Leggi le storie delle persone che aiutiamo

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Leggi le storie delle persone che aiutiamo
Uno dei poliambulatori accanto ai quali verranno costruite le Case della speranza
Casa Ninna Mamma – Un tetto per nascere
Le persone che aiuteremo
Amelia
Amelia è una donna di 65 anni, che ha trascorso gran parte della sua esistenza a prendersi cura dei
familiari. Ha accudito gli uomini della sua vita, i suoi cinque figli ed ora i sei piccoli nipoti.
Quattro figli sono morti di AIDS e i suoi nipoti sono rimasti orfani. L’unica figlia sopravvissuta vive
con la famiglia in Sud Africa. Così Amelia si è ritrovata sola, sola a doversi occupare di una piccola
tribù.
Non ha lavoro, non ha soldi, non ha la forza per coltivare l’orto, non ha cibo da dare ai suoi nipoti.
Ogni giorno che passa si sente sempre più debole, inadeguata e cresce la preoccupazione per il
futuro.
Amelia sa di essere ormai anziana e di non essere in grado di mantenere tutti i nipoti. Sa che i suoi
piccoli hanno fame e che avrebbero bisogno di essere nutriti in modo adeguato per poter andare a
scuola e riuscire a concentrarsi. Vede ogni giorno i suoi nipoti perdere peso e al più piccolo
cominciano a schiarirsi i capelli.
Un giorno Amelia incontra a Manjacaze Suor Isabel e le confida le sue preoccupazioni, i dubbi, le
inquietudini, l’ansia per quel piccolo nipote che sembra non crescere mai. Suor Isabel, con il suo
fare accogliente, la rassicura e la invita a visitare il Centro Nutrizionale della Congregazione.
Inizialmente Amelia non è convinta anche perché, per accompagnare il nipote più piccolo, avrebbe
dovuto lasciare tutti gli altri a casa da soli, senza custodia. Con il passare dei giorni le perplessità
scompaiono. Amelia si rende conto che in quel Centro nessuno l’avrebbe giudicata e di quanto
amore, tolleranza, e comprensione avrebbero ricevuto tutti i suoi nipoti, una volta accolti.
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Da quel giorno è cominciata la seconda vita di Amelia, una donna che si credeva ormai inutile ma
che in realtà ha avuto il coraggio di aiutare la sua famiglia. All’interno del Centro non solo è
riuscita a salvare la vita al più piccolo dei suoi nipoti, sottoponendolo ad un programma
nutrizionale, ma è riuscita a dare a tutti loro un nido in cui crescere e a regalare ai tanti bambini
che passano per quel luogo il sorriso saggio di una nonna.
Cremilda
Cremilda è una giovane donna di 30 anni al 9° mese di gravidanza, incontrata lungo la strada che
porta alla Maternità di Chissano.
I nostri sguardi si incrociano e questo mi permette di vedere nei suoi occhi un'ombra... scurissima.
Comincio a camminare al suo fianco e ad ascoltare i suoi lunghi silenzi. Accompagno lei attraverso
la sua vita, proprio lei che mi ha permesso di poter scartare il suo mondo, la sua esistenza... come
se fosse un pacchetto.
Dentro però non vi ho trovato la gioia e la spensieratezza di una giovane mamma, non il rispetto e
l'amore che un uomo dovrebbe riuscire a dare alla propria compagna, non il senso di protezione
che una donna dovrebbe poter provare e soprattutto non vi ho trovato la voglia di vivere che una
ragazza dovrebbe sentire.
Cremilda è una giovane cresciuta troppo in fretta, che tiene per mano la sua piccolina dagli occhi
enormi e dalla pancia gonfia e che protegge nel suo ventre una nuova creatura.
Cremilda sa di non avere niente da poter offrire ai suoi figli, sa di non aver vissuto a pieno la sua
vita. Non sa leggere, non sa scrivere, ha scelto un uomo che non sa prendersi cura di loro.
Ma qualcosa Cremilda la sa fare molto bene: camminare. Ogni mattino da 20 giorni percorre quasi
tre chilometri a piedi, lasciandosi alle spalle la Maternità di Chissano per rientrare a casa in mezzo
alla savana. Va a controllare che la sua piccola stia bene. La lava, la pettina, le prepara quel poco
che ha da mangiare, pulisce casa e poi, prima che cali il sole, ritorna alla Maternità, in quella
piccola casa di caniço e chapa che tutti chiamano Casa Mae Espera.
Cremilda, come altre mamme, vede in quella piccola stanzetta, fatta di materiali precari, da
condividere con molte altre donne, un'opportunità. Quella casa le permette di aspettare il
momento del parto in tranquillità.
All'inizio del percorso Cremilda mi sembrava una sprovveduta, ma erano i miei occhi di occidentale
che me la facevano vedere così. Un passo dopo l'altro, accompagnando la sua lentezza e i suoi
silenzi, il suo sguardo timido e intimorito ho
scoperto una donna forte e determinata che
ogni giorno sceglie coscientemente di
proteggere il piccolo che porta nel ventre dalle
complicazioni che possono derivare da un parto
tradizionale. Ho scoperto una giovane che ogni
giorno sceglie razionalmente il parto
ospedaliero e di poter essere curata e protetta
dal sistema sanitario.
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Quella minuscola casa Mae Espera rappresenta per Cremilda la possibilità, forse per la prima volta
nella sua vita, di scegliere per se stessa.
Juventina
“Mamma finalmente manca poco, siamo quasi arrivate a Chongoene…mi fa male la schiena, le
gambe sono gonfie, pesanti…sono stanca…”
“Non ti preoccupare Juventina fra poco arriveremo alla Maternità e potrai stenderti sul letto della
Casa Mae Espera”.
Immagino siano queste le ultime battute che si sono scambiate Juventina e sua madre prima di
arrivare a Chongoene e vedere le condizioni della casa Mae Espera che avrebbe dovuto accoglierle
per il prossimo mese.
Quello che le aspettava erano letti pieni di ruggine, pareti che si stanno sgretolando, niente
stoviglie per cucinare, buchi nel tetto…
Quando ho conosciuto Juventina se ne stava seduta con quel pancione gigante, le gambe stese,
immobile…incredula.
Le prime parole che mi ha detto sono state: “Ma io qui non posso rimanere…ho fatto 30 chilometri
per riuscire ad arrivare qui alla Casa Mae Espera, mi avevano detto che era un posto accogliente,
sicuro, in cui avrei potuto aspettare tranquilla e serena…Ho lasciato la mia casa, i miei bambini per
venire qui, ho speso i miei risparmi…e adesso?”
Non scorderò mai le sue parole e soprattutto non riuscirò a dimenticare facilmente la sua
incredulità ed il suo sdegno.
Juventina è giovane, ha 23 anni, ma ha le idee chiare su quelli che sono i suoi diritti di donna, di
madre e di cittadina mozambicana e si lamenta dell’inadeguatezza del sistema sanitario.
Juventina è abituata a lottare. Lotta da quando, a 17 anni, ha messo al mondo il primo dei due figli
e da quando ha deciso di sposare un uomo che fa il minatore in Sud Africa e che torna in
Mozambico soltanto per Natale.
Juventina ogni giorno si sveglia ed è sola con i
suoi figli. Vive lontano dai genitori ed è l’unica
responsabile della sua famiglia per undici mesi
l’anno.
Juventina è dura, si è indurita perché da
sempre è il capo famiglia e perché da molto
tempo ormai deve fare i conti con l’AIDS,
probabilmente trasmessagli dal marito. Sta
assumendo la Terapia Anti Retrovirale ed è
consapevole di quanto sia importante
continuare, sa che deve curarsi per permettere
ai suoi figli di crescere con la madre presente.
Juventina sa quanto è importante per lei e per
la sua creatura partorire in ospedale e
sottoporre il bambino alla profilassi della
trasmissione verticale. É per questo che ha
percorso quella lunga distanza con l’obiettivo
di arrivare a Chongoene e sottoporsi alle cure
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ospedaliere. Trovarsi di fronte ad una situazione di tale precarietà l’ha fatta cadere nello
sgomento. Si è sentita più sola di quanto non sia realmente; non si è sentita accudita. Ha però la
fortuna di avere dei genitori ancora vivi che cercano di aiutarla. Il padre è rimasto ad occuparsi dei
suoi bambini e la madre ha deciso di intraprendere con la figlia quel lungo viaggio che la renderà
madre ancora una volta.
“Cosa ti aspettavi di trovare qui a Chongoene?” le chiedo e Juventina mi risponde “una Casa Mae
Espera in condizioni dignitose, è giusto”…Si è davvero giusto.
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