando si ha miglior sapore: questo sanno coloro
che vogliono essere amati a lungo.
Certo, vi sono delle mele acerbe il cui destino è di aspettare fino all'ultimo giorno
d'autunno: e diventano contemporaneamente mature, gialle e appassite.
A taluni invecchia prima il cuore, ad altri lo spirito. E taluni sono vecchi in gioventù: ma chi
è giovane tardi si mantiene giovane a lungo.
La vita per qualcuno ha un destino infelice: un verme velenoso gli rode il cuore. Così possa
scorgere quanto gli è molto più facile morire.
Qualcuno non diventa mai dolce; imputridisce già durante l'estate. È solo la vigliaccheria
che lo tiene attaccato al suo ramo.
Troppa gente vive e troppo a lungo resta attaccata al suo ramo. Possa venire una bufera,
che scuota dall'albero tutti i frutti putridi e rosi dal verme!
Venissero almeno del predicatori della morte rapida! Essi sarebbero per me la vera bufera
e gli scuotitori degli alberi della vita! Ma il guaio è che sento predicare solo la morte lenta
e la pazienza verso tutte le cose 'terrene'.
Ahimè, voi predicate la pazienza verso tutte le cose terrene? Sono proprio le cose terrene
che hanno troppa pazienza con voi, sacrileghi!
Troppo presto morì quell'ebreo che predicano i predicatori della morte: e a molti fu fatale
che egli morisse troppo presto.
Egli non conosceva che le lacrime e la malinconia degli ebrei, insieme all'odio dei buoni e
dei giusti, l'ebreo Gesù: perciò lo assalì l'ardente desiderio della morte.
Fosse rimasto nel deserto e lontano dal buono e dal giusto! Forse avrebbe imparato a
vivere, avrebbe imparato ad amare la terra, e anche il sorriso!
Credetemi, fratelli miei! Egli morì troppo presto: lui stesso avrebbe ritrattato il suo
insegnaifiento, se fosse arrivato fino alla mia età! Era certo abbastanza nobile per avere il
coraggio della ritrattazione!
Senonché, era ancora immaturo. Il giovane ama immaturamente, e immaturamente odia
l'uomo e la terra. Legati e pesanti sono ancora in lui l'animo e le ali dello spirito.
Ma l'uomo adulto è più infantile del giovane e ha meno malinconia: e capisce meglio la
morte e la vita.
La vostra morte non sia una maledizione agli uomini e alla terra, fratelli miei: questo io
chiedo pregando al miele delle vostre anime.
Nella vostra morte bruci ancora il vostro spirito e la vostra virtù, come un rosso tramonto
discende sulla terra: o altrimenti la vostra morte non vi è riuscita.
Così voglio morire io stesso, affinché voi, amici, per amor mio, amiate di più la terra; e
terra voglio tornare, trovando la pace in colei che mi generò.
In realtà, Zarathustra ebbe uno scopo, che era quello di lanciare la sua palla; voi, amici
miei, siete gli eredi del mio scopo; a voi io lancio la palla d'oro.
Più caro di tutto io ho, amici miei, vedere voi che lanciate la palla d'oro! E così mi
trattengo ancora un po' sulla terra: perdonatemi!"
Così parlò Zarathustra.
DELLA VIRTÙ DISPENSATRICE
Quando Zarathustra ebbe preso congedo dalla città, che era cara al suo cuore e il cui
nome era "La vacca variopinta", lo seguirono molti che si dicevano suoi discepoli, e lo
scortarono. Così giunsero ad un crocevia: là Zarathustra disse loro che ormai voleva
andare solo; poiché era amico dei cammini solitari. Ma i suoi discepoli gli offrirono, nel
congedo, un bastone, la cui impugnatura d'oro raffigurava un serpente attorcigliato
intorno al sole. Zarathustra fu lieto del bastone e vi si appoggiò; poi parlò così ai suoi
discepoli:
"Ditemi dunque: come l'oro è pervenuto ad essere il valore supremo? Poiché è
straordinario e inutile e lucente e tenero nel suo splendore; e sempre si dona.
Solo in questo simbolo della suprema virtù, l'oro è pervenuto al supremo valore. Come oro
brilla lo sguardo del donatore. Lo splendore dell'oro stringe amicizia tra la luna e il sole.
La virtù suprema è straordinaria e inutile, è lucente e indulgente nel suo splendore: una
virtù elargitrice è la suprema virtù.
In realtà, io leggo bene in voi, miei discepoli; voi mirate, come me, alla virtù elargitrice.
Che cosa potreste avere in comune con i gatti e i lupi?
Questa è la vostra sete; divenire voi stessi vittime e doni: e perciò avete sete di
accumulare ogni ricchezza nella vostra anima.
La vostra anima insaziata mira a tesori e a gioiellì, perché la vostra virtù non si sazia mai
di voler donare.
Costringete tutte le cose a venire verso di voi e in voi, perché esse rifluiscano dalla vostra
fonte come doni del vostro cuore.
In realtà, questo amore elargitore deve mutarsi in ladro di tutti i valori; ma io lo chiamo
egoismo sacrosanto.
Vi è un altro egoismo, misero, affamato, che vuole sempre rubare; l'egoismo del malato,
l'egoismo morboso.
Con occhio di ladro guarda tutto ciò che brilla; con l'avidità della fame squadra colui che
ha doviziosamente da mangiare; e sempre striscia intorno alla tavola del donatore.
Una malattia, una indigestione si cela in quell'avidità; non è che espressione di un corpo
malato la furtiva avidità di questo egoismo.
Ditemi, fratelli miei: che cosa è per noi la cosa peggiore? Non la DEGENERAZIONE? E
sempre finiamo per imbatterci in una degenerazione, dove manca l’anima donatrice.
La nostra strada va verso l'alto, dalla specie alla superspecie. Ma ci fa orrore il senso
degenerato, che dice: 'Tutto per me'.
Il nostro senso vola verso l'alto, così esso è il simbolo del nostro corpo, il simbolo di
un'elevazione. Tali simboli di elevazione sono i nomi delle virtù.
Così passa il corpo attraverso la storia, un diveniente e un lottatore. E lo spirito, che cosa
è per lui? E l'araldo delle sue lotte e vittorie, un compagno ed un'eco.
Simboli sono tutti i nomi del bene e del male: essi non parlano, accennano soltanto. Stolto
colui che vuole conferire loro carattere di sapere.
Attenti, fratelli miei, ad ogni ora, in cui il vostro spirito vuole parlare in simboli: lì è l'origine
della vostra virtù.
Allora il vostro corpo si sente sollevato e come risorto; con la sua grande gioia vitale,
entusiasma lo spirito a divenire creatore e apprezzatore e amante e benefattore di tutte le
cose.
Quando il vostro cuore palpita ondeggiando ampio e ricolmo, come un flume, una
benedizione e un pericolo per chi abita lunga le sue rive: lì è l'origine della vostra virtù.
Quando vi sentite superiori alla lode e al biasimo, e la vostra volontà vuole imporsi ad ogni
cosa, come la volontà dell'amante: lì è l'origine della vostra virtù.
Quando disprezzate le delizie e il morbido letto, e non vi sembra di coricarvi mai
abbastanza lontano dagli effeminati: lì è l'origine della vostra virtù.
Quando il vostro volere è una sola volontà, e questa svolta di ogni necessità e pena
prende il nome delle necessità: lì è l'origine della vostra virtù.
In realtà, è un nuovo bene e un nuovo male! Veramente, un nuovo fremito profondo e la
voce di una nuova sorgente!
Potenza è questa nuova virtù; è un pensiero dominante, e intorno a lui un'anima saggia:
un sole d'oro, e intorno a lui il serpente della conoscenza."
2
Qui Zarathustra tacque un poco, e guardò con amore i suoi discepoli. Poi proseguì a dire
così; e la sua voce era mutata:
"Restate fedeli alla terra, fratelli miei, con la forza della vostra virtù!
Il vostro amore elargitore e la vostra conoscenza rivelino il senso della terra! Così io vi
prego e scongiuro.
Fate che essi non volino via dalle cose terrene per andare a sbattere le ali contro le pareti
dell'eterno!
Ahimè, quanta virtù è così volata via, perdendosi!
Riportate, come me, alla terra la virtù che è volata via; sì, riportatela indietro verso il
corpo e verso la vita: dia così alla terra il suo senso, un senso umano!
In cento modi si sono smarriti, fino ad oggi, spirito e virtù. Ahimè, nel nostro corpo
dimorano ancora quella follia e quell'errore: sono diventati essi stessi corpo e volontà.
In cento modi, fino ad oggi, sia lo spirito come la virtù tentarono e si perdettero. Sì,
l'uomo è stato sempre un tentativo. Ahimè, quanta ignoranza e quanti errori sono divenuti
nostro corpo!
Non solo la ragione di millenni, ma anche le loro follie prorompono su di noi opprimendoci.
È pericoloso essere eredi.
Noi lottiamo ancora a passo con il gigante che è il Caso, e su tutta l'umanità grava, fino ad
oggi, l'Irrazionale, il senza-senso.
Il vostro spirito e la vostra virtù servano al senso della terra, fratelli miei, e il valore di
tutte le cose sia di nuovo stabilito da voi! Perciò dovete essere lottatori! Perciò dovete
esere creatori!
Il sapere purifica il corpo; con la ricerca del sapere si innalza; a colui che sa, si santifica
ogni istinto; e l'anima dell'elevato si fa lieta e serena.
Medico guarisci te stesso: così guarirai anche il tuo malato. Sarà la tua migliore cura lo
scorgere con I suoi propri occhi colui che ha saputo guarire se stesso.
Vi sono mille sentieri che non sono stati ancora calcati, mille salvezze e terre promesse di
vita nascoste. L'uomo e la terra umana sono sempre inesausti e da scoprire.
Vegliate e ascoltate, o solitari! Dall'avvenire giungono venti con un misterioso batter d'ali;
e per le orecchie fini giunge la buona novella.
Voi solitari di oggi, voi separati, voi sarete un giorno un popolo: da voi, che sapete
eleggere voi stessi, sorgerà un popolo eletto: e da esso il Superuomo. In realtà, la terra
deve ancora divenire un luogo di guarigione! E già un nuovo odore la circonda, un
annuncio di salvezza, e una nuova, speranza!"
3
Quando Zarathustra ebbe detto queste cose tacque, come uno che non ha ancora detto
l'ultima parola; a lungo ondeggiò incerto il bastone nella sua mano. Infine così parlò: e la
sua voce era cambiata.
"Ora io me ne vado da solo, o miei discepoli! Anche voi ve ne andate, e da soli! Così
voglio.
In realtà, vi consiglio; andate via da me e guardatevi da Zarathustra! E meglio ancora:
vergognatevi di lui! Forse egli vi ha ingannati.
L'uomo della conoscenza deve non solo amare i suoi nemici, ma anche poter odiare i suoi
amici.
Si ricompensa male un maestro, se si rimane sempre soltanto alunno. E perché voi non
vorreste sfrondare la mia corona?
Voi mi venerate; ma che avverrebbe, se un giorno la vostra venerazione crollasse?
Guardate che una statua non vi schiacci!
Voi dite che voi credete a Zarathustra? Ma cosa importa di Zarathustra! Voi siete i miei
credenti: ma cosa importano tutti i credenti?
Voi non avevate ancora trovato voi stessi: quand'ecco che trovaste me. Così fanno tutti i
credenti; perciò ogni credenza è così poco importante.
Ora io vi ordino di dimenticare me e di trovare voi stessi, e solo quando voi mi avrete
rinnegato tornerò da voi.
In realtà, con altri occhi fratelli miei, io ricercherò i miei dispersi; con un altro amore io
allora vi amerò.
E dopo ridiventerete miei amici e figli di una speranza: e allora per la terza volta io sarò
con voi, per festeggiare con voi il grande meriggio.
E sarà il grande meriggio, quando l'uomo starà a metà del suo cammino tra la bestia e il
Superuomo e celebrerà il suo viaggio verso la sera come la suprema speranza: questa
infatti è la via per un nuovo mattino.
Allora il tramontante benedirà se stesso, perché egli è Colui che passa oltre; e il sole della
sua conoscenza starà allo zenit.
TUTTI GLI DÈI SONO MORTI: ORA VOGLIAMO CHE VIVA IL SUPERUOMO: questo sia nel
grande meriggio il nostro ultimo volere!"
Così parlò Zarathustra.
SECONDA PARTE
IL BIMBO CON LO SPECCHIO
Dopo di ciò, Zarathustra tornò sulla montagna e nella solitudine della sua caverna e si
sottrasse agli uomini: aspettava come un seminatore che ha gettato il suo seme. Ma la sua
anima era piena di impazienza e di desiderio verso coloro che egli amava: perché egli
aveva da dare loro ancora molto. Questa è infatti la cosa più ardua: per amore chiudere la
mano aperta e avere pudore di donare.
Così per il solitario passarono mesi e anni; ma la sua saggezza cresceva e l'abbondanza lo
rendeva triste.
Ma un mattino si svegliò molto prima dell'alba rifletté a lungo sul suo giaciglio e infine
parlò al suo cuore:
"Che cosa mi ha spaventato nel mio sogno, che mi sono svegliato? Non venne da me un
bimbo, che portava uno specchio?
'O Zarathustra,' mi disse il bimbo 'guardati nello specchio!'
Ma come io guardai nello specchio, gettai un grido, e il mio cuore si emozionò: siccome io
non vi vidi me stesso, ma la smorfia e il ghigno di un demonio.
In realtà, io comprendo molto bene il significato e l'ammonizione del sogno: il mio
insegnamento è in pericolo, l'erba cattiva pretende di chiamarsi frumento! I miei nemici
sono divenuti potenti e hanno alterato l'immagine del mio insegnamento, così che i miei
prediletti debbono vergognarsi dei doni che ho dato loro.
Ho smarrito i miei amici; è giunta per me l'ora dl cercare i miei smarriti!"
Con queste parole Zarathustra balzò sù, non come un angosciato che cerca l'aria, ma
come un veggente e un cantore che è afferrato dallo spirito. La sua aquila e il suo
serpente lo guardarono meravigliati: siccome, simile all'aurora, una sopravveniente felicità
si diffondeva sul suo volto.
"Che cosa dunque mi accade, animali miei?" disse Zarathustra. "Non sono io cambiato?
Forse che la beatitudine non è giunta a me come un vento furioso?
La mia felicità è stolta e dirà delle assurdità: essa è troppo giovane: abbiate pazienza, con
lei!
Io sono ferito dallà mia felicità: tutti i sofferenti mi siano medici!
Io posso ridiscendere dai miei amici e anche dal miei nemici! Zarathustra può di nuovo
parlare e donare e fare del bene ai suoi prediletti!
Il mio amore impaziente fluisce a torrenti, verso oriente e verso occidente. Dalle montagne
silenziose e dalle bufere del dolore la mia anima scroscia a valle.
Troppo a lungo io agognai e guardai in lontananza. Troppo a lungo fui preda della
solitudine: così ho dimenticato il tacere.
Io sono diventato tutto bocca, e spumeggiare di un ruscello su alti scogli: io voglio che la
mia parola precipiti a valle.
E anche il mio torrente d'amore precipiti sui terreni impervi! Come potrebbe un torrente
non trovare alla fine la strada per il mare?
Certo che in me è un lago, solitario, contento di sé; ma il mio torrente d'amore trascina
anche lui verso il mare!
Io andrò per nuove strade, una nuova parola è in me, io sono stanco, come tutti i creatori,
degli antichi linguaggi. Il mio spirito non vuole più camminare per terreni battuti.
Ogni parola mi sembra troppo lenta: io balzo sul tuo carro, bufera! E voglio frustare anche
te con la mia malignità!
Io voglio passare sopita gli ampi mari, come un grido ed un giubilo, finché giunga alle
Isole Beate, dove vivono i miei amici.
E tra loro i miei nemici! Come io amo ora quelli, con i quali posso parlare! Anche i miei
nemici appartengono alla mia felicità.
E quando voglio montare sul mio cavallo più selvaggio, allora la mia lancia mi è più utile di
tutto: essa è il servitore sempre a disposizione del mio piede.
La lancia, che io scaglio contro i miei nemici! Come ringrazio i miei nemici, che io
finalmente possa scagliarla!
Troppo grande era la pressione della mia nuvola: io voglio lanciare nel fondo una
grandinata fra le risate dei lampi.
Violento si solleverà allora il mio petto, violenta soffierà sulle montagne la sua bufera; così
si alleggerirà.
In realtà, la mia gioia e la mia libertà sopravvengono come una bufera! Ma i miei nemici
devono credere che il maligno si scateni sopra le Ioro teste.
Sì, anche voi sarete spaventati, amici miei, della mia saggezza selvaggia; e forse anche voi
fuggirete insieme con i miei nemici.
Oh, se io sapessi richiamarvi indietro con il flauto del pastore! Oh, imparasse a ruggire
delicatamente la leonessa della mia saggezza! Abbiamo insieme imparato tante cose!
La mia selvaggia saggezza è divenuta gravida sulle solitarie montagne; sulla dura pietra
essa partorì il suo piccolo, l'ultimo nato.
Ora corre pazza per l’arido deserto e cerea e cerca un dolce prato; oh, mia vecchia
selvaggia saggezza!
Sul dolce prato dei vostri cuori, amici miei! sul vostro amore essa vorrebbe adagiare il suo
prediletto!"
Così parlò Zarathustra.
NELLE ISOLE BEATE
"I fichi cadono dall'albero, sono buoni e dolci; e mentre cadono, si spezza la loro rosea
buccia. Io sono un vento del nord per i fichi maturi.
Così, simili a fichi, cadono su voi questi insegnamenti, amici miei: perciò bevetene il succo
e la dolce polpa! Intorno è autunno e il cielo è sereno a sera.
Vedete quale pienezza è intorno a noi! Tra questa abbondanza è bello guardare verso il
grande mare.
Una volta si diceva Dio, quando si guardava verso il grande mare; ma ora io vi ho
insegnato a dire: Superuomo.
Dio è una supposizione; ma io voglio che la vostra supposizione non si estenda più lontano
della vostra volontà creatrice.
Potreste voi creare un dio? Allora non parlatemi dl nessun dio! Ma voi potete invece creare
il Superuomo.
Forse non proprio voi, fratelli miei! Ma potete trasformarvi in padri e avi del Superuomo: e
questa sarà la vostra migliore creazione!
Dio è una supposizione: ma io voglio che la vostra supposizione resti nei limiti della facoltà
di pensiero.
Potreste voi pensare un dio? Ma questo significa proprio volontà di verità, questo
convertire tutto all'umanamente pensabile, all'umanamente sensibile! Voi dovete pensare i
vostri, sensi fino in fondo!
E ciò che voi chiamate mondo, prima voi dovete crearvelo: esso divenga per voi la vostra
ragione, la vostra Immagilie, la vostra volontà, il vostro amore! Realmente, per la vostra
felicità, o conoscitori!
E come voi vorreste tollerare la vita senza questa speranza, o conoscitori? Non potete
essere radicati né nell'incomprensibile né nell'irragionevole.
Ma lo voglio farvi conoscere tutto il mio cuore, amici miei: se esistessero gli dèi, come io
sopporterei di non essere un dio? Pertanto non esistono gli dèi.
Ho tratto la conclusione; ora la conclusione trae me.
Dio è una supposizione: ma chi potrebbe sopportare tutto il tormento di questa
supposizione, senza morirne? Dovremmo togliere al creatore la sua fede e all'aquila il
librarsi nelle aquilee lontananze?
Dio è un pensiero, che fa storto ogni diritto, e muovere tutto ciò che è fisso. Come? Il
tempo sarebbe soppresso, e tutto il caduco sarebbe bugia?
Un tale pensiero è vortice e vertigine per ossa umane e anche vomito di stomaco: in
realtà, quella presunzione io la chiamo malattia del capogiro.
Per me è cattivo e disumano, tutto questo insegnamento dell'Uno e Sufficiente e Immobile
e Sazio e Immutabile!
Tutto l'Immutabile non è che simbolo! [Allusione ai versi finali del Faust dl Goethe: "AUes
Vergängliche ist nur ein Gleichnis" ("Tutto l'effimero non è che simbolo)] E i poeti mentono
troppo!
I migliori simboli devono evocare tempo e il divenire: devono essere una lauda e una
giustificazione di tutte le cose passeggere.
Creare: questa è la grande liberazione dal dolore, che rende spensierata la vita. Ma perché
il creatore sia, sono necessarii il dolore e molte metamorfosi.
Sì, molta morte amara deve esservi nella nostra vita, o creatori! Così voi siete tutori e
giustificatori di tutte le cose che passano.
Se il creatore vuole essere anche fanciullo appena nato, egli deve essere insieme
partoriente e i dolori della partoriente.
In realtà, io feci la mia strada attraverso cento anime e attraverso cento culle e dolori di
partoriente. Più d'una separazione ho sofferto; conosco le ore supreme che spezzano il
cuore.
Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino, o, per parlarvi più chiaramente:
proprio questo destino vuole la mia volontà.
Tutto il senziente soffre in me ed è in prigione: ma la mia volontà viene sempre a me
liberatrice e apportatrice di gioia.
Il volere libero: questo è il vero insegnamento intorno alla volontà e alla libertà; così vi
insegna Zarathustra.
Non-più-volere e non-più-valutare e non-più-creare! Oh, che questa grande stanchezza
stia lontana da me!
Anche nella conoscenza io non avverto, nella mia volontà, che la gioia del procreare e del
divenire; e se nella mia conoscenza v'è innocenza, così accade, perché v'è in lei volontà di
generare.
Questa volontà mi ha allontanato da Dio e dagli dèi; e che cosa mai vi sarebbe da creare,
se gli dèi esistessero!
Sennonché, la mia ardente volontà di creare mi spinge sempre di nuovo verso gli uomini;
così come il martello è spinto verso la pietra.
Ahimè, uomini, un'immagine per me dorme racchiusa nella pietra, l'immagine delle mie
immagini! Ahimè, è destino che debba dormire sulla pietra più rozza e più dura!
Ora il mio martello infuria terribile contro la sua prigione. Dalla pietra volano schegge; che
cosa m'importa?
Io voglio finire: perché è giunta da me un'ombra; è venuta un giorno da me la più
silenziosa e la più lieve di tutte le cose!
La bellezza del Superuomo è giunta a me come un'ombra. Ahimè, fratelli miei! Che mi
importa ormai più degli dèi?"
Così parlò Zarathustra.
DEI COMPASSIONEVOLI
"Amici miei, un discorso canzonatorio è giunto al vostro amico: 'Guardate un po'
Zarathustra! Non cammina egli tra noi come se camminasse tra bestie?'
Ma è meglio detto così: 'Il sapiente cammina tra gli uomini come tra bestie'.
L'uomo stesso è detto dal sapiente: la bestia che ha le guance rosse.
Come gli è accaduto questo? Non è perché egli troppo spesso ha dovuto vergognarsi?
O amici miei! Il sapiente parla così: vergogna, vergogna, vergogna, questa è la storia
dell'uomo!
E perciò il nobile s'impone di non umiliare: impone vergogna a se stesso davanti a tutti i
sofferenti.
In realtà, a me non piacciono i misericordiosi, che sono beati della loro compassione:
mancano troppo di vergogna.
Io devo essere compassionevole, ma non voglio essere detto tale; e se lo sono, meglio
allora dai lontani.
Nascondo volentieri la testa e fuggo via, prima di essere riconosciuto: e ingiungo anche a
voi di fare così, amici miei!
Possa il mio destino condurre per la mia strada sempre persone senza dolore, simili a voi e
tali che con loro io possa avere in comune la speranza e il pasto e il miele!
In realtà, ho fatto tutto questo ed altro per i sofferenti: ma penso di avere sempre fatto il
meglio, quando ho imparato a goder meglio io stesso.
Da quando gli uomini esistono, l'uomo ha troppo poco goduto per se stesso. Ecco, miei
fratelli, questo è il nostro peccato originale!
E quando avremo imparato meglio a godere, allora disimpareremo meglio di tutto a fare
male agli altri e a escogitare cattive azioni.
Perciò io mi lavo la mano, che ha aiutato il sofferente; perciò io mi netto anche l'anima.
Siccome quando vedo il sofferente soffrire, mi vergogno per la sua vergogna; e quando lo
aiuto, allora lo certamente lo offendo nel suo orgoglio.
Le grandi cortesie non ispirano la gratitudine, ma brama di vendetta; e i piccoli benefici, se
non vengono dimenticati, divengono vermi-roditori.
'Siate restii nell'accettare! fate ben notare che accettate!' Così io consiglio coloro che non
hanno nulla da donare.
Sennonché, io sono un elargitore: dono volentieri, come l'amico agli amici. Ma i forestieri e
i poveri possono cogliere essi stessi il frutto dal mio albero: così si vergogneranno meno.
Poi bisognerebbe sopprimere del tutto i mendicanti! È irritante dar loro, e irritante il non
dare.
La stessa cosa vale per i peccatori e le anime malvage! Credetemi, amici miei: i rimorsi di
coscienza educano al morso.
Ma la cosa più grave sono i piccoli pensieri. Meglio agire male, che pensare in piccolo!
Invero voi dite: 'La gioia di certe piccole malignità ci risparmia molte azioni malvage'.
Sennonché, vedete, non si dovrebbe cercare di risparmiare.
L'azione malvagia è come un'ulcera: pizzica, rode e scoppia; si manifesta lealmente.
'Vedi, io sono una malattia': così dice l'azione malvagia; questa è la sua lealtà.
Ma il piccolo pensiero è come un fungo: striscia e si appiattisce e non vuole essere in
nessun luogo, fin. ché tutto il corpo è marcio e carico di piccoli funghi.
Quanto a colui che è invasato dal demonio, io gli dico questa parola all'orecchio: 'Meglio è
che tu allevi il tuo grande demonio! Anche per te c'è ancora una via di salvezza!'
Ahimè, fratelli miei! Sul conto di ognuno si sa sempre troppo! Più d'uno diviene per noi
trasparente, ma proprio per questo non possiamo penetrare in lui.
È arduo vivere con gli uomini, perché è così arduo il tacere.
E non contro colui che ci disgusta noi siamo più ingiusti, ma contro colui del quale nulla ci
importa.
Ma se tu hai un amico sofferente, allora sii il luogo di riposo delle sue sofferenze, e nello
stesso tempo un duro letto, un letto da campo: così facendo tu gli gioverai nel migliore dei
modi.
E se un amico ti fa del male, parlagli così: 'Io ti perdono ciò che tu hai fatto a me; ma ciò
che tu hai fatto a te, come posso perdonartelo?'
Così parla ogni grande amore: supera anche il perdono e la compassione.
Bisogna tener stretto il cuore; se ci sfugge via, subito lo segue la testa!
Ahimè, chi mai nel mondo commise follie più grandi della compassione? E che cosa nel
mondo recò più danno delle follie della compassione?
Guai agli amanti, se essi non hanno una cima, che sia sopra la loro compassione!
Così una volta mi disse il demonio: 'Anche Dio ha il suo inferno: cioè il suo amore per gli
uomini'.
E recentemente l'ho udito pronunciare queste parole: 'Dio è morto; la sua compassione
per gli uomini lo ha ucciso'.
State in guardia dunque contro la compassione: da essa scende sugli uomini una nube
pesante! Attenti; io capisco i segni premonitori della tempesta!
Ma ricordatevi questa parola: ogni grande amore è sempre superiore alla propria
compassione: perché esso vuole altresì creare il prediletto!'Al mio cuore io sacrifico me
stesso, e come me il mio prossimo': così va il discorso a tutti i creatori.
Ma tutti i creatori sono duri".
Così parlò Zarathustra.
DEI PRETI
E una volta Zarathustra diede ai suoi discepoli un segno e disse loro questa parola:
"Qui sono i preti: e sebbene essi siano miei amici, avvicinatevi a loro in silenzio, e con la
spada nel fodero!
Anche tra loro vi sono eroi: molti di loro hanno troppo sofferto: così vogliono far soffrire gli
altri.
Sono cattivi nemici: niente è più vendicativo della loro umiltà. E facilmente si contamina
chi li tocca.
Sennonché, il mio sangue è imparentato con il loro: e io voglio vedere onorato il mio
sangue in loro."
E allorché furono passati, Zarathustra fu sopraffatto dal dolore; e non passò molto tempo
che prese a dire:
"Mi fanno pena, questi preti. Non mi vanno a genio; ma questo è niente, dacché mi trovo
fra gli uomini.
Sennonché, io ho sofferto e soffro con loro: essi sono per me dei prigionieri e dei segnati.
Colui che essi chiamano Redentore, li ha stretti in catene.
Li ha incatenati in falsi valori e folli parole! Ahimè, potesse qualcuno salvarli dal loro
Redentore!
Hanno creduto di approdare ad un'isola, quando il mare li ha abbattuti; un mare che era
un mostro addormentato!
Falsi valori e folli parole: sono i peggiori mostri per i mortali; il destino dorme in loro a
lungo, e attende.
Alla fine sopraggiunge, si sveglia, divora e trangugia tutti coloro che hanno creduto di
costruirsi una capanna su di lui.
Oh, guardate le capanne che si sono costruite i preti! Chiese si chiamano le loro spelonche
incensate!
Oh, qual falsa luce, qual aria ammuffita! dove la anima non può innalzarsi verso la sua
sommità!
La loro fede impone: 'Sui ginocchi salite la scala [Allusione alla Scala Santa dl Roma] o
peccatori!
In realtà, mi sono più simpatici gli uomini spudorati, che gli occhi torti del loro pudore e
della loro devozione!
Chi sono coloro che si sono costruiti tali caverne e scale di penitenza? Non forse coloro che
hanno voluto nascondersi e si vergognano del cielo puro?
Solo quando il cielo puro brillerà di nuovo attraverso i soffitti rotti, e attraverso le mura
screpolate fra l'erba e i rosi papaveri: allora soltanto mi sentirò di rivolgere il mio cuore
alle dimore di quel Dio.
Hanno chiamato Dio ciò che li osteggiava e li faceva soffrire; veramente v'è molto
contegno eroico nella loro adorazione!
Né hanno saputo amare altrimenti il loro Dio, che crocefiggendo l'uomo!
Hanno pensato di vivere come cadaveri, vestendo di nero il proprio cadavere; anche nei
loro discorsi io annuso il lezzo delle camere mortuarie.
E chi vive vicino a loro, vive vicino a neri stagni, in cui il rospo canta la sua canzone con
dolce malinconia.
Dovrebbero cantarmi canzoni migliori, perché imparassi a credere nel loro Redentore:
dovrebbero apparirmi più redenti i suoi discepoli!
Desidererei vederli nudi: perché solo la bellezza può permettersi di predicare la penitenza.
Chi mai si lascerà persuadere da tale travestita afflizione?
La realtà è che i loro stessi redentori non vengono dalla libertà e dal settimo cielo della
libertà! Essi stessi non hanno mai camminato sui tappeti della conoscenza!
Lo spirito di quei redentori era molto lacunoso: sennonché, ogni lacuna essi l'avevano
riempita con la loro follia, una specie di riempitivo, che hanno chiamato Dio.
Nella loro compassione è annegato il loro spirito, e benché siano colmi e ricolmi di pietà, in
superficie affiora sempre soltanto una grande stoltezza.Con fervide grida stimolano il loro
gregge a salire sul loro ponte; come se per l'avvenire vi fosse solo quel ponte! In realtà,
anche quei pastori non sono che pecore!
Essi hanno avuto sempre piccoli cervelli e anime larghe: ma, fratelli miei, qual piccola terra
sono state fino ad oggi anche le loro più ampie anime!
Hanno segnato col sangue la strada per la quale andavano, e la loro demenza ha
insegnato che con il sangue si testimonia la verità.
Ma il sangue è il peggior testimonio della verità; il sangue avvelena anche la dottrina più
pura e la trasforma in follia e odio dei cuori.
E se uno va sul rogo per la sua dottrina, che cosa prova questo? In realtà è meglio che la
dottrina nasca dal proprio fuoco!
Un cuore opprimente e una testa fredda: dove entrambe le cose si toccano, là scoppia la
tempesta, il ‘Redentore’.
In realtà vi sono stati uomini più grandi ed elevati di quelle travolgenti tempeste, che il
popolo chiama redentori!
Da uomini più grandi di tutti i redentori, dovete, fratelli miei, venir liberati; se volete
trovare la via verso la libertà!
Il Superuomo non si è ancora manifestato. Nudi li ho visti intrambi, l'uomo più grande e il
più piccolo.
Si somigliano ancora troppo tra loro. In realtà, anche il più grande l'ho trovato troppo
uomo!'
Così parlò Zarathustra.
DEI VIRTUOSI
"Con tuoni e celesti fuochi d'artificio è necessario parlare ai sensi rilassati e addormentati.
Ma la voce della bellezza parla a bassa voce: essa si insinua solo nelle anime molto
sveglie.
Oggi il mio scudo ha vibrato leggero e mi ha sorriso; questo è sacro riso e tremito di
bellezza.
Ma anche di voi, o virtuosi, oggi ha riso la mia bellezza. E la sua voce mi è giunta così:
'Essi vogliono anche essere pagati!'
Voi volete anche essere pagati, o virtuosi! Volete un compenso per la virtù e il cielo in
cambio della terra e l'eternità in cambio del vostro oggi?
Voi siete ora in collera con me perché io insegno che non esiste la ricompensa e il
tesoriere? E, in realtà, io non insegno neanche che la virtù è ricompensa a se stessa.
Ahimè, questa è la mia afflizione: nel fondo delle cose è stata immaginata una pena e una
ricompensa; e così nel fondo delle vostre anime, o virtuosi!
Ma come grugno di cinghiale, la mia parola scoverà il fondo delle vostre anime; io voglio
essere per voi il vomere dell'aratro.
Tutti i segreti della vostra anima verranno alla luce; e quando starete sdraiati al sole scossi
e spezzati, anche la vostra bugia si separerà dalla vostra verità.
Perché questa è la vostra verità: voi siete troppo puliti per il sudiciume delle vostre parole
di vendetta, punizione, ricompensa, retribuzione.
Voi amate la vostra virtù, come la madre il suo bimbo; ma quando mai si è sentito che una
madre ha voluto essere pagata per il suo amore?
La vostra virtù è la vostra cosa più cara. La bramosia dell'Anello [Allusione all'Anello del
Nibelungo di Wagner, la cui bramosia è causa dl ogni male] è in voi: ed ogni anello tende
a volgersi su se stesso, perciò ogni anello si volge su se stesso.
Simile a una stella spenta è ogni opera della vostra virtù: la sua luce è sempre in
cammino; e quando non sarà più in cammino?
Così la luce della vostra virtù è ancora in cammino, anche quando l'opera è compiuta.
Fosse pure dimenticata e morta: il suo raggio di luce vive ancora e cammina.
Che la nostra virtù sia voi stessi, e non un'estranea, una pelle, un mantello: questa sia la
verità che scaturisce dal profondo delle vostre anime, o virtuosi!
Ma vi sono taluni che chiamano virtù uno spasimo sotto una sferza: e voi avete troppo
ascoltato I loro proclami!
Vi sono altri che chiamano virtù la putrefazione dei loro visi; e quando il loro odio e la loro
gelosia si sono stiracchiati, la loro 'giustizia' si sveglia e si stropiccia gli occhi assonnati.
E vi sono altri che sono attirati verso il basso: i loro demoni li attirano a sé. Ma più essi
sprofondano, tanto più brilla ardente il loro occhio sul desiderio del loro Dio.
Ahimè, anche il loro grido è giunto al vostro orecchio, o virtuosi: 'Ciò che io non sono,
questo, questo è per me Dio e virtù!'
E vi sono altri che arrivano pesanti e cigolanti, simili a carri che portino giù pietre: parlano
molto di dignità e di virtù; e chiamano virtù i freni!
E vi sono altri che sono simili ad orologi caricati: fanno tic-tac e chiamano il tic-tac virtù.
Per dir la verità, costoro mi riescono simpatici: dove incontrerò tali orologi, li caricherò con
la mia derisione: e mi divertirò a sentire il loro ronzio!
Vi sono altri che vanno orgogliosi della loro manciata di giustizia e commettono per amore
di questa delitti verso tutte le cose: così che il fondo finisce annegato nella loro ingiustizia.
Ahimè, come suona male la parola 'virtù' sulle loro labbra! E allorché dicono: 'Io sono
giusto', è sempre come se dicessero: 'Sono vendicato!'
Con la loro virtù vorrebbero cavare gli occhi ai loro nemici; si innalzano solo per avvilire gli
altri.
E finalmente vi sono di quelli che stanno seduti nelle loro paludi e attraverso la canne
palustri parlano così: 'Virtù è stare seduti in silenzio nel fango.
Noi non mordiamo nessuno ed evitiamo coloro che vogliono mordere; e abbiamo su tutto
l'opinione che ci viene fornita'.
Le loro ginocchia adorano sempre e le loro mani esaltano la virtù, ma il loro cuore non
contiene nulla.
Vi sono anche quelli che stimano virtù il dire: 'La virtù è necessaria'; ma in fondo ritengono
solamente che occorra la polizia.
E qualcuno, che non può scorgere l'elevazione che è nell'uomo, chiama virtù lo scorgere
l'inferiorità dell'uomo: così chiama virtù il suo malocchio.
Taluni vogliono essere edificati e sollevati e chiamano ciò virtù; altri vogliono essere
distrutti; e chiamano anche questo virtù.
Vi sono poi anche quelli che amano i gesti e pensano: la virtù è una specie di gesto.
E così quasi tutti credono di partecipare della virtù: per lo meno ognuno si immagina di
essere un conoscitore del 'bene' e del 'male'.
Ma Zarathustra non è venuto per dire a tutti questi bugiardi e quel pazzi: 'Che cosa sapete
voi della virtù? Che cosa potete voi sapere della virtù?'
È venuto perché voi, amici miei, vi sentiate stufi delle antiche parole, che voi avete
imparato dai folli e dai bugiardi.
Stanchi delle parole 'ricompensa', 'retribuzione', 'punizione', 'vendetta nella giustizia'.
Siate stanchi di dire che un'azione è buona, perché è disinteressata'.
Ahimé, amici miei! Che il vostro essere sia nell'azione, come la madre nel figlio: questa sia
la vostra parola intorno alla virtù!
In realtà, io vi ho tolto più di cento parole e il giocattolo più caro della vostra virtù; e ora
siete in collera con me, come fanno il broncio i bimbi.
Essi giocavano in riva al mare; venne l'onda e portò loro via il giocattolo: ed ora piangono.
Ma la stessa ondata porterà loro nuovi giocattoli e distribuirà loro nuove variopinte
conchiglie!
Così saranno consolati; e come loro, anche voi, amici miei, dovrete avere le vostre
consolazioni, le vostre nuove variopinte conchiglie!"
Così parlò Zarathustra.
DELLA GENTAGLIA
"La vita è una sorgente di gioia; ma dove la gentaglia beve con gli altri, là tutte le fonti
sono avvelenate.
Io sono favorevole a tutto ciò che è puro; ma non posso vedere i musi sogghignanti e la
sete degli impuri.
Essi hanno guardato con i loro occhi in fondo alle fonti: ora vedo riflesso il loro ripugnante
sorriso dentro la fonte.
Hanno avvelenato con la loro libidine l'acqua santa; e quando hanno chiamato gioia i loro
sogni osceni, hanno avvelenato anche le parole.
La fiamma si ritrae, quando essi mettono i loro viscidi cuori vicino al fuoco; lo spirito
stesso ribolle e fuma, quando la gentaglia si accosta al fuoco.
Il frutto nelle loro mani diventa dolciastro e marcio: il loro sguardo rende l'albero da frutto
cadente e secco.
Molti abbandonarono la vita per sfuggire alla gentaglia: ton volevano divenire con essa
l'albero, la fiamma e il frutto.
E molti che si recarono nel deserto e soffersero la sete con le belve, lo fecero perché non
volevano sedere intorno alla cisterna con i sudici cammellieri.
E molti che vennero qua come distruttori e come una grandinata su campi ubertosi,
vollero solo cacciare il loro piede sulla bocca della gentaglia e così tapparne la gola.
E non è questo il ‘boccone’ che lo dovetti per lo più strozzare, per sapere che la vita stessa
ha bisogno di ostilità e di morte e di croci di martirio.
Ma un giorno io domandai, e quasi soffocavo per la mia domanda: 'Come? La vita ha
bisogno anche della gentaglia?
Sono necessarie le fonti avvelenate e i fuochi puzzolenti e i sogni osceni e i vermi sul pane
della vita?'
Non il mio odio, ma il mio disgusto mi fece affamato dl vita! Ahimè, io mi stancai anche
dello spirito, quando trovai che anche la gentaglia era piena di spirito!
E così girai la schiena anche ai dominatori, quando vidi che cosa essi oggi chiamano
dominatori: gente che traffica e mercanteggia per il potere con la gentaglia!
Io ho dimorato tra popoli di diversa lingua, con le orecchie chiuse: perché mi rimanesse
sconosciuta la lingua del loro trafficare e mercanteggiare il potere.
Tappandomi il naso, sono passato disgustato attraverso tutti gli ieri e gli oggi: in realtà, ho
sentito l'odore cattivo sia dell'ieri che dell'oggi: in realtà, tanto l'ieri quanto l'oggi puzzano
di questa gentaglia che scrive!
Simile a un invalido che è diventato sordo e cieco e muto: sono vissuto a lungo in maniera
da non aver niente da spartire con la gentaglia che comanda e scrive e gode.
Penosamente e cautamente il mio spirito salì le scale; le elemosine del piacere furono il
suo conforto; intanto la vita scorreva lentamente per il cieco appoggiato al bastone.
Che cosa mi accadde, dopo? Come mi liberai del disgusto? Chi ringiovanì i miei occhi?
Come raggiunsi l'altitudine dove la gentaglia non siede più intorno alle fonti?
Il mio stesso disgusto mi ha procurato le ali e la forza presaga di nuove sorgenti? In
realtà, ho dovuto volare molto in alto, per ritrovare la sorgente della gioia!
Oh, l'ho trovata, fratelli miei! Qui, nelle supreme altitudini, scaturisce per me la sorgente
della gioia! E vi è una vita, di cui la gentaglia non si abbevera!
Anche troppo impetuosa tu scorri per me, sorgente di gioia! E spesso tu vuoti la coppa,
perché vuoi riempirla di nuovo!
E io debbo ancora imparare ad avvicinarmi a te con discrezione; il mio cuore ti corre
incontro con troppa violenza:
il mio cuore, su cui brucia la mia estate, la breve, calda, malinconica, beatissima estate:
come il mio cuore estivo desidera la tua frescura!
Finita la esitante malinconia della mia primavera!
Passata la malvagità dei miei fiocchi di neve in giugno! Io sono divenuto tutto estate e
meriggio d'estate!
Un'estate sulle alture con fredde sorgenti e beato silenzio: venite, amici miei, perché il
silenzio divenga ancora più beato!
Siccome questa è la nostra altitudine e la nostra patria; troppo in alto e in luogo scosceso
noi dimoriamo per gli impuri e la loro sete.
Gettate i vostri puri sguardi nella sorgente della mia gioia, o amici! Come essa potrebbe
intorbidarsi? Deve sorridere incontro a voi con la sua purezza!
Noi erigeremo il nostro nido sull'albero dell'avvenire; le aquile dovranno portare a noi
solitari il cibo nei loro becchi!
In realtà, non è cibo di cui possano nutrirsi gli impuri! essi crederebbero di mangiare fuoco
e si brucerebbero i musi!
Noi non teniamo pronti quassù domicili per gli impuri! La nostra gioia sembrerebbe una
caverna gelata alloro corpi e ai loro spiriti!
Come forte vento vogliamo vivere sopra di loro, vicini delle aquile, vicini della neve, vicini
del sole: così vivono i forti venti.
E come un vento io voglio un giorno soffiare su di loro e con il mio spirito spegnere il
respiro del loro spirito: così vuole il mio avvenire.
In realtà, Zarathustra è un forte vento per tutte le bassure; e dà questo consiglio ai suoi
amici e a tutto ciò che sputa e vomita: 'guardatevi dallo sputare contro il vento!" [È uno
dei passi che meglio esprimono il senso ditirambico del predicatore dionisiaco]
Così parlò Zarathustra.
DELLE TARANTOLE
"Vedi, questa è la tana della tarantola! Vuoi vederla? Qui è appesa la sua ragnatela:
toccala, perché essa tremi tutta.
Ecco che la tarantola sopraggiunge spontaneamente: benvenuta, tarantola! Nero sta sulla
tua schiena il triangolo, il tuo segno; e io so anche ciò che sta nella tua anima.
Vendetta sta nella tua anima: dove tu mordi, là cresce una crosta nera; con vendetta il tuo
veleno fa sì che l'anima si torca!
Io parlo sotto metafora a voi, che fate torcere l'anima, voi predicatori dell'uguaglianza! Voi
siete per me tarantole e oscuri spiriti vendicativi!
Ma io voglio portare luce nei vostri nascondigli perciò vi rido in faccia con il mio sorriso
dell'altitudine.
Perciò strappo la vostra ragnatela, affinché la vostra rabbia vi attiri fuori dalla vostra tana
bugiarda, e la vostra vendetta salti fuori dietro la vostra parola di 'giustizia'.
Che l'uomo sia redento dalla vendetta: questo è per me il ponte verso le più alte speranze
e un arcobaleno dopo lunghi temporali.
Ma diversamente vogliono le tarantole. 'Proprio questo noi chiamiamo giustizia, che il
mondo sia pieno dei temporali della nostra vendetta': così si dicono l'un l'altra.
'Noi vogliamo usare vendetta e oltraggio su tutti quelli che non sono come noi': così si
promettono solennemente in cuor loro le tarantole.
'Volontà di uguaglianza: questo sia in avvenire il nome della virtù; e contro tutto ciò che
ha potere, noi vogliamo levare le nostre grida!'
O predicatori dell'uguaglianza, la follia tirannica dell'impotenza così grida in voi invocando
l"uguaglianza': le vostre iù nascoste voglie tiranniche si mascherano così in parole
virtuose!
Presunzione crucciata, invidia repressa, forse presunzione e invidia derivate dai vostri
padri: tutto ciò scaturisce da voi come fiamma e follia di vendetta.
Ciò che il padre tacque, vien fuori ora per la parola del figlio: spesso ho visto che il figlio
mette a nudo il segreto del padre.
Assomigliano all'ispirato: ma non è il cuore che li ispira, bensì la vendetta. E quando
divengono astuti e freddi, non è lo spirito che li rende astuti e freddi, bensì la vendetta.
La loro gelosia li conduce anche sul sentiero del pensatore; e questo è l'indice della loro
gelosia: che essi vanno sempre troppo oltre; perciò la loro stanchezza alla fine li costringe
a mettersi a dormire sulla neve.
Da ogni loro lamento risuona l'invidia, in ogni loro encomio è un'intenzione maligna; il
giudicare è per loro una gioia.
Ma io vi consiglio, amici miei: diffidate di tutti coloro nei quali l'istinto di punire è potente!
È gente di specie e di origine cattiva; dai loro volti traspare il boia e il segugio.
Diffidate di tutti quelli che parlano molto della loro giustizia! In realtà, alle loro anime non
manca solo il miele.
E se chiamano se stessi 'i buoni e i giusti', allora non dimenticate che per diventare farisei
non manca loro che il potere!
Amici miei, io non voglio essere confuso con loro.
V'è qualcuno che predica la mia dottrina della vita: ma al tempo stesso è predicatore di
uguaglianza e tarantola.
Questa gente parla esaltando la vita, mentre in realtà sta accucciata nel suo covo; questi
ragni velenosi, e lontani dalla vita: la realtà è che essi vogliono fare del male.
Vogliono fare del male a coloro che ora hanno il potere: siccome la predicazione della
morte è sempre per essi il partito migliore. Se fosse altrimenti, le tarantole insegnerebbero
altro: proprio loro un tempo furono i migliori caluniatori del mondo e i bruciatori degli
eretici.
Con questi predicatori dell'uguaglianza io non voglio essere né confuso né scambiato.
Siccome la giustizia mi insegna che 'gli uomini non sono uguali'.
E neppure devono diventarlo! Che cosa sarebbe il mio amore per il Superuomo, se io
parlassi diversamente?
Su mille ponti e sentieri bisogna lanciarsi verso l'avvenire, e sempre più la guerra e la
disuguaglianza devono essere messe tra gli uomini: così mi insegna il mio grande amore!
Essi devono diventare nella loro guerra inventori di simboli e fantasmi, e con i loro simboli
e i loro fantasmi devono combattere fra di loro la suprema battaglia!
Buono e cattivo, ricco e povero, alto e basso, e tutti i nomi dei valori, devono diventare
armi e segni risonanti, ché la vita deve sempre superare se stessa!
La vita stessa vuole costruire con pilastri e gradinate: vuole guardare in vaste lontananze e
verso serene bellezze; perciò ha bisogno di altitudine!
E siccome ha bisogno di altitudine, ha bisogno di gradinate e del contrasto delle gradinate
e dei salienti! La vita vuole salire e salendo superare se stessa.
Guardate dunque, amici miei! qui dove è il covo della tarantola, si innalzano le rovine di un
antico tempio; guardate con occhi illuminati!
In realtà, colui che un giorno sollevò verso l'alto i suoi pensieri con le pietre, questi
conobbe il segreto della vita come il più gran sapiente!
Lotta e ineguaglianza sono anche nella bellezza, e guerra e potenza e predominio: questo
egli ci insegna qui con chiarissimi segni.
Come divinamente si rompono qui gli archi e le arcate in lotta di forze a corpo a corpo:
come combattono tra loro con la luce e con l'ombra, i divini lottatori.
Fate sì che anche i nostri nemici siano così sicuri e belli, amici miei! Noi vogliamo lottare
divinamente l'uno contro l'altro!
Ahimè! ecco che mi ha morso la tarantola, la mia antica nemica! Essa mi ha morso il dito
divinamente sicura e bella!
'Devono esserci punizione e giustizia' essa pensa: 'non senza motivo egli deve qui cantare
canti in onore dell'inimicizia!'
Sì, essa si è vendicata! E guai! ora essa farà girare con la vendetta anche la mia anima!
Ma affinché io non mi metta a girare, amici miei, legatemi stretto qui a questa colonna!
più volentieri io voglio essere un santo-colonna che vortice della vendetta!
In realtà, Zarathustra non è un vento girevole né un vortice di vento; e se è un danzatore,
mai e poi mai è un danzatore di tarantola! [Questo è uno dei capitoli che più hanno influito
sui recenti predicatori di violenza e di guerra]
Così parlò Zarathustra.
DEI CELEBRI SAGGI
"Foste servitori del popolo e della superstizione del popolo, o tutti voi celebri saggi!, e non
della verità! E proprio per questo vi fu tributato profondo rispetto.
E per questo fu sopportata anche la vostra irreligiosità, perché essa era un'astuzia e un
sotterfugio per giungere più vicino al popolo. Così il padrone lascia liberi i ,suoi schiavi e si
diverte della loro spavalderia."
Ma ciò che è odioso al popolo come il lupo ai cani è il libero spirito, il nemico del legame, il
non adoratore, l'abitatore delle foreste.
Scacciarlo dal suo nascondiglio: questo il popolo chiama da sempre 'senso del giusto';
contro cui egli aizza ancora i suoi cani dai denti aguzzi.
'Siccome la verità esiste: non c'è forse il popolo? Guai, guai ai cercatori!' Così si è detto da
tempo immemorabile.
Voi voleste creare per il vostro popolo una ragione della sua venerazione per voi: e questo
chiamaste 'volontà del vero', voi; celebri saggi!
E il vostro cuore parlò sempre così: 'Io vengo dal popolo: da lui mi venne anche la voce di
Dio'.
Testardi e prudenti come un asino, voi foste sempre i paladini del popolo.
E più d'un potente, che voleva essere in buoni rapporti con il popolo, attaccò davanti ai
suoi cavalli anche un asinello, un celebre saggio.
Ma ora io vorrei, o celebri saggi, che voi gettaste via da voi finalmente la pelle del leone!
La pelle multicolore della belva e il vello dell'esploratore, del ricercatore, del conquistatore!
Ahi, perché io impari a credere nella vostra 'veridicità', voi dovete prima spezzare davanti
a me la vostra volontà di adorare.
Sincero io chiamo colui che va nei deserti senza Dio e ha spezzato il suo cuore che lo
adorava.
Tra sabbie gialle, arso dal sole, egli sbircia assetato verso oasi ricche di sorgenti, dove i
vizi oziano sotto alberi fronzuti.
Ma la sua sete non lo persuaderà a divenire simile a questi placidi: siccome dove sono
oasi, là sono anche gli idoli.
Affamata, brutale, solitaria, senza Dio: così vuole se stessa la volontà del leone.
Libero dalla gioia del servo, redento dagli dei e dalla preghiera, impavido e terribile,
grande e solitario: così è la volontà del veritiero.
Da tempo immemorabile i veritieri dimorarono nel deserto, i liberi spiriti, padroni del
deserto; nelle città dimorarono invece saggi celebri, ben pasciuti: gli animali da tiro.
Sempre essi infatti tirano, come asini, il carretto del popolo!
Non che io sia in collera con loro per questo: ma essi rimangono per me servitori e
attaccati al carro, anche se brillano di finimenti d'oro.
E spesso essi furono buoni ed encomiabili servi. Siccome così parla la virtù: 'Se devi essere
servo, allora cerca colui al quale il tuo servizio meglio giovi!
Lo spirito e la virtù del tuo padrone devono crescere, con ciò che tu sei il suo servo: così
tu stesso ti accrescerai insieme al suo spirito e alla sua virtù!'
E in realtà, o celebri saggi, o servi del popolo! voi stessi siete cresciuti con lo spirito e la
virtù del popolo, e il popolo per mezzo di voi! A vostro onore io dico questo!
Ma voi per me rimanete popolo anche con le vostre virtù, popolo di vista corta; popolo che
non sa che cosa è lo spirito!
Spirito è la vita; vita che penetra in se stessa: dalle proprie sorgenti essa accresce la sua
saggezza; lo sapevate già?
E questa è la gioia dello spirito: essere unto e consacrato attraverso le lacrime
dell'olocausto; lo sapevate già?
E la cecità del cieco e la sua ricerca e il brancolare devono dimostrare il potere del sole, in
cui egli fissò lo sguardo; lo sapevate già?
E il conoscitore deve imparare a costruire con le montagne! E cosa da poco che lo spirito
trasporti le montagne [Allusione al detto evangelico che lo spirito muove le montagne]; lo
sapevate già?
Voi conoscete solo le faville dello spirito: ma non vedete l'incudine, che esso è, e la
crudeltà del suo martello!
In realtà, voi non conoscete l'orgoglio dello spirito! Ma ancora meno sapreste tollerare la
modestia dello spirito, se essa volesse una volta parlare!
E mai avete sentito il bisogno di gettare il vostro spirito in una fossa di neve: non siete
ancora abbastanza fervidi! Così non conoscete neppure l'estasi del suo gelo.
Tutto sommato, voi trattate troppo familiarmente con lo spirito; e fate spesso della
saggezza un ricovero per poveri e un ospedale per cattivi poeti.
Voi non siete delle aquile: non avete ancora appreso la gioia nel terrore dello spirito. E chi
non è uccello, non deve accamparsi sui precipizi.
Voi siete per me tepidi: ma ogni conoscenza profonda fluisce fredda. Fredde come
ghiaccio sono le intime fonti dello spirito: refrigerio per le mani ardenti e per chi è pronto
all'azione.
State lì onorevoli e rigidi e con la schiena diritta, o celebri saggi! Non vi sospinge nessun
forte vento né volontà.
Non avete mai veduto una vela scorrere sul mare, tonda e gonfia e vibrante per la
violenza del vento?
Simile alla vela, vibrante per la violenza del vento, la mia saggezza scorre sul mare; la mia
selvaggia saggezza!
Ma voi, servitori del popolo, voi saggi famosi, come potreste venire con me!"
Così parlò Zarathustra.
IL CANTO NOTTURNO
"È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una
fontana zampillante.
È notte: solo ora si svegliano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di
un amante.
Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; che vuole farsi sentire. È in me un desiderio
d'amore, che parla il linguaggio dell'amore.
Io sono luce: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sono cinto di luce.
Ah, fossi io oscuro e notturno! Come vorrei attaccarmi alle mammelle della luce!
E anche voi io vorrei benedire, piccole faville stellari e lucciole lassù! ed essere beato dei
vostri doni di luce.
Ma io vivo nella mia propria luce, io bevo in me le mie proprie fiamme, che da me
erompono.
Io non conosco la gioia di chi riceve, e spesso ho persino sognato che il rubare deve
essere più beato che il ricevere.
Questa è la mia miseria, che la mia mano non si stanca mai di donare; questa è la mia
invidia, che io vedo occhi in attesa e notti illuminate dalla brama.
O Infelicità di tutti i donatori! O oscuramento del mio sole! O voglia di desiderio! O avidità
della sazietà!
Essi prendono da, me: ma tocco io veramente le loro anime? Un abisso c'è tra il dare e il
prendere; e l'abisso più piccolo è il più arduo a varcare.
Fame sorge dalla mia bellezza: io desidererei recar dolore a coloro che illumino,
desidererei derubare i miei beneficati: così affamato di malvagità sono io.
Ritirare la mano, quando verso di essa già si stende un'altra mano; simile ad una lenta
cascata, che indugia anche nella caduta: così affamato di malvagità son io.
Tale vendetta merita la mia pienezza: tale malignità scaturisce dalla mia solitudine!
La mia gioia di donare si è estinta nel donare, la mia virtù si è stancata essa stessa della
sua sovrabbondanza.
Chi dona sempre, corre il pericolo di perdere il pudore; chi distribuisce sempre, ha la mano
e il cuore callosi per il troppo distribuire.
Il mio occhio non versa più lacrime per il pudore dei supplicanti; la mia mano è divenuta
troppo dura per il tremito delle mani ricolme.
Dove è andata la lacrima del mio occhio e la lanugine del mio cuore? O solitudine di tutti
coloro che donano! O riservatezza di tutti i luminosi!
Molti soli roteano negli spazi celesti: a tutto ciò che è oscuro, essi parlano con la loro luce;
ma a me essi tacciono.
Oh, questa è l'ostilità della luce contro tutto ciò che risplende: spietata essa prosegue il
suo cammino.
Ingiusto nel profondo del cuore contro tutto ciò che risplende, freddo verso i soli: così
prosegue ogni sole.
Come una tempesta, i soli percorrono il loro cammino, questo è il loro andare. Essi
seguono la loro volontà inesorabile, che è la loro freddezza.
Oh, voi solo, voi oscuri, voi notturni, producete il calore dai corpi luminosi! Oh, voi
solamente bevete latte e conforto dalle mammelle della luce!
Ahimè, ghiaccio è intorno a me, la mia nano si scotta toccando il ghiaccio! Ahimè, sete è in
me, che brama la vostra sete!
È notte: ahimè, perché devo essere luce? E sete verso il notturno? E solitudine?
È notte: ora il mio desiderio prorompe da me come un desiderio; di parole ho desiderio.
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una
fontana zampillante.
È notte: solo ora si svegliano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di
un amante".
Così cantò Zarathustra.
CANZONE A BALLO
Una sera Zarathustra andava per il bosco con i suoi discepoli; e proprio mentre cercava
una fontana, ecco che giunse in un verde prato silenzioso, circondato da alberi e cespugli:
là alcune fanciulle danzavano tra di loro. Appena le fanciulle riconobbero Zarathustra,
smisero la danza; ma Zarathustra si avvicinò loro con amichevole saluto e disse queste
parole:
"Non cessate la danza, o leggiadre fanciulle! Non venne a voi un guastafeste dallo sguardo
malvagio, né un nemico delle fanciulle.
Io sono l'intercessore di Dio contro il demonio: lui invece è lo spirito della pesantezza.
Come potrei essere, o voi lievi, nemico della divina danza? o dei piedi delle fanciulle dalle
belle caviglie?
Io sono, è vero, una foresta e una notte di alberi neri: ma chi non ha paura della mia
oscurità trova dei roseti sotto i miei cipressi.
E vi trova anche il piccolo dio che è tanto caro alle fanciulle: egli è disteso vicino alla fonte,
zitto, con gli occhi chiusi.
In realtà, mi si è addormentato, quel fannullone! E forse andato troppo a caccia di farfalle?
Non siate in collera con me, o belle danzatrici, se punisco un poco il piccolo dio! Egli
griderà e piangerà; ma è allegro anche nel pianto! E con le lacrime negli occhi vi chiederà
un ballo; e io stesso voglio intonare un canto per la sua danza: una ballata e una canzone
satirica sullo spirito della pesantezza, il mio altissimo e potentissimo demonio, di cui si dice
che sia il padrone del mondo".
E questo è il canto che Zarathustra cantò, mentre Cupido e le fanciulle danzavano
insieme:
"Recentemente ti guardai negli occhi, o vita! E mi sembrò di sprofondare
nell'imperscrutabile.
Ma tu mi riportasti sù con un amo d'oro; ridesti ironicamente quando ti chiamai
imperscrutabile.
'Così parlano tutti i pesci' tu dicesti; 'ciò che essi non penetrano, è imperscrutabile.
Ma io sono solo mutevole e selvaggia e in tutto una femmina e fra l'altro non virtuosa:
Anche se da voi uomini vengo chiamata la profonda o la fedele, l'eterna, la misteriosa.
Voi uomini ci fate sempre dono delle vostre proprie virtù, ahimè, o virtuosi!'
Così rise, l'infida; ma io non mi fido mai di lei e del suo riso, quando parla male di se
stessa.
E quando ebbi parlato a quattr'occhi con la mia selvaggia saggezza, essa mi disse adirata:
'Tu vuoi, tu desideri, tu ami; solo per questo tu lodi la vita!'
Stavo quasi per darle una cattiva risposta e dire la verità all'irata; non si può rispondere
peggio di quando 'si dice la verità' alla propria saggezza.
Così stanno le cose tra noi tre. In fondo io amo solo la vita; tanto più, quando la odio!
Se tuttavia anche la saggezza mi è cara e spesso troppo cara: questo accade, perché essa
mi rammenta troppo la vita!
Essa ha i suoi occhi, il suo sorriso e perfino il suo piccolo amo d'oro: che colpa ne ho io se
tutt'e due sono così rassomiglianti?
E quando una volta la vita mi chiese: chi è mai questa, saggezza? allora io dissi
premurosamente: 'Ahimè, sì! la saggezza!
Si ha sete di lei e non se ne diviene mai sazi, la si guarda attraverso i veli, e si cerca di
afferrarla con la rete.
È bella? Che ne so io! Ma anche le più vecchie carpe vengono prese all'amo con essa.
È mutabile e caparbia; spesso l'ho veduta mordersi le labbra e adoperare il pettine contro
il verso dei suoi capelli.
Forse essa è malvagia e falsa, e in tutto una femmina; ma quando parla male di se stessa,
proprio allora mi seduce più di tutto'.
Appena ebbi detto questo alla vita, essa rise malignamente e chiuse gli occhi. 'Di chi parli?'
disse di me, vero?
Anche se tu avessi ragione, mi si dice forse ciò, così, in faccia? Ma ora parla anche della
tua saggezza!'
Ahimè, allora tu apristi di nuovo gli occhi, vita mia adorata! E a me sembrò di cadere di
nuovo nell'imperscrutabile".
Così cantò Zarathustra. Ma quando la danza ebbe fine e le fanciulle se ne furono andate,
divenne triste. E disse:
"Il sole è da tempo tramontato, il prato è umido, dalla foresta viene frescura.
Un qualcosa di sconosciuto è intorno a me e guata pensoso. Che cosa? Vivi tu ancora, o
Zarathustra?
Perché? per che cosa? per mezzo di che cosa? verso dove? dove? come?
Non è follia, vivere ancora?
Ahimè, amici miei, è la sera che così mi interroga. Perdonate la mia tristezza!
Si è fatta sera: perdonatemi, che si è fatta sera!"
Così parlò Zarathustra.
IL CANTO FUNEBRE
"Laggiù è la silenziosa isola dei morti, laggiù sono anche le tombe della mia gioventù. Là io
voglio portare una sempreverde ghirlanda di vita.
Avendo così deciso nel cuore, mi diressi oltre il mare.
O voi, visioni e apparizioni della mia gioventù! Oh, voi, sguardi d'amore, voi attimi divini!
Come troppo presto periste! Io penso a voi oggi come ai miei morti.
Da voi, miei carissimi morti, mi giunge un dolce profumo, che scioglie il cuore e le lacrime.
In realtà, fa tremare e scioglie il cuore al solitario navigante.
Io sono sempre e ancora il più ricco e il più invidiabile - io il più solitario! Siccome io vi ho
avuto, e voi mi avete ancora: dite, a chi caddero come a me tante melagrane dall'albero?
Sempre io sono l'erede del vostro amore e la terra fiorita, in vostra memoria, di multicolori
selvagge virtù, o voi adorati!
Ahimè, noi eravamo fatti per vivere vicino l'uno all'altro, incantevoli strane meraviglie; e
non come timidi uccelli voi veniste a me e ai miei desideri, bensì fiduciosi in chi aveva
fiducia!
Sì, fatti per la fedeltà, come me, e per l'eternità affettuosa: debbo chiamarvi sguardi e
attimi divini anche dopo la vostra infedeltà: non ho ancora imparato un altro nome.
In realtà, troppo velocernente voi mi moriste, o fugaci. Non mi sfuggiste, né lo sfuggii a
voi: noi siamo reciprocamente innocenti della nostra infedeltà.
Per uccidermi, strozzarono voi, uccelli canori delle mie speranze! Proprio così: contro di
voi, diletti, si scagliò sempre la freccia della malvagità: per colpire il mio cuore!
E come colpì! Siccome voi siete i più cari al mio cuore, il mio possedere e il mio essere
posseduto: perciò doveste morire giovani e troppo presto!
La freccia fu diretta contro ciò che in me era più vulnerabile: contro di voi, la cui pelle è
come una piuma e un sorriso che un solo sguardo fa morire!
Ma una parola io voglio dire ai miei nemici: che cosa è l'omicidio in confronto a ciò che voi
mi avete fatto?
Voi mi avete fatto più male di un omicida; mi avete tolto ciò che più non torna: così io vi
dico, nemici miei!
Voi avete ucciso le visioni e le leggiadre meraviglie della mia gioventù! 'Voi mi toglieste i
compagni di gioco, i santi spiriti! Io depongo questa ghirlanda e questa maledizione in loro
memoria.
Questa maledizione contro di voi, nemici miei! Voi scorciaste là mia eternità, come un
suono che si spezza in una gelida notte! Solo come un muover di ciglia di un occhio divino
essa mi giunse: un istante!
La mia purezza mi aveva detto un giorno in un'ora di bontà: 'Ogni Essere mi sia divino'.
Allora voi mi assaliste con sporchi fantasmi; ahimè, dove è fuggita quell'ora buona?
'Tutti i giorni mi sono sacri': così parlò una volta la saggezza alla mia gioventù: in realtà,
una parola di lieta saggezza!
Ma voi nemici mi rubaste allora le mie notti e le trasformaste in angoscia insonne: ahimè,
dove è fuggita quella lieta saggezza?
Una volta io desiderai felici auspici: voi mi metteste sulla strada una mostruosa,
ripugnante civetta. Ahimè, dove è fuggito il mio affettuoso desiderio?
Una volta io giurai di rinunciare ad ogni disgusto: ma ecco che voi trasformaste in ascessi i
miei vicini e prossimi. Ahimè, dove fuggì allora il più nobile dei miei giuramenti?
Un giorno percorsi come cieco strade beate: ma voi spargeste sudiciume sulla strada del
cieco: e ora egli ha schifo dell'antico sentiero del cieco.
E quando io ebbi compiuta la cosa più ardua e celebrai la vittoria di aver superato me
stesso: allora voi faceste sì che coloro che mi amavano, gridassero che io facevo loro
terribilmente male.
In realtà, questa fu sempre la vostra condotta: voi amareggiaste il miglior miele e la
solerzia delle mie api migliori.
Voi inviaste sempre alla mia carità i più facciati mendicanti: e sospingeste sempre verso la
mia compassione gli svergognati inguaribili. Così feriste le mie virtù nella loro fede.
E anche se io offrivo in sacrificio la cosa a me più sacra: subito la vostra 'pietà' vi
aggiungeva i doni più grossi: così che nel vapore del vostro grasso soffocasse quello che a
me era più sacro.
Una volta io volli danzare, come non avevo danzato mai: volevo danzare a volo sopra tutti
i cieli. Allora corrompeste il mio più caro cantore.
Così che egli intonò una melodia tetra e raccapricciante che mi risuonò, ahimè! all'orecchio
come un lugubre corno!
Cantore assassino, strumento della malvagità, più di tutti innocente! Io era già pronto per
la mia migliore danza: e tu hai ucciso la mia estasi con il tuo canto!
Solo nella danza io riesco a dire con similitudini le cose più sublimi: ma la più sublime delle
similitudini rimasta inespressa nelle mie membra!
Inespressa e delusa, la più sublime speranza! E con essa sono morti ogni visione e
conforto della mia gioventù!
Come potei tollerare ciò? Come vinsi e superai tali ferite? Come poté l'anima mia risorgere
da quella tomba?
Sì, qualcosa di invulnerabile, dl inseppellibile è in me, che frange le rocce: e si chiama la
mia volontà.
Essa avanza tacita e immutabile attraverso gli anni.
Vuole marciare sui miei piedi, la mia vecchia volontà; è dura di cuore e invulnerabile.
Io sono invulnerabile solo nel mio tallone. Tu vivi sempre lì e sei sempre simile a te stessa,
o pazientissima! Sempre ancora tu ti fai largo fra tomba e tomba!
In te vive ancora il non redento della mia gioventù; e come vita e gioventù tu siedi
sperando qui fra le ingiallite rovine funebri.
Sì, tu sei ancora per me colei che distrugge ogni tomba: salve, mia volontà! E solo dove
sono le tombe, vi sono resurrezioni."
Così cantò Zarathustra.
DEL SUPERAMENTO Dl SE STESSI
"Volontà del vero voi chiamate, voi molto saggi, ciò che vi incita e vi fa credenti?
Volontà di concepire ogni cosa esistente: così io chiamo la vostra volontà!
Ogni cosa che esiste voi volete rendere concepibile: siccome voi dubitate, con giusta
diffidenza, che sia perfino pensabile.
Essa deve subordinarsi e piegarsi a voi! Così vuole la vostra volontà. Dovrà divenire
strisciante e sottomessa allo spirito, come uno specchio e la sua immagine riflessa.
Questa è tutta la vostra volontà, o molto saggi, quasi una volontà di potenza; anche
quando parlate del bene e del male e delle stime dei valori.
Voi volete creare il mondo, per potervi inginocchiare davanti a lui: questa è la vostra
ultima speranza e l'ebbrezza.
Certamente gli ignoranti, il popolo, sono come il fiume sul quale galleggia una barca: e
nella barca siedono, solenni e travestite, le tavole dei valori.
Voi avete posto le vostre volontà e i vostri valori sul fiume del divenire; una vecchia
volontà di potenza mi svela ciò che è ritenuto bene o male dal popolo.
Foste voi, o molto saggi, che poneste tali spiriti in questa barca e deste loro fasto e
altosonanti nomi; voi e la vostra volontà di dominio!
Ora il fiume porta avanti la vostra barca: deve trasportarla. Poco importa se sul frangente
l'onda spumeggia e furiosa aggredisce la chiglia!
Non sta nel fiume il vostro pericolo e la fine del vostro bene e male, o molto saggi: ma
nella stessa vostra volontà, nella volontà di potenza; l'inesauribile e generatrice volontà di
vita.
Ma perché voi comprendiate la mia parola intorno al bene e al male, io vi voglio dire anche
la mia parola intorno alla vita e alla varietà dei viventi.
Ho seguito ciò che vive, ho seguito il cammino più grande e ,quello più piccolo, per
conoscere le sue varietà.
Con uno specchio centuplo, io captavo il suo sguardo, se la sua bocca era chiusa: perché
mi parlasse il suo occhio. E il suo occhio mi parlò.
Ma dovunque io trovai viventi, là io udii anche parlare dell'obbedienza. Ogni vivente è un
obbediente.
Questa è poi la seconda cosa: si comanda a colui che non può obbedire a se stesso. Così è
la maniera dei viventi.
Ma questa è la terza cosa che io udii: il comandare è più arduo dell'obbedire. E non solo
questo; ma chi comanda porta il peso di quelli che obbediscono, e facilmente questo peso
lo può schiacciare.
Ogni comando mi sembrò un'esperienza e un'impresa arrischiate; sempre il vivente,
quando comanda, mette in pericolo se stesso.
Sì, anche quando comanda a se stesso: anche all’ombra egli deve pagar caro il suo
comando. Deve divenire giudice e vendicatore e vittima della sua legge.
Come ciò può avvenire? chiesi a me stesso. Che cosa induce il vivente ad obbedire e
comandare e ad esercitare anche comandando l'obbedienza?
Ascoltate ora la mia parola, o molto saggi! Controllate seriamente se io mi sono insinuato
sino nel cuore della vita, e fino alle radici del suo cuore!
Dove ho trovato viventi, là io ho trovato volontà di potenza; e anche nella volontà del
servo ho trovato la volontà di essere padrone.
Che il più debole serva il più forte, a questo lo induce la sua volontà, la quale vuole esseré
padrona di altri più deboli: essa non può fare a meno di questa gioia.
E come il minore si dà al maggiore, per avere dal più piccolo gioia e potere: così anche il
più grande si dà, e per amore di potere mette in pericolo la sua vite.
Questa è l'abnegazione del più grande, che è rischio e pericolo, e un gioco ai dadi verso la
morte.
E dove sono il sacrificio e la servitù e gli sguardi d'amore: anche là v'è volontà di essere
padrone. Per vie nascoste il più debole penetra furtivamente nel castello e fino al cuore del
più potente; e vi ruba potenza.
La stessa vita mi h confidato questo segreto: 'Vedi,' mi ha detto 'io sono ciò che deve
sempre superare se stesso.
Certo, voi la chiamate volontà di procreazione o impulso verso il fine, verso l'elevazione,
verso la lontananza, verso il molteplice: ma tutto questo è una sola cosa e un segreto.
Io più volentieri perirei, anziché rinunciare a questo Uno; e in realtà; dove è tramonto e
caduta di foglie, vedi, là la vita si sacrifica alla potenza!
Che io debba essere lotta e divenire e fine e negazione del fine: ahimè, chi indovina la mia
volontà, indovina anche quali vie traverse essa deve percorrere! Di ciò che io creo, e per
quanto io lo ami, subito devo essere nemico suo e del mio amore: così vuole la mia
volontà.
E anche tu, conoscitore, non sei che un sentiero e un'ombra della mia volontà: in realtà, la
mia volontà di potenza cammina anche sui pendii della tua volontà di verità!
Non colse certamente la verità colui che gettò dietro di lei la parola: volontà di esistenza;
ma tale volontà non esiste! [Allusione a Schopenhauer, che predicò la rinuncia alla volontà
di esistenza, egoistica e particolare, anche nel principio di contraddizione]
Siccome ciò che non è, non può volere; ma ciò che è in esistenza come potrebbe volere
ancora l'esistenza?
Solo dove è vita, v'è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì - così io ti insegno volontà di potenza!
Molte cose da colui che vive sono stimate più in alto della vita stessa; ma da questo stesso
stimarle si esprime la volontà di potenza!'
Così mi insegnò un giorno la vita: e con questo, o molto saggi, io vi sciolgo l'enigma del
vostro cuore.
In realtà io vi dico: bene e male che siano eterni, non esistono! Da se stessi devono
sempre superarsi. Con i vostri valori e le vostre parole di bene e di male voi esercitate
l'autorità, o stimatori di valori; e questo è il vostro amore segreto e lo splendore, il fremito,
il traboccare della vostra anima.
Una più grande autorità e una nuova vittoria si ergono dai vostri valori: contro queste si
rompe l'uovo, e il guscio dell'uovo.
E chi vuoi essere un creatore nel bene e nel male, deve in verità essere un distruttore e
spezzare i valori.
Così il supremo male è parte del supremo bene: e questo è creare.
Parliamone dunque, o molto saggi, anche se è doloroso. È più doloroso tacere; ogni verità
taciuta diviene velenosa.
E si infranga tutto ciò che la nostra verità può infrangere! Vi sono ancora molte case da
costruire!"
Così parlò Zarathustra.
DEI SUBLIMI
"Tranquillo è il fondo del mio mare: chi mai penserebbe che esso cela strani mostri?
Imperturbabile è il mio profondo: ma riluce di galleggianti enigmi e sorrisi.
Io oggi ho veduto un sublime, un solenne, un penitente dello spirito: come ha riso la mia
anima sulla sua bruttezza!
Con il petto gonfio come chi aspira aria: così il sublime stava là e taceva:
guarnito di orribili verità, ch'erano sue prede, e ricco di vestiti stracciati; anche molte spine
gli erano attaccate, ma non vi vidi nessuna rosa.
Egli non ha ancora imparato né riso né bellezza.
È un cacciatore ritornato tenebroso dalla foresta della sapienza.
Ritornato dalla lotta contro le bestie selvagge: ma dalla sua serietà traspare ancora una
bestia selvaggia e invitta...!
Egli sta sempre là come una tigre, in attesa di dare un balzo; non mi piacciono queste
anime tese, il mio gusto è ostile a tutti questi introversi.
Voi dite, amici, che non si discute sui gusti e sui sapori? Ma tutta la vita è un diverbio sui
gusti e sui sapori!
Il gusto: esso è contemporaneamente peso e bilancia e pesatore; e guai a tutti i viventi
che vogliono vivere senza diverbi e peso e bilancia e pesatore!
Se divenisse stanco egli stesso della sua sublimità, questo sublime: allora soltanto
comincerebbe a risplendere la sua bellezza; allora soltanto io voglio gustano e trovano
saporito.
Solo quando egli si allontanerà da se stesso, potrà saltare oltre la sua propria ombra, e in
realtà dentro il suo sole!
Troppo a lungo è resta¤o in ombra, le guance sono divenute pallide al penitente dello
spirito; in attesa è quasi morto di fame.
Disprezzo è nel suo occhio; e disgusto si cela nella sua bocca.
È vero che ora riposa, ma il suo riposo non è ancora disteso al sole.
Dovrebbe fare come il toro; la.sua. gioia dovrebbe odorare di terra; e non del disprezzo
della terra.
Io desidererei vederlo simile al toro bianco, come lui precedere il vomere dell'aratro
sbuffando e mugghiando; e il suo mugghio dovrebbe magnificare tutto ciò che è terrestre!
Il suo volto è ancora oscuro; l'ombra della sua mano cade su di lui. Addormentato è anche
il senso del suo occhio.
La sua stessa opera è ancora un'ombra su di lui: la mano oscura colui che agisce. Egli non
ha ancora superato la sua opera.
Io amo il collo taurino: ma ora io voglio vedere anche l'occhio dell'angelo.
Egli deve disimparare anche la sua volontà eroica: deve essere per me un sollevato e non
solo un sublime; lo stesso etere dovrebbe sollevarlo, lui che è sciolto dalla volontà!
Ha vinto mostri, ha sciolto enigmi: ma dovrebbe liberare anche I suoi mostri e i suoi
enigmi, e trasformarli in celestiali bambini.
La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e ad essere senza gelosia; la sua
prorompente passione non si è ancora calmata nella bellezza!
In realtà, il suo desiderio non deve tacere e scomparire nella sazietà, ma nella bellezza! La
gentilezza appartiene alla generosità del magnanimi.
Il braccio ripiegato sotto la testa: così dovrebbe riposare l'eroe, e dovrebbe così superare
anche il suo riposo.
Ma proprio per l'eroe il bello è la più difficile di tutte le cose. La bellezza è irraggiungibile
ad ogni volontà violenta.
Un po' più un po' meno: il diritto è molto, è il più.
Stare con i muscoli rilassati e con la volontà distaccata: questa è la cosa più ardua per voi,
o sublimi!
Quando la potenza diviene benevola e scende nel sensibile: io chiamo bellezza questa
discesa.
E da nessuno io voglio la bellezza così come da te, o potente: la tua bontà sia la tua
estrema vittoria su te stesso.
Io ti reputo capace di ogni male: perciò, voglio da te il bene.
In realtà, io ho spesso riso dei deboli che si credono buoni, perché hanno le zampe
paralizzate!
Tu devi cercar di uguagliare la virtù della colonna: quanto più essa si innalza, tanto più si
fa agile e bella, ma interiormente più dura e portante.
Sì, o sublime, un giorno tu dovrai essere anche bello e mettere, davanti alla tua propria
bellezza, lo specchio.
Allora la tua anima sarà scossa da un divino desiderio; e nella tüa vanità vi sarà
adorazione!
Questo infatti è il segreto dell'anima: solo quando l'eroe l'ha abbandonata, le si avvicina, in
sogno, il Supereroe."
Così parlò Zarathustra.
DEL PAESE DELLA CULTURA
"Troppo mi sono addentrato nell'avvenire: il terrore mi ha sopraffatto.
E quando mi sono guardato intorno, ahimè! non avevo altro compagno che il tempo.
Allora sono corso indietro, verso casa, e sempre più rapido: così sono giunto da voi, o
uomini attuali, nel paese della cultura.
Per la prima volta ho portato un occhio con me per voi, e buoni desideri: sono proprio
venuto con la nostalgia nel cuore.
Ma come è potuto accadere? Per quanto fossi angosciato, ho dovuto ridere! Non ho mai
visto una cosa più stranamente variopinta!
Ho riso e riso, mentre mi tremavano ancora le gambe e il cuore: 'Ma guarda,' mi sono
detto 'qui è proprio la patria di tutti i barattoli di colore!'
Con mia sorpresa, o uomini attuali, voi sedevate lì con il volto imbrattato di cinquanta
chiazze di colore!.
E con cinquanta specchi intorno a voi, che sembravano complimentare ed echeggiare i
vostri giochi cromatici!
Proprio non potevate scegliervi maschera migliore, voi uomini attuali, del vostro proprio
viso! Chi avrebbe mai potuto riconoscervi?
Tutti scribacchiati di simboli del passato, e anche questi simboli ridipinti sopra con nuovi
segni: così, fra tutti i decifratori di enigmi chi vi capisce è bravo!
E anche chi fosse esercitato nell'arte degli aruspici, come potrebbe pensare che voi
abbiate ancora delle reni? Tanto sembrate fatti Solamente di colori e di foglietti appiccicati.
Tutti I tempi e tutti i popoli traspaiono variopinti dai vostri scialli; tutti I costumi e tutte le
fedi parlano variopinte dai vostri gesti.
Chi di voi osasse spogliarsi degli scialli e di tutto quanto vi siete messi addosso di colori e
di gesti, finirebbe per mostrare tanta carne quanto basta per fare gli spauracchi per gli
uccelli.
E proprio io sono l'uccello spaventato che vi ha visto nudi e senza colore; e sono fuggito
via quando lo scheletro mi strizzava l'occhio con amore.
Piuttosto essere un manovale negli inferi e nel mondo delle ombre del tempo che fu! Gli
abitatori degli inferi sono sempre più ben pasciuti di voi! Proprio questo amareggia le mie
viscere, che non riesco a tollerarvi né nudi né vestiti, voi uomini attuali!
Tutto quanto nell'avvenire spaventa e mette il terrore agli uccelli smarriti è in realtà più
sopportabile e gradevole della vostra 'realtà'.
Perché voi dite così: 'Vogliamo solo ciò che è vero, senza né fede né superstizione': e così
vi pavoneggiate col petto in fuori, anche senza avere un petto!
Già: ma come potete credere, sotto le vostre chiazze di colore? Voi che non siete se non
dei dipinti di tutto ciò che un tempo fu creduto!
Siete delle contraddizioni ambulanti della fede, mattatori di tutti i pensieri. Sapete come vi
chiamo, voi realisti? Infidi.
Tutti i tempi se la prendono l'uno con l'altro nelle chiacchiere dei vostri spiriti: ma i sogni e
le ciance di tutti i tempi sono stati almeno più reali di tutti i vostri lumi!
Siete sterili: perciò vi manca la fede. Mentre chi crea ha sempre avuto i suoi sogni
chiaroveggenti e i suoi simboli stellari, e ha sempre creduto in una fede!
Siete delle porte semiaperte, sulle quali stanno in attesa dei becchini. Questa è la vostra
verità: 'Ogni cosa merita di perire'. Ah, che figura fate, voi sterili ai miei occhi, e che razza
di costole avete! E taluno di voi, e questo è il bello, ne era anche consapevole.
Così che diceva: 'Ma è stato forse un dio quello che mi ha sottratto furtivamente qualcosa
mentre dormivo? Proprio quanto basta per fabbricare una femminuccia!
E veramente strana la povertà delle mie costole!' Così parla taluno di questi uomini attuali.
Ma proprio, mi fate ridere voi uomini attuali Ed è strano a vedersi come vi meravigliate da
voi stessi di voi stessi!
Guai se non riuscissi a ridere della vostra sorpresa, e dovessi bere tutto quanto sgorga
disgustoso dai vostri boccali!
Ma io non me la voglio prendere, perché ho ben altro di grave da tollerare; e che mi
importa se si posano insetti e tafani sul mio mucchio d'ossa?
Non è per questo davvero che mi diventerà più pesante! Né da voi, uomini attuali, mi
verrà la grande fiacca.
Ahi, dove debbo ancora salire con la mia nostalgia? Da tutte le montagne io mi guardo
intorno in cerca di patrie.
Ma non ho mai trovato in nessun luogo la madre patria; e così sbno inquieto in ogni città,
ove fuggo sempre verso tutte le porte.
Estranei mi sono, un ludibrio, gli uomini attuali, verso cui il cuore, or è poco, mi sospinse;
e così sono un fuggiasco da tutte le patrie paterne e materne.
Amo ancora solo la terra dei miei figli, la patria ignota, situata nel più lontano oceano:
verso di essa io volgo le mie vele, perché la cerchino instancabilmente.
Sui miei figli voglio riparare la colpa di essere figlio dei miei padri: e su ogni avvenire,
questo presente!"
Così parlò Zarathustra.
DELLA IMMACOLATA CONOSCENZA
"Quando ieri la luna sorse, sognai che generasse un sole: tanto larga e appariscente stava
all'orizzonte.
Ma era una bugiarda, secondo me, con la sua apparente gravidanza; e prima sono
disposto a credere all'uomo sulla luna che alla donna.
Certo che è poco mascolina quella timida regina della notte. Cammina con cattiva
coscienza errando sopra i tetti.
Perché il monaco sulla luna è lascivo e invidioso; libidinoso della terra e di tutte le gioie
degli amanti.
No, proprio non mi piace quel gatto sui tetti! Odiosi mi sono tutti coloro che strisciano
intorno alle finestre socchiuse!
Pia e silenziosa se ne va, trascorrendo lenta su tappeti di stelle: ma to non posso tollerare
tutti coloro che camminano senza far udire i loro passi.
Il passo di ogni uomo dabbene parla; ma il gatto sgattaiola a volo sul terreno. Ecco, la
luna scorre disonesta come un gatto.
Questa immagine la regalo a voi, ipocriti risentiti, a voi 'puri conoscitori'! Per me siete dei
lascivi!
Anche voi amate la terra e tutto ciò che è terreno: lasciatevelo dire! Ma nel vostro amore
c'è una punta di vergogna e di cattiva coscienza. Siete simili alla luna!
Il vostro spirito è stato indotto a cisprezzare le cose terrestri, ma non i vostri intestini: e
questi sono ciò che più conta in voi! E ora vi vergognate del vostro spirito, che obbedisce
ai vostri intestini, e lo nasconde prendendo vie subdole e bugiarde.
Il vostro spirito di menzogna parla per esempio in questo modo: 'La cosa più alta per me
sarebbe il volgere sulla vita uno sguardo puro senza brame, e non, come fa il cane, con la
lingua penzoloni: essere contento nella contemplazione pura, con volontà sempre, senza
ombra di bramoso egoismo, freddo e cinereo in tutto il corpo, ma con ebbri occhi lunari!
Questo io vorrei' e così l'ingannato inganna se stesso: 'amare la terra come l'ama la luna,
e palparne la bellezza solo con l'occhio.
Questa è per me l'immacolata conoscenza di tutte le cose: il non attaccar desiderio alcuno
alle cose: stare dinanzi ad esse come uno specchio con cento occhi'.
Oh, nevrotici, ipocriti e libidinosi! A voi manca l'innocenza nel desiderio: e perciò dite male
del desiderare!
Non sapete amare la terra come creatori, generatori, amanti del divenire!
Dov'è l'innocenza? Là dove c'è la volontà di generare. E chi vuol creare al di là di se
stesso, per me è colui che possiede la volontà più pura.
Dov'è la bellezza? Là dove io debbo volere con tutta la forza della volontà; là dove io
voglio amare e consumarmi, affinché un'immagine non resti solo immagine.
Amare e morire: sono due cose simili dall'eternità. La volontà d'amore è anche volontà di
morte. Questo io vi dico, o pavidi!
Ma il vostro guardare impotente in tralice voi lo chiamate 'spirito di contemplazione'! E ciò
che si guarda con occhi paurosi deve esser detto 'bello'! Oh voi, insudiciatori di nobili
nomi!
Ma questa è la vostra maledizione, o immacolati, o puri conoscitori', che non produrrete
mai nulla: anche se vi distenderete larghi quanti siete sull'orizzonte!
Vi riempite la bocca di nobili parole: e noi dovremmo credere che voi parlaste dalla
pienezza del cuore, iopocriti!
Le mie parole sono invece misere, spregevoli, spezzate parole: volentieri io raccolgo le
briciole che cadono dalla vostra mensa.
Con esse io riesco sempre a dire la verità agli ipocriti! Le mie lisce conchiglie e foglie di
pungitopo solleticano il naso agli ipocriti!
Intorno a voi e alle vostre mense c'è sempre aria cattiva: i vostri pensieri lascivi, le vostre
bugie e i vostri sotterfugi si respirano nell'aria!
Abbiate una buona volta l’ardimento di credere in voi stessi, in voi e nelle vostre viscere!
Chi non ha fede in se stesso dice sempre menzogna.
Voi appendete la larva di un dio intorno a voi stessi, voi 'puri', perché il vostro verme
solitario si è andato a chiudere nella larva di un dio.
Proprio vi sbagliate, o 'contemplatori'! Anche Zarathustra fu un tempo lo zimbello dei vostri
otri divini; senza accorgersi dell’intrico di serpenti di cui erano pieni.
Un tempo credetti di scorgere un divino spirito nei vostri giochi, o puri conoscitori! Non
sapevo un'arte migliore delle vostre arti! La lontananza mi impediva di accorgermi della
sozzura delle serpi e del lezzo: e del fatto che l'astuzia di una lucertola vi girovagava
intorno lubrica.
Ma poi vi sono venuto accanto: e allora è giunto il giorno - e verrà anche per voi - che gli
amorazzi della luna avranno fine!
Ma guardate una buona volta come stanno le cose! Non vedete come essa sta pallida e
furtiva innanzi al rossore dell'aurora?
Perché già sopraggiunge l'aurora ardente, viene il suo amore per la terra! Ogni amore
solare è innocenza e brama di creazione!
Guardate come essa sopraggiunge impaziente sul mare! Non sentite la sete e il caldo alito
del suo amore?
Essa vuole succhiare alle mammelle del mare e bere la sua profondità aspirandola in alto:
ed ecco che il desiderio del mare si solleva con mille mammelle.
Vuol essere baciato e succhiato dalla sete del sole; vuol divenire aria e altezza e sentiero
della luce egli stesso!
Veramente, come il sole, io amo la vita e tutti i mari profondi.
E questa è, per me, la conoscenza: tutto ciò che è profondo deve salire, raggiungere la
mia altitudine!"
Così parlò Zarathustra.
DEI DOTTI
"Quando giacevo nel sonno, una pecora si mise a brucare la corona di edera della mia
testa; mordicchiava e diceva: 'Zarathustra non è più un dotto'.
Disse, e se ne andò impettita e gongolante. Me lo raccontò poi un fanciullo.
Volentieri sto qui dove giocano i fanciulli, presso il muro sbrecciato, fra cardi e rossi
papaveri.
Un dotto io sono ancora per i fanciulli e per i cardi e per i papaveri rossi. Essi sono
innocenti anche nella loro cattiveria.
Ma per le pecore non lo sono più: questo vuole il mio fato; che sia benedetto!
Perché questa è la verità: me ne sono venuto via dalla casa dei dotti, e ho sbattuto la
porta dietro di me.
Troppo a lungo la mia anima si è seduta affamata alla loro mensa; non come essi io sono
abituato al conoscere come a schiacciar noci.
La libertà io amo e l'aria sopra la fresca terra; preferisco dormire su pelli di bue piuttosto
che sulle loro dignità e rispettabilità.
Sono troppo caldo e arso dai miei propri pensieri: spesso mi manca il fiato. E allora debbo
per forza correre all'aperto, fuori da tutte le stanze polverose.
Ma essi seggono freddi all'ombra fredda: vogliono in ogni cosa esser solo dei
contemplatori che si guardano bene dal sedersi là dove il sole brucia sui gradini.
Simili a coloro che stanno sulla strada e guardano a bocca aperta la gente che passa,
anch'essi attendono e stanno a guardare i pensieri pensati dagli altri.
Se li si prende con le mani, fanno un polverone intorno a sé come sacchi di farina, senza
volerlo; ma chi penserebbe che la loro polvere provenga dal grano e dall’aurea voluttà dei
campi dell'estate?
Se danno prova di saggezza, i loro piccoli detti e la loro verità mi fanno rabbrividire:
spesso nella loro sapienza vi è un odore come se provenisse da una palude: e veramente
m'è già avvenuto di ascoltarvi il gracidìo della rana!
Abili sono essi, hanno delle buone dita: che posso far io con la mia semplicità di fronte alle
loro complicazioni? Le loro dita comprendono ogni trama e nodo dei tessuti: essi sanno
tessere le calze dello spirito!
Buoni orologi sono essi: basta caricarli bene! Allora mostrano senza sbagliare l'ora e fanno
un lieve ronzio.
Come molti lavorano e macinano: basta solo mettervi dentro i semi! Essi sanno come
ridurli in polvere bianca.
Si guardano bene l'uno dall'altro nelle mani e non si fidano. Furbi nell'inventare piccole
astuzie, aspettano coloro il cui sapere zoppica; lì aspettano come fanno i ragni.
Li ho visti sempre preparare con cautela veleno mettendosi dei guanti di vetro.
Anche con falsi dadi sono in grado giocare; li ho visti giocare con tanta alacrità che
addirittura sudavano.
La realtà è che noi siamo estranei gli uni agli altri, e le loro virtù mi repellono ancora di più
delle loro ipocrisie e dei loro falsi dadi.
E quando io abitavo presso di loro, abitavo in realtà sopra di loro. E di ciò si arrabbiavano.
Non volevano udire nulla che accennasse a qualcosa che stesse al di sopra delle loro teste;
e così ammucchiavano legna e terra e rifiuti tra me e le loro teste.
In tal modo hanno attutito il rumore dei miei passi: e chi peggio mi ha udito sono stati
finora i più dotti. Fra me e loro hanno posto i difetti e le carenze di tutti gli uomini:
'terreno isolante' lo chiamano nelle loro case.
Ma tuttavia io vago coi miei pensieri sopra le loro teste; e anche se volessi andare errando
sopra i miei propri errori, sarei nondimeno superiore a loro e alle loro teste.
Perché gli uomini non sono uguali: così parla la giustizia. E ciò che io voglio essi non
possono volerlo!"
Così parlò Zarathustra.
DEI POETI
"Dacché conosco meglio il corpo," disse Zarathustra a uno dei suoi discepoli "lo spirito è
per me ancora solo per così dire spirito; e tutto l'immutabile [Allusione ai versi finali del
Faust dl Goethe: "AUes Vergängliche ist nur ein Gleichnis" ("Tutto l'effimero non è che
simbolo)] è anch'esso solamente un simbolo."
"Ti ho già sentito dire questo" rispose il discepolo; "allora aggiungesti: 'ma i poeti mentono
troppo'.
Perché dicesti che i poeti mentono troppo?"
"Perché?" disse Zarathustra. "Tu chiedi perché? Io non appartengo a coloro a cui si può
chiedere il perché.
E forse per cosa di ieri? Molto tempo fa io conoscevo le ragioni delle mie opinioni.
Dovrei essere un vaso di memoria, se dovessi tenere in me anche le mie ragioni.
È già troppo per me conservare le mie opinioni; di tanto in tanto un uccello vola via.
Di tanto in tanto però trovo anche nel mio colombaio un nuovo uccello che mi è estraneo,
e che trema se vi metto la mano sopra.
Ma che ti ha detto una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? Ma anche
Zarathustra è un poeta.
Credi dunque che io qui dica la verità? E perché lo credi?"
Il discepolo rispose: "Io credo a Zarathustra". Ma Zarathustra scosse la testa e sorrise.
"La fede non mi fa felice" disse; "almeno la fede in me.
Ma posto che taluno abbia detto in tutta serietà che i poeti mentono troppo: ha ragione;
noi mentiamo troppo.
Sappiamo anche troppo poco e siamo cattivi scolari: perciò dobbiamo, anche solo per
questo, mentire.
E chi di noi poeti non avrebbe adulterato il suo vino? Nelle nostre cantine si sono fatte
mescolanze velenose, e talune cose indescrivibili sono accadute.
E siccome noi sappiamo poco, ci piacciono di cuore i poveri di spirito, particolarmente se si
tratta di giovani fanciulle.
E anche di cose noi siamo bramosi che si narrano a sera le vecchie donne. Le diciamo
l'Eterno Femminino.
E come se ci fosse un particolare accesso segreto al sapere, che vada perduto per coloro
che imparano qualche cosa, così noi crediamo al popolo e alla sua 'saggezza'.
Ma questo credono tutti i poeti: che chi nell'erba o in pendici solitarie riposa e tende le
orecchie apprenda qualcosa delle cose che stanno fra il cielo e la terra.
E quando sopravvengono loro dei teneri moti interiori, i poeti pensano sempre che la
natura stessa sia innamorata di loro: e si insinui nelle loro orecchie per dir qualcosa di
segreto e delle frasi teneramente innamorate: delle quali essi si vantano e gloriano davanti
a tutti i mortali!
Ahi, vi sono cose fra il cielo e la terra, delle quali solo i poeti hanno saputo sognare!
Ed anche al di sopra del cielo: perché tutti gli dèi sono simboli di poesia, suggerimenti
poetici!
Veramente, sempre veniamo spinti in alto [Riferimento agli ultimi due versi del Faust di
Goethe] verso il regno delle nuvole: su di esse deponiamo i nostri variopinti palloni e poi li
chiamiamo dèi e Superuomini:
tanto sono leggeri abbastanza per sedie di codesto genere! tutti questi dèi e Superuomini.
Ah, come sono stanco di tutto ciò che è incompleto e che invece deve divenire un fatto
pienamente concreto. Ah, come sono stanco dei poeti!"
Quando Zarathustra ebbe detto queste cose, il suo discepolo provò rancore contro di lui,
ma stette zitto. E anche Zarathustra tacque, e il suo occhio si volse verso l'interno come se
guardasse estese lontananze. Poi sospirò, traendo un respiro.
"Io sono di oggi e di sempre" disse poi; "ma c'è qualcosa in me, che è di domani e domani
l'altro e di ogni tempo futuro.
Mi sono stancato dei poeti, degli antichi come dei nuovi: tutti sono per me superficiali e
mari bassi.
Non pensano abbastanza in profondità: perciò il loro sentimento non raggiunge mai il
fondo.
Una certa voluttà e una certa noia: ecco che cos'è il loro miglior pensare.
Tutto il loro arpeggiare è per me un soffio e un furtivo guizzar di fantasmi; che cosa hanno
mai saputo essi del vero calore dei suoni?
E poi non sono per me abbastanza mondi: turbano tutte le loro acque per farle sembrare
profonde.
E volentieri si danno arie di conciliatori: ma per me restano mediatori e mischiatori,
persone a mezzo e poco pulite!
Ahimè, ho gettato la mia rete nei loro mari e ho voluto far buona pesca; ma sempre ne ho
tratto a riva la testa di una vecchia divinità.
Così, all'affamato, il mare ha dato una pietra. Essi stessi in fondo potrebbero uscire dal
mare.
Certo in loro si trovano anche perle: ma tanto più essi sono simili a dure ostriche. Invece
dell'anima, ho trovato spesso in loro solo del muco salino.
Hanno imparato dal mare anche la sua vanità: non è forse il mare il pavone dei pavoni?
Anche davanti al più brutto di tutti i bufali rotola il suo ordito, e mai si stanca delle sue
sventagliature trinate seriche ed argentee.
Ma il bufalo lo guarda sdegnoso, prossimo alla sabbia nell'anima sua, e più prossimo
ancora al folto, e più ancora alla palude.
Che sono per lui la bellezza e il mare e gli ornati dei pavoni? Ecco una similitudine che io
insegno ai poeti.
Veramente il loro spirito stesso è come il pavone dei pavoni e un mare di vanità!
Lo spirito del poeta vuole gli spettatori: fossero essi pure dei bufali!
Ma di questo loro spirito sono ormai stanco: e vedo anche prossimo il momento in cui esso
stesso sarà stanco di sé.
Già scorgo i poeti, divenuti altri, volgere lo sguardo su se stessi. Come penitenti dello
spirito, li vedo arrivare e venir fuori di se stessi."
Così parlò Zarathustra.
DEI GRANDI AVVENIMENTI
C'è un'isola in mezzo al mare - non lontano dalle Isole Felici di Zarathustra - sulla quale un
vulcano fuma continuamente; il popolo dice di lei, e particolarmente dicono le donnette
anziane del popolo, che sia posta come un macigno davanti alla porta dell'Averno.
Al tempo in cui Zarathustra abitava nelle Isole Felici, accadde che una nave gettasse
l'ancora davanti all'isola sulla quale si trova la montagna fumante; e la sua ciurma
prendesse terra per cacciare conigli. Senonché, verso l'ora del meriggio, quando il
capitano e i suoi soldati erano di nuovo radunati, ad un tratto videro un uomo che veniva
verso di loro attraverso l'aria, e udirono una voce che diceva chiaramente: "È l'ora! È
giunta l'ora!" Come tuttavia quella figura fu più vicina - ma passò velocemente, come
un'ombra, nella direzione dove sorgeva il vulcano - allora essi riconobbero con gran
sbigottimento che era Zarathustra; siccome tutti loro lo avevano già visto, tranne il
capitano, e lo amavano come il popolo sa amare: unendo in parti uguali amore e
timidezza.
"Guardate!" disse il vecchio timoniere "ecco Zarathustra che va verso l'inferno!"
Durante il tempo in cui i marinai presero terra nell'isola del Fuoco, si sparse la voce che
Zarathustra fosse scomparso; e quando furono interrogati i suoi amici, questi raccontarono
che egli durante la notte era partito con una nave, senza dire la destinaziome.
Così si sparse irrequietezza in giro; senonché, dopo tre giorni, si aggiunse a quest'ansia il
racconto dei marinai; e ormai tutto il popolo diceva che il demonio era venuto a prendersi
Zarathustra. I duoi discepoli risero di queste dicerie; e uno di loro disse addirittura: "Io
crederei piuttosto che Zarathustra sia andato a prendersi il demonio." Ma nel fondo
dell'anima erano pieni di preoccupazione e ansia: così che grande fu la loro felicità quando
il quinto giorno Zarathustra ricomparve tra loro.
E questo è il racconto del colloquio di Zarathustra con il cane dell'inferno:
"La terra" egli disse "ha una pelle; e questa pelle ha delle malattie. Una di queste malattie
si chiama, per esempio: 'uomo'.
E un'altra si chiama 'cane dell'inferno', sul quale gli uomini hanno troppo mentito e
permesso che si mentisse.
Io ho varcato il mare per penetrare questo mistero: e ho veduto la nuda verità, così
com'è! dai piedi fino alla testa.
Come stanno le cose con il cane infernale io ora lo so; la stessa cosa avviene con tutti i
demoni rifiutati e precipitati, dei quali non solo le vecchie donnette hanno paura.
'Sù, esci, cane dell'inferno, dal tuo abisso!' ho gridato 'e confessa quant'esso sia profondo!
Da dove viene tutto ciò che tu sbuffi fuori?
Tu bevi abbondantemente dal mare: lo dimostra la tua salata facondia! In verità, per un
cane dell'abisso tu afferri il tuo nutrimento troppo in superficie!
Io ti stimo, a dir molto, un ventriloquo della terra: e sempre, quando ho sentito parlare i
demoni rifiutati e precipitati, io li ho trovati come te: salati, bugiardi e superficiali.
Voi sapete mugghiare e confondere con la cenere!
Voi siete i migliori fanfaroni del mondo e avete sufficientemente imparato l'arte di far
bulicare la mota.
Dove ci siete voi, ci deve essere sempre vicino del fango e molte cose flaccide, incavate,
ristrette: che anelano alla libertà.
Libertà, gridate tutti tanto volentieri: ma io ho perduto la fede nel grande avvenimento,
quando è accompagnato da tanto mugghio e fumo.
E credimi, amico fracasso infernale! I maggiori avvenimenti non sono le nostre ore più
rumorose, bensì quelle più silenziose.
Il mondo non gira intorno agli scopritori di nuove urla: ma agli scopritori di nuovi valori;
gira in silenzio.
Confessalo, dunque! Si è sempre visto che era accaduto ben poco quando le urla e il fumo
si sono dissolti. Che cosa importa infatti che una città si sia trasformata in una mummia e
un monumento giaccia nel fango!
Dico ancora questa parola ai ribaltatori di monumenti. E proprio la più grande follia gettare
sale in mare e monumenti nel fango.
Nel fango del vostro disprezzo giaceva il monumento: ma è proprio sua legge che dal
vostro disprezzo cresca di nuovo in esso la vita e una vivente bellezza!
Ecco che con divino impeto si alza sù, reso seducente dalla sofferenza; e invero! esso vi
dirà anche grazie perché voi l'avete ribaltato, o distruttori!
Ma io do questo consiglio ai re e alle chiese e a tutto ciò che è invecchiato e scarso di
virtù: lasciatevi dunque capolvolgere! Così tornerete di nuovo in vita e in voi tornerà la
virtù!'
Così ho parlato al cane dell'inferno: allora esso mi ha interrotto e mi ha chiesto ringhiando:
'Chiesa? Che cosa è mai?'
'Chiesa?' risposi. 'E una specie di Stato, e invero il più falso. Ma taci dunque, cane ipocrita!
Tu conosci meglio di tutti la tua specie!
Come te, lo Stato è un cane ipocrita; come te parla volentieri con fumo e con muggiti, per
far credere, come te, che egli parla dal ventre delle cose.
Siccome lo Stato vuole essere assolutamente la bestia più importante della terra; e
avviene anche che gli si creda.'
Quando ebbi pronunciato queste parole, il cane dell'inferno fece dei gesti come folle di
rabbia. 'Come?' gridò 'la più possente bestia della terra? E avviene anche che gli si creda?'
E gli uscì dalle fauci tanto vapore e una voce così mostruosa che io credetti che rimanesse
soffocato dallo sdegno e dalla collera.
Alla fine tacque, e anche il suo ansare cessò; ma appena si tacque, io gli dissi ridendo:
'Tu vai in collera, cane dell'inferno: dunque io ho ragione di te!
E affinché io continui ad averla, presta ascolto ancora a ciò che io dico di un altro cane
dell'inferno: il quale parla realmente dal cuore della terra.
E dal suo respiro scaturisce oro e pioggia d'oro: così vuole il cuore da lui. Che cosa sono
per lui la cenere e il fumo e il belletto bollente?
Il riso scoppia da lui come una nuvola multicolore; egli è pieno di malanimo per i tuoi
gorgoglii e vomiti e coliche di viscere!
Ma l'oro e il riso egli li prende dal cuore della terra: siccome tu devi sapere che il cuore
della terra è d'oro'.
Quando il cane infernale ebbe udito questo, non volle ascoltare più altro. Avvilito, ritrasse
la coda, emise un mogio bau! bau! e si ritirò nel suo covo!"
Così raccontò Zarathustra. Ma i suoi discepoli lo ascoltavano appena: tanto grande era il
desiderio in essi di raccontargli dei marinai, dei conigli e dell'uomo volante.
"Che cosa devo io mai pensare?" disse Zarathustra. "Forse che sono un fantasma?
Sarà stata forse vista la mia ombra. Avrete ben sentito parlare del viandante e della sua
ombra.
Una cosa è sicura: che io devo tenerla più a freno, altrimenti mi farà perdere la
reputazione".
E Zarathustra scosse di nuovo la testa e si meravigliò. "Che cosa devo pensare?" ripeté
ancora.
"Perché il fantasma gridò: ' È l'ora! È giunta l'ora!'
Per che cosa è giunta l'ora?"
Così parlò Zarathustra.
L'INDOVINO
"…e io vidi una grande tristezza sopravvenire sugli uomini. I migliori si stancarono delle
loro opere.
Fu annunciata una dottrina e una fede l'accompagnava: 'Tutto è vuoto, tutto è uguale,
tutto è già stato!'
E da tutte le colline risuonavano le medesime parole: 'Tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto
è già stato!'
È vero che noi abbiamo ottenuto il raccolto: ma perché tutti i frutti ci divennero marci e
bruni? Che cosa accadde nell'ultima notte di cattiva luna?
Tutto il lavoro inutile, veleno il nostro vino, il malocchio ha fatto diventar gialli i nostri
campi e i nostri cuori.
Siamo tutti inariditi; e se il fuoco cade sopra di noi, finiamo in polvere come la cenere: s'è
stancato perfino il fuoco.
Tutte le fontane si sono inaridite, è anche il mare si è ritratto. Ogni abisso sta aprendosi,
ma la voragine non vuole inghiottire!
'Ah, dove è ancora un mare in cui si possa annegare' suona il nostro lamento; e trascorre
le superfici delle paludi.
Invero siamo ormai troppo stanchi per morire; e così continuiamo a vegliare e a vivere nei
sepolcreti!"
Così udì Zarathustra parlare un indovino; e la sua profezia gli scese al cuore e lo
trasformò. Cominciò ad andare in giro triste e stanco; e divenne simile a coloro di cui
aveva parlato l'indovino.
"Veramente," disse ai suoi discepoli "ancora un poco e viene il lungo crepuscolo. Ahimè,
come potrò mettere in salvo la mia luce?
Solo che io non venga meno in mezzo a tutta questa tristezza! In mondi più lontani deve
risplendere la luce, e in più lontane notti!"
Così turbato nel cuore se ne andava in giro Zarathustra; e per tre giorni non prese né cibo
né bevanda, né trovava pace né parola. Infine accadde che egli cadde in un profondo
sonno. I suoi discepoli sedevano intorno a lui in lunghe veglie notturne e attendevano
angosciati che si svegliasse e di nuovo parlasse e fosse risanato dal suo turbamento.
Questo poi è il discorso che pronunciò Zarathustra, quando si svegliò; ma la sua voce
giungeva ai suoi discepoli come da una vasta lontananza:
"Udite il sogno che ho fatto, o amici, e aiutatemi a comprenderne il senso!
Un enigma è per me questo sogno; il suo senso è racchiuso in esso, e non ne esce ancora
fuori spiegando le ali.
Ho sognato di aver rinunciato ad ogni vita. Ero divenuto una guardia notturna di
sepolcreti, là nel solitario castello montano della morte.
Lassù io guardavo le bare: le oscure gallerie a volta erano piene di simboli di vittoria. Era
come se da bare di vetro mi guardasse una vita ormai trascorsa.
Respiravo odore di polverose eternità: afosa e polverosa era la mia anima. E chi mai
avrebbe potuto in quel luogo far vento alla propria anima?
Una chiarezza di mezzanotte era sempre intorno a me, e la solitudine le stava accovacciata
accanto; e, per terza, una rantolante immobilità mortale, la peggiore delle mie amiche.
Tenevo in mano delle chiavi, le più rugginose di tutte le chiavi; e sapevo con esse aprire la
più rumorosa delle porte.
Simile ad un cattivo gracchiare il suono ne echeggiava per le lunghe gallerie, quando
aprivo le ali di una porta: l'uccello urlava di malaugurio, perché non voleva essere
disturbato.
Ma ancora più terribile e terrificante era se taceva, e all'intorno era tutto silenzio, e io
sedevo solo in questo sinistro silenzio.
Così il tempo passava e scorreva, per quanto vi fosse ancora un tempo. Che ne so io? Ma
infine accadde ciò che mi svegliò.
Tre volte batterono dei colpi alla porta, simili a tuoni, e le volte delle gallerie echeggiarono
tre volte ululando: allora io mi recai verso la porta.
'Folletto!' gridai 'chi porta la sua cenere sulla montagna? Alpa! Folletto! chi porta la sua
cenere sulla montagna?'
Spinsi dentro la chiave, e tentavo di aprire e mi sforzavo. Ma non si era ancora aperta
della larghezza di un dito, che un vento impetuoso ne spalancò i battenti; e fischiando e
sibilando mi lanciò addosso una bara nera: e nel turbinare e nel fischiare e sibilare del
vento la bara si scoperchiò sputando fuori mille multiformi risate.
Da mille maschere di bambini, angeli, civette, pazzi e farfalle grandi come bambini era
tutto un ridere e uno schernire e un imprecare contro di me.
Sussultai atterrito: e mi buttai al suolo. E gridavo dal terrore, come mai avevo gridato.
Ma fu il mio proprio urlo quello che mi svegliò: e tornai in me".
Così narrò Zarathustra il suo sogno e poi tacque: siccome non sapeva ancora decifrano.
Ma il discepolo, che egli più amava, si alzò rapidamente, afferrò la mano di Zarathustra e
disse:
"È la tua vita stessa che spiega questo sogno, o Zarathustra!
Non sei tu stesso il vento che spiffera sibilando, e spalanca le porte nei castelli della
morte?
Non sei tu stesso la bara piena di variopinte malvagità e di maschere angeliche della vita?
In verità, simile a migliaia di risa di fanciulli giunge Zarathustra in tutte le camere
mortuarie, ridendo sui guardiani notturni dei sepolcri, e su chi comunque fa schiamazzo
con macabre chiavi.
Tu li spaventerai e li abbatterai con il tuo ghignare; il loro venir meno e il loro risveglio
dimostrerà la tua potenza su di loro.
E anche se giunge il lungo crepuscolo e la stanchezza mortale, tu non verrai a morte sotto
il nostro cielo, tu che sei l'esaltatore della vita!
Nuove stelle ci hai fatto vedere e nuove meraviglie notturne; in verità, persino il riso tu hai
disteso su di noi come una grande tenda variopinta.
Ora sarà sempre un riso di fanciulli a sgorgare dalle bare, ora sempre vittorioso giungerà
un forte vento a spazzare ogni stanchezza mortale; di ciò sei tu stesso il premonitore e il
testimone!
Veramente sei stato tu stesso a sognarli, i tuoi nemici: ed è stato il tuo sogno più grave!
Ma come ti sei infine risvegliato e sei tornato in te, anch'essi dovranno risvegliarsi e
tornare a te!"
Così parlò il discepolo; e tutti gli altri si fecero intorno a Zarathustra e lo presero per mano
e volevano convincerlo ad abbandonare il letto e la tristezza e a tornare a loro. Ma
Zarathustra sedeva ritto sul suo giaciglio, con sguardo estraneo. Simile a colui che ritorna
da una lunga sosta in paese straniero, guardava i suoi discepoli ed esaminava i loro volti;
e ancora non li riconosceva. Quando poi essi lo sollevarono e lo misero in piedi, ecco che il
suo occhio si mutò improvvisamente; comprese tutto ciò che era accaduto, si accarezzò la
barba e disse con forte voce:
"Va bene, lasciamo andare; voi intanto pensate, o miei discepoli, a preparare un buon
pranzo, e in breve tempo! Così voglio far penitenza per i cattivi sogni!
L'indovino tuttavia deve mangiare e bere al mio fianco: e veramente gli voglio ancora
mostrare un mare, in cui potrà affondare!"
Così parlò Zarathustra. Guardò il discepolo, che aveva interpretato il sogno,
contemplandolo a lungo nel volto, e scosse la testa.
DELLA REDENZIONE
Un giorno, mentre Zarathustra passava su un grande ponte, lo circondarono storpi e
mendicanti, e un gobbo così gli parlò:
"Guarda, Zarathustra! Anche il popolo impara da te e acquista fede nella tua dottrina: ma
perché possa crederti del tutto, serve ancora una cosa: tu devi innanzi tutto persuadere
noi storpi! Qui tu ne hai un bell'assortimento e in realtà, un'occasione con più di un ciuffo!
Puoi guarire i ciechi e far camminare gli storpi; e a colui che ha troppa roba dietro di sé,
potresti anche toglierne un po': questo, secondo me, è il giusto modo per far sì che gli
storpi credano in Zarathustra!"
Ma Zarathustra rispose così a colui che aveva parlato: "Se si toglie ad un gobbo la sua
gobba, gli si toglie il suo spirito: così insegna il popolo. E se si dà la vista al cieco, questi
vedrà troppe brutte cose sulla terra: così che maledirà chi lo ha guarito. Ma colui che fa
camminare lo storpio gli fa il più grande danno: siccome quando questi potrà camminare,
trascinerà con sé i suoi vizi: così almeno il popolo insegna circa gli storpi. E perché anche
Zarathustra non potrebbe imparare dal popolo, se il popolo impara da Zarathustra?
Da quando io sono tra gli uomini, questi sono per me i mali minori che io vedo: 'Che a
qualcuno manchi un occhio e a un altro un orecchio e a un terzo una gamba, e altri
abbiano perduto la lingua o il naso o la testa'.
Scorgo e ho scorto cose peggiori, e alcune così orripilanti che io non vorrei parlare di tutte
e di qualcuna non vorrei tuttavia tacere: cioè uomini ai quali manca tutto, salvo che hanno
una cosa di troppo: uomini che non sono altro che un grande occhio o una grande bocca o
una grande pancia o qualcosa comunque di grosso; io li chiamo storpi invertiti.
E quando sono venuto fuori dalla mia solitudine e per la prima volta sono passato su
questo ponte, non ho creduto ai miei occhi; scrutavo e ancora scrutavo, e infine ho detto:
'Quello è un orecchio! Un orecchio grande come un uomo!' Ho guardato ancora meglio; e
in realtà dietro l'orecchio, si muoveva qualcosa che era così piccola e meschina e frale da
far pietà. E parola d'onore, quel mostruoso orecchio stava su un piccolo esile stelo; ma lo
stelo era un uomo! Se uno si fosse messo le lenti sugli occhi, avrebbe potuto riconoscere
perfino un piccolo visetto invidioso; ed anche che un'animula gonfia si dondolava sullo
stelo. Ma il popolo mi disse che quel grande orecchio non solo era un uomo, ma
addirittura un grande uomo, un genio. Non credo mai al popolo, quando parla di grandi
uomini: e così sono rimasto della mia opinione che fosse uno storpio invertito, che aveva
troppo poco di tutto, e troppo di una sola cosa".
Quando Zarathustra ebbe così parlato al gobbo e a coloro di cui era bocca e difesa, si
volse con profondo malumore ai suoi discepoli e disse:
"In realtà, amici miei, io cammino tra gli uomini come tra frammenti e mucchi di membra
umane!
Ai miei occhi questa è la cosa più terribile, che io trovi l'uomo frantumato e sparpagliato
come su un campo di battaglia e in un mattatoio.
E se il mio occhio trascorre rapido dal presente al passato, trova sempre la stessa cosa:
frammenti e mucchi di membra e terribili casi; ma non uomini!
Il presente e il passato della terra - ahimè! amici miei - questa è la cosa più insopportabile
per me; e non saprei vivere, se io non fossi un veggente di ciò che dovrà avvenire.
Un veggente, un volente, un creatore, un avvenire io stesso e un ponte per l'avvenire; e
ahimè, anche, per così dire, uno storpio su questo ponte: tutto questo è Zarathustra.
E anche voi spesso vi siete chiesti: 'Chi è Zarathustra per noi? Come dobbiamo chiamarlo?'
E come me stesso, voi vi deste domande per risposte.
È un promettitore? Un mantenitore? Un conquistatore? O un erede? Un autunno? O un
vomere? Un medico? O un risanato?
È un poeta? O uno che dice la verità? Un liberatore? Un saggiatore? Un buono? O un
malvagio?
Mi muovo tra gli uomini come tra frammenti dell'avvenire: quell'avvenire che io scorgo.
E questo è tutto il mio poetare e tendere: che io riduco poeticamente ad unità e unisco ciò
che è frammento ed enigma e torbido caso.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e risolvitore di
enigmi e redentore del caso!
Redimere i trapassati e trasformare ogni 'fu' in un 'così volli!': questo sarebbe per me
redenzione!
Volontà - così si chiama il liberatore e l'apportatore di felicità: così io vi ho insegnato, o
amici miei! Ma ora imparate questo in più: la volontà stessa è un prigioniero.
Volere libera: ma come si chiama ciò che mette in catene anche il liberatore?'
'Fu': così si chiama l'arrotar dei denti del volere e la più solitaria angoscia. Impotente
contro ciò che è un fatto, cattivo spettatore di tutto il passato.
La volontà non può tornare indietro; il fatto che essa non possa infrangere il tempo e i
desideri del tempo: questa è la più solitaria afflizione della volontà.
Volere libera: ma che cosa inventerà la volontà, per liberarsi dalla sua afflizione e farsi
gioco del suo carcere?
Ahimè, ogni prigioniero diviene un folle! E attraverso la follia si libera anche la volontà
prigioniera.
Che il tempo non torni indietro, questo è il suo cruccio; 'ciò che fu', così si chiama la pietra
che egli non può rovesciare.
E così rovescia le pietre per rabbia e scontentezza e si vendica di ci che non sente, come
lui, cruccio e scontentezza.
Così la volontà, la liberatrice, diviene qualcosa che fa male: e di tutto ciò che può soffrire
prende vendetta col non poterlo far tornare indietro.
Questo, questo è la vendetta in se stessa: l'odio della volontà contro il tempo e il suo 'fu'.
Veramente una grande follia alberga nella vostra volontà, ed è una maledizione per tutta
l'umanità il fatto che questa follia sia divenuta spirito!
Lo spirito della vendetta: questo, amici miei, è stato fino ad oggi il miglior modo di
riflettere; e dove c'era il male, doveva sempre esserci la punizione.
'Punizione' appunto si chiama la vendetta in se stessa: con una falsità essa simula una
buona coscienza.
E siccome in colui che vuole, in lui stesso è il male, per il fatto che egli non può tornare
indietro nel volere; così la volontà stessa e ogni vita diviene una punizione!
Così che nube su nube sono andate ammassandosi sopra lo spirito: finché la follia ha
urlato: 'Tutto passa, tutto è degno di trapassare e perire!'
'E giustizia in se stessa è quella tal legge del tempo, per cui esso deve divorare i suoi figli':
così ha urlato la follia.
'Secondo il costume, le cose sono ordinate sotto l'insegna del diritto e della pena. Oh,
dov'è la liberazione dal flusso delle cose e dalla punizione dell'esistenza?' Così ha urlato la
follia.
'Può darsi mai liberazione, se esiste un diritto eterno? Ahimè, irremovibile è la pietra del
fu: eterne devono essere tutte le pene!' Così ha urlato la follia.
'Nessuna azione può venire annullata: e come potrebbe essa dunque divenirlo in virtù
della pena? Questo, questo è l'elemento eterno della pena della esistenza, che l'esistenza
deve essere anche a sua volta azione e colpa!
'Anche se la volontà infine liberasse se stessa, e il volere diventasse un non volere': ma voi
la conoscete bene, fratelli miei, questa vecchia canzone della follia.
È da queste storie che io vi ho tirato fuori quando vi ho insegnato: 'La volontà è creatrice'.
Ogni 'fu' è un frammento, un enigma, un triste caso, finché la volontà creatrice aggiunge:
'Così ho voluto io!'
Finché la volontà creatrice aggiunge: 'Così ho voluto io! E così continuerò a volere!'
Ma ha essa mai parlato così? E quando accadde questo? Forse che la volontà si è già
sbarazzata della sua follia?
La volontà forse è già stata la sua propria liberatrice e apportatrice di gioia? Ha
dimenticato lo spirito della vendetta e tutto il digrignare dei denti?
E chi le ha insegnato a rappacificarsi col tempo, e con qualcosa di più alto di ogni
conciliazione?
Qualcosa di più alto di ogni conciliazione deve volere una volontà che sia vera volontà di
potenza: ma come piò accadere questo? Chi le avrebbe insegnato anche la possibilità di
ritornare sui suoi passi?"
A questo punto del suo discorso, avvenne che Zarathustra tacque d'un tratto; e sembrava
simile a qualcuno che sia molto spaventato. Con occhio terrorizzato guardò i suoi
discepoli; il suo sguardo trapassava come una freccia i loro pensieri e retropensieri. Ma
dopo una piccola sosta ricominciò a ridere e disse bonariamente:
È difficile vivere con gli uomini, perché è tanto difficile il tacere. Strano, per uno che
ciancia tanto."
Così parlò Zarathustra. Ma il gobbo aveva ascoltato i discorsi e si era coperto il volto;
quando però udì ridere Zarathustra, guardò in sù incuriosito e disse lentamente:
"Ma perché Zarathustra parla a noi in altro modo che ai suoi discepoli?"
Zarathustra rispose: "Che c'è da meravigliarsi? Con i gobbi bisogna parlar gobbo!"
"Bene" disse il gobbo; "e con gli scolari bisogna esprimersi in modo scolastico.
Ma perché Zarathustra parla altrimenti ai suoi scolari che non a se stesso?"
DELLA SAGGEZZA UMANA
"Non l'altezza: ma la china è spaventosa!
La china, dove lo sguardo precipita in basso e la mano si stende in alto. Allora il cuore
viene meno a causa della duplice volontà.
Ahimè, amici, indovinate voi del tutto la duplice volontà del mio cuore?
Questa, questa è la mia china e il mio pericolo, siccome il mio sguardo precipita verso
l'altezza, e la mia mano desidera sostenersi e precipitare nell'abisso!
La mia volontà si aggrappa all'uomo, io mi incateno agli uomini, perché mi sento
trasportare in alto verso il Superuomo: là tende l'altra mia volontà.
E perciò io vivo come un cieco tra gli uomini: come se non li conoscessi: affinché la mia
mano non perda del tutto la sua fede nell'eterno.
Io non vi conosco, uomini: questa oscurità e questo conforto spesso mi avvolgono.
Sto seduto sotto il portico a disposizione di ogni furfante, e domando: chi mi vuole
ingannare?
Questa è la mia prima saggezza umana, che mi lascio ingannare per non essere costretto
a stare in guardia dall'uomo: come potrebbe l'uomo costituire un'ancora per il mio
pallone? Facilmente verrei trascinato in alto, lontano nel cielo!
Questa provvidenza sta sopra il mio fato, che io debba vivere senza prudenze.
E chi tra gli uomini non vuole morire di sete, deve imparare a bere a tutte le coppe; e chi
tra gli uomini vuole rimanere puro, deve adattarsi a lavarsi anche con l'acqua sporca.
Spesso mi son detto per conforto: 'Suvvia, vecchio cuore! Una tua sventura ha avuto esito
infelice: ma tu godine come di una fortuna!'
Ma questa è l'altra mia saggezza umana: io rispetto più i vanitosi degli orgogliosi.
La vanità ferita non è forse la madre di tutte le tragedie? Dove invece l'orgoglio è ferito, là
nasce qualcosa che è migliore dell'orgoglio stesso.
Perché la vita sia degna d'essere contemplata bisogna che venga ben recitata: perciò
servono buoni attori.
Ho trovato che tutti i vanitosi sono dei buoni attori: recitano e vogliono che li si guardi:
tutto il loro spirito è posto in questa volontà. Rappresentano se stessi, inventano se stessi;
io amo, in loro presenza, contemplare la vita; ciò mi guarisce dalla malinconia. Rispetto i
vanitosi perché sono i medici della mia malinconia e mi tengono incatenato all'uomo come
ad uno spettacolo. E poi: chi può giudicare, nel vanitoso, tutta la profondità della sua
modestia? Io sono con lui buono e compassionevole per la sua modestia. Attende di
imparare da voi la fede in se stesso; si nutre dei vostri sguardi, divora la lode dalle vostre
mani. Crede anche alle vostre menzogne, se sapete mentir bene su di lui: perché nel più
profondo del suo cuore sospira: 'Che cosa sono io?' E se la vera virtù è quella che non
conosce se stessa: il vanitoso non conosce la sua modestia! Questa è poi la mia terza
saggezza umana: io non mi lascio guastare, dalla vostra paura, il piacere della vista dei
malvagi. Sono beato nel vedere le meraviglie che cova il sole cocente: tigri e palme e
serpenti a sonagli. Anche tra gli uomini c'è una bella covata di sole cocente, e vi sono
molte cose mirabili tra i malvagi. Invero, come i vostri saggi non mi sembrarono tanto
saggi: così ho trovato che anche la malvagità degli uomini è al di sotto del suo nome. E
spesso ho domandato, scuotendo la testa: perché suonate ancora, o serpenti a sonagli? In
realtà, c'è un futuro anche per il malvagio! E il più cocente Sud non è stato ancora
scoperto per l'uomo. Quante cose vengono chiamate terribili malvagità, che non misurano
più di dodici piedi e non si dilungano che per tre mesi!
Ma un giorno verranno al mondo draghi molto più grandi. Perché, affinché al Superuomo
non manchi il suo drago, il superdrago, che sia degno di lui, molto sole cocente deve
ancora infuocare l'umida foresta vergine! Dai vostri gatti selvatici devono svilupparsi le
tigri, e dai vostri rospi velenosi i coccodrilli, perché il buon cacciatore deve avere una
buona caccia! E in realtà, o buoni, o giusti! In voi molto è degno di riso e soprattutto la
vostra paura di quello che, fino ad oggi, è stato detto 'diavolo'! Così estranei siete voi e le
vostre anime alle cose grandi, che il Superuomo, nella sua bontà, vi sembrerebbe
spaventoso! E voi saggi e sapienti, voi fuggireste via dal bruciante sole della sapienza, in
cui il Superuomo immergerà, con gioia, la sua nudità! Voi, uomini sublimi, che il mio
occhio ha incontrato! Questo è il mio dubbio circa voi e il mio riso segreto: capisco che voi
chiamereste il mio Superuomo un Diavolo! Ahimè, mi sono stancato dei sublimi e degli
ottimi: dalle loro 'altezze' ho desiderio di andare più in alto, fuori, via, lontano, verso il
Superuomo! Fui preso dall'orrore, quando vidi questi nudi migliori: allora mi spuntarono le
ali per volare via in un lontano avvenire. In un più lontano avvenire, in un Sud più meridio
nale, di quanto possa sognare un artista: laggiù, dove gli dèi si vergognano di ogni veste!
Ma io voglio vedere voi, o vicini e prossimi, travestiti e bene ornati, e vanitosi, e dignitosi
come si addice ai 'buoni e giusti'. E voglio sedere tra di voi travestito, perché possa
illudermi su di voi e su me stesso: questa è la mia ultima saggezza umana."
Così parlò Zarathustra.
L'ORA PIÙ SILENZIOSA
"Che cosa mi accade, amici miei? Mi vedete turbato, sospinto, obbediente-controvoglia,
pronto ad andare; ahimè, a partirmi da voi!
Sì, ancora una volta Zarathustra deve tornare alla sua solitudine: ma questa volta l'orso
torna malvolentieri al suo covo!
Che cosa mi accade? Chi mi impone questo? Ahimè, così vuole la mia adirata signora, colei
che mi ha parlato; vi ho già detto il suo nome?
Mi parlò ieri, a sera, la mia ora più silenziosa: e questo è il nome della mia terribile
signora.
E così avvenne. Debbo dirvi tutto, perché il vostro cuore non s'indurisca contro colui che
parte all'improvviso!
Conoscete il terrore di chi si addormenta?
Fino alle dita dei piedi è terrorizzato, perché sente mancargli il terreno sotto i piedi e
iniziare il sogno.
Vi dico questo per allegoria. Ieri, nell'ora più silenziosa, mi è mancato il terreno: ed è
iniziato il sogno.
L'ago si spostava, l'orologio della mia vita ha preso fiato, non avevo mai udito un tale
silenzio intorno a me: così che il mio cuore si è spaventato.
Poi qualcosa senza voce mi ha parlato: 'Tu lo sai, Zarathustra?'
Ed io ho urlato dal terrore udendo quel mormorio, e il sangue si è ritratto dal mio volto:
ma ho taciuto.
Ed ecco che ancora quel qualcosa senza voce mi ha parlato: 'Tu lo sai, Zarathustra, ma
non lo dici!'
Infine ho risposto, simile a una sfida: 'Sì, io lo so, ma non lo voglio dire!'
Di nuovo quel qualcosa senza voce mi ha parlato: 'Tu non vuoi, Zarathustra? È dunque
vero? Non nasconderti nel tuo sdegno!'
E piangevo e tremavo come un bimbo e ho detto: 'Ahimè, vorrei, sì, ma come posso?
Esonerami da questo compito! E superiore alle mie forze!'
Di nuovo la voce senza voce mi ha parlato: 'Che cosa importa di te, Zarathustra! Di' la tua
parola e infrangiti!'
Ed io ho risposto: 'Ah, è forse la mia parola? Chi sono io? Attendo un più degno; io non
sono degno neppure di infrangermi per lui'.
Allora la voce senza voce mi ha parlato ancora: 'Che te ne importa? Tu non sei ancora
abbastanza umile. L'umiltà ha pelle durissima'.
Ho ribattuto: 'Che cosa mai già non sopportò la pelle della mia umiltà! Io abito ai piedi
della mia altitudine: quanto sono alte le mie vette? Nessuno me lo ha ancora detto. Ma
conosco bene le mie valli'.
Allora di nuovo la voce senza voce ha parlato in me: 'O Zarathustra, chi sa spostare
montagne, sa spostare anche vallate e bassure'.
Ed io ho detto: 'Ancora la mia parola non ha spostato montagne, e ciò che ho detto non
ha raggiunto gli uomini. E vero che io sono andato incontro agli uomini, ma ancora non
sono pervenuto al loro cuore'.
Allora dl nuovo la voce senza voce ha parlato in me: 'Che cosa ne sai tu? La rugiada cade
sull'erba quando la notte è più silenziosa'.
Ed io ho obiettato: 'Mi hanno preso in giro quando ho trovato la mia strada e me ne sono
andato per essa; e le mie gambe, in realtà, tremavano.
Mi dissero: tu hai dimenticato la via, ora dimentichi anche il modo di camminare!'
Allora di nuovo la voce senza voce ha parlato in me: 'Che importa il loro sorriso? Tu sei
uno che ha dimenticato l'obbedienza: ma ora sei tu che devi comandare!
Non sai chi è il più necessario agli uomini? Colui che comanda cose grandi.
Portare a compimento cose grandi è arduo: ma la cosa più ardua è comandare cose
grandi.
E questo è ciò che meno ti si può perdonare: tu hai la potenza, e non vuoi comandare'.
Ed io ho ribattuto: 'A me manca la voce del leone per comandare'.
Allora un sussurro ha parlato ancora ín me: 'Le parole più silenziose sono quelle che
generano la bufera. Pensieri che vengono con piedi dl colomba reggono il mondo.
O Zarathustra, tu devi andar via come un'ombra di ciò che deve venire! Così comanderai e
comandando sarai alla testa degli uomini'.
Ed io ho replicato: 'Mi vergogno'.
Allora di nuovo la voce senza voce ha parlato in me: 'È necessario che tu diventi ancora un
fanciullo e dimentichi la vergogna.
L'orgoglio della gioventù è ancora in te, tardi sei diventato giovane: ma chi vuoi diventare
un fanciullo deve ancora superare la sua giovinezza'.
Ed io ci ho pensato a lungo ed ho cominciato a tremare. Alla fine ho detto ciò che avevo
già detto: 'Non voglio'.
Allora è stato tutto un ridere intorno a me. Ahimè, come quel riso mi strappava le viscere
e spezzava il cuore!
E per l'ultima volta ho sentito parlare in me: 'O Zarathustra, i tuoi frutti sono maturi, ma tu
non sei maturo per i tuoi frutti!
Perciò tu devi tornare in solitudine: perché devi ancora marcire'.
E di nuovo è stato un riso e un fuggi fuggi: poi s'è fatto quiete intorno a me come se il
silenzio si fosse raddoppiato. Ma io giacevo sul terreno, e il sudore grondava dalle mie
membra.
Ed ora avete udito tutto, e perché anche io debbo ritornare alla mia solitudine. Niente vi
ho taciuto, o amici.
Ma anche questo avete udito da me: chi sempre fra tutti gli uomini è il più taciturno, e
vuol esserlo!
O amici miei! Avrei ancora qualcota da dirvi, avrei ancora qualcosa da darvi! Perché non
ve la do? Sono forse avaro?"
Dette queste parole, Zarathustra fu sopraffatto dalla potenza del dolore e dalla prossimità
del congedo dai suoi amici, così che iniziò a piangere ad alta voce; e nessuno sapeva
come consolarlo. Quando fu notte, poi, se ne andò da solo e abbandonò i suoi amici.
TERZA PARTE
“Voi guardate in alto, quando tendete verso l'elevazione. E io guardo giù nel profondo,
perché sono già esaltato.
Chi di voi può insieme ridere ed essere esaltato?
Chi sale sugli alti monti, ride sopra tutte le tragedie e tutte le tristizie seriose.
Zarathustra, Del leggere e dello scrivere (I)
IL VIANDANTE
Era quasi mezzanotte, quando Zarathustra prese la sua strada sù per il dorso dell'isola, per
raggiungere di buon mattino l'altra spiaggia: perché di là voleva salire sulla nave. Infatti là
c'era una buona rada, dove anche le navi straniere gettavano spesso l'ancora; e
prendevano con sé tutti quelli che volevano traversare il mare dalle Isole Felici.
Mentre Zarathustra saliva così per la montagna, ripensava strada facendo al suo molto
girovagare solitario fin dalla sua giovinezza, e a quante montagne e dorsi e cime aveva già
salito.
“Io sono un viandante e uno scalatore” disse al suo cuore; “io non amo l'uniforme; sembra
che io non possa starmene fermo a lungo.
E qualunque cosa mi sopraggiunga come destino ed esperienza da sopportare, io sarò
sempre un viandante e uno scalatore: perché infine non si esperimenta mai se non se
stessi.
È passato il tempo in cui potevano accadermi delle disgrazie e che cosa mai potrebbe ora
accadermi, che già non sia cosa mia?
È un continuo ritorno, e così ritorna alla fine da me il mio proprio Io, e ciò che di lui fu a
lungo in un paese straniero e disperso tra tutte le cose e sorti.
E so anche una cosa: io sto ora davanti alla mia ultima cima e a ciò che mi è stato
riservato per ultimo. Ahimè, io devo scalare la mia strada più ardua! Ahimè, io ho iniziato il
mio più solitario viaggio!
Ma chi è della mia specie non fugge una tale ora: l'ora che gli dice: 'Ora soltanto tu
percorri la via verso la tua grandezza! Cima e abisso sono ora una sola cosa!
Tu percorri la via della tua grandezza: ora è divenuto tuo ultimo rifugio ciò che tu hai fino
ad oggi chiamato tuo ultimo pericolo!
Tu percorri la via della tua grandezza: il fatto che dietro di te non vi sia più strada alcuna,
possa essere il tuo miglior coraggio!
Tu percorri la via della tua grandezza: e nessuno ormai ti seguirà di soppiatto! Il tuo
stesso piede ha cancellato la via dietro di te, e su questa sta scritto: impossibilità.
E se ti mancano ormai tutte le scale, allora tu devi saper salire anche sulla tua stessa
testa: come vorresti altrimenti ascendere?
Sulla tua stessa testa e via oltre il tuo stesso cuore! Ora ciò che in te è più mite deve
divenire durissimo.
Chi si è sempre molto riguardato, si ammala infine della sua stessa cautela. Sia lodato ciò
che rende duri! Io non amo la terra dove scorrono burro e miele!
Bisogna imparare a prescindere da se stessi, per vedere molto: questa durezza è
necessaria a chi vuole scalare le montagne.
Ma chi con lo sguardo insiste nella volontà di conoscere, che cos'altro potrebbe scorgere di
tutte le cose se non la loro scorza?'
Ma tu, Zarathustra, tu hai voluto scrutare l'apparente e la nascosta ragione di tutte le
cose: così tu devi salire oltre te stesso, avanti, in alto, fino a che tu non avrai sotto di te le
tue stelle!
Sì! Guardare me stesso dall'alto, e anche le mie stelle: soltanto questo io chiamo la mia
vetta, ed è ciò che mi è rimasto ancora qual compito e mia ultima vetta!”
Così parlò Zarathustra a se stesso durante la salita, confortando il suo cuore con dure
sentenze: perché era ferito nel cuore come non mai prima di allora. E come giunse sulla
sommità del dorso montuoso, scorse davanti a sé la vastità dell'altro mare: e si fermò e
tacque a lungo. Ma la notte era fredda a quella altitudine e limpida e stellata.
“Io conosco la mia sorte” disse infine con tristezza. “Suvvia! Sono pronto. In questo
momento comincia la mia ultima solitudine.
Ahimè, questo nero triste mare sotto di me! Ahimè, questa gonfia notturna malinconia!
Ahimè, destino e mare! Io devo discendere fino a voi!
Sto innanzi alla più elevata delle mie montagne e al mio più lungo cammino: perciò devo
prima scendere più in fondo di quanto sia mai salito: più giù in fondo nel dolore di quanto
sia mai salito, fino dentro ai suoi flutti più neri! Così vuole il mio destino: Suvvia! Sono
pronto.
Da dove vengono le più alte montagne? così ho chiesto un giorno. E ho appreso che
vengono dal mare.
Questa testimonianza è scritta sulle loro rocce e sulle pareti delle loro vette. Dal più,
profondo il sommo deve levarsi alla sua altezza.”
Così parlò Zarathustra sulla cima della montagna, dove faceva freddo: ma quando giunse
in prossimità del mare e infine si trovò solo tra gli scogli, allora avvertì la stanchezza del
cammino e fu preso da ancor maggiore nostalgia.
“Ora tutto è ancora addormentato” disse; “anche il mare dorme. Il suo occhio mi guarda
ebbro di sonno e muto.
Ma emana calore, lo sento. E sento anche che sogna. Si ravvolge su se stesso dormendo
su duri cuscini.
Ascolta! ascolta! Come si lamenta nei suoi cattivi ricordi! O forse in cattive speranze?
Ahimè, sono anch'io triste con te, oscuro mostro, e per causa tua sono io stesso
angosciato.
Ahimè, perché la mia mano non ha forza sufficiente? Volentieri, in realtà, io ti libererei dai
tuoi cattivi sogni!”
E mentre Zarathustra così parlava, rideva di se stesso con malinconia e amarezza. “Come,
Zarathustra!” si disse. “Tu vorresti, cantando, dare conforto anche al mare?
Ahimè, Zarathustra, pazzo bonario, fiducioso, arcibeato! Ma tu sei sempre stato così:
sempre ti sei avvicinato fiduciosamente ad ogni terribile cosa.
Tu hai voluto accarezzare ogni mostro. Un soffio di caldo respiro, un po’ di soffice pelo
intorno, alla zampa: e subito tu sei pronto ad amare e a sedurre.
L'amore è il pericolo del più solitario, l'amore per tutto ciò che solo viva! Realmente è
degna di riso la mia follia e la mia modestia nell'amore!”
Così parlò Zarathustra, e rise ancora una volta: ma allora si ricordò dei suoi amici che
aveva abbandonato; e come se coi suoi pensieri si fosse reso colpevole verso di loro, si
inquietò con se stesso dei suoi pensieri. E subito avvenne che colui che rideva pianse:
Zarathustra pianse amaramente d'ira e di nostalgia.
DELLA VISIONE E DELL'ENIGMA
1
Quando, tra l'equipaggio, si sparse voce che Zarathustra era sulla nave - poiché insieme a
lui era salito a bordo un altro uomo, che veniva dalle Isole Felici -, allora sorse una grande
curiosità e attesa. Ma Zarathustra tacque per due giorni ed era freddo e sordo per la
tristezza, così che non rispondevano agli sguardi né alle domande. Ma la sera del secondo
giorno i suoi orecchi si riaprirono, sebbene ancora non parlasse: poiché si potevano
ascoltare molte cose straordinarie e pericolose su quella nave, che veniva da lontano e
andava ancora più lontano. Ma Zarathustra era amico di tutti quelli che fanno viaggi
lontani e non possono vivere senza pericolo. Ed ecco! mentre stava in ascolto, infine la sua
lingua si sciolse, e il ghiaccio del suo cuore si ruppe: allora cominciò a dire così:
“A voi, audaci cercatori, tentatori, e a chiunque si imbarcò per mari spaventosi con vele
astute,
a voi, ebbri di enigma, amici del crepuscolo, la cui anima è sedotta dai flauti verso
ingannevoli abissi:
- poiché non volete seguire a tastoni un filo con codarda mano; e, dove potete indovinare,
là odiate concludere a voi tutti io narro l'enigma che ho veduto, la visione più solitaria.
Recentemente camminavo triste nel pallido crepuscolo, triste e duro, con le labbra serrate.
Più d'un sole era tramontato per me.
Un sentiero che saliva difficile attraverso le pietre, un sentiero maligno, solitario, non
confortato da erba né da arbusti: un sentiero di montagna scricchiolava sotto la costanza
del mio piede.
E così silenziosamente avanzando sull'ironico turbinio dei ciottoli, calpestando la pietra che
lo faceva scivolare: così il mio piede si sforzava di salire.
Verso l'alto; a dispetto dello spirito che lo tirava verso il basso, lo trascinava verso l'abisso,
lo spirito di pesantezza, il mio demonio e nemico capitale.
Verso l'alto; sebbene egli sedesse su di me, mezzo nano, mezzo talpa; paralitico,
paralizzante; gocciolando piombo nelle mie orecchie e nel mio cervello pensieri come
gocce di piombo.
'O Zarathustra,' bisbigliava con scherno, sillaba per sillaba, 'tu, pietra della saggezza! Tu ti
sei lanciato in alto, ma ogni pietra lanciata deve cadere!
O Zarathustra, tu, pietra della saggezza; tu, pietra da fonda; tu, infrangitore di stelle! Tu ti
sei lanciato da te stesso così in alto; ma ogni pietra lanciata deve cadere!
Sei condannato a te stesso e alla tua propria lapidazione: o Zarathustra, sì, tu hai lanciato
lontano la pietra; ma ricadrà su di te!'
Il nano tacque; e così durò a lungo. Ma il suo silenzio mi opprimeva; e ad essere in due in
questo modo si è, in realtà, più soli che ad essere uno solo!
Io salivo, salivo, sognavo, pensavo; ma tutto mi opprimeva. Ero simile ad un malato
stanco del suo lungo tormento, che un sogno ancora più brutto ridesta dal sonno.
Ma c'è qualcosa in me che io chiamo coraggio: che fino ad ora ha sempre vinto ogni mio
scoraggiamento. Questo coraggio infine mi ha imposto di fermarmi e di dire: 'Nano! O tu o
io!'
Il coraggio è il miglior assassino, il coraggio che attacca; poiché in ogni assalto c'è
qualcosa che suona.
Ma l'uomo è l'animale più coraggioso: perciò egli ha vinto ogni animale. A suon di musica
ha vinto anche ogni dolore; e il dolore umano è il più profondo dei dolori.
Il coraggio uccide anche la vertigine degli abissi: e dove l'uomo non si trova davanti agli
abissi? Il vedere stesso non è scorgere abissi?
Il coraggio è il migliore assassino; il coraggio uccide anche la compassione. Ma la
compassione è l'abisso più profondo: quanto più profondamente l'uomo penetra la vita,
tanto più profondamente penetra anche il dolore.
Ma il coraggio è il miglior assassino, coraggio che attacca: egli uccide anche la morte,
perché dice: 'Questa era la vita? Suvvia! Ancora una volta!'
In questo detto vi è molta musica. Chi ha orecchi da intendere, intenda.”
2
“Fermo, nano!' dissi. 'O tu o io! Ma io sono il più forte di noi due: tu non conosci il mio
pensiero abissale! Questo tu non lo potresti sopportare!'
Allora accadde che io mi sentii più leggero: perché il nano scese già dalle mie spalle, il
curioso! E si rannicchiò su una pietra' davanti a me. Ma c'era un portone proprio là dove
noi ci fermammo.
'Guarda questo portone, nano!' proseguii. 'Ha due facce. Qui si incontrano due strade:
nessuno le ha percorse mai fino alla fine.
Questo lungo sentiero indietro dura un'eternità. E quel lungo sentiero in avanti è un'altra
eternità.
Si contraddicono, queste strade; battono la testa l'una contro l'altra: ed è appunto qui, a
questo portone che si incontrano. Il nome del portone sta scritto in alto: Attimo.
Ma chi andasse avanti per una di queste strade e sempre avanti e sempre più lontano -,
credi tu, o nano, che queste strade si contraddirebbero eternamente?'
'Tutto ciò che è diritto mente' mormorò sprezzante il nano. 'Ogni verità è curva; il tempo
stesso è un cerchio.'
'Tu, spirito di gravità!' dissi adirato. 'Non prendere la cosa troppo alla leggera! O altrimenti
ti lascio rannicchiato lì dove sei, a gamba zoppa, io che ti ho portato in alto!'
'Vedi' continuai 'questo attimo! Da questo portone-attimo corre un lungo, eterno sentiero
all'indietro: dietro di noi sta un'eternità.
Non deve forse tutto ciò che può correre esser già passato una volta per questo sentiero?
Non deve forse tutto ciò che può accadere, essere già accaduto una volta, compiuto,
trascorso?
E se tutto è già stato: che cosa pensi tu, nano, di questo attimo? Non deve anche questo
portone già essere stato?
E non sono tutte le cose concatenate in tal modo che questo attimo trascina con sé tutte
le cose venture? Quindi, anche se stesso?
Poiché tutto ciò che può camminare, anche per questo lungo sentiero che va avanti, deve
una volta passare!
E questo lento ragno che striscia nel chiarore della luna, e quello stesso chiarore, e io e tu
sotto il portone, bisbigliando insieme, bisbigliando di cose eterne, non dobbiamo già
essere stati una volta? e ritornare e passare per l'altro sentiero, davanti a noi, per questo
lungo orribile sentiero, non dobbiamo ritornare eternamente?'
Così io dicevo e sempre più piano: poiché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei
pensieri nascosti. Allora, improvvisamente, udii un cane ululare vicino.
Avevo mai udito un cane ululare così? Il mio pensiero tornò indietro. Sì! quand'ero
bambino, nella più lontana fanciullezza: allora avevo udito un cane ululare così. E Io avevo
anche visto, col pelo irto, la testa protesa in alto, tremante, nella più silenziosa
mezzanotte, quando anche i cani credono ai fantasmi: così che mi fece pietà. Proprio
allora la luna piena passava, in un silenzio mortale, sopra la casa; proprio allora stava là
quieta, come una brace rotonda, quieta sul tetto piatto, come su proprietà altrui:
di ciò il cane aveva avuto allora paura: perché i cani credono ai ladri e ai fantasmi. E
quando l'udii ancora ululare così, mi fece ancora una volta pietà.
Dov'era ora il nano? E il portone? E il ragno? E ogni bisbiglio? Forse che io stavo
sognando? Mi destavo? Ad un tratto mi ritrovai tra i selvaggi scogli, solo, desolato, nel più
desolato chiarore lunare.
E là giaceva un uomo! Ed ecco! Il cane, balzando con il pelo irto, con guaiti, mi scorse
venire; e allora ululò di nuovo, e gridò: avevo mai udito un cane gridare aiuto così?
E, in realtà, ciò che scorsi, io non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore che si torceva,
soffocava, si contraeva convulsamente, stravolto, ed una lunga serpe nera gli pendeva
dalla bocca.
Ho mai visto tanto ribrezzo e livido orrore su un volto? Forse dormiva? Poi il serpente gli si
introdusse nelle fauci e vi si attaccò forte coi denti.
Tirai forte allora il serpente con la mano: invano! essa non riuscì a strappare il serpente
dalla gola'. Allora gridai: 'Mordi! Mordi!
Staccagli la testa! Mordi!' Così gridava in me il mio orrore, il mio odio, il mio ribrezzo, la
mia pietà, tutto il mio bene e tutto il mio male gridavano in un sol grido in me.
Voi, arditi, intorno a me! Voi cercatori, tentatori, e chi di voi si imbarcò sul mare
inesplorato con vele astute! voi appassionati di enigmi!
Scioglietemi dunque l'enigma, che io allora vidi, spiegatemi dunque la più solitaria visione!
Poiché fu una visione e una previsione: che cosa vidi allora in simbolo? E chi è colui che
deve ancora venire?
Chi è il pastore, nelle cui fauci penetrò il serpente? Chi è l'uomo a cui penetrò nelle fauci
tutto ciò che è più pesante e più nero?
Ma il pastore morse, come gli consigliò il mio grido; morse con saldo morso! Sputò lontano
da sé la testa del serpente: e si alzò d'un balzo.
Non più pastore, non più uomo: un trasfigurato, un illuminato, che rideva! Mai sulla terra
un uomo ha ancora riso come lui!
O fratelli miei, io ho udito un riso che non era un riso d'uomo; e ora mi divora una sete, un
desiderio che mai non si estingue.
Il mio desiderio di quel riso mi divora: oh, come sopporterò di vivere ancora! E come
potrei sopportare di morire ora?”
Così parlò Zarathustra.
DELLA BEATITUDINE CONTRO VOGLIA
Con tali enigmi e amarezze nel cuore, Zarathustra traversava il mare. Ma quando fu
lontano quattro giorni di viaggio dalle Isole Felici e dai suoi amici, si trovò ad aver
superato del tutto la sua pena: e stava di nuovo sul suo destino, vittorioso e con piede
fermo. E allora così disse Zarathustra alla sua coscienza esultante:
“Sono di nuovo solo e voglio essere solo, solo con il cielo pulito e il libero mare; e di nuovo
è intorno a me l'ora pomeridiana.
Nell'ora pomeridiana io ho trovato la prima volta i miei amici, nell'ora pomeridiana anche
l'altra volta: in quell'ora in cui ogni luce diventa più silenziosa.
Poiché ciò che della felicità è ancora in cammino tra cielo e terra, si cerca allora per
dimora un'anima luminosa: per gioia ogni luce diviene allora più silenziosa.
Ora pomeridiana della mia vita! Un giorno anche la mia gioia scese a valle per cercarsi una
dimora: e trovò queste aperte anime ospitali.
Ora pomeridiana della mia vita! Che cosa non ho dato per avere una sola cosa: questa
vivente piantagione del mio pensiero e questa mattutina ora della mia più alta speranza!
Un giorno il creatore cercò i compagni e i figli della sua speranza: ed ecco, accadde che
non potesse trovarli perché prima doveva esso stesso crearli.
Così io sono a metà della mia opera, andando dai miei figli e allontanandomi da loro: e per
amore dei suoi figli, Zarathustra deve portare a compimento se stesso.
Poiché si ama dal profondo solo il proprio figlio e la propria opera; e dove è un grande
amore per se stessi, là v'è un segno di gravidanza: così ho visto che accade.
Ancora verdeggiano i miei figli nella loro prima primavera, stanno vicino l'uno all'altro e
insieme si lasciano scuotere dai venti, albero del mio giardino e del miglior terreno.
E in verità! Dove tali alberi stanno vicino l'uno all'altro, là sono le Isole Felici!
Ma un giorno io voglio sradicarli e piantarli di nuovo uno lontano dall'altro: perché
imparino la solitudine e l'orgoglio e la prudenza.
Nodoso e piegato in flessibile durezza dovrà stare presso il mare, come un faro vivente
dell'indistruttibile vita.
Là dove le tempeste si abbattono sul mare, e il grugno della montagna beve l'acqua, là
ognuno dovrà avere una volta il suo giorno e la sua notte di veglia, per sua prova e
conoscenza.
Dovrà provare e dare a conoscere, quindi, di essere della mia specie e stirpe, di essere in
possesso di una tenace volontà, taciturno, anche quando parla, e così arrendevole da
prendere donando: onde possa divenire un giorno mio compagno, e creatore ed esaltatore
insieme con Zarathustra: tale che scriva il mio volere sulle mie tavole: per un miglior
compimento di tutte le cose.
E per amor suo e dei suoi io dovrò poi portare a compimento me stesso: perciò io ora
fuggo la fortuna e mi offro ad ogni sfortuna: per la mia ultima prova e conoscenza.
E in realtà, era tempo che io andassi; e l'ombra del viandante e il lunghissimo indugiare e
l'ora più silenziosa, tutto mi diceva: 'E tempo!'
Il vento soffiava attraverso il buco della chiave e diceva: 'Vieni!' Astutamente la porta mi si
apriva e diceva: 'Va'!'
Ma io giacevo incatenato dall'amore per i miei figli; il desiderio mi aveva teso questo
laccio, il desiderio d'amore, perché io divenissi preda dei miei figli e mi perdessi in loro.
Desiderare per me significa perdersi. Io vi ho, figli miei! In questo avere deve esservi solo
sicurezza e non desiderio.
Ma il sole del mio amore mi covava, Zarathustra cuoceva nel suo proprio succo, e ogni
ombra e dubbio era volato via.
Già mi veniva la voglia del gelo e dell'inverno:
'Oh, il gelo e l'inverno mi facessero dl nuovo scricchiolare e stridere!' sospiravo; e si
levarono da me gelide nebbie.
Il mio passato spezzò i suoi sepolcri, più d'un dolore sepolto vivo si svegliò: aveva soltanto
dormito, nascosto nel panneggiamento funebre.
E tutto mi dava segni: 'è tempo!' Ma io non udivo: finché infine il mio abisso si agitò e il
mio pensiero mi morse.
Ahimè, pensiero abissale, tu sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di ascoltarti
scavare e non tremare più?
Il cuore mi batte sù fino in gola, quando ti sento scavare! Anche il tuo silenzio vuole
soffocarmi, o tu abissalmente silenzioso!
Non ho ancora mai osato chiamarti quassù: già bastava che ti portassi con me! Non ero
ancora abbastanza forte per la tracotanza e malizia del leone.
Mi era già sufficiente l'orrore del tuo peso: ma un giorno io dovrò trovare la forza e la voce
leonina per chiamarti quassù!
Quando un giorno avrò superato ciò, supererò anche cose maggiori; e una vittoria dovrà
essere il sigillo del mio compimento!
Frattanto avanzo su mari malsicuri; la lusinga del pericolo mi alletta, mi guardo innanzi e
alle spalle, e non vedo confine.
Non è ancora giunta per me l'ora della mia ultima battaglia; o giunge proprio ora? In
realtà, mi guardano tutto intorno con perfida bellezza il mare e la vita!
Ora pomeridiana della mia vita! O felicità che precede la sera! O porto in alto mare! O
pace dell'incerto! Come diffido di tutti voi!
In realtà, diffido della vostra perfida bellezza! Somiglio all'amante che diffida di tutti i
sorrisi troppo vellutati dell'amata.
Come il geloso allontana da sé l'amata, tenero anche nella sua durezza, così io allontano
da me quest'ora beata.
Va via, ora beata! Con te mi è sopraggiunta una beatitudine contro voglia! Ora sto qui
disposto al più profondo dolore: tu sei giunta fuori tempo!
Va via, ora beata! Piuttosto scegli la tua dimora laggiù, tra i miei figli! Affrettati! e
benedicili prima di sera con la mia felicità!
Già si avvicina la sera: il sole cala. Addio, mia felicità!”
Così parlò Zarathustra. Ed attese per tutta la notte la sua infelicità: ma aspettò invano. La
notte rimase chiara e silenziosa, e la felicità stessa si avvicinò sempre più a lui. Ma verso il
mattino Zarathustra rise in cuor suo e disse con ironia: “La felicità mi corre dietro. Questo
accade perché io non corro dietro alle donne. La felicità è infatti una donna”.
PRIMA DEL LEVAR DEL SOLE
“O cielo sopra di me puro! Profondo! Abisso di luce! Guardandoti io mi sento scosso da un
divino desiderio.
Lanciarmi nella tua celeste altitudine, questa è la mia profondità! Rifugiarmi nella tua
purezza, questa è la mia innocenza!
Il dio è avvolto e nascosto dalla sua bellezza: così tu occulti le tue stelle. Non parli: così mi
annunci la tua saggezza.
Muto sul mare impetuoso mi sei oggi apparso, il tuo amore e il tuo pudore sono una
rivelazione per la mia anima impetuosa.
Poiché tu sei venuto a me avvolto nella tua bellezza, così tu mi parli muto, palese nella tua
saggezza: oh, come potrei non indovinare tutto il pudore della tua anima? Prima del sole
tu sei giunto a me, solitario.
Noi siamo amici fin dal principio: abbiamo in comune l'angoscia e il raccapriccio e il
fondamento: anche il sole è a noi comune.
Non parliamo fra di noi, perché sappiamo troppe cose: ci tacciamo reciprocamente, ci
sorridiamo l'un l'altro il nostro sapere.
Non, sei tu la luce del mio fuoco? Non hai tu l'anima gemella per la comprensione?
Insieme abbiamo imparato ogni cosa; insieme abbiamo appreso a salire al di là di noi
stessi, verso noi stessi, e a sorridere 'serenamente:
a sorridere senza nubi da occhi luminosi e da lontananze remotissime, mentre, sotto di
noi, costrizione e fine e colpa evaporano come pioggia.
E quando io vagavo solo: di che aveva fame la mia anima nelle notti e nei sentieri senza
meta? E quando scalavo le montagne, chi cercavo se non te, sulle montagne?
E tutto il mio errare e scalare montagne era soltanto un bisogno e un pretesto maldestro:
perché solo volare vuole la mia volontà, -volare in te!
E chi odiavo io più delle nubi vaganti e tutto ciò che ti offuscava? Odiavo anche il mio
stesso odio, perché ti offuscava!
Non sopporto le nubi vaganti, furtivi gatti ladri: rubano a te e a me ciò che abbiamo in
comune: l'inaudito illimite Sì e Amen.
Noi non sopportiamo intermediari e intriganti, le nubi vaganti: esseri a mezzo che non
sanno benedire né radicalmente maledire.
Più volentieri starei in una botte sotto un cielo chiuso, o più ancora senza cielo in un
abisso, che vedere te, cielo lucente, offuscato dalle nubi vaganti!
Spesso m'è presa voglia di legarle solidamente insieme con i frastagliati fili d'oro del
fulmine, per battere il timpano, come il tuono, sul loro gonfio ventre:
suonare furiosamente i timpani, perché esse mi rubano il tuo Sì e il tuo Amen! O cielo
sopra di me,
O puro! lucido! O abisso lucente! Perché mai ti rubano il mio Sì e il mio Amen!
Io preferisco il rumore, il tuono e le maledizioni del temporale, a questa circospetta
esitante calma felina: tra gli uomini io odio più d'ogni altro chi è umile, una cosa di mezzo,
un'esitante lenta nuvola che passa.
'Chi non può benedire deve, imparare a maledire!' Questo luminoso principio mi è caduto
giù dal cielo chiaro: stella fedele al mio cielo anche nelle notti più buie.
Io sono uno che benedice e dice SI, se tu mi stai intorno, o puro! luminoso abisso di luce!
Io porto in ogni abisso il mio benedicente Sì.
Io sono uno che benedice e dice di Sì: perciò ho lottato a lungo, e fui un lottatore, perché
volevo che un giorno le mani fossero libere per benedire.
E questa è la mia benedizione: essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come il
suo tetto rotondo, la sua cupola azzurra e l'eterna sicurezza: ed è beato colui che così
benedice!
Poiché tutte le cose sono battezzate alla fonte dell'eternità e al di là del bene e del male;
lo stesso bene e male sono soltanto ombre e parvenze e molli afflizioni e nuvole che
passano.
In realtà, è benedizione e non maledizione, se io insegno che 'sopra ogni cosa sta il cielo
del Caso, il cielo della innocenza, il cielo della Indeterminazione, il cielo del coraggio'.
'Per caso': questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito ad ogni cosa,
liberandola dalla schiavitù della finalità.
Io posi questa libertà e questa celeste serenità come una volta azzurra sopra ogni cosa,
quando insegnai che sopra di loro e attraverso loro non vuole nessuna 'volontà eterna'.
Posi questa presunzione e follia in luogo di quella volontà, quando insegnai: 'Nel totale,
una sola cosa è impossibile: la ragionevolezza!'
Tuttavia un po' di ragione, un granello di saggezza, sparso fra stella e stella, è un
fermento mescolato in tutte le cose: è per amore della follia che la saggezza è mescolata a
tutte le cose!
Un po' di saggezza è ben possibile; ma questa beata sicurezza io ho trovato in tutte le
cose: che esse preferiscono danzare coi piedi del Caso.
O cielo sopra di me, o puro! sublime! Questa è ora per me la tua purezza, che non esiste
nessun eterno ragno né tela di ragno della ragione:
che tu sei per me una pista danzante per divini casi, un divino tavolo per il divino gioco dei
dadi e per divini giocatori!
Ma tu arrossisci? Ho forse detto cose da non dirsi? Ho bestemmiato, mentre volevo
benedirti?
O è la vergogna di essere in due che ti fa arrossire? Mi imponi di andare e di tacere,
perché ora sta giungendo il giorno?
Il mondo è profondo: più profondo di quanto non abbia mai pensato il giorno. Non tutto
può essere detto in parole prima del giorno. Ma ecco: ora il giorno giunge: separiamoci
dunque!
O cielo sopra di me, o pudibondo! ardente! O mia felicità prima del levar del sole! Il giorno
viene: separiamoci! “
Così parlò Zarathustra.
DELLA VIRTÙ CHE RIMPICCIOLISCE
1
Quando Zarathustra fu di nuovo sulla terra ferma, non corse subito alla sua montagna e
alla sua grotta, ma fece molte strade e domande e si informò di questo e di quello, così
che diceva a se stesso scherzando: “Ecco un fiume, che per mille curve rifluisce alla sua
sorgente!” Voleva sapere che cosa frattanto fosse accaduto dell'uomo: se fosse divenuto
più grande o più piccolo. E una volta vide una fila di case nuove; allora si meravigliò e
disse:
“Che cosa significano queste case? Proprio non le ha costruite una grande anima, a sua
immagine!
Forse un bambino scemo le ha cavate dalla sua scatola di giocattoli? Oh, se un altro
bambino potesse di nuovo ripone subito nella loro scatola!
E queste stanze e camere: come possono uomini entrarvi ed uscirne? Sembrano fatte per
bambole di seta e per ghiottoni, che si fanno anche succhiare”.
E Zarathustra si fermò e meditò. Infine disse triste: “Tutto è diventato più piccolo!
Io vedo ovunque porte più basse: chi è della mia razza, riesce ancora a passarvi sotto, ma
è costretto a curvarsi!
Oh, quando io andrò di nuovo nella mia patria, dove non mi dovrò più curvare, curvarmi
davanti ai piccoli!” E Zarathustra sospirò e guardò lontano.
Ma in quello stesso giorno pronunciò il discorso sulla virtù che rimpicciolisce.
2
“Io vado fra questo popolo e tengo gli occhi aperti: essi non mi perdonano di non essere
invidioso delle loro virtù.
Tentano di mordermi, perché dico loro: per la piccola gente sono necessarie piccole virtù;
e perché mi riesce a stento capire come la piccola gente possa essere necessaria!
Assomiglio d'altronde ad un gallo posto in un pollaio inconsueto, dove tutte le galline
cercano di beccarlo; tuttavia io non sento rancore per queste galline.
Sono gentile con loro, come con tutte le piccole noie; essere pungente con i piccoli, mi
sembra una saggezza da porcospino.
Parlano tutti di me, quando a sera siedono intorno al fuoco; di me parlano, ma mai
nessuno pensa a me!
Questo è il nuovo silenzio, che ho imparato: il loro rumore intorno a me stende un
mantello sui miei pensieri.
Schiamazzano tra di loro: 'Che cosa vuole da noi questa oscura nuvola? stiamo attenti che
non ci porti un'epidemia!'
Poco fa una donna ha tirato a sé un bimbo che voleva avvicinarsi a me: 'Allontanate i
bambini!' ha gridato. 'Quegli occhi bruciano le anime dei bambini'.
Tossiscono quando parlo: credono che la tosse sia una obiezione contro i forti venti; ma
non indovinano il fremito della mia gioia!
'Non abbiamo tempo per Zarathustra' obiettano; ma che cosa importa un tempo, che per
Zarathustra 'non ha tempo?'
E anche quando mi elogiano: come potrei io addormentarmi sulla loro gloria? La loro lode
è per me un serto di spine: mi graffia anche quando me la tolgo.
E anche questo ho imparato in mezzo a loro: che il lodatore si dà arie come per rendere
qualcosa, ma in realtà vuole ottenere ancora più doni!
Domandate al mio piede, se sopporta il loro modo di lodare e di sedurre! In realtà, nel
ritmo di tale tic-tac, egli non ama né danzare, né stare fermo.
Vorrebbero sedurmi, lodandomi, alla piccola virtù; vorrebbero indurre il mio piede al tic-tac
della piccola felicità.
Ma io passo tra questo popolo e tengo gli occhi aperti: sono ormai più piccoli e
diventeranno sempre più piccoli: a ciò conduce il loro insegnamento della felicità e della
virtù.
Perfino nella virtù essi sono modesti, perché vogliono comodità; Ma con la comodità è
compatibile soltanto una virtù modesta.
Imparano un modo tutto particolare di camminare e di procedere: io lo chiamo uno
zoppicare. E sono d'inciampo ad ognuno che ha fretta.
Qualcuno di loro va avanti guardando dietro di sé, con il collo ritto: mi piacerebbe andare
a sbattere contro il suo petto.
Piedi ed occhi non devono mentire, né contraddirsi l'un l'altro. Ma vi è molta menzogna tra
la piccola gente.
Alcuni di loro vogliono, ma la maggior parte di essi sono voluti. Alcuni di loro sono sinceri,
ma la maggior parte sono solo dei pessimi commedianti.
Vi sono tra loro dei commedianti in mala fede e commedianti contro voglia; i sinceri sono
sempre rari, in particolar modo i commedianti sinceri.
Hanno poca virilità: perciò le loro donne si mascolinizzano. Perché soltanto chi è
abbastanza maschio, può liberare la femmina nella donna.
La peggiore ipocrisia che ho trovato in loro è che anche coloro che comandano, simulano
le virtù di quelli che servono.
'Io servo, tu servi, noi serviamo': così predica la ipocrisia dei dominanti, e guai, quando il
primo dei padroni è soltanto il primo dei servi!
Ahimè, anche nelle loro ipocrisie si smarriva la curiosità dei miei occhi; indovinavo bene la
loro felicità di mosche e il loro ronzìo intorno ai vetri delle finestre illuminati dal sole.
Come io vedo tanta bontà, così vedo tanta debolezza. E per tanta giustizia e compassione,
altrettanta debolezza.
Sono sinceri, giusti e buoni l'un l'altro, come sono sinceri, giusti e buoni i granelli di sabbia
verso i granelli di sabbia.
Chiamano 'rassegnazione' l'abbracciare semplicemente una piccola felicità; e intanto vanno
storcendo l'occhio verso una nuova piccola felicità.
Essi vogliono, in fondo, semplicemente una cosa: che nessuno faccia loro del male. Perciò
prevengono gli altri e fanno loro del bene.
Ma è vigliaccheria: anche se la chiamano 'virtù'.
E quando questa piccola gente parla talvolta rudemente, sento in loro soltanto della
raucedine; infatti ogni corrente d'aria li rende più rochi.
Sono prudenti, le loro virtù hanno dita prudenti. Ma mancano dei pugni, le loro dita non
sanno chiudersi in pugno.
Per loro è virtù ciò che rende modesti e miti: perciò hanno trasformato il lupo in cane e
l'uomo stesso nel migliore degli animali domestici.
'Ci mettiamo a sedere nel mezzo' sembra dirmi il loro sorriso di soddisfazione 'e
ugualmente distanti dai gladiatori morenti come dai porci contenti'.
Ma questa è mediocrità: anche se là chiamano moderazione.”
3
“Vado tra il popolo e vi lascio cadere qualche parola: ma esso non sa né prendere né
conservare.
Si meravigliano perché non sono venuto a calunniare i vizi e i piaceri; e in realtà, io non
sono venuto per mettere in guardia dai borsaioli!
Si meravigliano che io non sia disposto a scaltrire e ad aguzzare la loro prudenza; come se
già non avessero tra loro abbastanza sputasentenze, la cui voce stride come il gessetto
sulla lavagna!
E quando grido: 'Maledetti tutti i demoni vigliacchi che avete in corpo, che amano
piagnucolare e giungere le mani e adorare': allora essi urlano: 'Zarathustra è un ateo'.
E in particolar modo fanno ciò i loro maestri di rassegnazione; ma proprio nei loro orecchi
mi piace gridare: Sì! io sono Zarathustra, l'ateo!
Ah, questi maestri di rassegnazione! Si ficcano dovunque siano dei meschini, dei malati e
dei rognosi, come pidocchi: soltanto il mio schifo mi trattiene dallo schiacciarli.
Ebbene! Questa è la mia predica per i loro orecchi: io sono Zarathustra, l'ateo, che chiede:
'C'è qualcuno più ateo di me, affinché io gioisca del suo insegnamento?'
Io sono Zarathustra, l'ateo: dove troverò i miei simili? Miei simili sono tutti coloro che
impongono a se stessi la loro volontà e rimuovono da sé ogni rassegnazione.
Io sono Zarathustra, l'ateo: e mi cuocio ogni caso nella mia pentola. E solo quando è ben
cotto, lo chiamo il benvenuto, come un mio cibo.
Più di un avvenimento mi è riuscito dispotico: ma ancora più dispotica gli ha risposto la
mia volontà; e lui, eccolo subito a pregare in ginocchio: a pregare, per trovare in me una
dimora e un cuore, aggiungendo allettatore: 'Vedi dunque, o Zarathustra, come l'amico
viene incontro all'amico!'
Ma che cosa dico e sbraito, dove nessuno ha i miei orecchi! Perciò voglio gridare a tutti i
venti:
Voi diverrete sempre più piccoli, piccola gente! Vi spezzetterete, voi comodi! Andrete in
rovina con tutte le vostre piccole virtù, le vostre piccole omissioni, le vostre piccole
rassegnazioni!
Troppo molle, troppo cedevole è il vostro terreno!
Ma perché un albero divenga grande, deve conficcarsi con dure radici in salde rocce!
Anche ciò che voi omettete, forma la trama dell'avvenire umano; anche il vostro Niente è
una tela di ragno e un ragno che vive del sangue dell'avvenire.
E quando voi prendete, allora è come se rubaste, o voi piccoli virtuosi; senonché anche tra
i furfanti l'onore dice che 'si deve rubare quando non si può rapinare'.
'È così;' anche questo è un insegnamento della rassegnazione. Ma io vi dico, o amanti
della comodità: si prende e vi sarà preso sempre di più!
Ahimè, se allontanaste da voi ogni mezzo volere e vi decideste una buona volta per la
pigrizia o per l'azione!
Ahimè, se poteste comprendere la mia parola: 'Fate comunque ciò che volete, ma siate in
primo luogo di quelli che sanno volere!'
'Amate sempre il vostro prossimo come voi stessi; ma siate in primo luogo di quelli che
amano se stessi...
amare di un grande amore, amare con un grande disprezzo!' Così parla Zarathustra, l'ateo.
Ma a che parlare, dove nessuno ha i miei orecchi! E anche qui troppo presto per me.
Io sono il mio stesso precursore tra, questo popolo, il mio stesso grido del gallo attraverso
vicoli oscuri.
Ma la loro ora sta venendo! Ed anche la mia! Essi vanno divenendo di ora in ora più
meschini, più poveri, più sterili; misera erba! misero terreno!
E presto sembreranno erba secca e stoppia, e in verità! stanchi di se stessi, e più
spasimanti di acqua che di fuoco!
Ora benedetta del fulmine! O mistero prima del meriggio! Voglio far d'essi un giorno fuochi
vaganti e annunciatori con lingue di fiamma:
dovranno un giorno annunciare con lingue di fuoco: viene, è vicino, il grande meriggio!”
Così parlò Zarathustra.
SUL MONTE DEGLI OLIVI
“L'inverno, tristo ospite, abita nella mia casa, le mie mani sono livide a causa delle sue
amichevoli strette di mano.
Io lo onoro, questo triste ospite, ma ben volentieri lo lascio solo. Volentieri io gli sfuggo: e,
se si corre bene, gli si sfugge!
Con caldi piedi e caldi pensieri io fuggo là, dove
non giunge il vento, verso l'angolo solatìo del mio oliveto.
Là rido del mio rigido ospite e gli sono anche grato, perché a casa mi distrugge le mosche
e fa tacere tanti piccoli rumori.
Non sopporta che una mosca ronzi, peggio se due; fa solitarie le strade, tanto che persino
il chiaro di luna ha paura di entrarvi.
È un duro ospite, ma io lo onoro, e non prego, come gli effeminati, il panciuto idolo del
fuoco.
Preferisco battere ancora un po' i denti, piuttosto che pregare un idolo! Così vuole il mio
carattere. E in particolar modo io sono contrario a tutti gli ardenti, fumanti, tetri idoli del
fuoco.
Colui che amo; io lo amo più d'inverno che d'estate; più beffardamente e più
coraggiosamente io derido i miei nemici, ora che l'inverno sta in casa mia.
Proprio con coraggio, persino quando io vado quatto quatto a letto: anche allora la mia
felicità nascosta ride e fa baldoria, e ride anche il mio sogno bugiardo.
Io un basso adulatore? Mai in vita mia ho strisciato davanti ai potenti; e se ho mentito, ho
mentito per amore. Perciò sono allegro anche nel mio letto invernale.
Un simile letto mi riscalda meglio di uno ricco, poiché io sono gelo della mia povertà. E
nell'inverno questa mi è più fedele che mai.
Inizio ogni giorno con una malignità; beffeggio l'inverno con un bagno freddo: e il mio
rigido amico di casa brontola.
Mi piace anche solleticarlo con un candelotto di cera: perché infine lasci uscire il cielo fuori
dal grigio crepuscolo.
Io sono particolarmente maligno proprio al mattino: nell'ora mattutina, quando il secchio
stride nel pozzo e i cavalli nitriscono con calore per le grigie strade.
Impaziente attendo che il luminoso cielo infine si discopra, il cielo invernale dalla candida
barba, il vecchio dalla testa bianca... il cielo invernale, il taciturno, che spesso tiene
segreto anche il suo sole!
Ho forse imparato da lui i lunghi luminosi silenzi? O lui, li ha imparati da me? O ognuno di
noi se li è inventati da sé?
L'origine di tutte le cose buone è molteplice; tutte le cose buone e coraggiose balzano per
gioia alla ribalta della vita: come potrebbero farlo una volta sola!
Anche un lungo silenzio è una cosa buona e coraggiosa, e come il cielo invernale guardare
da volti luminosi e chiari occhi tondi: come lui nascondere il proprio sole e la propria
inflessibile volontà solare. In realtà, io ho bene appreso quest'arte e questo coraggio
invernale!
La mia più cara malizia e arte è questa, che il mio silenzio ha imparato a non tradirsi con il
silenzio.
Con un tintinnio di parole e di dadi io vinco d'astuzia quelli che mi attendono al varco
solennemente: a tutte queste rigide spie sono costretti a sfuggire la mia volontà e il mio
fine.
Perché nessuno possa vedere nel fondo della mia anima e nella mia suprema volontà, ho
inventato il mio lungo luminoso silenzio.
Ho incontrato più di un prudente: che velava il suo volto e intorbidiva la sua acqua, perché
nessuno lo vedesse dentro.
Ma proprio a lui si attaccarono i più scaltri e diffidenti e gli schiacciatori di noci: proprio da
lui cavarono fuori il suo più falso pesce!
Ma i limpidi, i coraggiosi, i trasparenti, sono per me i più scaltri taciturni: così profondo è il
loro fondo che anche l'acqua più limpida non lo tradisce.
O tu, silenzioso cielo invernale dalla barba bianca, tu, testa bianca dagli occhi tondi che mi
stai guardando! O celeste immagine della mia anima e della sua temerarietà!
Non dovrò nascondermi, come uno che ha inghiottito l'oro, affinché non mi si squarci
l'anima?
Non dovrò camminare sui trampoli, perché non si accorgano delle mie lunghe gambe, tutti
questi invidiosi e piagnucoloni che mi stanno intorno?
Queste anime affumicate, calducce, logore, ammuffite, inasprite; come potrebbe la loro
invidia sopportare la mia felicità!
Così io mostro loro soltanto il ghiaccio e l'inverno delle mie vette; e non come il mio monte
si cinge ancora di tanto sole!
Essi odono fischiare soltanto le mie bufere invernali: e non si accorgono che io navigo
anche su caldi mari, come i nostalgici, grevi, caldi venti del sud.
Hanno pietà delle mie disgrazie e del mio destino: ma la mia parola suona: 'Lasciate il
destino venire a me: esso è innocente come un bambino!'
Come potrebbero sopportare la mia felicità, se io non circondassi la mia felicità di disgrazie
e di travagli invernali e di cappucci di pelle d'orso e di veli di nevosi cieli?
...se io stesso non avessi pietà della loro compassione: della compassione di questi
invidiosi e piagnucoloni!
se davanti a loro non gemessi e battessi i denti per il freddo, e non mi lasciassi
pazientemente avvolgere nella loro compassione!
In ciò sta il saggio coraggio e la benevolenza della mia anima, che essa non nasconde il
suo inverno e le sue bufere di gelo; e neppure i suoi geloni.
Per uno la solitudine è fuga di malato; per l'altro
è fuga dagli ammalati.
Mi ascoltino pure gemere e battere i denti per il freddo dell'inverno, tutti questi miseri
invidiosi furfanti che stanno intorno a me! Con questi gemiti e brividi sfuggo alle loro
stanze riscaldate.
Mi compatiscano e sospirino pure per i miei geloni: 'Nel ghiaccio della conoscenza morrà
assiderato!'
dicono.
Intanto io cammino in lungo e in largo, con i piedi caldi, sul mio monte degli olivi:
nell'angolo solatìo del mio oliveto, io canto e mi beffo di ogni compassione.”
Così cantò Zarathustra.
DEL PASSARE OLTRE
Così attraversando lentamente molto popolo e molte e diverse città, Zarathustra ritornò,
per vie traverse, al suo monte e alla sua caverna. Ed ecco che, senza saperlo, giunse
anche alle porte della grande città: ma qui un pazzo con la bava alla bocca gli corre
incontro con le braccia aperte e gli sbarrò la strada. Questo pazzo era lo stesso che il
popolo chiamava “la scimmia di Zarathustra”: infatti aveva appreso qualcosa del suo stile e
delle sue flessioni di voce e pescava spesso e volentieri nel tesoro della sua saggezza. Ma
questi così parlò a Zarathustra:
“O Zarathustra, qui è la grande città: qui tu non hai nulla da cercare e tutto da perdere.
Perché metterti a sguazzare in questo fango? Abbi compassione dei tuoi piedi! Sputa
piuttosto sulle porte della città e vattene via!
Qui è l'inferno per i pensieri dei solitari: qui i grandi pensieri finiscono per lasciarsi bollire e
ridurre a pezzi.
Qui si corrompono tutti i grandi sentimenti: vi possono strepitare solo i piccoli sentimenti,
asciutti come le aringhe!
Non senti già l'odore dei macelli e delle trattorie dello spirito? Non fuma forse questa città
del vapore dello spirito macellato?
Non vedi le anime pendere come stracci cascanti e sporchi? E da questi stracci essi fanno I
giornali!
Non senti, come qui lo spirito diventa gioco di parole? Butta fuori una spiacevole
sciacquatura di parole! E anche con questa sciacquatura di parole fanno giornali.
Si aizzano l'un l'altro e non sanno contro chi. Si riscaldano l'un l'altro e non sanno perché.
Fanno tintinnare il loro stagno, fanno tintinnare il loro oro.
Sono freddi e cercano il caldo nell'acquavite: sono riscaldati e cercano frescura presso gli
spiriti gelidi; sono tutti infermi e tisici d'opinione pubblica. Tutti i piaceri ed i vizi sono qui
di casa; poi ci sono anche i virtuosi, vi sono molte virtù impiegatizie capaci di tutto: molte
virtù impiegatizie con dita di scrivani e dure carni di sederi e di attesa, e la benedizione di
piccole stelle sul petto e figlie imbottite senza sedere. Vi sono anche molte pietà e molti
fedeli leccapiedi, baciapile del dio degli eserciti. 'Dall'alto' cadono le stelle e
l'eccellentissima saliva; verso l'alto aspira ogni petto senza stelle. La luna ha la sua corte e
la corte ha i suoi satelliti e verso tutto ciò che viene dalla corte prega il popolo mendicante
e tutte le virtù mendicanti impiegatizie. 'Io servo, tu servi, noi serviamo' prega la virtù
servizievole verso il suo principe: onde la meritata, stella si appiccichi finalmente all'esile
petto! Ma la luna gira intorno alla terra: così anche il principe gira intorno a ciò che è più
terreno: e questo è l'oro dei mercanti. Il dio degli eserciti non è il dio, dei lingotti: il
principe propone, ma il mercante dispone! Per tutto ciò 'che in te è luminoso e forte e
buono, o Zarathustra! sputa su questa città di mercanti e volgiti via! Qui ogni sangue
scorre putrido e fiacco e schiumoso nelle vene: sputa sulla grande città, che è la grande
cloaca, dove converge ogni rigurgito! Sputa sulla città delle anime flaccide e degli scarni
petti, degli occhi aguzzati, delle dita vischiose; sulla città degli intrusi, degli sfacciati, degli
scribi e degli strilloni, degli ambiziosi, dei surriscaldati: dove confluisce tutto ciò che è
corrotto, equivoco, lascivo, oscuro, putrido, ulceroso; cospiratore: sputa sulla grande città
e volgiti via!”
Ma a questo punto Zarathustra interruppe il pazzo dalla bocca schiumante e gli tappò la
bocca.
“Finiscila dunque!” esclamò Zarathustra. “I tuoi discorsi e le tue maniere mi fanno da
tempo schifo!
Perché hai abitato così a lungo nella palude, da diventare tu stesso un ranocchio e un
rospo?
Non scorre forse anche nelle tue vene un sangue putrido, schiumoso e paludoso, che ti ha
insegnato a gracidare e a bestemmiare così?
Perché non ti sei rifugiato nella foresta? O non hai arato la terra? Il mare non è pieno di
isole verdi?
Io disprezzo il tuo disprezzo: e se tu ammonisci me, perché non ammonisci te stesso?
Dall'amore soltanto deve levarsi in volo il mio disprezzo, il mio uccello ammonitore; ma
non dalla palude!
Ti chiamano la mia scimmia, tu pazzo colla bava alla bocca: ma io ti chiamerò d'ora
innanzi il mio maiale che grugnisce; tu che col tuo grugnire mi sciupi anche la mia lauda
della follia.
Che cosa è stato che ti ha fatto grugnire la prima volta? Il fatto che nessuno ti ha adulato
abbastanza. Perciò ti sei seduto su questa lordura, per avere una ragione di grugnire; per
avere un motivo di vendetta! Infatti è vendetta, pazzo vanitoso, tutto il tuo schiumare; ti
comprendo bene!
Ma la tua folle parola mi secca anche quando hai ragione! E se la parola di Zarathustra
avesse mille volte ragione: tu, adottandola, avresti sempre torto!'
Così parlò Zarathustra; guardò la grande città, sospirò e tacque a lungo. Infine così disse:
“Anche questa grande città e non solo questo pazzo mi fanno schifo. Né qui né là c'è nulla
da migliorare, né da peggiorare.
Guai a questa colonna di fuoco, in cui essa arderà!
Poiché tali colonne di fuoco devono precedere il grande meriggio! Ma ogni cosa ha il suo
tempo e il suo destino!
Per ora ti do questo insegnamento, o pazzo, prima del congedo: se non si può più amare,
si deve passare oltre!”
Così parlò Zarathustra e passò oltre il pazzo e la grande città.
DEGLI APOSTATI
Ahimè, è già tutto grigio ed appassito, ciò che poco fa, su questo prato, era verde e
variopinto? E quanto miele di speranza già portai di qui ai miei alveari!
Quei giovani cuori sono già tutti vecchi; anzi, neppure vecchi! soltanto stanchi, miserabili,
pigri; dicono: 'Siamo di nuovo divenuti devoti'.
Poco tempo fa io li vidi, al mattino, correre con agili gambe verso l'aperto: ma i loro piedi
della conoscenza sono divenuti stanchi, e ora calunniano addirittura quel loro volo
mattutino!
In realtà, molti di loro muovevano allora le gambe come in una danza e li allettava il riso
della mia saggezza: poi si sono ravveduti. E ora li vedo tutti curvi strisciare verso la Croce.
Una volta volavano, come moscerini e giovani poeti, intorno alla luce e alla libertà. Un po'
più vecchi, scuri e maldicenti, gente che siede accanto alla stufa.
È mancato loro il cuore dal tempo in cui la solitudine mi ingoiò come una balena? Il loro
orecchio è stato troppo a lungo ad ascoltare invano me e il mio appello di tromba e il mio
richiamo di araldo?
Ahimè! Sono sempre pochi coloro, il cui cuore ha lungo coraggio e audacia; a questi pochi
anche lo spirito rimane paziente. Ma il resto è vile.
Il resto: che sono sempre la maggioranza, di ogni giorno, il di più, i superflui: tutti questi
non sono che vili!
Chi è della mia specie, troverà per la via la mia specie di esperienze: i suoi primi compagni
saranno cadaveri e saltimbanchi.
Ma i suoi secondi compagni si chiameranno suoi fedeli: uno sciame vivente, con molto
amore, con molta pazzia, molta adorazione imberbe.
Non legherà il suo cuore a questi fedeli colui che è tra gli uomini della mia specie; non
deve credere a queste primavere e ai prati variopinti, chi conosce la specie umana
fuggitiva e vile!
Se potessero diversamente, allora vorrebbero anche diversamente. Le mezze misure
rovinano tutto ciò che è intero. Che le foglie ingialliscano, che c'è da lamentarsi?
Lasciale andare in malora, o Zarathustra, e non lamentarti! Piuttosto, soffia con il vento
frusciante su di loro, soffia su queste foglie, o Zarathustra: perché tutto ciò che è caduco
fugga via da te ancor più velocemente!“
“Noi siamo ridivenuti devoti e pii' confessano questi apostati; molti di loro sono persino
troppo vigliacchi, per confessarlo. '
Io li guardo negli occhi, e rinfaccio al rossore delle loro guance: siete di nuovo di quelli che
pregano!
Ma è una vergogna, pregare! Non per tutti, ma per te e me, e per chiunque abbia la sua
coscienza nella testa! Per te è una vergogna, pregare!
Tu lo sai bene: il vile demonio in te, che ama giungere le mani e tenerle in grembo e
desidera star comodo: è questo vile demonio che ti dice: 'C'è un Dio!'
Ma con ciò tu appartieni alla specie di coloro che temono la luce, cui la luce non dà riposo;
e così tu devi, giorno per giorno, affondare sempre più il capo nella notte e nella nebbia!
In realtà, tu hai scelto bene l'ora: proprio ora gli uccelli notturni volano fuori dai nidi.
Giunge l'ora di tutti coloro che temono la luce, l'ora serale e festiva, ove non c'è 'festa'.
Io sento e fiuto: è giunta la loro ora di caccia e di processione, non certo per una caccia
selvaggia, ma per una moderata, storpia, caccia furtiva e salmodiante; per una caccia di
ipocriti pieni di sentimento: tutte le trappole del cuore sono ora di nuovo tese! E dove io
sollevo una tenda, di là viene fuori a precipizio una piccola farfalla notturna.
Stava forse lì rannicchiata insieme ad un'altra piccola farfalla notturna? Poiché io sento
l'odore di piccole confraternite nascoste; e dove c'è una stanzuccia, ci sono nuove
pinzochere e il tanfo delle pinzochere.
Siedono insieme ogni sera e dicono: 'Lasciateci ritornare come bambini e dire, buon Dio!
con la bocca e lo stomaco resi guasti dai pii dolciai!'
Oppure per lunghe sere stanno a guardare un astuto ragno crocesegnato, che sta in
agguato sulla sua tela e predica l'astuzia e insegna: 'È bene fare la tela sotto le croci!'
O siedono tutto il giorno con le lenze sulle paludi e si credono con ciò profondi; ma chi
pesca là dove non ci sono pesci, io non lo chiamo nemmeno superficiale!
Oppure imparano lieti e pii a suonare l'arpa da un compositore di inni, che desidererebbe
arpeggiarsi dentro il cuore di qualche giovane donnetta: perché è stanco delle vecchie
donnette e delle loro lodi.
O imparano a rabbrividire da qualche pazzo semierudito, che in buie camere attende che
gli spiriti giungano a lui: e lo spirito svanisce del tutto!
O ascoltano un vecchio girovago barboso che ha imparato dai tetri venti malinconici
accenti; e suona come il vento e predica con tetri accenti la malinconia!
Taluni di loro sono divenuti persino guardiani notturni: e ora sanno suonare i corni e
andare in giro di notte e risvegliare vecchie cose da tempo addormentate.
Cinque parole di vecchie cose io ho udito ieri notte vicino al muro del giardino:
provenivano da questi vecchi tristi rinseccoliti guardiani notturni.
'Per essere un Padre non pensa abbastanza ai suoi figli: i padri terreni in questo fanno
meglio!'
'E troppo vecchio! Egli non si cura più dei suoi figli': così rispondeva l'altro guardiano.
'Ma ha figli? Nessuno può provarlo, se non lo prova lui stesso! Da tempo attendo che
finalmente ce lo provi.'
'Provare? Come se lui avesse mai provato qualcosa! Provare gli è gravoso; tiene a che gli
si creda.'
'Sì! Sì! La fede lo rende felice, la fede in lui. E questa è la caratteristica della gente
vecchia! Così siamo anche noi!'
Così dicevano tra loro i due vecchi guardiani notturni e timorosi della luce, e diedero
tristemente fiato ai loro corni: questo accadde ieri notte presso il muro del giardino.
Ma a me si torceva il cuore dal ridere e voleva rompersi e non sapeva dove, e sprofondò
nel diaframma.
In realtà, questa sarà la mia morte, che io soffochi per il riso, se vedrò gli asini ubriachi e
ascolterò i guardiani notturni dubitare in tal modo di Dio.
Non è dunque passato il tempo, anche per tutti questi dubbi? Chi può risvegliare ancora
tali favole addormentate che hanno paura della luce!
Con i vecchi dèi è finita già da tempo: e in realtà, essi hanno avuto una buona e felice
fine!
La loro morte non fu un crepuscolo [Allusione al Crepuscolo degli dèi di Wagner]; questo è
mentire! Piuttosto: un giorno essi moriranno dal ridere!
Questo avvenne quando un dio pronunciò la formula più atea: 'C'è un solo dio! Tu non
avrai altro dio tranne me!' un vecchio dio barbuto, geloso, poté giungere a tal punto: e
allora tutti gli dèi risero e traballarono sui loro seggi ed esclamarono: 'Non è proprio
questa l'essenza della divinità, che non c'è Dio, ma gli dèi?'
Chi ha orecchi da intendere, intenda.”
Così parlò Zarathustra nella città che egli amava e che è chiamata “La vacca variopinta”.
Da lì aveva da camminare ancora per due giorni, per giungere alla sua caverna e ai suoi
animali; ma la sua anima era continuamente in letizia per la prossimità del suo ritorno.
IL RITORNO
“O solitudine! Tu solitudine, mia patria. Troppo a lungo ho vissuto selvaggio in paese
selvaggio, da non tornare con lacrime di gioia alla tua dimora!
Ora minacciami solo con il dito, come minacciano le madri, sorridimi, come sorridono le
madri, dimmi dunque: 'E chi era colui che un giorno fuggì via da me come un vento di
tempesta?
...che andandosene esclamò: troppo a lungo ho vissuto con la solitudine, e così ho
disimparato a tacere! E ora - l'hai tu imparato?
O Zarathustra, io so tutto: e che tu nella moltitudine ti sentivi abbandonato, più solo che
con me!
Altra cosa è l'abbandono, altra la solitudine: questo l'hai imparato! E che tra gli uomini tu
sarai sempre un selvaggio e un estraneo: selvaggio ed estraneo anche se essi ti amassero:
poiché prima di tutto essi vogliono essere rispettati!
Ma qui invece tu sei nella tua dimora e in casa; qui tu puoi dire tutto liberamente e
sfogarti fino in fondo, qui non c'è da vergognarsi dei sentimenti intimi e tenaci.
Qui tutte le cose vengono carezzevoli al tuo labbro e ti lusingano: poiché vogliono
cavalcare su questo dorso. Su ogni similitudine tu cavalchi qui verso ogni verità.
Sincero e leale tu puoi qui parlare a tutte le cose: e in realtà, come una lode suona ai loro
orecchi, che qualcuno parli chiaro e diritto con tutte le cose!
Ma altra cosa è l'abbandono. Ti ricordi ancora, o Zarathustra? Quando l'uccello gracchiò
sopra la tua testa, mentre eri nella foresta, indeciso dove andare? Ignaro, con vicino un
cadavere: quando dicesti: possano guidarmi i miei animali! Ho trovato più pericoloso
vivere tra gli uomini che tra gli animali. Questo era abbandono!
Non ti ricordi, Zarathustra? Quando tu eri seduto nella tua isola, una fontana di vino tra
secchie vuote, dando ed elargendo, donando e spendendoti per gli assetati: finché alla
fine tu solo restasti assetato tra gli ebbri, e durante la notte lamentavi: il prendere non è
più beato che il dare? [Allusione al detto dl Cristo che si trova in San Paolo: ‘Donare è più
dolce che ricevere'] E il rubare più beato che il prendere? Questo era abbandono!
O Solitudine! Tu solitudine, mia patria! Come mi parla beata e carezzevole la tua voce!
Noi non ci facciamo domande l'un l'altro, noi non ci lamentiamo l'un l'altro, noi andiamo
apertamente insieme attraverso porte aperte.
Poiché in te tutto è aperto e chiaro; e anche le ore corrono su piedi più agili. Nel buio il
tempo trascorre più pesantemente che nella luce.
Qui si aprono tutte le parole e tutti gli scrigni delle parole di vita: qui ogni vita vuoi
divenire parola, ogni divenire vuole imparare da me a parlare.
Ma laggiù, là, ogni parola è vana! Là, la miglior saggezza è dimenticare e passar oltre:
questo ho appreso ora!
Chi, stando tra gli uomini, volesse capire tutto, dovrebbe toccare tutto. Ma io ho mani
troppo pulite per farlo.
Già io non posso respirare il loro fiato; ahimè, ho vissuto così a lungo tra le loro grida e nel
loro fetido alito!
O beato silenzio intorno a me! O puri profumi a me d'intorno! O come questo silenzio
respira puro dal profondo del petto! Come sembra stare in ascolto, questo beato silenzio!
Laggiù, invece, tutti parlano, e nessuno ascolta. Si gridi pure la saggezza con le campane:
i mercanti del mercato vinceranno il loro buono con il tintinnio delle monete!
Tutti parlano, nessuno sa più comprendere. Tutto cade nell'acqua, ma niente cade più
nelle profonde fontane.
Tutti parlano e nulla giunge più a buon fine. Tutti gracchiano, ma chi vorrà sedere
tranquillo sul proprio nido a covare le uova?
Tutto fra loro parla, tutto viene ridotto in formule. E ciò che ieri era ancora troppo duro
per il tempo stesso e per il suo dente, oggi pende -raschiato e corroso dalle fauci degli
uomini attuali.
Tutti parlano, tutto è svelato. E ciò che una volta era chiamato segreto e mistero delle
anime profonde, oggi appartiene ai trombettieri di piazza e ad altri farfalloni.
O umanità, strana cosa! O strepito per le vie oscure! Ora tu stai di nuovo dietro di me: il
mio più grande pericolo sta alle mie spalle!
Nell'indulgenza e nella compassione si è sempre annidato il mio maggior pericolo; ogni
umanità vuole essere risparmiata e compatita.
Con verità nascoste, con folle mano e folle cuore e ricco delle piccole bugie della
compassione: così io ho sempre vissuto tra gli uomini.
Ho seduto travestito tra di loro, pronto a negare me, per sopportare loro, e persuadendo
volentieri me stesso: 'Folle, tu non conosci gli uomini!'
Si disimpara l'uomo, quando si vive tra gli uomini: in ogni uomo c'è troppa facciata; a che
servono occhi di lunga brama, di lunga portata?
E quando mi disconoscevano, io, folle, ero con loro più indulgente che con me: ero
abituato alla durezza contro me stesso e spesso facevo vendetta su me stesso di questa
indulgenza.
Punzecchiato dalle mosche velenose e corroso, come una pietra, dalle troppe gocce di
malvagità, sedevo tra di loro e dicevo a me stesso: 'Tutto ciò che è piccolo è innocente per
la sua piccineria!'
Particolarmente in coloro che si dicono 'buoni', ho trovato le mosche più velenose:
pungono in tutta innocenza, mentono in tutta innocenza; come potrebbero essere giusti
verso di me!
Chi vive tra i buoni impara a fingere compassione. La compassione rende l'aria afosa per
tutte le anime libere. La stoltezza dei buoni è senza fondo.
A nascondere me stesso e la mia ricchezza: questo ho imparato laggiù; infatti vi ho trovato
solo poveri di spirito. La bugia della mia compassione, era che io sapessi per ognuno, che
di ognuno vedessi e fiutassi, quanto spirito gli bastava e quanto gli era di troppo.
I loro rigidi saggi: io li chiamavo saggi, non rigidi; così imparavo ad inghiottire le parole. I
loro becchini: io li chiamavo ricercatori e saggiatori; così imparavo a dire una cosa per
un'altra.
I becchini si scavano fuori le loro malattie. Perciò sotto le antiche macerie stanno terribili
esalazioni. Non bisogna rivangare la mota. Si deve vivere sulle montagne.
Ma ora, con beate narici, io respiro di nuovo la libertà dei monti! Finalmente il mio naso si
è liberato dall'odore dell'umanità!
Solleticata dall'aria frizzante, come da un vino spumeggiante, la mia anima starnuta;
starnuta e si rallegra: salute!”
Così parlò Zarathustra.
DELLE TRE COSE MALVAGE
1
“In sogno, nell'ultimo sogno del mattino, io stavo oggi su un promontorio; fuori dal
mondo, tenevo una bilancia e pesavo il mondo.
Oh, troppo presto è giunta l'aurora: che infuocata mi ha destato, la gelosa! Essa è sempre
gelosa dell'ardore dei miei sogni mattutini.
Misurabile per chi ha tempo, ponderabile per un buon pensatore, raggiungibile a volo per
ali potenti, interpretabile per i divini schiaccianoci: così il mio sogno ha trovato il mondo.
Il mio sogno, un ardito veleggiatore, mezzo nave, mezzo sposa dei venti, silenzioso come
una farfalla, impaziente come i falchi reali: come dunque ha avuto oggi il tempo e la
pazienza di pesare il mondo!
Lo ha persuaso la mia saggezza, la mia ridente, sveglia, quotidiana saggezza, che si
beffeggia di tutti 'i mondi infiniti'? Poiché dice: 'Dove è la forza, anche il numero diviene
padrone: esso ha più forza'.
Come sicuro il mio sogno guardava questo mondo infinito, non curioso, né del vecchio, né
del nuovo, nulla temendo, nulla invocando: come se un turgido pomo si offrisse alla mia
mano, un pomo d'oro maturo, con la buccia fresca e vellutata; così mi si offriva il mondo:
come se un albero mi facesse cenno, un albero dall'ampia ramaglia, dalla vigorosa
volontà, curvo per servire da spalliera e anche da sedile a chi è stanco del cammino; così
stava il mondo sul mio promontorio: come se leggiadre mani mi porgessero uno scrigno;
uno scrigno, aperto per l'estasi di occhi pudicamente adoranti: così oggi mi veniva incontro
il mondo: non abbastanza enigma da intimorire l'amore umano, non abbastanza soluzione
da addormentare la sapienza umana: una buona cosa umana era oggi per me il mondo, di
cui si dice tanto male!
Come ringrazio il mio sogno mattutino, poiché io
oggi, così di buon mattino, ho pesato il mondo! Questo sogno è venuto a me come una
buona cosa umana consolatrice dei cuori!
E perché io possa imitarlo durante il giorno e imparare da lui le sue cose migliori: io voglio
ora porre sulla bilancia le tre cose peggiori e pesarle umanamente bene.
Chi ha imparato a benedire, ha imparato anche a maledire: quali sono nel mondo le tre
cose più maledette? Queste voglio porre sulla bilancia.
Voluttà, sete di dominio, egoismo: queste tre cose sono state fino ad ora le più maledette
e più malfamate e calunniate, ed io le voglio pesare umanamente bene.
Ebbene! Qui è il mio promontorio, e là il mare: che si scaglia violento vicino a me, velloso,
lusinghiero, questo vecchio fedele mostro canino dalle cento teste, che io amo.
Ebbene! qui io voglio reggere la bilancia sul mare ondoso: ed eleggo a testimonio, perché
vigili, te, albero solitario, che io amo, dal forte profumo, dall'ampia ramaglia marcata!
Su quale ponte il presente va all'avvenire? Per quale forza ciò che è alto si piega al basso?
E che cosa significa superare anche il supremo?
Ora la bilancia sta pari e immobile: vi ho gettato tre gravi domande, l'altro piatto contiene
tre gravi risposte.“
2
“Voluttà: pungolo e tortura per tutti gli spregiatori del corpo vestiti di cilicio, e maledetta
come 'mondo' da tutti i trascendentalisti: perché schernisce e beffeggia tutti i maestri di
inganni e di follie.
Voluttà: per la canaglia fuoco lento, su cui viene bruciata; per tutti i legni bacati, per tutti
gli stracci puzzolenti, forno fervido e fumante.
Voluttà: per i liberi cuori innocente e libera, giardino gioioso della terra, l'esuberante
gratitudine dell'avvenire per il presente.
Voluttà: solo per l'impotente un dolciastro veleno; ma per le volontà leonine un grande
ristoro del cuore, gelosamente conservato vino dei vini.
Voluttà: grande similitudine di gioia per la suprema felicità e la suprema speranza. Infatti a
molte cose è permesso il matrimonio e più che il matrimonio, e a molte cose, che sono tra
loro più estranee che l'uomo e la donna: e chi mai ha compreso interamente come siano
estranei tra loro l'uomo e la donna! Voluttà: ma io voglio avere siepi intorno ai miei
pensieri e alle mie parole: affinché i maiali e i sognatori non penetrino nel mio giardino!
Sete di dominio: l'ardente flagello di chi ha il cuore più duro; il crudele martirio, che si
riserva per il più crudele, la oscura fiamma dei roghi viventi.
Sete di dominio: il perfido freno che viene imposto ai popoli più presuntuosi; la
schernitrice di tutte le virtù dubbie; che doma ogni cavallo e ogni superbia.
Sete di dominio: il terremoto che spezza e scava tutto ciò che è marcio e vuoto; che
infrange, rintrona, rimbomba, vendicatrice sui sepolcri imbiancati; il lampeggiante punto
interrogativo accanto alle risposte intempestive.
Sete di dominio: davanti al suo sguardo l'uomo striscia e si appiattisce e serve e diviene
più vile del serpente e del suino: finché infine scoppi da lui urlante il grande disprezzo.
Sete di dominio: il terribile maestro del grande disprezzo, che predica in faccia alle città e
ai regni:
'Via di qua!' finché un giorno saranno loro a gridargli: 'Via di qua!'
Sete di dominio: che seduce tuttavia anche i puri e i solitari e le altezze paghe di sé,
ardente come un amore, che seducente dipinga su cieli terreni purpuree beatitudini.
Sete di dominio: chi può chiamarla malattia, se ciò che è in alto guarda giù per sete di
potenza? In realtà, nulla di infermo o di morboso è in tale discesa e aspirazione!
Affinché l'altitudine solitaria non sia in eterno solitaria e paga di se stessa; il monte scende
alla valle e i venti delle alture calano al piano.
Oh, chi troverà il nome giusto, il nome virtuoso per una tale aspirazione! 'Virtù
dispensatrice': così chiamò l'innominabile un giorno Zarathustra.
E allora accadde - e in verità, accadde per la prima volta - che la sua parola esaltò
l'egoismo, il guarito, sano egoismo, che sgorga da un'anima potente: da un'anima
potente, a cui appartiene il corpo alto, bello, vittorioso, delizioso, intorno al quale ogni
cosa si fa specchio:
l'agile persuasivo corpo, il danzatore, di cui l'anima amante di se stessa è simbolo e
quintessenza. Il compiacimento che provano di se stessi tali corpi e tali anime si chiama da
se stesso: 'virtù'.
Con le sue parole di buono e cattivo si cinge questa gioia di sé come di sacri boschi; con i
nomi della sua felicità bandisce da sé tutto ciò che è spregevole.
Bandisce da sé tutto ciò che è vile; dice cattivo ciò che è vile! Le sembra spregevole colui
che è sempre preoccupato, sospiroso, lamentevole, e anche colui che si accontenta di
piccoli vantaggi.
Disprezza altresì quella saggezza che si culla nel dolore: perché in realtà, c'è anche una
saggezza che sboccia nell'oscurità, una saggezza notturna: che sempre sospira: 'Tutto è
vano!'
La schiva diffidenza le sembra cosa da poco, e chiunque cerca giuramenti invece di
sguardi e mani: ed anche ogni saggezza troppo diffidente, perché è qualità delle anime
vili.
Ancora da meno ritiene chi si contenta di poco, lo spirito caninamente supino, che subito
si rovescia sul dorso, pavido: e c'è anche una saggezza che è servile, simile al cane e pia e
pronta a compiacere.
Per lui è odioso e spregevole chi non vuole difendersi, chi ingoia la bava e tollera gli
sguardi maligni, il troppo paziente, il troppo rassegnato, il troppo pago: tutto ciò è servile.
Che uno sia servile davanti agli dèi e ai calci divini, oppure agli uomini e alle sciocche
opinioni umane è la medesima cosa: il beato egoismo sputa su ogni usanza servile.
Cattivo: così chiama tutto ciò che è curvo e servilmente flesso, i non liberi, occhi che
ammiccano, i cuori oppressi, e ogni falso modo arrendevole, che ti bacia con tumide
labbra vili.
E pseudosaggezza: così chiama tutto ciò che servi e vecchi e stanchi distillano; 'e in
particolar modo tutte le malvage, scaltre e astute follie clericali!
Ma gli pseudosaggi, tutti i preti, gli stanchi del mondo, e coloro che hanno anima di donna
e dl servo, oh, che brutto tiro hanno, da sempre, giocato all'egoismo con i loro intrighi!
E proprio ciò era virtù e si chiamava virtù, questo intrigare contro l'egoismo! 'Altruisti: così
desideravano di essere, ben a ragione, tutti quei vigliacchi stanchi del mondo, quei ragni
crociati!
Ma per tutti costoro ora viene il giorno, la mutazione, la spada del giudizio, il grande
meriggio: allora molte cose diverranno manifeste!
'E chi dice sano e sacro l'Io e beato l'egoismo, in realtà, dice, da profeta, ciò che sa: 'Ecco,
viene, è vicino, il grande meriggio!'“
Così parlò Zarathustra.
DELLO SPIRITO DI GRAVITÀ
1
“La mia lingua è del popolo: parlo troppo ordinario e cordiale per gli uomini vestiti di seta.
E ancora più estranea suona la mia parola a tutte le seppie e gli imbrattacarte.
La mia mano è la mano di un pazzo: guai a tutte le tavole e pareti, e a ciò che ha uno
spazio per le sciocche decorazioni e gli stupidi scarabocchi!
Il mio piede è un piede equino; con cui io scalpito e trotto sui massicci montuosi e sulle
pietre, in lungo e in largo, e sono un demone di gioia nella veloce corsa. Il mio stomaco è
forse uno stomaco di aquila? Infatti ama sopra ogni cosa la carne di agnello. Comunque è
certamente uno stomaco di uccello. Nutrita di cose innocenti e di poco, pronta e
impaziente di volare, di volare via; questa è dunque la mia specie: come non potrebbe
avere in sé qualcosa della specie degli alati! E soprattutto è tipico della specie degli alati
che io sia nemico dello spirito di pesantezza: proprio nemico mortale, nemico di cuore, per
natura! Oh, dove non è già volata e rivolata la mia inimicizia! Potrei anche cantare una
canzone, anzi, voglio cantare: anche se mi trovo solo in una casa vuota e dovrò cantare
soltanto per i miei propri orecchi. Certamente vi sono altri cantanti, ai quali solo la casa
piena rende morbida l'ugola, il gesto espressivo, l'occhio eloquente, il cuore desto: ma io
non assomiglio a loro.”
2
“Chi un giorno insegnerà agli uomini a volare, avrà abbattuto ogni limite; tutte le pietre di
confine voleranno in aria, egli ribattezzerà la terra, chiamandola 'la leggera'.
Lo struzzo corre più veloce del più rapido cavallo, ma anche lui piega ancora la greve testa
nella terra greve: così l'uomo, che tuttora non può volare.
La terra e la vita sono gravi per lui; così vuole lo spirito di gravità! Ma chi intende
diventare leggero e alato, deve amare se stesso: così io insegno.
Certamente non con l'amore dei malati e del morbosi: poiché in loro puzza anche l'amor
proprio!
Si deve imparare ad amare se stessi - così io insegno - con un amore sano e retto: da star
presso a noi stessi senza andar vagando qua e là.
Una dispersione di questo genere si chiama 'amore del prossimo': con questa parola si è
fin qui mentito ipocritamente nel miglior modo, particolarmente da parte di coloro che
venivano a noia a tutti.
È vero che imparare ad amare se stessi non è un comandamento né per oggi né per
domani. Bensì la più squisita, la più astuta, e la più paziente di tutte le arti.
Infatti, per il suo possessore, ogni possesso è ben nascosto; e di tutte le miniere, la
propria è l'ultima ad essere sfruttata; così ha voluto lo spirito di gravità.
Quasi fin dalla culla ci dispensano parole e valori pesanti caricati di 'bene' e di 'male': così i
chiama la dote che subito ci consegnano. In virtù di essa, ci viene perdonato di vivere.
E per questo si lascia che i fanciulli vengano a noi, perché si impedisca loro per tempo di
amare se stessi: così ha voluto lo spirito di gravità.
E noi, noi ci trasciniamo dietro fedeli, ciò che ci è stato dato in dote, su dure spalle e per
scabrose montagne! E quando sudiamo, ci dicono: 'Sì, la vita è pesante da portare!'
Ma è l'uomo soltanto che è pesante a se stesso da portare! Questo avviene perché
trascina con sé troppe cose estranee sulle sue spalle. Simile al cammello, si inginocchia e
si lascia ben caricare.
Particolarmente il forte, l'uomo che porta pesi sulle spalle, riverente per natura: troppe
parole e valori estranei e pesanti si addossa; poi la vita gli sembra un deserto!
Ed è vero! Anche molte cose proprie sono pesanti da portare! E molte interiorità dell'uomo
sono come l'ostrica, schizzinosa e viscida e difficile ad afferrare: così che un nobile guscio
con nobili ornamenti può intercedere. Ma anche quest'arte si deve imparare: ad avere il
guscio e una bella apparenza e una giudiziosa cecità!
Talvolta ci si inganna su talune cose nell’uomo per il fatto che il guscio è scadente e brutto
e troppo guscio. Molte nascoste bontà ed energie non vengono mai comprese; le leccornie
più deliziose non trovano il gustatore!
Le donne sanno questo, le deliziose: un po' più grasse, un po' più magre; oh, quanto
destino sta in così poco!
L'uomo è più difficile da scoprire e ancora di più a se stesso; spesso lo spirito mente a
proposito dell'anima. Così agisce lo spirito di gravità.
Ma sicuramente ha scoperto se stesso colui che dice: questo è il mio bene e il mio male:
con ciò egli fa ammutolire la talpa e il nano, che dicono: bene per tutti, male per tutti.
Non sopporto neanche quelli che dicono buona ogni cosa e questo mondo il migliore. Li
chiamo i sempre soddisfatti.
La contentezza di tutto, che sa provare gusto in tutto: non è certo il miglior gusto! Io
onoro le lingue renitenti e gli stomachi schifiltosi, che hanno imparato a dire 'io' e 'sì' e
'no'.
Masticare e digerire tutto è un modo proprio da maiali!
Dire sempre I-A [in tedesco JA = SÌ]: soltanto ciò ha imparato l'asino, e chi è della sua
specie!
Il giallo profondo e il rosso caldo vuole il mio gusto, che mescola il sangue a tutti i colori.
Ma chi dipinge la sua casa di bianco, questi per me rivela un'anima imbiancata.
Gli uni s'innamorano di mummie, gli altri di fantasmi; entrambi ugualmente nemici alla
carne e al sangue; oh, come mi vanno a contraggenio entrambi! Perché io amo il sangue.
E non voglio abitare né indugiare dove ciascuno sputa e vomita: questo è il mio gusto
preferisco vivere tra i ladri e gli spergiuri. Nessuno porta oro in bocca.
Ma ancor più sono avverso ai vili adulatori; e la bestia più spiacevole che ho trovato tra gli
uomini, la chiamo parassita: non vuole amare e tuttavia vive d'amore.
Per me sono infelici tutti quelli che hanno soltanto una scelta: divenire malvage bestie o
malvagi domatori: presso di loro io non costruirei la mia capanna.
Chiamo infelici anche quelli che debbono sempre aspettare; mi vanno contro stomaco:
tutti i doganieri e i mercanti e i re e custodi di regni o di botteghe.
In realtà, io ho imparato anche ad aspettare, e a fondo; ma ad aspettare soltanto per me
stesso. E soprattutto ho imparato a stare in piedi e ad andare e ad andare e a correre e a
saltare e ad arrampicarmi e a danzare.
Ma questo è il mio insegnamento: chi vuole imparare a volare, prima deve imparare a
stare in piedi, e ad andare e a correre e ad arrampicarsi e a danzare: non si impara di
colpo a volare!
Ho imparato a scalare talune finestre con scale di corda, con agili gambe mi sono
arrampicato sugli alti alberi delle navi: stare a sedere sugli alti alberi della conoscenza non
mi è sembrata piccola felicita; guizzare come una piccola fiamma sugli alti alberi della
nave: certamente una piccola luce, ma un grande conforto per i marinai fuori rotta e per i
naufraghi!
In molti modi e per molte strade io sono pervenuto alla mia verità: non per una sola scala
sono salito alla sommità, dove il mio occhio vaga nella mia lontananza.
E sempre malvolentieri ho domandato la via; questa è cosa che mi è sempre andata a
contraggenio! Ho preferito domandare e ricercare la via da me stesso.
Tutto il mio cammino è stato un ricercare e un domandare: in realtà, si deve imparare
anche a rispondere a tali domande! Ma questo è il mio gusto: non buono, non cattivo, ma
il mio gusto, per il quale ormai io non ho più pudore né segreto.
'Questa è dunque la mia strada; dov'è la vostra?' ho risposto a coloro che mi
domandavano 'della strada'. Infatti la strada non esiste!”
Così parlò Zarathustra.
DELLE TAVOLE ANTICHE E DELLE NUOVE
1
“Sono qui seduto e aspetto; intorno a me sono antiche tavole infrante e anche nuove
tavole scritte a metà. Quando viene la mia ora? l'ora della mia discesa, del mio tramonto:
poiché ancora una volta voglio andare tra gli uomini.
L'attendo dunque: poiché prima devono giungere a me i segni che è la mia ora, cioè il
leone che sorride con lo stormo di colombe.
Frattanto, come uno che ha tempo, parlo a me stesso. Nessuno mi racconta novità: così io
narro a me, me stesso.”
2
“Quando giunsi tra gli uomini, li trovai seduti su un'antica presunzione: tutti presumevano
di sapere già da tempo che cosa fosse buono e cattivo per gli uomini.
Ogni discorso sulla virtù sembrava loro una cosa vecchia e logora; e chi voleva dormire
bene, prima di andare a dormire parlava del bene e del male.
Disturbai questi dormienti quando insegnai che nessuno sa ancora che cosa sia buono e
cattivo: tranne il creatore!
Ma questi è colui che crea lo scopo dell'uomo e dà il suo significato e l'avvenire alla terra:
questi per primo crea quel qualcosa che è bene e male.
E imposi loro di abbattere le loro vecchie cattedre, dove si era seduta soltanto l'antica
presunzione; imposi loro di ridere dei loro grandi maestri di virtù e santi e poeti e salvatori
del mondo.
Imposi loro di ridere dei loro tenebrosi saggi, e di chi, simile a un nero spaventapasseri, si
era appollaiato, ammonitore, sull'albero della vita.
Mi sedetti lungo le loro grandi strade sepolcrali e vicino alle carogne e ai corvi, e risi di
tutto il loro passato e del suo frollo decadente splendore.
In realtà, simile ai predicatori di penitenza e ai pazzi, io gridai ira e fracasso su tutte le loro
grandezze e piccolezze; perché le loro cose migliori sono così piccole! E le loro cose
peggiori sono così piccole! E io risi.
Gridò e rise da me, la mia saggia bramosia che è nata sui monti, la mia selvaggia
saggezza! la mia grande bramosia che batte le ali.
Spesso, fra il mio riso, mi trascinava via, in alte lontananze: volavo rabbrividendo, come
una freccia, attraverso un'estasi ebbra di sole: in lontani tempi futuri, che nessun sogno ha
mai visto, nel Sud più infuocato che nessun artista ha mai sognato: là dove gli dèi,
danzando, si vergognano di ogni veste;
infatti io parlo in similitudini e, simile ai poeti, zoppico e balbetto: e in realtà, mi vergogno
di dover essere ancora poeta!
Dove tutto il divenire mi sembrava una danza e un capriccio divini, e il mondo libero e
rilassato e rifluente su se stesso: come un eterno sfuggirsi e ricercarsi di molti dèi, come
un beato contraddirsi, riudirsi, riappartenersi di molti dèi.
Dove ogni tempo mi sembrava un beato scherno dell'attimo, dove la necessità era anche
libertà, che beatamente giocava con il pungiglione della libertà.
Dove ritrovai anche il mio antico demone e nemico mortale, lo spirito di gravità, e tutto ciò
che ha creato: costrizione, ordinamenti, bisogno e conseguenze e scopo e volontà e bene
e male.
Non devono forse esservi cose sulle quali si possa danzar via? Non debbono esistere, per
amore della leggerezza e levità, talpe e nomi pesanti?”
3
“Là fu anche, dove io raccolsi dalla strada la parola Superuomo, e l'idea che l'uomo è
qualcosa che deve essere superata: che l'uomo è un ponte non una mèta: deve chiamarsi
felice per il suo meriggio e la sua sera, come strada per nuove aurore: la parola di
Zarathustra del grande meriggio, e ciò che io sospesi sull'uomo, come un secondo
purpureo rosso di sera.
In realtà, io additai loro, perché le vedessero, anche nuove stelle e nuove notti; e sopra
alle nubi e al giorno e alla notte distesi anche il riso come una tenda variopinta.
Insegnai loro tutto il mio poetare ,e le mie aspirazioni: a comporre in uno e rimettere
insieme ciò che nell'uomo è frammento e enigma e terribile caso;.
come poeta, risolvitore di enigmi e redentore del caso, io insegnai loro a creare l'avvenire,
e a redimere, creando, tutto ciò che fu.
Redimere nell'uomo il passato e ricreare ogni 'fu' finché la volontà dica: 'Così volli! Così
vorrò'.
Questo ho chiamato redenzione, solo questo ho insegnato loro a chiamare redenzione.
Ora attendo la mia redenzione, per recarmi per l'ultima volta tra loro.
Poiché voglio andare ancora una volta tra gli uomini: sotto di loro voglio tramontare,
morendo, voglio dar loro il più ricco dei miei doni!
Ho imparato questo dal sole, quando il ricchissimo tramonta: getta nel mare l'oro della sua
inesauribile ricchezza, così che anche il più povero pescatore rema con remi d'oro! Vidi
questo una volta e alla vista non mi saziai di piangere.
Simile al sole, anche Zarathustra vuole tramontare: ora sta seduto e attende; intorno a lui
sono antiche tavole infrante e nuove tavole, scritte a metà.”
4
“Ecco, qui è una nuova tavola: ma dove sono i miei fratelli, che porteranno con me la
tavola a valle e in cuori di carne?
Il mio grande amore per i più lontani impone di non risparmiare il tuo prossimo! L'uomo è
qualcosa che deve essere superata.
Vi sono molte strade e modi di superamento: questo è affar tuo! Ma solo un pagliaccio
può pensare che 'l'uomo possa venire anche saltato'.
Supera te stesso anche nel tuo prossimo: un diritto che tu ti puoi accaparrare non devi
aspettare che te lo diano!
Ciò che fai, nessuno può rifartelo. Non esiste, vedi, contraccambio.
Chi non può comandare a se stesso, deve obbedire. Più d'uno d'altronde può comandare a
se stesso, ma ci manca ancora molto a che ossa anche obbedirsi!”
5
“Così vuole il carattere delle anime nobili: non vogliono avere nulla per niente, e meno di
tutto la vita.
Solo chi appartiene alla plebe vuole vivere per niente, ma noi altri, cui la vita si è donata,
noi pensiamo sempre a che cosa di meglio possiamo dare in cambio! E, in realtà, una
parola nobile, quella che dice:
'Ciò che la vita promette a noi, noi vogliamo mantenerlo alla vita!'
Non bisogna voler godere, quando non si dona da godere. Non si deve anzi neppure voler
godere!
Godimento e innocenza sono le cose più pudiche: non bisogna cercarle. Si deve
possederle, e piuttosto ricercare la colpa e il dolore.!“
6
“Fratelli miei, chi è una primizia, viene sempre sacrificato. E noi siamo primizie.
Tutti noi sanguiniamo su segreti altari sacrificali, noi tutti bruciamo e arrostiamo in onore
di antichi idoli.
La nostra parte migliore è ancor giovane: ciò solletica i vecchi palati. La nostra carne è
tenera, il nostro pelo .è quasi un pelo di agnello: come potremmo non solleticare i vecchi
sacerdoti degli idoli!
E in noi stessi che abita il vecchio sacerdote degli idoli, e si arrostisce la nostra parte
migliore per il banchetto. Ahimè, fratelli miei, come potrebbero le primizie non essere
olocausti!
D'altronde, così vuole il nostro carattere; e io amo
coloro che non pretendono di conservarsi. Io amo con tutto il mio amore quelli che
tramontano: perché sono coloro che vanno oltre.” 7
“Essere sinceri è cosa che possono pochi! E chi può, non vuole! Ma meno di tutti lo
possono i buoni.
Oh, questi buoni! Gli uomini buoni non dicono mai, la verità; per lo spirito è una malattia
essere così buono.
Cedono anche, questi buoni, si rassegnano, il loro cuore parla, il loro intimo obbedisce: ma
chi obbedisce, non sente se stesso!
Tutto ciò che i buoni chiamano male, deve esser messo insieme, perché ne nasca una
verità: fratelli miei, siete voi anche abbastanza malvagi per questa verità?
L'audace rischio, la lunga diffidenza, la crudele negazione, la noia, il tagliare nel vivo;
come di rado tutto questo va insieme! Ma è da questi semi che viene generata la verità!
Accanto alla cattiva coscienza, è cresciuta fin qui ogni scienza! Spezzate, spezzatemi, o voi
che conoscete le antiche tavole!”
8
“Se il mare ha traverse, se ponticelli e ringhiera varcano i fiumi: in realtà, non trova fede
colui che dice: 'Tutto fluisce'.
Anche gli stolti lo contraddiranno. 'Come?' diranno gli stolti. 'Tutto è nel fiume? E traverse
e ringhiere passano tuttavia sopra il fiume?'
Sopra il fiume tutto è saldo, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, 'bene' e 'male': tutto
saldo!
Quando poi giunge il duro inverno, il domatore del fiume, allora anche i più scaltri
imparano a diffidare; e, in verità, non sono soltanto gli stolti a dire:
'Non sta forse tutto fermo?'
'In fondo tutto sta fermo.' Questo è un giusto insegnamento invernale, una cosa buona
per tempi infecondi, un buon confronto per gli ibernanti e i poltroni.
'In fondo tutto sta fermo': ma il vento di primavera predica il contrario.
Il vento del disgelo, un toro, che non è il toro che tira l'aratro, un toro furioso, distruttore,
che spezza il ghiaccio con le sue 'rabbiose corna! Tuttavia il ghiaccio spezza le passerelle!
Fratelli miei, non è ora tutto nel fiume? Non sono tutte le ringhiere e le passerelle cadute
in acqua? Chi si appoggia ancora al 'bene' e al 'male'?
'Guai a noi! Evviva noi! Soffia il vento del disgelo!' Predicate questo, fratelli miei, per tutte
le strade!”
9
“C'è un'antica follia che si chiama bene e male. La ruota di questa follia si è volta fin qui
intorno agli indovini e agli astrologhi.
Una volta si credeva agli indovini e agli astrologhi: e perciò si credeva che 'tutto fosse
destino' e che 'tu devi, perché lo devi!'
Più tardi si diffido degli indovini e degli astrologhi: e perciò si pensò: 'Tutto è libertà: tu
puoi, perché tu vuoi!'
Fratelli miei, intorno alle stelle e al futuro si è fino ad ora parlato a vanvera, senza saperne
nulla: e perciò anche sopra il bene e il male si è parlato a vanvera senza saperne nulla!”
10
“ 'Tu non devi rubare! Tu non devi uccidere!' Questi principi venivano una volta detti sacri,
davanti ad essi si piegavano i ginocchi e la testa e ci si toglieva le scarpe.
Ma io vi domando: dove furono mai nel mondo ladri ed assassini peggiori di queste sacre
parole?
Non è nell'essenza stessa di ogni vita rubare e uccidere? E il dire sacre tali parole, non è
uccidere la stessa verità?
Non fu una predica di morte il chiamare sacro ciò che contraddice e contrasta a ogni vita?
Fratelli miei, spezzate, infrangetemi le antiche tavole!”
11
“Questa è la mia compassione verso tutto il passato; che io vedo come esso è sacrificato;
sacrificato alla grazia, allo spirito, alla follia di ogni generazione che viene e che trasforma
in proprio ponte tutto ciò che fu!
Potrebbe venire un gran potente; uno scaltro despota, che con la sua grazia e la sua
disgrazia riesca a costringere e violentare tutto il passato: finché divenga per lui pane e
segno premonitore e araldo e grido di gallo.
Ma questo è l'altro pericolo e l'altra mia compassione: chi appartiene alla plebe, risale con
il pensiero fino al nonno, ma con il nonno il tempo gli si ferma.
Così tutto il passato può venir sacrificato: perché può una volta accadere che la plebe
divenga la padrona, e affoghi nelle sue basse acque ogni tempo.
Perciò, fratelli miei, è necessaria una nuova nobiltà che sia avversa ad ogni plebe e ad
ogni tirannia e che scriva di nuovo su nuove tavole la parola 'nobile'.
Sono necessari molti nobili e un varia specie di nobili, perché si abbia aristocrazia! O,
come dissi una volta con una similitudine: 'Proprio questa è la divinità, che esistono gli dèi,
ma non un Dio!”
12
“Fratelli miei, io vi indico e vi consacro ad una nuova aristocrazia: dovete divenire i
testimoni e i coltivatori e i seminatori dell'avvenire; in realtà, non ad una aristocrazia che si
possa comperare, come fanno i mercanti, con l'oro dei mercanti: poiché poco valore ha
tutto ciò che ha prezzo.
D'ora innanzi il vostro onore non dipenderà da dove provenite, bensì da dove andate! La
vostra volontà e il vostro piede, che vuole andare oltre voi stessi: questo costituisce il
vostro nuovo onore!
Non certamente che voi abbiate servito un principe - che cosa importa ormai dei principi! o che siate divenuti baluardo di ciò che già stava in piedi, perché stesse più saldo!
Né che la vostra casata sia divenuta cortigiana nelle corti, e che voi abbiate imparato a
stare in piedi, simili ad un airone variopinto, per ore ed ore in un laghetto dall'acqua
bassa: perché poter stare in piedi è un merito dei cortigiani; e infatti tutti i cortigiani
credono che faccia parte della beatitudine, dopo la morte, avere il permesso di sedersi!
E neanche che uno Spirito, che essi chiamano santo, abbia condotto i vostri antenati in
terra promessa, che per me non è un elogio: perché là cresce il peggiore di tutti gli alberi,
la Croce; né quella terra è da lodare!
In realtà, dovunque lo 'Spirito Santo' ha guidato i suoi cavalieri, sempre tali cortei sono
stati preceduti da capre e oche e croci e teste balzane!
Fratelli miei, la vostra aristocrazia non deve guardare indietro, ma avanti! Dovete farvi
cacciar via da tutte le terre dei padri e degli avi!
Dovete amare la terra dei vostri figli: questo amore sia la vostra nuova aristocrazia; la
terra non ancora scoperta, nel più lontano dei mari! Verso di essa vi dico di guidare le vele
cercandola infaticabilmente!
Nei vostri figli voi dovete fare ammenda del fatto di essere figli dei vostri padri: dovete
redimere così tutto il passato! Io pongo sopra di voi questa nuova tavola!”
13
“ 'A che vivere? Tutto è vano! Vivere è macinare paglia; vivere è bruciarsi senza
riscaldarsi.'
Queste vecchie chiacchiere sono sempre ritenute 'saggezza'; anzi, perché sono vecchie e
puzzano di muffa, perciò sono ancor più onorate. Anche la muffa nobilita.
Ai bambini è permesso parlare così: hanno paura del fuoco, perché si sono bruciati! C'è
molta puerilità negli antichi libri della saggezza.
E chi sempre 'macina paglia', come potrebbe poter dire male della trebbiatura? Occorre
tappare la bocca a simili pazzi!
Taluni si siedono a tavola e non portano nulla con sé, neppure una buona fame: e poi
bestemmiano: 'Tutto è vano!'
Ma mangiare e bere bene, fratelli miei, non è, in realtà, un'arte vana! Spezzate,
spezzatemi le tavole di coloro che non sono mai contenti!” 14
“ 'Per il puro tutto è puro': così parla il popolo. Ma io vi dico: per i porci tutto diviene
porco!
Perciò gli esaltati e i malinconici, che hanno penzoloni anche il cuore, predicano: 'Il mondo
stesso è un mostro ributtante'.
Poiché tutti questi sono spiriti impuri; ma in particolar modo coloro che non hanno quiete
né riposo, se non quando vedono il mondo a rovescio; i trascendentalisti!
A costoro io dico in faccia, anche se non suona grazioso: il mondo, come l'uomo, ha anche
lui un deretano, questo è il fatto!
C'è nel mondo molto fango, questo è un fatto! Ma non per questo il mondo è un mostro
schifoso!
C'è saggezza in questo, che molte cose nel mondo puzzano: lo stesso schifo crea ali e
forze presaghe di limpide fonti!
Anche nel migliore c'è qualcosa di schifoso; anche il migliore è qualcosa che deve venir
superato.
Fratelli miei, v'è molta saggezza sul fatto che ci sia molto fango nel mondo!”
15
“Tali discorsi io ho udito fare dai più trascendentalisti alla loro coscienza, e in verità senza
malizia e ipocrisia, anche se nel mondo non vi sono malizie e ipocrisie peggiori di queste.
'Lascia stare il mondo com'è Non alzargli contro neanche un dito!'
'Lascia che chi voglia strangoli e pugnali e tormenti e spelli la gente: non alzare neppure
un dito contro questo! Così impareranno a rinunciare al mondo.'
'Tu devi prendere alla gola e strangolare la tua stessa ragione; perché è una ragione di
questo mondo; così imparerai anche tu a rinunciare al mondo.'
Spezzate, infrangete, fratelli miei, queste antiche tavole della gente pia. Contraddite i
discorsi dei calunniatori del mondo!”
16
“ ‘Chi molto impara, disimpara ogni forte desiderio’: questo si va bisbigliando per tutti i
vicoli oscuri.
'La sapienza rende stanchi, non vale per nulla la pena; tu non devi desiderare!' Ho trovato
appese queste nuove tavole anche nei mercati aperti.
Spezzatemi, fratelli miei, infrangete anche queste nuove tavole! Le hanno appese gli
stanchi del mondo e i predicatori della morte, e i carcerieri: poiché, badate, non è che una
predica in favore della schiavitù.
Essi hanno imparato male e neanche le cose migliori, e tutto troppo presto e in fretta:
avendo mangiato male, si è guastato loro lo stomaco; lo spirito è uno stomaco guasto che
consiglia la morte! Poiché in realtà, fratelli miei, lo spirito è uno stomaco!
La vita è una sorgente di luce: ma per colui attraverso il quale parla uno stomaco guasto,
il padre della tribolazione, per lui sono avvelenate le fonti.
Conoscere: è gioia per la volontà leonina! Ma chi è diventato stanco, è diventato anche
soltanto un 'passivo', zimbello di tutte le onde.
Così è sempre il modo di agire degli uomini deboli, che si perdono per la strada. Alla fine
la loro stanchezza si chiede: 'Perché abbiamo percorso così tanta strada? tanto tutto è
uguale!'
A loro suona piacevole agli orecchi che si predichi: 'Non vale la pena! Non dovete volere!'
Ma questa è una predica a favore della schiavitù.
Fratelli miei, Zarathustra giunge come un fresco vento impetuoso per gli stanchi della via;
molti nasi farà ancora starnutire!
L'alito mio libero passa anche attraverso i muri, e penetra nelle prigioni e negli spiriti
imprigionati!
Il volere libera: poiché volere è creare: così io vi insegno. Soltanto al fine di creare voi
dovete imparare!
E anche l'imparare voi dovete apprenderlo prima da me, come cioè imparare bene! Chi ha
orecchi da intendere, intenda!”
17
“Ecco lì la navicella; laggiù, forse, finirà per andare nel grande Nulla. Ma chi vuole
imbarcarsi su questo 'forse'?
Nessuno di voi vuole imbarcarsi sulla barca della morte! Perché dunque volete essere
stanchi del mondo?
Stanchi del mondo! Non siete stati buoni a divenire neanche dei fuggiaschi dal mondo! Vi
ho trovato sempre desiderosi della terra, innamorati anche della vostra stessa stanchezza
terrestre!
Non per nulla il labbro vi pende: un piccolo desiderio terreno vi sta ancora sopra! E
nell'occhio, non ci nuota forse una nuvoletta di indimenticata gioia terrena?
Vi sono sulla terra molte buone invenzioni, le une inutili, le altre piacevoli: per cagion loro
la terra è da amare.
E diverse invenzioni sono, poi, così buone che sono come il seno della donna: utili e
piacevoli nello stesso tempo.
Ma voi, stanchi del mondo! Voi, poltroni terreni! Sarebbe bene farvi delle carezze con la
frusta! Per rendervi con colpi di frusta di nuovo agili le gambe.
Poiché, se non siete malate e decrepite creature di cui la terra è stanca, allora siete astuti
poltroni o ghiotti, sornioni gatti lascivi. E se non volete correre di nuovo allegramente,
allora dovete togliervi di mezzo!
Non si deve voler essere medico degli incurabili: così insegna Zarathustra: dunque,
toglietevi di mezzo!
Ma occorre più coraggio per farla finita che per fare un nuovo verso: questo lo sanno tutti
i medici e i poeti.'
18
“Fratelli miei, cl sono tavole create dalla stanchezza, e tavole create dalla putrida pigrizia:
anche se parlano in ugual maniera, vogliono essere ascoltate in modo diverso.
Guardate questo qui che sta languendo! E distante solo un palmo dalla sua mèta, ma per
la stanchezza si è' ostinatamente gettato a questo punto nella polvere: questo valoroso!
Per la stanchezza sbadiglia alla via e alla terra e alla mèta e a se stesso; non vuol muovere
più un passo, questo valoroso!
Ora il sole arde su di lui, e i cani leccano il suo sudore: ma lui giace nella sua ostinazione e
preferisce languire: 'languire, distante un palmo dalla sua mèta! E voi dovrete trascinano
per i capelli verso il suo cielo, questo eroe!
Meglio dunque che lo lasciate giacere lì dove si è adagiato, perché il sonno giunga a lui, il
consolatore, con un rinfrescante scroscio di pioggia: lasciatelo giacere lì, finché non si
svegli da sé, finché non rinnegherà da sé la stanchezza e ciò che la stanchezza gli ha
insegnato!
Soltanto, fratelli miei,- scacciate da lui i cani, gli sporchi ipocriti, e tutti i vermi brulicanti:
tutta la ciurmaglia brulicante degli 'uomini colti' che è sempre avida del sudore degli eroi!”
19
“ 'Traccio intorno a me cerchi e sacri confini; un numero di persone sempre più piccolo
ascende con me su montagne sempre più alte: costruisco una catena dl monti con sempre
più sacre montagne.
Ma ovunque voi salirete con me, fratelli miei: guardate che nessun parassita salga con voi!
Il parassita è un verme strisciante, che sì insinua e vuole ingrassare a spese dei vostri
punti deboli e malati.
Questa è la sua arte, che si accorge, spiando le anime che salgono verso l'alto, dei loro
punti fiacchi: e costruisce il suo nido schifoso nelle miserie e nelle debolezze, nelle vostre
tenere vergogne.
Dove il forte è debole, il nobile troppo generoso, lì egli costruisce il suo nido schifoso: il
parassita abita dove il grande ha i suoi piccoli punti deboli.
Qual è il modello più alto di ogni esistente e quale il più piccolo e basso? Ecco: il parassita
è il tipo più basso e stretto; ma chi appartiene alla più alta razza è anche colui che nutrisce
la maggior parte dei parassiti.
Egli è l'anima che ha la scala, più lunga per salire e per discendere più a fondo degli altri:
e come non dovrebbero assidersi su di lei proprio la maggior parte dei parassiti?
...l'anima più ampia, che può correre in se stessa più lontano e vagare ovunque vuole;
l'anima più imbevuta di necessità, e che per capriccio si precipita nel Caso: l'anima che è,
e che si precipita nel divenire; l'anima che possiede, e che vuole tuttavia precipitare nella
tensione e nel voler oltre: l'anima che fugge se stessa, ricongiungendosi a se stessa nel
più ampio giro; l'anima più saggia, che è anche la più dolce nel sussurrare la follia: l'anima
che più ama se stessa, nella quale tutte le cose trovano il loro flusso e riflusso, la loro alta
e bassa marea: oh, come dovrebbe la più alta anima non essere anche quella che alberga
i peggiori parassiti?”
20
“Fratelli miei, sono forse crudele? Ma io dico: a ciò che cade bisogna dare una spinta per
farlo andar giù!
La totalità presente, che cade, che sta andando in rovina: chi si sentirebbe di trattenerla!
Ma io, io voglio darle ancora una spinta!
Conoscete la voluttà di far precipitare le pietre negli abissi? Questi uomini di oggi:
guardateli come precipitano nelle mie profondità!
Io sono un preludio di migliori suonatori, o miei fratelli! Un esempio! Agite secondo il mio
esempio!
E a colui a cui voi non insegnate a volere, fatemi un piacere: insegnategli a cadere più
rapidamente!”
21
“Io amo gli ardimentosi: ma non basta essere degli spadaccini; bisogna anche saper
guardare a-chi-tocca!
E spesso c'è più valore nel contenersi e passar oltre: per risparmiarsi in vista di un nemico
più degno!
Dovete soltanto avere dei nemici da odiare, ma non da disprezzare: dovete essere
orgogliosi del vostro nemico: l'ho già detto una volta.
Dovete risparmiarvi, amici miei, per il nemico più degno: perciò è necessario che passiate
sopra a molte cose: particolarmente a molta gente, che vi frastorna le orecchie col popolo
e coi popoli.
Conservate puro il vostro occhio dai loro pro e contro! Molto v'è in essi di giusto, e molto
di ingiusto: a guardarli vien la rabbia!
Guardarci dentro e colpirci dentro è come una cosa sola: perciò andatevene nelle foreste e
mettete a dormire la vostra spada!
Andate per le vostre vie! E lasciate che il popolo e i popoli vadano per le loro! Sono vie
oscure, in verità, sulle quali non lampeggia una sola speranza!
Chi vi domina è il mercante, tutto ciò che ancora vi riluce è soltanto oro da bottegaio, vile
chincaglieria! Non è più tempo da re: quello che oggi si chiama popolo non se li merita.
Guardate come ormai questi popoli imitano il merciaio: si scelgono le più piccole particelle
di vantaggi da ogni letamaio!
Si spiano a vicenda, strappano sempre qualche segreto agli altri, e questo chiamano
'regole di buon vicinato'. Oh, felici tempi lontani, quando un popolo diceva soltanto: 'Voglio
essere signore dei popoli!'
Perché, o fratelli, il migliore deve dominare, il migliore vuole altresì dominare! E là dove la
dottrina dice altrimenti, è il migliore che manca.”
22
“Guai se quelli avessero il pane gratis! Contro che cosa essi potrebbero gridare! Il loro
sostentamento è il loro giusto divertimento; e debbono quindi ottenerlo con difficoltà!
Sono bestie da preda: nel loro 'lavorare' c'è ancora la rapina, nel loro 'guadagnare' c'è
ancora il raggiro! Perciò debbono ottenerlo con difficoltà!
Debbono divenire migliori belve, più fini, più astute, più simili all'uomo: l'uomo infatti è la
miglior belva che esista.
L'uomo ha già rubato a tutte le bestie le loro virtù: questo perché l'uomo si è trovato in
maggiori difficoltà di tutte le altre bestie.
Solo gli uccelli stanno sopra di lui. E se l'uomo imparasse anche a volare, guai! fin dove
mai non volerebbe la sua rapace bramosia!”
23
“Così io voglio l'uomo e la donna: abile in guerra l'uno, abile nel partorire l'altra, entrambi
abili nel danzare con la testa e con le gambe.
E valga come perduto per noi il giorno in cui non danzeremo almeno una volta! E falsa sia
da noi detta ogni verità che non rechi un sorriso!”
24
“Il vostro conchiudere le nozze: guardate che non sia un cattivo chiudere! Chiudete troppo
velocemente: e così ne consegue la rottura del matrimonio!
E tuttavia è sempre meglio rompere il matrimonio che piegarlo, mentire al matrimonio!
Una donna mi disse: 'Sì, ho rotto il matrimonio, ma prima il matrimonio ha infranto me!'
I male accoppiati ho sempre visto che sono i peggiori vendicativi: vogliono far scontare a
tutto il mondo il fatto di non poter più andare ognuno per conto suo.
Perciò io voglio che gli onesti dicano l'uno all'altro: 'Noi ci amiamo: lasciateci vedere se
possiamo continuare ad amarci! Dovrà forse la nostra promessa costituire uno sbaglio?
Concedeteci una dilazione e un breve matrimonio, per vedere se siamo abili al grande
matrimonio! È una cosa grave, essere sempre in due!'
Così consiglio a tutti gli onesti; e che cosa sarebbe dunque il mio amore per il Superuomo
e per tutto ciò che deve venire, se consigliassi e parlassi diversamente!
Perché, fratelli miei, il giardino del matrimonio non deve servire soltanto a propagare, ma
a salire!
25
“Chi divenne saggio sopra le antiche origini, ricercherà infine anche le fonti del futuro e
nuove origini.
Fratelli miei, non passerà molto tempo, che sorgeranno nuovi popoli e nuove fonti
precipiteranno verso nuovi abissi.
Il terremoto, che ricopre di terra molte fonti e crea molti morti di sete, porta alla luce
anche intime forze e cose nascoste.
Il terremoto scopre nuove sorgenti. Dal terremoto di antichi popoli erompono nuove
sorgenti.
E se qualcuno grida: 'Ecco una fontana per molti assetati, un cuore per molti nostalgici,
una volontà per molti strumenti': intorno a lui si assiepa una folla, cioè molti che ricercano.
Chi può comandare, chi deve obbedire: questo è ciò che là si cerca! Ahimè, quanto è
lungo il ricercare e il consigliare e lo sconsigliare e l'imparare e il ritentare!
La società umana è un tentativo, così io insegno, un lungo ricercare: cerca colui che
comanda!
Un tentativo, fratelli miei! E non un contratto! Spezzate, infrangete questa parola dei
teneri di cuore e delle mezze misure!”
26
“Fratelli miei! A causa di chi corre il maggior pericolo tutto l'avvenire dell'umanità? Non è
forse a causa dei buoni e dei giusti?
...e di coloro che sentono nel cuore e dicono: 'Noi sappiamo ciò che è buono e giusto, e lo
possediamo; guai a quelli che ancora lo ricercano!'
Per quanto danno possano fare i cattivi: il danno dei buoni è il più dannoso dei danni!
Per quanto danno possano fare i calunniatori del mondo: il danno dei buoni è il più
dannoso dei danni.
Fratelli miei, una volta uno guardò nel cuore dei buoni e dei giusti e disse: 'Sono farisei'.
Ma non fu compreso.
Gli stessi buoni e giusti non poterono capirlo: il loro spirito era prigioniero della loro buona
coscienza. La stoltezza dei buoni è imperscrutabilmente astuta.
Ma questa è la verità: i buoni devono essere farisei, non hanno scelta!
I buoni devono crocifiggere colui che si trova la sua propria virtù! Questa è la verità!
Ma il secondo che scoprì il loro paese, paese, cuore e regno terrestre dei buoni e dei
giusti, fu colui che domandò: 'Chi odiano di più?'
Essi odiano maggiormente il creatore: che frange le tavole e gli antichi valori,
l'infrangitore, che essi chiamano assassino.
I buoni, infatti, non possono creare: essi sono sempre il principio della fine: crocifiggono
colui che scrive molti valori su nuove tavole, sacrificano a se stessi l'avvenire, crocifiggono
ogni avvenire dell'umanità!
I buoni sono sempre stati il principio della fine.”
27
“Fratelli miei, avete capito anche questa parola? E ciò che io dissi un giorno sull'ultimo
uomo'?
A causa di chi corre il maggior pericolo tutto l'avvenire dell'umanità? Non è forse a causa
dei buoni e dei giusti?
Spezzate, infrangete i buoni e i giusti! Fratelli miei, avete capito anche questa parola?”
28
“Fuggite via da me? Siete spaventati? Tremate davanti a questa parola?
Fratelli miei, quando vi esortai a spezzare i buoni e le tavole dei buoni: allora soltanto io
imbarcai l'uomo per il suo alto mare. Allora subentra in lui il grande spavento, il grande
sgomento, il grande male, la grande nausea, il grande mal di mare. False rive e false
sicurezze vi hanno insegnato i buoni; nella menzogna dei buoni voi nasceste e vi credeste
al sicuro. Tutto, sin nel profondo, viene falsato e contorto dai buoni. Ma chi scoprì la terra
'uomo', scoprì anche la terra 'avvenire umano'. E voi dovete essere i miei navigatori prodi
e pazienti! Camminate dunque eretti, fratelli miei, imparate ad andare diritti! Il mare è in
burrasca: molti hanno bisogno di voi per risollevarsi.
' Il mare è tempestoso: tutto è in mare. Suvvia!
Orsù! Vecchi cuori di marinai!
Ma che terra dei padri! Il timone vuole piegare dove è la terra dei nostri figli, più
burrascosa del mare; verso questa si precipita la nostra grande brama!”
29
“Perché così duro?' disse un giorno al diamante il carbone da cucina. 'Non siamo forse
prossimi parenti?'
Perché così teneri? Fratelli miei, domando a voi: non siete voi fratelli miei?
Perché così teneri, così rammolliti e arrendevoli? Perché nei vostri cuori c'è tanta
negazione e rinnegamento? Così poco destino nei vostri sguardi?
E se non volete essere destino e inesorabilità, come potrete vincere?
E se la vostra durezza non vuole scintillare e tagliare e resecare: come potrete un giorno
creare con me?
I creatori sono duri. E beatitudine deve esser per voi imprimere le impronte delle vostre
mani nei millenni, come sulla cera, beatitudine, scrivere sulla volontà dei millenni come sui
bronzo, sul più duro bronzo, sul più nobile bronzo. È duro solo ciò che è supremamente
nobile.
Questa nuova tavola, fratelli miei, io sollevo sopra di voi: divenite duri!”
30
“O tu, mia volontà! Tu, svolta di ogni necessità, tu mia necessità! Salvami da tutte le
piccole vittorie!
Tu, missione della mia anima che io chiamo Destino! Tu, in me! Tu, sopra di me! Salvami
e serbami per un grande destino!
E l'ultima tua grandezza, mia volontà, serbatela per la tua ultima impresa, onde tu sia
inesorabile nella vittoria! Ahimè, chi non soggiacque alla sua vittoria!
Ahimè, a chi non si oscurò lo sguardo in quell'ebbro crepuscolo!
Ahimè, a chi non vacillò il piede, chi non disimparò a stare in piedi, nella vittoria!
Perché io un giorno sia pronto e maturo per il grande meriggio: pronto e maturo come
bronzo incandescente, nube gravida di folgore e mammella turgida di latte: pronto per me
stesso e per la mia volontà più recondita; un arco cupido della sua freccia, una freccia
cupida della sua stella: una stella, pronta e matura nel suo meriggio, incandescente,
trafitta, beata dinanzi ai distruttori raggi del sole: un sole essa stessa e una inflessibile
volontà solare, pronta a distruggere nella vittoria.
O volontà, tesa in ogni necessità, tu, mia necessità! Serbami per una grande vittoria!”
IL CONVALESCENTE
1
Un mattino, non molto dopo il suo ritorno nella caverna, Zarathustra balzò sù dal suo
giaciglio come un pazzo, gridando con voce terribile e dibattendosi, come se nel suo
giaciglio vi fosse stato, oltre a lui, qualcuno che non volesse levarsi, e così forte risuonava
la voce di Zarathustra che i suoi animali corsero a lui spaventati, e da tutte le caverne e
nascondigli prossimi alla caverna di Zarathustra, uscì fuori ogni specie di animali, volando,
svolazzando, strisciando, saltando secondo la natura dei loro piedi e ali. Allora Zarathustra
disse queste parole:
“Sorgi, pensiero abissale, dalle mie profondità! Sono il tuo gallo e la tua alba; o verme
addormentato: sù! sù! La mia voce ti risvegli!
Togli le bende dai tuoi occhi: obbedisci! Poiché io voglio ascoltarti! Sù! Sù! Qui c'è
abbastanza rumor di tuono perché anche i sepolcri imparino ad udire!
Allontana dai tuoi occhi il sonno e ogni ottusità e cecità! Ascoltami anche con i tuoi occhi:
la mia voce è un rimedio anche per i nati ciechi.
E quando sarai desto, dovrai restare eternamente desto. Non è nel mio carattere,
risvegliare dal sonno le bisnonne, per poi dir loro di riaddormentarsi!
Ti agiti, ti allunghi, rantoli? Sù! Sù! Non rantolare, devi parlarmi! Ti chiama Zarathustra,
l'ateo!
Io, Zarathustra, l'intercessore della vita, l'intercessore del dolore, l'intercessore del cerchio,
ti chiamo, o mio pensiero abissale!
Salute a me! Tu vieni, io ti sento! La mia profondità parla, sospingo verso la luce la mia
più fonda profondità!
Salute a me! Vieni! Dammi la mano! ah! lascia! ah! ah! schifo, schifo, schifo, guai a me.”
2
Ma appena Zarathustra ebbe detto queste parole, cadde riverso e giacque a lungo come
corpo morto. Quando ritornò in sé, era pallido e tremante e rimase sdraiato, e per lungo
tempo non volle né mangiare né bere.
In tale condizione rimase per sette giorni; ma i suoi animali non lo lasciavano né giorno né
notte, tranne l'aquila che volava via per andare a cercare il cibo. E ciò che prendeva e
predava lo poneva sul giaciglio di Zarathustra: così che Zarathustra alla fine giacque tra
bacche gialle e rosse, grappoli d'uva, mele rosa, erbe aromatiche e pine. Ai suoi piedi poi
giacevano due agnelli, che l'aquila aveva con fatica portato via alloro pastori.
Finalmente, dopo sette giorni, Zarathustra si sollevò dal suo giaciglio, prese in mano una
mela rosa, la odorò e trovò soave la sua fragranza. Allora i suoi animali credettero che
fosse giunto il momento di parlare con lui.
“O Zarathustra,” dissero “già da sette giorni tu giaci così, con occhi appesantiti dal sonno:
non vuoi rimetterti finalmente in piedi?
Esci fuori dalla tua caverna: il mondo ti attende come un giardino. Il vento gioca con grevi
profumi che vogliono venire a te; e tutti i ruscelli bramano correrti dietro.
Tutte le cose ardono di te che per sette giorni sei rimasto solo; esci fuori dalla tua
caverna! Tutte le cose vogliono essere tua medicina!
Forse che una nuova conoscenza è venuta a te, aspra e pesante? Hai giaciuto come una
pasta che lievita, mentre la tua anima gonfiava e traboccava.”
“O miei animali,” rispose Zarathustra “chiacchierate ancora così, e lasciate che io vi ascolti!
Il vostro chiacchierare mi rianima in tal modo che quando chiacchierate, il mondo mi
appare come un giardino.
Come è bello che esistano parole e suoni: non sono forse le parole e i suoni come
arcobaleni e ponti illusori fra ciò che è eternamente diviso?
Ad ogni anima appartiene un altro mondo; per ogni anima un'altra anima è un aldilà.
L'apparenza inganna proprio tra ciò che si somiglia; poiché l'abisso più piccolo è il più
difficile da colmare. Per me, come potrebbe esistere un fuori-di-me?
Non esiste fuori! Ma noi lo dimentichiamo non appena la voce risuona; com'è bello che noi
dimentichiamo!
Non sono stati assegnati alle cose nomi e suoni, perché l'uomo si ritrovasse nelle cose? È
una bella follia il parlare: con esso l'uomo danza sopra tutte le cose.
Come sono piacevoli ogni parlare e tutte le falsità dei suoni! Con i suoni, il nostro amore
danza su variopinti arcobaleni.”
“O Zarathustra,” dissero allora gli animali “per coloro che pensano come noi, tutte le cose
danzano di per se stesse: vengono e si porgono la mano e ridono e fuggono via, e
ritornano.
Tutto va, tutto ritorna; eternamente gira la ruota dell'esistenza. Tutto muore, tutto fiorisce
di nuovo; eternamente trascorre l'evo dell'esistenza.
Tutto si spezza, tutto si ricongiunge; eternamente l'esistenza si costruisce la stessa casa.
Tutto si accomiata, tutto si risalita; e così rimane eternamente fedele a se stesso l'anello
dell'esistenza.
In ogni istante comincia l'esistenza; intorno ad ogni 'qui' la palla gira 'là'. Il centro è
ovunque. Tortuoso è il sentiero dell'eternità.” [Allusione al pensiero induista e buddista]
“O buffoni e organetti!” rispose Zarathustra, e rise di nuovo. “Come sapete bene ciò che si
dovette compiere in sette giorni: e come quel mostro mi penetrò in gola per soffocarmi!
Ma io gli staccai con un morso la testa e la sputai lontano da me.
E voi, voi ne avete già fatto una canzone? Ma ora giaccio qui, stanco anche di quel morso
e del vomito, malato ancora della mia propria liberazione.
E voi state a guardare tutto ciò? Animali miei, siete anche voi crudeli? Avete voluto
assistere al mio grande dolore, come fanno gli uomini? L'uomo è infatti il più crudele degli
animali.
Fino ad oggi è stato la creatura più contenta della terra ogni volta che ha assistito alle
tragedie, ai combattimenti dei tori, alle crocefissioni; quando inventò l'inferno, esso fu il
suo paradiso in terra.
Quando l'uomo grande grida di dolore, il piccolo accorre in fretta e la lingua gli penzola
fuori fino al collo per il compiacimento. Ma dice che è 'compassione'.
Il piccolo uomo, in particolare il poeta, con quanta premura accusa con parole la vita!
Ascoltatelo, ma ascoltate anche la gioia che si nasconde in quel le accuse!
Questi accusatori della vita: la vita li soggioga con un batter di ciglia. 'Tu mi ami?' dice
l'insolente. 'Aspetta ancora un poco, per ora non ho tempo per te.'
L'uomo è contro se stesso il più crudele degli animali; ascoltate il piacere che si nasconde
nei lamenti e nelle accuse di tutti coloro che si dicono 'peccatori' e 'portatori di croce' e
'penitenti'!
Ma io stesso voglio forse con ciò essere accusatore dell'uomo? Ahimè, animali miei, questo
soltanto ho imparato fin qui, che all'uomo sono necessarie le sue cose peggiori per
raggiungere le sue migliori; che tutte le sue cose peggiori sono la sua miglior forza e la
pietra più dura per il supremo creatore; e che l'uomo deve diventare migliore e insieme
peggiore.
Non sono stato inchiodato a questo legno di martirio per avere saputo che l'uomo è
cattivo, ma perché ho gridato, come nessuno aveva ancora gridato:
'Ahimè, che quanto in lui è più malvagio è ancora piccola cosa! Ahimè, che le sue cose
migliori sono ancora poca cosa!'
Il grande schifo per l'uomo, questo è ciò che mi ha mozzato il fiato e mi è sceso giù per la
gola: e ciò che disse l'indovino: 'Tutto è uguale, niente vale la pena, il sapere uccide'.
Un lungo crepuscolo mi venne zoppicando davanti, una tristezza ebbra e mortalmente
stanca, che mi parlò sbadigliando. 'Eternamente l'uomo ritorna, colui di cui tu sei stanco, il
piccolo uomo.' La mia tristezza sbadigliò e trascinava la gamba e non poteva
addormentarsi.
La massa umana in caverna si trasformò ai miei occhi, il suo petto si incavò, tutto quanto
è vivo mi sembrò un putridume umano e una massa di ossa e di marcio passato.
I miei sospiri si posavano su tutti i sepolcri degli uomini, e non potevano più rialzarsi; i
miei sospiri e i miei interrogativi gracidavano e strozzavano e scavavano e lamentavano di
giorno e di notte:
'Ahimè, l'uomo ritorna eternamente! Il piccolo uomo ritorna eternamente!'
Nudi li avevo un giorno visti entrambi, l'uomo più grande e l'uomo più piccolo: troppo
simili l'uno all'altro, troppo umano anche il maggiore di essi!
Troppo piccolo il più grande! Questa era la mia ripugnanza dell'uomo! Ed anche del più
piccolo c'è un eterno ritorno! E provavo così una grande ripugnanza per tutto l'esistente!
Oh, schifo! schifo! schifo!” Così parlava Zarathustra, e sospirava e inorridiva; perché si
ricordava della sua malattia. Ma i suoi animali non lo lasciarono continuare.
“Non parlare più oltre,” o tu che stai guarendo!” gli risposero i suoi animali. “Ma va' fuori,
là dove il mondo ti attende simile ad un giardino.
Va' fuori verso le rose e le api e gli stormi delle colombe! E specialmente verso gli uccelli
cantori: affinché tu impari da loro il cantare!
Cantare è appunto cosa per convalescenti; il sano può parlare. E anche se il sano vuol
canti, li vuole tuttavia diversi da quelli che desidera il convalescente.”
“O voi, buffoni e organetti, tacete dunque” rispose Zarathustra, e sorrise dei suoi animali.
“Come sapete bene quale conforto io abbia scoperto per me in sette giorni!
Che io debba di nuovo cantare, questo è il conforto che ho scoperto per me, e questa è la
mia convalescenza: volete trarne forse di nuovo una canzone?”
“Non parlar oltre” gli ribatterono i suoi animali; “ma piuttosto, o convalescente, fabbricati
una nuova lira, un nuovo strumento!
Perché vedi, Zarathustra: per i tuoi nuovi canti c'è bisogno di una nuova lira.
Canta e trabocca, o Zarathustra, cura con nuovi canti la tua anima: onde tu possa
sopportare il tuo grande fato, che non fu ancora quello di alcun uomo!
Perché i tuoi animali lo sanno bene, o Zarathustra, chi tu sei e devi divenire: vedi, tu sei il
maestro dell'eterno ritorno: questo è il tuo fato! [La dottrina dell'eterno ritorno è l'estrema
e più alta intuizione di Nietzsche, che le dedicò molte pagine in tutte le sue ultime opere]
Il fatto che tu per primo debba insegnare questa dottrina: come non dovrebbe questo
grande tuo destino non costituire anche il tuo maggior pericolo e la tua più grave malattia!
Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con
loro, e che noi già siamo stati un'infinita quantità di volte, e tutte le cose con noi.
Tu insegni che c'è un grande eone del divenire, un grande mostruoso eone: che simile ad
un orologio a polvere, deve continuamente capovolgersi per vuotarsi sempre di nuovo: per
modo che tutti questi anni cosmici sono simili a se stessi, nel grande e nel piccolo, e noi
stessi siamo simili sempre di nuovo a noi stessi in ogni eone, nel grande come nel piccolo.
E se tu ora volessi morire, o Zarathustra: vedi, noi sappiamo anche come tu in tal caso
parleresti a te stesso; ma i tuoi animali ti pregano di non morire ancora!
Tu parleresti senza tremare, anzi respirando di felicità: poiché ti sarebbero stati tolti di
dosso un grande peso e una grande afa, o pazientissimo!
'Ora io muoio e mi dissolvo,' tu diresti 'e in un attimo non sono più nulla. Le anime sono
altrettanto mortali come i corpi.
Ma il nodo delle cause nelle quali io sono avvolto, ritorna e mi rifarà di nuovo! Io stesso
appartengo alle cause dell'eterno ritorno.
Io ritorno, ritornerò ancora, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con
questo serpente; ma non per una nuova vita o una vita migliore o una vita consimile:
ritornerò di nuovo eternamente per condurre questa medesima vita, nel grande come nel
piccolo, e insegnare ancora l'eterno ritorno di tutte le cose: per pronunciare ancora la
parola del grande meriggio della. terra e dell'uomo, ed annunciare di nuovo agli uomini il
Superuomo.
Ho detto la mia parola e della mia parola io perisco: così vuole il mio eterno destino; come
annunciatore io vado incontro al mio crepuscolo!
L'ora è venuta, che colui che tramonta impartisca a se stesso la sua benedizione. Così
finisce il tramonto di Zarathustra'.“
Quando gli animali ebbero pronunciato queste parole, tacquero. e attesero che
Zarathustra dicesse loro qualche cosa: ma Zarathustra non li udì neanche tacere. Stava
immobile, con gli occhi chiusi, simile ad un dormiente, anche se addirittura non dormiva:
perché in realtà stava parlando con la propria anima. Il serpente e l'aquila, quando lo
videro così silenzioso, rispettarono il grande silenzio che lo circondava e cauti si
allontanarono.
DELLA GRANDE NOSTALGIA
“O mia anima, io ti ho insegnato a dire 'oggi' come 'un giorno' e 'una volta' e a danzare in
giro la tua danza sopra ogni Qui e Là e Laggiù.
O mia anima, ti ho liberato da tutti i nascondigli, ho spazzato via da te la polvere, i ragni e
la penombra.
O mia anima, ho lavato da te il piccolo pudore e il cantuccio della virtù e ti ho convinta a
porti nuda davanti agli occhi del sole.
Con la tempesta, che si chiama 'spirito', io ho soffiato sopra il tuo mare ondoso; ne ho
spazzato via tutte le nuvole, e ho strozzato l'impiccatore, che si chiama 'peccato'.
O mia anima, io ti ho dato il diritto di dir No come la tempesta, e di dire Sì, come dice Sì il
cielo aperto: e tu stai immobile come la luce e passi attraverso le bufere negatrici.
O mia anima, io ti ho reso la libertà su tutto il creato e non creato: chi conosce, come tu la
conosci, la voluttà dell'avvenire?
O mia anima, io ti ho insegnato il disprezzo, non quello che sopraggiunge come un verme
roditore, ma il grande, amoroso disprezzo, che tanto più ama là ove più spregia.
O mia anima, io ti ho insegnato a convincerti in modo da radicare in te anche: la
convinzione delle cause: simile al sole, che induce il mare a credere alla sua altezza.
O mia anima, io ho tolto da te ogni obbedienza inginocchiamento e invocazione al Signore;
ti ho dato io stesso il nome di 'svolta del destino' e 'fato'.
O mia anima, io ti ho dato nuovi nomi e variopinti meccanismi, ti ho chiamato 'fato' e
'ampiezza delle ampiezze' e 'cordone ombelicale del tempo' e 'campana azzurra'.
O mia anima, al tuo regno terrestre ho dato da bere tutta la sapienza, tutti i nuovi vini ed
anche tutti i vini incredibilmente vecchi e forti della sapienza.
O mia anima, ogni sole io ho versato su di te e ogni notte e ogni silenzio e ogni nostalgia:
e tu mi sei cresciuta come un albero di vita.
O mia anima, ecco che tu stai davanti a me straordinariamente ricca e pesante, una vigna
con mammelle gonfie e densi grappoli d'oro bruno: densi e carichi della tua felicità, tutti
un'attesa di eccesso e tuttavia nel pudore dell'attesa.
O mia anima, non c'è in nessun luogo un'anima più amante, comprensiva e ampia! Dove
mai si incontrano e si congiungono meglio che in te passato e futuro?
O mia anima, io ti ho dato tutto, e tutte le mie mani si sono vuotate per te: e ora! Ora tu
mi dici sorridendo e piena di malinconia: 'Chi di noi deve ringraziare?
Non ha da ringraziare il donatore per colui che ha ricevuto? Non è il donare una necessità?
Non è il prendere un gesto di compassione?'
O mia anima, io comprendo il sorriso della tua malinconia: la tua stessa ricchezza
eccessiva tende ora mani imploranti!
La tua pienezza volge gli occhi sopra mari tempestosi e cerca e attende; la nostalgia della
pienezza rifulge dal cielo sorridente del tuo occhio!
E in verità, o mia anima! chi vedendo il tuo sorriso non si scioglierebbe in lacrime? Gli
angeli stessi si sciolgono in lacrime per la bontà enorme del tuo sorriso.
È la tua bontà e l'eccesso delle tue bontà, che non vogliono lamentarsi né piangere: e
tuttavia il tuo sorriso, o mia anima, si protende verso le lacrime e la tua bocca trema verso
il singhiozzo.
'Non è ogni pianto un lamento? E non è ogni lamento un'accusa!'
Così tu dici a te stessa, e perciò tu vuoi, o anima mia, piuttosto sorridere che scaricare la
tua pena; scaricare in lacrime cocenti tutta la tua pena per la tua pienezza e per tutto il
bisogno che ha la vigna del potatore e del falcetto del potatore!
Ma se tu non vuoi piangere né sfogare nel pianto la tua purpurea malinconia, dovrai pur
cantare, o mia anima! Vedi, sorrido io stesso predicendoti questo:
cantare, con canto ebbro, finché tutti i mari si calmino per ascoltare la tua nostalgia,
finché sopra tutti i mari della nostalgia plani il vascello, il miracolo d'oro, per il cui oro tutte
le buone, cattive, singolari cose sobbalzano; anche molte grandi e piccole specie animali, e
tutto ciò che ha strani piedi leggeri da poter correre per sentieri viola-zzurri, verso quel
miracolo d'oro, il libero vascello e il suo signore: ma questi è il potatore, che attende, con
falcetto di diamante, il tuo grande liberatore, o mia anima, il senza nome, a cui solo i canti
del futuro troveranno un nome! E invero già il tuo alito profuma di canti futuri, già tu ardi
e sogni, già bevi assetata a tutte le canore profonde fontane consolatrici, già riposa la tua
malinconia nella felicità dei canti futuri!
O mia anima, ora ti ho dato tutto e anche l'ultima delle mie cose, e tutte le mie mani si
sono vuotate per te: e che io ti abbia esortato a cantare, ecco, questa è l'ultima delle mie
azioni!
Che io ti abbia esortato a cantare, dillo, dillo tu: chi di noi ha ora da ringraziare? Ma
dunque: cantami, canta, anima mia! E lascia che io ti ringrazi!”
Così parlò Zarathustra.
LA SECONDA CANZONE A BALLO
1
“Or è poco ho guardato nel tuo occhio, o vita: e ho visto luccicare l'oro nella tua pupilla
notturna; il mio cuore si è fermato per la voluttà: ho visto luccicare un vascello d'oro su
acque notturne, una barca dondolante d'oro che annegava, si imbeveva d'acqua, e
ritornava sù di nuovo a dondolare!
Hai gettato uno sguardo verso il mio piede ebbro di danza, uno sguardo dondolante
ridente interrogante dissolvente: due volte soltanto hai mosso le tue nacchere con le tue
piccole mani; e già il mio piede oscillava d'ebbrezza danzante.
I miei talloni s'impennavano, e le dita dei miei piedi si tendevano per intenderti: perché il
danzatore ha il suo orecchio nelle dita dei suoi piedi.
Sono balzato verso di te: allora tu ti sei ritratta davanti al mio salto; e contro di me ha
lingueggiato la lingua della tua chioma volante!
Ed io sono balzato lontano da te e dalle tue serpi: e tu ti sei immobilizzata davanti a me,
rivolta a mezzo verso di me con l'occhio pieno di desiderio.
Con sguardo ambiguo, tu mi insegni vie ambigue; e per vie ambigue impara il mio piede le
astuzie!
Io temo la tua vicinanza, amo la tua lontananza; la tua fuga mi attrae, il tuo cercarmi mi
blocca: lo soffro, ma che cosa non soffrirei volentieri per te!
Il cui gelo infiamma, il cui odio avvince, la cui fuga lega, la cui irrisione commuove.
Chi non ti odierebbe, o grande legatrice, allettatrice, tentatrice, cercatrice, ritrovatrice! Chi
non ti amerebbe, o peccatrice innocente, impaziente, sfuggente, dagli occhi di fanciullo!
Dove mi trai ora, tu fiore e demonio? Ed ora tu mi sfuggi di nuovo, o dolce scapestratezza
e ingratitudine!
Io danzo sul tuo ritmo, ti seguo anche nella più piccola traccia. Dove sei tu? Dammi la
mano! O anche solo un dito.
Qui sono caverne e folteti: ci smarriremo! Ferma! Arrestati! Non vedi ronzare civette e
scoiattoli? Tu civetta! E tu scoiattolo! Mi vuoi fare il verso?
A che punto siamo? Dai cani hai imparato ad ululare e a guaire.
Mi hai digrignato graziosamente in faccia i tuoi dentini bianchi, i tuoi occhi malvagi sono
balzati contro di me dal fondo del pelame ricciuto!
È una danza sfrenata: io sono il cacciatore; vuoi tu essere il mio cane o il mio camoscio?
Stammi accanto! Presto, maligna saltatrice! E ora sù! Avanti! Guai, anche io sono stato
preso nei tuoi salti!
Oh, guarda come giaccio, mio orgoglio, e come invoco pietà! Volentieri andrei con te per
più amabili sentieri!
Sentieri dell'amore attraverso tranquilli cespugli variopinti! O là, lungo il mare, ove
nuotano e danzano pesci d'oro!
Sei ora stanca? Lassù pascolano capre e tramonti: non è bello dormire se i pastori
suonano flauti? Sei tanto stanca? Lascia che io ti porti, abbandona le braccia sui fianchi! E
se hai sete, io avrei quale cosa, ma la tua bocca non vuole bere!
Oh, la dannata guizzante serpe che scivola nei buchi! Dove sei andata? Sul volto io sento
due tocchi della tua mano che vi lascia impronte rosse! Sono veramente stanco di essere
sempre il tuo stolto pastore! Tu strega, finora ho cantato per te; ora tu devi metterti a
urlare!
Sulla battuta della mia frusta devi danzare e urlare! Non ho dimenticato la frusta, vero?
No!”
2
“Allora la vita mi rispose in questo modo, turandosi le sue graziose orecchie:
'O Zarathustra! Non far tanto fracasso con la tua frusta! Tu lo sai: il fracasso uccide i
pensieri, e proprio ora mi vengono tanti teneri pensieri.
Entrambi siamo due veri inutili, buoni a nulla nel bene e nel male. Al di là del bene e del
male abbiamo trovato la nostra terra promessa e il nostro prato verde: noi due soltanto!
Perciò dobbiamo essere buoni l'uno con l'altro!
E se anche non ci amiamo proprio del tutto, dobbiamo forse mettere il broncio, se non ci
si ama proprio del tutto?
Che io sono buona e spesso troppo buona lo sai bene: e la ragione è che io sono gelosa
della tua saggezza. Ah, questa vecchia pazza della saggezza!
Se tu una volta perdessi davvero la tua saggezza, allora ti sfuggirebbe presto anche il mio
amore'.
A questo punto la vita guardò pensosa dietro a sé e intorno a sé e disse piano: 'O
Zarathustra, tu non mi sei abbastanza fedele!
Tu non mi ami quanto tu dici; io so che tu pensi di dovermi presto abbandonare.
C'è una vecchia pesante pesante campana rumorosa: che di notte fa fracasso col suo
rumore fino alla tua grotta: se tu senti questa campana battere l'ora a mezzanotte, tra
l'una e la mezzanotte, tu pensi, pensi, o Zarathustra, lo so, di volermi lasciare!'
'Sì,' risposi esitando 'ma tu sai anche...' E le dissi qualcosa all'orecchio, lì tra le sue gialle
trecce disordinate e pazzerelle.
'Tu lo sai, Zarathustra? Non lo sa nessuno.'
Ci siamo guardati, e abbiamo volto gli occhi al verde prato, su cui scorreva appunto la
fresca sera, e abbiamo pianto insieme. Allora mi era più cara la vita di tutta la mia
saggezza.”
Così parlò Zarathustra.
3
UNO!
O uomo! Ascolta!
DUE! Che dice la profonda mezzanotte?
TRE! “Dormii, dormii,
QUATTRO!
da un sogno profondo son risorta:
CINQUE!
il mondo è fondo,
SEI!
e più profondo che non pensi il giorno.
SETTE!
Fonda è la pena,
OTTO!
la gioia più fonda del dolore:
NOVE! la pena dice: passa!
DIECI!
Ma ogni gioia vuole l'eternità,
UNDICI! vuole profonda, fonda eternità!”
DODICI!
I SETTE SIGILLI
(ovvero: la canzone del Sì e dell'Amen)
“Se io sono un indovino, pieno di quello spirito profetico che erra su alti gioghi montani tra
due mari, e scorre tra il passato e l'avvenire come una pesante nuvola, nemico delle
opprimenti bassure e di tutto ciò che è stanco e non può né vivere né morire: pronto
nell'oscuro petto alla folgore e al raggio di luce liberatore, carico di lampi che dicono Sì!
che arridono Sì!, alle profetiche saette: ed è beato chi è così gravido! E in realtà, deve a
lungo pendere sopra ai monti come cupa nube, colui che vorrà un giorno accendere la
luce dell'avvenire!
Come potrei non essere in brama di eternità e dell'anello degli anelli; dell'anello nuziale
dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero aver figli, tranne questa donna che
io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
“Se la mia ira ha spezzato i sepolcri, ha rimosso le pietre terminali e ha gettato in abissi
scoscesi le antiche tavole spezzate:
se il mio scherno ha soffiato via le putrefatte parole e io sono come una scopa per i ragni
crociati e vento che spazza via le antiche ammuffite camere sepolcrali:
2
“Se mi sono seduto esultante dove giacciono gli antichi dèi, benedicendo il mondo,
amando il mondo proprio vicino ai monumenti dei calunniatori de mondo: se amo persino
le chiese e i sepolcri degli dèi, quando il cielo guarda con chiaro occhio attraverso le loro
volte scoperchiate; e volentieri mi siedo come l'erba e il rosso papavero sui templi
diroccati; come potrei non ardere i brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello
nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che
io amo: perché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
3
“Se è giunto a me un alito dell'alito creatore e di quella celeste necessità, che costringe
anche il caso a danzare la danza delle stelle: se ho riso del baleno creatore, a cui
borbottando, ma obbediente, segue il lungo tuono dell'azione: se ho giocato ai dadi con gli
dèi, alla tavola degli dèi, che è la terra, finché la terra tremò e crepò e ne sprizzò un
torrente di fuoco: poiché la terra è la tavola degli dèi, e vibrante per le nuove parole
creatrici e per il divino lancio di dardi: come potrei non ardere di brama per l'eternità e per
l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterna ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero aver figli, tranne questa donna che
io amo: perché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
4
“Se ho bevuto a pieni sorsi a quella spumosa coppa profumata, in cui sono confuse tutte
le cose: se mia mano ha versato il remoto nel prossimo, e il fuoco nello spirito e la gioia
nel dolore e il pessimo nell'ottimo: se io stesso sono un chicco di quel sale liberatore, che
fa sì che tutte le cose si mescolino bene nella bocca: poiché c'è un sale che lega il bene
con il male; e anche l'ingrediente peggiore è necessario per l'aroma e per l'estremo
trabocco: come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello
nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che
io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
5
“Se sono affezionato al mare e a tutto ciò che ha la natura del mare, e gli sono tanto più
legato quanto più esso mi contraddice furiosamente: se è in me quel piacere del ricercare,
che spinge la vela verso ciò che è ancora inesplorato, se nel mio piacere c'è un piacere di
marinaio: se il mio giubilo grida: 'La costa è scomparsa, l'ultima catena è caduta,
l'immensità freme intorno a me, spazio e tempo brillano lontano; bene! va avanti! vecchio
cuore!' come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello
nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che
io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
6
“Se la mia virtù è la virtù di un danzatore, e io spesso sono balzato con entrambi i piedi
nell'estasi dorata e smeraldina: se la mia malvagità è una malvagità sorridente, che sta tra
i declivi di rose e le siepi dei gigli: nel riso infatti è raccolto ogni male, ma santificato e
assolto attraverso la propria beatitudine: se è il mio Alfa e Omega che tutto ciò che è
pesante divenga leggero, ogni corpo danzatore e ogni spirito uccello: e in realtà, questo è
il mio Alfa e Omega!
Come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale
dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che
io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”
7
“Se ho disteso sopra di, me cieli quieti e volteggiato con le mie ali nei miei propri cieli: se
giocando ho nuotato in profonde lontananze di luce ed è giunto l'uccello-saggezza della
mia libertà: così parla l'uccello-saggezza: 'Vedi, non c'è né Sopra né Sotto! Lanciati per
ogni dove, avanti, indietro, o tu leggero! Canta! non parlar più!
Tutte le parole sono forse fatte per i pesanti? Tutte le parole non sono forse menzogna
per il leggero? Canta! non parlar più!'
Come potrei non ardere dl brama per l'eternità e, per l'anello degli anelli, l'anello nuziale
dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che
io amo: poiché io amo te, o eternità!
Perché ti amo, o eternità!”
QUARTA PARTE
L'UOMO PIÙ BRUTTO
E di nuovo passarono mesi e anni sull'anima di Zarathustra, e lui non ci badava; ma i suoi
capelli diventavano bianchi. Un giorno, mentre stava seduto su un masso fuori della sua
caverna e guardava in silenzio davanti a sé - guardava là fuori sul mare e andava oltre i
tortuosi abissi - i suoi animali, dopo aver girato a lungo intorno a lui, alla fine gli si
fermarono dinanzi.
O Zarathustra - dissero - stai forse guardando per la tua felicità? Che cosa importa la
felicità! egli rispose. Già da tempo io non miro più alla felicità: miro solo alla mia opera. O
Zarathustra - dissero ancora gli animali - tu dici queste cose come uno a cui le cose vanno
anche troppo bene. Non giaci forse in un ceruleo lago di felicità? Pazzi burloni - rispose
Zarathustra ridendo - come avete ben scelto la similitudine! Voi sapete anche che la mia
felicità è pesante e non è come un'onda fluente: mi incalza e non vuole lasciarmi, e
assomiglia alla pace liquefatta.
Allora gli animali fecero ancora pensierosi un giro intorno a lui e gli si fermarono di nuovo
dinanzi. O Zarathustra - dissero - per questo dunque avviene che tu diventi sempre più
giallo e scuro, anche se i tuoi capelli cercano di apparire bianchi di lino? Vedi dunque, che
tu siedi nella tua sfortuna! Che cosa dite mai, animali miei? - disse Zarathustra, e ne rise.
In verità, ho bestemmiato quando ho parlato della pace. Come accade a me, così avviene
a tutti i frutti che divengono maturi. C'è il miele nelle mie vene, che rende il mio sangue
più spesso e anche più quieta la mia anima. Sarà così, o Zarathustra - risposero gli
animali, e gli si strinsero intorno - ma non vuoi oggi salire su un alto monte? L'aria è pura,
e si può scorgere più mondo che non mai. Sì, animali miei - rispose - voi mi consigliate di
cuore ottimamente: voglio oggi salire su un alto monte! Ma badate che lassù il miele mi
sia a portata di mano, giallo, bianco, buono, aureo miele fresco di favo. Perché sappiate
che io voglio compiere lassù il sacrificio del miele.
Ma quando Zarathustra fu sulla vetta, mandò a casa gli animali che lo avevano
accompagnato e si trovò solo: allora rise di tutto cuore, si guardò attorno e parlò così:
Che io abbia parlato di sacrificio e del sacrificio del miele, è stata soltanto un'astuzia del
mio discorso e, in realtà, un'utile follia! Quassù m'è permesso parlare più liberamente che
davanti alle caverne degli eremiti e agli animali domestici degli eremiti.
Sacrificare che cosa! Io voglio prodigare ciò che mi è stato donato, io prodigo dalle mille
mani: come potrei dunque chiamare questo un sacrificio!
E anche quando ho richiesto del miele, ho desiderato soltanto un'esca, un dolce miele, un
succo verso cui tendono anche gli orsi e gli strani cattivi uccelli brontoloni: l'esca migliore,
come occorre ai cacciatori e ai pescatori. Poiché se il mondo è come un'oscura foresta di
animali e un giardino di delizia per tutti i selvaggi cacciatori, a me sembra piuttosto un
mare ricco e imperscrutabile, un mare pieno di pesci variopinti e di crostacei, dei quali
avrebbero tanta voglia anche gli dèi, da farsi pescatori e gettatori di reti: così ricco è il
mondo di strane cose grandi e piccole!
Specialmente il mondo degli uomini, il mare degli uomini: in cui io lancio ora il mio amo
dorato e grido: apriti, abisso umano!
Apriti e gettami i tuoi pesci e i tuoi crostacei scintillanti! Con la mia migliore esca voglio
oggi prendere all'amo i più strani pesci umani!
La mia stessa fortuna io getto via per ogni larghezza e lontananza, tra l'oriente, il
mezzogiorno e il ponente, per vedere se ad essa non impareranno ad attaccarsi molti
pesci umani, finché, abboccando al mio amo aguzzo e nascosto, dovranno lasciarsi tirar sù
alla mia altezza, i variopinti abitatori degli abissi; sù, fino al più malvagio di tutti i pescatori
di uomini.
Questo infatti sono io fin dal fondo e dal principio, trascinante, attirante, sollevante, un
attivatore, un educatore, un allevatore e un correttore, che una volta non disse invano a
se stesso: 'Divieni colui che tu sei!'
.Così possano gli uomini venire d'ora in poi quassù da me: poiché io aspetto ancora il
segno che è il tempo della mia discesa; non ancora discendo io stesso, come debbo fare
una volta, tra gli uomini.
Aspetto qui, astuto e beffardo sulle alte montagne, né impaziente, né paziente, anzi, come
uno che abbia disimparato anche la pazienza, perché non è più uno che 'sopporta'.
Il mio destino infatti mi lascia tempo: mi ha forse dimenticato? O se ne sta seduto dietro
un grande masso, all'ombra, a chiappare le mosche?
In realtà, io sono grato per questo al mio eterno destino, che non mi insegue e non mi
incalza, ma mi lascia tempo per le sciocchezze e le malignità: tanto che io oggi sono salito
su questo alto monte per fare addirittura una pesca.
Ha mai un uomo preso pesci su un alto monte?
E anche se è una follia ciò che io voglio compiere quassù: meglio questa follia piuttosto
che divenire laggiù solennemente verde e giallo per l'attesa; uno che recalcitra e freme di
rabbia per l'attesa, una santa mugghiante bufera sulle montagne, un impaziente che grida
a valle: 'Ascoltate, o vi frusterò con il flagello di Dio!'
Non che io me la prenda per questo con tali iracondi: essi sono tanto buoni da farmi
addirittura ridere! Ma debbono essere impazziti, questi grandi strepitanti tamburi, che oggi
potranno parlare o mai più!
Sennonché, io e il mio destino non parliamo all'oggi, non parliamo neanche al giammai:
noi abbiamo pazienza e tempo in abbondanza per parlare. Poiché una volta quegli dovrà
ben venire e non potrà aver fine.
Chi dovrà un giorno venire e non potrà aver fine? Il nostro grande Hazar, il nostro grande
lontano regno dell'Uomo, il regno millenario di Zarathustra.
Quanto può essere lontana questa 'lontananza'? Che m'importa! Non è perciò meno sicura,
con entrambi i piedi io sto saldo su questa base, su un'eterna base, sulla dura pietra
originaria, questa altissima e durissima montagna primordiale, su cui convengono tutti i
venti come su uno spartivento, e chiedo dove? Donde? Verso dove?
E tu ridi, ridi, mia chiara, schietta malvagità! Dagli alti monti rovescia giù il tuo crepitante
riso di ironia! Ed attirami con il tuo luccichio i più begli uomini-pesce!
E ciò che in tutti i mari mi appartiene, ciò che è in sé e per sé mio in tutte le cose,
pescamelo fuori, conducimelo sù: lo attendo, il più maligno di tutti i pescatori.
Fuori, fuori miei ami! Dentro, giù, esche della mia felicità! Vedi la tua più dolce rugiada, o
miele del mio cuore! Mordi, mio amo, il ventre di tutta la nera tribolazione!
Fuori, fuori, mio occhio! Oh, quanti mai mari intorno a me, quali crepuscoli di umani tempi
a venire! E sopra di me, quale rosea calma! Qual silenzio senza nubi!
IL GRIDO DI DOLORE
Il giorno seguente sedeva di nuovo Zarathustra sulla sua pietra davanti alla grotta, mentre
gli animali là fuori se ne andavano per il mondo, per portare a casa nuovo cibo, ed anche
nuovo miele: poiché Zarathustra aveva consumato il vecchio miele fino all'ultimo grano.
Ma mentre in tal modo stava seduto con uno stecco in mano, e tracciava sul terreno il
contorno dell'ombra della sua figura, meditando non certo su di sé e la sua ombra,
sobbalzò d'un tratto ed ebbe un brivido: perché vide accanto alla sua anche un'altra
ombra. E come d'un tratto si guardò intorno e si levò in piedi, ecco che vide accanto a sé
l'indovino, quel medesimo che egli un giorno aveva accolto, nutrito e dissetato alla sua
tavola, l'annunciatore della grande stanchezza, il quale insegnava: Tutto è uguale, nulla
vale la pena, il mondo è senza senso, il sapere strozza. Ma il suo volto si era frattanto
trasformato; e quando Zarathustra lo guardò negli occhi, il suo cuore ne ricevette di nuovo
spavento: tanti cattivi preannunci e grigi lampi percorrevano quel volto.
L'indovino, che si accorse di ciò che trascorreva nell'animo di Zarathustra, si passò la
mano sulla faccia, come se volesse levar via le tracce; e la medesima cosa fece anche
Zarathustra. E quando entrambi in tal modo si furono in silenzio ripresi e furono per così
dire tornati in sé, si diedero la mano, in segno di volersi veramente riconoscere.
Sii benvenuto - disse Zarathustra - tu, profeta della grande stanchezza, non devi essere
stato invano un giorno ospite alla mia tavola. Mangia e bevi anche oggi con me e perdona
se un vecchio uomo allegro e contento siede con te! Un vecchio uomo allegro e contento?
rispose l'indovino, tentennando il capo. Ma ciò che tu sei lo vuoi essere, o Zarathustra, lo
sei stato da infinito tempo quassù; il tuo vascello tra breve non starà più in secca. Sto
forse in secca? chiese Zarathustra ridendo. Le onde intorno alla tua montagna - rispose
l'indovino - salgono e montano, le onde del grande dolore e della grande contrizione:
presto solleveranno anche la tua barchetta ,e ti trascineranno via. Zarathustra tacque a
quel punto, e si meravigliò. Non senti ancora nulla? continuò l'indovino. Come vien sù
rumore e mormorio dall'abisso? Zarathustra continuò a tacere e si mise ad ascoltare:
allora udì un lungo, lungo grido, che gli abissi si rimandavano l'un l'altro perché nessuno lo
voleva trattenere: tanto suonava malvagio.
O malvagio annunciatore - disse infine Zarathustra - questo è un grido di dolore, il grido di
un uomo che certamente giunge da un nero mare. Ma che cosa importa a me del dolore
dell'uomo! Il mio ultimo peccato, che mi rimase risparmiato, sai tu come si chiama?
Compassione! rispose l'indovino dalla pienezza del suo cuore, e sollevò entrambe le mani.
O Zarathustra, io vengo per condurti verso il, tuo ultimo peccato!
Appena ebbe dette queste parole, risuonò di nuovo echeggiando il grido, più a lungo e più
angoscioso che mai, e molto più vicino. Senti? ascolti, o Zarathustra? gridò l'indovino. Il
grido è per te, te chiama: vieni, vieni, vieni! è tempo, è giunto il momento!
Zarathustra tacque, confuso e scosso; infine chiese, come uno che indugia in se stesso: E
chi è colui, che mi chiama?
Ma tu lo sai già - rispose subito l'indovino. - Perché simuli? È l'Uomo Superiore, che ti
chiama!
L'Uomo Superiore! gridò Zarathustra, preso da orrore. Che vuol costui? Che vuol costui?
L'Uomo Superiore. Che vuole qui? e la sua pelle si copriva di sudore.
L'indovino non - rispose allo spavento di Zarathustra, ma continuava ancora ad ascoltare,
tendendo l'orecchio verso l'abisso. Ma dopo che ebbe taciuto per un pezzo, rivolse lo
sguardo e vide Zarathustra che stava in piedi e tremava.
O Zarathustra - cominciò con voce mesta - tu non stai in piedi come uno che la sua felicità
fa danzare: tu dovrai danzare, attento a non cadere morto!
Ma se tu anche volessi danzare davanti a me e saltare tutti i tuoi capricci, nessuno mi
deve ancora venire a dire: 'Ecco, è l'ultimo uomo contento che danza!'
Invano giungerebbe qualcuno a questa altitudine per cercarlo: troverebbe grotte e
retrogrotte, nascondigli e nascondigli, ma non miniere di gioia né camere di tesori né
nuove vene d'oro di felicità.
Felicità: come potrebbe trovarsi la felicità presso sepolti vivi e solitari di questo genere!
Devo forse andare a cercare l'ultima felicità nelle Isole Felici e lontano fra dimenticati
mari?
No. Tutto è uguale, nulla vale la pena, non serve alcun cercare, non ci sono neanche più
Isole Felici!
Così sospirava l'indovino; ma al suo ultimo sospiro, Zarathustra divenne di nuovo lucido e
sicuro, simile ad uno che da una profonda caverna vien sù alla luce. No! no! no! - gridò
con voce forte, carezzandosi la barba. Questo lo so meglio io! Vi sono ancora Isole Felici!
Non parlare di ciò, tu, tristo sacco di sospiri!
Smetti di chiacchierarne, tu nuvola di pioggia antimeridiana! Non ci sono io qui, bagnato
della tua tribolazione, fradicio come un cane?
Ora io mi scuoto e me ne vado, per asciugarmi: non sorprenderti per questo! Ti sembro
forse scortese? Qui è la mia corte.
E per quanto riguarda il tuo uomo Superiore: bene! Lo cerco subito in quelle foreste: di là
giunse il grido. Forse lo spaventa un animale malvagio.
È nel mio regno: e qui non mi deve far del male! Davvero ci sono molti cattivi animali
presso di me.
Con queste parole Zarathustra si voltò per andarsene. Allora disse l'indovino: O
Zarathustra sei un briccone! Lo so già: ti vuoi liberare di me! Faresti meglio a correre nei
boschi e dar la caccia ai cattivi animali!
Ma che cosa si può fare con te? A sera dovrai pur ristare con me; nella tua caverna verrò
a sedermi, paziente e pesante come un macigno e ti attenderò!
E sia! gridò Zarathustra di nuovo, nell'atto di andarsene. Ciò che è mio nella mia caverna
appartiene anche a te, ospite e amico mio!
Ma tu dovresti trovarvi ancora del miele, bene! E allora leccalo, tu brontolone, e addolcisci
la tua anima! Stasera vogliamo esser bene disposti l'uno con l'altro, cordiali e lieti, perché
il giorno sarà finito! E tu stesso devi danzare sui miei canti come il mio orso ammaestrato.
Non ci credi? Scuoti la testa? Bene! Bene! Vecchi orso mio! Ma anche io sono un indovino.
Così parlò Zarathustra.
CONVERSAZIONE CON I RE
1
Zarathustra non era ancora da un'ora in cammino pei suoi monti e boschi che ad un tratto
vide uno strano corteo. Proprio per la via per la quale era incamminato, giungevano due re
adorni di corone e di cinture purpuree, variopinti come fenicotteri: e spingevano davanti a
sé un asino carico. Che vogliono questi re nel mio regno? disse Zarathustra sorpreso al
suo cuore, e si nascose subito dietro un cespuglio. Ma quando i re gli passarono davanti,
esclamò, a mezza voce, come uno che parla soltanto a se stesso: Strano! strano! Ma come
possono stare insieme queste cose? Due re, vedo, e solo un asino!
Allora i due re si fermarono, sorrisero, volsero l'occhio verso il punto da cui proveniva la
voce, e si guardarono reciprocamente in volto. Cose di questo genere le pensiamo anche
fra di noi, disse il re che stava alla destra - ma non le diciamo.
Il re che stava alla sinistra scosse le spalle e rispose: Può essere un pastore di pecore
oppure un solitario che ha vissuto troppo tempo fra alberi e rocce. Non avere nessuna
compagnia guasta anche i buoni costumi.
I buoni costumi? ribatté di mala voglia e amaro l'altro re. Ma da chi vogliamo fuggire? Non
forse appunto dai 'buoni costumi'? dalla nostra 'buona società'?
Meglio in verità vivere tra eremiti e pastori che in mezzo alla nostra falsa plebe dorata e
azzimata, anche se si dice 'buona società'; anche se si proclama 'nobiltà'. Perché tutto è in
essa falso e marcio, e prima di ogni cosa il sangue, grazie a vecchie, brutte malattie e più
brutti guaritori.
Il migliore e più gradito oggi è per me un sano contadino, rozzo, astuto, tetragono,
caparbio: questa è oggi la specie migliore.
Il contadino è oggi l'uomo migliore; ed è la razza dei contadini che dovrebbe dominare!
E invece domina la plebe; ma io non mi faccio ingannare. Plebe significa: guazzabuglio.
Guazzabuglio plebeo: tutto vi è sottosopra, una confusione di santi e di imbroglioni e di
nobilotti e di giudei e d'ogni altra specie del bestiame dell'arca di Noè.
Buoni costumi! Tutto da noi è falso e marcio. Nessuno sa più adorare: proprio costui
sfuggiamo. Sono dolciastri cani appiccicosi, e indorano le foglie di palma.
Lo schifo mi assale per il fatto che anche noi re siamo divenuti falsi, carichi di paccottiglia
e travestiti col vecchio lusso ingiallito dei vecchi nonni, coperti di medaglie false per i più
sciocchi e per i più furbi e per tutti coloro che oggi comunque mercanteggiano con la
forza!
Non siamo i primi, eppure dobbiamo rappresentare: di questa impostura ne abbiamo piene
le tasche.
Alla massa siamo sfuggiti, a tutti questi starnazzatori e scribacchiatori, mosche noiose,
puzzo di mercatura, smanacciate d'orgoglio, cattivo fiato; pfui, vivere tra la massa, pfui,
far la parte dei primi tra la massa! che schifo! che schifo! che schifo! Che cosa rimane a
noi re!
Ecco che ora ti riprende la tua vecchia malattia - disse a questo punto il re di sinistra - ti
sopraffà lo schifo, mio povero fratello. Ma tu sai bene che uno ci sta ascoltando.
Subito Zarathustra, che aveva aperto tanto d'orecchi e d'occhi a questi discorsi, si alzò dal
suo nascondiglio e si presentò ai re:
Chi vi ascolta, e vi ascolta volentieri, o voi re, si chiama Zarathustra.
Io sono Zarathustra che una volta disse: 'Che rimane ancora ai re?' Perdonatemi, ma io mi
sono rallegrato quando dicevate tra di voi: 'Che cosa rimane a noi re?'
Sennonché, qui è il mio regno e la mia signoria: che state cercando nel mio regno? Forse
però avete trovato per strada ciò che io vo cercando: l'Uomo Superiore.
Quando i re udirono questo, si batterono il petto ed esclamarono ad una voce: Siamo
scoperti!
Con la spada di questa parola tu squarci la notte scura del nostro cuore. Tu hai scoperto la
nostra angoscia, perché, vedi, siamo in cammino per cercare l'Uomo Superiore; l'uomo che
stia al di sopra di noi: anche se noi siamo re.
A lui vogliamo condurre quest'asino. L'Uomo Superiore deve essere appunto sulla terra
anche il più alto signore.
In tutti i destini umani non c'è peggiore disgrazia che se i potenti della terra non sono
anche i primi tra gli uomini. Tutto in tal caso diventa falso, distorto e mostruoso.
Ché se sono gli ultimi, e più bestie che uomini, ecco che la plebaglia aumenta di prezzo, e
infine la virtù plebea si leva ad affermare: 'Io soltanto sono la virtù!'
Che ho udito mai? rispose Zarathustra. - Quanta saggezza nei re! Sono estasiato, e proprio
mi fa piacere farci sopra una rima; anche se verrà fuori una rima non adatta alle orecchie
di ognuno. È già da tanto tempo che ho perduto la stima per le orecchie lunghe. Bene!
Avanti!
(Ma a questo punto successe che anche l'asino prese a parlare: e disse chiaramente e di
cattiva voglia: I-A.)
Un giorno - nell'anno uno di salute
la sibilla parlò piena di vino:
Guai, tutto va a rovescio!
Male! Il mondo non scese mai più in basso!
Puttana è Roma, e nido di puttane;
Bestia è l'imperatore, e Dio un giudeo!
2
All'udire queste rime di Zarathustra i re si divertirono molto; ma il re di destra disse: O
Zarathustra, come abbiamo fatto bene a metterci in cammino per vederti!
I tuoi nemici, infatti, ci mostrarono la tua immagine nei loro specchi: dove tu apparivi con
la maschera di un demonio e con un'aria canzonatoria: così che noi avevamo paura di te.
Ma a che cosa è giovato! Sempre ci pungevi le orecchie e il cuore con le tue sentenze. E
alla fine dicemmo: che cosa ci importa il suo aspetto!
Noi dobbiamo ascoltare lui, lui che insegna: 'Voi dovete amare la pace soltanto come
mezzo per nuove guerre, la pace breve più che la lunga!'
Nessuno pronunciò mai parole più guerriere:
'Che cosa è buono? Essere valorosi è buono. La buona guerra è ciò che santifica ogni
cosa'.
O Zarathustra, il sangue dei nostri padri si mescolò a queste parole nel nostro corpo: fu
come la voce della primavera per le vecchie botti di vino.
Quando le spade si intrecciavano simili a serpi dalle macchie rosse, allora i nostri padri
trovavano bella la vita; ogni sole di pace sembrava loro debole e tiepido, e la lunga tregua
faceva loro vergogna.
Come sospiravano, i nostri padri, quando alle pareti vedevano scintillare le lucide spade
asciutte!
Come esse, erano assetati di guerra. Una spada infatti scintilla dal desiderio di bere
sangue.
Mentre i re in tal modo parlavano e chiacchieravano con fervore della felicità dei loro
padri, Zarathustra fu preso da una gran voglia di prendere in giro quel loro accalorarsi:
poiché quei re davanti a lui erano chiaramente pacifici, con i loro volti vecchi e raffinati.
Ma si trattenne. Bene! disse. - La strada conduce lassù dove si trova la caverna di
Zarathustra; questo giorno deve avere una lunga sera! Senonché, ora un grido di aiuto mi
chiama lontano da voi.
Sarà onorata la mia caverna, se voi re vorrete sedervi in essa ed aspettarmi: ma, certo,
dovreste aspettare a lungo!
Ciò nondimeno, che importa! Dove oggi si impara meglio ad aspettare che a corte? E tutta
la virtù che è rimasta ai re, non si chiama oggi: 'saper attendere'?
Così parlò Zarathustra.
LA SANGUISUGA
E Zarathustra proseguì pensieroso più oltre, addentrandosi nei boschi e passando per
terreni paludosi; e come accade a coloro che riflettono su cose gravi, pose il piede senza
accorgersene su un uomo. Ed ecco che ad un tratto un grido di dolore e due bestemmie e
venti parole ingiuriose gli spruzzarono in viso: così che lui, spaventato, alzò il bastone e
picchiò colui che già aveva calpestato. Poi subito riflette; e il suo cuore rise della
sciocchezza che aveva fatto.
Perdona - disse al calpestato, che rabbioso si era rialzato e seduto - perdona; e ascolta
anzitutto una similitudine.
Come un viandante che sognando cose lontane, all'improvviso in una strada solitaria
inciampa in un cane che dorme, un cane che giace al sole: come allora entrambi sono
presi da rabbia e si assalgono, come nemici mortali, tutti e due spaventati a morte: così è
accaduto a noi.
E tuttavia! Tuttavia, quanto poco mancò che non si accarezzassero, quel cane e quel
solitario! Non sono forse entrambi solitari?
Chiunque tu possa essere - disse sempre rabbioso il calpestato - mi calpesti ora anche con
la tua similitudine, e non soltanto con il tuo piede! Guardami, sono forse un cane? Così
dicendo si sollevò ed estrasse dalla palude il suo braccio nudo. Prima infatti giaceva
allungato al suolo, nascosto e irriconoscibile, simile a coloro che spiano la selvaggina
palustre.
Ma che cosa stai facendo? gridò Zarathustra spaventato, poiché aveva visto che dal
braccio nudo fluiva molto sangue. Che cosa ti è successo? Ti ha morso, infelice, una bestia
malvagia?
Il sanguinante sorrise, ma sempre furioso. Che cosa ti importa! esclamò, e fece per
andarsene. Qui sono a casa mia e nei miei confini. Mi può interrogare chi vuole: ma
difficilmente risponderò a uno sciocco.
Ti sbagli - disse Zarathustra pietosamente, e lo tenne fermo; - ti sbagli: qui non sei a casa
tua, bensì nel mio regno, e non voglio che nessuno, qui, subisca danno.
Ma comunque chiamami come vuoi; io sono colui che devo essere. E mi chiamo
Zarathustra.
Vedi! Lassù la strada conduce alla caverna di Zarathustra: essa non è lontana; non vuoi
curare presso di me le tue ferite?
Ti è andata male in questa vita, o infelice: prima ti ha morso la bestia, e poi ti ha
calpestato l'uomo!
Come colui che era stato calpestato udì il nome di Zarathustra, si mutò in volto. Che cosa
mi accade! esclamò. Di chi mi importa ancora in questa vita, se non di questo solo, di
Zarathustra, e di un animale che vive di sangue, la sanguisuga?
Per amore delle sanguisughe, io giacevo qui in questa palude come un pescatore, e già il
mio braccio era stato esposto per dieci volte al morso, quando la più bella sanguisuga è
venuta a succhiare il mio sangue, Zarathustra stesso! O felicità! O meraviglia! Sia lodato
questo giorno che mi ha attirato in questa palude! Sia lodata la miglior ventosa vivente,
sia lodata la grande sanguisuga della coscienza, Zarathustra! Così parlò il calpestato; e
Zarathustra si rallegrò delle sue parole e del modo fihe e rispettoso con cui le aveva
proferite. Chi sei? domandò, e gli porse la mano. - Tra noi due rimangono da chiarire e
rasserenare molte cose: ma già, mi sembra, spunta un chiaro, luminoso giorno.
Io sono il coscienzioso dello spirito, - rispose l'interrogato, - e nelle cose dello spirito non
c'è nessuno più severo, scrupoloso e duro di me, tranne colui a dal quale io ho appreso,
Zarathustra stesso. Meglio non sapere che sapere molte cose a metà!
Meglio essere un pazzo di propria testa, che un saggio a discrezione altrui! Io vado al
fondo: che cosa importa se esso è grande o piccolo? Se si chiama palude o cielo? Mi è
sufficiente un fondo largo una mano: purché sia proprio fondo a dovere! Un fondo largo
come una mano: anche su di esso si può stare in piedi. Nella giusta coscienza del sapere
non c'è né grande né piccolo.
Così tu sei forse il conoscitore della sanguisuga? domandò Zarathustra. - E segui la
sanguisuga fino nel fondo estremo, o coscienzioso?
O Zarathustra, rispose il calpestato - questa sarebbe un'enormità: come potrei osare ciò?
Io sono maestro e conoscitore di ciò che è il cervello della sanguisuga: questo è Il mio
mondo! Ed è certo un mondo! Ma permetti che qui il mio orgoglio prenda la parola, poiché
in ciò io non ho miei pari. Per questo ho detto che qui sono a casa mia.
Da quanto tempo vado dietro a quest'unica cosa, il cervello-della sanguisuga, perché la
viscida verità non mi scivoli più di mano! Qui è il mio regno!
Per questo ho gettato via tutto il resto, per questo tutto il resto m'è divenuto indifferente;
accanto alla mia saggezza giace la mia nera ignoranza.
La mia coscienza delle cose dello spirito esige questo da me, che io sappia una sola cosa e
ignori tutto il resto: mi fanno schifo tutti i mediocri dello spirito, tutti i vaporosi, i vacillanti,
gli esaltati.
Dove la mia lealtà cessa, io sono cieco e voglio anche esser cieco. Ma dove voglio sapere,
voglio essere anche leale, cioè duro, severo, limitato, crudele, inesorabile.
Ciò che tu dicesti un giorno, o Zarathustra: 'Spirito è la vita, che incide se stessa nella
vita', questo mi attrasse e mi condusse verso la tua dottrina.
E in realtà è con il mio stesso sangue che ho accresciuto il mio sapere!
Come infatti si vede - lo interruppe Zarathustra; - poiché il sangue fluiva ancora dal
braccio nudo del coscienzioso. Dieci sanguisughe vi si erano attaccate.
O tu, strano compagno, quante cose mi insegna questo spettacolo, cioè la tua presenza!
Non tutto forse potrei riversare nei tuoi orecchi severi!
Ebbene! Separiamoci qui! Ma desidererei volentieri ritrovarti. Lassù la strada conduce alla
mia caverna: questa notte tu devi essere il mio ospite gradito!
Volentieri desidererei fare del bene al tuo corpo, poiché Zarathustra ti ha calpestato con il
piede: ci sto pensando. Ma ora un grido di dolore mi chiama lontano da te.
Così parlò Zarathustra.
IL MAGO
1
Ma quando Zarathustra ebbe girato intorno ad una rupe, allora vide, non lontano sotto di
sé, sulla sua stessa strada, un uomo che si dibatteva come un ossesso e infine cadde
bocconi a terra. Alto là! disse Zarathustra al suo cuore. Quello deve essere proprio l'Uomo
Superiore, dal quale mi giungeva quel tristo grido di dolore; voglio vedere se posso
aiutarlo. Ma come arrivò sul luogo dove l'uomo giaceva, trovò un vecchio tremante con gli
occhi sbarrati; e per quanto Zarathustra si affaticasse per sollevarlo e metterlo di nuovo in
piedi sulle sue gambe, i suoi sforzi furono vani. L'infelice neppure si accorse che qualcuno
era accanto a lui: continuava a guardarsi intorno con atteggiamento disperato come uno
abbandonato da tutto il mondo. Ma alla fine dopo molto tremare, scuotersi e smaniare,
cominciò a lamentarsi così:
Chi mi riscalda, chi ancora mi ama?
Datemi calde mani!
Date un braciere al cuore!
Allungato al suolo, assalito da brividi,
simile a un moribondo cui si scaldano i piedi,
scosso e percosso, ahimè! da ignota febbre,
e tremando di acute punte e gelo,
da te inseguito, pensiero!
Occulto! innominabile! tremendo!
Tu, cacciatore in corsa dietro le nubi!
Folgorato da te,
occhio sprezzante, che guata dal buio: così io giaccio qui,
mi piego, mi torco, e sono tormentato
dagli eterni martiri,
colpito io sono ormai
da te, tremendo cacciatore Iddio,
da te, mio ignoto Nume!
Colpisci ancora più a fondo!
Colpisci ormai per bene!
Fora, frangi il mio cuore!
A che questo martirio
mio con frecce spuntate?
Ché torni tu a guardare,
e sempre a tormentare
coi tuoi divini occhi lampeggianti?
Non uccidere vuoi,
solo martirizzare?
A che sacrificarmi,
o tu, maligno, sconosciuto Iddio?
Ah! dunque vieni fuori?
In questa mezzanotte
che vuoi tu dunque?
parla! Tu mi spingi e comprimi,
sei già troppo vicino!
Va' via! Va' via!
Senti tu ch'io respiro,
ascolti il cuore mio,
tu, geloso, perché dunque geloso?
Va' via! Perché la scala
porti? vuoi tu lì dentro,
nel fondo del mio cuore
discendere, e laggiù, nei più segreti
pensieri penetrare?
Tu, spudorato! sconosciuto! ladro!
Che vuoi tu trafugare?
Che vuoi tu qui ascoltare?
Che vuoi tu tormentare,
tormentatore mio,
tu, carnefice-Iddio?
O debbo io, pari al cane,
rotolarmi a te innanzi?
Ebbro, fuori di me,
scodinzolarti amore?
Invano! Colpisci ancora,
orrendo pungiglione!
Non un cane; tua selvaggina io sono,
crudele cacciatore!
Tuo prigione più altero,
o predone che stai
dietro le nubi!
Parla! Che vuoi tu, grassatore, mai da me?
Tu nei fulmini avvolto! Ignoto! Parla:
che vuoi qui mai, tu, sconosciuto Iddio?
Come? Un riscatto?
Che vuoi tu per riscatto?
Pretendi molto - questo ti consiglia il mio orgoglio e parla breve, ancora!
Ah, ah! Vuoi tu Me?
Me, tutto me?
Ah, ah!
E mi torturi, folle che tu sei,
martirizzi il mio orgoglio?
Dà amore a me; chi ancora mi riscalda?
Chi m'ama ancora? Dammi calde mani!
Dammi bracieri al cuore,
dona a me, solitario,
a cui anche il ghiaccio, un settemplice ghiaccio,
insegna già ad amare,
ad amare persino i suoi nemici,
dona, sì, dona,
terribile nemico, te a me!
Via dunque!
È fuggito anche lui,
il mio ultimo e solo mio compagno,
il mio grande nemico,
lo sconosciuto mio
carnefice-Iddio!
No! Torna indietro,
con tutti i tuoi martìri!
All'ultimo eremita
ritorna tu ancora!
Tutti i torrenti del mio pianto corrono
a fiotti verso te!
E l'ultima fiammata del mio cuore
fiammeggia per te!
Oh, torna ancora,
mio sconosciuto Iddio! Mio dolore! Ultima mia felicità!
2
Ma a questo punto Zarathustra non poté trattenersi più a lungo, prese il bastone e colpì a
tutta forza colui che si lamentava. Basta! gli gridò con un riso corrucciato. Basta,
commediante! Falsario! Bugiardo! Io ti conosco bene! Io ti voglio riscaldare le gambe, o
malvagio mago, so bene come si fa a riscaldare tipi come te! Smetti ribatté il vecchio e si
tirò sù da terra; non picchiare più, o Zarathustra! Ho fatto così solo per gioco! Cose di
questo genere appartengono al mio mestiere; volevo metterti alla prova, quando ti ho
dato questo saggio! E, in realtà, tu hai visto bene in fondo ame! r
Ma anche tu non mi hai dato una non piccola prova di te: tu sei duro, o saggio
Zarathustra! Colpisci duramente con le tue 'verità'; il tuo bastone mi strappa questa verità!
Non adulare rispose Zarathustra, ancor sempre eccitato e accigliato; tu, commediante da
capo a piedi! Sei falso: che cosa parli di verità!
Pavone dei pavoni, mare di vanità, che cosa hai recitato davanti a me, o malvagio mago, a
chi dovevo credere mentre tu ti lamentavi in tal forma?
Io recitavo la parte del penitente dello spirito, disse il vecchio uomo: tu stesso inventasti
un giorno questa parola; il poeta e il mago che infine volge contro se stesso il suo spirito,
il trasfigurato che muore assiderato per la sua cattiva sapienza e coscienza.
E confessa dunque, o Zarathustra: c'è voluto tempo finché tu giungessi a scoprire la mia
arte e la mia bugia! Tu hai creduto nel mio bisogno, quando mi tenevi sollevata la testa
con entrambe le mani, ti udivo gemere: 'Lo si è amato troppo poco, troppo poco!' Che io ti
avessi ingannato fino a tanto, di ciò si rallegrava la mia malvagità.
Tu potrai avere ingannato anche dei più astuti di me, disse duro Zarathustra. Io non sto in
guardia contro gli ingannatori, devo evitare la prudenza: così vuole il mio destino.
Invece tu devi ingannare: per quanto ti conosco! Bisogna interpretarti in due, tre, quattro
e cinque modi! Anche ciò che tu ora hai confessato, non è secondo me né abbastanza
vero né abbastanza falso!
Malvagio falsificatore, come potresti fare altrimenti! Truccheresti anche la tua malattia, se
dovessi mostrarti nudo al tuo medico.
Così hai truccato la tua menzogna quando hai detto: 'L'ho fatto soltanto per gioco!' No,
invece c'era anche della serietà, tu sei - fra l'altro anche un penitente dello spirito!
Io indovino quel che tu sei: ti sei mostrato a tutti come un incantatore, ma per te non hai
più né bugie né astuzia; per te sei un disincantato!
Come tua unica verità hai raccolto schifo. Nessuna parola in te è schietta, ma solo la tua
bocca: cioè lo schifo che è attaccato alla tua bocca.
Chi sei dunque? gridò allora il vecchio mago con voce arrogante. Chi può parlare così a
me, il più grande di coloro che oggi vivono? E dai suoi occhi lanciò un lampo verde su
Zarathustra. Ma subito si trasformò, e disse tristemente:
O Zarathustra, io sono stanco, ho schifo delle mie magie, non sono un grande; perché
fingere a me stesso? Ma tu lo sai: io ho comunque cercato la grandezza!
Ho voluto rappresentare la parte di un grande uomo e ho convinto molti: ma questa
menzogna ha finito per vincere le mie forze. Contro di lei mi sono infranto.
O Zarathustra, tutto è menzogna in me, ma che io sia infranto, questo è vero!
Ti fa onore - disse Zarathustra cupo e chinando lo sguardo a terra di lato - ti fa onore aver
cercato la grandezza, ma anche ti tradisce. Tu non sei un grande.
Vecchio mago malvagio, questa è la tua cosa migliore e più onesta, ciò che io onoro in te,
che tu ti sia stancato di te e abbia confessato: 'Io non sono grande'.
Perciò ti onoro come un penitente dello spirito: e anche se soltanto per il soffio di un
attimo, per quel solo attimo tu sei stato onesto.
Ma dimmi, che cosa cerchi qui fra le mie foreste e rocce? E quando mi ti sei posto sul
cammino, quale prova volevi da me? in che cosa mi volevi tentare?
Così parlò Zarathustra, e i suoi occhi scintillavano. Il vecchio mago tacque un momento,
poi disse:
Ti ho tentato! Io cerco soltanto.
O Zarathustra, io cerco un sincero, un giusto, un semplice, un univoco, un uomo di tutta
rettitudine, un vaso di saggezza, un santo della conoscenza, un grande uomo!
Non sai dunque, o Zarathustra? Io cerco Zarathustra.
A questo punto si sospese un lungo silenzio tra i due: Zarathustra si immerse
profondamente in se stesso, così che chiuse gli occhi. Ma poi, ritornando al suo
interlocutore, afferrò la mano del mago e disse, pieno di gentilezza e malizia:
Ebbene! Lassù la strada conduce dove si trova la caverna di Zarathustra. Là tu puoi
cercare chi desideri trovare.
Domanda consiglio ai miei animali, alla mia aquila e al mio serpente: essi possono aiutarti
a cercare. Ma la mia caverna è grande.
Io stesso, in verità, non ho ancora visto un uomo grande. Per tutto ciò che è grande,
anche l'occhio dei più raffinati oggi è grossolano! È il regno della plebe.
Ho incontrato già più d'uno che si allungava e si gonfiava, e il popolo gridava: 'Ecco un
grand'uomo!' Ma a che cosa servono i mantici! Alla fine il vento scappa fuori.
Alla fine scoppia la rana che si è troppo gonfiata: e il vento sfugge. Bucare la pancia di un
presuntuoso, ecco un bel trastullo. Ascoltate, ragazzi!
Questo è il giorno della plebe: chi sa ancora ciò che è grande e ciò che è piccolo? Chi ha
cercato la grandezza con fortuna! Un pazzo soltanto: solo i pazzi sono fortunati.
Tu cerchi i grandi uomini, o pazzo bizzarro? Chi ti ha insegnato? E oggi tempo per questo?
O malvagio cercatore, perché mi tenti?
Così parlò Zarathustra, sollevato - nel cuore, e ridendo andò avanti per la sua strada.
FUORI SERVIZIO
Ma non molto tempo dopo che Zarathustra s'era liberato del mago, scorse di nuovo
qualcuno che sedeva lungo la strada per la quale andava, e precisamente un uomo alto e
nero con un volto pallido e smunto: e francamente ne rimase molto turbato. Guai - disse
al suo cuore: ecco che là sta seduta l'inquietudine mummificata; mi sembra quasi della
specie dei preti: che vogliono essi nel mio regno?
Come! Appena sono sfuggito a quel mago: ed ora deve venirmi a tagliare la strada un
altro artefice d'arti magiche, una specie di maestro di stregoneria e guaritore, un oscuro
facitore di miracoli da parte di Dio, un unto del Signore, un rinnegatore del mondo, che se
lo possa prendere il diavolo!
Ma il diavolo non è mai al posto dove dev'essere: giunge sempre troppo tardi, questo
maledetto nano e diavolo zoppo!
Così malediva Zarathustra, impaziente nel suo cuore, e stava meditando come fare a
sfuggire torcendo lo sguardo via dall'uomo nero: ma guarda un po', le cose andarono in
un altro modo. Nel medesimo istante quell'uomo seduto l'aveva scorto; e non
diversamente da chi si imbatte in una felicità inattesa, s'alzò e andò diritto come un razzo
verso Zarathustra.
Sia chi tu sia, vagabondo - gli disse - porgi aiuto ad un disgraziato, un cercatore, un
vecchio uomo, ché altrimenti gli capita qualche guaio!
Questo mondo mi è estraneo e lontano, e vi ho sentito anche ululare delle belve; e colui
che mi avrebbe potuto offrire un rifugio non c'è più.
Stavo cercando l'ultimo uomo pio, un santo ed anacoreta, che, solo nella sua foresta, non
abbia udito ancora nulla di ciò che oggi sa ognuno.
Che cosa sa oggi ognuno? - chiese Zarathustra.
Su per giù questo, che il vecchio Dio a cui un giorno ognuno credeva, non c'è più?
Tu lo dici - rispose turbato il vecchio. - E io che ho servito questo vecchio Dio fino
all'ultima ora!
Ma ora sono fuori servizio, senza Signore, e tuttavia non sono libero, né allegro neanche
per una ora, neppure se mi perdo nei ricordi.
Perciò sono salito su queste montagne, per farmi infine da me stesso una festa di quelle
che garbavano ai vecchi papi e padri della chiesa: perché, se lo vuoi sapere, io sono
l'ultimo papa! Una festa, dico io, di pie ricordanze e servizi divini.
Senonché, ora è morto anche lui, l'uomo più pio, quel santo della foresta che
continuamente lodava il suo dio con canti e mormorii.
Non l'ho trovato più, quando ho ritrovato la sua capanna; però c'erano dentro due lupi che
ululavano lamentando la sua morte, perché tutti gli animali lo amavano. Allora me ne sono
andato.
Son dunque venuto invano in queste foreste e montagne? ho pensato. Allora il mio cuore
si è deciso a cercarne un altro, il più religioso di tutti coloro che non credono in Dio; cioè a
cercare Zarathustra!
Così parlò il vecchio, e guardò con occhio attento colui che gli stava davanti; ma
Zarathustra afferrò la mano del vecchio papa e stette a lungo a guardarlo ammirato.
Vedi là, tu, santità - esclamò poi - che mano bella e lunga! È la mano di un individuo che
ha sempre dispensato benedizioni. Ma ora la tiene stretta colui che tu cerchi, cioè io,
Zarathustra.
Io stesso sono l'ateo Zarathustra, che parla, e chi è più ateo di me che io possa rallegrarmi
di quanto egli mi dice?
Così parlò Zarathustra e penetrava con i suoi sguardi i pensieri e i segreti interiori del
vecchio papa. Infine questi incominciò a dire:
Chi più lo amava e possedeva, ecco che più lo ha perduto: ecco, sono forse ora io stesso
di noi due il più ateo? Ma chi potrebbe di ciò rallegrarsi?
Tu l'hai servito fino in fondo - chiese Zarathustra pensoso, dopo un profondo silenzio. - Sai
tu come morì? È vero ciò che si dice, che sia morto di compassione, per aver visto come
l'uomo pendeva sulla croce, e non aver sopportato che l'amore per l'uomo divenisse il suo
inferno e infine la sua morte?
Il vecchio papa non rispose, ma guardò obliquo con un'espressione dolorosa e cupa.
Lascialo andare - disse Zarathustra dopo una lunga meditazione, durante la quale sempre
teneva l'occhio fisso nell'occhio del vecchio.
Lascialo andare; ormai non c'è più. E anche se ti fa onore che tu non dica se non bene di
questo morto, tuttavia sai altrettanto bene quanto lo so io chi egli era, e che percorse
degli strani sentieri.
Detto a tre occhi - disse argutamente il vecchio papa (perché era cieco da un occhio) -
nelle cose di Dio ne so più io dello stesso Zarathustra; e può ben essere così. Il mio amore
ha servito a lui per tanti anni, la mia volontà ha fatto sempre quanto lui voleva. Un buon
servitore sa tutto, e sa anche le cose che il suo padrone spesso nasconde a se stesso.
Era un Dio nascosto, pieno di segreti. Per dir la verità, ad avere un figlio ci arrivò per vie
traverse. Alla soglia del suo Credo ci sta un adulterio.
Chi lo celebra come un dio d'amore non ha una grande opinione dell'amore. Non voleva
forse questo dio fare anche il giudice? Ma chi ama, ama al di là del premio e della pena.
Quando era giovane, questo dio asiatico era duro e vendicativo e si costruì un inferno a
tutto divertimento dei suoi cari.
Alla fine divenne vecchio e tenero e frollo e compassionevole, più simile ad un nonno che
ad un padre, ma rassomigliante più di tutto ad una vecchia nonna tentennante. - Stava lì,
cadente, nell'angolo della sua stufa, lamentandosi delle sue gambe deboli, stanco di tutto,
senza più volontà, finché un giorno venne meno per la sua troppa compassione.
Tu, vecchio papa - insinuò a questo punto Zarathustra - hai visto tutto ciò con i tuoi occhi?
Perché potrebbe essere andata così: così, ma anche in altro modo. Quando gli dèi
muoiono, muoiono sempre di specie diverse di morte.
Tuttavia! Così o in altro modo, così o cosà, è finito! A me faceva schifo sia a sentirlo che a
vederlo; non potrei dir niente di peggio su di lui.
Io amo tutto ciò che guarda e parla schietto e chiaro. Ma lui - tu lo sai, vecchio prete,
perché qualcosa del tuo tipo, del tipo del prete, in lui c'era - era malfido.
Ed anche poco chiaro. E come se la prendeva con noi, quel borbottone, perché non lo
comprendevamo bene! E allora, perché non parlava più chiaro?
E se la colpa era delle nostre orecchie, perché non ci aveva dato delle orecchie più adatte
a cornprenderlo? E se dentro ci avevamo il cerume, chi ce l'aveva messo?
Troppe cose gli sono andate male a quel vasaio; si vede che non ci sapeva fare
abbastanza!
Ma che poi si vendicasse anche sui suoi vasi e sulle sue creature, perché gli erano riusciti
male, questo poi è proprio un peccato contro il buon gusto.
C'è il buon gusto anche nella pietà religiosa: alla fine, esso esclamò: 'Via, con un dio di
questo genere! Meglio nessun dio, meglio crearsi il destino con le proprie mani, meglio
esser pazzo, meglio esser noi stessi dio!
Ma che sento! disse a questo punto il vecchio papa aguzzando le orecchie. - O
Zarathustra, tu sei più religioso di quanto credi, con la tua miscredenza! Qualche dio
dentro di te ti ha convertito al tuo ateismo.
Non è la stessa tua religiosità che non ti lascia più credere ad un dio? La tua enorme
schiettezza ti condurrà anche al di là del bene e del male!
Vedi un po' che cosa ti fu mai risparmiato? Tu hai occhi e mani e bocca, che sono
predestinate a benedire dall'eternità. Non si benedice soltanto con la mano.
In tua prossimità, anche se tu vuoi essere il più ateo di tutti, io subodoro un sentore
dolciastro d'incenso che proviene da lunghe benedizioni: e mi fa sentire bene e male
insieme.
Lasciami essere tuo ospite, o Zarathustra, per una sola notte! In nessun luogo della terra
potrò star tanto bene come con te!
Amen! Così sia! soggiunse Zarathustra con grande meraviglia. - Lassù è la strada che
conduce alla caverna di Zarathustra.
Volentieri ti condurrei io stesso, santità, perché amo tutti gli uomini religiosi, ma ora un
grido angoscioso mi richiama lontano da te.
Nel mio regno nessuno deve trovarsi male; la mia caverna è un buon porto. E mi è molto
caro accogliere ogni essere triste rimettendolo in piedi e su saldo terreno.
Ma chi può togliere dalle spalle la tua malinconia? Sono troppo debole per questo. A lungo
invero dovremmo aspettare, finché qualcuno ti risvegliasse il tuo dio.
Questo vecchio dio appunto non vive più: è definitivamente morto.
IL SACRIFICIO DEL MIELE
E di nuovo i piedi di Zarathustra corsero attraverso montagne e foreste, e i suoi occhi
cercavano e cercavano, ma non potevano scorgere da nessuna parte colui che volevano
vedere, il grande bisognoso e l'invocante aiuto. Tuttavia, per tutto il cammino, esultava in
cuor suo e si sentiva soddisfatto. Quali buone cose - diceva - mi ha donato questo giorno,
per compenso d'averlo cominciato male! Quali strani interlocutori ho trovato!
Voglio masticare a lungo le loro parole come fossero del buon grano; il tuo dente le
macinerà, e le ridurrà in polvere, finché fluiranno come latte nella mia anima!
Come la strada girò di nuovo intorno ad una rupe, il paesaggio si mutò tutto ad un tratto,
e Zarathustra si trovò nel regno della morte. Qui si ergevano verso l'alto scogli neri e rossi:
non v'era erba, né alberi, né canti di uccelli. Era infatti una valle che tutte le bestie
evitavano, compresi gli animali rapaci; soltanto una brutta specie di serpenti verdi e gonfi,
quando diventavano vecchi, venivano lì a morire. Perciò essi la chiamavano: tomba dei
serpenti.
Zarathustra fu preso da tetri ricordi poiché aveva l'impressione come di essere già stato
un'altra volta in quella valle. E fu colto da una grande pesantezza: così che prese a
camminare lentamente, sempre più lentamente, e alla fine si fermò. Allora vide, come alzò
gli occhi, accovacciato sulla strada, qualcosa che aveva e non aveva aspetto di uomo,
qualcosa di inesprimibile. E si sentì preso da grande vergogna per aver guardato con i suoi
occhi una tal cosa: arrossendo fino ai suoi capelli bianchi, distolse lo sguardo e mosse il
piede per allontanarsi da quel brutto posto. Ma ecco che quella mortale desolazione
cominciò ad animarsi: dal suolo lievitò infatti un gorgoglio e un rantolo, come l'acqua che
di notte gorgoglia e rantola attraverso tubi occlusi; infine il rumore si trasformò in una
voce d'uomo e in un parlare umano, che diceva così:
Zarathustra! Zarathustra! Sciogli il mio enigma!
Parla, parla! Che cosa è la vendetta contro il testimonio?
Io ti attiro indietro, qui il ghiaccio è liscio! Bada, bada che il tuo orgoglio non si spezzi le
gambe!
Tu ti credi saggio, orgoglioso Zarathustra! Sciogli dunque l'enigma, o duro schiacciatore di
noci, l'enigma, che io sono! Parla dunque: chi sono io?
Ma come Zarathustra ebbe ascoltato queste parole, che cosa mai credete che accadesse
allora alla sua anima? La compassione scese su di lui; e ad un tratto cadde a terra, come
cade una quercia che abbia resistito a lungo a molti tagli, pesantemente,
improvvisamente, tra il terrore di quelli stessi che volevano farla cadere. Ma subito si rialzò
da terra e il suo volto si fece duro.
Ti conosco bene - disse con voce di bronzo: tu sei l'assassino di Dio! Lasciami andare. Non
sopportasti colui che ti vedeva, che ti vedeva sempre e in fondo all'anima, bruttissimo
uomo! Tu ti vendicasti di quel testimonio!
Così parlò Zarathustra, e voleva andar via; ma l'indescrivibile afferrò un lembo della sua
veste e ricominciò a gorgogliare e a cercare le parole. Resta! disse alla fine - resta! Non
passare! Indovino quale scure ti ha atterrato. Salve a te, o Zarathustra, che stai di nuovo
in piedi! Tu hai indovinato, lo so bene, come si sente nell'animo colui che lo uccise,
l'assassino di Dio. Resta!
Siediti qui vicino a me, non sarà invano. Verso chi volevo andare, se non verso te? Resta,
siediti qui! Ma non mi guardare! Rispetta la mia bruttezza! Essi mi perseguitano: soltanto
tu sei il mio estremo rifugio. Non con il loro odio, hon con i loro aguzzini: oh, io riderei di
tale persecuzione e ne sarei orgoglioso e contento! Il successo non è stato fino ad oggi di
tutti i perseguitati? E chi perseguita bene, impara facilmente a seguire: viene a trovarsi
dietro alla fine! Ma è la loro compassione, è la loro compassione, dalla quale io fuggo e
cerco rifugio in te. O Zarathustra, proteggimi, mio estremo rifugio, l'unico che mi ha
capito: tu hai compreso come si sente nell'animo colui che lo uccise. Resta! E se vuoi
andare, o impaziente, non andare per la via per la quale io sono venuto. Quella è una via
cattiva. Sei in collera con me, perché già da lungo chiacchiero a dritto e rovescio? Perché
ti do consigli? Ma sappi, io sono l'uomo pìù brutto, che ha anche i piedi più grandi e più
pesanti. Dove sono passato io, la strada è brutta. Io percorro tutté le strade morte e
vergognose. Ma poiché tu mi sei passato davanti, tacendo: poiché ho veduto bene che tu
sei diventato rosso: perciò ti ho riconosciuto per Zarathustra. Ogni altro mi avrebbe
gettato la sua elemosina, la sua compassione, con sguardi e con parole. Ma per questo io
non sono abbastanza mendicante, tu l'hai indovinato; sono troppo ricco, ricco di
grandezza, di cose terribili, di cose brutte, di cose indicibili! La tua vergogna, o
Zarathustra,mi ha onorato! A stento sono venuto fuori dalla ressa dei compassionevoli, per
trovare l'unico che oggi insegna 'la compassione è molesta'; cioè te, Zarathustra!
Sia essa un dio, o cosa umana: la compassione va contro il pudore. E il non-voler-aiutare
può essere più nobile che ogni virtù che subito scatta per recare aiuto.
Ma questa oggi è chiamata dalla piccola gente virtù per eccellenza, la compassione: la
piccola gente non ha rispetto per la grande sfortuna, per la grande bruttezza, il grande
esito infelice.
Io guardo al di là di tutta questa gente, come il cane guarda oltre il dorso delle pecore
brulicanti. E piccola gente grigia, di buona lana e buona volontà.
Come un airone volge l'occhio disdegnoso oltre le piatte paludi, con la testa all'indietro:
così spingo lo sguardo oltre il brulichìo delle piccole onde grige e delle piccole anime e
volontà.
Troppo a lungo si è dato ragione a questa gente piccina: si è finito così per dar loro anche
il potere, ed ora essi insegnano che 'è buono soltanto ciò che la gente piccina chiama
buono'.
E 'verità' si chiama oggi ciò che disse il predicatore che sorse da loro stessi, quello strano
santo e intercessore della gente piccina, che proclamò di sé:
'Io sono la verità'.
Quel presuntuoso già da lungo tempo ha fatto rizzar la cresta alla gente piccina, lui eire
diffondeva un grande errore insegnando: 'Io sono la verità'.
Ad un presuntuoso è stato mai risposto più cortesemente? Ma tu, o Zarathustra, andasti
oltre di lui e dicesti: 'No! No! Tre volte no!'
Tu ci mettesti in guardia dal suo errore, tu per primo ci mettesti in guardia contro la
compassione; non tutti, né nessuno, bensì tu e quelli della tua specie.
Tu ti vergogni della vergogna del grande sofferente; proprio quando dici: 'Dalla
compassione viene una grande nuvola; attenti, o uomini!'
Quando insegni: 'Tutti i creatori sono duri, ogni grande amore va oltre la loro
compassione': o Zarathustra, come mi sembri conoscere bene i segni del tempo!
Ma tu stesso guardati dalla tua stessa compassione! Perché molti sono in cammino verso
di te, molti sofferenti, dubbiosi, disperati, molti che stanno per annegare, molti che
patiscono il freddo.
Ti dico persino di guardarti anche da me. Hai indovinato qual è il mio migliore e peggiore
enigma, me stesso e ciò che ho fatto. Conosco la scure che ti abbatterà.
Ma egli doveva morire: egli vedeva con occhi che vedono tutto, egli vedeva il fondo e
l'abisso dell'uomo, tutte le sue vergogne e brutture nascoste.
La sua compassione non conosceva vergogna: penetrò nei miei angoli più sporchi. Doveva
morire quell'uomo troppo curioso, troppo insinuante, troppo compassionevole.
Mi vedeva sempre: volli vendicarmi di quel testimone, altrimenti sarei morto.
Quel dio che vedeva tutto, anche l'uomo, doveva morire! L'uomo non sopporta vivo un
testimone di questo genere.
Così parlò l'uomo più brutto. Ma Zarathustra si alzò e si accinse ad allontanarsi: poiché si
sentiva gelato fin nelle viscere.
O indicibile - disse - tu mi hai messo in guardia contro la tua strada. Per ringraziamento io
ti raccomando la mia. Vedi, lassù è la caverna di Zarathustra. La mia caverna è grande e
profonda ed ha molti angoli; colui che più si nasconde trova là il suo nasondiglio.
E lì vicino vi sono cento rifugi segreti e astuzie' per ogni animale strisciante, volante e
balzante.
O ripudiato, tu che volesti essere ripudiato, non vuoi abitare tra gli uomini e la
compassione umana? Ebbene, allora fa come me! Così anche tu imparerai da me; solo
colui che fa impara.
E prima di tutto parla con i miei animali! L'animale più fiero e l'animale più astuto sono
quelli che possono darci i migliori consigli!
Così parlò Zarathustra, e andò per la sua strada, più pensieroso e più lento di prima:
poiché si domandava molte cose e a molti problemi non riusciva facilmente a rispondere.
Com'è misero l'uomo! pensava nel suo cuore. Com'è brutto, com'è rantolante, com'è pieno
di nascosto pudore!
Mi si dice che l'uomo ami se stesso: ahimè, come deve essere grande questo amore per se
stessi! Quanto disprezzo ha da vincere!
Anche quello là si amava, si disprezzava; per me è un grande amante e un grande
dispregiatore.
Non ho ancora trovato nessuno che si sia disprezzato più profondamente: anche questo è
elevatezza. Guai, costui era forse l'Uomo Superiore, del quale ho udito il grido?
Io amo i grandi dispregiatori. Ma l'uomo è qualcosa che deve essere superata.
IL MENDICANTE VOLONTARIO
Quando Zarathustra ebbe abbandonato il più brutto degli uomini, ebbe freddo e si sentì
solo: sentì scorrere appuntò sulle sue membra molto freddo e solitudine, così che anche le
varie parti del suo corpo si raffreddarono. Ma mentre stava sempre più salendo, e saliva,
scendeva e poi risaliva lungo verdi pascoli e su deserte petraie, ove in altri tempi era forse
scorso inquieto un ruscello: tutto ad un tratto ebbe di nuovo più caldo e si sentì cordiale.
Che mi va capitando? si chiese. - Qualcosa di caldo e di vitale mi rallieta, deve essere qui
nelle vicinanze.
Sono già meno solo; inconsapevoli fratelli e compagni mi sfiorano, il loro caldo respiro
tocca la mia anima.
Ma quando volse gli occhi intorno a sé e cercò i consolatori della sua solitudine, ecco:
scorse delle vacche raggruppate su un'altura; era la loro vicinanza e il loro odore che
avevano riscaldato il suo cuore.
Quelle vacche però sembravano tutte intente ad ascoltare un oratore e non fecero
attenzione a chi sopravveniva. Come Zarathustra fu giunto in loro vicinanza, udì
chiaramente che una voce umana parlava dal centro del gruppo delle vacche; e si vedeva
che esse avevano voltato tutte le loro teste verso l'oratore.
Allora balzò con fervore avanti e penetrò tra gli animali, scostandoli l'uno dall'altro, nel
timore che a qualcuno fosse capitata una disgrazia, a cui naturalmente la compassione
delle vacche sarebbe servita a poco. Ma si era sbagliato; perché, guarda un po', c'era un
uomo seduto per terra che sembrava parlare agli animali per convincerli che non
dovevano avere alcuna paura di lui, un uomo pacifico, un predicatore della montagna, dai
cui occhi sembrava parlare la bontà in persona. Che cerchi qui? gli urlò Zarathustra con
sorpresa.
Che cerco qui? rispose quello. - La medesima cosa che cerchi tu, seccatore! La felicità sulla
terra. Vorrei appunto apprender qualcosa, in proposito, da queste vacche, perché, sai, è
mezza mattina che sto parlando loro, e ora finalmente stavano per dirmi qualcosa. Perché
le disturbi? Finché non ci convertiremo e diventeremo come le vacche, non giungeremo
nel regno dei cieli. Una cosa dovremmo imparare da loro: il ruminare.
E in realtà, anche se l'uomò ottenesse tutto il mondo e non imparasse questa cosa, il
ruminare: che gli gioverebbe tutto il resto? Non si libererebbe dalla sua inquietudine, dalla
sua grande inquietudine: è questa che si chiama oggi schifo. Chi non ha oggi il cuore, la
bocca e gli occhi pieni di schifo? Anche tu! Anche tu! Ma guarda queste vacche!
Così parlò il predicatore della montagna e poi volse l'occhio verso Zarathustra, perché
finora l'aveva amorosamente tenuto rivolto verso le vacche; ma in quell'istante cambiò
aspetto. Chi è colui con cui parlo? gridò spaventato, e balzò dal terreno. Questo è l'uomo
senza schifo, è Zarathustra in persona, il superatore del grande schifo, è l'occhio, è la
bocca, è il cuore stesso di Zarathustra.
E mentre parlava così, baciava le mani di colui al quale parlava, e i suoi occhi erano umidi,
e si agitava come colui a cui sia caduto inattesamente un dono prezioso dal cielo. Le
vacche guardavano tutto ciò e si meravigliavano.
Non parlare di me, tu, strana creatura! Caro! disse Zarathustra, e allontanò la sua
tenerezza. Parlami prima di tutto di te! Non sei il mendicante volontario, che una volta
gettò via da sé una grande ricchezza, che si vergognava della sua ricchezza e dei ricchi, e
fuggì dai poveri per donare la sua ricchezza e il suo cuore? Senonché, essi non
l'accettarono.
Senonché, - essi non mi accettarono - ribatté il mendicante volontario; - lo sai bene.
Perciò ho finito per rifugiarmi dagli animali e da queste vacche.
Così hai imparato - lo interruppe Zarathustra - quanto sia più difficile dare sul serio che
prendere sul serio, e che donar bene è un'arte, l'ultima e più astuta arte magistrale del
bene.
Strana cosa oggi - rispose il mendicante volontario - proprio oggi che tutto quanto è basso
si è sollevato in maniera a suo modo timida altera: per intenderci, in maniera plebea.
Perché, tu lo sai, è venuta l'ora della grande rivolta, della lenta, maligna lunga rivolta della
plebe e degli schiavi: e come questa cresce sempre più!
Ora avviene che la gente bassa si arrabbia di ogni beneficenza e piccola prodigalità; e gli
straricchi fanno bene a stare in guardia!
Coloro che oggi, simili a gonfie bottiglie, gocciolano da colli troppo stretti: sono bottiglie
alle quali oggi si rompe volentieri il collo.
Bassa bramosia, gialla invidia, spirito amaro di vendetta, orgoglio plebeo: tutto questo mi
è schizzato in faccia. Non è più vero che i poveri sono beati. Il regno dei cieli si trova fra le
vacche.
E perché non fra i ricchi? chiese Zarathustra a scopo di indagine, mentre tratteneva le
vacche che stavano annusando confidenzialmente il pacifico.
Che mi vai tentando? rispose questi. - Lo sai tu stesso meglio di me. Che cosa mi ha
spinto verso i più poveri, o Zarathustra? Non era lo schifo per i nostri ricchi? Per i
condannati alla ricchezza, che prendono i loro vantaggi da ogni spazzatura, con occhi
freddi, acidi pensieri, per tutta questa marmaglia, il cui puzzo giunge fino al cielo, per
questa falsa plebaglia dorata, i cui padri furono gente di mano lesta o avvoltoi mangiatori
di carogne o collezionatori di stracci, con le loro donne facili, vogliose, obliose: c'è poca
differenza tra esse e le sgualdrine.
Plebaglia in alto, plebaglia in basso! Che è oggi più 'povero' e 'ricco'! Della loro differenza
ho perso la memoria, e me ne sono fuggito lontano, sempre più lontano, finché ho
incontrato queste vacche.
Così parlò il pacifico, e annusò l'aria anche lui, sudando mentre parlava: tanto che le
vacche si meravigliarono di nuovo. Ma Zarathustra lo continuava a guardare sempre
sorridendo in volto, mentre parlava così duramente, e scuoteva di tanto in tanto la testa.
Tu fai violenza a te stesso, o predicatore della mon. tagna, pronunciando parole così dure;
non hai la bocca adatta per una-simile durezza, e neanche l'occhio. Penso che tu non
abbia neanche lo stomaco adatto: gli fa male tutto questo arrabbiarti e odiare e schiumare
d'ira. Il tuo stomaco vuole cose più tenere: non sei un macellaio. Piuttosto mi sembri un
piantatore o un erborista. Forse mastichi dei chicchi di grano. Ma sicuramente sei alieno
dalle gioie della carne e ami il miele.
In questo hai indovinato - rispose il mendicante volontario con cuore più leggero. - Io amo
il miele, e mastico anche grani, perché cerco ciò che è di sapore gradevole e rende l'alito
puro: ed anche ciò che abbisogna di lungo tempo, un lavoro a giornata e da mulo, per
pacifici oziosi e ladruncoli. Meglio di tutti hanno fatto queste vacche; hanno inventato la
ruminazione e lo starsene beataménte al sole. E si astengono da tutti i pensieri difficili, che
gonfiano il cuore.
Bene! disse Zarathustra. - Dovresti vedere anche i miei animali, la mia aquila e il mio
serpente; simili a loro non ce n'è oggi sulla terra. Guarda, là la strada conduce alla mia
caverna: siine ospite per questa notte. E parla con i miei animali della felicità degli animali,
finché io sia tornato. Perché ora un grido angoscioso mi richiama in fretta lontano da te.
Da me puoi trovare anche nuovo miele, miele freschissimo di favo: mangialo! Ma ora
prendi in fretta congedo dalle tue vacche, mio caro! Anche se ti sia grave. Perché sono i
tuoi amici e maestri più cari!
Ad eccezione di uno, che io ho ancora più caro - rispose il mendicante volontario. - Tu
stesso sei buono, e migliore ancora di una vacca, o Zarathustra!
Via, via! antipatico adulatore! gridò Zarathustra con cattiveria. - Che mi stai corrompendo
qui con la tua lode e con il miele dell'adulazione? Via, via da me! - gridò ancora una volta
e agitò il suo bastone verso il mite mendicante: il quale scappò via in fretta.
L'OMBRA
Ma appena il mendicante volontario fu scappato via, Zarathustra fu di nuovo solo, e allora
udì dentro di sé una nuova voce che esclamava. - Fermo! Zarathustra! Aspetta dunque! Sì,
sono io, o Zarathustra! io, la tua ombra! - Ma Zarathustra non aspettò, perché s'impadronì
di lui un'ira improvvisa per tutto quell'affollarsi e quella ressa sulle sue montagne.
Dov'è andata la mia solitudine? disse. - In realtà per me, è troppo; queste montagne
brulicano, il mio regno non è più di questo mondo, io ho bisogno di nuove montagne.La
mia ombra mi chiama? Che cosa importa la mia ombra! Corra pure dietro di me! Io fuggo
via.
Così parlò Zarathustra al suo cuore e fuggì via.
Ma colui che gli stava dietro lo seguì: così che subito furono in tre a rincorrersi, in testa il
mendicante volontario, poi Zarathustra e terza ed ultima la sua ombra. Non corsero molto
a lungo, perché Zarathustra rifietté sulla sua stoltezza e con una scrollata di spalle
allontanò da sé ogni fastidio e disgusto.
Come! disse - non sono forse accadute sempre tra noi vecchi eremiti e santi le cose più
ridicole? In realtà, la mia stoltezza è cresciuta sulle montagne! E ora ascolto sei gambe di
vecchi stolti sbattere rincorrendosi l'un l'altro! Ma Zarathustra può aver paura di un'ombra?
Alla fin fine credo anche che essa abbia gambe più lunghe di me.
Così parlò Zarathustra, ridendo con lo sguardo e con tutte le interiora; si arrestò e si volse
rapidamente attorno, tanto che quasi gettò a terra il suo inseguitore, cioè l'ombra: così
vicino essa lo seguiva alle calcagna, ed era anche debole. Appena l'ebbe considerata con
gli occhi, si spaventò come alla vista improvvisa di un fantasma: così esile, scura, cava e
come una superstite gli apparve quella sua inseguitrice.
Chi sei tu? domandò Zarathustra, violento. - Che cosa fai qui? E perché ti dici mia ombra?
Non mi piaci.
Perdonami - rispose l'ombra - che io sia tale; e se non ti piaccio, o Zarathustra! In questo
io lodo te e il tuo buon gusto. Io sono un viandante che ha già molto camminato alle tue
calcagna: sempre per strada, ma senza mèta, e senza casa: così che in realtà poco mi
manca per essere l'Ebreo errante, solo che non sono eterna e non sono ebrea. Come? Io
dovrò essere sempre per strada? Sollevata da ogni vento, errante, scacciata via? O terra,
per me sei troppo rotonda! Mi sono seduta su ogni superficie, simile a stanca polvere ho
dormito sugli specchi e sui vetri delle finestre: tutti prendono da me, nessuno mi dà, io
divengo esile; assomiglio quasi ad un'ombra.
Ma io sono volata verso di te, o Zarathustra, e ti ho seguito più lungamente di ogni altro, e
anche se mi sono nascosta a te, per non farmi riconoscere, tuttavia sono stata la tua
migliore ombra: ovunque, non appena tu ti sedevi, mi sedevo anch'io.
Con te sono andata nei più lontani e freddi mondi, simile ad un fantasma che
volontariamente corre sui tetti invernali e sulla neve.
Con te ho cercato di penetrare in tutto ciò che è vietato, peggiore, inattingibile: e se in me
c'è un briciolo di virtù, questa consiste nel fatto che io non ho paura di nessuna
proibizione.
Con te ho spezzato ciò che il mio cuore adorava, ho rovesciato tutte le pietre terminali e le
statue, sono corsa dietro ai miei desideri più pericolosi: e sono già passata una volta sopra
ogni delitto.
Con te ho disimparato la fede nelle parole e nei valori e nei grandi nomi. Quando il diavolo
cambia le pelle, non perde forse anche il suo nome? Anch'esso è infatti pelle. Il diavolo
stesso è forse appunto pelle.
'Niente è vero, tutto è permesso': così dissi a me stessa. Nelle acque più fredde mi sono
precipitata con la testa e col cuore. Ahimè, come spesso sono rimasta lì nuda come un
gambero rosso!
Ahimè, dov'è andato tutto il mio bene e pudore e la mia fede nei buoni! Ahimè, dov'è
quella nascosta innocenza che un giorno possedevo, l'innocenza dei buoni e delle loro
nobili menzogne!
Troppo spesso, in realtà, sono stata alle calcagna della verità: alla fine essa mi mis.e i
piedi sul capo. Qualche volta ho pensato di mentire, ed ecco! proprio allora ho colto la
verità.
Troppe cose mi si sono svelate: ora non mi importa più nulla. Nulla vive più di ciò che io
amo; come potrei amare ancora me stesso?
Vivere come a me piace, o non vivere più: così voglio, così vuole anche il più santo. Ma,
ahimè! come posso io provare ancora piacere?
Ho io ancora una mèta? Un porto verso cui corra la mia vela?
Un buon vento? Ahimè, soltanto chi sa dove naviga, sa anche quale sia il vento buono e il
suo vento favorevole.
Che cosa mi è rimasto ancora? Un cuore stanco e temerario; una volontà instabile; ali
starnazzanti; una colonna vertebrale spezzata.
Questo ricercare una casa mia: o Zarathustra, lo sai bene, questo ricercare è stata la mia
punizione, mi divora.
'Dov'è la mia casa?' Questo domando e cerco e ho cercato, e non lo trovo. O eterno
'ovunque', o eterno 'in nessun luogo', o eterno 'invano!
Così parlò l'ombra; e il volto di Zarathustra, a quelle parole, si allungò.
Tu sei la mia ombra! disse infine, con tristezza. - Il tuo pericolo non è piccolo, o libero
spirito viandante! Hai avuto una brutta giornata: guarda the non ti sopraggiunga una
peggiore sera!
Agli instabili come te, alla fine, anche una prigione sembra beata. Hai mai veduto come
dormono i delinquenti una volta catturati? Dormono tranquillamente, perché godono della
loro nuova sicurezza.
Guarda di non divenire preda, alla fine, di una fede limitata, di una dura e rigorosa follia!
Infatti ormai ti seduce e ti tenta soltanto ciò che è limitato e saldo.
Hai perduto la mèta: ahimè, come ti consolerai di ciò che hai perduto per tua colpa? Con
ciò tu hai perduto anche la strada!
Povera vagabonda, infatuata, stanca farfalla! vuoi avere per questa sera riposo e un
domicilio? Allora va' lassù alla mia caverna!
Per di là la strada conduce alla mia caverna! Ora voglio fuggir via velocemente da te. Già
si stende su di me come un'ombra.
Voglio correre da solo, perché intorno a me si faccia di nuovo chiaro. Per questo debbo
essere allegro e ancora a lungo in gamba. Ma questa sera da me si ballerà!
Così parlò Zarathustra.
A MEZZOGIORNO
E Zarathustra corse e corse e non trovò più nessuno e fu solo e ritrovò sempre più se
stesso e godette e assaporò la sua solitudine e pensò a cose buone, per ore ed ore. Ma
verso l'ora meridiana, quando il sole stava proprio sul capo di Zarathustra, passò davanti
ad un vecchio albero curvo e nodoso, intorno al quale si abbracciava attorcigliandosi il
ricco amore di una vite e lo nascondeva: da questa pendevano in quantità gialli grappoli
d'uva verso il viandante. Allora gli venne voglia di estinguere un po' la sete e cogliere un
grappolo d'uva; ma mentre già stendeva il braccio, gli venne ancor più voglia di qualcosa
d'altro: di sdraiarsi cioè accanto all'albero, nell'ora del pieno meriggio e dormire.
Così fece Zarathustra; e appena si distese a terra, nel silenzio e nell'intimità dell'erba
variopinta, dimentico anche la sua piccola sete e si addormentò.
Poiché, come dice il proverbio di Zarathustra: una cosa è più necessaria dell'altra. Solo che
i suoi occhi rimasero aperti: essi infatti non erano mai sazi il guardare e ammirare l'albero
e l'amore della vite. Ma poi, nell'addormentarsi, Zarathustra così disse al suo cuore:
Taci! taci! In questo momento il mondo non è forse divenuto perfetto? Che cosa mi
succede? Come un leggiadro vento, invisibile, danza sul piatto mare, leggero, leggero
come una piuma: così danza su di me il sonno.
Non mi chiude gli occhi per lasciarmi desta l'anima. Ma è leggero! leggero come una
piuma. Mi persuade; non so come, mi sfiora intimamente con mano carezzevole, mi fa
dice violenza. Sì, mi fa dolce violenza, perché io distenda la mia anima: e così essa diviene
lunga e stanca, la mia anima strana! Proprio a mezzodì è giunta per lei la sera del settimo
giorno? Essa ha già troppo a lungo vagato beata tra le cose buone e mature?
Si distende tutta in lungo, sempre più lunga! E giace silenziosa, la mia strana anima. Ha
già assaggiato troppe cose buone, questa dorata tristezza la opprime, torce la bocca.
Come una nave che arriva nel suo porto tranquillo, essa si va accostando alla terra, stanca
del lungo vagare e del mare malsicuro. Non è forse la terra più fedele?
Quando una tal nave si avvicina alla terra ferma, vi si accosta e stringe: tanto che un
ragno può intessere la sua tela dalla riva a lei, e non c'è bisogno di gomene più forti.
Come questa stanca nave nel suo porto più tranquillo: così anch'io ora riposo vicino alla
terra, fedele, fiducioso, in attesa, legato a lei con il più lieve dei fili.
O felicità! O felicità! Vuoi proprio cantare, o mia anima? Tu giaci nell'erba. Ma questa è
l'ora segreta e solenne, quando nessun pastore suona la sua zampogna.
Rispettala! Il caldo mezzogiorno dorme sui campi. Non cantare! Silenzio! Il mondo è
perfetto.
Non cantare, o volatile che vaghi tra l'erba, o mia anima! Non bisbigliare neppure! Guarda,
è silenzio! l'antico mezzogiorno dorme, muove la bocca: non beve egli forse in questo
momento una goccia di felicità? Un'antica bruna goccia di aurea felicità, di vino dorato?
Qualcosa svola sopra di lui, e la sua felicità ride. Così ride un dio. Silenzio!
'Per fortuna, quanto poco basta per la felicità!' Così dicevo un giorno e mi credevo saggio.
Ma era una bestemmia: ora l'ho appreso. I pazzi intelligenti parlano meglio.
Proprio ciò che è minimo, più sommesso, più lieve, un frusciar di lucertola, un sospiro, un
guizzo, un batter d'occhi: di poco è fatta la migliore felicità. Silenzio!
Che cosa mi accade: ascolta! Forse che il tempo è volato via? Non sto forse cadendo? Non
sono caduto, ascolta! nel pozzo dell'eternità?
Che cosa mi accade? Silenzio! Qualcosa mi punge, ahimè, nel cuore? Nel cuore! O
spezzati, spezzati, cuore, dopo una tale felicità, dopo una tale trafittura!
Come? Il mondo non è diventato in questo momento perfetto? Tondo e maturo? Oh,
l'aureo anello rotondo, dove vola? Io corro dietro di lui! presto!
Silenzio! (E qui Zarathustra si stirò e sentì che dormiva.)
Sù! disse a se stesso - dormiglione! Dormiglione a mezzogiorno! Suvvia, sù, vecchie
gambe! E tempo di andare, vi resta da fare un buon tratto di strada.
Ora vi siete riposate, quanto a lungo? Una mezza eternità! Suvvia, dunque, mio vecchio
cuore! Quanto ti ci vuole perché da un tale sonno tu ti risvegli?
(Ma già si era riaddormentato, e la sua anima parlò contro di lui e si opponeva e si
metteva contro di lui.)
Lasciami dunque! Silenzio! Il mondo non è forse divenuto in questo momento perfetto? O
aurea palla rotonda!
Alzati - disse Zarathustra - piccola ladra, oziosa! Come? Vorresti sempre stirarti,
sbadigliare, sospirare, precipitare in pozzi profondi?
Ma chi sei! O mia anima! (E qui sobbalzò, perché un raggio di sole, calando dal cielo, lo
colpiva in faccia.)
O cielo sopra di me - disse sospirando e mettendosi a sedere - tu mi guardi? Ascolti questa
mia strana anima?
Quando berrai questa goccia di rugiada che è caduta su tutte le cose terrene, quando
berrai questa strana anima, quando, fonte dell'eternità! Sereno e terribile abisso dell'ora
meridiana! Quando riberrai in te la mia anima?
Così parlò Zarathustra e si alzò dal suo giaciglio accanto all'albero come da un'ebbrezza
sconosciuta: ed ecco, il sole stava proprio sopra la sua testa. Qualcuno potrebbe da ciò
giustamente dedurre che Zarathustra non aveva dormito a lungo.
IL SALUTO
Era già il tardo pomeriggio, quando Zarathustra, dopo lungo e inutile ricercare e
girovagare, ritornò alla sua caverna. Ma mentre giungeva davanti ad essa, a non più di
venti passi da questa, accadde ciò che meno di tutto si aspettava: di nuovo udì il grande
grido di dolore. E, strano, questa volta veniva fuori proprio dalla sua stessa caverna. Ma
era un grido più lungo, molteplice e singolare, e Zarathustra distinse chiaramente che si
componeva di molte voci: anche se, ascoltato da lontano, suonava simile al grido di una
sola bocca.
Allora balzò verso la sua caverna, ed ecco! quale spettacolo lo attendeva dopo quello che
aveva udito! Tutti sedevano lì intorno, l'uno accanto all'altro, quelli in cui egli di giorno si
era imbattuto: il re di destra e il re di sinistra, il vecchio mago, il papa, il mendicante
volontario, l'ombra, il coscienzioso dello spirito, il triste indovino e l'asino; ma l'uomo più
brutto si era messo addosso una corona e si era avvolto due cinture purpuree, perché
amava, come tutti i brutti, travestirsi e farsi bello. In mezzo a questa turbata società, stava
l'aquila di Zarathustra, arruffata e inquieta, perché doveva rispondere a molte cose per le
quali il suo orgoglio non trovava risposta; e il serpente astuto pendeva al suo collo.
Tutto questo guardò Zarathustra con grande meraviglia: poi esaminò ogni singolo ospite
con allegra curiosità, lesse nelle loro anime e si meravigliò ancora. Frattanto quelle
persone si erano sollevate dai loro seggi e attendevano con deferenza che Zarathustra
parlasse. E Zarathustra parlò così:
Voi disperati! Voi strane creature! Ho udito dunque il vostro grido di dolore? Ora so anche
dove deve cercarsi colui che io oggi ho cercato invano: l'Uomo Superiore; siede nella mia
grotta, l'Uomo Superiore! Ma perché meravigliarmi? Non l'ho attratto io stesso verso di me
con offerte di miele e astuti richiami della mia felicità?
Tuttavia a me sembra che voi non facciate buona società insieme, vi amareggiate il cuore
l'uno con l'altro, con i vostri gridi di dolore, quando sedete qui insieme. Dovrà giungere
uno, uno che vi faccia di nuovo ridere, un buontempone allegro, un danzatore in lungo e
in largo, un qualche vecchio pazzo; che ve ne pare?
Perdonatemi, o disperati, se io vi parlo con queste mie piccole parole, indegne invero di
tali ospiti! Ma voi non sapete che cosa rende ardito il mio cuore: voi stessi siete, e la
vostra vista; perdonatemi! Ognuno prende coraggio vedendo uno che si dispera. Parlare
ad un disperato è cosa per la quale ognuno si sente sempre abbastanza forte.
A me siete stati voi a dare questa forza, un buon dono che mi avete fatto, miei nobili
ospiti! Proprio un dono a proposito! Bene, e allora non inquietatevi se anche io vi offro
qualcosa di mio.
Questo è il mio regno e la mia signoria: ma ciò che è mio per questa sera e per questa
notte deve essere vostro. I miei animali devono servirvi: la mia grotta sia la vostra stanza
di riposo!
A casa mia nessuno deve disperarsi, nella mia riserva io proteggo ognuno dai suoi animali
selvaggi. E questa è la prima cosa che vi offro: la sicurezza!
Ma la seconda è il mio dito mignolo, e quando voi lo avrete, prendete pure anche tutta la
mano, senz'altro, e anche il cuore! Benvenuti qui, benvenuti, ospiti miei!
Così parlò Zarathustra e rise d'amore e di malvagità. Dopo questo saluto, i suoi ospiti si
inchinarono ancora una volta, tacendo rispettosamente. Il re di destra tuttavia gli rispose a
loro nome.
Per il fatto che tu, o Zarathustra, ci offri la mano e il saluto, ti riconosciamo proprio come
Zarathustra. Tu ti abbassi dinanzi a noi; quasi fai del male al nostro rispetto: ma chi
potrebbe abbassarsi come te con tanto orgoglio? Questo ci solleva, è un conforto per i
nostri occhi e per i nostri cuori.
Soltanto per vedere questo sarebbe valsa la pena per noi di salire su montagne più alte di
questa. Siamo venuti appunto per vedere, perché volevamo vedere che cosa può render
chiari degli occhi turbati.
Ed ecco, che tutto è ormai passato ciò che provocava il nostro grido di dolore. Già si
aprono a noi i sensi e il cuore con entusiasmo. Poco manca che il nostro coraggio prenda
ala.
Niente, o Zarathustra, c'è di più consolante sulla terra di una forte alta volontà: essa è una
bella pianta. Un intero paesaggio può esser lieto che su di lui cresca un tale albero.
Al pino io paragono colui che cresce simile a te, o Zarathustra: alto, taciturno, duro,
solitario, del miglior legno pieghevole, magnifico; ma infine, anche teso con forti rami
verdeggianti verso la sua signoria, lancia forti domande ai venti e alle tempeste e a tutto
ciò che è familiare alle altitudini, e ancora più fortemente risponde come un dominatoie,
come un vittorioso: e chi non dovrebbe salire sugli alti monti per contemplare piante di
questo genere?
A questo albero, o Zarathustra, si pasce anche chi ha l'animo cupo, colui che ha sbagliato
la sua via; a questa vista, anche l'inquieto si fa sicuro e guarisce il suo cuore.
E veramente verso la tua montagna e il tuo albero si volgono oggi molti occhi; una grande
nostalgia si è aperta negli animi, e molti hanno imparato a chiedersi: chi è mai
Zarathustra?
E coloro a cui tu una volta hai versato nell'orecchio il tuo canto e il tuo miele: tutti i
nascosti, i solitari, i vagabondi, hanno detto tutto d'un tratto ai loro cuori: 'Vive ancora
Zarathustra? Non vai più la pena di vivere, tutto è uguale, tutto è invano, a meno che non
viviamo con Zarathustra!'
'Perché non viene colui che si è annunciato da molto tempo?' molti si chiedono. 'Lo ha
forse divorato la solitudine? O dobbiamo noi andare da lui?'
Ora accade che la solitudine stessa sta marcendo e si riempie di crepe, come un sepolcro
che si apre e non può più contenere i suoi morti. Ovunque si vedono dei risorti.
Ora le onde montano e montano intorno alla tua montagna, o Zarathustra. E per quanto la
tua latitudine sia eccelsa, molti devono giungere fino a te: il tuo vascello non deve più
stare al secco.
Il fatto che noi disperati oggi siamo giunti alla tua caverna e già non più disperiamo:
questo è solo un segno e un preannuncio del fatto che uomini migliori stanno in cammino
verso di te, perché quello stesso è in cammino verso di te che è l'ultimo resto di Dio fra gli
uomini, cioè tutti gli uomini della grande nostalgia, della grande ripugnanza, della grande
sazietà tutti coloro che non vogliono vivere, o imparano di nuovo a sperare, o imparano da
te, o Zarathustra, la grande speranza!
Così parlò il re di destra, e afferrò la mano di Zarathustra per baciarla; ma Zarathustra si
difese da questo omaggio e balzò spaventato indietro, tacendo d'un tratto come se volasse
verso grandi lontananze. Dopo pochi istanti tuttavia egli era già di nuovo con l'animo
presso i suoi ospiti, li guardò con occhi chiari e interroganti e disse:
Ospiti miei, voi uomini superiori, voglio parlare con voi in chiaro tedesco. Non voi ho atteso
qui in questi monti.
(In chiaro tedesco? Dio ci liberi! esclamò a questo punto il re di sinistra per conto suo. - Si
vede che egli non conosce i cari tedeschi, questa specie di uomini orientali! Ma lui vuoi
dire 'duro e tedesco'; bene! oggi non è ancora la cosa peggiore!)
Potete in realtà tutti insieme essere uomini superiori - continuò Zarathustra - ma per me
non siete grandi e forti abbastanza.
Per me, cioè, per l'inesorabile che in me tace, ma non tacerà in eterno. E se voi
appartenete a me, non mi appartenete come il mio braccio destro. Chi infatti sta lui stesso
su gambe tenere e malate, simile a voi, la prima cosa che vuole, sia che lo sappia o cerchi
di ignorano, è di venire risparmiato. Ma io non risparmio le mie braccia e le mie gambe,
non risparmio i miei guerrieri: come potete voi servire alla mia guerra? Con voi io mi
rovino ogni vittoria. Taluno di voi cadrebbe già se non sentisse il forte rumore dei miei
tamburi.
E poi voi non siete per me abbastanza belli e ben nati. Io ho bisogno di specchi
perfettamente limpidi per le mie dottrine; sulla vostra superficie si distorce anche la mia
immagine. Le vostre spalle sono gravate di pesi e ricordi; nei vostri recessi balzano dei
cattivi nani. V'è plebe nascosta anche in voi. E anche se voi siete d'alta statura e di più
alta specie, molto di voi è torto e riuscito male. Non c'è fabbro nel mondo che vi possa
correggere e rifar diritti.
Voi siete soltanto dei frammenti: che più alti di voi possano passarvi sopra! Voi siete come
dei gradini: non arrabbiatevi perciò con chi sale verso la sua altitudine passando sopra di
voi! Dal vostro seme può spuntar fuori per me anche un figlio come si deve e un perfetto
erede: ma è cosa lontana. Voi stessi non siete coloro a cui appartengono la mia eredità e il
mio nome. Non voi attendo io qui su questi monti, non con voi debbo compiere per
l'ultima volta la mia discesa. Per me voi siete dei segni premonitori del fatto che già altri,
più alti di voi, sono in cammino verso di me: non gli uomini della grande nostalgia, della
grande ripugnanza, della grande sazietà, né ciò che voi dite ultimo resto di Dio, no! no! tre
volte no! Altri io attendo qui in queste montagne, e non voglio levare il mio piede di qui
senza di loro, più alti, più forti, più vittoriosi, più sereni, costruiti ben quadrati nel corpo e
nell'anima: leoni ridenti debbono giungere a me! O miei ospiti, voi, esseri strani, non avete
ancora udito nulla dei miei figli? E che essi sono in cammino verso di me? Parlatemi
dunque dei miei giardini, delle mie isole felici, della mia nuova bella specie; perché non mi
parlate di questo?
Questo è il dono d'ospitalità che io mi attendo dal vostro amore, che mi parliate dei miei
figli. Per questo io sono ricco, per questo io divenni povero: che cosa non ho dato, che
cosa non darei per avere una sola cosa: questi figli, questa vivente piantagione, questi
alberi della vita della mia volontà e della mia più alta speranza!
Così parlò Zarathustra e arrestò il suo discorso: perché fu preso dalla sua nostalgia, e
chiuse gli occhi e la bocca davanti ai moti del proprio cuore. E anche tutti i suoi ospiti
tacquero, e ristettero emozionati in silenzio: solo il vecchio indovino faceva dei segni con
le mani e coi gesti.
LA SACRA CENA
A questo punto l'indovino interruppe il saluto di Zarathustra e dei suoi ospiti: si spinse
avanti come uno che non abbia tempo da perdere, prese la mano di Zarathustra e gridò:
Ma Zarathustra! Una cosa è più necessaria dell'altra, lo dici tu stesso: ecco, una cosa è per
me ora più necessaria di ogni altra. Una parola detta al momento giusto: non mi hai
invitato a cena e qui sono molti che hanno fatto lungo cammino. Non vorrai mica sfamarci
coi tuoi discorsi? Inoltre avete tutti troppo pensato al congelamento, all'annegamento, alla
perdita del respiro e ad altre situazioni drammatiche del corpo: ma nessuno ha ricordato il
mio dramma, quello del morir di fame!
(Così parlò l'indovino; come gli animali di Zarathustra udirono queste parole, scapparono
via dallo spavento. Perché vedevano che, per quante cose avessero portato a casa
durante la giornata, non sarebbero bastate a riempire un solo indovino.) Incluso il morir di
sete - continuò l'indovino. E anche se sento già sbattere l'acqua, qui, con questi discorsi
della saggezza, senza requie né stanchezza, io per me voglio il vino! Non tutti sono come
Zarathustra bevitori d'acqua nati. L'acqua non basta per chi è stanco e appassito: a noi
occorre vino; esso procura subito risveglio e salute! A questo punto, dato che l'indovino
voleva vino, accadde che anche il re di sinistra, il taciturno, prese una volta tanto la
parola. Quanto al vino - disse - ci abbiamo pensato noi, cioè io con mio fratello, il re di
destra: del vino ne abbiamo abbastanza, un intero asino. Non manca che il pane.
Pane? ribatté Zarathustra, e rise. E proprio il pane che gli eremiti non hanno. Ma l'uomo
non vive di solo pane, ma anche di carne di buoni agnelli; e io ne ho due: questi bisogna
subito macellare e preparare con spezie e salvia: così mi piacciono. E anche di radici e
frutta qui ce n'è abbastanza per ogni specie di ghiottoni e golosi; e così noci e altri enigmi
da schiacciare. Vogliamo dunque in breve fare un buon pranzo. Ma chi vuol mangiare con
noi deve darsi da fare, anche i re. Con Zarathustra anche un re può essere cuoco. Con
queste premesse, tutti cominciarono ad essere contenti: solo che il mendicante volontario
si opponeva contro la carne e il vino e le radici. Ma ascoltate questo scialacquatore di
Zarathustra! disse scherzando. - Che forse si va nelle caverne e in alta montagna per fare
pranzi di questo genere? Ora capisco che cosa voleva dire quando una volta ci insegnò:
'Lodata sia la piccola miseria!' e perché vuole allontanare i mendicanti.
Sta' calmo - gli rispose Zarathustra - come faccio io. Continua a fare secondo il tuo
costume, buon uomo, macina i tuoi grani, bevi la tua acqua, loda la tua cucina, se essa
riesce a farti contento!
Io sono una legge soltanto per i miei, non sono una legge per tutti. Ma chi mi appartiene,
deve avere le ossa forti e lieve il piede, pronto alle guerre e alle feste, non un torpido, non
un sognatore; pronto alle cose più dure come alle sue feste, sano e forte.
Il meglio appartiene ai miei e a me; e se non ce lo danno, ce lo prendiamo: il miglior
nutrimento, il cielo più puro, i pensieri più forti, le donne più belle!
Così parlò Zarathustra; ma il re di destra rispose:
Strano! si sono mai udite cose così intelligenti dalla bocca di un saggio? E invero la cosa
più strana in un saggio è che egli possa essere anche intelligente e non un asino.
Così parlò il re di destra e si meravigliò: ma l'asino aggiunse al suo discorso, di malavoglia,
I-A. Questo tuttavia fu l'inizio di quel lungo pranzo che è detto nei libri di storia "La Sacra
Cena". Senonché, in essa non si parlò di nient'altro che dell'Uomo Superiore.
DELL'UOMO SUPERIORE
Quando venni per la prima volta tra gli uomini, feci una sciocchezza da eremiti, una
grande sciocchezza: mi misi sul mercato.
E mentre parlavo a tutti, non parlavo con nessuno. Ma la sera i miei compagni furono i
saltimbanchi e i cadaveri; ed io stesso ero quasi un cadavere.
Ma con il nuovo mattino mi giunse una nuova verità: imparai a dire: 'Che mi importa del
mercato e della plebe e del rumore della plebe e delle lunghe orecchie della plebe!'
O Uomini Superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede agli Uomini
Superiori. E se volete parlarne, ebbene, la plebe ammicca: 'Siamo tutti uguali'.
'O voi Uomini Superiori,' sembra dire ammiccando, la plebe 'non esistono gli Uomini
Superiori, noi siamo tutti uguali, l'uomo è uomo; davanti a Dio, siamo tutti uguali!'
Davanti a Dio! Ma ora questo Dio è morto. E davanti alla plebe noi non vogliamo essere
uguali. O Uomini Superiori, andate via dal mercato!
2
Davanti a Dio! Ma ora questo Dio è morto! O Uomini Superiori, quel Dio era il vostro più
grande Pricolo
Solo ora, che ormai giace nel sepolcro, siete di nuovo resuscitati. Ora soltanto giunge il
grande mezzogiorno, ora soltanto l'Uomo Superiore diviene padrone!
Comprendete queste parole, fratelli miei? Voi siete spaventati: i vostri cuori vanno soggetti
a vertigini? Vi si spalanca l'abisso? Vi abbaia addosso il cane infernale?
Orsù, dunque, Uomini Superiori! Soltanto ora la montagna partorisce, l'avvenire dell'uomo.
Dio è morto: vogliamo, ormai, che viva il Superuomo.
3
I più perplessi oggi domandano: 'Come potrà conservarsi l'uomo?' Ma Zarathustra primo e
unico è colui che domanda: 'Come può l'uomo venir superato?'
Il Superuomo mi sta a cuore, questo è il mio primo ed unico bene, e non l'uomo: non il
prossimo, non il povero, non il più sofferente, non il migliore.
Fratelli miei, ciò che posso amare nell'uomo, è che egli è un passaggio e un tramonto.
Anche in voi vi sono molte cose che mi fanno amare e sperare.
Che voi disprezziate, o Uomini Superiori, questo mi fa sperare. I grandi dispregiatori sono
infatti grandi adoratori.
Il fatto che voi disperate è cosa da onorare. Non avete appreso come arrendervi, né avete
imparato le piccole astuzie prudenziali.
Oggi infatti è divenuta padrona la piccola gente: questa predica concordemente devozione
e modestia e astuzia e diligenza e rispetto e il lungo eccetera delle piccole virtù.
Ciò che è di natura femminile, ciò che discende da stirpe servile e particolarmente da
mescolanza plebea: questo è ciò che ora vuoi divenire signore di ogni destino umano; che
schifo! che schifo! schifo!
Si domanda e domanda e non ci si stanca: 'Come si può conservare l'uomo, e nel miglior
modo, più a lungo, e più piacevolmente?' Con ciò, essi sono i padroni dell'oggi.
Superate, fratelli miei, questi padroni dell'oggi, questa piccola gente: sono loro il più
grande pericolo per il Superuomo!
Superate, o uomini Superiori, le piccole virtù, le piccole prudenze, i riguardi per il granello
di sabbia, il lavorio delle formiche, il gusto meschino, la 'felicità dei più'!
E preferite disperare piuttosto che arrendervi. In realtà, io vi amo proprio perché oggi non
sapete vivere, o Uomini Superiori! Così infatti voi vivete nel miglior modo possibile!
4
Avete del coraggio, fratelli miei? Siete animosi? Non coraggio davanti ai testimoni, bensì il
coraggio dell'eremita e dell'aquila, che non lo vede neppure Dio? Le anime fredde, i muli, i
ciechi, gli ubriachi, per me non sono coraggiosi. Ha coraggio chi conosce la paura, ma
sottomette la paura; chi guarda l'abisso, ma con superbia. Chi guarda l'abisso, ma con
sguardo d'aquila, chi afferra l'abisso con gli artigli dell'aquila: quegli ha coraggio.
5
'L'uomo è malvagio': così mi dissero per consolazione tutti i saggi. Ahimè, se fosse vero
anche oggi! Poiché la malvagità è la migliore forza dell'uomo.
'L'uomo deve diventare migliore e peggiore': questo è il mio insegnamento. Il peggio è
necessario al meglio del Superuomo.
Potrebbe essere buono per quel predicatore della piccola gente, aver sofferto e aver subito
i peccati degli uomini. Ma io mi rallegro del grande peccato come del mio grande conforto.
Senonché, tali parole non sono destinate ad orecchie lunghe. Ogni parola non si confà ad
ogni bocca. Queste sono cose sottili e lontane: non possono afferrarle le unghie delle
pecore!
6
Uomini Superiori, voi credete che io sia qui per riparare a ciò che voi avete fatto di male?
O che io voglia preparare un più soffice letto per i sofferenti? O per mostrare nuovi sentieri
agli irrequieti, ai traviati, ai precipitati?
No! No! Tre volte no! Sempre più, sempre i migliori fra quelli della vostra specie devono
andare in rovina, poiché la vita dovrà essere per voi sempre più brutta e dura. Solo così,
solo così l'uomo si innalza alle altitudini dove il fulmine lo colpisce e lo infrange:
abbastanza in alto per il fulmine!
A poche cose, lunghe e lontane, va il mio pensiero e il mio desiderio: che cosa mi importa
della vostra piccola, multipla, breve miseria!
Per me voi non soffrite ancora abbastanza! Poiché soffrite per voi, non avete sofferto
ancora per l'uomo. Mentireste se diceste il contrario! Nessuno di voi soffre ciò che ho
sofferto io.
7
Non mi basta che il fulmine non sia più dannoso. Non voglio allontanarlo: deve anzi
imparare ad agire nel mio senso.
La mia saggezza già da lungo tempo si ammassa come una nuvola, diviene sempre più
silenziosa e scura. Così fa ogni saggezza che un giorno dovrà partorire un fulmine.
Per questi uomini di oggi io non voglio essere luce, né essere chiamato luce. Li voglio
abbagliare: fulmine della mia saggezza, accecali!
8
Non vogliate al di là delle vostre capacità: c'è una cattiva falsità in coloro che vogliono
andare al di là delle loro capacità.
Particolarmente quando vogliono grandi cose! Poiché essi destano diffidenza per le cose
grandi, questi astuti falsari e commedianti, finché alla fine divengono falsi verso se stessi,
loschi, sepolcri imbiancati, mascherati con parole altosonanti, con virtù ostentate, con
opere luccicanti e false.
Abbiate in ciò molta preoccupazione, o Uomini Superiori! Nulla infatti io stimo oggi più
prezioso e raro dell'onestà.
L'oggi non appartiene forse alla plebe? Ma la plebe non sa che cosa sia grande, piccolo,
diritto e onesto: essa è ingenuamente storta e mente sempre.
9
Abbiate oggi una buona diffidenza, o Uomini Superiori, o coraggiosi! O voi sinceri! E tenete
nascosto il vostro intimo! L'oggi è infatti della plebe.
Ciò che la plebe un giorno imparò a credere senza fondamento, chi potrebbe oggi'
capovolgerglielo con fondamento?
Sul mercato valgono i gesti. Ma le cose profonde rendono la plebe diffidente.
E se una volta la verità vi ha per caso trionfato, allora domandatevi anche giustamente
diffidenti: 'Qual mai vigoroso- errore ha combattuto per lei?'
Guardatevi altresì dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Hanno occhi freddi e aridi,
davanti a loro ogni uccello è come spiumato.
Qualcuno si vanta anche di non mentire: ma l'impotenza a mentire non è ancora amore
per la verità. Guardatevi da essi!
L'immunità dalla febbre non è ancora conoscenza! Io non credo negli spiriti freddi. Chi non
può mentire, non sa che cosa sia la verità."
10
Se volete salire, allora adoperate le vostre gambe! Non lasciatevi trasportare in alto, non
sedetevi sulle spalle e sulle teste degli altri!
Sei montato a cavallo? Ora sali rapidamente verso la tua mèta? Bene, amico mio! Ma
anche il tuo piede storpio è a cavallo!
Quando sarai pervenuto alla mèta, quando scenderai dal tuo cavallo: proprio lì, sulla tua
altitudine, o Uomo superiore, incespicherai!
11
Creatori, Uomini Superiori! Si è gravidi solo del proprio figlio.
Non lasciatevi persuadere, convincere! Chi è dunque il vostro prossimo? Anche se operate
'per il prossimo', non create nulla per lui!
Disimparate l' ‘a favore di’, o creatori: proprio la vostra virtù vuole che voi non facciate
nessuna cosa 'a favore di' e 'per' e 'perché'. A tali meschine e false parole voi dovete
chiudere le vostre orecchie.
'A favore del prossimo' è virtù solo per la piccola gente: essa sa che 'tutti sono uguali' e
che 'una mano lava l'altra': non hanno il diritto né la forza del vostro egoismo!
Nel vostro egoismo, o creatori, è la prudenza e la provvidenza di colui che è gravido! Ciò
che nessuno ha ancora veduto con gli occhi, il frutto: che è protetto e curato e nutrito da
tutto il vostro amore.
Dove è tutto il vostro amore, cioè presso vostro figlio, là è anche tutta la vostra virtù. La
vostra opera, la vostra volontà è il vostro 'prossimo': non lasciatevi convincere da falsi
valori!
12
O creatori, o Uomini Superiori! Chi sta per partorire è ammalato; ma anche chi ha partorito
è impuro.
Interrogate le donne: non si partorisce per divertimento. Il dolore fa schiamazzare le
galline e i poeti.
O creatori, anche in voi molte cose sono impure. Ciò accade perché dovreste essere madri.
Un nuovo figlio: o quanto nuovo sudiciume viene al mondo! Allontanatevi! Chi ha partorito
deve purificare la propria anima!
13
Non siate virtuosi oltre le vostre forze! E non vogliate da voi stessi nulla di inverosimile!
Camminate sulle orme, già percorse dalla virtù dei vostri padri! Come volete salire se la
volontà dei vostri padri non sale con voi?
Ma chi vuole essere primogenito, guardi di non divenire ultimogenito! E là dove sono i vizi
dei vostri padri, non dovete cercar di sembrare bei santi!
Che cosa accadrebbe se volesse essere Casto colui, il cui padre era incline alle donne, ai
vini forti e ai cinghiali?
Sarebbe una follia! In realtà, credo che sia già tanto per uno così, se riesce ad essere
marito di una o di due o tre donne.
E anche se fondasse monasteri e scrivesse sopra la sua porta: 'Il sentiero della santità', io
direi: a che scopo! è una nuova follia!
Si è fabbricato un carcere e un rifugio: buon pro gli faccia! Ma io non ci credo.
Nella solitudine cresce ciò che ognuno vi porta, anche la bestia interiore. E perciò è da
sconsigliare a molti la solitudine.
Vi fu sulla terra fino ad oggi qualcosa di più laido dei santi del deserto? Per essi e intorno
ad essi non si scatenava soltanto il diavolo, ma anche il porco."
14
Timidi, vergognosi, impacciati, simili a una tigre che abbia sbagliato il salto: così, o Uomini
Superiori, vi ho visto spesso strisciare. Era un lancio che vi era riuscito male.
Ma voi, giocatori di dadi, che avete fatto! Non avete imparato a giocare e a prendere in
giro, come si deve giocare e prendere in giro! Non sediamo forse sempre ad un grande
tavolo da gioco e d'ironia?
E se a voi non è riuscito qualcosa di grande, siete forse voi stessi, per questo sbagliati? E
se siete sbagliati. voi, è sbagliato forse per questo l'uomo? Ma se è sbagliato l'uomo: bene,
allora!
15
Quanto più alto il suo genere, tanto più di rado riesce bene una cosa. Voi qui, Uomini
Superiori, non siete tutti riusciti male?
State allegri, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di voi
stessi, come si deve ridere!
Qual meraviglia che voi siate riusciti male o a mezzo, voi mezzi falliti! Non fermenta e
getta polloni in voi il futuro dell'uomo?
Quanto nell'uomo è più lontano, più profondo, più stellare, la sua forza inaudita, non
spuma e gorgoglia tutto insieme nei vostri vasi?
Qual meraviglia che qualche vaso si rompa!
Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere! O voi, Uomini Superiori, quante cose
sono ancora possibili!
E intanto quante cose sono già riuscite! Come è ricca questa terra di piccole e buone cose
perfette, di cose ben riuscite!
Ponetevi accanto piccole buone cose perfette, voi, Uomini Superiori! La cui dorata maturità
risana il cuore. Le cose perfette inducono a sperare.
16
Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che
disse: 'Guai a coloro che ridono!'? Non trovò egli sulla terra nessun motivo di riso? Vuoi
dire che cercò male. Anche un bambino lo trova.
Costui non amava abbastanza: altrimenti avrebbe amato anche noi, i ridenti! Ma egli ci
odiava e ci spregiava, e ci augurava strida e dolor di denti. Ma che forse è necessario
subito maledire quando non si ama? Mi sembra una cosa di cattivo gusto. Senonché, così
faceva lui, quell'uomo che non veniva a patti, l'assolutista. Proveniva dal popolo. Non
amava abbastanza: questo era il suo guaio: altrimenti si sarebbe meno adirato per il fatto
che non lo amavano. Ogni grande amore non vuole amore: vuole qualcosa di più. Sfuggite
tutti questi assolutisti! È una povera gente malata, una schiatta plebea: guardano con
occhio storto la vita, hanno il malocchio nei riguardi della terra.
Sfuggite tutti gli assolutisti! Hanno piedi pesanti e cuori opprimenti: non sanno danzare.
Eppure come potrebbe esser loro lieve la terra!
17
Tutte le buone cose giungono per vie ricurve ai loro fini. Simili a gatti, fanno l'arco e
borbottano interiormente le fusa davanti alla loro felicità che è prossima; tutte le buone
cose ridono.
Il passo tradisce e fa vedere se taluno già cammina per la sua strada: così voi vedete
camminare me! Ma colui che giunge in prossimità della sua mèta, quello danza.
In realtà non sono ancora diventato una statua, né sto in piedi rigido, tonto, impietrito
come una colonna; amo la rapida corsa.
E anche se sulla terra vi sono paludi e forti tormenti: chi ha piedi leggeri corre sul fango e
danza come su ferro polito.
Sollevate i vostri cuori, fratelli miei, sù! Più in alto! e non dimenticate le gambe! Sollevate
anche le vostre gambe! Voi buoni danzatori; ancor meglio: ponetevi a capo all'in giù!
18
Questa corona del ridente, questa corona di rose: io stesso mi sono messo sulla testa
questa corona, io stesso ho santificato il mio riso. Non ho trovato nessun altro abbastanza
forte per questo.
Zarathustra il danzatore, Zarathustra il leggero, che fa cenni con le ali, pronto al volo,
amico di tutti gli uccelli, preparato e disposto, agile alla gioia e alla serenità:
Zarathustra l'indovino, colui che parla chiaro e ride chiaro, non impaziente, non
assolutista, colui che ama il santo e la scappata; io stesso mi sono posto in testa questa
corona!
19
Sollevate i vostri cuori, o miei fratelli, in alto! Più in alto ancora! E non dimenticate le
gambe! Sollevate anche le vostre gambe, o voi buoni danzatori, e meglio ancora: ponetevi
a capo all'in giù!
V'è anche nella felicità l'animale pesante, vi sono coloro che hanno piedi piatti sin
dall'inizio. E si sforzano goffamente, simili ad un elefante, che cerchi di stare in piedi sulla
testa.
Ma meglio essere folleggianti di felicità che folleggiare per la disgrazia, meglio danzare
rozzamente, che camminare zoppi, perché così mi insegna la mia saggezza: anche la cosa
peggiore ha due buone facce:
anche la cosa peggiore ha buone gambe danzanti: perciò imparate, o Uomini Superiori, a
star bene in gamba sulle vostre gambe diritte!
E dimenticate le bolle del dolore e tutte le tristezze plebee! O come mi appaiono tristi oggi
questi buffoni plebei! Ma l'oggi è della plebe.
20
Fate come il vento, quando si precipita dalle sue forre montane: vuol danzare sul ritmo del
proprio flauto e i mari tremano e sobbalzano sotto le sue orme.
Dà ali all'asino, munge le leonesse; sia lodato questo spirito buono e indomito che
sopraggiunge come un vento di tempesta su ogni oggi e su ogni plebe, nemico delle teste
di cardo e dei cavillatori e di tutte le foglie vizze e della gramigna: lodato sia questo libero
selvaggio spirito tempestoso, che danza sulle paludi e sulle angosce come su prati!
Che odia gli alani plebei e ogni genere torbido di gente mancata: lodato sia questo spirito
di tutti i liberi spiriti, la tempesta ridente, che soffia polvere negli occhi a tutti quelli che
vedono nero e hanno la foruncolosi.
Voi, Uomini Superiori! La cosa vostra peggiore è questa: che non avete imparato a
danzare come si deve, a danzare al di là di voi stessi! Che importa che siate venuti sù
male!
Quante cose sono ancora possibili! Perciò imparate una buona volta a ridere su di voi
stessi! Sollevate i vostri cuori, voi buoni danzatori, in alto! più in alto! e non dimenticate
anche il buon riso!
Questa corona del ridente, questa corona di rose: a voi, o miei fratelli, io lancio questa
corona! Ho santificato il riso; voi Uomini Superiori, imparate a ridere!
IL CANTO DELLA MALINCONIA
1
Mentre Zarathustra diceva queste cose, stava in piedi presso l'ingresso della sua caverna;
ma nel dire le ultime parole, sfuggì ai suoi ospiti e volò per un istante all'aperto.
O puri profumi intorno a me - esclamò - o calma beata che mi avvolge! Dove sono i miei
animali? Sù, sù, venite fuori, o mia aquila o mio serpente! Ditemi, animali miei, tutti questi
Uomini Superiori insieme non mandano forse buon odore? Puri profumi intorno a me! Ora
so e sento finalmente come io, o miei animali, vi amo.
E Zarathustra ripeté ancora una volta: Io vi amo, animali miei!
Ma l'aquila e il serpente gli si fecero presso, quando egli pronunciò queste parole, e lo
guardarono negli occhi. Così furono in tre ad annusare sereni insieme l'aria buona. Perché
l'aria là fuori era migliore che presso gli Uomini Superiori.
2
Ma appena Zarathustra ebbe abbandonato la sua grotta, si alzò il vecchio mago, volse
intorno lo sguardo astuto e disse: Se n'è andato! E già, o voi, Uomini Superiori - per
stuzzicarvi con il medesimo nome adulatorio ed elogiativo che vi dava lui - già mi sento
prendere dal mio cattivo spirito d'inganno e di magia, dal mio diavolo melanconico, che
perciò è nemico di questo Zarathustra: perdonatelo! Ora egli vuole far magie davanti a
voi, è proprio la sua ora; ed io lotto invano per questo spirito maligno.
A voi tutti, qualunque siano i titoli che vi date da voi stessi, chiamandovi 'spiriti liberi',
'veritieri', 'pentimento dello spirito' o 'invasati' o 'grandi nostalgici', a voi tutti che soffrite
come me della grande ripugnanza, per cui il vecchio dio è morto e non è ancora apparso
alcun nuovo dio in fasce, a voi tutti giunge propizio il mio spirito maligno e diavolo
incantatore.
Vi conosco, Uomini Superiori, e conosco lui; conosco anche questo tipaccio, che io amo
contro voglia, questo Zarathustra: spesso mi sembra simile ad una bella larva di santo, ad
una nuova strana figura in maschera, in cui si compiace il mio cattivo spirito di diavolo
melanconico: io amo Zarathustra, così mi sembra spesso, proprio a causa del mio cattivo
spirito. Ma già mi assale e mi costringe, questo spirito di malinconia, diavolo crepuscolare:
e veramente, o voi Uomini Superiori, ci si diverte - aprite bene gli occhi! - ci si diverte, a
giungere nudo, non so se in forma di maschio o di femmina; ma viene, mi costringe;
ahimè! aprite bene i vostri sensi!
Il giorno si spegne, su tutte le cose sopraggiunge ora la sera, anche sulle cose migliori;
ascoltate e guardate, voi Uomini Superiori, qual diavolo sia, maschio o femmina, questo
spirito della malinconia serale!
Così parlò il vecchio mago, si guardò intorno e poi pose mano alla sua arpa.
3
Quando la luce schiara,
e quando la rugiada il suo ristoro
sopra la terra piove;
invisibile, ed anche non udibile,
perché tènere scarpe porta ai piedi
quella ristoratrice come tutti
coloro che ristorano: pensa, mio caldo cuore,
come un giorno sitivi,
avevi sete di celesti lacrime
e di rugiada, combattuto e stanco,
mentre su erbosi sentieri giallastri
intorno a te, attraverso alberi neri,
maligni raggi a sera trascorrevano,
sguardi accecanti dell'occhio solare?
'Tu innamorato della verità?' e ridevano;
'No! Sei solo un poeta!
Un animale, lento, predatore,
che vuol mentire,
deve sapendo e volendo mentire:
cercare prede,
dipinto e mascherato,
di se stesso una larva,
e di se stesso preda.
Innamorato della verità?
No! Solo un pazzo! Soltanto un poeta!
Che parla per immagini,
da folli larve esalando i suoi gridi,
vien giù su ponti fatui di parole,
giù lungo variopinti arcobaleni,
tra falsi cieli
e false terre,
vagabondo vagante,
è solo un pazzo! Soltanto un poeta!
Innamorato della verità?
Non calmo, ma immoto, freddo e lucido,
divenuto una statua,
divina colonna,
non posto in faccia ai templi,
sentinella di un dio:
no! ma ostile egli a questi monumenti
del vero, in ogni selva più che in templi
di casa,-pieno di felino slancio,
sgattaiolante dentro ogni finestra,
dentro ogni caso,
frugante ogni foresta
primordiale appassionatamente,
onde tu nelle selve
primordiali tra variopinte belve
correvi sano e bello e peccatore,
con le labbra bramose,
sanguinano infernale ed irrisore,
correvi, insidiatore e rapitore:
oppure come l'aquila che lunghi, lunghi
sguardi configge nell'abisso,
nei precipizi suoi:
oh, com'esse laggiù,
sempre più laggiù in basso,
in sempre più profondi abissi volgono!
Poi,
d'un tratto, a capofitto
con istintivo volo,
si gettan sugli agnelli,
di colpo, affamate,
bramose degli agnelli,
terribili per le anime di agnello,
terribili per tutto ciò che ha occhi
pecorili, lanosi, occhi d'agnello,
grigi, benevoli occhi dell'agnello!
Così
aquilee e come di pantera
sono le bramosie del poeta,
i desideri tuoi fra mille larve,
tu pazzo! Tu poeta!
Tu che guardavi agli uomini,
pecora insieme e Dio:
strappare Iddio nell'uomo,
la pecora nell'uomo,
e ridere strappando:
questa, questa è la tua felicità!
Felicità d'aquila e di pantera!
Felicità di un poeta e di un pazzo!'
Quando l'aria si schiara,
la falce della luna
verde tra rossi fuochi
invidiosà vien fuori:
nemica del giorno,
furtiva ad ogni passo
su cascate di rose
falciando, finché cadono,
cadono a notte pallide spioventi:
così io stesso caddi un giorno giù
dalla follia della mia verità,
dall'ansia del mio giorno,
stanco del giorno, malato di luce;
discesi verso la sera e l'ombra:
solo, arso ed assetato
dell'Una Verità:
ricordi ancora, o caldo cuore tu,
qual sete avevi?
Ch'io sia dunque bandito
da ogni verità,
solo un pazzo!
Un poeta!
DELLA SCIENZA
Così cantò il mago: e tutti coloro che erano lì radunati, entrarono, senza accorgersene,
come uccelli, nella rete della sua astuta e melanconica voluttà. Soltanto il coscienzioso
dello spirito non era stato acchiappato: strappò all'istante l'arpa di mano al mago e gridò:
Aria! Lasciate entrare l'aria pura! Lasciate entrare Zarathustra! Tu rendi questa caverna
opprimente e pestifera, vecchio mago malvagio! Tu seduci, falso, astuto, a desideri e a
selvaggi luoghi sconosciuti. E guai se uno come te si dedica con le parole e con gli atti alla
verità! Guai a tutti i liberi spiriti che non stanno in guardia da tali maghi! La loro libertà è
finita: tu persuadi e attrai nelle carceri, tu vecchio demonio melanconico! Dai tuoi lamenti
risuona un richiamo flautato; tu sei come coloro che con i loro elogi di castità
segretamente invitano alla voluttà!
Così parlò il coscienzioso; ma il vecchio mago guardava intorno a sé, godeva della sua
vittoria, e perciò mandava giù la rabbia che gli faceva il coscienzioso. Sta' zitto! disse a
bassa voce. - I buoni canti esigono una buona risonanza; dopo un buon canto è
necessario un lungo silenzio. Così fanno tutti qusti Uomini Superiori. Hai forse capito poco
del mio canto? In te c'è poco di spirito magico.
Tu mi lodi - ribatté il coscienzioso - separandomi da te; bene! Ma voi altri, che cosa vedo?
Sedete tutti ancor lì con sguardi cupidi, voi, anime libere, dove è la vostra libertà! Quasi mi
sembrate come coloro che hanno guardato a lungo danzare donne nude e sfrontate: le
vostre stesse anime danzano!
In voi, Uomini Superiori, deve esserci molto di ciò che questo mago chiama il suo malvagio
spirito di magia e di inganno: dobbiamo ben essere diversi.
In realtà, abbiamo parlato e discusso abbastanza insieme, prima che Zarathustra
ritornasse alla sua caverna, perché io non ignorassi quanto noi siamo diversi.
Anche quassù cerchiamo cose diverse, voi ed io.
Io infatti cerco maggior sicurezza, perciò sono venuto da Zarathustra. Egli è infatti la più
salda torre e volontà, oggi, mentre tutto tentenna, mentre tutta la terra trema. Ma voi, se
guardo negli occhi che fate, mi sembra quasi che cerchiate maggior insicurezza, maggior
orrore, maggior pericolo, maggior terremoto. Quasi penserei che siate tentati, perdonate
la mia presunzione, Uomini Superiori, siate tentati anche dalla peggiore e più pericolosa
vita, quella che maggiormente mi fa paura, dalla vita delle bestie selvagge, dalle foreste,
dalle caverne, dai monti scoscesi e dagli ingannevoli precipizi.
E non vi piace chi vi conduca fuori dal pericolo, bensì chi vi conduca per ogni strada, cioè il
corruttore. Ma, se tale bramosia è realmente in voi, pur tuttavia essa mi sembra
impossibile.
La paura, infatti, è il sentimento fondamentale ed ereditario dell'uomo; con la paura si
spiega ogni cosa, il peccato originale e la virtù ereditaria. Dalla paura è nata anche la mia
virtù, che si chiama scienza.
La paura, infatti, delle bestie selvagge, che venne più a lungo coltivata nell'uomo,
compresa la bestia che è nascosta in lui e che egli teme, e che Zarathustra chiama 'la
bestia interiore'.
Questa antica paura, divenuta alla fine sottile, spirituale, religiosa, oggi mi sembra quella
che viene chiamata scienza.
Così parlò il coscienzioso; ma Zarathustra, che stava rientrando nella sua caverna e aveva
udito l'ultimo discorso e ne aveva indovinato il senso, gli gettò una manciata di rose e rise
delle sue ‘verità’.
Come! esclamò. – Che cosa ascolto qui? Veramente o sei pazzo tu o lo sono io: io
capovolgo la tua 'verità'.
La paura infatti, la nostra, è eccezione. Il coraggio e l'avventura e la passione dell'incerto e
dell'intentato, il coraggio mi sembra che costituiscano tutta la preistoria dell'uomo.
Agli animali più selvaggi e coraggiosi egli ha invidiato e rubato le loro virtù: solo così
divenne uomo.
Questo coraggio, fattosi alla fine sottile, spirituale, religioso, questo coraggio umano con il
volo dell'aquila e la prudenza del serpente: questo, mi sembra che si chiami oggi...
Zarathustra! gridarono tutti insieme coloro che erano lì radunati, come con una sola
bocca; e fecero una grande risata; ma da essi si levò come una nuvola greve. Anche il
mago rise e aggiunse con astuzia: Bene! Se n'è andato, il mio spirito maligno!
Non vi ho forse messo in guardia contro di lui, quando vi dissi che era un imbroglione, uno
spirito falso e ingannatore?
Specialmente poi quando si presenta nudo. Ma che cosa posso io contro le sue insidie! Ho
forse creato io lui e il mondo?
Ebbene! Torniamo di nuovo buoni e d'accordo! Anche se Zarathustra mi guarda male guardatelo là! Nutre rancore contro di me - prima che venga la notte, imparerà di nuovo
ad amarmi e lodarmi; non può vivere a lungo senza fare tali sciocchezze.
Egli ama i suoi nemici: e pratica quest'arte meglio di tutti quelli che ho conosciuto. Ma di
ciò si vendica appunto sui suoi amici!
Così parlò il vecchio mago, e gli Uomini Superiori lo applaudirono: così che Zarathustra
andò in giro e con malizia e amore strinse la mano ai suoi amici, simile ad uno che voglia
intendersi con tutti e chieder loro scusa di qualcosa. Ma come giunse alla porta della sua
caverna, ecco che già lo assaliva di nuovo il desiderio di uscir fuori e dei suoi animali; e
voleva sgusciar via.
TRA LE FIGLIE DEL DESERTO
Non andartene! - esclamò allora il viandante che chiamava se stesso l'ombra di
Zarathustra. - Rimani con noi, altrimenti potrebbe di nuovo assalirci la vecchia e cupa
afflizione. Già quel vecchio mago ci ha dato quanto di peggio aveva, e guarda ora, il
buono e pio Papa ha le lacrime agli occhi e si è già imbarcato di nuovo sul mare della
malinconia. Questi re vorrebbero fare una buona figura davanti a noi: essi infatti hanno
appreso a far ciò meglio di tutti noi! Ma se non avessero testimoni, scommetto che anche
loro ricomincerebbero il gioco malvagio, il maligno gioco delle nubi vaganti, della molle
malinconia, del cielo coperto, del sole offuscato, del sibilante vento autunnale, il maligno
gioco degli ululati e delle grida di dolore: rimani con noi, o Zarathustra! Qui c'è molta
miseria nascosta che vuole parlare, molta sera, molte nubi, molta aria pesante! Tu ci hai
nutrito di forte cibo virile e di efficaci sentenze: non lasciare che alla frutta ci assalgano di
nuovo spiriti fiosci ed effeminati! Tu solo rendi l'aria intorno a me penetrante e pura! Dove
ho mai trovato sulla terra un'aria così buoi na come da te nella tua caverna? Ho veduto
molti paesi, il mio naso ha imparato a sentire e ad apprezzare molte atmosfere: ma presso
di te le mie narici gustano il loro più grande piacere!
Tranne… tranne... Oh, perdonami un vecchio ricordo! Perdonami un vecchio canto
conviviale, che io composi un giorno tra le figlie del deserto: presso di loro infatti c'era una
consimile buona chiara aria orientale; là io ero lontano dalla vecchia Europa nuvolosa
umida malinconica!
Allora amavo quelle figlie dell'oriente e un altro azzurro regno dei cieli, sul quale non
gravavano né nubi né pensieri.
Voi non potete credere come esse stavano graziosamente sedute quando non danzavano,
profonde, ma senza pensieri, come piccoli segreti, come enigmi infiocchettati, come noci
conviviali, variopinte e strane in verità, ma senza nubi: enigmi che si lasciavano
indovinare: per amore di queste fanciulle io inventai allora un salmo conviviale.
Così parlò il viandante e l'ombra; e prima che qualcuno gli rispondesse, aveva già afferrato
l'arpa del vecchio mago e incrociato le gambe, guardando intorno a sé calmo e saggio; ma
con le narici aspirava lentamente, interrogando l'aria, come uno che in un paese nuovo
annusi la nuova aria straniera. Poi con una specie di muggito si mise a cantare.
2
Il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti!
Ah! Grandioso!
Proprio grandioso!
Un degno principio!
Grandioso e africano!
Degno di un leone
o di una scimmia urlatrice o moralista, ma non per voi.
Voi, carissime amiche,
ai cui piedi a me
la prima volta,
europeo sotto i palmizi,
è concesso posare. Sela [Espressione tratta dalla Bibbia: ‘finito’, ‘non se ne parla più’].
Ma è strano veramente!
Là seggo io ora,
vicino al deserto, e di già
lontano dal deserto,
devastato, nel nulla:
proprio ingollato giù
da quest'oasi minuscola:
essa aprì la sua bocca
graziosa sbadigliando,
la più olezzante di tutte le fauci:
ed io vi caddi, di là, laggiù, fra voi,
voi carissime amiche! Sela.
Salve, a quella balena,
quando permise all'ospite
di restar vivo! Capite
la mia dotta allusione?
Salve al suo ventre,
se era dunque
ventre amabile d'oasi siccome
questo: ciò che io però non credo,
perché vengo d'Europa,
terra più dubitosa che ion tutte
le vecchie mogli e femmine.
Possa Dio migliorarla!
Amen!
Ecco ch'io seggo in quest'oasi minuscola, simile ad un dattero, bruno, indolcito, stillante
d'oro, ansioso
d'una rotonda bocca di ragazza,
ma ancora più dei taglienti incisivi,
freddi, di una ragazza, come neve bianchi: verso i quali anela appunto
il cuore di ogni caldo dattero. Sela.
Simile a questi frutti
del sud, fin troppo simile
giaccio io qui, qui, da piccoli
alati insetti
contornato e aggredito,
simili ad ancor più piccoli
pazzerelli colpevoli
desideri e capricci,
circondato da voi,
silenziose, piene di presagi
ragazze gatto,
Dudu e Suleika, sfingeo,
sì che in un detto
molti sensi io comprimo:
(e mi perdoni Iddio
queste colpe linguistiche!)
io seggo qui, spirando l'atmosfera,
aria di paradiso,
aria lucente e lieve, aria soffusa
d'oro, di cui migliore
dalla luna mai scese,
e fu forse per caso,
o accadde per trabocco di coraggio?
Come gli antichi poeti raccontano.
Ma io dubbioso metto
ciò in dubbio, perché vengo
dall'Europa,
terra più dubitosa che non tutte
le vecchie mogli e femmine.
Possa Dio migliorarla!
Amen!
Bevendo questa splendida atmosfera,
con le narici gonfie come coppe,
senza futuro, senza rimembranza,
io seggo qui, tra voi,
amiche mie carissime,
e contemplo la palma,
che simile ad una danzatrice
si piega e torce e nei fianchi si dondola,
e a guardarla vien fatto di imitarla!
Simile a danzatrice che, mi sembra,
a lungo già, pericolosamente
a lungo sempre su una gamba stava?
E così essa, mi sembra, obliò
d'aver quell'altra gamba?
Invano almeno io
ho cercato il gioiello,
il perduto gemello
- intendo l'altra gamba -,
nella prossimità
sacra della sua cara e sì graziosa
sottana dondolante e sventolante.
Sì, se volete, o belle amiche mie,
credermi interamente:
lei l'ha proprio perduta!
Perduta!
Per sempre l'ha smarrita, l'altra gamba!
Peccato, per quell'altra cara gamba!
E dove può mai stare ora triste e abbandonata
la gamba solitaria?
Impaurita essa è forse
da un truce biondo e riccio
selvatico leone? Oppure è già
scorticata e svuotata,
pietosamente, ahimè, sbocconcellata! Sela.
Oh, non piangete,
voi teneri cuori!
Non piangete,
cuori di dattero e seni di latte!
Voi cuoricini
di liquirizia!
Non pianger più,
tu pallida Dudù!
Sù, Suleika! Coraggio!
Oppure dovrebbe
qualcosa di più forte,
corroborante, fare a te del bene?
Un detto benedetto?
Un appello solenne?
Sù, forza, dignità!
Virtuosa dignità! Degna d'Europa!
Soffia, sù, soffia ancora,
mantice di virtù!
Ah!
Ruggi ancora una volta, moralisticamente!
Leone moralistico,
ruggi innanzi alle figlie del deserto!
Ché un virtuoso ululato,
carissime fanciulle,
vale assai più che tutto
il fervore europeo e la sua fame!
Ed io qui sono pronto,
perché sono europeo,
né altro posso, mio Dio!
Amen!
Il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti!
IL RISVEGLIO
Dopo il canto del viandante e dell'ombra, la caverna si riempì d'un tratto di rumore e di
risa: e poiché gli ospiti radunati parlavano tutti insieme, e anche l'asino, incoraggiato in tal
modo, non stava più tranquillo, Zarathustra fu preso da un certo malumore ironico contro i
suoi ospiti, quantunque contemporaneamente gioisse della loro allegria. Poiché essa gli
apparve come un segno di guarigione. Così che scivolò all'aperto e parlò ai suoi animali.
Dove se n'è andata la loro angoscia? - esclamò, e già respirava meglio lui stesso
riprendendosi dal suo piccolo disappunto. Da me hanno dimenticato, mi sembra, l'urlo di
dolore!
Anche se, purtroppo, non ancora l'urlo. E Zarathustra si chiuse le orecchie con le mani,
perché appunto si andava mescolando l'I-A [Ja= Sì in tedesco!] dell'asino in singolar modo
con il rumore del giubilo di quegli Uomini Superiori.
Sono allegri - cominciò di nuovo – e, chissà? forse a spese del loro ospite; anche se essi
hanno imparato da me a ridere, non è tuttavia il mio riso quello che essi hanno appreso.
Ma che importa! Sono gente vecchia: guariscono a modo loro, ridono a modo loro; le mie
orecchie hanno già sopportato cose peggiori e non sono per questo divenute scontrose.
Questo giorno è giorno di vittoria: già discende, già vola, lo spirito della pesantezza, il mio
antico grande nemico! Come finirà bene questo giorno, che era cominciato così male e
così pesante!
E finire adesso vuole. Già viene la sera: cavalca sul mare, la brava cavallerizza! Come
oscilla felice, lei che rientra, nelle sue selle purpuree!
Il cielo guarda chiaro dall'alto, il mondo si distende più in basso: o voi, strane creature che
siete veflute a me, vale la pena di vivere presso di me! w
Così parlò Zarathustra. E di nuovo proveniva a lui il grido e il riso degli Uomini Superiori
dalla caverna: anzi, proprio in quel momento, ricominciò.
Abboccano, la mia esca agisce, si allontana da essi anche il loro nemico, lo spirito della
pesantezza. Già essi imparano a ridere di se stessi: sento bene?
Il mio cibo virile agisce, il mio dire pieno di forza e di succhi: e veramente non li ho nutriti
di falsi legumi! Ma con cibo di guerrieri, cibo di conquistatori: nuove bramosie ho
risvegliato in loro.
Nuove speranze sono nelle loro braccia e nelle loro gambe, il loro cuore si tende. Essi
trovano nuove parole e il loro spirito respirerà presto coraggio.
Un tal cibo non è certamente per bambini, né per femmine nostalgiche vecchie o giovani.
Per le loro viscere ci vuole altro; io non sono né il loro medico né il loro educatore.
Lo schifo si allontana da questi Uomini Superiori: bene! questa è la mia vittoria. Nel mio
regno essi si sentono sicuri, ogni sciocca vergogna si dissipa, si riscuotono.
Scuotono il loro cuore, tornano ad essi le ore buone, fanno feste e mangiano di nuovo, e
divengono riconoscenti.
Questo è per me il miglior segno: divengono riconoscenti. Non passerà lungo tempo che
essi inventeranno delle feste e innalzeranno delle pietre memoriali alle loro vecchie gioie.
Sono dei convalescenti! Così parlò Zarathustra, lieto, al suo cuore e guardò fuori; ma i suoi
animali fecero ressa intorno a lui e onorarono la sua gioia e il suo silenzio.
2
Ad un tratto l'orecchio di Zarathustra si riscosse: proprio la caverna, che fino ad allora era
stata piena di rumore e di risa, divenne silenziosa, di un silenzio mortale; ma il suo naso
avvertiva un vapore, come un incenso di tronchi di pino ardenti, che mandava un buon
odore.
Che accade? Che stanno facendo? - si chiese, e si fece presso l'ingresso, in modo da poter
vedere non visto i suoi ospiti. E, meraviglia delle meraviglie! Che mai doveva vedere!
Sono tutti diventati di nuovo pii, pregano, sono pazzi! w esclamò, e si meravigliò oltre
misura. E, guarda un po'! tutti quegli Uomini Superiori, i due re, il papa fuori servizio, il
cattivo mago, il mendicante volontario, il viandante e l'ombra, il vecchio indovino, il
coscienzioso dello spirito e l'uomo brutto: tutti stavano in ginocchio come bambini e
vecchie donne credenti e pregavano l'asino. Quand'ecco che l'uomo brutto cominciò a far
gargarismi e sbuffare, come se dovesse venir fuori da lui qualcosa di inesprimibile;
senonché, quando riuscì finalmente a parlare, vedi un po', era una pia strana litania in
lode dell'asino venerato e adorato. Questa litania suonava così:
Amen! E lode e onore e sapienza e ringraziamento e premio e forza ál nostro Dio, di
eternità in eternità!
Ma l'asino gridò I-A.
Egli porta la nostra soma, assunse figura di servo, è paziente di cuore e non dice mai no;
e chi ama il suo Dio, questi lo punisce.
Ma l'asino gridò I-A.
Non parla: anche se dice sempre SÌ al mondo da lui creato: così egli celebra il suo mondo.
La sua astuzia è quella di non parlare: in tal modo è raro che abbia torto.
Ma l'asino gridò I-A.
Passa per il mondo con aspetto insignificante. Grigio è il colore del suo corpo in cui cela la
sua virtù. Se ha spirito, lo nasconde; ma ognuno crede alle sue lunghe orecchie.
Ma l'asino gridò I-A.
Quale nascosta sapienza è quella di avere lunghe orecchie e di dir soltanto Sì, e mai No.
Non ha forse creato il mondo a sua immagine, più stupido che fosse possibile?
Ma l'asino gridò I-A.
Tu percorri cammini diritti e storti; poco ti importa ciò che agli uomini sembra diritto o
storto. Al di là del bene e del male è il tuo regno. La tua innocenza è di non sapere ciò che
sia innocenza.
Ma l'asino gridò I-A.
Vedi come non allontani nessuno da te, né i mendicanti né i re. Lasci che il più piccolo
bambino, se occorre, ti si avvicini, e se i cattivi' ragazzi ti prendono in giro tu dici
semplicemente I-A.
Ma l'asino gridò I-A.
Ami le asinelle e i fichi freschi, non sei sofistico verso nessun dibo. Un cardo ti pizzica il
cuore se hai fame. In questo c'è in te una sapienza divina.
Ma l'asino gridò I-A.
LA FESTA DELL'ASINO
Ma a questo punto della litania, Zarathustra non poté più trattenersi, gridò anche lui I-A,
ancora più forte dell'asino, e saltò in mezzo ai suoi ospiti impazziti. Ma che cosa state
facendo, figlioli? gridò, tirando sù coloro che pregavano a terra. - Guai se vi vedesse
qualche altro oltre Zarathustra! Ognuno riterrebbe che voi con il vostro nuovo credo foste
divenuti i peggiori bestemmiatori o le più pazze di tutte le vecchie beghine! E tu stesso,
vecchio papa: come metti d'accordo quel che tu stai facendo con la tua persona, adorando
in tal modo un asino come se fosse un dio?
O Zarathustra - rispose il papa perdonami - ma nelle cose di Dio io sono persino più
esperto di te. E così è giusto. Adorare il signore Iddio, in questa figura, come in nessuna
figura! Pensa a questo detto, mio nobile amico: tu comprendi subito che in questo detto
sta la verità. Colui che disse: 'Dio è Spirito' fu anche colui che fino ad oggi sulla terra ha
fatto il passo e il salto più lungo verso l'ateismo: un detto di questo genere non è facile
ripararlo! Il mio vecchio cuore salta e balza dalla gioia nel vedere che sulla terra v'è ancora
qualcosa da adorare. Perdona ciò, o Zarathustra, ad un vecchio pio cuore di papa!
E tu - disse Zarathustra al viandante e all'ombra – tu ti dici e ti ritieni uno spirito libero? E
ti dai qui a servizi superstiziosi e preteschi di questo genere? Invero tu ti comporti qui
peggio che con le tue maligne ragazze brune, o cattivo nuovo credente!
Abbastanza male - ribatterono il viandante e l'ombra - questo sì, hai ragione: ma che cosa
posso farci io! Il vecchio Dio rinasce, o Zarathustra, puoi dire quel che vuoi. Il bruttissimo
uomo è colpevole di tutto ciò: è lui che l'ha risvegliato. E se dice di averlo un giorno
ucciso, la morte, a proposito di dèi, è sempre un pregiudizio.
E tu - esclamò Zarathustra - tu, cattivo vecchio mago, che cosa hai fatto! Chi potrà in
questo libero tempo continuare a crederti, se tu credi a tali divine asinità? È stata una
sciocchezza, quella che hai fatto; e tu, che sei un uomo intelligente, come hai potuto farla?
O Zarathustra - rispose il mago intelligente – hai ragione, è stata una sciocchezza, e ora
mi pesa abbastanza.
E tu, poi - disse Zarathustra al coscienzioso dello spirito - pensa un po' e mettiti un dito al
naso! Non senti nulla contro la tua coscienza? Non è il tuo spirito troppo sofisticato per
questo pregare e incensare di questi tuoi fratelli oranti? w
C'è qualcosa - rispose il coscienzioso, e si pose un dito al naso; c'è qualcosa in questo
spettacolo che fa persino bene alla mia coscienza.
Forse è vero che io non devo credere a Dio: ma una cosa è certa, che Dio sotto questo
aspetto mi pare ancora che si presenti nella forma più degna di fede.
Dio deve essere eterno, secondo la testimonianza dei più credenti: e chi ha tanto tempo
non si dà pena del tempo. Più lentamente e stupidamente che è possibile; in tal modo, un
essere di questo genere può riuscire a far molte cose.
E chi ha troppo spirito farebbe bene a innamorarsi fino alla follia della stupidità e della
follia. Pensa a te stesso, o Zarathustra!
Tu stesso, in realtà! anche tu potresti divenire un asino per troppa gioia e saggezza.
Non percorre volentieri un saggio perfetto le strade più tortuose? L'apparenza lo dice, o
Zarathustra, la tua apparenza.
E tu stesso, infine – esclamò Zarathustra, e si rivolse verso l'uomo bruttissimo che era
ancora a terra con il braccio alzato verso l'asino (gli stava proprio dando da bere del vino).
– Parla, o inesprimibile, che cosa hai mai fatto? Mi sembri cambiato, il tuo occhio arde, il
mantello del sublime avvolge la tua bruttezza: che cosa hai fatto?
È vero quel che dicono quelli là, che tu lo hai risvegliato? E perché? Non era bene che
fosse morto e seppellito?
Tu stesso mi sembri risvegliato: che cosa hai fatto? Che cosa hai invertito? Come ti sei
convertito? Parla, o inesprimibile!
O Zarathustra – rispose l'uomo bruttissimo – tu sei un briccone!
Se vive o rivive o è definitivamente morto, chi di noi due può saperlo meglio? Lo chiedo a
te. Ma una cosa io so: proprio da te l'appresi una volta, o Zarathustra: chi vuole uccidere
nel modo più assoluto, ride.
'Non con l'ira, ma con il riso si uccide': così dicesti una volta. O Zarathustra, tu nascosto,
tu distruttore senza ira, tu pericoloso santo, sei un briccone!
2
Allora accadde che Zarathustra, meravigliato di tutte queste risposte birbone, fece un salto
indietro fin sulla porta della sua caverna e, rivolgendosi a tutti i suoi ospiti, gridò a gran
voce:
O pazzi tutti quanti! Buffoni che vi nascondete e vi mascherate davanti a me! Come a
ognuno di voi è sobbalzato il cuore di gioia e malignità per il fatto che voi siete finalmente
ridivenuti come i fanciulli, vale a dire pii, per il fatto che avete fatto di nuovo come i
fanciulli, e cioè vi siete messi a pregare, avete congiunte le mani dicendo: 'Dio mio'!
Ma ora andatevene da questa scuola d'infanzia che è la mia caverna, dove oggi si fanno
un sacco di bambinerie. Raffreddate qua fuori il vostro entusiasmo infantile e il vostro
rumore dei cuori!
Certo: se non diverrete come i fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. w (E
Zarathustra indicò con le mani in alto.)
Ma noi non sappiamo che farcene del Regno dei Cieli: siamo diventati uomini, vogliamo il
Regno terrestre.
3
E ancora una volta Zarathustra riprese a parlare. O miei nuovi amici - esclamò – voi
straordinari, voi Uomini Superiori, come mi piacete ora, da che siete ridiventati allegri!
Proprio siete tutti rifioriti: mi sembra che a tali fiori quali voi siete occorrono nuove feste,
una qualche coraggiosa sciocchezza, qualcosa, come un rito sacro o una festa dell'asino,
qualche gaio pazzo Zarathustra, un vento impetuoso, che soffi e rischiari le vostre anime.
Non dimenticate questa notte e questa festa dell'asino, voi Uomini Superiori! E ciò che voi
avete inventato qui, presso di me, e io lo prendo come un buon augurio, cose di questo
genere le inventano soltanto coloro che stanno guarendo!
E festeggiatela ancora questa festa dell'asino, fatelo per voi, e fatelo anche per me! E in
memoria di me!
Così parlò Zarathustra.
IL CANTO EBBRO
1
Intanto quelli, l'uno dopo l'altro, se n'erano andati via all'aperto, nella fresca notte assorta;
quanto a Zarathustra, prese per mano il più brutto degli uomini per mostrargli il suo
mondo notturno e la grande luna rotonda e le argentee cascate d'acqua vicine alla sua
caverna. Lì si fermarono, alla fine, in silenzio, l'uno accanto all'altro, uomini d'età
avanzata, ma dal cuore saldo e confortato, meravigliati di stare così bene sulla terra, e
l'intimo silenzio della notte scendeva più a fondo nel loro cuore. E ancora Zarathustra
pensò tra sé: quanto mi piacciono questi Uomini Superiori!, ma non lo disse, poiché
intendeva rispettare la loro felicità e ii loro silenzio.
Avvenne allora ciò che in quel tempo prodigioso fu la cosa più mirabile. Il più brutto degli
uomini ricominciò a gorgogliare e starnutire, e quando riuscì a pronunciare parole, ecco
che dalla sua bocca scaturì una domanda pura e armoniosa, una buona, chiara e profonda
domanda, che fece balzare in petto il cuore a quanti l'udirono.
O voi, amici miei tutti quanti siete - disse quell'uomo bruttissimo – che ve ne sembra? Per
amore di questo giorno io, per la prima volta, sono felice d'aver vissuto.
E non mi stanco di affermarlo. Vale la pena di vivere sulla terra: un solo giorno, una festa
trascorsa con Zarathustra mi ha insegnato ad amare la terra.
È dunque questa la vita?, dico e ripeto alla Morte. Ebbene, se è così, ricominciamo!
Amici miei, che ve ne sembra? Non volete ripetere anche voi con me: È allora questa la
vita ? E dunque: per amore di Zarathustra, ricominciamo!
Così parlò il più brutto tra gli uomini, e non mancava più molto a mezzanotte. Che credete
che accadesse allora? Non appena gli Uomini Superiori udirono la sua domanda, divennero
all'improvviso consapevoli della loro trasformazione e della loro guarigione e di colui al
quale essi erano debitori. Allora corsero incontro a Zarathustra, ringraziandolo,
ammirandolo, adorandolo, baciando le sue mani, festeggiandolo ciascuno a suo modo:
alcuni infatti ridevano, altri piangevano. L'antico indovino danzava di gioia e anche se,
come alcuni narratori affermano, egli era pieno di dolce vino, certamente era ancora più
pieno di dolce vita e in lui non c'era più stanchezza. Alcuni narrano perfino che anche
l'asino abbia danzato; non per nulla, infatti, quell'uomo bruttissimo gli avrebbe dato da
bere del vino. Le cose possono essere andate in un modo o nell'altro, e anche se, nella
realtà, quella sera l'asino non danzò, accaddero tuttavia cose assai più grandi e strane e
meravigliose della danza di un asino. In breve, come dice lo stesso Zarathustra: Che
importa?
2
Ma Zarathustra, mentre accadevano tali cose con quell'uomo bruttissimo, rimase là, in
piedi, come un ubriaco: l'occhio spento, la lingua balbettante, il passo vacillante. Chi
potrebbe dire, oggi, di che genere fossero i pensieri che in quei momenti passavano per la
mente di Zarathustra? E tuttavia appariva chiaro che il suo spirito si era ritirato lontano e
volava in lunghe lontananze, come su un alto passo di monti - così è scritto - tra due mari,
vagante fra il passato e l'avvenire come una densa nuvola. Ma poi, lentamente, mentre gli
Uomini Superiori lo stringevano tra le braccia, tornò un poco in se stesso e allontanò con e
mani la folla di coloro che volevano adorano e di quelli che erano in pena per lui; ma
continuò a tacere. A un tratto, però, volse di scatto la testa, come se avesse udito
qualcosa. Indi pose il dito alla bocca ed esclamò: Venite! Ed ecco che intorno tutto si
calmò e addolcì; dal profondo giungeva il lento rintocco di una campana. Zarathustra tese
l'orecchio, come gli Uomini Superiori; ma poi pose ancora una volta il dito alla bocca ed
esclamò di nuovo: Venite! Venite: si va incontro alla mezzanotte! - e la sua voce era
mutata. Ma ancora egli non si muoveva: cresceva il silenzio, cresceva l'intima dolcezza
dell'attesa, e tutti tendevano l'orecchio: anche l'asino e gli animali di Zarathustra, l'aquila e
il serpente, e insieme la caverna di Zarathustra e la grande luna fredda e la notte stessa.
Ma Zarathustra portò per la terza volta il dito alla bocca e disse: Venite! venite! venite!
Cominciamo dunque a camminare! È l'ora! Cominciamo a camminare nella notte!
3
O voi, Uomini Superiori, si cammina verso la mezzanotte: ed io voglio dirvi qualcosa
all'orecchio, così come a me parla all'orecchio quella vecchia campana, così dolcemente e
segretamente, così terribilmente, così dal profondo del cuore, come parla a me quella
campana di mezzanotte, che ha veduto tante più cose di un solo uomo. Essa già batteva
per i vostri padri le ore del dolore: ahi! ahi!, come sospira! come ride nel sogno! l'antica,
profonda, profonda mezzanotte! Zitti! Zitti! Ora, si sentono cose che di giorno non
possono udirsi; ora, in questa fredda atmosfera in cui anche si placa ogni rumore del
vostro cuore, ora sì che essa parla e si sente e si insinua nelle chiaroveggenti anime
notturne: ahi! ahi!, come sospira! come ride nel sogno!
Non odi come essa ti parla segretamente, terribilmente dal fondo del cuore, l'antica,
profonda, profonda mezzanotte?
O uomo, ascolta!
4
Guai a me! Dov'è mai fuggito il tempo? Non sono disceso in pozzi profondi? Dorme il
mondo.
Ahi! Ahi! Il cane ulula, la luna risplende. Preferirei morire, sì, morire, piuttosto che dirvi ciò
che pensa e sente il mio cuore di mezzanotte.
Ma io sono già morto. Tutto è finito. E tu, o ragno, che vai tessendo intorno a me? Vuoi
forse sangue? Ahi! ahi! La rugiada discende, è giunta l'ora: l'ora che mi agghiaccia e fa
tremare, che chiede e interroga e domanda: ‘Chi ha abbastanza cuore per questo? Chi
dovrà essere il signore, della terra? Chi vorrà dire: questa è la vostra via, o grandi e
piccole correnti!’
L'ora viene, o uomo; tu, Uomo Superiore, ascolta! Queste parole sono solo per orecchi fini,
per i tuoi orecchi; che dice la profonda mezzanotte?
5
Così mi sento trasportato dall'ora e la mia anima danza. Opera del giorno! Opera diuturna!
Chi dovrà essere il signore della terra?
La luna è fredda, tace il vento. Ahi! Ahi! Volate già abbastanza alto? Sì, voi danzate: ma
una gamba non è un'ala.
O voi, eccellenti danzatori, tutta la gioia se ne va via. Il vino è diventato feccia, ogni calice
s'è intorbidato, i sepolcri tentano parole.
Voi non volate abbastanza alti, e i sepolcri balbettano: 'Liberate dunque i morti! Perché è
così lunga la notte? La luna non ci fa ebbri?'
Voi, Uomini Superiori, liberate, orsù, i sepolcri, risvegliate i morti! Oh, che sta scavando il
verme? L'ora si avvicina, romba la campana, russa ancora il cuore, il tarlo ancora scava, il
tarlo del cuore. Ah! ah! Profondo è il mondo!
6
Dolce lira! Oh, dolce lira! Io amo il tuo suono, il tuo ebbro suono di rospo! Da quanto
tempo, da quale lontananza mi giunge il tuo suono! da laggiù, dai lagni dell'amore!
Tu, campana antica; tu, dolce lira! Ogni dolore ti s'impresse nel cuore, dolore di padre,
dolore dei padri, dolore dei padri dei padri, e la tua parola si fece matura; matura come
l'autunno e il pomeriggio d'oro, come il mio cuore solitario; e tu parli; il mondo s'è fatto
maturo, la vigna s'imbruna, e ora vuoi morire, morire di felicità. Voi, Uomini Superiori, non
ne sentite il profumo? Perché ne esala un profumo segreto, un alito e un odore di eternità,
un roseo profumo di bruno vino dorato di antica felicità, d'ebbra felicità mortale di
mezzanotte, la quale canta: profondo è il mondo, più profondo che il giorno non pensi!
7
Lasciami! lasciami! Io sono troppo puro per te. Non mi toccare! Non è dunque perfetto il
mio mondo?
La mia pelle è troppo pura per le tue mani. Lasciami, stupido, sciocco, afoso giorno! Non è
più chiara di te la mezzanotte?
I più duri dovranno ereditare il mondo, i più misconosciuti, i più forti, gli animi che
appartengono alla mezzanotte, più chiara e profonda di qualunque giorno.
O giorno, brancolando tu mi cerchi? Vai cercando la mia felicità? Tu sai bene ch'io sono
ricco, solitario, una miniera di tesori, un vero e proprio scrigno colmo di tesori.
O mondo, mi vuoi? Sono per i tuoi gusti abbastanza mondano? Sono per te abbastanza
ieratico? Sono per te abbastanza divino? O giorno, e tu, mondo, siete troppo goffi, perché
non possedete mani più sapienti, non carpite una più profonda felicità, un più profondo
dolore, un qualche iddio, ma guardatevi bene dal tendere i vostri artigli verso di me: il mio
dolore, la mia gioia sono profondi; o bizzarro giorno, ma io non sono un dio, né un divino
inferno: profondo è il dolore.
8
Il dolore divino è più profondo, o tu, mondo bizzarro! Tendi le mani verso il dolore divino,
non verso di me! Che cosa sono io? Una dolce lira ebbra, una lira di mezzanotte, una
campana gracidante, che nessuno comprende, ma che deve parlare per I sordi, o voi,
uomini Superiori! Giacché voi non mi comprendete!
Laggiù! laggiù! O giovinezza! Ora meridiana! Discendere del giorno! E venuta la sera e poi
la notte e poi la mezzanotte, il cane ulula, e il vento: non è il vento un cane? Guaisce,
abbaia, ulula. Ahil Ahi! come sospira, come ride, come rantola e ansima, la mezzanotte!
Come parla sobriamente, pur ebbra di poesia! Ha dunque superato in ebbrezza la sua
propria ebbrezza? È dunque più che desta? Forse sta ruminando?
Il suo dolore sta ruminando, e sogna, l'antica profonda mezzanotte, sogna ancora più il
suo piacere. Il piacere, sì, se già il dolore è profondo: il piacere è ancora più profondo del
dolore.
9
E tu, o vite, perché m'esalti? Io t'ho tagliata! Io sono crudele, vedi: tu sanguini: che vuoi
dire la tua lode della mia ebbra crudeltà!
'Tutto ciò che è perfetto, ogni cosa matura vuoi morire!' Così tu parli. Benedetto,
benedetto il coltello del potatore! Ma, al contrario, tutto ciò che è immaturo vuole morire:
o dolore! [Partendo dall'intuizione della convergenza dei contrari, Nietzsche identifica il
piacere col dolore: tuttavia la sua dottrina è fondata sull'esaltazione del piacere, come più
profondo del dolore e come vera rivelazione dell'infinito della vita. È su questa intuizione
del filosofo tedesco che si fonda la dottrina decadente di larga parte dell'edonismo
contemporaneo, da D'Annunzio a Barbus, a Lawrence, eccetera]
Dice il dolore: 'Passa! Via, va' via, dolore!' Ma tutto ciò che soffre vuole vivere, per
diventare maturo e gioioso e bramoso, desideroso della lontananza, delle altitudini
vertiginose, delle più alte chiarità. 'Io voglio eredi', dice ogni cosa che soffre 'voglio figli,
non voglio me stessa.'
Ma il piacere non vuole eredi, non vuole figli. La gioia vuole soltanto se stessa, vuole
l'eternità, vuole l'eterno ritorno, vuole l'eterna identità con se stessa.
Dice il dolore: 'Spezzati, sanguina, cuore! Cammina, gamba! Ala, vola! Va' avanti! Sali,
dolore!' Suvvia, coraggio! Andiamo! O mio vecchio cuore: dice il dolore: Passa!
10
Voi, Uomini Superiori, che ne pensate? Sono forse un indovino, un sognatore, un ebbro?
Sono un interprete di sogni? Una notturna campana di mezzanotte?
Una goccia di rugiada? Un vapore e un profumo di eternità? Non sentite? Non fiutate? Non
vedete che il mio mondo è ora perfetto e che la mezzanotte è anche mezzogiorno?
Il dolore è anche piacere, la maledizione anche benedizione, la notte è anche un sole;
perciò allontanatevi oppure imparate che un savio è anche un folle.
Avete mai detto sì al piacere? O amici miei, allora voi avete detto sì anche a ogni dolore.
Tutte le cose sono fra loro collegate, concatenate, innamorate l'una dell'altra.
Se mai avete voluto per due volte quel che aveste una volta, se mai avete detto: 'Tu mi
piaci, o gioia! Va', attimo fuggente!', allora avete anche voluto che tutto ritornasse.
Tutto di nuovo, tutto eternamente, tutto collegato, concatenato, l'uno dell'altro
innamorato, oh allora, così, voi amate il mondo, voi eterni, amatelo in eterno e per ogni
tempo, e anche al dolore dite: 'Passa, ma ritorna! Poiché ogni gioia vuole eternità!'
11
Ogni gioia vuole l'eternità di tutte le cose, vuole il miele e la feccia, vuole l'ebbra
mezzanotte, vuole i sepolcri, vuole il conforto delle lacrime sui sepolcri, vuole il tramonto
d'oro; che cosa non vuole la gioia! La gioia è più assetata, cordiale, affamata, terribile,
intima che non ogni dolore; vuole se stessa, affonda i denti in se stessa, e la volontà
dell'anello lotta in lei [Chiara allusione all'Anello del Nibelungo dl Wagner. "La volontà
dell'anello" è la volontà di potenza, di ricchezza: causa, in Wagner, della rovina dei
Nibelunghi, degli dèi (Crepuscolo) e del mondo. In Nietzsche, profeta della volontà di
potenza, diventa invece motivo di esaltazione], vuole amore, vuole odio, è colma di
ricchezze, dona, è prodiga, elemosina chi la voglia, ringrazia chi la prende, chiederebbe
persino di essere odiata [Allusione al motivo masochistico del piàcere che si ricava
dall'umiliazione e dal dolore fisico e morale], tanto ricca è la gioia che ha sete di dolore, di
inferno, di odio, di umiliazione, di mutilazione, di mondo; e questo mondo, oh, voi sapete
cos'è!
E voi, Uomini Superiori, anche a voi si offre la gioia, l'infrenabile, la felice gioia; si offre al
vostro dolore, oh voi, sgorbi di voi stessi! Ogni gioia che è eterna si protende verso
l'imperfezione e l'errore.
Perché ogni gioia vuole se stessa, e perciò vuole anche il dolore! O felicità, o dolore! Oh,
infrangiti, cuore! Voi, Uomini Superiori, imparate dunque: il piacere vuole eternità.
Il piacere vuole l'eternità di tutte le cose, la profonda, profonda eternità.
12
Avete appreso il mio canto? Avete capito che vuoi dire? Sù dunque! Ebbene! Voi, Uomini
Superiori, cantatemi ora la mia canzone a ballo!
Intonate voi stessi il canto il cui titolo è 'Ancora una volta' e il cui senso è 'In ogni
eternità'! - Cantate, voi, Uomini Superiori, la ballata di Zarathustra!
O uomo, ascolta!
Che dice la profonda mezzanotte? 'Dormii, dormii,
da un sogno fondo son risorta:
profondo è il mondo,
e più profondo che non pensi il giorno.
Profonda è la pena,
la gioia più profonda del dolore:
la pena dice: passa!
Ma ogni gioia vuole l'eternità:
vuole profonda, profonda eternità!’
IL SEGNO
La mattina successiva a quella notte, Zarathustra balzò dal suo giaciglio, si strinse ai
fianchi la cintura e uscì dalla sua caverna, forte e ardente come il sole che al mattino
emerge dalle montagne ancora avvolto dalle tenebre.
Tu, costellazione grande - esclamò, come aveva già fatto una volta - tu, profondo occhio
della gioia, che sarebbe tutta la tua felicità, se non avessi chi illuminare? E se le creature
restassero nelle loro case mentre tu sei già desto, e vieni fuori e ti diffondi in tutta la tua
geneposità, come si adirerebbe il tuo orgoglio!
Ma ecco! Essi dormono ancora, gli Uomini Superiori, mentre io sono desto: essi non sono
dunque i miei veri compagni! Non essi io attendo sulle mie montagne!
Vado verso la mia fatica, verso il mio giorno: ma essi non comprendono i segni del mio
mattino, e il mio passo non è per essi il richiamo del risveglio.
Essi dormono ancora nella mia caverna, il loro sogno si abbevera ancora ai miei canti
ebbri. Ma l'orecchio che ascolti ciò che io dico, l'orecchio obbediente manca alle loro
membra.
Così parlò Zarathustra al suo cuore, quando sorse il sole, e volse lo sguardo interrogativo
agli spazi celesti, poiché udiva su di sé il grido acuto della sua aquila. Bene! le gridò. –
Così mi piace, questo è ciò che mi ci vuole. I miei animali sono desti perché io sono desto.
La mia aquila è desta e saluta come me il sole. Con artigli d'aquila afferra la nuova luce.
Voi siete i miei veri animali; io vi amo.
Invece mi mancano ancora i miei veri uomini!
Così parlò Zarathustra, ma allora accadde che egli si sentì avvolto da uno stormo di
innumerevoli uccelli; ma il battito di tante ali e la ressa intorno alla sua testa erano così
forti che egli chiuse gli occhi. E invero lo stormo cadde su di lui simile a una nuvola, a un
nugolo di frecce che s'abbatte sopra un nuovo nemico. Invece era una nuvola d'amore che
avvolgeva un nuovo amico.
Che mi sta succedendo? pensò Zaratustra, sorpreso nel cuore, e si lasciò lentamente
cadere sulla grande pietra che era posta all'ingresso della sua caverna. Senonché, mentre
agitava le braccia intorno a sé, su di sé e sotto di sé per difendersi dai teneri uccelli, ecco
che gli accadde qualcosa di ancora più singolare: affondò le dita inavvertitamente in un
caldo viluppo di peli; dinanzi a lui si udì tosto un ruggito, un tenero, lungo ruggito leonino.
Il segno viene - disse Zarathustra, e il suo cuore trasecolò. Quando davanti a lui fu chiaro,
egli vide giacere innanzi ai suoi piedi una possente belva fulva che strofinava la testa sulle
sue ginocchia, e non voleva staccarsi da lui tanto era il suo amore, simile a quello di un
cane che ritrova il proprio padrone. Ma le colombe, nel loro amore, non erano da meno del
leone; e ogni volta che una colomba sfiorava il muso del leone, la belva scuoteva la testa
con meraviglia e rideva.
Vedendo tutto questo, Zarathustra disse una sola parola: I miei figli, i miei figli; poi
tacque. Ma il suo cuore era libero e dai suoi occhi cadevano lacrime sulle sue mani. Non
vedeva più nulla e stava lì seduto, immobile, senza neanche difendersi dagli animali. Le
colombe presero a svolazzargli intorno e si posarono sulle sue spalle, sfiorando i suoi
capelli bianchi, in teneri giochi senza fine. Ma il possente leone andava lambendo senza
posa le lacrime che piovevano sulle mani di Zarathustra, e ruggiva e bramiva timidamente.
Così facevano gli animali.
Tutto questo durò lungo tempo, o pochissimo: perché, a dire il vero, non esiste un tempo
terreno per cose di questo genere. Frattanto gli Uomini Superiori si erano destati nella
caverna di Zarathustra e s'erano messi tutti in fila per andare incontro a Zarathustra e
porgergli il saluto del mattino, poiché, svegliandosi, s'erano accorti che egli non era più in
mezzo a loro. Ma appena giunsero alla porta della caverna, e li precedeva il rumore dei
loro passi, il leone sobbalzò potentemente, abbandonò Zarathustra e con un ruggito
selvaggio si slanciò verso la caverna. Gli Uomini Superiori, udendolo ruggire, urlarono tutti
insieme come fossero una sola bocca, indietreggiarono precipitosamente e in un attimo
scomparvero.
Zarathustra, assordato e confuso, si levò dal suo sedile, si guardò intorno meravigliato,
interrogò il suo cuore, comprese, e fu solo. Che cosa ho udito? disse infine lentamente. Che mi è successo?
E già affiorava in lui il ricordo, e in un lampo capì tutto ciò che era accaduto tra ieri e oggi.
Qui è la pietra - esclamò mentre si accarezzava la barba - sulla quale sedevo ieri mattina;
qui mi venne incontro l'indovino, qui udii il primo grido, il grande grido di dolore.
O voi, Uomini Superiori, era proprio del vostro dolore che ieri mattina mi parlava quel
vecchio indovino; voleva indurmi e tentarmi ad associarmi alla vostra pena. 'O
Zarathustra,' mi diceva 'vengo a tentarti per l'ultimo tuo peccato'. Per l'ultimo mio
peccato? - gridò Zarathustra, e rise crucciato delle sue stesse parole. Che cosa mi fu
risparmiato per l'ultimo mio peccato?
E ancora una volta Zarathustra sprofondò in se stesso, di nuovo sedendosi sulla pietra a
meditare. D'un tratto si alzò.
Pietà! [Letteralmente: il mio dolore (Leid) e la mia compassione (Mitleid). Quasi un'ironia,
ancora una volta, contro Wagner che, specialmente nel Parsifal, aveva fatto della
compassione il fondamento della sua visione morale del mondo] Pietà per gli Uomini
Superiori! w - esclamò a voce alta; e il suo volto divenne di bronzo. w Ma per questo c'è
tempo!
La mia passione e la mia compassione, che importano?
Cerco io forse la felicità? Io cerco di portare a termine l'opera mia!
Orsù, dunque! È venuto il leone, i miei figli mi sono accanto, Zarathustra è divenuto
maturo, la mia ora è giunta.
Questo è il mio mattino, il mio giorno sta sorgendo: sollevati dunque, vieni a me, tu,
grande ora meridiana!