La diciottesima contraddizione e la fine dello sviluppo locale

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La diciottesima contraddizione e la fine dello sviluppo locale
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 443-454
PAOLO GIACCARIA
LA DICIOTTESIMA CONTRADDIZIONE
E LA FINE DELLO SVILUPPO LOCALE
Introduzione. – Il 22 aprile 2015 la Grand C/D North dell’Hyatt Hotel di Chicago era affollata oltre la normale capienza per uno degli eventi di maggior richiamo delle conferenze della Association of American Geographers: le tavole
rotonde «Author-Meets-Critics». Ça va sans dire, ogni nuovo libro di David Harvey è, edizione dopo edizione, il protagonista di un appassionato dibattito che,
nelle corde dell’accademica anglo-americana, poco o nulla ha di celebrativo e di
ieratico. La discussione di Seventeen Contradictions and the End of Capitalism
ha spesso travalicato le regole di ingaggio del bon ton accademico soprattutto
per la presenza, accanto a storici allievi e sodali di Harvey (nella fattispecie Don
Mitchell, Dick Peet ed Erik Swyngedouw), di tre studiose critiche e radicali provenienti dagli studi di genere (Ipsita Chatterjee, Elaine Hartwick, Sue Roberts).
La faccenda è di quelle già viste: la critica più ripetuta è stata quella già ricorsa
più e più volte, vale a dire la scarsa attenzione che David Harvey attribuirebbe
alla filosofia femminista nella costruzione del suo argomento. La risposta è stata
tanto sintetica quanto illuminante (cito a memoria): «Molte femministe sono anticapitaliste ma non tutte le femministe sono tali» (1).
In questo breve aneddoto si possono ritrovare, a mio parere, anche gli elementi del disagio emerso durante la giornata di discussione delle Diciassette
contraddizioni e la fine del capitalismo, che rappresenta l’occasio per questo
numero monografico del «Bollettino». Nel corso della sua carriera, spesso Harvey
è stato accusato dai suoi critici di sottovalutare e ridimensionare sistematicamente quelle idee e ispirazioni che possono o potrebbero rappresentare elementi
per una fondazione non marxiana della geografia critica. Ben nota è la sua idiosincrasia per la topofilia esistenzialista e fenomenologica, di derivazione heideggeriana, ripetutamente attaccata da Harvey – e non a torto, a parere dello scri-
(1) Una registrazione integrale dell’incontro è disponibile sul blog di Stuart Elden, Progressive
Geographies (http://progressivegeographies.com/2015/04/30/video-david-harveys-seventeen-contradictions-and-the-end-of-capitalism-aag-2015/).
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vente – per la sua intrinseca Weltanschauung reazionaria. Altrettanto nota è la
conseguenza del sospetto harveyano nei confronti del luogo, vale a dire l’annosa diatriba che lo oppone all’altra grande figura della geografia marxiana, Doreen Massey (1994, pp. 146-156). Lo stesso può dirsi delle altre grandi tematiche
che hanno connotato la geografia anglo-americana degli ultimi decenni: ecologismo ed ecologia politica, femminismo e studi di genere, anarchismo e attivismo
di base. Tutti questi approcci sono sempre formalmente riconosciuti da Harvey
come un contributo importante alla costituzione di un pensiero critico, ma al
tempo stesso vengono relegati in una posizione ancillare rispetto alla critica
marxiana del capitale. Non senza una logica. Se la Trimurti di accumulazione capitalistica, appropriazione del plusvalore prodotto dal lavoro salariato e divisione della società in classi rappresenta la «struttura» della realtà moderna, relegando le altre dimensioni dell’agire umano alla condizione di sovrastruttura, allora è
conseguente che quegli approcci che su tali caratteri si fondano mantengano un
ruolo subordinato rispetto alla critica originaria e strutturale che solo il marxismo, nella prospettiva di Harvey, può offrire. Sulla contingenza sovrastrutturale
dei diversi punti di vista, Harvey è decisamente chiaro:
Questa variabilità e adattabilità del capitale a configurazioni complesse
di distribuzione rende un doppio servizio quando è inserita nell’incredibile complessità e diversità dei raggruppamenti sociali che possono esistere
nel capitalismo in generale. Sono visibili ovunque distinzioni di genere,
sessuali, razziali, etniche, religiose, culturali, nazionali e legate ai luoghi;
questioni di status, competenze, talenti, rispetto e ammirazione per i risultati conseguiti e valori determinano opportunità e possibilità di vita differenziali per individui e gruppi sociali caratterizzati in base a criteri etnici,
razziali, sessuali e religiosi all’interno delle formazioni sociali capitalistiche.
Quando queste caratteristiche sono associate a differenze di accesso e remunerazione, per esempio nei mercati del lavoro, ne risultano ampie disparità di potere economico e politico [Harvey, 2014, p. 169].
In altri termini, la differenziazione delle condizioni individuali e collettive assume un pieno significato solamente quando si sovrappone alla struttura per
classi (qui espresse come «differenze di accesso e remunerazione») che di fatto
le inverano. Soprattutto, in quanto sganciata da una fondazione anticapitalistica,
ogni geografia critica non marxiana rischierebbe costantemente di rovesciarsi o
in ancella dell’accumulazione capitalistica o in locomotiva della reazione e del
conservatorismo. Da una prospettiva italiana e continentale, si potrebbe obiettare che anche in seno al marxismo le tentazioni rosso-brune, da Costanzo Preve
al caso mediatico-filosofico di Diego Fusaro e delle sue riletture di Marx e
Gramsci (Fusaro, 2009 e 2015), non sono mancate. Ciò che è rilevante ai fini
della nostra analisi è che l’obiezione apparentemente banale e disarmante che
non tutte le femministe sono ipso facto anticapitaliste può aiutarci a ripensare
criticamente, proprio a partire dalle Diciassette contraddizioni, alcuni sviluppi
della geografia economica italiana degli ultimi trent’anni, nella fattispecie la ge-
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nealogia dello sviluppo locale. Prima di addentrarci nel tema specifico del mio
contributo, mi pare opportuno ricostruire almeno in parte gli obiettivi e il ragionamento che soggiacciono a questo recente lavoro di Harvey.
Alle radici del capitale. – Se vi è una critica immeritata e ingiusta, è quella di
non aver mostrato esprit de finesse nel corso della sua carriera accademica. Pur
con una certa ripetitività argomentativa – in fondo le obiezioni portate contro il
nuovo cosmopolitismo neostoico (Harvey, 2009) non si discostano più di tanto da
quelle a suo tempo dispiegate ne La crisi della modernità (Harvey, 1993) – David
Harvey ha sempre dato mostra di una non comune capacità di tenere insieme il
rigore del ragionamento informato con la seduzione dell’esempio e della cronaca
dei mala tempora. Se la raffinatezza del ragionamento viene a mancare nelle Diciassette contraddizioni, il dubbio dovrebbe sorgere che si tratti di una scelta programmatica, dettata da un’urgenza di géométrie, di chiarezza che semplifica e fissa. In questo senso, le Diciassette contraddizioni sono un libro fondamentalista,
che desidera riporre il fondamento all’interno di un’ortodossia. Da qui la scarna
bibliografia – cinque pagine appena nell’edizione italiana – e le ancora più scarne
citazioni di geografi. Tre appena: Cindy Katz, Richard Peet e Neil Smith. Per il resto, un dialogo serrato con Marx ed Engels, oltre che con alcuni interpreti privilegiati del pensiero marxiano – Gramsci, Baran, Althusser, Marcuse.
Diciassette contraddizioni è forse l’opera maggiormente strutturalista di Harvey, non solo nel senso evidenziato nel precedente paragrafo (ovvero la natura
sovrastrutturale e contingente di tutte le differenziazioni individuali e collettive).
Lo strutturalismo di Harvey si manifesta anche nella selezione dei concetti dispiegati. Non è un caso che sin dal principio l’autore ribadisca con perentorietà
che non si occupa di contraddizioni del capitalismo ma del capitale:
Qui, però, pongo una distinzione netta fra capitalismo e capitale. Questa indagine si concentra sul capitale e non sul capitalismo. E che cosa
comporta questa distinzione? Per «capitalismo» intendo qualsiasi formazione sociale in cui i processi di circolazione e accumulazione di capitale siano egemonici e dominanti nel fornire e plasmare le basi materiali, sociali e
intellettuali della vita sociale. Il capitalismo è tormentato da innumerevoli
contraddizioni, molte delle quali, però, non hanno nulla a che fare, in particolare e direttamente, con l’accumulazione del capitale […] A questo
punto dunque sorge la domanda: perché non includo le contraddizioni di
razza e genere […] come fondamentali in questo studio sulla contraddizioni del capitalismo? […] La risposta breve è che le escludo perché, sebbene
siano onnipresenti nel capitalismo, non sono specifiche della forma di circolazione e accumulazione che costituisce il motore economico del capitalismo [Harvey, 2014, pp. 19-20].
Questo essenzialismo è non privo di conseguenze ai fini della nostra analisi,
dal momento che investe anche i concetti geografici che Harvey dispiega per in-
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terpretare le contraddizioni del capitale. In senso stretto, solamente l’undicesima
contraddizione/capitolo è intrinsecamente ed esplicitamente spaziale (Uneven
Geographical Developments and the Production of Space). Ciò che più colpisce è
la genericità, o addirittura la superficialità, con cui Harvey tratta tutto ciò che ruota attorno all’immaginario del luogo e quindi del locale e del regionale. A differenza di altri suoi testi in cui l’ingaggio con la topofilia era violento ed esplicito,
luogo/place è un termine sostanzialmente mancante da Diciassette contraddizioni. Tanto place quanto luogo sono assenti dall’indice sia dell’edizione originale
sia della traduzione italiana. Se osserviamo le ricorrenze di «place» nel testo inglese vediamo che viene utilizzato ottanta volte. In realtà, si tratta per la stragrande
maggioranza di espressioni idiomatiche o metaforiche – «taking place», «marketplace», «stay/remain in place» – o delle ricorrenti formule «places and times» e
«spaces and places», a indicare una generica contestualizzazione spazio-temporale di un processo. L’uso proprio di «place» come specifico concetto geografico si
riduce a una decina di occorrenze. Qualcosa di simile accade ovviamente per il
corrispondente aggettivo «local», genericamente utilizzato per indicare un fenomeno parziale, localizzato o contingente. A «local» è infatti preferito il termine,
maggiormente conforme a una certa geografia economica anglo-americana, di
«regional», a connotare una specifica scala di interpretazione dei processi di produzione, distribuzione e consumo. Anche in questo caso, Harvey è strettamente
osservante della propria ortodossia. La sua restituzione della dimensione regionale dell’economia è quasi disarmante, totalmente indifferente alla geografia economica non marxiana che negli ultimi vent’anni ha evidenziato una molteplicità di
interpretazioni della spazialità dei fatti economici (Lee e Wills, 1997). Non solo: la
sua lettura della territorializzazione dei processi economici sembra ignorare la
geographical political economy (Sheppard, 2011), da lui stesso largamente ispirata, che parla esplicitamente di «varieties of capitalism» (Hall, 2001) e di «variegated
capitalism» (Peck e Theodore, 2007). Come appare evidente dalla citazione qui riportata, le economie regionali non sono espressione di processi endogeni o relativamente autonomi – ma, semplicemente, l’esito di una scollatura tra la mobilità
del capitale e quella della produzione, di una convergenza di processi molecolari che appaiono de facto sganciati dalle caratteristiche del luogo:
La produzione, con qualche eccezione come i trasporti stessi, è la forma meno mobile di capitale. Di solito è bloccata per un certo tempo […]
L’agglomerazione produce centralizzazione geografica. I processi molecolari dell’accumulazione del capitale convergono, per così dire, alla produzione di regioni economiche. I confini sono sempre sfumati e porosi, ma i
flussi interconnessi all’interno di un territorio producono una coesione
strutturata sufficiente a ritagliare quell’area geografica come qualcosa di
ben definito [Harvey, 2014, pp. 151-153].
La stessa territorializzazione del governo dei processi economico-politici
sembra dipendere per Harvey unicamente dalla necessità di garantire l’accumu-
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lazione di capitale, con la conseguenza che «si possono formare classi dominanti e alleanze egemoniche di classe, che possono dare un carattere specifico all’attività politica e non solo economica in quella regione» (p. 153). Da qui l’innesto di processi di competizione tra regioni (p. 158) e l’avvento di crisi localizzate, vere e proprie deterritorializzazioni imposte dal capitale «per costruire un
paesaggio del tutto nuovo con un’immagine diversa» (p. 159).
Difficile trovare, all’interno di questo sistema ordinato e, soprattutto, consolidato in una ferrea persuasione, lo spazio per una riflessione su un tema apparentemente alieno alla meccanica harveyana, quale appunto quello dello sviluppo economico locale. È proprio ciò che cercherò di abbozzare nelle rimanenti
pagine di questo articolo.
La diciottesima contraddizione del capitale (e dello sviluppo locale). – Nel
suo intervento alla giornata di studi organizzata presso la Società Geografica Italiana, Franco Farinelli ha esordito provocatoriamente accennando a una diciottesima contraddizione del capitale, vale a dire la sua capacità di cooptazione, di
assorbire elementi e ispirazioni a sé estranei quando non addirittura critici e
ostili, per piegarli alle proprie logiche e alle proprie esigenze. Il riferimento, polemico, era allo stesso David Harvey, avvertendo nella pubblicazione di Diciassette contraddizioni un ossequio alle regole del neoliberismo accademico delle
grandi case editrici anglo-americane. Se questa reductio dell’urgenza di un’opera accademica a mero posizionamento commercial-accademico può suonare ingenerosa verso Harvey, essa resta illuminante di un aspetto del capitale e del
capitalismo che pare largamente trascurato da Harvey. Mi riferisco proprio alla
capacità di cooptare le espressioni più critiche e ostili all’interno dei discorsi e
delle pratiche capitalistiche, in particolare di quelle neoliberiste. La faccenda è
ben nota a chiunque si sia occupato di sviluppo, soprattutto nel Sud del mondo.
I costi sociali del fallimento delle politiche di aggiustamento strutturale promosse da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale hanno originato una
reazione talmente diffusa e capillare da segnare una rottura e il passaggio a
quello che è stato definito il Post-Washington Consensus. L’idea di base, in
estrema sintesi e semplificazione, fu che le politiche macro-economiche dovessero essere accompagnate sia da forme di ridefinizione della micro-socialità sia
da riforme profonde della statualità. In un certo senso, la posta in gioco era solo
apparentemente umanizzare gli strumenti finanziari di intervento in caso di crisi
e/o sottosviluppo. Più profondamente, si trattava di riplasmare società e politica
locali in modo tale da renderle «idonee» a una profonda trasformazione in senso
capitalistico delle loro strutture. È in questo contesto che i think tank dell’ortodossia neoliberista si sono aperti a temi e parole d’ordine che erano state elaborate nei decenni precedenti, anche e soprattutto in opposizione a quell’ortodossia medesima. Conseguentemente, genere ed ecologia, sostenibilità ed educazione hanno occupato stabilmente il loro posto nel Gotha delle parole chiave di
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Banca Mondiale, FMI, agenzie delle Nazioni Unite, OCSE. Questa cooptazione
di teorie e pratiche all’interno dell’ortodossia liberomercatista ha ovviamente interessato anche l’approccio che possiamo definire come sviluppo economico locale (Local Economic Development, LED, nella letteratura anglo-americana). A
partire dalla costituzione sin dal 1982 di un programma denominato Local Economic and Employment Development (LEED) in seno all’OCSE, sino all’interesse
mostrato dalla Banca Mondiale, che nel 2006 pubblica un Local Economic Development Primer della Banca Mondiale, curato da Gwen Swinburn, Soraya Goga
e Fergus Murphy, il linguaggio e le metafore dello sviluppo locale sono entrate
a pieno titolo nell’immaginario del mainstream neoliberista.
Ovviamente, come tutte le cooptazioni anche questa è problematica. L’idea
stessa di sviluppo economico locale nasceva, infatti, in una marcata antitesi rispetto ai dogmi dello sviluppo economico neoclassico, sostanzialmente aspaziale e deterritorializzato. A fronte e in opposizione a ricette di sviluppo valide per
ogni luogo, il LED proponeva non solo una contestualizzazione storica e geografica dello sviluppo economico, ma identificava nei luoghi i custodi delle risorse,
materiali e immateriali, per disegnare nuovi e inediti sentieri di sviluppo. Tuttavia l’assunzione di queste intuizioni all’interno dell’ortodossia neoliberista ha
comportato quasi un rovesciamento di senso rispetto all’ispirazione originaria.
Come osserva Cristina Scarpocchi in un saggio dedicato proprio all’integrazione
dello sviluppo locale nelle teorie e pratiche degli organismi sovranazionali:
La cesura che i temi dello sviluppo locale – così come quelli della partecipazione o delle differenze di genere – segnano rispetto all’ortodossia
neo-liberista propria di organismi quali la Banca Mondiale è, quindi, più
apparente che sostanziale. È indubbio che il fallimento delle politiche neoliberiste di prima generazione si sia accompagnato a una riflessione sui limiti e il fallimento dell’economia di mercato, suscitando una diffusa evocazione a una maggiore dimensione sociale del processo di sviluppo. Nondimeno, l’introduzione di teorie eterodosse nel mainstream, intellettuale e
operativo, degli organismi internazionali viene spesso utilizzata per evidenziare la necessità di ristrutturare i rapporti tra Stato e mercato […] Se è
vero che l’abbandono della rigida ortodossia neoliberista si accompagna a
un riconoscimento del ruolo regolatore dello Stato, è altrettanto vero che
la maggior parte delle critiche investe, piuttosto che i fallimenti dei mercati nel garantire una più equa distribuzione delle risorse, la disorganizzazione dello Stato, la burocrazia elefantiaca e corrotta dei paesi in via di sviluppo che amplificano, invece che contenere, le imperfezioni dei mercati
[Scarpocchi, 2008, pp. 28-29].
In questo senso la diciottesima contraddizione del capitale (il suo nutrirsi incessantemente di ciò che è altro da, o addirittura opposto a sé) viene a coincidere, in un certo senso, con la prima contraddizione dello sviluppo economico
locale e, più in generale, di tutto il pensiero critico. Che si tratti di emancipazione femminile o di protezione ambientale, di lotta alla povertà o di sviluppo lo-
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cale, non è dato pensiero critico che non sia venuto a trovarsi reinterpretato e
reso ancillare all’ortodossia neoliberista.
Nel suo fondamentale Markets of Dispossession: NGOs, Economic Development, and the State in Cairo (Elyachar, 2005), l’antropologa Julia Elyachar ha utilizzato il concetto harveyano di accumulazione per spoliazione (accumulation
by dispossession). Secondo Harvey, infatti, il neoliberismo avrebbe riportato in
auge uno dei meccanismi originari di accumulazione capitalistica, la spoliazione,
la trasformazione di un bene condiviso in uno affetto da un diritto proprietario
(Harvey, 2004). In particolare, Elyachar incentra la sua analisi sulle politiche del
cosiddetto Social Fund for Development della Banca Mondiale e sul tentativo di
trasformare i «poveri» in piccoli imprenditori, o in «imprenditori di sé stessi» per
echeggiare una delle parole chiave della precarizzazione (Gentili e Nicoli, 2015).
L’autrice mostra come un patrimonio di capitale sociale che sfuggiva alle logiche
dell’economia di mercato (in cui, nella fattispecie, il successo dell’imprenditore
non veniva misurato con il profitto di breve periodo) viene destrutturato e riorganizzato in modo da favorire la sua riconversione in processo di accumulazione capitalistica. Soprattutto, ciò che colpisce è il fatto che quello, che a prima vista potrebbe apparire come un esempio di successo di sviluppo locale, si accompagna a un processo profondo di deterritorializzazione, grazie a politiche
statuali di espulsione selettiva di queste comunità di artigiani verso le nuove
città costruite nel deserto. Il lettore può intuire che, a sua volta, queste delocalizzazioni avvengono in nome della tutela patrimoniale, con il beneplacito di
UNDP, UNESCO e altri organismi internazionali. Il caso dell’Egitto – assieme a
quello della Turchia – mostra peraltro chiaramente che persino l’Islam politico
dei Fratelli Musulmani può venire facilmente integrato in una governamentalità
de facto neoliberista, che tiene insieme gentrification e repressione del dissenso,
finanza islamica e politiche urbane. Assume quasi una valenza simbolica il ruolo
assunto dall’economista peruviano Hernando De Soto. Come è ben noto, De Soto è una delle figure chiave del ripensamento dell’economia informale nel Sud
del mondo in chiave imprenditoriale e neoliberista (Musembi, 2007). Soprattutto, la presenza De Soto rappresenta un vero e proprio fil rouge della politica
economica egiziana sin dall’inizio del nuovo millennio, sotto il regime di Mubarak (Giaccaria e Scarpocchi, 2008), per proseguire come consulente di Morsi e
del governo dei Fratelli Musulmani.
Sviluppo locale e feticismo. – In questa sezione conclusiva dell’articolo, vorrei
tornare alle Diciassette contraddizioni, alla ricerca di qualche spunto interpretativo che permetta di riflettere criticamente sulla cooptazione delle tematiche
proprie dello sviluppo locale all’interno delle narrative e delle pratiche proprie
del neoliberismo. Sebbene in questo libro, come abbiamo avuto modo di evidenziare, Harvey sia piuttosto avaro di riflessioni sul luogo e sul suo ruolo nei
processi economici, un paio di spunti sembra offrirli, in particolare in due pas-
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saggi. Concludendo le sue riflessioni sull’undicesima contraddizione, quella
maggiormente geografica, Harvey osserva:
Che cosa dovrebbe allora ricavare da tutto questo un movimento anticapitalista? Innanzitutto è fondamentale riconoscere che il capitale è sempre un bersaglio mobile, per il suo sviluppo geografico disomogeneo.
Ogni movimento anticapitalista deve imparare a fare i conti con questo. I
movimenti di opposizione in uno spazio spesso sono stati neutralizzati
perché il capitale si è spostato in un altro spazio […] I movimenti anticapitalisti devono liberare e coordinare le loro dinamiche di sviluppo geografico disomogeneo, la produzione di spazi emancipativi di differenza, per
reinventare ed esplorare alternative al capitale regionali e creative [Harvey,
2014, pp. 165-166].
Questo tenue riconoscimento del potenziale dei luoghi come ispirazione di
pratiche di resistenza – tenue in quanto implicito, dal momento che Harvey preferisce continuare a usare il termine più «neutro», tecnico, di «regione» invece di
«luogo», maggiormente connotato nella tradizione umanistica – va letto a mio avviso in parallelo a un’altra osservazione di Harvey. Citando l’ultima grande carestia in Cina ai tempi del «grande balzo in avanti», osserva:
Un evento del genere non potrebbe verificarsi oggi in quel paese.
Questa dovrebbe essere una lezione salutare per tutti quelli che ripongono
tutta la loro fede anticapitalista nelle prospettive di sovranità alimentare locale, autosufficienza locale e distacco dall’economia globale. Liberarci dalle catene di una divisione internazionale del lavoro organizzata a beneficio
del capitale e delle potenze imperialiste è una cosa, ma tagliare i ponti con
il mercato mondiale nel nome dell’antiglobalizzazione è un’alternativa potenzialmente suicida [Harvey, 2014, p. 130].
Leggere insieme queste due citazioni sembra gettare una luce su quella che
abbiamo chiamato diciottesima contraddizione. Da un lato, Harvey apre alla
possibilità di trovare delle soluzioni regionali – ovvero sia locali, place-based –
al neoliberismo imperante e imperiale. Dall’altro, ammette che il localismo economico – nel leggere le sue parole vengono in mente i tic rossobruni di un certo ecologismo profondo in chiave bioregionalista – è destinato al ridicolo del
fallimento, addirittura agli spettri della carestia. A ben vedere, lo spazio che si
apre tra queste due affermazioni è proprio quello in cui lo sviluppo economico
locale ha dispiegato la propria parabola concettuale e fattuale, insieme di teorie
e di pratiche. Pur senza le aspirazioni massimaliste e rivoluzionarie che restano
sottese al pensiero di Harvey, lo sviluppo locale ha sempre cercato di tenere insieme le istanze della ricerca di un’alternativa alle politiche di sviluppo dominanti e dell’aggancio alle reti sovralocali di scambio e commercio. Al tempo stesso, quello spazio di riflessione e pratiche che cerca di tenere insieme alternativa
e integrazione definisce proprio quel campo di tensioni dove si produce la diciottesima contraddizione del capitale, quello spazio dove l’altro da sé viene ri-
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condotto alle esigenze dell’accumulazione. I modi e tempi con cui una regione/luogo possa sottrarsi alla divisione internazionale del lavoro rimanendo al
tempo stesso agganciata ai mercati globali è mistero che non ci spiegano né
Harvey né topofili, territorialisti e sviluppolocalistici. Non è questa la sede per
delineare una genealogia dello sviluppo locale nella geografia italiana degli ultimi trent’anni. In queste pagine conclusive vorrei però avanzare un’ipotesi, forse
meritevole di ulteriori riflessioni e approfondimenti.
La premessa è che la crisi dei distretti industriali e del capitalismo relazionale e familiare italiano ha lasciato i suoi orfani privi di un ancoraggio empirico,
ideale e ideologico. L’emergere stesso di un tessuto di medie imprese altamente competitive, vere e proprie multinazionali in sedicesimo, evidenziato dai
rapporti Mediobanca, presenta non poche ambiguità, dal momento che alcune
di queste imprese sono cresciute di fatto cannibalizzando i sottostanti distretti.
Il caso di Luxottica è emblematico: quella che è riconosciuta come una della
storie di successo del made in Italy è cresciuta attraverso una politica di internalizzazione, assorbimento di imprese minori, creazione di un indotto strettamente dipendente dall’impresa maggiore e delocalizzazioni che hanno contribuito alla ristrutturazione, de facto alla scomparsa, del distretto dell’occhiale di
Belluno (Bramanti e Gambarotto, 2009). Generalizzando, quello che si è registrato è stato un ridimensionamento delle aspettative nei confronti dei distretti
industriali marshalliani e del loro potenziale di tenere insieme alterità rispetto ai
modelli dominanti di impresa capitalistica e ancoramento nei circuiti mondiali
delle merci: di tenere assieme, in altri termini, radicamento e competitività. L’ipotesi è che la centralità dei distretti industriali garantisse una sorta di meta-radicamento delle teorie dello sviluppo locale in processi produttivi reali e contingenti – quelli che Harvey chiama «i processi molecolari di accumulazione capitalistica». Venuta meno questa garanzia di «realismo» che si poneva a fondamento della fiducia nella possibilità di percorsi coerenti di sviluppo locale radicati in processi manifatturieri spesso antichi di secoli, la teorizzazione dello sviluppo locale sembra aver preso una direzione comunitarista e volontarista che
trova il suo culmine nella svolta territoriale dello sviluppo locale (Dematteis e
Governa, 2005). L’esito è quello della caduta in ciò che lo studioso di pianificazione urbana e regionale Mark Purcell ha chiamato la «trappola locale», vale a
dire la credenza che la scala locale implichi automaticamente una valenza quasi morale di coincidenza tra valori comunitari e traiettorie di sviluppo. Il rischio,
per riprendere una delle categorie marxiane più note, è di (ri)produrre un dispositivo feticistico. Nelle Diciassette contraddizioni, Harvey dedica poche ma
illuminanti pagine iniziali al ruolo del feticismo nel capitalismo contemporaneo. Nelle sue parole: «Con feticismo, Marx voleva indicare le varie mashere, i
travestimenti e le distorsioni di quello che accade realmente intorno a noi»
(Harvey, 2014, p. 4).
In altri termini, l’idea di feticismo rimanda a una reificazione – a una cristalizzazione e insieme a una naturalizzazione – di relazioni che vengono oggettivate
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e si sostituiscono, nel percepire collettivo, ai reali rapporti di potere che soggiacciono ai processi produttivi. In questo senso, Harvey riprende il concetto di feticismo a proposito dell’innovazione tecnologica: «La cultura capitalistica è diventata ossessionata dal potere dell’innovazione. L’innovazione tecnologica si è trasformata in un oggetto feticcio del desiderio capitalista» (Harvey, 2014, p. 102).
Qualcosa del genere, possiamo ipotizzare, rischia di accadere anche con
concetti come luogo, territorio, capitale sociale/territoriale e comunità in riferimento ai processi di sviluppo locale e territoriale (Giaccaria, 2009). Nel momento in cui questi concetti vengono sganciati da processi reali di produzione,
quando viene cioè a mancare una microfondazione empirica che guidi il passaggio dall’individuale al collettivo (vale a dire dal singolo attore al sistema territoriale assunto come attore collettivo), essi rischiano di diventare un feticcio dietro cui vengono occultati quei rapporti di potere che pure sono costitutivi della
territorialità stessa e dei processi di territorializzazione (Raffestin, 1985). Dal
punto di vista di chi scrive, è proprio questa possibilità di trasformare il
luogo/territorio, i rapporti di genere, l’ambiente, la povertà stessa in un feticcio,
a rendere possibile la diciottesima contraddizione di cui Harvey non parla, vale
a dire la cooptazione di ogni investigazione alternativa all’interno dell’ortodossia
neoliberista. È difficile, forse impossibile, organizzare sentieri di sviluppo che
tengano insieme radicamento territoriale e competitività sovralocale. Certamente
un ripensamento critico delle categorie e delle fantasie di cui la riflessione sullo
sviluppo locale e territoriale – e più in generale la geografia economica italiana
– si è nutrita è un passaggio che difficilmente potrà essere eluso, se davvero desideriamo una via d’uscita dalla nostre contraddizioni.
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THE EIGHTEENTH CONTRADICTION AND THE END OF LOCAL DEVELOPMENT. –
The seventeen contradictions may be the most structuralist among Harvey’s work. It is no
coincidence that the author reiterates that he does not deal with the contradictions of
capitalism but of capital itself. This essentialism is not without consequences for our
analysis, since it also affects the geographical concepts that Harvey unfolds to interpret
the contradictions of capital. Strictly speaking, only the eleventh contradiction is inherently and explicitly spatial. What is most striking is the superficiality with which Harvey
deals with the concepts that revolve around the imaginary of place, a term largely missing from the Seventeen Contradictions. Proper use of «place» as a geographical concept is
reduced to about ten occurrences. Something similar happens of course for the corresponding adjective «local»: Harvey privileges «regional» over «local». His account of the regional dimension of the economy is almost disarming. Not only: his reading of the regionalization of economic processes seems to ignore the geographical political economy,
largely inspired by him. This contribution aims to display his notion of «contradiction of
capital» to assess how neoliberal capitalism has incorporated the discourses and practices
of local economic development, e.g. in the light of a program called Local Economic and
Employment Development (LEED) in the OECD, established in 1982. From this perspective, the eighteenth contradiction of capital (its capability to feed incessantly of what is
other or even opposite to itself) comes to coincide, in a sense, with the first contradiction
of local economic development and, more generally, of all critical thinking. In the final
section of the article, in particular, I return to the Seventeen Contradictions looking for
454 Paolo Giaccaria
some ideas of interpretation that allows to reflect critically on the cooptation of local development issues into neoliberal narratives and practices. Certainly, a critical rethinking
of the categories and the fantasies that nurtured local and territorial development is a
step that is unlikely to be circumvented, if we want a way out of our contradictions.
Università di Torino, Dipartimento di Scienze Economico-Sociali e Matematico-Statistiche
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