ridotto - Napoliontheroad

Transcript

ridotto - Napoliontheroad
RIDOTTO
SIAD • Società Italiana Autori Drammatici
MENSILE
• NUMERO 9 • SETTEMBRE 2011
RIDOTTO
Direttore responsabile ed editoriale: Maricla Boggio
Comitato redazionale: Maricla Boggio, Fortunato Calvino, Angelo Longoni, Mario Lunetta,
Stefania Porrino, Mario Prosperi, Ubaldo Soddu • Segretaria di redazione: Marina Raffanini
Grafica composizione e stampa: L. G. • Via delle Zoccolette 24/26 • Roma • Tel.06/6868444-6832623
Indice
EDITORIALE
Ubaldo Soddu, Le feste eleganti
pag 2
RICORDO
Maricla Boggio, Per Fabio Storelli
Immergersi nel meraviglioso con fiducia
pag 4
pag 5
TESTI
Fortunato Calvino, Cristiana Famiglia
Maricla Boggio, Il teatro problematico di Fortunato Calvino
Enrico Bagnato, Spartaco
pag 7
pag 9
pag 24
LIBRI
Mario Lunetta, Pagliarani promemoria
Mario Prosperi, Sul libro di Giuseppe Benelli:
il linguaggio del teatro italiano contemporaneo
pag 26
pag 29
pag 29
AMICI DEL TEATRO
Il 64° Festival Nazionale d’Arte Drammatica di Pesaro
pag 31
PREMI
Premio Calcante XIII edizione
Premio Tesi di laurea 2011
Premio Fersen 2012
Mensile di teatro e spettacolo fondato nel 1951
SIAD c/o SIAE – Viale della Letteratura, 30 – 00144 Roma
Tel 06.59902692 – Fax 06.59902693 – Segreteria di redazione
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 16312 del 10-4-1976 – Poste Italiane Spa ˆ Spedizione
in abbonamento postale 70% DCB Roma – Associata all’USPI (Unione Stampa Periodica)
Il versamento della quota può essere effettuato tramite bonifico intestato a SIAD
Roma presso BANCA POPOLARE DI MILANO – AGENZIA N. 1002 – EUR
Eur Piazza L. Sturzo, 29 – 00144 Roma Rm – Tel. 06542744 – Fax 0654274446
Coordinate Bancarie: CIN U UBI 05584 CAB 03251 CONTO N. 000000025750
Coordinate Internazionali: IBAN IT51 U 05584 03251 000000025750 BIC BPMIITM1002
Abbonamento annuo € 50,00 – Estero € 70,00
Numeri arretrati € 15,00
ANNO 59° – numero 9, settembre 2011
finito di stampare nel mese di settembre 2011
In copertina: Una scena da “Cristiana Famiglia” testo e regia di Fortunato Calvino
pag 32
pag 32
pag 32
EDITORIALE
LE FESTE ELEGANTI
Se l’assenza di lungimiranza e rischio culturale stritolano
nella banalità e nel provincialismo tutta la collettività,
il campo sembra tuttavia rafforzarsi per la creazione vera,
quella più robusta e convinta di quanto cerca e viene negato
L’
Ubaldo Soddu
economia non riprende, s’allarga la disuguaglianza, diminuisce il lavoro mentre i giovani
sono tenuti ai margini del processo sociale, la politica non trova una strada per far uscire il paese dal
nodo gordiano imposto da un potere fiacco e corrotto che tiene in scacco tutti quanti. E allora che si
può fare quando un microcosmo cellulare di compartimenti stagni imprigiona le speranze di ciascuno laddove la lotta per cercare un varco rifluisce in
frustrazione e sconforto? Come si possono riscoprire rigore morale e solidarietà? Fino a che punto può
servire una cultura senza risorse a percorrere questo deserto? E può ancora guizzare un’arte autentica nel pantano del post–moderno, dove si premia
soltanto ciò che non ferisce l’esistente?
Giancarlo Galan, nuovo ministro della cultura
dopo il fallimento di Bondi, ha parlato – nel corso
delle Giornate del Teatro organizzate, nella reggia
di Venaria, dall’Agis e dalla fondazione “Teatro
Piemonte Europa” – di quanto sia necessario “stare
insieme per giocare la difficile partita a favore della
cultura” successivamente affermando che “ … se si
pensa di tagliare anche in questo settore non si è
capito niente del paese”. Del resto, ha ricordato che
la riforma dello spettacolo dal vivo è da tre anni
all’esame del Parlamento, anche perché ci vorrebbero 40 milioni di euro per finanziarla e pare
“escluso” che possano sgorgare dal Fondo unico
dello Spettacolo. Già molto che l’ultima finanziaria
abbia restituito risorse per cultura e spettacolo, confermando comunque che l’Italia investe solo lo
0,23% del bilancio dello Stato in questo comparto.
Nei due anni dell’ultimo governo Prodi, comunque,
il Fus era stato riportato ai valori del 2001 (circa
1000 miliardi di lire) con promessa di arrivare fino
all’1% del bilancio dello Stato entro i cinque anni
di mandato. Ma dopo due anni scarsi, come si sa, il
governo cadde e sopraggiunsero Berlusconi e la
crisi mondiale.
E dunque perché siamo a questo punto?
Giorgio Napolitano ne ha recentemente attribuito la responsabilità al progressivo “impoverimento
culturale dei partiti” i quali, da circa vent’anni,
hanno provocato un divorzio, tra politica e cultura,
aprendo di fatto la via all’influenza di lobbies e
allibratori incontrollati. Se non sembra necessario
2
che i politici siano persone di vasta cultura, essi
però devono mostrare “sensibilità culturale”: coordinando le attività, scegliendo, finanziando i progetti in modo da “governare” …
Se vogliamo precisare una data, si possono
indicare gli anni tra l’89 e il ’92, come immediatamente anteriori alla caduta della prima Repubblica.
La cultura in quanto tale, con la corte di intellettuali, commentatori e interpreti, non serviva più mentre occorreva stringere rapporti coi media, stabilire
nuovi contatti e dipendenze fruttuose, meglio adoperando l’economia e la tecnologia a fini di parte.
Venne dunque modificata la struttura dell’editoria, potenziando gli introiti pubblicitari, sancendo
insomma la supremazia della comunicazione
mediatica e liquidando i tratturi del discorso critico
o artistico. Quotidiani e settimanali si adeguarono
subito demolendo le pagine culturali, eliminando la
critica, banalizzando riflessioni e linguaggio.
Vigliaccheria e servilismo fecero il resto mentre la
cosiddetta “egemonia culturale” passava ai media –
ai loro proprietari o gestori – tartassando i cittadini,
degradati a utenti, uomini e donne, piccoli o grandi
che fossero.
Cosa poteva succedere a teatro, in questa situazione?
E lo abbiamo visto: i Teatri Stabili ci sono
ancora, ampiamente dimagriti e boccheggianti, i
direttori migliori sono spariti, quelli che restano
L’entrata del
Teatro Valle di
Roma, uno
dei teatri gestiti
dall’ETI fino alla
sua cancellazione
EDITORIALE
L’interno
del Teatro Valle
L’entrata del
Teatro Quirino,
un altro teatro
a suo tempo
gestito dall’ETI
sono “sopravvissuti” a tutto come certe tonache
sotto la Rivoluzione francese, o provengono da stie
locali, allevati con mangimi inquinati, consigliati a
marciare dritto con gli occhi bassi, dritto verso la
méta. Continuano gli scambi tra organismi deviati,
i fenomeni di cesarismo, i favoritismi di ogni tipo,
prevalgono cartelloni fasulli, comunque estranei a
un progetto di analisi culturale. L’Eti non c’è più,
perché serviva a far cassa. I suoi teatri sono però
disponibili per chiunque sappia inginocchiarsi e
riciclare. Perché riciclare il repertorio, svuotandolo
di senso e trasgressione, diventa il vero merito, con
successo di platea e premi di consolazione. Così,
tra uno Shakespeare in discarica e un Pirandello
senza inquietudini, tra un Goldoni di provincia
leghista e un Beckett per palcoscenici estivi, si può
persino recuperare un Brecht che faccia ridere
quelli di destra e quelli di sinistra!
Per il teatro di ricerca si è verificato quanto da
tempo prevedevano operatori e osservatori qualificati: vivacchia come genere di consumo minuscolo,
sforna esponenti a ogni cambio di stagione, evita di
confrontarsi con questioni di spessore, si nutre di
scorie e citazioni. Risente come gli altri dei tagli di
bilancio imposti agli enti locali ma non riesce da
tempo, nemmeno nella cornice di festival impoveriti, a sostenere un dibattito su presente e prospettiva, accontentandosi di un effimero scolorito.
Praticamente fuori mercato è poi la drammaturgia contemporanea, nelle articolazioni almeno che
puntano a interpretare temi di coscienza civile, o
combinando la vita e la morte, o metaforizzando la
storia o la psicologia o la diversità. Se la produzione pubblica e privata non s’azzarda a investire su
un autore vivente – salvo casi di scuola, altamente
segnalati – c’è poco da dire, che non si sappia e che
certamente oggi si spiega di più, a causa della crisi,
dei tagli indecenti, del precipitare delle strutture,
delle funzioni. Il recente esempio del teatro Valle,
con l’occupazione di attori e scrittori, e il sostanziale disinteresse della città a quanto accade o si
prepara sulla pelle di tutti parlano da soli. Un paese
che non riesca a comprendere la gravità del
momento attuale, che non reagisca al crollo delle
istituzioni culturali che colpisce egualmente giovani e vecchi si merita forse il disfacimento in atto,
certo propiziato dal voto di chi guardava e non
vedeva.
Se insomma l’assenza di lungimiranza e rischio
culturale stritolano nella banalità e nel provincialismo tutta la collettività, il campo sembra tuttavia
rafforzarsi per la creazione vera, quella più robusta
e convinta di quanto cerca e viene negato. Attori e
registi che abbiano chiaro il quadro indegno e
miserabile che offrono gli anni finali dell’epoca di
Berlusconi, i tradimenti, le truffe, potrebbero
intendersi con autori e collaboratori diversi, che da
tempo rifiutano protezioni e tangenti. Se c’è bisogno di un’altra politica e di un altro Stato, se un’economia più intelligente e coraggiosa s’imponesse
su scala europea, quanto resta del Teatro italiano
potrà offrire in palcoscenico e al pubblico i suoi
sacrifici, la superfluità delle ombre. Persino la
loro sontuosità.
Avrà pagato intanto l’avidità degli appetiti e
tanti obiettivi bassi, meschini. E forse contribuirà
davvero a rappresentare, indemoniandoli, la fisionomia e gli incubi di questo malcapitato paese. Dai
bauli di scena, sotto luci rosse e violacee, esaleranno parole, immagini per scavare gli egoismi, i ricatti. Le feste eleganti, la lotta per bande.
3
RICORDO
PER FABIO STORELLI
D
Maricla Boggio
a troppo tempo non avevamo più notizie di Fabio Storelli. Si era ritirato in quel Trentino che
aveva adottato come sua seconda terra, lasciando
Roma, perché vi trovava, in una bella casa fra il verde, della moglie Donatella, una pace consolatoria alle
disillusioni teatrali degli ultimi anni, intento alla scrittura di romanzi, certo meno esigenti di produzioni,
scritture e sovvenzioni, dove riversava la sua indomita fantasia, sempre ricca di spiritualità. Ora abbiamo saputo della sua scomparsa, silenziosa e discreta come era stato nella vita, a dispetto di quel suo
apparire sicuro di sé, elegante, ironico ma sempre
gentile e attento agli altri, e avvertiamo il rimpianto
per una persona che avrebbe meritato più di quanto
ha avuto rispetto alle sue qualità.
Fabio Storelli, autore di teatro, aveva capito che
si sarebbe potuto creare un rapporto positivo fra
drammaturgia e televisione. Giovanissimo e impegnato all'università, aveva scritto un teledramma - "Le
gocce" - che venne definito il primo telefilm, in quanto offriva nella sua stesura le potenzialità di un linguaggio televisivo, al tempo stesso restando intrinsecamente teatro. Questa sua tesi la andò verificando con opere che alla televisione offrirono il meglio
dell'espressività, come quel "Sorelle Materassi" che
negli anni Settanta lui trasse dal romanzo di Palazzeschi e che con l'accorta regia di Mario Ferrero riscosse un successo fra i più avvertiti della TV. Quella stessa sua elaborazione ebbe più volte rappresentazioni teatrali, con attrici diverse e saggi accorgimenti
dettati dalle differenti capacità interpretative. Mentre
scriveva per il teatro, lavorava a progetti televisivi in
cui offriva la sua esperienza ad altri autori, sia nelle
reti che a RAI International. La sua formazione aveva avuto come maestro Orazio Costa; di quel periodo appassionante aveva conservato l'entusiasmo, così
che quando, dietro mia proposta, la Rai accettò che
realizzassi alcuni filmati sul metodo mimesico-interpretativo del grande Maestro, Storelli ne divenne il
curatore. Fra i tanti suoi testi andati in scena, uno venne rappresentato alla Festa del Teatro di San Miniato, dove tante volte Costa aveva portato i drammi di
Diego Fabbri, Graham Green, Eliot; credo che per
Storelli quel suo "Oltre le trincee" sia stato davvero
una forte soddisfazione. Amava il teatro, ma al tem4
po stesso se ne ritraeva come per pudore, fiducioso
che fosse il teatro a chiamarlo perché valevano i suoi
testi. Lontano dal mondo culturale di Catania, fu proprio il suo Teatro Stabile, allora attento alle novità che
meritassero di essere rappresentate, a mettere in scena la sua trilogia “Reuzzo”, “U Gigante Martoglio”
e “La Coraggio”. Fu poi l'indomita capacità interpretativa di Adriana Innocenti con Piero Nuti a interpretare "Grande casa di riposo: stanze", un intreccio di favola e documento in cui Storelli dà vita ad
una storia che echeggia Padre Pio e la sua vocazione
miracolistica attraverso una veggente che del Frate assume le connotazioni in un contesto manicomiale in
cui il teatro attinge forza emblematica. Di quel testo
e di "Sirenona! ovvero il bello e la bestia" sotto il titolo onnicomprensivo" A teatro con Dio (e con gli
dei)" nel 1996 la Siad aveva pubblicato un volumetto nella Collana "Teatro italiano Contemporaneo",
poiché Storelli era senz'altro da annoverare fra gli autori affermati. In quell'occasione aveva chiesto a me
di fargliene una presentazione: con piacere avevo
scritto di quei testi, augurandomi che raggiungessero la scena. E' l'augurio che rivolgo a Fabio, per quel
"Sirenona!" ancora privo di rappresentazione, insieme a tutti gli altri testi che vivono nella sua scrittura.
RICORDO
IMMERGERSI NEL MERAVIGLIOSO
CON FIDUCIA
N
Riportiamo la presentazione delle commedie
di Fabio Storelli pubblicate nel volume della Collana
del Teatro Italiano Contemporaneo
elle due commedie che Fabio Storelli affida, ancora non rappresentate, alla pubblicazione in questo volume, appaiono delle linee
ricorrenti di “ispirazione” e di “pensiero”; indico insieme l’elemento caratteristico dell’invenzione fantastica e quello da Croce definito come
successivo e ordinatore, poiché con Pirandello io
lo ritengo in sintesi temporale col primo, e nella drammaturgia di Storelli ciò risulta evidente,
tanto uno è inscindibile e connaturato all’altro.
Una delle linee ricorrenti si individua nella concezione religiosa ammantata di favolismo, pur
denunciando, scopertamente o sotto forme velate, profonde radici cristiane. E se la forma è fortemente immersa in un delirio figurativo e lin-
guistico che schiva i pericoli di un qualunque sia
pur lontano realismo, il contenuto – mi spingo a
dire, provocatoriamente, “il messaggio” che non
si manifesta edificatoriamente, ma come sommessa elegia o tragedia da chanson de geste –
prende le mosse dall’esigenza umana alla solidarietà nella sofferenza, ecumenicamente riuscendo ad accordare le più diverse credenze fino agli ateismi ideologici, nel nome di una
confortata sofferenza, in un richiamo verso l’altro, che può trovare risposta – come in una delle opere citate – oppure può concludersi con una
sorta di interrogativo aperto: la “parola” supera
l’immediatezza del contingente e si fa promessa futura.
“Sirenona! Ovvero il Bello e la Bestia”, sotto
l’apparenza dialogica – a cui in circoscritte scene
si aggiungono altri quattro personaggi – mette in
moto parecchi interrogativi esistenziali, che non si
propongono come sterili schemi intellettuali, ma
teatralmente si incarnano in personaggi di singolare vivacità e invenzione. Degradato l’ambiente nel
quale si svolge l’azione, emblematico dell’universo circostante; l’eterno incontro uomo-donna qui si
moltiplica nei riferimenti; la mitologia inserisce la
figura antropomorfa della creatura-pesce, a cui tuttavia, per contrappeso alla mutilazione formale della femminilità ridotta, è andato il dono della divinazione e della “pietas”; il “Bello” è Tano, ridotto
al rango di imbonitore del “mostro”, che intende
sfruttare Sirenona prima come attrazione da fiera,
nella lurida vasca da acquario, poi per le qualità da
veggente; un legame, ibrido, malcerto eppure solido – come accade nei rapporti dell’umanità in genere – unisce i due, pur nella litigiosità a schermaglia ricorrente; microcosmo da fiera, proprio perciò
così teneramente metaforico, trova alleanza nel rifiuto agli eccessi facilistici delle televisioni private che vorrebbero sfruttare il fenomeno, si illude di
avere spazi alla RAI – quanto di “vissuto” si ammanta in queste scene? -, ma nella sua “bestialità”
ancora scevra da corruzioni, la donna-pesce “affittata” all’audience tenta di mordere un dirigente del
video – ahi! nemesi! -, finché si sviluppa una sorta di duello da arena tra i due, che finirà con la morte a sorpresa di Tano, che voleva uccidere Sirena;
alter ego di lei, morirà dopo averla colpita. Si introduce allora l’ultima beffa della storia; Sirenona
5
RICORDO
"... Posso solo dirti che il segreto del Teatro è il fatto di essere un approdo al quale
fermarsi, aggrapparsi, sostenersi.
L'approdo del teatro è però vacante, vago, come vaghe stelle dell'Orsa, scritto sull'acqua,
incerto, insicuro, provvisorio, come provvisoria è sempre una vacanza.
Ma è un farmaco, il teatro, un farmaco che "atterra e suscita", che guarisce
e che consola i suoi devoti.
Cosa sia questo farmaco, e come si sviluppi, io non posso dirtelo:
lo dovrai scoprire da solo".
(Il brano è tratto da "Il Museo delle balle di Telefo Sto", l'ultimo romanzo di Fabio Storelli)
vuol far sapere che ha ammazzato il suo amante, ma
non trova nessuno a cui interessi la morte di un essere umano, e dal telegiornale scende ai programmi meno importanti, fino alla cronaca, alla “nera”,
al parroco che si fa rappresentare da una voce registrata; non c’è umanità a cui interessi una confessione, un dolore, la sparizione di un essere. E Sirenona finirà per uccidersi, ma con dolcezza, come
se adempisse ad una profezia, in un inevitabile evento mitologico. Il linguaggio con cui Storelli costruisce le sue scene attinge con soluzioni inventive articolate ad un dialetto partenopeo armonioso,
reinventato, a cui fa riscontro un italiano semplice,
eppure ritmicamente impostato ad una sorta di poesia libera. Tra gli ascendenti, forse inconsapevoli,
del linguaggio dell’autore, Lorca, Savinio, qualche
spruzzo di Eduardo.
“Grande casa di riposo: stanze” dimostra una più
sofferta maturità tematica. Luogo deputato dell’opera, un giardino di manicomio, nella versione addolcita della casa di riposo, dove ai matti è consentito il teatro, gioco per eccellenza, come sfogo
alla sofferenza interiore, al male del vivere che è la
loro cifra esistenziale, anche se espressa ludicamente.
Ci si addentra gradatamente, in questo universo anomalo, introdotti, su di un piano inventivo ulteriore, da terapeuti-personaggi che a loro
volta sono terapeuti esistenti nella realtà; l’ambiguità del “doppio” aggiunge spessore all’invenzione drammaturgica del protagonista, che è una
matta, Francesca, la quale “vive” una passione
fino al sangue delle stimmate nell’immedesimazione in un frate vissuto decenni prima; quel
“Piuccio”, in cui la donna si trasforma, guida con
una forza trascinante la comunità dei matti-attori
che giocosamente, in uno spirito di infanzia così
analoga al teatro, obbediscono ai suoi dettami suggerendo le fasi della recita, più volte ripetuta.
L’andamento del dramma richiama la sacra rap6
presentazione; le scene sono fortemente improntate ad una sorta di “via crucis”; “Piuccio” entra
in contento, prova atroci sofferenze, comincia ad
avere visioni e dialoga con la Madonna e Cristo,
fino alla consacrazione sacerdotale, all’intensa dedizione alla confessione di torme infinite di fedeli,
al decreto per cui non potrà più uscire dalla sua
cella, personaggio scomodo perfino nella comunità dei frati. Si capisce, certo, che il santo in questione è Padre Pio, ma la narrazione agiografica
non incombe, mentre si respira un’aria da mistero medioevale, intessuto di episodi popolari di deliziosa invenzione, e i matti certo, con la loro libertà creativa, sono un veicolo di notevole fascino verso tale dimensione. Storelli è senz’altro in
possesso di una solida consapevolezza spirituale,
ma la gioca da drammaturgo, non da predicatore,
e non rinuncia a ribellarsi alla dimensione dell’ingiustizia. E se la citazione di un terapeuta-personaggio richiama il Pirandello metateatrale di
“Ciascuno a suo modo”, - “che tutti sanno chi è”
-, è poi forse ancora di più nello stupore dei “Sei
personaggi in cerca d’autore” che si innesta l’episodio finale del miracolo “vero” della ragazza
malata di sclerosi che chiede a Francesca-Puccio
il suo intervento risanatore; in quel ripetersi dell’evento inspiegabile accaduto alla morte del Santo con una guarigione in parallelo, si avverte
l’inquietudine serpeggiare in palcoscenico, luogo
di ogni evento, riscatto dalla logica della realtà,
portatore di una verità più consistente. A chi si rivolge il teatro di Storelli? Non ai furbi annoiati
alla ricerca dello svago erotico-mondano; certo a
chi non ha rinunciato a pensare, a interrogarsi, a
immergersi nel meraviglioso con fiducia; è implicito, nel teatro di Storelli, un richiamo al rinnovamento, alla letizia pur consapevole della sofferenza, all’effettività solidale che, al di là di schemi di qualunque genere, inviti l’uomo a specchiarsi nell’altro da sé e a sentirlo se stesso.
TESTI
CRISTIANA FAMIGLIA
di Fortunato Calvino
Prospet Promozione Spettacolo
NAPOLITEATROFESTIVAL2011
Presentano
CRISTIANA FAMIGLIA
di FORTUNATO CALVINO
con
GINA PERNA
PAOLA FULCINITI
INGRID SANSONE
MASSIMILIANO ROSSI
MASSIMO FINELLI
ADELE AMATO DE SERPIS
ANGELO BORRUTO
MARIANO GALLO
PATRIZIA EGER
Madre
Maria
Sara
Alfredo
Giuseppe
Sonia
I Giovane
II Giovane
Santa Rita
Regia FORTUNATO CALVINO
Musiche originali: Paolo Coletta
Scene: Paolo Foti
Costumi: Maddalena Marciano
Realizzazione scena: Massimiliano Pinto
Realizzazione costumi: A.C.C.A. Sartoria Arte e Costume
Disegno luci: Marco Alfano
Assistente alla regia: Ivan Improta
Direttore di scena: Massimiliano Pinto
Ufficio stampa: Raimondo Adamo
Fortunato Calvino porta al Napoli Teatro Festival Cristiana Famiglia, testo da lui scritto il 1999 e comparso per la prima volta nella raccolta Teatro (Guida Editore, 2007 a cura di Stefano De Stefano). In questo lavoro, l'autore rielabora
i temi che gli sono più cari, quali l'usura, l'emarginazione sociale, la violenza della malavita, la solitudine: Fortunato
Calvino, infatti, fin dall'esordio come regista e scrittore nel 1990. ha sempre affrontato tematiche di respiro sociale,
economico e politico.
"La famiglia, nucleo centrale e fondamentale della nostra
società è in Cristiana Famiglia un affresco sull’oggi, dove
ogni figura/ personaggio rappresenta delle “isole” di individualità, di egoismi. Una famiglia questa, divisa al suo
interno da due modi di interpretare la vita: da un lato il fratello operaio legato a valori di umanità e di onestà, vittima di un contesto economico che lo emargina mortificando il suo impegno in un movimento politico, dall'altro il fratello più giovane che punta a diventa un boss malavitoso. Arrogante, violento, tenta il salto di qualità in un
ambiente dove la supremazia si conquista versando il sangue di chi si oppone o è di ostacolo a un proprio progetto
di potere. Il guadagno facile, il desiderio di sentirsi socialmente arrivati genera spreco e ottuso consumismo, illusione di felicità, omologazione al superfluo. Lo scontro
fra i due fratelli è forte e impietoso, mentre le figure fem-
minili inutilmente tentano di tenere i cocci di un nucleo
che va disgregandosi. La presenza di più televisori in casa
evidenzia l'incomunicabilità che regna tra i componenti
della famiglia e l'assuefazione a una realtà mediata dal piccolo schermo. Qui una guerra, emblema di tutte le guerre,
sta per scoppiare, continuamente rimandata, crea un'attesa, una tensione da sceneggiato televisivo a puntate, dove
anche la morte diventa rappresentazione, finzione, privata dell’orrore e della sua reale crudeltà. La tv ci abitua a
convivere con la guerra e le sue mostruosità e la nostra famiglia è talmente immersa nelle sue beghe che quando la
guerra scoppierà violenta, trascinandoli in un abisso senza fondo, non se ne renderanno conto. L’imbarbarimento
è compiuto".
Fortunato Calvino
7
TESTI
ATTO PRIMO
Appartamento napoletano rimesso a nuovo, con stile moderno, eccessivo e in contrasto con altri mobili. Esempio: un divano stile diciassettesimo secolo. Un televisore trasmette scene di guerra. E’ annunciata una nuova guerra di un prossimo attacco. Il rumore provocato dallo spostamento dei mobili da parte di Maria non fa capire dove scoppierà questa
nuova guerra. Lei intanto con frenesia pulisce e risistema tutto come prima, poi prende il tavolo e lo spinge vicino all’entrata. Non è convinta lo gira, vi sistema le sedie. Va via perplessa. Entra la madre vede il cambiamento, seccata rimette
il tavolo al posto iniziale. Ritorna Maria, porta dei fiori.
MADRE - Sei uscita presto stamattina?
MARIA - (non risponde. Libera i fiori dal filo di ferro)
MADRE - Sei stata al cimitero?
MARIA - Sono andata a trovare mia figlia.
MADRE - Pure ieri ci sei stata.
MARIA - Vado pure domani, è proibito?
MADRE - No figlia mia, no.
MARIA - Con questo caldo, i fiori si erano già sciupati. Alla
mia piccola non devono mancare i fiori freschi. Ci torno domani, dopodomani ogni giorno nun ’a posso abbandunà.
MADRE - Ti vuoi ammalare anche tu? Non basta quello che
8
abbiamo passato? Sta’ sufferènza toja le fa male. Lasciala
riposare in pace.
MARIA - Mammà statte zitta! In questo viaggio le devo stare vicina, è la prima volta che sta senza la sua mamma.
MADRE - Nun può continuà accussì.
MARIA - (assente va al ripostiglio l’apre e dentro c’è un
altarino con la statua di Santa Rita da Cascia sistema i fiori in un vaso) “…Come sposa sempre fedele, così foste madre affezionatissima: generosa coi nemici, perdonaste gli uccisori del vostro consorte e, premurosa del bene eterno dei
vostri figli, amaste vederli piuttosto morti col giglio dell’innocenza che vivi col marchio della colpa vendicatrice.
Tale vostra virtù, o umile Santa Rita, mi sia di guida in tutto ciò che la Divina Provvidenza disponga di me…”.
Chiude le porte si accende una sigaretta.
MARIA - Mi metto ’nu poco ’ncopp’’o liètto. (Esce)
La Madre è raggiunta dal figlio operaio Giuseppe.
MADRE - Che cosa sta succedendo, che avimme fatto per
meritare tutto questo?
GIUSEPPE - Si dice, che il male fatto torna al mittente.
MADRE - Che vuoi dire? Ah, batti sempre sullo stesso ta-
TESTI
IL TEATRO PROBLEMATICO DI FORTUNATO CALVINO
L
Maricla Boggio
a drammaturgia di Fortunato Calvino si sviluppa nell'arco
di circa vent'anni dopo un "apprendistato" su autori in sintonia con il suo rapporto con la realtà, osservata e/o immaginata e da lui messi in scena: Athayde, Puig, Fassbinder fino ad Annibale Ruccello a cui approda da un viaggio allargato, ritrovandovi quella Napoli che è sua come lo è stata di Annibale, in una
sorta di eredità infedele e autonoma, non priva tuttavia di
omaggi. Linguaggi e costumi sessuali dei personaggi, e una spiccata volontà di racconto al di là dell'assunto critico ve lo collegano in una prosecuzione di eventi di cui la città è protagonista
nell'esibire le sue sventure. Con mano forte nelle scelte tematiche ma capace di toccare ogni più tragica condizione umana con
una celata pietas dietro la violenza delle azioni, Calvino offre
una serie di spaccati della Napoli attuale, reinventandone le forme espressive pur nell'accorto mantenimento della comunicazione linguistica. Si direbbe come spesso in Goldoni, sempre in
Cecov, talvolta in Pinter che nei suoi testi i personaggi abitino porta a porta, specie in quei Quartieri Spagnuoli dove lui
ha scelto di vivere. Socialmente simili nella condizione di soglia della povertà alcuni, altri arricchiti da attività camorristichepur essendo dello stesso sangue di quelli a cui impongono il loro dominio. Vi si trovano femminielli lanciati in un
mestiere foriero di omicidi, prostitute tentate da un'illusione
di vita normale e rifiutate per ottusità civile, donne di autorità mafiosa, giovani asserviti a poteri da cui si lasciano usare come manovalanza del crimine pur di sopravvivere, omosessuali che dietro alla rozzezza del linguaggio rivelano un
disperato bisogno di amore, e madri, tante madri disperate e
luttuose, che si riscattano nel dolore dalla prostrazione morale in cui consumano la loro esistenza.
Dall'inizio della sua drammaturgia con "La statua" in cui
si sviluppa un'evanescente immaginare fino a "Cristiana famiglia" il percorso è lungo e tortuoso, fermandosi più volte
nell'intreccio delle tematiche ad additare un fatto traumatico,
un'azione delittuosa, una delusione esistenziale. E altrettanto lungo e tortuoso è il percorso che porta questi testi sulla
scena, ciascuno quasi gradino di lancio al successivo che Calvino scrive e - tranne eccezioni di una regia altrui - poi dirige in teatro. Dai veloci festivals estivi all'affermazione nei teatri napoletani - ma anche di Roma e perfino di Londra -, Calvino percorre il suo apprendistato wilelmeisteriano, approdando dal partenopeo Maggio dei Monumenti al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, a spazi didattici nei quali si aggiunge il
dibattito o a un laboratorio sul testo, come per "Cravattari",
il dramma sull'usura rappresentato e premiato in più occasioni.
Sono due i suoi testi a cui è stato attribuito il Premio Calcante e ben nove, con quest'ultimo, i drammi che Ridotto ha
pubblicato.
Pur rispettando la consequenzialità tematica e sociale,
"Cristiana famiglia" si stacca dai testi precedenti. Si tratta
di una famiglia dall'apparenza tradizionale, la cui composi-
zione fa pensare a certe delle commedie di Eduardo, come
"Sabato domenica e lunedì". Ma principi morali, concezioni
legate ai rapporti parentali e orizzonte esistenziale di attesa
sono profondamente diversi. La famiglia non appare come un
insieme che pur nell'infrangersi momentaneo di un equilibrio
si rimette in sesto attraverso qualche tempesta e un po' di buona volontà. In questa famiglia niente o quasi si salva da un
tracollo totale, in cui i beni materiali e il godimento effimero sono gli obbiettivi generali. Questi beni materiali vengono rappresentati in toto dalla televisione, vero mostro che vomita assasinii, distruzioni e guerre in mezzo all'indifferenza
generale. Emblematici i nomi scelti dall'autore, di sapore biblico. Reperto di un passato visto soltanto da Maria, la madre a cui hanno ucciso una bambina, è la statuina di Santa Rita,
che la donna invoca attraverso un linguaggio antico, da rituale
ecclesiastico. Giuseppe, che tenta di lavorare onestamente viene deriso da Alfredo, il boss camorrista che ne insidia la moglie Sara con l'offerta di gioielli e denari. Chi - come la Madre - cerca di rimettere insieme i pezzi di un organismo agonizzante deve ritrarsi nell'impotenza. L'onestà di Sara viene
vilipesa e denigrata da Alfredo che vuole così prendersi una
rivincita. La bambina creduta morta per una pallottola destinata ad Alfredo è ancora più vittima sacrificale, perché uccisa non per caso, ma volutamente scelta da un avversario del
boss per vendicare l'assassinio di un'altrettanto innocente vittima bambina. Santa Rita che Maria invoca per sapere chi ha
ucciso sua figlia si muove e siede a tavola come uno degli
ospiti, pur se vista soltanto dalla donna; ma il giovane stravolto che entra nella stanza puntando la pistola contro Alfredo,
autore di un ultimo orrendo delitto è una sorta di Nunzio Rivelatore della morte della bambina. E' un miracolo lieve e triste, questa rivelazione, mentre inesorabile si sente di sfondo
la televisione, e la Madre "fa i piatti" come una eduardiana
padrona di casa. Ma questo "fare i piatti" per la famiglia ha
il sapore di una tremenda irrisione, insieme ad un rimpianto
doloroso per una perduta identità familiare.
Calvino ha costruito la sua drammaturgia lontano da
mode e lanci planetari. Pur forte di un impegno politico, non
si è accodato a sostegni di partito o comunque di potere, lo
dimostra il suo graduale affermarsi che soltanto in questi ultimi tempi, dopo conferme inoppugnabili, lo ha fatto arrivare al Mercadante nel Festival estivo di quest'anno, a cui seguirà uno spazio nella programmazione della stagione, fatto insolito e quanto mai indice di valore rispetto agli effimeri
debutti mordi e fuggi.
Al di là di furiose querelles sulle nuove drammaturgie ed
i nuovi linguaggi in cui sovente la parola sparisce o si fa pretesto sonoro, la drammaturgia di Calvino induce a indagare
sulla vita di oggi metaforicamente allargata al di là dei confini di un preciso linguaggio e di un ambiente circoscritto,
attraverso un forte impatto emotivo non disgiunto da una riflessione distaccata e al tempo stesso partecipe.
9
TESTI
sto. Tuo fratello. Io che ci posso fare se è venuto così, lo
ammazzo? Sono sua madre e nonostante tutto per me è ancora un ragazzo. Se lavora, e non chiama mi preoccupo, mi
agito, sto’ male; mi tranquillizzo quando lo sento al telefono solo allora trovo pace.
GIUSEPPE - E già il ragazzo, ma delle persone che deruba
o fracassa la testa non ti fanno pena no?
MADRE - Mi preoccupo se lo prendono, e penso: come farà
a cavarsela. Potrò portargli una parola di conforto?
GIUSEPPE - Già ora il “ragazzo” lavora anche in trasferta.
Qui l’aria per lui è diventata irrespirabile, voleva fare il boss!
MADRE - Stai parlando di tuo fratello!
GIUSEPPE - Lo so, e non sono orgoglioso di esserlo.
MADRE - Parli così perché tuo padre non c’è più.
GIUSEPPE - Se lui fosse qui, non staremmo neanche a parlarne di tutto questo. Le cose sarebbero andate diversamente.
MADRE - ’A colpa è mia è overo?
GIUSEPPE - Non ho detto questo.
MADRE - No lo dici, e continuamente. Ho fatto quello che
potevo ho pensato soprattutto a farvi crescere sani, a darvi
più di quanto potessi permettermi.
GIUSEPPE - Lo so, lo so. A volte sono i limiti culturali che
rovinano la gente.
MADRE - Limiti culturali? Tuo fratello è stato rovinato dagli amici tu dai libri, uno di questi giorni li prendo e lì do
fuoco! Accumulano polvere e levano spazio, a cheste servono!
GIUSEPPE - Servono a pensare di testa tua.
MADRE - Ho visto! Sei andato molto lontano, operaio era
pàteto e operaio sì addiventato pure tu, mò ca nun sì cchiù
operaio quaccòsa ’e fa’!
GIUSEPPE - E che dovrei fare, seguire le tracce del fratellino?
MADRE - Un’occasione te l’aveva data. ’Nu negozio tutto pe’ te. Non dovevi spendere niente, ci entravi da padrone.
GIUSEPPE - Mamma, mamma! Lo sai con quali soldi era
stato fatto quel negozio lo sai? Si, tu lo sai ma fingi di non
sapere. Soldi del racket, quel negozio apparteneva ad un poveraccio che è stato costretto a cederlo. Quel negozio serve per riciclare soldi sporchi!
MADRE - Pur’io m’arrangio compro vendo. E’ ròbba arrubàta ma c’aggia fa’? Fai pure l’orgoglioso, ricordati che
hai una famiglia da mantenere, ’a vita è cara. E mammina
tua è sempre più all’asciutto.
GIUSEPPE - Quello che mi hai prestato ti sarà restituito. Anche con le pezze in culo resto quello che sono! Mi dispiace solo per i ragazzi, quest’anno la casa al mare non posso
prenderla era l’unico lusso che ci potevamo permettere.
MADRE - Che ho fatto per meritarmi dei figli così?
GIUSEPPE - Bella domanda.
MADRE - Visto che sei tanto intelligente, fa qualcosa per
tua sorella.
GIUSEPPE - Che ha?
MADRE - La perdita di un figlio è un dolore immenso…
GIUSEPPE - Che fa?
MADRE - Va tutti i giorni al cimitero, pulisce quel fosso
in continuazione e cambia i fiori tutti i santissimi giorni poi
torna a casa mangia qualcosa e va a mettersi sul letto e il
10
giorno dopo ricomincia.
MADRE - S’adda fa’ quaccòsa e subito!
GIUSEPPE - Certo, certo ci stavo già pensando. Intanto le
farebbe bene tornare dal marito.
MADRE - Per lei ci sono troppi ricordi in quella casa.
Torna la figlia e si mette a pulire, sposta di nuovo il tavolo e la poltrona, spegne il televisore, esce.
MADRE - Se non si mette a letto questo fa, pulisce in continuazione e sposta i mobili. Più oggi che domani bisogna
affidarla a qualcuno. Vulesse sapè che fastidio le dava ’o televisore appicciàto.
Esce. Entra Sara la moglie di Giuseppe
SARA - Non dovevi andare al sindacato?
GIUSEPPE - Ci sono stato.
SARA - E che dicono?
GIUSEPPE - Bisogna aspettare.
SARA - Che cosa? Gli hai detto che hai una famiglia, che
siamo senza una lira. Stiamo facendo debiti per andare
avanti.
GIUSEPPE - Il sindacato sta facendo il possibile per trovare
un accordo con l’azienda! Quelli nicchiano, vogliono esasperarci, per piegarci meglio.
SARA - Io mi metto a lavorare.
GIUSEPPE - E chi pensa ai bambini?
SARA - I nonni che ci stanno a fare? Giuseppe io non c’è
la faccio più. Sono anni che vesto i nostri figli rovistando
sulle bancarelle, che corro da un mercato all’altro per risparmiare. Mi sento soffocare da questa precarietà e intanto il tempo passa e ti accorgi che non stai vivendo. Ho bisogno di sentirmi utile.
GIUSEPPE - Hai già trovato un lavoro?
SARA - Vado a lavorare nel negozio di Alfredo, hanno bisogno di una cassiera.
GIUSEPPE - Alfredo mio fratello?
SARA - Eh! Il negozio che ti voleva dare e che tu rifiutasti
l’hanno dato in gestione al fratello di tua cognata, dice che
sta andando molto bene e vogliono aprire un altro reparto.
GIUSEPPE - Trovati un altro lavoro perché da mio fratello tu non ci vai, e lo sai perché! Chiaro?
SARA - Lo sapevo, che mi avresti fatto storie. Nella nostra
condizione non possiamo andare troppo per il sottile e fare
gli schizzinosi!
GIUSEPPE - Schizzìnosi? Ho già troppi problemi, non crearmene altri. Io la notte voglio dormire non voglio fare la fine
di Alfredo che non dorme, che deve stare sempre sveglio
e guardarsi le spalle. Certo ha tutto, l’utile e il superfluo.
SARA - Ha comprato altri due televisori al plasma.
GIUSEPPE - Lui non si alza alle sei del mattino, non deve
timbrare nessun cartellino. E’ un uomo libero, libero di prendersi le cose dagli altri ca’ se ne’ stanno zitto per quieto vivere.
SARA - Tu sì nato in questa famiglia per sbaglio, sì asciùto fòre razza!
GIUSEPPE - Ho dei principi, io!
SARA - Domani ci mangiamo i tuoi principi.
TESTI
ho mai goduto tanto. La mia era accussì carnale ca quasi torno là il mese prossimo e me la fotto di nuovo.
II GIOVANE - Non possiamo, bisogna far passare un po’
di tempo, se ci beccano restiamo dentro e lì non è come qui
che abbiamo conoscenze. Chisà sì nu juorne turnàmme ‘a
faticà ca’.
I GIOVANE - E’ difficile, appena Alfredo ci ha provato è
succìeso chellu poco. Si è messo contro le altre famiglie
vuleve fa ’o capuzzìello è ’o stevene facenne fòre, poco è
mancato.
I GIOVANE - Piuttosto hai svuotate le tasche? Tolto ogni
tracce di lei? Chi ’a sente a muglièrete sì scopre coccòse.
II GIOVANE - Ho controllato sono pulito. Non fosse per i
bambini la manderei a fare in culo! Dopo quel ben di Dio,
si torna alla solita zuppa e per quieto vivere bisognerà pure
fare il nostro dovere coniugale e giù…ah! ah!
ah!…(Anticipano la finzione del piacere che avranno con
le loro mogli. In un coito esasperato e ironico).
Entra la madre. I due giovani si ricompongono.
MADRE - Avete mal di pancia o vi siete bevuti il cervello?
I GIOVANE - (sistema gli orologi sul tavolo) Vostro figlio
sta arrivando.
MADRE - Quando viene, posso restare un po’ sola con mio
figlio?
II GIOVANE - Gesù, voi siete la padrona!
I GIOVANE - E noi, i suoi angeli custodi.
MADRE - Voi? I suoi che?
Entra il figlio. Alfredo, dal comportamento accattivante.
GIUSEPPE - Lo vogliamo per questo, santificare?
SARA - Non sarà da tuo fratello, ma un lavoro l’aggià truvà!
Loro due escono. Entrano due giovani. Si sbracano, posano le pistole sul tavolo e cominciano a telefonare dai propri cellulari uno dei due prende da un sacchetto orologi d’oro che sistema sul tavolo.
I GIOVANE - Si, siamo tornati adesso ’a Firenze. ’A parmiggiàna? (All’altro) Mammà m’ha fatto ’a parmiggiàna. Sei
grande mammà!
II GIOVANE - Adesso vengo tesoro si, nun accumincià con
questa storia, quando lavoro, lavoro. I bambini comme
stanno? Ancora devo mettere piede a casa e già mi staje facenne ’o terzo grado, non mi sono scopato nessuna puttanella!
I GIOVANE - (lo guarda complice e sorride)
II GIOVANE - (risponde sorridendo all’amico) Anzi, preparati che sto arrivando! Ti ripeto che no, no! Cazzo!
(Chiude con rabbia il cellulare che riprende a suonare)
I GIOVANE - Quelle due erano proprio brave a letto, non
ALFREDO - Sapessi quante volte mi hanno salvato da situazioni difficili, se ancora non mi porti fiori al cimitero lo
devi a loro. Mammà! (Si abbracciano)
MADRE - Finalmente, figlio mio, che gioia vederti. Adesso però te ne stai un po’ tranquillo vicino a mamma tua.
ALFREDO - Si, per un po’ di tempo mi fermo. Ci riposiamo dalle fatiche eh, giovanotti? (Scruta gli orologi sul tavolo, improvvisamente ne afferra uno e lo sbatte a terra con
violenza) E’ mai possibile che non sapete ancora distinguere
un orologio placcato da uno d’oro massiccio? Cazzo, puttana! Mannaggia ’a..!
MADRE - Ah, non bestemmiare!
ALFREDO - (inferocito) Mà, statte zitta e vattènne dinto…
MADRE - (esita)
ALFREDO - Vattene dentro, me capito?
Lei esce.
I GIOVANE - (raccoglie l’orologio e lo guarda accuratamente) Sarà stato quella volta che sono caduto dalla moto…
ALFREDO - Non me ne frega un cazzo! Ogni volta si rischia la galera, e voi lo sapete, non ci possiamo permettere
di toppare cazzo, so’ sòrde ca sfumano. Chi paga ora? Eh?
Chi? Uno di voi due ha sbagliato e voi due ci rimettete la
vostra parte. Così imparate, ricordatevi che se accade di nuovo chi sbaglia esce dal gruppo, fuori per sempre! Tengo ’a
fila ’e guagliùne là fòre, ca vulessène faticà cu me. Ho un
11
TESTI
prestigio da difendere. E su questo errore adesso tomba. Se
no vi faccio provare la mia specialità.
II GIOVANE - Non ti preoccupare, non accadrà più!
I GIOVANE - Ci rifaremo.
ALFREDO - Lo spero per voi. Si no, ve sparo ’mbòcca!
Suona il suo cellulare.
ALFREDO - Bellissimo dimmi! Bene, va bene. Ti mando
un mio giovane che ti porta a casa mia. Tu parli troppo a
telefono, da vicino ti spiego. Sei sempre al solito posto? (Fa
cenno al I Giovane di andare) Adesso arriva. E’ andato tutto bene? Va bene, ti aspetto! (Chiude. Al II Giovane)A questo ci devi pensarci tu, mentre sta qui gli tagli i freni. Non
deve tornare a casa vivo. Questa carogna sta facendo il doppio gioco con la polizia.
II GIOVANE - Come l’hai saputo?
ALFREDO - Ho uno zio alla questura…uno zio acquisito.
II Giovane esce. Alfredo siede, entra Maria.
MARIA - (vede il fratello) Sei tornato?
ALFREDO - Non si vede?
MARIA - Ti vedo, ti vedo…
ALFREDO - Che devi fare?
MARIA - Pulire, vattene in cucina se devi fumare.
ALFREDO - Proprio adesso aspetto visite.
MARIA - E non può essere perché devo pulire e subito.
ALFREDO - Non sta sporco.
MARIA - E non lo puoi vedere.
ALFREDO - Che vuoi dire.
MARIA - Non vedi più, sei cieco, accecato dal troppo!
ALFREDO - Marì ma che staje dicenne?
MARIA - Ogni ora giorno che passa, mi sto chiedendo se
sono viva? Come faccio ad esserlo? Sono morta anch’io nel
medesimo istante che mia figlia, improvvisamente è sbiancata. La vita è fuggita via da quel corpicino, lasciandomi sola
il suo volto cèreo. Il collo si è irrigidito e tutti i miei baci,
non sono bastati a farla tornare. Allora l’ho presa fra le braccia e gli ho dato il mio respiro, ma niente, niente. Come l’acqua è scivolata via…
Mentre parla inizia a spostare i mobili e con frenesia pulisce, poi continua a spostare, con un ritmo sempre più frenetica. Si precipita alla porta sgabuzzino l’apre.
Che fatto? Che fatto S.Rita, che fatto? Tu sposa eletta di
Gesù! Così foste madre affezionatissima. Che fatto? Voi che
tutti chiamano la Santa degli Impossibili. Che fatto? Voi che
foste prescelta da Dio per “Avvocata nei casi più disperati”. Che fatto? Che fatto a mia figlia. S. Rita non ti sono bastate le mie preghiere, le suppliche, le lacrime che ogni giorno versavo davanti a te, inginocchiata ai tuoi piedi, con la
morte nel cuore ho invocata un gesto tuo. Niente, niente, solo
silenzio da parte tua. Che fatto, che fatto?
ALFREDO - Santa Rita non c’entra. Doveva succedere.
MARIA - Già, il destino. Tu che ci stai a fare? Solo a prenderti le nostre preghiere, le lacrime di chi soffre? Santa Rita
rispùnne!
ALFREDO - E mò basta, basta!
12
MARIA - Si, è meglio! (Chiude le porte sbattendole)
ALFREDO - Hai finito?
MARIA - (fissando il fratello) Tu hai saputo chi è stato?
ALFREDO - (evitando il suo sguardo siede alla poltrona,
accende la tv con scene di guerra) No.
MARIA - Sicuro?
ALFREDO - Volevano uccidere me, e stato un caso. Lei si
è trovata sulla stessa traiettoria dei colpi.
MARIA - Povera figlia mia. Perché ti volevano uccidere?
Che gli hai fatto?
ALFREDO - Niente, niente. Sono pazzi!
MARIA - Tu non c’entri, vero?
ALFREDO - No.
Maria esce, entra Giuseppe. Loro due si guardano in cagnesco.
GIUSEPPE - Me faje ’nu piacere? Qualsiasi cosa ti viene a
chiedere mia moglie tu ignorala.
ALFREDO - Come faccio se viene a chiedere aiuto?
GIUSEPPE - Tu ignorala.
ALFREDO - Mi fa male sapere che mio fratello si scandalizza non sulla vita di stenti che fa fare alla sua famiglia ma
su come il sottoscritto conduce la sua. Ca’ nun è onesta l’ho
ammetto, ma che mi permette di dare ai miei figli tutto quello che vogliono. A mia moglie posso regalà i gioielli cchiù
belli. La dovresti vedere comme è felice. Quando la madre
dei tuoi figli è soddisfatta, tu puoi stare tranquillo che niente altro gli frulla per la testa.
GIUSEPPE - Che vuoi dirmi?
ALFREDO - Quando una bestia è ferita diventa facile preda dei cacciatori.
GIUSEPPE - Bravo, adesso parli anche per metafora.
ALFREDO - Quale metafora, sono detti antichi. Tu sì l’acculturato dà famiglia. Cu tutto stu’ sapere tuojo nun sì ghiùto luntàno.
GIUSEPPE - E tu? Costretto ogni attimo a guardarti alle
spalle. Certo, tiene assàje sorde. Spendi e spandi ma mai un
viaggio, un concerto, un teatro, vi abbuffate ’e prosciutto e
pesce surgelato. Ai tuoi figli patatine e hamburger. Video
giochi e televisione in dose massiccia. A proposito di detti: “‘O pane a chi nun tene i denti”. Soldi tanti, ma oltre a
riempire la casa di statue di gesso di ovali con cherubini, e
colonne dorate, non vai…
ALFREDO - Quando vorrai, sarò sempre disponibile ad aiutarti, lo faccio soprattutto per i tuoi figli.
GIUSEPPE - Non preoccuparti per loro, sono orgogliosi di
avere un padre cocciuto come me.
ALFREDO - Sarà!
GIUSEPPE - Parla chiaro fratello.
ALFREDO - Fossi in te non starei tranquillo.
GIUSEPPE - Che voi dirmi?
ALFREDO - Tua moglie…
GIUSEPPE - E allora?
ALFREDO - Può diventare una facile preda.
GIUSEPPE - Di chi?
ALFREDO - Della ricchezza.
GIUSEPPE - Bastardo che stai dicendo? Se osi sfiorarla io
ti ammazzo!
TESTI
ALFREDO - (si libera bruscamente) Stai molto attento, così
la perdi. Le privazioni la rendono debole.
Escono. Maria avanza nel buio, apre la porta dello sgabuzzino, accende delle luci che illuminano il busto di S. Rita
da Cascia. Accende una candela e viene al centro della scena si mette in ginocchio e da un fazzoletto bianco prende
petali di rose che sparge intorno a se.
MARIA - Senti che odore? Eh, Santa Rita sono come piacciono a te; petali di rose appena sbocciate, rose rosse rose
bianche, rose gialle. Mi sento persa, smarrita. Un muro di
nebbia intorno a me. Perché la mia piccola non mi viene in
sogno? Ad alleviare questo mio dolore, dalla sua assenza.
Se ci pensi la mia bambina è lì davanti a me, coperta da terra santa, e una lastra di marmo. E lì che dorme. Io la potrei
svegliare. Potrei scavare e riprendermela (Smuove i petali
con le mani). Non posso. Come si fa a guardare ogni nuovo giorno senza la persona che tu hai amato, coccolato addormentato. Quante volte ti sei persa nei suoi piccoli gesti,
sorrisi. Come si fa a passare da una camera all’altra senza
più la sua presenza, la voce. Anche la strada ti appare diversa e la gente che cammina ti offende con la sua vitalità
e anche questo cielo mi schiaffeggia con il suo azzurro terso e questo sole accecante penetra ovunque, illumina angoli e vie senza lasciare scampo al buio che c’è in me. Perché
questo dolore, questo gelo mi prende al petto, mi stringe la
gola. Perché questa spina è entrata nella mia carne devastandola! Come sempre non un gesto, non un cenno. Non
rispondi, e mi lasci nel baratro. Perché, tutto questo silenzio nella mia vita?
Si precipita alle porte e le chiude con violenza. Entra la
madre.
… mamma! (L’abbraccia) Mamma!
MADRE - Che fai al buio? Vieni andiamo a dormire.
MARIA - Ho fatto un sogno: avevo davanti una lunga scalinata che saliva verso il cielo e lì in alto c’era la mi la piccola Anna che mi aspettava e aveva un vestitino giallo te lo
ricordi?
MADRE - Si, sì. T’aggio ditto lassa fa’ ’o tièmpo. ’E capito?
MARIA - Ho capito che da quel giorno sono morta anch’io.
Si, ti sembrerà assurdo quello che dico, perché mi vedi qui
parlare con te, ma è così. Io domani dovrò essere seppellita vicino a mia figlia. Adesso sono serena. Adesso mi è tutto chiaro. Adesso devo morire.
Si mette sul tavolo supina. E si copre il viso con il velo che
ha usato per le rose.
MADRE - No, no! (Va via di corsa)
Entrano I Giovane e II Giovane, vedono Maria sul tavolo,
sorridono siedono davanti alla tv l’accendono (commenti di
guerra).
II GIOVANE - Non ti facevi la madre?
I GIOVANE - E adesso mi faccio la figlia!
II GIOVANE - E’ una bambina!
I GIOVANE - Ma fotte bene! Ha aspettato che la madre
uscisse, mi ha raggiunto nel letto e senza neanche dirmi una
parola si è infilato sotto le coperte. L’ho lasciata fare, dopo
è tornata la madre, che mi ha regalato questo cellulare, guarda com’è piccolo!
II GIOVANE - Fai vedere? ( Lo apre curioso)
I GIOVANE - Attento che me lo rompi.
II GIOVANE - Assomiglia al mio, questo però è l’ultimo
tipo.
I GIOVANE - Adesso ho tre cellulari.
II GIOVANE - Che te ne fai di tre cellulari?
I GIOVANE - Mi serve.
II GIOVANE - Posso capire due ma il terzo..
I GIOVANE - Fatti i cazzi tuoi, se ti dico che mi serve, mi
serve!
II GIOVANE - Vuoi avere un secondo cellulare pulito?
I GIOVANE - Uno pulito mi basta. Poi c’è quello sporco il
terzo mi può essere utile in caso d’emergenza! Il tuo l’hai
cambiato?
II GIOVANE - Non ho trovato il modello giusto.
I GIOVANE - Ancora? L’ho tieni da una vita, cambiati almeno il numero, sai che dopo un po’ scotta.
II GIOVANE - Una vita! Sono appena quattro mesi. Hai una
macchia di sangue sulla camicia.
I GIOVANE - Merda, dov’è? (La vede) Cazzo, questa non
proprio l’ho vista.
II GIOVANE - Che hai fatto?
I GIOVANE - Me la sono fatta quando ho scannato quel tipo
che è venuto a parlare col capo.
II GIOVANE - Non gli dovevi tagliare i freni?
I GIOVANE - Lungo la strada si è fermato su una piazzola di servizio e mi ha fatto cenno di raggiungerlo. L’ho fatto, prevedendo un colpo basso. Si è messo a parlare male
d’Alfredo! Mi ha offerto da bere, una canna. Così mentre
si scolava la bottiglia non ci ho visto più, gli ho infilzato il
mio coltello a serramanico nel collo. Lì mi sono sporcato la
camicia.
II GIOVANE - Non doveva sembrare un incidente!
I GIOVANE - Ho avvisato il capo, e gli ho pure mandato
una foto dello scannato dal mio cellulare.
II GIOVANE - Overo? E lui?
I GIOVANE - Sei, un maledetto stronzo! Adesso però portalo a passeggio che sarebbe: - lascialo in una stradina solitaria e brucia tutto!(Ride)
II GIOVANE - Hai lasciato tracce, qualcosa?
I GIOVANE - Pecché?
II GIOVANE - Il capo ieri era preoccupato, la polizia gli
sta troppo addosso negli ultimi giorni.
I GIOVANE - Non mi ha detto nulla.
II GIOVANE - Sta tranquillo, il capo tiene uno zio in questura.
I GIOVANE - Uno zio?
II GIOVANE - Eh! Ma non capisci proprio niente.
I GIOVANE - (intuendo) Ah, ho capito.
Vanno via. Sara e Alfredo sono seduti l’uno distante dall’altro ognuno davnti alla tv accessa.
13
TESTI
ALFREDO - Tuo marito?
SARA - E’ a manifestare fuori alla fabbrica.
ALFREDO - Sotto questo sole?
SARA - Eh!
ALFREDO - Nun ’o capisco a tuo marito.
SARA - Non mi pare, che lui ti abbia chiesto comprensione.
ALFREDO - (sorride) Intanto ti vieta di lavorare, e quando la fabbrica sarà chiusa, perché questo accadrà!
SARA - E certo, fin quando ci sarà gente come voi ad
estorcere, a succhiare il sangue dei lavoratori qui tutto è
destinato a chiudere; dalle piccole imprese alle grandi fabbriche.
ALFREDO - A tuo marito gli ho dato più di una possibilità. Gli ho messo a disposizione un negozio. A quanto pare
preferisce tenervi a stecchetto. Da quando tempo non ti compri un vestito, non ti porta a mangiare fuori? Da quando non
fate un viaggio, una gita. Da quando ti costringe a mortificarti con i tuoi genitori a chiedere soldi in prestito che poi
chi lo sa come lì restituirà. Quante rinunce hai fatto e fai,
questo non lo metti in conto no? Io forse nun arrivo a domani ma almeno, muojo sazio!
SARA - Ci sono due cose che mi fanno amare tuo fratello:
la sua dignità, e il rispetto per la vita altrui. E questo basta
e avanza per sopportare tutte le rinunce del mondo.
ALFREDO - (sorride) Io non ti farei mancare nulla. (Si avvicina lei) Basta chiedere e ti darei tutto…lo sai.
SARA - Mi basta quello che ho!
ALFREDO - Che hai? Che hai? Nulla! (La stringe a se) Un
tuo gesto e ti darei quello che vuoi: una pelliccia di visone,
una collana di perle, oro brillanti tutto per te faccio tutto!
SARA - (lo respinge) Si asciuto pazzo eh? Chi ti ha chiesto nulla. La pelliccia, l’oro a questo sei ridotto.
Alfrè ci sono cose che non si comprano.
ALFREDO - Parle comme ’nu libro stracciato! E’ meglio
ca nun dici niente a Giuseppe è preferibile ca’ nun sàpe.
SARA - Con te, non voglio spartire proprio nulla. Gli dirò
tutto e tuo fratello capirà e sì comporterà da persona per bene
non ti preoccupare. Tanto ché succìeso?
ALFREDO - (suona il cellulare, risponde) Dimmi. La polizia che ha trovato nella macchina? Ho capito, e possono
arrivare a lui? Possono.
Entra la Madre agitata.
MADRE - Avete saputo?
SARA - Che cosa? E’ successo qualcosa alla fabbrica?
MADRE - No, no. Scoppierà la guerra.
SARA - Chi ve l’ha detto?
MADRE - Un signora dal macellaio, l’ha sentito al telegiornale, accendiamo il televisore.
Esegue tutti si mettono a guardare ma per pochi attimi, come
se fosse un film poi ognuno torna alle sue cose.
ALFREDO - (chiude il cellulare) La facessero scoppiare
questa guerra. Sono settimane che ci fanno stare col fiato
sospeso.
MADRE - Questo figlio mio è proprio pazzo. Che cosa terribile.
14
ALFREDO - Mammà sì pure succere non scoppia qui, ma
lontano, lontanissimo da qui. A noi non ci tocca proprio.
SARA - Ovunque accada saranno dei civili a pagare il prezzo più alto in vite umane.
ALFREDO - (brusco) E basta! Fra poco dirai che è pure colpa mia se faranno questa guerra.
SARA - Tu non eri proprio nei miei pensieri. Si vede però
che hai la coda di paglia.
MADRE - Che coda di paglia?
ALFREDO - Niente mà, niente! Tuo figlio ha sposato una
donna che doveva stare in cattedra! Non qui, fra gente ignorante.
MADRE - Ignorante, coda di paglia ma che succede?
SARA - Siete proprio sicura che sta per scoppiare la
guerra?
MADRE - Sicurissima! Non potete immaginare l’altra volta che c’era al supermercato una folla impazzita che se pigliàva ’na quantità esagerata di olio farina e zucchero. Comme sì bastasse. Per due giorni il sale doppio, è sparito dagli scaffali. Adesso sai che faccio mi piglio i tuoi angeli custodi e me li porto a fare la spesa con me. Prima che arriva
la folla. Sì nun ce penzo io, dint’à sta’ casa se facesse ’a famme. Intanto vado a sentire in cucina sì hanno attaccato, nun
vulesse perdere gli sviluppi, sì no aggià aspettà ’o prossimo notiziario pe sapè…(Solo adesso vede la figlia sul tavolo) Tu staje ancora ca? T’aggio chiammàte cchiù vòte.
Guarda che S. Rita in questo momento tiene altro da fare
che sta’ arète a te. Come devo fare con questa figlia. (Al figlio) Vuoi fare qualcosa per tua sorella, nun vìre? (Indicandola sul tavolo)
ALFREDO - (guardando la tv) Mamma rassegnati!
MADRE - Quando non volete fare una cosa, fate presto a
liquidare. Ho capito dovrò vedermela io! Non ti preoccupare
figlia mia, guerra permettendo ti porterò io dal dottore. (A
Sara) Vieni con me a sentire il telegiornale?
SARA - Si.
Escono. Alfredo fissa la sorella sul tavolo, esce.
MARIA - Sono morta? La mia anima sta lasciando il corpo? Mi sono sentita chiamare da tante voci. Dicono che anche dopo morto il cervello continua a funzionare finché non
si scarica, comme ’na pila. Eppure non sono ancora fredda.
Mia figlia era gelata. Più fredda del marmo che non riuscivo più a baciarla. (Si alza. Va allo sgabuzzino l’apre con rabbia) Ti ho chiesto di salvarmi mia figlia e non hai fatto nulla, ora ti sto supplicando di farmi raggiungere mia figlia perché qui, non voglio più starci e neanche questo succère!
Nella camera fa improvvisamente scuro.
…Ricordatevi, Santa Rita, che avete il nome di “Santa degli Impossibili, protettrice dei casi disperati” per la gloria di Gesù e di Maria e per la vostra gloria Vi imploro,
vi domando di concedermi il sospirato favore. Così spero e così sia.
Si getta a terra rivolta all’altarino da dove dopo poco, appare a figura intera Santa Rita con la spina fra i capelli e
TESTI
un fascio di rose fra le braccia. Si avvicina lentamente a lei
che alza il capo e si protende verso la Santa.
MARIA - Perdonatemi se ho dubitato... perdonatemi.
FINE PRIMO ATTO
ATTO SECONDO
Le porte dello sgabuzzino sono state tolte e l’altarino è riempito di luci e fiori. Il tavolo è stato allungato e spostato sotto ad una parete. La moglie di Giuseppe sta parlando con
la Madre che sta aprendo uno scatola da dove tira fuori un
forno microonde.
Rumori esterni di motorini e voci si alternano ad annunci
di un prossimo attacco e dell’inizio della guerra.
MADRE - (raccoglie dal tavolo vestiti da uomo maglioni,
li guarda poi li prende e alla fine lì porterà via) Mò so’ arrivate, questo è di cachemire. Hanno svuotato un tir intero,
con la miseria che sta in giro spero di venderli.
SARA - Ormai è deciso, la fabbrica chiude.
MADRE - Figlia mia, io che ci posso fare? La fabbrica chiude e questo si sapeva, la smantellano e pure questo sapevamo. Tuo marito occasioni di un nuovo lavoro l’ha avuto. Con
i tempi che corrono e questa guerra che sta per scoppiare
non doveva rifiutare. Possibile che suo fratello voleva il suo
male? Iamme! Qualsiasi cosa accadeva ci pensava mio figlio. Giuseppe si doveva fidare e non fare il superiore con
le sue idee, adesso che ti devo rispondere? - mandate avanti la famiglia con le vostre “idee”, mangiatevi quella a pranzo e a cena!
SARA - Nella vita si fanno delle scelte.
MADRE - Mi meraviglio di te, ma non pensi ai tuoi figli?
Al loro futuro? Li avete messi al mondo per fargli fare una
vita di stenti? Allora convinci tuo marito che deve fidarsi
di suo fratello che le belle parole, non riempiono la pancia.
So’ state ’e libri ’a ruvinà a figlième, nu juorne ’e chisto
l’appìcce!
SARA - Nessuno poteva immaginare che la fabbrica avesse chiuso. E’ intervenuto anche il governo hanno speso miliardi per rilanciarla, e dopo due anni la chiudono, l’impacchettano e la trasferiscono all’estero. Chi poteva immaginare.
MADRE - Falle cagnià idea ca’ ci parlo io con Alfredo! Vi
posso aiutare oggi, ma domani? Non vivo di rendita! Devo
pensare alla mia vecchiaia e adesso con il problema di Maria non so proprio cosa fare, non ragiona più il dolore la sta
distruggendo. Adesso dice che ha visto S. Rita; che l’hè apparsa davanti e l’abbracciata. Tu capisci ché sto’ passànno?
SARA - Capisco.
MADRE - Credevo di passare una buona vecchiaia, invece la vita ti sorprende sempe. Il dottore gli ha prescritto delle siringhe. E io ce l’aggià fa’!
15
TESTI
SARA - E’ difficile sopravvivere a tanto dolore.
MADRE - Pure a mio marito gliele facevo io. Ho imparato
a farle. Nè aveva bisogno cinque, sei al giorno per calmare
il dolore, capisci che soldi avrei dovuto tirare fuori. Tutto
s’ impara nella vita.
SARA - E’ vero.
MADRE - All’inizio avevo terrore dell’ago solo a guardarlo
mi sentivo male…un dolore alla bocca dello stomaco. Poi un
pomeriggio mio marito che stava già male da due mesi ebbe
una crisi che se non c’ero io pronta con la siringa era morto!
SARA - Sapevate già come fare.
MADRE - No! Devo dire che ogni giorno che veniva la
serèngara, io stavo attenta ad ogni passaggio che faceva e
si, perché pensavo e se questa un giorno non può venire, che
faccio? Infatti, due giorni dopo mi trovai sola a dover affrontare un emergenza, dissi a me stessa o adesso o mai più!
Mio marito mi guardava preoccupato ma nun putevo fa’ diversamente! Presi la siringa, misi l’ago, ma non riuscivo ad
aprire la fiala facevo pressione ma niente, riprovai e finalmente ’o beccuccio si spezzò non senza provocarmi un taglio. Aspirai la medicina cambiai l’ago..
SARA - (preoccupata) E l’aria?
MADRE - Me n’ero dimenticata. Me lo ricordò mio marito - Gesù gli risposi, già fatto! Tolsi l’aria e le bollicine e
fui pronta. Adesso l’unico dubbio che avevo era: - una volta messo l’ago dovevo tirare lo stantuffo per vedere se avevo preso una vena! Eh, pare facile.
SARA - E non lo è!
MADRE - Non lo è, no. Mi ricordai che ’a serèngara dava
uno schiaffo e metteva l’ago nella carne. (E attraversata da
un brivido) Allora eseguo come detto, perché così mi ricordavo e prima di rilasciare il medicinale tiro lo stantuffo
della siringa e non vedendo sangue spingo e in un attimo è
tutto finito. Tiro fuori l’ago e mio marito si riprese!
SARA - Mi avete fatto venì ’o patèma.
MADRE - Ato che patèma. Per me quelli sono stati i secondi più lunghi della mia vita (Sorride) Sono due anni che
adesso faccio siringhe. A parenti ed amici.
Entra Giuseppe.
GIUSEPPE - Ecco perché in questa casa non viene più nessuno.
MADRE - Non fare lo spiritoso tu. Ti sei dimenticato la
colica renale di un anno fa?
GIUSEPPE - E’ vero, mi lasciasti l’ago dentro…ma il dolore passò.
MADRE - Tu saltavi sul letto come un’anguìlla! Che impressione mi fece si piegava in due!
SARA - E io dove stavo?
GIUSEPPE - Da tua madre.
MADRE - Avevate fatto discussione.
SARA - Ah, si.
MADRE - Che bella memoria che tieni figlia mia!
GIUSEPPE - Che fai qui?
SARA - Sono venuta a vedere se S. Rita mi aiuta.
MADRE - Adesso ti ci metti anche tu con S. Rita?
SARA - Visto che in terra nessuno ci da una mano.
MADRE - Aiutati che Dio ti aiuta.
16
GIUSEPPE - Ho visto il tuo Dio, chi aiuta.
LAMADRE - Non bestemmiare!
GIUSEPPE - Non sto bestemmiando. La fabbrica è stata
chiusa, centinaia di famiglie sono sul lastrico e io dovrei essere felice.
MADRE - Non dico questo, ma bisogna avere fede.
La Madre esce.
GIUSEPPE - (alla moglie) Andiamo?
SARA - (indecisa) Si.
GIUSEPPE - Che hai?
SARA - Niente, andiamo.
GIUSEPPE - Ti vedo strana. Mi devi dire qualcosa?
SARA - Io? No, nulla.
GIUSEPPE - Allora andiamo.
SARA - Aspetta, sì ti devo parlare.
GIUSEPPE - Dimmi…
SARA - (in difficoltà) No, non è importante.
GIUSEPPE - Cosa non è importante? Sara che ti è successo?
SARA - Non è successo niente. E’ che sono preoccupata per
il nostro futuro. La notte mi sveglio di soprassalto e non riesco più a dormire. Ecco quello che mi succede.
GIUSEPPE - Sei sicura che non c’è altro?
SARA - Questo basta e avanza non credi? Andiamo?
GIUSEPPE - Avviati devo chiedere una cosa a mamma.
SARA - Non bussare a soldi che è inutile.
GIUSEPPE - No, è un’altra cosa.
SARA - Io vado da mammà.
GIUSEPPE - Avviate ca mo’ vengo pur’io!
SARA - Non bussare a soldi che è inutile! (esce)
Entra Alfredo con una piccola borsa. Vede Giuseppe e con
spavalderia prende dalla borsa mazzetti di soldi.
ALFREDO - (contando i mazzetti) Approfitta, prendi. Poi
con calma me dàje.
GIUSEPPE - No.
ALFREDO - Piglia, piglia. Stasera porti tua moglie a cena fuori.
GIUSEPPE - No.
ALFREDO - Gli regali un gioiello, piglia!
GIUSEPPE - Non ti devi preoccupare di noi, capito? Non
devi.
ALFREDO - Non devo?
GIUSEPPE - No!
ALFREDO - Va bene fratello, ma stàtte accòrte! Tua moglie sbanda, io ti avevo avvisato…
GIUSEPPE - Che staje dicenne? Allora?
ALFREDO - Ringrazie ’o cielo ca ero io. Ha visto e sòrde
e ’a perzo ’a capa è caduta in tentazione…se’ vuttàto ’ncuòllo! L’aggio lassàto fa’, pe capì. Sé ’mpruvvisamente
bloccata e se mise a chiagnere. Nun t’ha detto niente?
GIUSEPPE - (afferra il fratello e lo trascina per la camera, avviene una breve colluttazione) T’accìro, t’accìro! E lascià stà a Sara ’e capito? ’E capito?
Giuseppe trascina Alfredo vicino ai soldi che a forza gli mette in bocca. Alfredo riesce a liberarsi.
TESTI
FORTUNATO CALVINO
Nato a Napoli nel 1955, inizia la sua attività artistica nel 1978
come teatrante e filmaker. Nel 1985 debutta come regista
teatrale con la “Signorina Margherita” di Robert Athayde.
(1989/90) ”Il bacio della donna ragno” di Manuel Puig. “Gocce su pietre roventi” di Rainer Werner Fassbinder. (1992)”.
Anna Cappelli” di Annibale Ruccello, “Gardenia” di Maricla
Boggio (1996). (1997) “Caracciolo-dramma in commedia” di
Maricla Boggio da un'idea di Antonio
Ghirelli (2004). "La sorpresa di Natale" di Maricla Boggio
(2005) al Teatro Politecnico di Roma.
“Anna Cappelli” al Riverside Studios Londra (2007).
”Spax” di Maricla Boggio (2008); “Lontana la città” testo e
regia (2008) al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.
Nel 1990 esordisce come autore con la “Statua” (1993) a cui
seguono “Geltrude” (1995), “Cravattari”(2000), “Maddalena”
(2002), ”Malacarne”(2005), “Adelaide” con Imma Piro, regia di
Franco Però (2009), “Madre luna” con Antonella Morea - Istituto di Cultura Italiano a Londra.(2009), “Cuore nero” -Premio
Siad "Calcante" (2009), Fringe Napoli Teatro Festival con
Madre Luna (2011), "Il racconto di Maggio" di Maricla Boggio
- Accademia di Belle Arti di Napoli (2011). "Cristiana
Famiglia", prima assoluta al Napoli Teatro Festival Italia (2011).
PREMI
CRAVATTARI
Premio Giuseppe Fava 1995
Premio “Girulà” 1996
Premio Speciale “Giancarlo Siani” 1997
MADDALENA
Premio Enrico Maria Salerno 1996
Premio Teatri delle Diversità 2001
MALACARNE
Premio DI DRAMMATURGIA Calcante SIAD 2002
Premio “Girulà” per la migliore regia a Carlo Cerciello 2003
Premio “Girulà” a Maria Luisa Santella come miglior attrice
non protagonista 2006
ADELAIDE
Premio “Girulà” come migliore attrice nonprotagonista a Imma
Piro 2005
CUORE NERO
Premio di DRAMMATURGIA”Calcante” SIAD - 2009
Premio “Girulà” a Ivano Schiavi come miglior attore giovane
di CUORE NERO - 2009.
LONTANA LA CITTA' , Finalista al Premio Riccione 2005
per il Teatro
TESTI PUBBLICATI:
Cravattari - Ridotto, rivista di Teatro della SIAD, 1996
Collana di teatro - Guida Editore 1998
Usurai e usurati - Provincia di Napoli –Guida Editore 1998
Geltrude - Ridotto,SIAD, 1997
Maddalena - Ridotto, SIAD, 2002 – Guida Editore 2002
Malacarne – Ridotto, SIAD, 2003
Adelaide – Ridotto, SIAD, 2005
Raccolta di testi in “Teatro” di Fortunato Calvino - Fondazione
Banco di Napoli – Guida Editore 2007
Lontana la citta - Ridotto, SIAD, 2008
Madre Luna – Ridotto, SIAD, 2009
Cuore nero – Guida Editore 2009
Cuore nero – Ridotto, SIAD, 2009
17
TESTI
ALFREDO - Nun te scarfà inutilmente, tanto nun è succièso niente. Mi meraviglio che non ti ha detto nulla, forse ce
stà penzànno. Io sì voglio, ma piglio!
Giuseppe tenta di afferrarlo di nuovo, l’avvicinarsi della Madre e Maria lo bloccano, mentre Alfredo raccoglie i soldi.
ALFREDO - ’E capito, m’accàtte!
Alfredo esce. Entra Maria seguita dalla madre e Sara. E’
arrabbiatissima e sbatte più volte i fiori sul tavolo come un
ossessa.
MADRE - Maria, ma che ti prende?
MARIA - Santa Rita a questa (Indicando la madre), non te
la prendi no?…
GIUSEPPE - E mò basta!
MADRE - Nun ragiona cchiù . ’E po’ Santa Rita penza proprio ’a essa!
MARIA - (furiosa) E poi vediamo se non ti faccio morire.
Lei adesso con me sta in debito e pur di farsi perdonare farà
tutto quello che gli chiedo.
MADRE - Si, adesso sta a sua disposizione. A preso Santa Rita per maga maghella!
SARA - E chi è?
MADRE - Maga maghella Gesù!
MARIA - (apre le porte dello sgabuzzino) Santa Rita qui
nessuno ti crede, pensano che io mi sono immaginato tutto.
Devi fare qualcosa…(Muove la testa come se la Santa gli
stesse dicendo qualcosa; prima acconsente poi dice no). No
a mammà no!
GIUSEPPE - Maria se non la finisci con questo sgabuzzi18
no un giorno di questo lo trovi murato.MARIA - (alla Santa) Hai sentito? Che gente. Dimmi che devo fare…(Riprende
a parlare con la Santa sottovoce)
SARA - Che impressione, sembra che ci parli davvero!
MADRE - Sì chesta nun stesse accussì cu’ ’a capa, basterebbe spargere ’a voce dinto vicòlo e qua fuori ci sarebbe
la processione. Sai che soldi! - Santa Rita è apparsa dint’à
’a casa ’e Nucchettèlla andiamo a vedere - Diventerebbe un
luogo sacro, di culto. Preghiere e offerte, offerte e preghiere.
GIUSEPPE - Mamma!
MADRE - A proposito ho ritirato dalla lavanderia le magliette per la processione della Madonna dell’Arco (Le tira
fuori da una borsa, le mostra a Maria. Oltre alle magliette tira fuori un piccolo televisore). Maria questa è la tua. Poi
c’è quella di tuo fratello e dei due giovani…(Riferendosi alla
piccola tv) Questo, lo metto nel bagno.
MARIA - Non ci vado alla processione…
MADRE - E questa è un’altra novità, e perché?
MARIA - Santa Rita non vuole.
MADRE - Voi la sentite, la sentite?
GIUSEPPE - Ma’, ma perché non la lasci in pace.
MADRE - Tu stàtte zitto! E invece di stare qui a perdere
tempo, vàtte a cercà ’na fatìca.
SARA - Non lo trattate così.
MADRE - (scrolla le spalle si avvicina a Maria) Figlia mia,
chi ti ha fatto arrabbiare, eh?
MARIA - (non risponde)
MADRE - (gridando) Se po’ sapè che te succìeso?
MARIA - (lentamente) Non posso…più portare i fiori freschi a mia figlia me l’hanno proibito!
MADRE - Quando fa caldo i fiori freschi si seccano subito
e puzzano, e allora si portano i sempre vivi o i fiori finti.
MARIA - Fiori finti a mia figlia, mai!
SARA - Adesso ci sono tante varietà di fiori che non hanno bisogno di acqua, sono coloratissimi e durano tanto.
MADRE - E adesso che ci siamo fatti una cultura sui i fiori, figlia mia ce vulìmme calmà?
MARIA - Sì vecchia, pecchè nun sì morta tu?
MADRE - (gli da uno schiaffo)
Madre e Maria restano l’una di fronte all’altra a guardarsi. La Madre è pentita del suo gesto ma non riesce a muovere un muscolo del suo corpo.
Maria la fissa con rabbia poi lentamente si allontana. La
madre la segue.
Buio.
E’ sera. Entra Alfredo. Posa sul tavolo soldi, cellulari e la
pistola. Siede al tavolo e preso dai suoi pensieri non si accorge che è entrata la moglie di suo fratello.
ALFREDO - Che fai qui?
SARA - Tua madre mi ha chiesto di restare non se la sentiva di dormire da sola.
ALFREDO - Ovèro? E come mai?
SARA - Ha fatto discussione con Maria.
ALFREDO - Tuo marito?
SARA - E’ andato a lavorare in un cantiere a Latina.
TESTI
ALFREDO - Siamo soli.
SARA - Non cominciare.
ALFREDO - Come mai non hai detto nulla a Giuseppe di
noi.
SARA - Volevo aspettare il momento giusto.
ALFREDO - (si alza e si avvicina a lei) O ci stai pensando?
SARA - No! Con tutto quello è successo non ho avuto l’occasione di parlargli.
ALFREDO - Lascia sta’, tanto non è successo proprio nulla è ovèro? (Sempre più vicina a lei)
SARA - E nulla succederà! Pensa che hai una moglie dei
figli.
ALFREDO - Lo so. Come so’, che mi sei sempre piaciuta,
t’àggio sempre desiderato. E mò è ’a primmà vòta ca ce
truvàmme sule ’e notte io e te, è un occasione da non perdere non credi? Penzàmme a nuje!
SARA - (tenta di allontanarsi) Tu sì pazzo! Buonanotte Alfrè!
ALFREDO - (la stringe a se con forza) Passamme ’na bella nuttata ’nzième, pure tu me desideri ’o sàcce!
SARA - Lasciami stare, lasciami! Me metto alluccà, faccio
correre a mammète.
ALFREDO - (non l’ascolta più, la spinge sul tavolo e la bacia mentre tenta di spogliarla) E alluccà, alluccà, alluccà!
SARA - (si difende inutilmente, lotta, grida).
ALFREDO - (gli tappa la bocca e la blocca sul tavolo. Cadono a terra tutte le cose che Alfredo aveva appoggiato sul
tavolo, anche la pistola) Sì pazza? Statte zitta! Ti faccio fare
la signora, zitta. Nisciuno addà sapè niente. Da domani capirai chelle ca’ te stìve perdènno.
Sara è sopraffatta dalla forza di Alfredo che la bacia ovunque con desiderio. Entra e resta per qualche secondo in penombra Giuseppe.
GIUSEPPE - Lasciala!
Alfredo si blocca mentre lei si copre il viso. Giuseppe vede
la pistola l’afferra e la punta contro il fratello.
GIUSEPPE - Lasciala! Lasciala!
SARA - No, Giuseppe no!
ALFREDO - (al fratello) T’avevo avvìsato ’e sòrde tentano.
GIUSEPPE - Statte zitto, zitto!
SARA - Giuseppe, lascia quella pistola.
GIUSEPPE - Io ti ammazzo!
SARA - No, non farlo.
ALFREDO - Nun spara, nun te preoccupà nun spara.
SARA - La finisci? (A Giuseppe) Non starlo a sentire
tu non sei come lui. Giuseppe non farlo!
ALFREDO - (prendendolo in giro) Nun ’o fa’, ti prego! Mi
stò facenne sotto, nun ’o fà! (Ride)
La tensione è al culmine. Giuseppe con rabbia schiaccia
sul petto del fratello la canna della pistola. La tensione
è altissima.
MADRE - Che sta succèrenne?
ALFREDO - (affera la pistola dalle mani di Giuseppe e se
la mette sotto la giacca) Niente mà, niente! (Siede alla tv,
l’accende)
MADRE - (guarda lei che si sta sistemando) E tu che ci
fai sul tavolo tutta scumbinata?
SARA - Niente, faceva caldo.
MADRE - E tu non dovevi stare a Latina?
GIUSEPPE - Non ci vado più!
MADRE - Sìte na croce. Nun aggia sapè niente e va bene!
In questo momento poco mi importa. La guerra pare che è
scoppiata, hanno attaccato.
GIUSEPPE - Quando?
MADRE - Sentitève ’o telegiornale! Pe correre ca’ m’aggio perzo ’o servizio.
La Madre esce. I due fratelli si guardano in cagnesco.
GIUSEPPE - Alfrè, a tempo debito ti faccio pagare tutto.
ALFREDO - (si riprende le sue cose) Vattènne, e ringrazie
ca me sì fràte…
GIUSEPPE - O sì no?
SARA - (calma Giuseppe e lo tira via) Andiamo!
ALFREDO - Vattènne ca me faje pena!
Lei si porta via Giuseppe uscendo si scontrano con II Giovane.
ALFREDO - (glaciale) Che sei venuto a fare? A quest’ora
la gente dorme.
II GIOVANE - (lo fissa sconvolto. Non risponde)
ALFREDO - (con rabbia trattenuta) Allora? Che cazzo
vuoi? E parla! E’ successo qualcosa?
II GIOVANE - Non lo so, ma sono preoccupato per Mario.
ALFREDO - (scuro in viso) Ah, Mario. E allora?
II GIOVANE - Non lo trovo. Da ieri che lo cerco. Solitamente mi chiama più volte al giorno.
ALFREDO - Sarà in giro con qualche puttanella.
II GIOVANE - No, me l’avrebbe detto. La moglie dice che
tiene un brutto presentimento.
ALFREDO - Tu sì cchiù strunzo ’e essa! Sì Mario se va in
gìro a fare guai non è colpa mia, ne puoi venire qui a rompermi le palle in piena notte. Domani si vede che fine ha fatto chillu figlio ’e bòna mamma!
II GIOVANE - Stava preoccupato, non si sentiva tranquillo la polizia gli stava troppo addosso.
ALFREDO - (cupo) Lo so.
II GIOVANE - Dove lo possiamo cercare? Bisogna trovarlo!
ALFREDO - E’ inutile. Vattene a casa, fatti una bella dormita e vedi che è come dico io, sta con qualche femmina a
godersela e noi poveri stronzi stiamo qui a preoccuparci per
lui. Va, è come dico io, va.
II GIOVANE - (non convinto si allontana)
ALFREDO - Ah, ma è overo che è scoppiata la guerra.
II GIOVANE - Nun sacce niente. A guerra?
ALFREDO - Buonanotte!
Il Giovane esce. Alfredo siede di spalle al pubblico. Entra
Maria apre le porte dello sgabuzzino accende le luci poi
prende un lumino e lo posa sul tavolo.
ALFREDO - (controllandosi) Non hai sonno?
19
TESTI
MARIA - Le grida mi hanno svegliata.
ALFREDO - Discutavamo, nient’altro.
MARIA - (trascinando il lumino sul tavolo e fissando la piccola fiamma) Tua nipote aspetta da te un fiore, non sei ancora venuto al cimitero, perché?
ALFREDO - Mi manca il tempo per respirare. Una domenica ci andremo insieme.
MARIA - L’hai ripetuto tante di quelle volte che non ti credo più. Eppure la volevi bene.
ALFREDO - Marì, non c’è la faccio!
MARIA - Perché?
ALFREDO - Tu proprio mi chiedi perché? Tu!
MARIA - Forse ti senti in colpa, nun tiene ’o curaggio…
ALFREDO - (reagisce duro) Non tengo nisciuna colpa. Il
loro bersaglio ero io! M’aspettàvene, appena sono uscito
loro se so’ mìse a sparare, in quel momento Anna ha girato l’angolo e vedendomi mi è venuta incontro, ho gridato
ma è stato inutile siamo caduti insieme. Dopo c’è stato ’nu
silenzio ca’ nun ferneve maje. Poi ho perso conoscenza.
Chest’è Maria!
MARIA - Non voglio sapere come è andata, voglio i nomi
di chi ha sparato e pecchè l’hanno fatto.
ALFREDO - Comme si fosse facile!
MARIA - Pecchè l’hanno fatto?
ALFREDO - Ancora con questa storia, che né so’!
MARIA - Tu lo sai.
ALFREDO - So’ sulo ca dinto giro non ero ben visto. Avevano paura che mi allargassi con la mia attività senza la loro
autorizzazione.
MARIA - Me sì fràte e t’aggià credere.
ALFREDO - Marì, è notte e io so stanco. Né parlamme n’ata vòta.
MARIA - Santa Rita mi aiuterà.
ALFREDO - A fare che?
MARIA - A sapere la verità.
ALFREDO - Ha passato stù guaio con te Santa Rita!
MARIA - (rallentando il movimento del lumino) Lei mi capisce, sa cosa significa perdere un figlio. Dopo i pianti disperati ti resta il dolore; che continua a ferirti con i ricordi.
Come spine, spine di rosa. rose spampanàte, spennàte, bruciate, seccate. Chelli spine, chelli spine che sò rasulàte!
ALFREDO - Devi fartene una ragione.
MARIA - (sorride) E come si fa?
ALFREDO - Nun ’o saccio, Marì nun ’o saccio. Ma è così.
MARIA - (continua a trascinare il lumino sul tavolo)
Alfredo lo afferra e lo schiaccia sul tavolo spegnendolo. Buio.
E’ passato del tempo. Attraversano la scena voci di radio
libere, e commentatori di guerra. Urla di donne si alternano, si mischiano come una babele di voci. Sovrapponendosi alle altre. Entra la madre che spinge un carrello tv con
sopra un televisore, lo sistema accanto al balcone lo accende, sovrapponendosi alle altre voci.
MADRE - Maria porta la tovaglia. Quella bianca.
MARIA - (esegue)
MADRE - (la sistemano sul tavolo) Sto’ preparando una
pasta al forno che è una meraviglia.
20
MARIA - (non risponde)
MADRE - Ci ho messo le polpettine, le melenzane.
MARIA - E come mai?
MADRE - Gesù, è domenica. E poi oggi ci siamo tutti.
MARIA - Che bella cosa.
MADRE - Figlia mia mi raccomando. Tu saje ca ’a dumméneca per me è sacra, è l’unico giorno che riesco a vedervi
tutti uniti. Pirciò fallo pe Santa Rita, nun me ’ntussecà!
MARIA - Posso invitare pure Santa Rita?
MADRE - Allora nun siento quanno parlo?…
MARIA - Ormai è una di famiglia, posso?
MADRE - (esasperata) Invita chi voi tu, basta che la finisci con questa storia. Mò aiuteme a priparà ’a tavula!
MARIA - (contenta) Si, sì.
Sceglie un posto dove far sedere la santa e lo indica a gesti alla madre, che scuote la testa e acconsente. Maria esce
a prendere l’occorrente per la tavola. Entra Alfredo veste
elegantemente, si guarda allo specchio, la madre lo guarda con ammirazione. Lui infastidito dalle voci chiude il balcone e tutto si attenua e si allontana.
MADRE - Fa’ cavère!
ALFREDO - Tieni l’aria condizionata, usala!
MADRE - Mi fa venire i dolori alle ossa. E non ci capisco
niente con tutti quei bottoni.
ALFREDO - Questo è il punto. Tieni la casa piena di elettrodomestici e non li usi. La verità è che non ti applichi ,
che ci vuole a leggere le istruzioni, niente!
Intanto Maria sistema la tavola.
MADRE - So’ scritte troppo piccolo. E poi non tengo
tempo.
ALFREDO - Ti sei comprato un altro televisore, e siamo a
cinque!
MADRE - Quando mi sveglio accendo il primo, vado in cucina e accendo l’altro e così non mi perdo, passando da una
camera all’altra quello che sta dicendo il tipo o la tipa.
Alfredo nota un posto in più.
ALFREDO - Oltre noi chi hai invitato?
MADRE - Nessuno! La domenica la devo passare solo con
i miei cari.
ALFREDO - (indica il posto in più)
MADRE - A quello? Tua sorella ha invitato Santa Rita.
ALFREDO - Che stai dicendo mà, che stai dicendo?
MADRE - Alfrè, per favore non cominciamo. Ci sarà un
posto in più vuoto, che fastidio ti dà? Fatemi passare questa domenica in pace, vi prego!
ALFREDO - Tu falla véncere sempe, poi vedrai.
MADRE - E che devo fare? Ci vuole tempo e pazienza.
ALFREDO - Ragionare con te è inutile.
MADRE - Tu non stavi uscendo, e vai bello a mammà và!
Alfredo esce contrariato. Maria torna con due rose in un bicchiere le sistema al posto dove lei prevede che segga Santa Rita.
MADRE - Pure ’e rose! Marì?
TESTI
MARIA - Gli fanno piacere, mà nun me dicere ’e no!
MADRE - Questa domenica, la vedo molto difficile!
Terminano di apparecchiare, Maria va allo sgabuzzino e lo
apre. Accende le luci. La Madre esce.
MARIA - Ho messo un posto a tavola anche per te. Anche
solo per un momento vieni, così parliamo mi dici come sta
Anna, se è già un angioletto. Mi parlerai di quella cosa, non
hai saputo niente? “Con l’animo pieno di letizia rendo le dovute grazie al Crocifisso mio Dio che, facendovi potentissima presso il trono della sua Divina Maestà, mediante i vostri buoni uffici si è benignato concedermi il sospirato favore. Serbando eterna riconoscenza non cesserò mai più di
ringraziarvi ed amare Voi e il nostro Redentore Gesù!”.
Entra la Madre con Giuseppe e moglie.
MADRE - Ho fatto una padella di peperoni, e di melenzane a fungitielle, funghi e due fritture; una di zeppolé e panzaròtte e una di pesce. Un po’ di spasso, *frutta gelato, caffè!
Né che vulite cchiù!
GIUSEPPE - Mammà te sì scurdàto n’ata vota e me fa’ ’o
tiramisù!
MADRE - Overo! Non ho avuto tempo. La prossima volta te lo faccio.
MOGLIE - Potevate chiamarmi vi davo una mano.
MADRE - Fin quando le forze non mi abbandonano lo fac-
cio con piacere.
GIUSEPPE - Chi è l’ospite?
MADRE - Nessuno! Domanda a tua sorella chi ha invitato?
MARIA - (sta sistemando l’altarino)
GIUSEPPE - Marì, chi è il fortunato…
MARIA - Ho invitato Santa Rita!
GIUSEPPE - E quella di sicuro viene. Ce la presenti?
MADRE - Iamme mò nu te ce mettere pure tu. Maria vieni, damme na mano in cucina.
MOGLIE - Vengo io mammà.
GIUSEPPE - Aspetta.
Madre e Maria escono.
MOGLIE - Ancora? Ho capito!
GIUSEPPE - Nun fa capì niente a mammà.
MOGLIE - Forse era meglio che non venivo.
spasso: semi di zucca infornati, noccioline americane e ceci
tostati.
Entra la madre accende il televisore con scene di guerra.
MADRE - (a lei) Ci vieni a dà ’na mano?
SARA - Eccomi. (Esce)
Giuseppe apre il balcone e dalla strada non arriva un rumore. Intanto entra Maria che si ferma vicino all’altarino
di Santa Rita.
MARIA - (al fratello) Giusè?
Una recensione allo spettacolo apparsa sul “Roma” di Napoli l’8 luglio
21
TESTI
GIUSEPPE - Eh?
MARIA - Oggi sacce ’a verità!
GIUSEPPE - Che staje dicènno?
MARIA - Vene sulo pe me. M’addà fa’ ’na rivelazione: Tu vuò sapè chi ha armato ’a mano do killer è overo?- Si
Santa Rita, sì. E’ stato…
GIUSEPPE - Alfredo…è già uscito?
MARIA - Nun veco l’ora ca vene.
GIUSEPPE - T’aggio fatto na domanda?
MADRE - (entrando) Che vuò sapè?
GIUSEPPE - Alfredo…
MADRE - Mò vene. E’ andato a prendere la moglie. Di là
è tutto pronto c’è vulessème assettà? (Esce)
MARIA - Aspettamme a Santa Rita!
SARA - Ecco il pane.
MADRE - Ecco il vino. Alfredo sta salendo l‘ ho visto dalla finestra. Tiro fuori la pasta dal forno.
Giuseppe è teso, la moglie lo fissa.
MADRE - (dalla cucina) Mi date una mano?
SARA - Vengo io…Giuseppe ti prego!
GIUSEPPE - Va, è tutto a posto.
Lei esce. Entra Alfredo con la moglie: una donna antipatica e superbia con un viso
lungo equino. Non saluta nessuno.
ALFREDO - Già stai qua? (A Giuseppe. Accende la tv che
trasmette calcio)
SONIA - Quando si tratta di mangiare è sempre il primo.
GIUSEPPE - Sei appena entrata è già sputi veleno.
SONIA - Eh! Pirciò stàtte accòrto.
ALFREDO - ’A vuò fernì?
SONIA - Nun me scuccià. T’aggio ditto lassème a casa. No!
Mannaggia ’a dummenéca e quanno vene.
MADRE - Ué, state qua. Mò arriva la pasta.
SONIA - A me una forchettata, ca’ me fa male ’a capa.
MADRE - Uh, mi dispiace.
SONIA - Sapissève a me. Chelle è tutto ’o veleno ca tengo
’ncuòrpo.
MADRE - Che significa? E’ successo qualcosa? (Guarda
i figli)
ALFREDO - Sonia sì nun ’a fernisce te struppèo ’e mazzate.
SONIA Era meglio ca me lasciave a casa, accussì nun ’ntussecàveme ’a dummenéca a mammà!
Entra la moglie di Giuseppe.
GIUSEPPE - (al fratello) Ma pecchè l’hè purtàto?
SONIA - (a Sara) Mò stamme a completo.
MADRE - Ma pozze sapè?
SONIA - E meglio ca nun sapite.
ALFREDO - Aggio capito, turnàmme a casa!
SONIA - E che me pigliàte pe nu cane. Pecchè nun pozze
parlà? Mammà addà sape che figlio e che nuora tene vicino. – Chille me frate- E dammèce ’o negozio! Niente preferiscono e se puzzà ’e famme. Intanto pè purtà a chella…
22
GIUSEPPE - Non ti permettere.
ALFREDO - ’A fernisce?
SONIA - (a Sara) Po’ to dico a quattròcchi. Pe purtà a chella a villeggià sé so’ fatto fa’ ’nu prestito a ’nu struzzìno. Pecchè fràtete nun te deve? Già, e sòrde nuòste so’ spuòrche,
pecchè e chill’ato so’ pulite? Ve puzzate ’e famme e vulite
fa’ i maestri in cattedra.
SARA - Ringrazia il cielo che stiamo qua. Sì no…
SONIA - Sì no?
SARA - Con una come te, non vale la pena sporcarsi le mani.
SONIA - E ghiàmmo scìnne, scìnne!
ALFREDO - E mò basta, basta! E che miseria. Nun è ’o mumento pe fa’ sti’ questioni. Mà, mangiamme?
MADRE - (avvilita) Mangiate, mangiate ca a me me passate ’a famma.
Giuseppe si avvicina alla madre e la rincuora. Lei cede a
un sorriso.
SARA - Vado a prendere la pasta.
Sonia sta per sedersi al posto di Santa Rita, è bloccata da Maria.
MARIA - No, questo è il posto di Santa Rita.
SONIA - Maria nun ce sperà, ca chella miez’a nuje nun
vene!
E fa buòno.(Al marito) Sta’ proprio male, quand’è ca purtàte a fa duje elettroshock?
MADRE - Mangia Sonia mangia.
SONIA - Povera Maria me fa pena.
ALFREDO - ’E sentuto a mammà? Mangia.
SONIA - Che me mangio ’o piatto vacante? Ma vuje verite!
Entra Sara con una teglia in acciaio. La posa sul tavolo.
SARA - Mammà facite ’e piàtte.
MADRE - Falle tu.
GIUSEPPE - E ghiammo mammà, tu ’e fa ’e spartènze.
Iamme!
MADRE - (esita)
ALFREDO - Ci vuole un’applauso d’incoraggiamento.
Tutti applaudono. La Madre si alza e comincia.
MADRE - E andiamo passateme e piatti, che sì fredda!
Tutti siedono. C’è un rumore di piatti che passano da una
mano all’altra.
SONIA - Mammà na forchettata appena.
MADRE - Mangiate! Oggi è domenica, i problemi lassammele fore ’a porta.
MARIA - E nun aspettamme a Santa Rita?
MADRE - Si nun è ancora venuta se vère ca tène che fà.
Mangia, a lei ce lo conserviamo.
GIUSEPPE - Mammà questa pasta al forno è superlativa.
Brava!
SONIA - (sottovoce) Quanti vuommèche!
ALFREDO - Un applauso a mammà!
TESTI
Tutti applaudono. Mangiano, qualche secondo di silenzio.
Mentre la luce s’incupisce Maria si alza e guarda davanti
a sé. Gli altri continuano a chiacchierare. Santa Rita si avvicina al tavolo, Maria che gli fa cenno di sedersi.
MARIA - Non ti puoi sedere? Capisco, tieni che fa’. Sono
contenta che sei venuta (Ai presenti) E’ qui.
Tutti continuano a mangiare, a commentare la partita di calcio alla tv.
GIUSEPPE - (ironico) Marì sta’ seduta?
ALFREDO - (distratto) Dincèlle ca io la prego sempre.
SONIA - (falsa) Pur’io! Soprattutto quànno isso stà fore!
MADRE - (mangiando) Sarà un’impressione, ma sento
n’addòre ’e rose!
SARA - (fissando Sonia) Santa Rita aiutaci. Allontana da
noi la cattiveria umana.
SONIA - (feroce contro Sara) Mò c’è vò, faje ’nu poco ’e
pulizia!
ALFREDO - (sarcastico) Vuje verite coccòse? Io nun veco
niente.
SONIA - (fingendo) Sì, si ’a veco pur’io. Sta’ là, là annanze ’a vuje mammà. Me stà facenne nu segno.
MADRE - Che segno?
Tutti guardano il punto che indica Sara e per un momento
ci credono.
SONIA - Nun capisco! Mò stà vicino a te Sara, s’avvicina
a te Giusè! Priparatève ca’ è arrivata l’ora vòsta!
ALFREDO - E ferniscele!
SONIA - Sta’ tranquillo, se ne và, nun ce suppòrta cchiù.
MARIA - Nun è overo niente, niente.
SONIA - E che né saje tu? Tenisse l’esclusìve?
MARIA - No. Santa Rita è venuta sulo pe me.
Gli altri ridono. Gli altri tornano a mangiare a parlare fra
loro, Maria si rivolge a Santa Rita.
MARIA - Allora? Voglio sapè chi è stato. Chi ha armato la
mano di quell’assassino, chi?
Entra come una furia II Giovane sconvolto. S. Rita esce.
II GIOVANE - (sconvolto ad Alfredo) …Starà insieme a
qualche femmina, e noi qui a preoccuparci per lui!…Invece
le accìse come un cane. Sei una bestia! Na bestia!
ALFREDO - (afferra il II Giovane per la gola) Che staje
dicenno? Eh? Che cazzo staje dicenno?
II GIOVANE - (estrae una pistola e la punta contro Alfredo)
Tutti si alzano di scatto dal tavolo.
Che cazzo stò dicenno, eh? Ca l’hè accìso pecchè ’a polizia steve arrivànne a te, pirciò l’hè accìso è overo?
Maria ancora presa dalla visione di Santa Rita grida alla Santa che è andata via.
MARIA - Chi è stato? Santa Rita voglio sapè chi è stato!
II GIOVANE - Domandalo ad Alfredo! Isso sape!
MARIA - Alfredo?
ALFREDO - (al II giovane) Tu sì muòrte.
II GIOVANE - Alfredo nun guarda ’nfacce a nisciùno. Isso,
isso facette Accirere ’na nipote De Visco, sta nipote teneva quàtto anne.
E lloro pe se vendicà hanno accìse a figliète!
Il II Giovane punta la pistola sul petto di Alfredo che è costretto a subire. Poi il Giovane lentamente si allontana.
MARIA - (si avventa contro il fratello ma la Madre cerca
di fermarla) Che fatto Alfrè, che fatto?…Mammà ma che
mostro ha generato? Per cosa Alfrè? Pè cosa?
MADRE - (la sfiora per calmarla)
Maria con uno scatto prende il piatto il bicchiere e si allontana dal tavolo fissando tutti con disprezzo. E uscendo
canta una nenia.
MADRE - (dura) Alfrè, vattènne!
SONIA - Ah! Cheste proprio ’a vuje nun me l’aspettavo.
SARA - Ma state zitta ca maritète è na carogna! (Minacciosa
verso Sonia)
SONIA - Overo? E brava, però te piaciuto assecondarlo,
mettergli ’e ’mmano ’ncuòllo!
SARA - Io?
SONIA - Eh tu! Si chelle ca sì, pirciò nun parlà ca è meglio!
SARA - Maritète me vuleve accattà, e se vuttàto ’ncuòllo
comme n’animale! Approfittando che non c’era nessuno,
mammà steve durmènno m’à sbattuto ’ncòppo a stù tavolo,
che schifo!
SONIA - Marì, ca tenimme n’ata santa e nun ’o sapeveme.
’A verità ca’ sì stato sempe gelosa da vita bella ca me fa’
fa maritème! Te capisco ’a miseria è brutta assaje. Ma pigliàte a n’àto òmmo, nun mettere ’e mmàne ’ncuòllo a cainàtete! E questo che cos’è!
MADRE - Sonia stàtte zitta!
SONIA - Comme?
MADRE - T’aggio ditto zitta! E’ vero quello che dice Sara,
è tutto vero. L’aggio visto io cu chist’uòcchie.
ALFREDO - Mà!
MADRE - Statte zitto, ca’ è meglio! Nun steve durmènno.
SONIA - Alfrè?
ALFREDO - (bruscamente fa sedere Sonia) Mammà?
Intanto dalla televisione arrivano scene di guerra. La madre resta in piedi al centro del tavolo fa cenno prima a Giuseppe e poi ad Alfredo di sedersi.
MADRE - Mangiàmme! Oggi è domenica, e ’a dummènica ’e probleme se lassène fore ’a porta.
Riprendono a mangiare guardando la televisione con sempre più voracità.
Buio.
le foto di Cristiana famiglia sono di FABIO DONATO
23
TESTI
SPARTACO
di Enrico Bagnato
PERSONAGGI:
Spartaco
Moglie di Spartaco
Il loro figlioletto
Caio Licinio Crasso
Un arciere
Esterno della palizzata che recinge l’accampamento degli schiavi
rivoltosi. Spartaco, la moglie, il figlioletto.
SPARTACO - Non avete scelta, unica possibilità di salvezza è nella fuga. Approfittate di questa nebbia che nasconde l’accampamento
ai vigili occhi dell’imponente esercito di Roma che ci accerchia da
presso: vi consentirà di allontanarvi inosservati.
MOGLIE - Preferirei restare e morire tra le tue braccia, Spartaco, se
è destino che i giusti soccombano nella lotta per la libertà; ma a
ogni costo debbo mettere in salvo nostro figlio affinché, da adulto,
si voti allo stesso ideale.
SPARTACO - Piccolo mio, perché tieni al guinzaglio quel cucciolo
di lupo che raccogliemmo da accanto al corpo della madre uccisa
dai pastori? Su, liberalo, ecco il mio coltello, tronca il laccio, e restituiscigli la libertà.
FIGLIO - No, padre, non posso abbandonarlo: è il mio unico compagno di giochi, è come un fratellino.
SPARTACO - Certamente, è un tuo fratello; come tale, ha gli stessi
tuoi diritti, primo quello di vivere libero secondo la natura e la
dignità proprie dei lupi. Tu, sei un cucciolo d’uomo, e dovrai sempre comportarti in modo analogo secondo la natura e la dignità proprie degli uomini.
MADRE - Fa’ come dice tuo padre, non lasciarti sviare da un
sentimento che contrasta con ciò che è giusto.
FIGLIO - Ho capito. So quello che debbo fare. Verserò solo poche
lacrime. Ecco, tronco il legame che ci univa in fraternità e amicizia.
Mio lupetto, va’ libero, conquistati un’esistenza senza costrizioni,
sii sempre padrone di te stesso tra i tuoi simili nel selvaggio mondo
dei boschi. Addio.
SPARTACO - Bene, figliolo, ti sei comportato da uomo. Mia sposa,
quando sarete in Tracia, ti raccomando di non prendere dimora nel
natìo villaggio, là dove i legionari romani ci sequestrarono con altri
compagni per costringerci con la forza a combattere al loro fianco
poiché siamo una razza forte e pugnace; piuttosto cerca un sicuro
rifugio tra i monti, non lontano dal mare, dalle cui vette possiate
spiare l’arrivo delle navi. Su una di esse, se gli dei mi assisteranno,
prima o poi tornerò.
MOGLIE - Farò come dici. Devi tra poco affrontare un impari combattimento, ma io attenderò con fiducia il tuo ritorno: non oso, non
posso pensare che in questo finale scontro tu non sopravviverai. Ti
aspetterò.
SPARTACO - Ora andate, la nebbia si è ancora più infittita, vi
coprirà con un manto che vi renderà invisibili. Addio (abbraccia e
bacia moglie e figlio).
24
ENRICO BAGNATO
Operante a Bari, della sua produzione drammaturgica sono
stati rappresentati con pieno
successo di pubblico e di critica finora i drammi: «La
Basilissa», «La città decollata Otranto 1480», «Celestino V»;
«Gioacchino Murat». Ha scritto fino ad oggi 18 drammi. Con
Schena Editore ha pubblicato,
in quattro volumi: «Melo da
Bari. Cronaca di una rivoluzione » (1996); «Pier delle Vigne»,
«Isabella di Morra», «Marin Faliero», (1999); «Masada», «La
Basilissa», «La città decollata - Otranto 1480», « Passione e
morte dell'Arcivescovo Romero», (1999); «Robespierre»,
«Celestino V», (2002). Con le Edizioni La Vallisa: «Rimbaud» (vincitore del Premio FantianOpera 2003), «Gioacchino Murat» (2008). «Beatrice Cenci », in «La Vallisa» n° 80/
2008; «Il Vangelo di Maria» (Tindari Edizioni, 2009); «Spartaco» inedito; «Re David» in «La Vallisa » n. 84/2009;
«Masaniello» (vincitore del premio SIAD/Calcante 2010) in
corso di pubblicazione su «Ridotto»; il monologo «Poema
Garibaldi» inedito. Su invito dell'Associazione degli Scrittori
Serbi, ha partecipato al 39° e al 44° Belgrade International
Meeting Of Writers, e in Serbia sono stati tradotti e pubblicati
in volume alcuni suoi drammi (Casa Editrice Krovovi, Sremski Karlovci, 2005) È redattore de "La Vallisa" e collabora con
varie riviste letterarie. Suoi testi sono inclusi in numerose
antologie e pubblicati in riviste e quotidiani in Italia e all'estero. Indirizzo e-mail: enricobagnato@ libero.it
Sposa e figlio si allontanano, scompaiono nella nebbia. Spartaco
indugia con lo sguardo nella direzione in cui sono svanitii.
D’improvviso, tra folate di bruma, appare una figura umana che
avanza con passo regolare. Più da vicino si rivela un imponente
uomo d’armi che indossa un elmo con cimiero e una corazza, intorno alle spalle ha un purpureo mantello.
SPARTACO - Un generale romano viene incontro a Spartaco?
CRASSO - Sì: sono Marco Licinio Crasso, il comandante delle
legioni che ti circondano.
SPARTACO - Vuoi, forse, parlamentare?
CRASSO - No, semmai, semplicemente parlarti, giacché mi imbatto
nel capo dei ribelli.
SPARTACO - E’ per me un onore.
CRASSO - Già. Nessuno in Roma approverebbe che ti rivolgessi la
parola da pari a pari.
SPARTACO - Forse che non siamo entrambi dei combattenti?
CRASSO - No. Tu sei soltanto uno schiavo ribelle.
TESTI
SPARTACO - Sono un ex gladiatore che finora ha tenuto in scacco
l’esercito più potente al mondo.
CRASSO - Beh, da militare, riconosco che sei un valoroso e un
eccezionale stratega.
SPARTACO - Non dunque soltanto il capo di una banda di briganti,
di predoni?
CRASSO - Non posso definire altrimenti le forze di cui disponi.
SPARTACO - Sono uomini: coraggiosi, capaci di battersi e morire
per un’idea.
CRASSO - Per un’idea…?
SPARTACO - Sì, per un’idea di libertà e giustizia.
CRASSO - Non riesco a seguirti su questo terreno. Siete soltanto
schiavi, ribelli agli ordinamenti di Roma.
SPARTACO - Consentimi una domanda, da uomo a uomo. E dammi
una risposta da uomo, non da romano. Davvero pensi che i prigionieri di guerra o coloro che sono rapiti da pirati e venduti nei mercati, solo per questo mutano l’umana natura e diventano bestiame?
CRASSO - Gli schiavi sono…schiavi. E le nostre leggi…
SPARTACO - I vostri ordinamenti, codificano un’inesistente disugualianza tra uomini, erigono a principio della vita sociale un’ingiustizia, su cui lo Stato basa la propria potenza e i cittadini il proprio
benessere. Con la forza riducete in condizione servile. Ti sembra
che i servi che si ribellano al giogo siano un bestiame umano recalcitrante, o non piuttosto uomini - uomini, dico, in tutto simili a te che lottano, costi quello che costi, per ristabilire la giustizia e riconquistarsi la libertà?
CRASSO - Poni davvero difficili domande. Io non sono un filosofo,
ma un soldato. La questione per me è semplice. Tu sei un nemico di
Roma. Il mio compito è annientarti. E lo farò, appena il sole diraderà la nebbia.
SPARTACO - Ti aspetterò a piè fermo. Da tre anni non faccio
che sconfiggere consoli e pretori che mi danno la caccia con le
legioni, perfino la stessa Roma ha tremato sentendo avvicinarsi il
passo dei vendicatori. Adesso la partita per noi si è fatta disperata. Siamo in trappola, circondati da un potente esercito. E tra
breve - dicono gli informatori - anche Pompeo unirà alle tue le
sue forze.
CRASSO - E’ vero.
SPARTACO - Così l’illustre proconsole finirà per rubarti la gloria.
CRASSO - Già. Finirà proprio così. Con questa annunciata
ingiustizia.
SPARTACO - Mi dispiace per te. Tuttavia, mi fa piacere che, almeno in piccole cose, come la vanagloria, anche i romani assaporino
un’ingiustizia.
CRASSO - Invece, a me dispiace che, per l’intervento di Pompeo,
subirete conseguenze più spietate dopo la sconfitta.
SPARTACO - Posso chiederti perché, senza scorta, ti sei spinto sin qui?
CRASSO - Oh, è una mia abitudine, alla vigilia di una battaglia,
percorrere da solo i luoghi dove si svolgerà, per dare sfogo al contrasto dei sentimenti - ansia di vincere, incertezza della vittoria, -;
per riflettere sulle ripercussioni di una sconfitta sempre da mettersi
in conto; per valutare il prezzo in vite umane; per meditare sulla
Sabato 29 gennaio 2011, presso l’ECCEZIONE - Cultura e
Spettacolo di Puglia Teatro, in via Indipendenza 75, a Bari,
nuovo appuntamento della sezione “Teatro” per la stagione
artistica patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dalla Regione Puglia, dall’Università e dal Comune di
Bari, con “Spartaco”, novità assoluta di Enrico Bagnato. Il
lavoro è stato interpretato da Lino De Venuto, Floriana Uva,
Giambattista De Luca, Maurizio De Vivo, Giuliano Bizzarro.
transitorietà della gloria, della vita stessa… Così, muovendo i passi
nella nebbia…
SPARTACO - Capisco. Nessuno è più solo del capo di un esercito
alla vigilia di una battaglia. (Improvvisamente, leva lo sguardo al
sommo della palizzata da dove un arciere appostato sta per scoccare una freccia su Crasso) No, arciere, fermati! Non si uccide a tradimento un nemico.
L’arciere depone l’arco.
CRASSO - Grazie. Ti devo la vita.
SPARTACO - Anche noi, schiavi, sappiamo cos’è l’onore.
CRASSO - Addio, Spartaco.
SPARTACO - Addio.
Crasso volge i passi nella direzione da cui è venuto; in breve
scompare inghiottito dalla nebbia. Pausa. Il sole che ascende allo
zenih diviene sempre più caldo e sfolgorante, prosciuga la nebbia,
inonda il cielo e la terra con un acceccante fulgore che nulla più
rende visibile.
D’improvviso si ode un lacerante suono di bùccine, cui segue un
cupo rullare di tamburi e il sordo scalpiccio di uno sterminato
numero di calzari in marcia. Quasi simultaneamente, dall’opposta
direzione, si ode il frastuono di un precipitoso accorrere di una
massa di uomini, un fragore di armi e alte grida di guerra. Risuonano, in crescendo, i rumori di uno scontro: cozzo di armi, grida di
incitamento, urla di rabbia, di dolore; segue il turbinoso galoppo
di una carica di cavalleria. E’ il terribile sonoro di un’asprissima
battaglia.
Pausa.
La luce si affioca, sino a diventare tenebra. Entro un baluginante
chiarore, lentamente emerge una croce di rozzi tronchi su cui è
inchiodato Spartaco.
SPARTACO - Crasso, avevi ragione: per la maggior gloria di
Pomeo, e per crudele monito, seimila crocifissi costeggiano la via
Appia.
Seimila eroi, che Roma definisce ribelli, subiscono un atroce,
infamante supplizio inchiodati lungo i bordi della strada sino
alle porte di Roma. Dunque siamo sconfitti? No, fratelli.
Ricordate?
All’inizio della lotta eravamo in pochi, in breve diventammo mille,
diecimila, centomila. Ininterrottamente per tre anni abbiamo sconfitto le legioni in innumerevoli scontri e minacciato la stessa Roma.
Sapevamo che infine saremmo stati sopraffatti nell’impari lotta. Lo
sapevamo. E con ciò? Noi incarniamo un ideale di libertà e di giustizia: chi mai potrà davvero sconfiggerci? Chi mai potrà distruggere o
cancellare il significato della nostra lotta? No, fratelli, non abbiamo
fallito: la nostra sconfitta, la nostra morte non sono inutili, non chiudono la partita. Legato al nome di Spartaco, al martirio degli schiavi
insorti, un ideale di libertà e di giustizia si radicherà nel mondo, inalterato travalicherà i secoli!
Buio
FINE
25
LIBRI
PAGLIARANI PROMEMORIA
Il racconto di Elio Pagliarani alla figlia Lia è forse
la chiave più giusta per entrare agevolmente nella densità
di queste pagine nelle quali la coscienza dello stile
è tutt’uno con la coscienza civica
C
Mario Lunetta
redo che la prima preoccupazione di tutti quei
temerari che si fanno autobiografi debba essere
quella di non porsi in nessun caso su un gradino più
alto sia della materia dipanata che del pubblico cui
il testo si rivolge. Il proprio narcisismo, che in un
paese come il nostro, sempre portato all’esagerazione, ha toccato nella modernità con due esemplari come D’Annunzio e Malaparte vertici di pacchianeria e di supponenza difficilmente superabili,
dovrebbe esser governato con maggiore attenzione:
per cui, sono convinto che un po’ di sana Terapia
Flaiano potrebbe essere da noi la più indicata per
tutti gli scrittori, non solo per i responsabili di autobiografie più o meno rispettabili. Sarebbe un modo
decisamente intelligente di impartire prima di tutto
a se stessi una lezione elementare di quel quid che
tanto impropriamente continua a chiamarsi democrazia, il cui nòcciolo sta, mi pare, nel rispetto di
regole valide per tutti e nel rifiuto di qualsiasi prevaricazione: dal momento che l’autore già per sua
natura è qualcuno che ha la facoltà di augere al
proprio profilo e al proprio ruolo un tasso più meno
forte di elementi che il fruitore non sempre ha la
possibilità (quindi, il potere) di verificare. Ecco
così che la fiducia che il fruitore dà all’autore
dev’essere almeno pari alla reciproca. Ed ecco perché l’autobiografia, a differenza di opere di altro
genere, dev’essere sempre tenuta dall’autore su una
corda di tensione che non ne deprima la naturalezza.
In ogni buona autobiografia, insomma, il protagonista (condannato comunque a un’incancellabile
ambiguità) non può che essere un eroe involontario.
Elio Pagliarani, che è uno dei vertici della nostra
poesia di secondo Novecento, certe cose le sa benissimo, come stanno a dimostrare non solo la sua opera
ma il suo comportamento, che ha sempre saputo
regolare l’urgenza dei suoi umori romagnoli sul filo
di una giusta distanza autocritica. E ora, in questa sua
assai singolare autobiografia da poco apparsa presso
Marsilio con una ricca prefazione di Walter Pedullà e
una vivace postfazione di Sara Ventroni (Pro-memoria a Liarosa (1979-2009), inventa di coinvolgere
come destinataria privilegiata la figlia, quasi a mettere un’ulteriore sordina a qualche pulsione più immediatamente esposta. Che il poeta realizzi questa sua
26
operazione fatta par délicatesse senza una stilla di
moralismo è da attribuirsi alla lunga pratica di un’intelligenza laica, capace di rispondere anche al possibile ricatto degli affetti con ininterrotte iniezioni di
consapevolezza. Liarosa, detta Lia, è figlia unica di
Elio e di sua moglie Cetta: quindi, un tesoro di eccezionale qualità nei cui confronti – senza condizionamenti – il padre adotta, per così dire, la figura del
testimone che, rinunciando a quella del protagonista,
mette al corrente la figlia della catena degli eventi,
macro o microscopici, che lo hanno portato ad esserne appunto un genitore tanto sui generis. E’ come se
Pagliarani si aspettasse dalla figlia bambina e poi
adolescente domande che magari non arrivano, ma
che stanno comunque per salire alla luce. A lei, dice
fin dalla prima pagina il poeta, “voglio fornire un
corredo di notizie che possano appagare sue curiosità
future, senza che, beninteso, ne risulti alcunché di
esemplare. Intanto, ogni eventuale esemplarità, parlando di me mi parrebbe una forzatura: tanto più che
io, nato sotto il fascismo, mi posi subito, più o meno
consapevolmente, l’ambiziosa meta di essere inesemplare; il che non mi fu difficile, considerato un mio
autentico fondo anarchico di romagnolo, e considerati la non omogeneità, i dislivelli culturali, degli
ambienti educativi, che la mia curiosità, la mia sensibilità, o il caso, mi hanno fatto attraversare”.
Ecco, questa mi pare la chiave più giusta per
entrare agevolmente nella densità di queste pagine
nelle quali la coscienza dello stile è tutt’uno con la
Elio Pagliarani
LIBRI
coscienza civica. La voga del divismo italiota, di cui
dannunzianesimo e fascismo sono stati la fucina più
feconda, e che ha assunto ormai un imprinting trash
di inarrestabile volgarità diffusa, non ha mai contagiato Pagliarani. Non basta esser nato, come lui, in
una famiglia operaia (padre fiaccheraio, madre casalinga), per evitare il contagio. Era piuttosto necessario avere la determinazione di costruirsi una cintura
di difese psicologiche e politiche, prima che letterarie, contro ogni specie di becerume conformistico:
impresa a cui il ragazzo Elio, anche dopo l’incidente
che all’età di due anni lo priva di un occhio, ha atteso
con grande attenzione.
Com’è universalmente noto, il poeta è nato nel
1927 a Viserba, in provincia di Rimini; e nel suo
promemoria il luogo assume colori e si popola di
personaggi, di costumi, di gesti, di violenze politiche
e non, di proverbi e di voci che ci riportano vivido il
ritratto di una provincia italiana che, evidentemente
non contenta di aver dato i natali a un poeta ragguardevole come Pascoli, ha prodotto anche un poeta
grande come Pagliarani, di specie assolutamente
diversa dall’autore di Myricae. E’ un tratto d’Italia
in quegli anni istintivamente orientato a sinistra con
forti venature anarchiche, e Pagliarani racconta,
molto gustosamente: “Il duce poi io proprio non lo
amavo per niente, senza molte motivazioni, così per
dispettosa antipatia; ricordo benissimo che avendo
letto, proprio nelle elementari, in seconda o in terza,
che il duce amava molto le lenticchie, che dovevano
essere un piatto quasi obbligatorio in casa sua, così
io mi sono rifiutato sempre, anzi preciso, per decenni e decenni, di mangiare le lenticchie (che del resto
non usano a Viserba), che invece sono buone (quelle
buone), e adesso le mangio qualche volta perché
Cetta le ama molto, come tutti i romani”. Con la
stessa “serenità”, la stessa equanimità di tono (né
confessione né allestimento di alibi) Pagliarani guarda a certe sue crisi adolescenziali. La lingua è viva
senza eccessi, cordiale senza assoluzioni post hoc;
una lingua al tempo stesso piena di cose e riflessiva,
capace di cambiare passo in modi sommessi, carica
di un ritmo quasi nonchalant che trasforma immediatamente il lettore in interlocutore: “Fino alla
pubertà fui molto religioso e mi facevo scrupolo di
seguire tutti i riti con la maggior convinzione interiore e la miglior forma esteriore possibile. Però ciò che
faceva scattare di più il mio animo, la mia persona,
fino al misticismo (direi che è il termine giusto;
ancora adesso dico che chi non ha mai avuto in vita
sua almeno un’esperienza mistica, è una persona
insopportabilmente piatta) era la trasgressione: il
sentirsi colpevoli, volontari o involontari non fa molta differenza, di trasgressione”.
Ho parlato di ritmo: che in questa prosa è certo
della stessa natura di quello della poesia di Pagliarani, così straordinariamente aspra anche nelle sue
affettività, violenta, perfino cruenta, ma come tenuto a un regime di intensità assai minore, con salti
molto più ovattati e colpi di gong come persi nella
lontananza della memoria. E in questa memoria
trova posto anche una poesia (mai pubblicata) del
non ancora ventenne Pagliarani, ispirata ai falò di
cataste di legno che nei paesi collinari a gara illuminavano il crepuscolo, come in Amarcord di Fellini; versi già segnati da un loro timbro, e certo già
divaricati rispetto al lirismo tardo-ermetico in voga:
“Il fuoco che si accende è come quelli / di San Giuseppe, verso primavera / quando uomini bassi
avviano sui colli / una corale processione in cielo /
di luci, e l’aria trema delle nuove / nascite urgenti e
delle piene morti”.
Fra il 1938 e il ’40 Elio si abbandona a un’orgia
di letture a tutto campo (da Piccolo Lord a Salgari, da
I Miserabili a I fratelli Karamazof a Edgar Wallace).
Degli anni di guerra è la grande amicizia con Giovanna Bemporad, con la quale Elio entra nel continente Leopardi e viene in contatto con Saffo – ma
anche, senza soluzione di continuità, col Novecento
di Cardarelli, Montale, Ungaretti che lei declamava
“con una voce intensissima, profonda e visceralmente inquietante”. Ammirevolmente scevre di qualsiasi
innocentismo familistico sono le pagine che il poeta
dedica all’assassinio di Ruggero Pascoli, padre di
Giovanni e intendente della tenuta La Torre dei Torlonia: un fatto di sangue che vide indiziato un Pagliarani Luigi, poi prosciolto in istruttoria, come ricordano anche le alquanto malevole memorie di Mariù
Pascoli. Poi, la guerra e la corsa verso il baratro.
Liceo scientifico e corsi di mistica fascista. Il 25
luglio 1943. I bombardamenti di Rimini, che distrussero o resero inagibili tre quarti delle case della città
danneggiando anche il Tempio Malatestiano; e –
scrive Pagliarani – “mezz’ora dopo io ero lì, e vidi
qualcuno raccogliere per terra per portarseli a casa
bei frammenti di marmo, di fregi e di festoni” Infine,
la guerra sulla Linea Gotica, la Resistenza, la fine del
conflitto e del fascismo.
Ma c’è anche un’interruzione delle memorie di
Pagliarani che dura una ventina d’anni dopo la stesura della prima parte, “infiorata dalla meraviglia di
mia figlia bambina: duplice o triplice meraviglia: di
lei che scopriva il mondo, di me che scoprivo lei e
con lei infante riscoprivo la mia infanzia “. Nel maggio del ’45 Pagliarani si iscrive alla facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Padova. Amori giovanili,
varia goliardia, prime esperienze in casino. Ma Elio
si appresta ad assumere una fisionomia “metropolitana”. Alla fine del ’45 è a Milano, con un impiego di
traduttore e interprete di inglese all’Italorient; ed è la
genesi della sua grande poesia. Già: “perché proprio
cinquant’anni fa – egli dice – ho iniziato a scrivere
La ragazza Carla”. In due paginette dattiloscritte ne
sintetizza lo sviluppo con l’intenzione di inviarle alla
coppia Zavattini-De Sica come soggetto cinematografico. “Non lo feci prima di tutto per pigrizia, poi
perché non ne avevo l’indirizzo, poi perché non ho
27
LIBRI
mai avuto il coraggio o l’umiltà di rivolgermi da sconosciuto a persone importanti”.
Nel 1954 esce da Schwarz Cronache e altre poesie, perentorio esordio di un poeta davvero nuovo,
nei cui confronti un critico à la page come Enrico
Falqui tiene un atteggiamento guardingo, poi lo
accredita ospitandolo ne La giovane poesia (1956).
E’ una prima rilevante affermazione, ma l’emozione
più forte è per Pagliarani ascoltare da sconosciuto in
una latteria-osteria milanese un gruppo di giovani
che discutevano animatamente di poesia citando il
suo libro, le Cronache appunto: “ebbi una vampata
di gioia e me ne andai subito via, quasi scappando,
quasi fossi un intruso che stava ascoltando faccende
molto private che non lo riguardavano”. Altri amori,
altre amicizie intellettuali. Poi, l’assunzione all’Avanti! e, dopo un po’, il trasferimento alla redazione
romana del giornale, il tutto condito nel racconto di
Pagliarani di aneddoti gustosi e sorprendenti, come
quello – ad es. – del “Paglia” che s’era fitto in capo
di avere un autentico talento vocale mentre in molti
pensavano che fosse incredibilmente stonato: fatto
sta “che io spendevo molti soldi per andare a lezione
di canto perché volevo approdare alla Scala”. Non
meno paradossale è l’episodio del finto duello con
Luigi Pestalozza, sempre a causa delle velleità di
Pagliarani cantante d’opera mancato. E sàpida l’istantanea del giovane Bettino Craxi, “un ragazzone
alto chiacchierone e piuttosto sfottente: entrava in
più o meno sorridente polemica con la maggior parte
dei redattori, specie quelli di sinistra”. Rapporti contraddittori con Fortini, Sereni, Quasimodo. L’invito
di Pasolini a collaborare alla nascitura “Officina”. Il
triste Nobel per la letteratura a Quasimodo, la conoscenza con Barthes e la Achmatova.
Dal 30 novembre del 1960 Pagliarani si stabilisce
a Roma, e di questa seconda esperienza “metropolitana” racconta il pro-memoria. C’è un primo incontro a
Bologna con Pasolini, Leonetti e Roversi redattori di
“Officina”; entra poi nella consuetudine di Elio la
leggendaria trattoria da Cesaretto, di cui sono habitués anche Pasolini, la Betti e la Asti. I primi contatti
con “Nuovi Argomenti”. Balestrini e “il Verri”, con
uno spiacevole incidente che incrina la fiducia di
Pagliarani nella correttezza di Pasolini. Momenti
importanti dell’acclimatazione romana sono l’amicizia con Walter Pedullà e con Luigi Malerba, a casa
del quale Elio (secondo una sua saporita affermazione) si afferma come una luminosa star del poker
capitolino. Nell’affascinante casa al 51/A di via
Margutta il poeta ha abitato dall’agosto del ’67 al
’91. Nel ’68 è critico teatrale di “Paese Sera”: un critico che non ha mai celato i suoi umori e le sue preferenze, ma regolandoli costantemente in un solco di
rigorosa coerenza materialistica: un tratto non certo
secondario nell’intenso percorso intellettuale dello
scrittore; col quale poi fanno corpo sia i libri destinati
alla messa in scena teatrale che - in vivo – le straordinarie letture dei suoi testi, in cui la voce si fa davvero
28
corpo e lingua, prima ancora che medium tra i versi e
gli ascoltatori.
Liarosa (Rosalia per l’anagrafe), che bruscamente decide di semplificare il proprio nome in
Lia, è nata nella casa di via Margutta. Vennero, a
partire dal ’61, le estati a Procida, dapprima su
invito di Toti Scialoja e di Gabriella Drudi, in
seguito a pensione con moglie e figlia: “Mi pare
proprio – chiosa Pagliarani con tènera nostalgia –
che le estati di Procida, con la Lia bambina e con
Cetta, rappresentino gli anni migliori, anzi diciamo
spudoratamente i più felici del mio vivere”. Tra
fine ’68 e inizio ’69 Elio è a Cuba con un esaltato
Giangiacomo Feltrinelli. Ecco poi la nascita delle
Brigate Rosse, ecco l’assassinio di Aldo Moro,
ecco in seguito la rete non di rado spiacevolmente
stretta con alcuni intellettuali di grido. Bella e viva
è la rievocazione dicasi pure “spregiudicata” del
Carmelo Bene dei primordi (quello delle pisciate
sul pubblico), e affettuosa la gratitudine per Walter
Pedullà, da tempi non sospetti gran sostenitore della poesia “plebea” di Pagliarani. Addirittura toccante la rievocazione di come un’ammirazione sincera possa nascere anche da una stroncatura, come
accadde tra Elio e Eduardo De Filippo. A vario
titolo incisive le presenze di Marcel Duchamp, di
Jean-Paul Sartre, di Montale, di Moravia, di Ungaretti carico di contagiosi entusiasmi, e di altri
numerosi, letterati e artisti, da Maccari a Baruchello a Novelli a Perilli. Acre l’aneddoto che si svolse
da Cesaretto dopo la rottura fra Flaiano e Fellini.
Infine, la Feltrinelli di via del Babuino, con il
responsabile princeps Carlo Conticelli, figura davvero indimenticabile.
Erano gli anni Sessanta: quelli che passano nella
vulgata come i “mitici” anni Sessanta di una Roma
scomparsa e irripetibile, in cui il mondo appariva a
portata di mano e tutto sembrava possibile nel segno
di un’infinita libertà. Si è poi visto com’è andata a
finire. Ma l’ultima frase, il verso che chiude come
un’apertura di altro futuro il promemoria di Pagliarani, dice splendidamente: “Cetta, aspetta che non ho
finito”.
Elio Pagliarani
in una foto
giovanile
LIBRI
SUL LIBRO DI GIUSEPPE BENELLI:
IL LINGUAGGIO DEL TEATRO
ITALIANO CONTEMPORANEO
A
Mario Prosperi
Mario Prosperi
con le maschere
da lui usate
in due commedie
di Menandro
firma di Giuseppe Benelli, noto studioso di
filosofia del linguaggio, è uscito per i tipi di
Barbès Editore un libro denso e tuttavia sintetico e
agile con il titolo Il linguaggio del teatro italiano
contemporaneo. L’ordinamento diacronico della
materia (da Goldoni a Emma Dante) non deve trarre in inganno: non si tratta di un excursus, di una
“sistemazione” nel tempo di opere drammaturgiche, bensì di una riproposizione in contesti diversi
di alcuni problemi-chiave, o problemi di struttura:
la maschera e il volto, la lingua e il dialetto, l’individuo e la società.
Nei termini classici di De Saussure l’autore
pone la sua attenzione al primato della parole,
ovvero in questo caso del parlato che si incarna sul
palcoscenico consegnandosi momento per momento ad una ricezione unica, irripetibile: un parlato di
cui “l’originale non esiste”. Così lo stesso autore si
schermisce dalle domande del lettore che si attenda
di trovare capitoli su Eduardo De Filippo, Diego
Fabbri, Giovanni Testori, fino magari (se autore di
teatro) all’opera propria.
Trova invece – il lettore – ordinate per gruppi
omogenei, in ordine di tempo, le principali proposte di linguaggio in termini di scrittura scenica e
stile performatico, quali un regista (Strehler), un
29
LIBRI
poeta-performer (Bene, Scaldati), un “narratore”
(Paolini), un “improvvisatore” (Dario Fo) possono
offrire nel contatto diretto col pubblico, in una alterità di fatto da un “testo” immobilizzato come
deposito culturale (anche se scritto da loro stessi).
Certo, la critica del linguaggio in questa prospettiva si sgancia dagli obblighi della critica letteraria e affronta la difficile “esegesi ermeneutica” di
segni effimeri e cangianti, di modalità dinamiche,
per cui – con apparente paradosso – sono parole il
grammelot di Dario Fo o il dialetto ermetico di
Scaldati, e non i limpidi contrappunti dialogici di
un testo cechoviano.
Poiché in un capitoletto sui linguaggi postmoderni compare a sorpresa il sottoscritto e poiché il
pubblico di Ridotto conosce la mia firma, chiarirò
al riguardo alcune cose. L’uso delle maschere,
innanzi tutto, che deve avere attratto il discorso di
Benelli, non è dovuto a un’esigenza autorale contemporanea, ma è stata un’applicazione filologica
ai testi di Menandro che ho tradotto per commissione dell’Istituto del Dramma Antico. Un insigne
archeologo, Luigi Bernabò Brea, aveva trovato
modellini fittili di maschere della Commedia
Nuova in una necropoli di Lipari e aveva ricostruito la morfologia dei tipi di questa commedia
confrontando i volti di questi reperti con le succinte descrizioni del Catalogo di Polluce. E tuttavia Benelli, parlando di questa mia opera filologica sullo stesso piano della mia produzione di autore, ha spiazzato anche me. In effetti ho comunicato mediante questi “segni” con lo spettatore che
avevo davanti e i segni hanno prodotto un senso
contemporaneo che si stacca dal sapere depositato
in proposito. Dunque parole.
Tra i miei titoli contemporanei, Benelli ha percepito l’estraneità di uno di essi (Biografie non vissute) al genere grottesco dei “cattivi maestri” (anni
80-90). Ed ha ragione. Si tratta di una produzione
molto anteriore (anni ’60) di cui fanno parte anche
L’inesperienza d’amore e Felicitas e che vorrei
proporre in volume sotto il titolo “Teatro Intimo”
(ma questo a Benelli non interessa certo).
Dal saggio di Giuseppe Benelli insomma si
resta spiazzati in sede di storia del teatro: si cammina a fianco dell’autore, man mano che si procede
30
nella lettura, e ci si ferma a ricordare con lui gli
spettacoli su cui abilmente guida la nostra attenzione. Il giudizio estetico non discende “di necessità”
dalla disamina compiuta da Benelli sui segni, ma in
alcuni punti si manifesta in maniera così trasparente come tale che non possiamo non vedere come in
quei punti ermeneusis e giudizio estetico convergano in un consenso esplicito del critico al suo oggetto. Questo accade in particolar modo, nel capitolo
sul dialetto, a proposito di Franco Scaldati.
Questo ancora mi spiazza e mi spingerà ad
approfondire. Ho visto spettacoli di Scaldati e non
ne ho percepito gran che, anche per l’enigma della
lingua, misteriosa formazione con radici nei depositi più arcaici e tuttavia spine dell’eloquio più triviale e locale. Ma parlando di Scaldati lo stile del
saggio di Benelli si innalza, fino a fare del suo teatro un modello. Il conduttore della presentazione
del libro – giovedì 16 giugno alla Sala Santa Marta
del Collegio Romano, ovvero Gerardo Guccini ribadiva con determinazione la valutazione estetica
nei confronti di Scaldati. L’iniziativa di Benelli
appariva così non un azzardo – se ne diceva convinta anche, nella stessa presentazione, Laura Curino – né era senza conseguenza essendo il saggio
un’autorevole consulenza per l’Osservatorio dello
Spettacolo presso il Ministero: il teatro di Scaldati
è mostrato in tutta la sua specificità di modello: c’è
un laboratorio, con una tradizione in un quartiere al
centro di Palermo, c’è una scelta di poesia con
estensioni e complementi orali, grammelotici, glottolalici, degli attori e dello stesso affabulatore che
completano la poesia con la virtù dei segni performatici.
Ai lettori di questa rivista raccomandiamo di
prestare la massima attenzione alle analisi, alle
scelte e alle motivazioni dell’autore di questo libro:
faticheranno a farlo, sentiranno stridere i suoi giudizi con quelli che emergono dall’esperienza di
ognuno di loro, ma è necessario accorgersi che si
tratta di una coerente individuazione di ciò che è
“innovazione” e che in questo è molto lucido. Detto questo, va aggiunto che anche se, come autori,
non fossero in grado di produrre segni meritevoli di
esegesi così raffinate, non si facciano scoraggiare:
un buon copione di teatro è una buona cosa.
A M I C I D E L T E AT R O
Fra le Compagnie del Festival sono state selezionate le SEI FINALISTE
Teatro Armathan - Verona
LA NONNA di Roberto Cossa, regia di Marco Cantieri
Teatro Giovani - Lucca
NOVE MELE PER EVA di G. Arout da A. Cechov, regia di Anna Fanucchi
Compagnia dell'Eclissi - Salerno
IL PIACERE DELL'ONESTA' di Luigi Pirandello, regia di Marcello Andria
Estravagario Teatro - Verona
INGANNO IN GONNA di Ken Ludwig - regia di Estravagario Teatro
Compagnia "I cattivi di cuore" - Imperia
FROM MEDEA di Grazia Verasani, regia di Gino Brusco
Compagnia "Al Castello" - Foligno
LA PULCE NELL'ORECCHIO di Georges Feydeau, regia di Claudio Pesaresi
Compagnia "Specchio revescio" - Roma
UN LUNGO ANNO, scritto e diretto da Claudio Morici
SPETTACOLO PER LE CELEBRAZIONI DEL 150° DELL'UNITA' D'ITALIA
Teatro del sorriso - Ancona
IN NOME DEL PAPA RE, di Luigi Magni, adattamento teatrale di Antonello Avallone
31
PREMI
BANDO
PREMIO CALCANTE XIII EDIZIONE
1) La SIAD – Società Italiana Autori Drammatici Indice la
XIII Edizione del premio Teatrale “Calcante” per un testo
teatrale inedito a tema libero.
Un Premio Speciale “Claudia Poggiani” verrà assegnato a
quel testo teatrale incentrato su di una figura femminile
che, se non vincitore del Premio “Calcante”, dalla Giuria
venga comunque considerato di particolare interesse drammaturgico.
2) Il Premio “Calcante” consiste in 2.000.00 € e nella pubblicazione sulla rivista RIDOTTO o nella COLLANA INEDITI della SIAD.
Il premio “Claudia Poggiani” consiste in una Targa e nella
eventuale pubblicazione sulla rivista RIDOTTO o nella
COLLANA INEDITI della SIAD.
3) La SIAD si impegna inoltre a diffondere i testi premiati tra
le compagnie professionistiche ed amatoriali attraverso l’invio della pubblicazione.
4) I testi, chiaramente dattiloscritti, debbono pervenire in numero di 8 esemplari – per raccomandata alla Segreteria del Premio SIAD/CALCANTE, c/o SIAE, viale della Letteratura
30, 00144 Roma tel. 06/59902692.
5) Le opere dovranno pervenire alla Segreteria entro il 30
novembre 2011.
6) L’autore può scegliere se mettere il suo nome sul copione o
restare anonimo fino al momento dell’ eventuale premiazione.
Se l’autore sceglie l’anonimato, deve mettere sul frontespizio il titolo del lavoro, mentre il suo nome ed il suo recapito
vanno contenuti in una busta sigillata, sulla facciata della
quale figuri il titolo del lavoro da spedire insieme ai copioni.
7) La Giuria è composta dai membri del Consiglio Direttivo
della SIAD – Maricla Boggio, Fortunato Calvino, Angelo
Longoni, Mario Lunetta, Stefania Porrino, Mario Prosperi,
Ubaldo Soddu – segretaria del Premio è Marina Raffanini,
tel. 06.59902692; fax 0659902693
8) La partecipazione al premio vincola gli autori alla completa
accettazione del Regolamento.
PREMIO SIAD – 2011 PER UNA TESI DI LAUREA
SULLA DRAMMATURGIA ITALIANA CONTEMPORANEA
BANDO
LA SIAD (Società Italiana Autori Drammatici) bandisce un
premio per tesi di laurea discusse negli anni accademici 20082009-2010 che hanno analizzato l’opera di uno o più drammaturghi, operanti dalla seconda metà del Novecento, o tematiche
generali riguardanti la drammaturgia italiana contemporanea.
I partecipanti devono aver conseguito la laurea presso i Corsi
di Studio in Lettere e Dams, di uno degli Atenei italiani o della
UE (nel secondo caso le tesi pervenute devono essere di lingua
italiana).
Il premio consiste in una somma di 1.000.00 € e nella pubblicazione sulla rivista “Ridotto” di una breve sintesi del lavoro a
cura dello stesso vincitore; la commissione si riserva di segnalare altre tesi meritevoli di menzione.
I partecipanti devono inviare n° 4 copie della loro tesi,
entro il 30 novembre 2011 al seguente indirizzo SIAD, c/o
SIAE, viale della Letteratura, 30, 00144 Roma (Fax 06
59902693), unitamente a copia di un certificato del diploma
di laurea e fotocopia diun documento d’identità, recapito,
numero telefonico. La Giuria si riserva di estendere il Premio a ricerche sviluppate nell’ambito delle problematiche
teatrali.
La Giuria è composta dai membri del Consiglio Direttivo della
SIAD – Maricla Boggio, Fortunato Calvino, Angelo Longoni,
Mario Lunetta, Stefania Porrino, Mario Prosperi, Ubaldo Soddu – segretaria del Premio è Marina Raffanini.
Luogo e data della premiazione verranno comunicati agli interessati e resi noti tramite gli organi di stampa.
PREMIO FERSEN 2012 alla drammaturgia contemporanea
VIII edizione
Il Premio consiste nella pubblicazione del/dei testi prescelti dalla giuria in un volume della collana Percorsi dal titolo: Il Premio Fersen, VIII edizione. Sono previste due sezioni: Sez. 1Opera drammaturgica Sez. 2- Monologo. Il testo, inedito,
dovrà essere inviato in 6 copie chiaramente dattiloscritte,
solo pinzate e numerate, con accluso il nome dell’autore e
una sua sintetica nota biografica (max 10 righe). Va compilata la scheda di partecipazione con l’accettazione del regolamento firmata dall’autore. Scheda e regolamento sono scaricabili dal sito: www.editoriaespettacolo.it
I testi dovranno pervenire in 6 copie entro il 15 marzo 2012 a Editoria & Spettacolo, via della Ponzianina 65 – 06049 Spoleto
(PG), tel. 0743.671041, fax 0743.671048, e-mail
[email protected], con allegata la scheda di partecipazione compilata e firmata dall’autore. La giuria del Premio, presieduta
da. Andrea Bisicchia, è composta da: Fabrizio Caleffi, Anna Ceravolo, Corrado D’Elia, Ombretta De Biase, Maximilian La Monica.
La Premiazione avverrà entro il 30 giugno 2011 presso il Teatro
LIBERO, in via Savona 10, Milano. Durante la cerimonia potrà
essere prevista una lettura scenica dell’opera prima classificata.
Il Premio FERSEN indice inoltre la prima edizione del Premio
Fersen alla regia rivolto ad autori, registi, attori e/o compagnie
32
che propongano l’allestimento di uno dei testi vincitori delle
passate sette edizioni del Premio e pubblicati dalla casa editrice Editoria & Spettacolo nei relativi volumi antologici. Questi
volumi sono reperibili nelle librerie oppure possono essere
richiesti direttamente alla casa editrice Editoria & Spettacolo
(www.editoriaespettacolo.it).
Il premio consiste in una replica presso il Teatro LIBERO, in
via Savona 10, Milano, del/degli spettacoli (max. 3) prescelti dalla giuria. La replica andrà in scena durante il Festival teatrale:
Faber Furiosus Fast Festival che si terrà, dal 1 al 22 Aprile 2012
presso il Teatro LIBERO, in via Savona 10, 20123 Milano
(www.teatrolibero.it). Una recensione dello spettacolo sarà pubblicata nel volume antologico successivo del Premio FERSEN.
I soggetti interessati dovranno inviare la domanda di partecipazione entro e non oltre il 31 dicembre 2011, all’attenzione di
Ombretta De Biase, via Cesare da Sesto 22, 20123 Milano.
La domanda di partecipazione dovrà contenere: 1) il nome e
un sintetico curriculum dei proponenti, 2) il titolo del testo prescelto, 3) il consenso scritto dell’autore, 4) il piano di regia, 5) il
cast artistico e, in via facoltativa, significativi esempi di materiale illustrativo dell’attività teatrale svolta (show-reel, foto di scena, ecc). Per informazioni: [email protected] o tel.
347.4601295