Renato Bazzoni e l`Italia da salvare

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Renato Bazzoni e l`Italia da salvare
Renato Bazzoni
e l’Italia da salvare
Alberto Saibene
Questo scritto è stato stampato in occasione della mostra
“Conoscere e amare l’Italia. Le trasformazioni del Paese
attraverso le fotografie di Renato Bazzoni, padre del FAI”.
Dal 30 gennaio al 1 marzo 2015
FAI - Fondo Ambiente Italiano
La Cavallerizza - via Carlo Foldi 2, Milano
www.mostrabazzoni.it
Coordinamento progetto Annamaria Morando
Mostra a cura di Alberto Saibene
Progetto allestimento Corrado Anselmi
Ricerca iconografica Vincenzo Valastro
Video Simone Pera
Musiche Doriano Zurlo
Coordinamento editoriale Paolo Barcucci
Coordinamento grafico Valentina Pasolini
Ufficio Stampa FAI - Fondo Ambiente Italiano Simonetta Biagioni, Novella Mirri
Assistente progetto Raffaella Rogora
La pubblicazione “Amare l’Italia e nutrirsi del suo paesaggio” è a cura di Antonella Cicalò Danioni
Hanno collaborato: Marco Caputo, Elena Colombo, Francesca Cotugno, Francesca Decaroli,
Alice Forni, Arianna Mascetti, Valentina Ranucci, Simona Sozzi, Giorgia Toso, Valeria Sessa,
Alessia Stefanini, Ginevra Vitiello
Un ringraziamento speciale a
Carla Bazzoni che ha messo a disposizione l’archivio privato
Andreina Rocca Bassetti per il generoso contributo a sostegno della mostra
Agema Corporation per l’impegno costante nella valorizzazione della figura di Renato Bazzoni
La mostra è organizzata con il fondamentale contributo e sostegno degli Amici del FAI
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In una notte d’autunno del 1963 l’architetto Bazzoni si sveglia nel
cuore della notte e scuote la moglie Carla. È sudato, gli tremano le mani,
ma la voce è chiara: “Qui sta andando tutto alla malora. Bisogna fare
qualcosa!”. Carla, che lo conosce bene, gli risponde: “Renato, piantala.
Sei il solito esagerato. Torniamo a dormire”. Non so se questa scena
sia realmente avvenuta, ma quando mi sono trovato davanti migliaia e
migliaia di foto di Renato Bazzoni che rappresentavano l’Italia dalla fine
dell’ultima guerra fino agli anni Ottanta, ho voluto saperne qualcosa di
più sull’autore e ho provato a ricostruirne una parte della biografia.
Nel 1963, per il sesto anno consecutivo, il prodotto interno lordo, cresce tra il 5 e il 6%. L’Italia sta vorticosamente cambiando: le stazioni di
Milano e Torino registrano ogni giorno l’arrivo di migliaia di persone dal
Sud in cerca di lavoro, nuovi quartieri periferici crescono attorno alle
grandi città senza piani regolatori (in quell’anno Le mani sulla città di
Francesco Rosi, cronaca dello scempio edilizio di Napoli, vince il Leone
d’oro a Venezia), le campagne, le zone collinari e di montagna vengono
senza rimorso abbandonate, lungo le coste del nord e la dorsale adriatica si costruiscono a ritmo forsennato le seconde case per il neonato
ceto medio. Se L’Italia non è un paese povero (1960), come suona il titolo di un documentario che l’ENI di Enrico Mattei ha commissionato al
grande regista olandese Joris Ivens, non è nemmeno più Un volto che ci
somiglia (1960), per citare un libro fotografico sul nostro Paese a cura
di Carlo Levi. Italo Calvino, autore di La speculazione edilizia (1958), il
racconto della deturpazione della costa ligure di Ponente, parla di “un’inaspettata belle époque”. È la storia più volte raccontata, ormai un mito
di fondazione, del nostro boom economico.
Lo stesso Bazzoni, figlio di un artigiano mobiliere trapiantato dalla
Toscana a Milano, gode del sopraggiunto benessere: nel suo studio
progetta abitazioni, fabbriche, villette, edifici anche importanti per il
Comune di Milano. Fonda e dirige «Architettura cantiere. Rivista di architettura tecnica ed industria edilizia», dedica una monografia al laterizio. Raggiunti i quarant’anni, è nato nel 1922, dovrebbe sentirsi un professionista «di successo», cogliere l’ebrezza del boom. Eppure è inquieto.
Coltiva la passione, nata ai tempi del Politecnico, dove ora tiene un corso di Composizione Architettonica, per l’architettura ‘minore’ o spontanea, per le tecniche di costruzione. La Triennale del 1951, l’anno in cui
si è laureato, è dedicata all’architettura spontanea, riannodandosi alle
ricerche d’anteguerra sull’architettura rurale di Giuseppe Pagano. Bazzoni perlustra e fotografa l’Italia alla ricerca di tracce del passato, sia
quello illustre dell’epoca romana, sia esempi anche modestissimi di architettura rurale: lo colpisce un basamento, l’utilizzo del legno nelle valli
del Nord, le casupole contadine costruite con estrema perizia, che, con
nomi diversi, sono sparse lungo tutta la Penisola. Il suo è uno sguardo
‘milanese’, di un architetto che ha abbracciato le idee del Movimento
moderno, che vive nella città che trascina il resto del Paese verso la
modernità. Si rende conto però, e sono veramente pochissimi in quel
momento a comprenderlo, che la sua generazione è l’ultima che vedrà
un’Italia ‘virgiliana’, che un patrimonio inestimabile è in via di estinzione.
Ha letto i libri di Roberto Pane, l’architetto napoletano che sta fotografando e censendo gli stessi edifici nell’Italia meridionale, e ora vorrebbe
fare qualcosa.
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Italia nostra è nata a Roma nell’ottobre 1955 per iniziativa di un ristretto gruppo di persone: Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, Luigi Magnani Rocca, Hubert Howard, Pietro Paolo
Trompeo (l’illustre francesista che ne trova il nome), Riccardo Musatti,
Leopoldo Piccardi, Mario Salmi. Ognuno di loro ha una biografia interessante, nessuno una particolare competenza per i temi che l’Associazione si propone di affrontare. Sono uniti da un alto sentire civico
ed estetico e da una nuova forma di amore per l’Italia, essendo ormai
inservibile il patriottismo della generazione precedente che ha condotto
ai disastri del fascismo e della guerra. Umberto Zanotti Bianco, senatore a vita e figura ‘mitica’ del nostro XX secolo (patriota, educatore,
meridionalista, antifascista e fortunato archeologo dilettante), ne diviene il primo presidente. Li fiancheggia, fin dall’inizio, Antonio Cederna,
di famiglia milanese, trasferitosi a Roma per perfezionare gli studi in
archeologia ma che diviene giornalista e che, sulle colonne de «Il Mondo» e de «L’Espresso», ingaggia furibonde polemiche contro il sacco di
Roma e le devastazioni del nostro Paese. La storia delle origini di Italia
nostra è stata raccontata più volte da Giorgio Bassani e da Elena Croce
che rileva come sia stato Zanotti Bianco, forte della sua esperienza nelle associazioni di volontariato e utilizzando il metro del «disinteresse»
per giudicare chi si avvicinava al gruppo dei fondatori, a spingere l’Associazione a perdere l’élitismo d’origine e a divenire più democratica. Fin
dall’inizio l’idea di farne un National Trust italiano, l’associazione privata
inglese che possiede e gestisce beni di interesse culturale, è presente
in alcuni soci. Alleata di Italia nostra è l’Associazione Nazionale Centri
Storici Artistici che nasce a Gubbio nell’autunno 1960 per opera di un
gruppo di architetti, urbanisti, giuristi, studiosi di restauro e dei rappresentanti dei comuni di Ascoli Piceno, Bergamo, Erice, Ferrara, Genova,
Gubbio, Perugia e Venezia. Sono, si direbbe oggi, gruppi di pressione:
hanno accesso alla grande stampa, riescono a farsi ricevere dai ministri, ma lo spirito del tempo è contro di loro. Riescono ad ottenere successi parziali, a bloccare gli scandali più evidenti. La battaglia simbolo
di quegli anni è quella in difesa dell’area dell’Appia antica. In prima fila
Cederna, soprannominato dagli amici “l’appiomane”, ma che, incurante
dello scetticismo (e degli interessi) di molti ambienti romani, dimostra
la sua tempra di erede dei grandi illuministi lombardi e di aver fatto sua
la lezione di Carlo Cattaneo.
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La sezione milanese di Italia nostra, nata nel 1959, è quella a cui
Bazzoni propone una mostra sui danni che le trasformazioni del Paese stanno arrecando al patrimonio storico-artistico. Il titolo è Italia che
rovina e Bazzoni coinvolge un gruppo di giovani - da allora diverrà un
costruttore di affiatate comunità - la maggior parte dei quali neolaureati in architettura, nel compiere campagne fotografiche in giro per l’Italia. Roberto Brambilla, che ha poco più di 25 anni, ne diviene il braccio
destro, ricorda che l’interesse suscitato dall’iniziativa è nei primi anni
(1964-65) scarso. Si deciderà di coinvolgere il Touring Club, allora diretto dall’architetto Ferdinando Reggiori, associazione ben più grande
e radicata nel territorio, per dare slancio alla ricerca. Un altro alleato è
Arrigo Castellani, direttore della rivista «Pirelli», raffinato e intelligente
house organ dell’industria milanese, che sul primo numero del 1966 dedica a Italia da salvare, questo il nome che diverrà definitivo, la copertina e un corposo dossier con gli articoli di Antonio Cederna, Franco
Russoli (lo storico dell’arte, direttore della Pinacoteca di Brera, erede di
Fernanda Wittgens, e che sarà tra i fondatori del FAI) e Roberto Guiducci, ingegnere divenuto sociologo e urbanista per studiare le evoluzioni
della società. Cederna nel lungo articolo di apertura dal titolo «Italia da
salvare. Partiamo da zero» - corredato da molte ed eloquenti foto di denuncia di Bazzoni e dei suoi collaboratori - dopo aver implacabilmente enumerato tutti gli scempi dell’ultimo decennio (aree monumentali,
centri storici, distruzione del verde e del paesaggio, l’assalto ai litorali, il
mancato rispetto verso i parchi nazionali) si chiede a cosa sia dovuto.
Le risposte sono più d’una: un’attardata cultura idealista che riduce il
paesaggio a uno stato d’animo, l’insensibilità culturale di molti “tecnici”
che edificano senza tener conto della complessità storica e naturale del
nostro Paese, la voracità della speculazione al servizio di una nazione
che sta cambiando troppo in fretta e senza regole. Conclude: “il problema è naturalmente politico” e invoca una legge urbanistica che dia un
nuovo assetto al territorio. La vittoria che ha bloccato la speculazione
sull’Appia antica è solo un punto di partenza, “dobbiamo renderci conto
che partiamo da zero”. Nell’introduzione al dossier si scrive che la mostra è prevista per l’autunno di quell’anno.
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Il 1966 è l’anno zero della coscienza ambientalista del nostro Paese e la preparazione della mostra diventa improvvisamente importante.
Il 19 luglio una frana causa il crollo di molti edifici di un quartiere di Agrigento, costruito senza regole negli anni precedenti. Gli abitanti riescono
a mettersi in salvo, ma il panorama di rovine e la facile ricerca delle
cause spingono il governo di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro ad
accelerare l’iter di approvazione di una legge urbanistica. Il tema aveva
provocato aspre battaglie all’interno della stessa DC e la sconfessione
della proposta di legge di Fiorentino Sullo che proponeva l’esproprio di
una parte delle aree private a favore dei Comuni che poi avrebbero ceduto ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani
regolatori. Sullo viene emarginato dal partito e Moro cerca di prendere
tempo mentre nel frattempo la febbre edilizia non accenna a diminuire.
La frana di Agrigento mette ognuno davanti alle proprie responsabilità. Nel piovosissimo autunno di quell’anno, il 4 novembre 1966, straripa
l’Arno: Firenze è invasa da un fiume di fango e tutta la Toscana subisce
danni. Il numero delle vittime è fissato in 35; i danni al patrimonio artistico sono incalcolabili: si staccano le formelle del Ghiberti dal Battistero
del Duomo, i depositi degli Uffizi sono completamente alluvionati, così
come i magazzini della Biblioteca Nazionale Centrale (la più importante
d’Italia), il Crocifisso di Cimabue in Santa Croce è quasi irrimediabilmente perduto. Lo stesso 4 novembre, allora festa nazionale, l’acqua alta
invade Venezia raggiungendo quasi i due metri. Gli effetti interessano
almeno 20.000 persone. Sembra il colpo di grazia a una città già in via
di spopolamento. Le immagini di Firenze e Venezia fanno il giro del mondo. La solidarietà internazionale è fortissima: non è solo l’Italia a essere
colpita, ma il cuore della civiltà occidentale. L’impreparazione è però evidente: e ora che si fa?
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«L’Italia da salvare» è ‘il fondo’ che compare il 7 aprile 1967 in prima
pagina del «Corriere della Sera» a firma Indro Montanelli. L’articolo lancia la mostra Italia da salvare che si inaugura quel giorno nella Sala delle
Cariatidi di Palazzo Reale a Milano. I 50.000 visitatori e i 14.000 studenti
che affollano nelle tre successive settimane la mostra sono colpiti, più
che dai reperti artistici che arrivano dalle zone alluvionate, dalle 450
fotografie scattate da Bazzoni e dalla sua équipe, impaginate dal grafi-
co Pino Tovaglia e disposte per pannelli nella sala semidistrutta che il
Comune di Milano ha voluto lasciare così a ricordo delle distruzioni belliche. Alla mostra è unito un piccolo catalogo, con una memorabile copertina a opera di Tovaglia, in cui si spiegano ed esemplificano le ragioni
della ricerca. Scorrendo i nomi del Comitato d’onore si ha l’impressione
che l’intera classe dirigente nazionale abbia risposto all’appello: i grandi industriali hanno messo mano al portafoglio, i politici per una volta
sembrano aver capito, il mondo intellettuale sostiene gli scopi della mostra. La direzione della ricerca è affidata a Renato Bazzoni che ha al suo
fianco Roberto Brambilla e Pino Tovaglia. Un testo non firmato introduce il catalogo: “i problemi della tutela, presupposto fondamentale della
cultura di un Paese veramente moderno, discussi finora solo da studiosi
e da tecnici, devono essere conosciuti da tutti gli italiani, perché contribuiscano a formare una coscienza storica e un costume civile di vita.
Soltanto così potrà attuarsi una politica attiva e coordinata per la salvaguardia di un patrimonio culturale di valore inestimabile, che appartiene
all’intera umanità e deve essere tramandato alle future generazioni”. Gli
stessi concetti sono ribaditi nell’Introduzione alla mostra: “la necessità
di tutelare e valorizzare la eredità del nostro passato non può limitarsi
alle singole opere d’arte di carattere eccezionale, ma deve estendersi
ad abbracciare tutto il complesso dei valori storici, ambientali e naturali esistenti sull’intero territorio nazionale”. Si passa poi in rassegna,
con una scelta mirata di fotografie, il patrimonio archeologico, i monumenti isolati, i centri storici e gli ambienti urbani e rurali, il patrimonio
naturale, i parchi nazionali, le calamità naturali e la difesa del suolo, il
rapporto tra uomo e natura, l’impatto delle infrastrutture (autostrade)
sul paesaggio, quello delle industrie, l’inquinamento atmosferico ma
anche dell’acqua e del suolo, le città senza piano ovvero il fallimento
dell’urbanistica. Sono solo due i pezzi firmati: «Gli italiani e l’Italia» di
Cederna e «Esperienza di una mostra» di Bazzoni. Il primo sintetizza gli
argomenti di quasi 20 anni di impegno: scarso senso civico del nostro
popolo, il falso mito del progresso che tutto giustifica e le conseguenze
che riguardano soprattutto il degrado dei centri storici e la distruzione
della natura. Il problema è politico “nel senso più ampio della parola”
e riguarda non solo la classe politica, ma anche gli uomini di cultura e
in genere gli italiani come sempre intenti al proprio particulare e conclude: “o continuiamo a fare del nostro paese l’espressione di un volgo
disperso e senza nome, o lo trasformiamo nello specchio di una società
ordinata e cosciente”. Bazzoni, dal canto suo, ricapitola la storia della
mostra: “un primo anno di lavoro isolato e saltuario”, poi il coinvolgimento di Italia Nostra e del Touring Club e la compilazione di “una vasta
bibliografia”. In una seconda fase si sono stati coinvolti Enti e Associazioni di tutta Italia a cui è stato inviato un preciso questionario e chiesta
documentazione fotografica. Risposte poche ed evasive, in generale.
Si decide allora di costituire gruppi di indagine regionale: “attraverso il
lavoro di questi gruppi siamo finalmente arrivati agli italiani vivi, a quelli
che non avevano paura, a quelli che sembrava non attendessero altro
per sfogare rabbie represse”. Sette architetti hanno scattato 20.000 fotografie, altre 5.000 sono arrivate da altri fotografi professionisti locali o
espressamente inviate. Da lì la mostra ha cominciato a prendere forma
con uno schema di ricerca che viene pubblicato al termine del catalogo
e che, dividendo tra paesaggio urbano, rurale e naturale, offre una prima classificazione e una metodologia all’imponente lavoro di indagine.
Vista con l’occhio di oggi Italia da salvare ha l’importanza storica delle
grandi inchieste parlamentari degli albori dello Stato unitario: l’inchiesta Jacini, la Franchetti-Sonnino, con la differenza però che fotografa
una società nel momento della sua massima trasformazione.
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Qualche giorno dopo l’inaugurazione giunge a Milano per visitare la
mostra il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. È Bazzoni a
fargli da guida. Saragat incontra anche Giulia Maria Crespi, proprietaria in quegli anni del «Corriere della Sera» insieme ad altri rami della
famiglia. È lei, amica di Fernanda Wittgens e di Elena Croce, a battersi
perché i temi ambientali siano tra le priorità del giornale. Proprio nel
1967 fa assumere Antonio Cederna che, con Alfredo Todisco, terrà desta l’attenzione su questi temi. Una fotografia ritrae Saragat con la Crespi e Bazzoni. La signora, poco più che quarantenne, punta il dito verso
il Presidente come ad ammonirlo di fare sul serio. Bazzoni la guarda tra
lo stupito e l’ammirato. Sono quasi coetanei e si sono conosciuti nella
sezione milanese di Italia nostra, presieduta dall’avvocato Giorgio Bergamasco, futuro senatore del PLI.
Il 6 agosto 1967 il Parlamento, appena prima delle sospirate vacanze,
approva la tanto attesa legge urbanistica, la cosiddetta “legge Ponte”
che disciplina le licenze edilizie, tutela i piani urbanistici, pone un freno
allo sviluppo edilizio incontrollato. Non basta, ma è un primo segnale di
ravvedimento dopo vent’anni di cementificazione selvaggia.
Nel mese di ottobre, allestita da Bazzoni (come sempre avverrà), la
mostra riapre i battenti al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ad inaugurarla il Presidente del Consiglio Aldo Moro, cui seguiranno le visite
di Giacomo Mancini, ministro dei Lavori Pubblici, di Giulio Andreotti,
ministro della Difesa e di altri ministri e personalità. La mostra avrà,
nel 1968, successive tappe a Verona, Venezia, Bologna. In quello stesso
1968, su impulso di Elena Croce e sull’onda dell’entusiasmo suscitato
dall’esperienza di Italia da salvare, nasce l’idea di fondare un equivalente
italiano del National Trust, sotto il patronato di Stefano Siglienti, allora presidente dell’IMI, intitolato «Alessandro Manzoni». L’esperienza si
esaurisce dopo una serie di riunioni e uno statuto in via di approvazione.
Tra i partecipanti Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni.
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Già nel 1968 l’interesse dell’opinione pubblica per i temi della tutela
e della difesa del territorio sembra affievolirsi. Il ministro della Pubblica
Istruzione Luigi Gui, che aveva rappresentato il governo nell’inaugurazione milanese di Italia da salvare, deve ora fronteggiare la protesta studentesca.
Solo una pattuglia di giornalisti generosi tiene desta l’attenzione: oltre ai ricordati Cederna e Todisco per il «Corriere» diretto da Giovanni
Spadolini, Mario Fazio e Paolo Monelli per «La Stampa» diretta da Alberto Ronchey. A loro si unisce l’azione di qualche amministratore più
attento di altri, la lungimirante attività di Giovanni Urbani all’Istituto Na-
zionale del Restauro. E Bazzoni? Prosegue l’impegno di divulgazione,
specie sul tema del paesaggio, su riviste settoriali, sul bollettino di Italia
nostra, fa conferenze in giro per l’Italia e l’Europa, continua a fotografare. Sono gli anni in cui si occupa di Venezia con un’analitica campagna
fotografica che documenta il progressivo degrado della città, ma anche
la possibilità di una vita diversa da quella imposta dai ritmi del progresso. Inoltre si occupa di una versione internazionale di Italia da salvare,
Art & Landscape of Italy, too late to be saved? L’occasione la offre il fatto
che il suo più stretto collaboratore, Roberto Brambilla, fa ora l’architetto
a New York e riesce, attraverso i buoni uffici di Susanna Agnelli, a far sì
che la mostra si inauguri al Metropolitan nell’aprile 1972. La rassegna
stampa è notevole, i maggiori organi di stampa statunitensi se ne occupano, qualcuno fa notare che l’esposizione offre un aspetto dell’Italia
complementare a quella che si può vedere negli stessi giorni al MOMA:
Italian Domestic Landscape, la celebre mostra di Emilio Ambasz che consacra il design italiano a livello internazionale. Art & Landscape of Italy
avrà 19 tappe in giro per i maggiori musei degli Stati Uniti e una londinese alla Serpentine Gallery. Il responsabile, sotto il cappello di Italia
Nostra, è Roberto Brambilla e a lui si può attribuire il testo non firmato
che apre il catalogo e spiega le ragioni della ricerca: “1) to focus world
attention on Italy’s preservation problems in their larger meaning of interrelationships beetwen causes and effects; 2) to provide a case-study
model to other countries faced with the same process of accelerated
growth and change”.
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Bazzoni, pur seguendo con partecipazione tutto il cammino della
mostra americana, non andrà mai negli Stati Uniti. In quel periodo è
impegnato nel lavoro di ricerca per la Prima relazione sulla situazione
ambientale in Italia, un’indagine promossa dalla Tecneco (una società
dell’ENI) in collaborazione col «Corriere della Sera» tra il 1972 e il 1973.
L’architetto, accompagnato da Paolo Parigi, ha l’occasione di fotografare
da un aereo da turismo buona parte delle coste italiane e dell’Italia meri-
dionale: quello che è avvenuto nei dieci anni precedenti non ha bisogno
di commenti. La ricerca, che forse per l’ENI è un’occasione di riscatto
dopo aver provocato una serie di danni ambientali in varie parti della Penisola, viene presentata a Urbino nel giugno 1973 ed è subito attaccata
da Giovanni Berlinguer sulle pagine de «L’Unità», con l’argomento che
non si può chiedere a chi inquina di disinquinare. Un ragionamento limitato che non coglie la buona volontà di una delle principali industrie del
Paese. Disilluso, anche se per motivi diversi, anche Bazzoni che partecipa al convegno con un intervento sulle coste italiane che così conclude: “queste nostre denunce sono soltanto esercitazioni accademiche,
minuetti al suono di un carillon che si scarica alla fine della esercitazione. Infatti chi potrebbe provvedere non è qui fra noi. Non è mai fra noi,
impegnato com’è in altri minuetti”.
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Nel giro di un lustro la classe politica ha perso il suo credito verso chi
si occupa di tutela e ambiente. La società civile capisce che è il momento di fare da sé. Il 1973 si chiude mestamente, dopo che è scoppiata la
prima crisi energetica che ha come conseguenza per l’Italia il piano “austerity” varato dal governo Rumor. È ancora vivo in chi ha vissuto quegli anni, anche bambino, il ricordo delle domeniche a piedi, delle targhe
alterne, delle trasmissioni televisive che finivano alle dieci di sera. L’età
di un progresso illimitato, il quarto di secolo trascorso dal dopoguerra,
è finito. Risuonano parole ed espressioni nuove: ecologia, limiti dello
sviluppo, mutazione antropologica. Nel 1974 Giulia Maria Crespi vende
le sue quote del «Corriere della Sera» ad Andrea Rizzoli. Vorrebbe dare
un segno a nuova fase della sua esistenza, le piacerebbe regalare un
grande parco alla città di Milano, ma Bazzoni, con cui non si sono mai
persi di vista, insiste che bisogna fare il National Trust italiano e lei è la
persona giusta. Sono anni che se ne parla. Bassani come presidente di
Italia nostra è sempre stato molto scettico. Nel 1966, in occasione del
primo congresso nazionale, usa nel discorso di apertura un tono sarcastico: “Che dire di quegli altri, soci o simpatizzanti, che, ad imitazione
del National Trust, amerebbe vederci trasformati in grossi proprietari
immobiliari, sollecitando a nostro favore lasciti di storiche ville medicee,
di nobili rocche piemontesi o calabresi, di dimore palladiane? “.
Anche se nell’Associazione non tutti sono d’accordo - Roberto Pane
la abbandonerà in polemica, Pier Fausto Bagatti Valsecchi, amico dai
tempi del Politecnico di Bazzoni, continua a credere nella possibilità di
un National Trust italiano - non risulta che Bassani, presidente fino al
1980, abbia cambiato idea.
La nascita del FAI è stata raccontata con brio narrativo e molta ironia da Elena Croce, secondo la Crespi la prima ispiratrice della possibilità concreta di fondare un National Trust nostrano. Per la figlia di
Benedetto Croce il FAI “aveva avuto una penosissima incubazione attraverso numerose sedute con manager di avanguardia troppo occupati i quali, alzandosi per correre in aereoporto, lasciavano in garanzia il
monito: occorre innanzitutto costruirsi una «filosofia». Quei personaggi
importanti non davano mai il tempo di spiegare che la filosofia, e la conseguente prassi, erano già da cinquant’anni presenti in Inghilterra. Ma
infine non si sarebbero più tenute riunioni, perché il FAI era stato istituito dalla sola Giulia Maria Crespi che lo affidava alla gestione competentissima dell’architetto Renato Bazzoni”.
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“Avvennero profondi cambiamenti nella mia vita, e quando decisi
di dedicare le mie forze unicamente all’ambiente, l’architetto Bazzoni
mi convinse a seguire i consigli di Elena”. Così la Crespi, in un breve
ricordo di Elena Croce, rammenta la genesi del FAI - Fondo Ambiente
Italiano che avviene il 28 aprile 1975. Insieme a lei, Renato Bazzoni,
Franco Russoli e Alberto Predieri, un avvocato fiorentino cresciuto alla
scuola di Piero Calamandrei. I primi anni del FAI sono stentati. Il nuovo
è sempre arbitrario e tutto deve essere fatto per la prima volta: acquisire
una proprietà, restaurarla, gestirla, comunicarne l’esistenza. Nel novembre 1980 esce il primo numero del «Notiziario del FAI». L’editoriale, come
tutti i successivi è di Bazzoni, che si scusa per la povertà tipografica ma
pronostica al giornaletto di quattro fogli un grande avvenire. Gli iscritti al 1981 sono poco più di mille, ma l’ottimismo della volontà, tratto
comune di personalità così diverse e complementari come Bazzoni e
la Crespi, fa sì che le difficoltà siano gradualmente superate. Quando
Bazzoni muore il 9 dicembre 1996, dopo aver dedicato gli ultimi 15 anni
della sua vita pressoché interamente al FAI, le proprietà sono diventate
15 e i beni tutelati 7.
“La pattuglia della democrazia si accresce di gente che si è rivelata a
se stessa, avendo trovato l’occasione di tradurre in sistema quelle idee
vaghe e isolate che aveva dentro”. Parole che hanno il valore dell’autoritratto per Renato Bazzoni: l’occasione è stata Italia da salvare, il FAI il
suo inveramento.
Gli scritti di Renato Bazzoni sono raccolti in Tutta questa bellezza, a cura di A. Cicalò Danioni.
Prefazioni di A. Carandini e G. M. Mozzoni Crespi, Rizzoli Milano, 2014. Sulla nascita di Italia
nostra: Giorgio Bassani, Italia da salvare. Scritti civili e battaglie ambientali. Prefazione di G. Ruffolo.
A cura di C. Spilla, con una nota di P. Bassani, Einaudi Torino, 2005; Elena Croce, La lunga guerra
per l’ambiente, Mondadori Milano, 1979. Qualche notizia in R. Pane, Attualità dell’ambiente antico,
La Nuova Italia Firenze, 1967. Su Antonio Cederna, è molto completo www.archiviocederna.it
a cui si può aggiungere F. Erbani, Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza,
Legambiente Morciano di Romagna, 2012. La rivista «Pirelli» (1948-1972) è oggi reperibile
interamente online: www.fondazionepirelli.org/rivista. La storia di Italia da salvare non era stata
ancora ricostruita. Oltre al catalogo Italia da salvare (senza data, ma 1967), esiste una Rassegna
stampa con data aprile 1968 che raccoglie i principali articoli sulla mostra, a cui sono da
aggiungere le testimonianze a me rese (dicembre 2014- gennaio 2015) da Pier Fausto Bagatti
Valsecchi, Roberto Brambilla, Giulia Maria Mozzoni Crespi che qui ringrazio. Per Art & Landscape,
too late to be saved, Centro Di Firenze, 1972, oltre al catalogo, fondamentale la testimonianza di
Roberto Brambilla e la rassegna stampa che mi ha messo a disposizione. Della Prima relazione
sulla situazione ambientale del paese, a cura della Tecneco. Roma, Casa editrice. Carlo Colombo,
1973, 4 vol., qualche notizia in B. Zanardi in Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi,
soluzioni, Skira Milano, 2013. Sulla nascita del FAI Elena Croce, Due città, Adelphi Milano, 1985
da integrare con la testimonianza di Giulia Maria Mozzoni Crespi in Elena Croce e il suo mondo.
Ricordi e testimonianze, CUEN Napoli, 1999 e Il libro del FAI, a cura di L. Borromeo Dina, Skira
Milano, 2005. Sull’impegno di Bazzoni al FAI mi hanno reso testimonianza Marco Magnifico,
Annamaria Morando, Vincenzo Valastro che qui ringrazio insieme a Carla Bazzoni che mi ha
aperto l’archivio del marito.
Alberto Saibene, consulente editoriale, editore, studioso della storia della cultura italiana del
XX secolo. Cura la pubblicazione degli scritti di Adriano Olivetti.
Milano, 7 aprile 1967
Renato Bazzoni assiste fra il pubblico all’inaugurazione di Italia da salvare
In copertina: foto Vittorio Pigazzini © FAI - Fondo Ambiente Italiano
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