Al Tribeca i conti salati dell`America in Iraq

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Al Tribeca i conti salati dell`America in Iraq
14q
sabato 28 aprile 2007 Liberazione
ARTE _SPETTACOLI
Liberazione
I militari americani e il loro addestramento
in “I Am An American Soldier”.
Il regista John Laurence, reporter della Cbs
in Vietnam, ha rimesso l’elmetto
da “embedded” e si è unito agli uomini
della 101st Airborne Division. Voleva
raccontare la guerra «dalla loro parte».
Il risultato è un boomerang
Dopo l’inizio “green” con Al Gore e la sua Sos Campaign, il Festival di New York entra nel vivo
Il teatro della crudeltà in “Passio” di Cherchi Usai e l’addestramento visto da vicino dei marines
Al Tribeca i conti salati
dell’America in Iraq
di Miriam Tola
New York
D
opo un inizio green
con Al Gore, il Tribeca
Film Festival ha virato al nero. Mercoledì notte la
cattedrale di St. John the Divine si è trasformata in teatro della crudeltà con la
proiezione di Passio, assemblaggio di immagini, rigorosamente in pellicola,
per musiche di Arvo Pärt
firmato dall’archeologo del
cinema Paolo Cherchi Usai.
Con i suoi cadaveri e i bambini che rifiutano di nascere, le visioni di Passio sono,
dice Usai, «manifestazioni
della memoria collettiva repressa».
Le immagini della contemporaneità, I Am an American
Soldier di John Laurence,
presentato mercoledì, e Taxi
to the Dark Side di Alex Gibney, in programma oggi, sono infinitamente meno poetiche ma altrettanto oscure.
John Laurence, reporter della Cbs in Vietnam, ha rimesso l’elmetto da “embedded”
e si è unito agli uomini della
101st Airborne Division,
corpo speciale dell’esercito
statunitense. Per 14 mesi
Laurence li ha seguiti da Fort
Campbell, in Kentucky, all’Iraq con l’obiettivo di «raccontare la guerra dal punto
di vista dei soldati».
Dopo sequenze di allenamenti sfiancanti, mogli e fi-
danzate piangenti ma pronte al sacrificio perché i loro
compagni sono quelli che
«fanno la differenza», arriva
il momento forte. In scena
c’è il colonnello Michael D.
Steele, grosso come un armadio, veterano del Golfo e
del fallimentare raid in Somalia raccontato da Ridley
Scott in Black Hawk Down.
Spiega ai suoi uomini come
combattono gli americani:
«Non andiamo lì a stuprare e
rapinare – dice – ma sul campo di battaglia sei lì per uccidere il figlio di puttana davanti a te». E ancora: «Io sono il predatore più forte sulla strada. Se fai casino, ti divoro». Un momento dopo,
Steele ha fra le mani una
bandiera a stelle e strisce.
Viene dal World Trade Center, dice. Il messaggio è chiaro e la sua efficacia emerge
nelle interviste successive ai
soldati, quasi tutti ventenni.
«Qui è pieno di criminali. E’
come essere nella parte peggiore di New York», dice uno
parlando degli iracheni di
Samarra.
Non c’e’ dubbio, Laurence
ha girato un film dalla parte
dei soldati con un’enfasi che
a tratti sfiora la pura propaganda. Allo stesso tempo
però apre spiragli disturbanti sull’addestramento
dei militari, incoraggiati a
percepire il nemico come
essere non umano. Le cronache dall’Iraq dicono, ad
Fino al 29 aprile, la 14ma edizione
“Hotdocs”. A Toronto
il documentario
è protagonista
di Valentina Cosimati
F
ino al 29 aprile il
documentario è
protagonista a Toronto
con la 14ma edizione di
“HotDocs”, 129 film
selezionati tra oltre 1700
per undici giorni
organizzati in dieci
sezioni. Il mercato di
questo festival è uno dei
più importanti nel Nord
America e quest’anno la
presenza dei produttori
indipendenti italiani è
consistente, grazie agli
sforzi congiunti
dell’Istituto per il
Commercio Estero (Ice) e
dell’Istituto italiano di
Cultura di Toronto.
Alle produzioni
indipendenti italiane,
brasiliane e tedesche è
infatti dedicato il “Coproduction Day ”,anche se
la presenza di film italiani
è abbastanza esigua, con il
cortissimo “Liquidman
D”, 5 minuti in apnea
seguendo l’immersione di
un sub, diretto da Martina
Amati; “Le ferie di Licu” di
Vittorio Moroni sulle
bizzarre vacanze del
bengalese musulmano
Licu che da Roma torna in
Bangladesh per
arrangiare le complesse
procedure per il suo
matrimonio combinato; e
una proiezione speciale
all’Istituto Italiano di
Cultura del ritratto
Luchino Visconti di Carlo
Lizzani.
Toronto è una città
particolare, è qui che
documentaristi del
calibro di Michael Moore
presentano in teatri
stracolmi gli ultimi film
discutendo con il
vivacissimo e impietoso
pubblico anche opere non
ancora finite e proprio a
“Hotdocs” sono stati
lanciati documentari
diventati dei veri e propri
casi internazionali come
“Supersize Me!”, il film
sulla “M” gialla più
famosa al mondo. Da
segnalare in questa
edizione “Flying –
Confessions of a Free
Woman” in cui la
filmmaker Jennifer Fox
cerca di capire cosa
significhi essere una
donna libera oggi
attraverso private
riflessioni e conversazioni
con donne di varie parti
del mondo; “The Devil
Came on Horseback”
(Usa) di Annie Sundberg e
Ricki Stern documenta gli
orrori del genocidio in
Darfur; “The Suicide
Tourist” del pluripremiato
documentarista canadese
John Zaritsky su Dignitas,
l’associazione svizzera
fondata da Ludwig Minelli
per aiutare nella pratica
dell’eutanasia; e
“Manufacturing Dissent”,
una critica a Michael
Moore di Debbie Melnyk e
Rick Caine.
esempio, che la carriera di
Steele si è fermata dopo l’accusa di aver favorito la morte di quattro iracheni disarmati.
Il caos di un campo di batta-
E le nuove “tecniche
di persuasione” nei
campi di detenzione
di Bagram,
Abu Ghraib
e Guantanamo
in “Taxi to the dark
side” di Alex Gibney
glia dove, concede Laurence
«non c’era un progetto chiaro» porta sulla strada esplorata da Gibney in Taxi to the
Dark Side. Porta a Bagram,
Abu Ghraib e Guantanamo,
le prigioni dove gli Stati Uniti
hanno sperimentato la sospensione delle regole del
diritto. Il suo documentario
indaga la morte di Delawar,
un taxista afgano 22enne
che, dice nel film un uomo
che lo conosceva bene, «fin
da bambino amava guidare
il trattore». Nel 2002 venne
arrestato e portato a Bagram
incatenato al soffitto e torturato fino alla morte. «Nessuno – dichiara Gibney – è stato incriminato per la sua
morte. Diversi soldati, non
ufficiali di alto rango, sono
stati accusati di maltrattamenti ma non di omicidio».
«Quello che è accaduto –
continua - non era colpa di
poche mele marce. E’ il frutto di una politica sistematica di detenzione e interrogatori andata fuori controllo».
Il regista, candidato all’Oscar per Enron, ha intervistato familiari di Delawar,
Intervista al body-artist statunitense Ron Athey, omaggiato a Torino
IMMAGINI DAL FILM
“I AM AN AMERICAN
SOLDIER” DEL
GIORNALISTA JOHN
LAURENCE
IN ALTO A DESTRA: UN
MOMENTO DEL FILMPERFORMANCE “RON
ATHEY IN TORTURE.
MARTYRS & SAINTS”
soldati ed esperti. Nel film
compaiono Bush, Cheney e
Alberto Gonzales, nemico
giurato delle Convenzioni di
Ginevra. Per Gibney la grandezza machiavellica del ministro della Giustizia americano, nell’occhio del ciclone
per il licenziamento dei procuratori federali, «consiste
nella sua straordinaria abilità a restare impassibile, determinato e indifferente di
fronte alle critiche più devastanti». Il film ne fornisce un
esempio perfetto: di fronte
ad una commissione di senatori che gli chiedono se la
tortura dei prigionieri sarebbe stata proibita, Gonzales esita a lungo, poi risponde: «La cosa che mi preoccupa di questo divieto è: che
cosa vuol dire? Come lo si
definirebbe?».
«L’arte del sangue
che mi fa trascendere
dalla quotidianità»
di Saverio Aversa
Torino
L
a sua arte è scritta col sangue, con le urine, con lo
sperma. I suoi temi ricorrenti,
le sue ossessioni: la morte, la
religione, l’omosessualità,
l’Aids. Lo sanno bene i frequentatori delle gallerie d’arte
e dei musei americani e londinesi, in Italia lo conoscono soprattutto i frequentatori degli
spazi alternativi, i dark, i postpunk, i centri sociali presso i
quali è considerato alla stregua di un vate. E’ Ron Athey,
americano di Groton nel Connecticut, classe 1963. Attualmente è impegnato a Londra
nella performance Incorruptile flesh,perpetual woundsil cui
titolo fa riferimento (“Carne
incorruttibile”) al corpo dei
santi che non marcisce e si
conserva nella forma più pura
quanto (“Ferite eterne”) al Filottete di Sofocle, alle ferite
che non si rimarginano mai.
A Torino, al Festival Da Sodoma a Hollywood appena conclusosi, gli hanno dedicato un
omaggio con la proiezione dei
video delle sue creazioni di live-art e di teatro multimediale
e con la riproposta su grande
schermo delle sue partecipazioni cinematografiche a film
di registi “maledetti” come il
celebrato Hustler White di
Bruce LaBruce. Per tanti spettatori è un vero shock vedere
Ron Athhey in Torture. Martys
& Saints del ’92 in cui rivive l’esperienza di San Sebastiano
trafitto da decine di frecce infisse lentamente una alla volta
nelle sue carni e infine coronato da decine di spilloni che
passano sotto la cute della sua
fronte trasformandone il viso
in una maschera di sangue;
come è di nuovo uno shock vederlo nella sintesi di Solar
Anus del ’98, le 5 ore di esecuzione di un tatuaggio anale
dove l’ausilio di effetti speciali
permetteva la fuoriuscita di
luci e raggi dall’orifizio tatuato
di fresco.
A contestualizzare e inquadrare tali atti (i più “innocui” e
raccontabli) in una biografia
che parte da un ambiente di
fanatici religiosi pentecostali,
passa per esperienze di sbandato con droghe, sesso omo,
tentati suicidi, alcool, creazioni musicali punk al fianco di
Rozz Williams, sieropositività,
scandali americani in cui intervengono i tribunali a dire
quale arte possa o non possa
essere finanziata con i contributi pubblici, ci sono l’illuminante saggio del catalogo e gli
interventi dal vivo di Giuseppe
Savoca quando riconduce la
creazione di Athey all’estetica
di Antonin Artaud, «soprattutto nella visione del suo teatro
della crudeltà e nel suo provocatorio rapporto con la realtà»
e quando spiega come «l’idea
che il sacro possa essere concepito trasgredendo i comandamenti religiosi è un concetto estremamente terrorizzante, che mina la cultura americana sia dal punto di vista politico che da quello religioso. Da
una prospettiva cristiana,
concetti incarnati in questa
rappresentazione come il sesso, l’omosessualità e la violenza, accostati al sacro, costituiscono blasfemia».
Davanti a stimoli tanto estremi una singola intervista non
può che scalfire solo la superficie di un personaggio così
complesso e provocatorio.
I testi riportano che la sua
prima performance, col
gruppo dei Premature Ejaculation a Los Angeles,consisteva nel mangiare e subito dopo
vomitare un gatto morto. Ma
quando fu che iniziò a usare il
suo stesso corpo come strumento di espressione? Con
quali azioni?
Erano gli anni ’80 e si viveva
l’era del punk. Le mie primissime performance erano veglie
a oltranza a di là della possibile
sopportazione, poi vennero i
vetri rotti su cui rotolarsi. Il
momento in cui ho pensato alla funzione dell’azione come
simbolo è stato quando è iniziata la diffusione dell’Aids. Da
allora ogni volta che il mio sangue diventa un elemento dell’azione c’è dietro l’idea che
ogni tipo di sangue contiene in
sé il concetto di un’infezione.
Dal sangue sono passato a
pensare alla funzione degli altri fluidi all’interno del corpo.
Vederla in performance in cui
le sue palpebre sono tirate da
ami da pesca o in cui i suoi genitali sono sottoposti a manipolazioni impensabili fa venire i brividi allo spettatore.
Come fa a sopportare tanto
dolore? E si ha la sensazione
che quel dolore la porti quasi
in uno stato di trance.Se è così quali effetti quella trance
comporta in campo creativo?
La pratica della religione pentecostale della mia infanzia insegna tecniche di controllo e
di finalizzazione del dolore fisico e quelle tecniche io le
metto in atto durante le
performance. Per me, lo stato
di trascendenza e di alterazio-
Attualmente
impegnato a Londra
con la performance
“Incorruptile flesh,
perpetual wounds”,
il festival glbt
“Da Sodoma
a Hollywood”,
appena conclusosi,
ha proposto alcuni
video delle sue
creazioni di live-art
e di teatro
multimediale
ne è abbastanza facile e comune. Proprio qui sta la mia ragione di fare arte, nell’entrare
in una dimensione in cui si è
totalmente rimossi dalla
realtà quotidiana.
Il limite delle performance live e di certa body art,specialmente quella estrema, è la
non repetitibilità dell’evento,
il ricorso alla registrazione in
immagini video come testimonianza.Quale è il suo rapporto con la telecamera?
Un tempo ero contrario alla
presenza di telecamere alle
mie esibizioni. Oggi sono dell’idea che la registrazione video possa essere utile per
diffondere quanto accade nel
mondo dell’arte. Ma la telecamera non deve essere invasiva
di quanto accade sul palco. La
concepisco solo se sta lontano
a fissare le sue immagini e non
interferisce in quello che è la
performance vera e propria.
Lei ha avuto al fianco molti
collaboratori, da Lars Von
Trier che nel 2000 ha prodotto il suo film “H.M.C.B.”, alle
tre spose di DaggerWedding a
cui lei, in veste di celebrante,
perforava i capezzoli contemporaneamente e col medesimo unico anello/orecchino. Come avvengono tali
collaborazioni? Chi sceglie
chi?
Dipende. La collaborazione
con Bob (“Deliverance”, 1988,
ndr) e Franko B. (“Incorruptile
flesh: Dissociative Sparkle”,
2006, ndr) mi risulta naturale,
fa parte della mia via in quanto
sono amici nel quotidiano.
Anche i musicisti hanno parte
importante. L’esistenza è fatta
di incontri che non sono prevedibili.
Il suo corpo oltre che di tatuaggi è coperto inevitabilmente di cicatrici.Quali sono
quelle più dolorose, quelle
della carne o quelle dell’anima?
Quelle del corpo non sono
nulla.