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Lo Spazio
Guardo la punta delle scarpe nella terra umida , sento le foglie
frantumarsi. L’aria già pungente invade la gola e gli occhi diventano
sottili per difendersi dal venticello freddo che preannuncia un’altra
stagione. Il fiume è increspato ed il cielo terso lo sfuma di colori,
dall’azzurro al verde. Amo quel percorso da sempre. Lo amo per la sua
bellezza, per il silenzio e le voci morbide che si aprono dalla quiete in cui
affonda. Come fiori che sbocciano dallo sconosciuto microrganismo
che li contiene così nel silenzio s’alza la voce dei passi meditabondi, le
foglie che si staccano, le barche che ciondolano lente.
Riemergo da quell’attimo d’incroci senza tempo, come da un mare
profondo che m’ha appena svelato i propri misteri ed i suoi tesori.
Ombre e luci mi attraversano. Riconosco l’ incanto del paesaggio e la
materializzazione, precisa e netta, della solitudine nel cammino, la gioia
della percezione della vita e quell’eterna e perenne piccola morte che
percorre ogni giorno le cellule del nostro corpo. Guardo le punte delle
scarpe che vanno e l’acqua che scorre. Esploro il cambiamento della
terra che passa sotto i miei piedi…foglie sassolini, terra scura ed umida,
piccole zone verdi. Mi circondano rami semispogli…in un attimo
passerà l’inverno e la vita sarà più prepotente della morte.
La marcia ritmata dai pensieri che corrono, mi porterà al luogo segreto
della Città del Sogno. Proseguono i miei passi l’uno dietro l’altro, ora in
bilico sulla sponda del fiume. E’ chiaro che la concentrazione deve
essere al massimo: un piede in fallo e si scivola nell’acqua gelida. La
bellezza la ritroverò dopo la fatica, dentro quel nascondiglio che si cela
agli occhi dei più. M’appare chiaro il senso. Basta guardare in ogni
gesto, in ogni nostro, seppur minimo, tragitto e potremo leggere sempre
l’indicazione del progetto che può accompagnare la nostra esistenza.
Se solo restiamo attenti all’ascolto di noi, del corpo che portiamo, spesso
dimentichi del suo valore, del respiro che ci abbandona ed a noi ritorna
liberandoci e dilatandoci. In qualunque istante della giornata, con la
luce o il buio, potremo cogliere il disegno che ci viene consegnato e che
costantemente rinneghiamo.
Presi ed intrappolati dai devastanti miraggi imposti da un falso sistema,
non riusciamo a trascendere gli abissi delle banalità, della superficialità
e degli specchi in cui vogliamo rifletterci per godere di costruzioni fittizie
e pretenziose. Oggi è più che mai vero che il viaggio, l’andare, lontano o
vicino che sia, dalle vette del Grand Canyon alle cascate del Niagara,
dalle risaie piemontesi alle sponde del Ticino, è similitudine di
conoscenza e memoria di una meta a cui siamo destinati.
Se lo splendore del pianeta man mano si allontana, forse è perché
abbiamo tradito armonia e bellezza.
Appoggio il piede su di una piccola piattaforma ed ormai salda alzo lo
sguardo. Sulla panchina di pietra, al margine estremo della sponda,
intravedo una figura seduta , il capo chino fisso verso l’acqua , le mani
incrociate ed appoggiate sulle gambe, leggermente spostate in avanti.
Mi avvicino di poco, senza far rumore…un giovane uomo, con i capelli
lunghi lasciati liberi, raccolto in un cappotto nero, una sciarpa nera ed
occhiali scuri…sembra arrivi da lontano. Ha qualcosa dentro la sua
postura, nei suoi tratti, d’antico e regale. Ho timore d’interrompere quel
profondo legame tra i suoi pensieri, la sua anima, il cielo, la luce e
l’acqua. Eppure ormai sono lì. Ad un tratto lo vedo girarsi sorridendo
gentile, per nulla sorpreso, come in attesa.
-“ Ciao, posso sedermi? “
Mi fa un gesto di accoglienza spostandosi da una parte ed allargando il
braccio per dirmi : “ Siedi pure”.
Ci diciamo i nostri nomi. Toglie gli occhiali scuri per il tempo di un
saluto. Un viso antico, giovane ma segnato, indios nello sguardo
indefinito, occhi persi in una coscienza inconscia di memorie non
ancora riemerse. M’imbarazza e mi emoziona. Penso: non è un caso. Ha
una bella voce profonda.
Restiamo immobili sulla panchina, mentre il sole velato ci lascia ,
incuranti del freddo che ci paralizza, lasciando andare la voce che
raccoglie ricordi, sogni, incubi e li restituisce con naturalezza all’altro,
all’aria, allo sciacquio delle piccole onde contro le barche dondolanti, al
vento. Nella magia di quest’incontro casuale, comincio a delineare la
strada che oggi mi fa riconoscere le strategie delle grandi energie che ci
circondano.
Mi racconta delle sue avventure da ragazzo, mi dice come ama
inerpicarsi laddove è impossibile per altri. Simile ad uno scoiattolo sa
arrampicarsi trai i rami di un albero. La solitudine scompare di colpo e
mi diverto ad ascoltare le mille avventure di quest’anima misteriosa,
ritrovata su una panchina mai condivisa.
-“mi piacerebbe vederti all’opera …” gli dico ridendo
-“ se vuoi…”
Si alza e m’invita a seguirlo. Incredibile. Mi chiedo dove sono e con chi
sto parlando. Comunque lo seguo.
In fondo alla piattaforma che sporge sul fiume c’è un ontano nero,
secolare che arriva ad un terrapieno, a sostegno di una collinetta, irta di
rocce e strapiombi. Improvvisamente toglie il cappotto e me lo lascia da
custodire. Lo guardo. Lo seguo. Ed eccolo già sparire tra i rami più
robusti. Resto affascinata dall’agilità e la velocità. E’ sulla collinetta e
cammina tra le parti più scoscese con disinvoltura. Scompare.
Rimango lì, il suo cappotto da custodire a testimonianza di ciò che
avviene. In attesa di vederlo riapparire, lo sguardo resta fisso sull’albero
che lo ha inghiottito. Non a caso l’ontano nero è considerato l’albero
della vita dopo la morte, cantato da Omero nell’Odissea come albero
della resurrezione. Ripenso intanto ad una lettura di Simon Schama,
che allora non seppi chiarire a me stessa, ma che ora si svela
chiara:”benché si sia abituati ad attribuire a due regni distinti la natura
e l’umana percezione , essi in realtà sono indivisibili…il paesaggio è
opera della mente. Il suo scenario è costituito tanto dagli strati di ricordo
quanto dagli strati di roccia..”
Ormai è quasi buio, tengo il cappotto contro di me per riscaldarmi e per
esser certa di non dover andare, non ancora. Come un’ombra, Alan
riappare, si strofina le mani, lasciando cadere briciole di corteccia,
riprende il cappotto nero e sorride.
-“ Da lassù ho visto qualcosa che ti piacerà. Se hai voglia possiamo
andare in auto.”
-“ Va bene. ”
Ripercorriamo il sentiero sulla sponda del fiume. In bilico. Questa volta
i passi sono veloci e la strettoia si allarga come una strada maestra.
Raggiungiamo le auto. Lo seguo.
Dopo un po’ arriviamo ad un paesino incantato, disabitato, ma già
apparentemente pronto per diventare vivo e rumoroso…
Alan con un salto è fuori ed allungando un braccio, mi chiede:
-“ E’ così la tua Città del Sogno?”
ar