ePPur SI ScrIve - In Biblioteca Treviglio

Transcript

ePPur SI ScrIve - In Biblioteca Treviglio
PIccoLA AnToLoGIA DI TeSTI DAL corSo
"ePPur SI ScrIve"
Giuliana Annesi
Marina Arnozzi
Armanda Belletti
Laura F.
Daniela Invernizzi
Sara Maffioletti
Marino Polgati
Stefano Spagnuolo
Fiorenza Torri
A cura di Giuliana Salerno
STorIe DALL’AuLA
Piccola antologia di testi dal corso “eppur si scrive”
Settembre 2011
con il patrocinio del comune di Treviglio - Assessorato alla cultura
copertina e impaginazione: Paolo casirati
coordinamento di redazione: Giuliana Salerno
Tutti i diritti riservati.
vietata la vendita
Il file dell’antologia è scaricabile dal sito - http://www.comune.treviglio.bg.it
–2–
A cura di
Giuliana Salerno
Giuliana Annesi
Marina Arnozzi
Armanda Belletti
Laura F.
Daniela Invernizzi
Sara Maffioletti
Marino Polgati
Stefano Spagnuolo
Fiorenza Torri
–3–
Prefazione
di Daniela Ciocca
Assessore alla Cultura nell’Amministrazione Borghi....pag.05
Introduzione
di Giuliana Salerno
docente del corso “Eppur si scrive” .........................pag.06
S T O R I E D A L L’AU L A
Tommy
di Giuliana Annesi ............................................ pag. 09
La gara
di Marina Arnozzi .............................................. pag. 13
Sono stata una clandestina
di Armanda Belletti ............................................pag. 17
Pezzettini di me
di Laura F. ........................................................ pag. 20
Senza senso
di Daniela Invernizzi........................................... pag. 22
Laura
di Sara Maffioletti .............................................. pag. 28
L’uomo e l’abitudine
di Marino Polgati................................................ pag. 37
Il premio
di Stefano Spagnuolo .......................................... pag. 39
Azzurro
di Fiorenza Torri................................................. pag. 44
–4–
di Daniela Ciocca
Non credo che sia stata la mia storia professionale a farmi accalappiare subito dalla proposta di
un corso di scrittura di base organizzato dalla Biblioteca. Nella concezione di servizio culturale
nella quale mi riconosco, una biblioteca deve prioritariamente intercettare le esigenze dei suoi
utenti e, nel caso, sollecitare la loro emersione.
Credo che l’esigenza di scrivere, e di scrivere bene, sia diffusa. Credo sia un bisogno cui si debba
rispondere. Credo corrisponda al piacere/necessità di comunicare, di leggersi dentro, di ritrovare
nelle storie individuali storie di più ampio respiro. Credo sia una forma di autoconoscenza, e
anche una terapia della solitudine e un formidabile strumento di indagine. Credo sia, in tempi
di devastazione del senso e del significato delle parole, addirittura un’operazione etica di grande
civismo.
Parole grosse per un corso della durata di una manciata di lezioni. Ma parole dovute. “Eppur si
scrive” è stato l’inizio di una strada e di un percorso. Spero possa continuare. Riproponendosi.
Magari ampliando la proposta di scrittura anche ad altre forme testuali. C’è bisogno di ridare vigore e rigore, onestà e senso alle parole.
Anche la scrittura narrativa può fare la sua parte: il patto del narratore con il suo pubblico di
lettori è pur sempre un patto da onorare, come molto spesso non fanno altri tipi di scrittura e di
scrittori.
Non sta a me indagare i motivi per cui si fa la scelta della scrittura. Sta a me – anzi, a quelli che
sono chiamati a svolgere un ruolo come quello che ho svolto io negli ultimi tre anni – il dovere
di creare le opportunità necessarie per accompagnare e sorreggere questa scelta. Giuliana Salerno ci ha dato una mano – e che mano – a questo scopo. La ringrazio.
Ad maiora
Giugno 2011
Daniela Ciocca
Assessore alla Cultura nell’Amministrazione Borghi
–5–
di Giuliana Salerno
“Le fiabe non dicono ai bambini che esistono i draghi:
i bambini già sanno che esistono.
Le fiabe dicono ai bambini
che i draghi possono essere sconfitti.”
G.K. Chesterton
C’era una volta il piacere di sentirsi raccontare una storia. Quando eravamo piccoli, i personaggi
ci incantavano dalle pagine dei nostri primi libri. I loro problemi diventavano i nostri, alle loro
domande cercavamo di rispondere noi. Quando si sentivano soli e traditi, avremmo dato chissà
cosa per entrare nel loro mondo e abbracciarli. In quell’abbraccio avremmo messo la nostra gratitudine per quanto ci avevano già dato: emozioni, speranze, sfide, sogni, desideri. Tutto quello che
ci sarebbe, poi, servito da adulti.
Nel tempo, le storie sono diventate storie “da grandi”. I personaggi sono cambiati, e anche noi;
ma il dialogo con loro non si è mai interrotto. La lettura è un gioco che continua da adulti.
Infatti, se l’autore ha lavorato bene, se è stato capace di scomparire dietro le storie che ha inventato, la magia torna a prendere forma ogni volta. Come ci accadeva da bambini, dimentichiamo
che quella è “finzione”; la nostra mente si immerge in nuovi mondi, modificandoli e reinventandoli.
La pagina del libro resta uguale a sé stessa, ma ogni lettore può trasformarla in qualcosa di diverso.
Da questa abitudine a frequentare trame e personaggi deriva probabilmente, per molti di noi, la
“voglia di raccontare una storia”.
Magari tutto ha inizio perché un’idea continua a girarci in testa e a un certo punto sentiamo
che dobbiamo trasferirla su un foglio bianco, farla vivere e vedere dove ci porta.
Ci sediamo e ci mettiamo a scrivere. E ci prendiamo gusto! Le storie iniziano a moltiplicarsi e a
ramificarsi. Appena possiamo, “scatta” la mezz’ora di scrittura: un tempo sospeso in cui perdersi,
ritrovarsi, creare momenti di pace e di passione.
Ma l’uomo è fatto per condividere ciò che gli dà gioia. Non c’è gusto a suonarsela e cantarsela
da soli. E allora, ecco ci mettiamo in cerca di nostri “simili”: persone che, per varie ragioni, sono
accomunate dal piacere di scrivere. Queste creature affini sono tra noi: al supermercato, negli
uffici postali, nei parchi cittadini. È facile intercettarle nelle librerie e nei caffè letterari. E le si
incontra ai corsi di scrittura. Su questi ultimi, in particolare sull’esperienza che ha portato al libro
che state leggendo, ci soffermiamo un attimo.
–6–
Molto può rimanere di un corso di scrittura: la scoperta di autori che non si conoscevano, la nascita di nuove amicizie, il piacere di creare dal nulla un racconto o una poesia. E molto può andare
disperso: appunti che non verranno letti mai più, abbozzi di storie che nessuno proverà a scrivere,
la disponibilità a cimentarsi tutti i giorni, anche quando – per citare il titolo di un libro – scrivere
è “una fatica nera”.
Storie dall’aula è una raccolta di scritti che ha lo scopo di fissare nero su bianco una parte dell’esperienza del corso “Eppur si scrive” svoltasi a Treviglio tra febbraio e maggio 2011. Gli autori
di questa breve antologia sono i corsisti che hanno accettato di mettersi in gioco legando il proprio
nome al percorso formativo e, più concretamente, al loro racconto. Pur non essendo questa una
pubblicazione destinata alla vendita e alla distribuzione, si può intuire come l’impegno dedicato
sul piano tecnico ed emotivo sia comunque più intenso quando si è consapevoli che il frutto del
proprio lavoro uscirà dagli appunti di un corso per diventare “pubblico”.
Della costanza, della partecipazione entusiasta, della fiducia che ho percepito in aula per la durata del corso voglio ringraziare tutti gli allievi; sono grata al Comune di Treviglio e, in particolare,
a Daniela Ciocca, che sin dall’inizio ha sostenuto e accompagnato questo progetto; e ai collaboratori
dell’ufficio cultura e della biblioteca di Treviglio.
Vi lascio alla lettura di questi scritti, tutti diversi l’uno dall’altro per stile, tono, linguaggio, argomenti, ispirazione. Sono storie di solitudini che si incontrano, di amori sfuggenti, di impiegati
di banca in vacanza, di sguardi che trovano ristoro nell’azzurro del mare.
Troverete che alcune storie sono davvero ben riuscite; tutte testimoniano il lavoro che è stato
svolto in aula e a casa e che continua oltre il corso, nelle nostre e-mail, sul blog http://eppursiscrive.blogspot.com e nell’auspicio che l’esperienza di “Eppur si scrive” possa presto rinnovarsi.
Giugno 2011
Giuliana Salerno
Docente del corso di scrittura creativa “Eppur si scrive”
E-mail: [email protected]
–7–
–8–
Tommy
di Giuliana Annesi
Era carico di borse e borsoni. Trascinava anche un grosso trolley.
Suonò alla porta e gli aprì una bella ragazza dai capelli lunghissimi. Le sorrise.
“Ciao, io sono il nuovo inquilino.”
Lei non ricambiò il sorriso, si scostò dalla porta dicendogli di entrare, poi si voltò verso l’interno
dell’appartamento e urlò: “Andre’, c’è quello per la stanza di Tommy!”.
Poi si volse verso di lui e gli disse: “Scusa, ho su il sugo”. E lo mollò nell’ingresso con tutte le sue
borse.
“Arrivo!” Andrea si materializzò quasi subito. Sorridendo, gli diede una pacca sulla spalla che reggeva il borsone più pesante.
“Bella Ste’, ce l’hai fatta.”
Stefano annuì con la testa. “Già, quaranta minuti di ritardo, il Frecciarossa, ma ce l’ha fatta.”
“Ti aiuto a portare in camera tua ’sta roba, ma che ti sei portato, la casa?”
Andrea afferrò la maniglia del trolley e lanciò un urlo verso la cucina.
“Sara, conta pure Ste’ per la pasta! Ceni con noi, vero?”
“Grazie, sto morendo di fame.”
Rimasto solo nella sua nuova camera, Stefano mise il trolley in un angolo e aprì l’armadio. Dentro,
c’era una valigia tutta colorata. La tirò fuori, riponendo al suo posto il borsone. La valigia era di
cartone, riportava su ogni lato adesivi con personaggi dei cartoni animati, figurine di calciatori,
disegni stilizzati, simboli, scritte, pasticci. Uscì dalla camera con la valigia in mano e trovò subito
la cucina. La ragazza che gli aveva aperto era di spalle, ai fornelli, mentre Andrea stava commentando un testo dattiloscritto con un’altra ragazza, mora e riccioluta.
“Scusate, ho trovato questa nell’armadio. È vostra?”
I tre guardarono prima lui e poi la valigia. Andrea scoppiò a ridere.
“Incredibile! Tommy ci ha lasciato la sua valigia dei giochi! Da’ qua.” Si alzò, gliela prese di mano
e la posò sul tavolo, dandole qualche colpetto prima di aprirla.
Scoppiò di nuovo a ridere mentre estraeva due oggetti: un binocolo da teatro e una papera di
gomma.
–9–
“Ehi, ma ve li ricordate questi?!”
Anche le due ragazze si misero a ridere. Stefano li guardava incuriosito. Andrea intercettò il suo
sguardo.
“Siediti Ste’, che ti racconto.”
“Qua la pasta scuoce. Anna, mi aiuti?” disse la cuoca alla riccia.
“Ok.”
“Intanto ti presento. Sara la conosci già,” disse Andrea indicando la ragazza che gli aveva aperto
e che adesso stava scolando la pasta nel lavandino d’acciaio. La sua amica reggeva uno scolapasta
di plastica rossa. “Lei invece è Anna, la mia ragazza.”
“Piacere, Stefano”
“Piacere.”
“Ciao, Stefano, benvenuto in questa gabbia di matti.”
“Il più matto era Tommy, il tuo predecessore e il padrone della valigia,” precisò Andrea.
“Racconta, mi hai incuriosito.”
Sara, nel frattempo, stava facendo saltare la pasta in padella. Anna le passò i piatti e man mano
che furono pronti, ne porse uno a Stefano e uno ad Andrea, poi si sedette con il suo. Sara fece la
propria porzione e li raggiunse a tavola.
“Passa il formaggio, Anna. Allora, Tommy è un glorioso fancazzista. Si è iscritto all’università per
farsi mantenere dai genitori nella Capitale. I suoi li ho conosciuti quando sono venuti a darmi la
caparra per l’appartamento, due paesani fatti e finiti che sognavano il figlio dottore. Avrebbero
fatto di tutto per il loro bambino. Lui invece si vedeva che mordeva il freno, mai visto uno più irrequieto. Penso che i suoi l’abbiano accontentato pur di non perderlo. Speravano che di tanto in
tanto si sarebbe fatto vivo, almeno a batter cassa. Uhm, bona, bella piccante, ti piace Ste’?”
“È un po’ forte, ma è buona, mi sa che mi devo abituare.”
“Eh già, al nord mangiate sciapo e senza peperoncino, pulentun! Vabbe’, comunque che stavo a
di’?”
“I genitori di Tommy...”
“Sì, loro avevano chissà quali ambizioni ma il figlio era un caciarone, sempre a fa’ casino. E ce
tirava dentro pure a noi! Una volta ci ha convinto a imbucarci in un laboratorio di birdwatching
organizzato dalla Facoltà di Scienze… Beh, non s’è mica presentato con il binocolo da teatro e la
papera di gomma? Dovevi vede’ la faccia del professore quando Tommy ha iniziato a schiacciare la
papera e queek queek, queek queek come un matto, con quel binocolo sulla faccia e a sbraitare
con la erre moscia che lì di uccelli non ce n’evano e che voleva indietvo il pvezzo del biglietto! Un
– 10 –
casino tale ha fatto che gli uccelli sono di sicuro migrati anche se era primavera! Oh, che c’è de
secondo?”
“Secondo?!” trasecolò Anna, “Che nun c’o sai ch’er frigo è vuoto? Stiamo tutti a secco.”
“A proposito,” intervenne Stefano “ti devo ancora dare i soldi dell’affitto…”
“Ste’ te sei la manna dal cielo! Oh, poi qui mettiamo un tot per la spesa, ma se preferisci gestirti
da te, te lasciamo un pezzo de frigo e te arrangi come te pare.”
“No, no, Andrea, mi va bene dividere i pasti con voi, anche perché non so cucinare e finirei per
vivere di panini.”
“Ahò, ciccio,” saltò su Anna, “stasera sei ospite ma se salti la cucina ti tocca il doppio turno per
i piatti!”.
“Va bene, va bene, non ti preoccupare, con i piatti me la cavo! Quindi, anche tu e Sara abitate
qui?”
“No, solo io, Sara dorme al pensionato ma è spesso qua, studiamo insieme.”
Anna andò al lavabo e Sara iniziò a sparecchiare portandole piatti e posate. In un angolo della tovaglia era rimasta la valigia aperta, di fianco la papera di gomma e il binocolo. Sara stava per rimettere gli oggetti nella valigia quando Andrea gliela prese di mano.
“Da’ un po’ qua. Vediamo che altro c’è. Ah! Sare’, te lo ricordi questo? Eccome no! Avoja se te lo
ricordi!”
“Cretino!” lo insultò Sara, e raggiunse Anna al lavabo dove si mise ad asciugare con foga la pentola
e la padella lasciate a sgocciolare, riponendole poi nel pensile malconcio. Anna le lanciò uno
sguardo e poi si voltò di nuovo a sciacquare i coltelli che aveva in mano.
“Cos’è?” Stefano si avvicinò ad Andrea per guardare cosa aveva in mano. Era un libro, un libro per
i massaggi.
“Questo è un rimorchiatore. Nel senso che Tommy ci rimorchiava alla grande. Girava in facoltà e
tampinava le ragazze, raccontava che stava facendo un corso come massaggiatore e offriva massaggi
gratis per poter far pratica. St’impunito s’era letto qualche capitolo qua e là e sfoggiava termini
tecnici come un professionista. Chiedilo a Saretta, c’ha provato così pure con lei.”
“Ma funzionava?”
“Stai a scherza’? Eccerto che funzionava! Ma mica per il libro, perché lui è troppo simpatico e le
donne sa farle ridere e poi è pure un bel ragazzo, alto e ben piazzato, faceva nuoto semi-agonistico.”
“Ma scusa, ’sto Tommy ha trovato un altro appartamento?”
“Quello ha trovato l’America, altro che appartamento! Si è messo con la madre di un suo compagno
– 11 –
di corso, c’ha almeno vent’anni più di lui ma vedessi che ’bbona! Mo’ vivono insieme nella villa di
lei, è una mezza cinematografara, ’na produttrice o qualcosa di simile, si sono messi in testa che
farà l’attore e gli sta pagando un corso di recitazione. Certo, con quella lingua! Uno di ’sti giorni
ce lo vedemo in tv a fare ’na soppopera!”
“Io vado,” disse Sara prendendo un giacchino in jeans dalla sedia e uscendo dalla cucina.
“Sara, dai…” disse Anna. Subito dopo si sentì sbattere la porta d’ingresso.
“Che gl’ha preso?” chiese Andrea ad Anna.
“Ma sei scemo? Non c’o sai che ancora ce sta male? E poi sto mese è pure in ritardo col ciclo… Io
le vado dietro, se non torno ti chiamo poi.”
“Vabbe’..”
“Ciao Stefano.”
“Ciao Anna.”
Anche Anna prese la giacca ed uscì.
I due ragazzi si guardarono, Stefano era un po’ imbarazzato e si vedeva. Andrea andò al frigorifero
e, aprendolo, gli chiese: “Ti va ’na birra? Ce spartiamo l’ultima.”
Sul racconto
Il racconto nasce da un esercizio che consisteva nel creare un personaggio, e possibilmente una storia, basandosi sui
nomi di tre oggetti estratti a caso. A me sono capitati “binocolo”, “papera di gomma” e “manuale per massaggi”. Il
binocolo mi ha subito fatto venire in mente il birdwatching e ho pensato che sarebbe stato buffo mettere una papera di
gomma all’interno di un serio avvistamento di volatili. Il mio personaggio doveva essere un tipo pronto allo scherzo,
goliardico. Ho visualizzato un college inglese o americano, ma poi ho optato per ambientare la vicenda in Italia, a
Roma e ho fatto in modo che fossero i suoi amici e i suoi oggetti a raccontare la storia del protagonista, ormai migrato
verso altri lidi, e a tratteggiarne il carattere.
Giuliana
L’autrice
Giuliana Annesi, nata a Milano, dove tuttora lavora, ha scelto di vivere a Treviglio, con suo marito, diciotto anni fa.
La vita da pendolare le assicura almeno due ore al giorno di lettura e scrittura itineranti, a bordo di imprevedibili
treni.
Il sabato caracolla per le strade del centro della sua “nuova” città sulla sua vecchia bici e si sente come se fosse in
villeggiatura.
Attraversa la vita cercando visioni originali da mettere su carta. Spera che un giorno potrà apprezzarle e condividerle
quella che considera la sua lettrice ideale: sua figlia.
– 12 –
La gara
di Marina Arnozzi
– Forza, dormiglione, è ora di alzarsi, tra poco arriva lo scuolabus e devi ancora lavarti, vestirti e
fare colazione! – Queste parole della mamma, accompagnate da un bacio, svegliano Marco tutte
le mattine.
– Dai! Ancora cinque minuti, – è la sua risposta mentre si raggomitola nel letto cercando di trattenere il bel calduccio lasciato dal suo corpo.
Poi, ancora insonnolito, si alza e compie come un automa tutte quelle azioni che si fanno di solito;
per ultimo s’infila lo zaino ed esce sull’aia ad aspettare lo scuolabus. Marco abita in una cascina
sperduta nella campagna della pianura padana, che dista circa quattro chilometri dal paese. Roberto
è l’autista che lo viene a prendere ogni giorno per portarlo a scuola, sin da quando aveva tre anni.
Ora Marco frequenta la classe quarta. È il primo bambino a salire e l’ultimo a scendere, e quei
pochi minuti in cui lui e l’autista restano soli hanno contribuito a creare una bella amicizia.
Quel lunedì mattina lo scuolabus è in ritardo.
– Ha telefonato Roberto, è ammalato e per questa settimana non verrà a prenderti, – dice la
mamma affacciandosi sull’uscio di casa. E aggiunge: – Accipicchia! Proprio stamattina che non
posso accompagnarti, la macchina ha una gomma a terra. Come facciamo? Mi sa che oggi devi
stare a casa. –
– Potrei andare in bicicletta… Tu mi hai raccontato che quando eri piccola facevi tutti i giorni la
stessa strada in bici per andare a scuola… –
– Sì! Ma erano altri tempi, – replica la mamma. – Oggi non vai a scuola! –
– Io non capisco, tu avevi la mia stessa età e potevi farlo, perché io non posso? –
– Perché c’è molto più traffico, e ci sono in giro tante persone strane… Non insistere, Marco, non
puoi e basta! –
– Le persone strane ci sono sempre state, – brontola Marco. – Forse la differenza è che la tua
mamma si fidava di te mentre tu non ti fidi di me. –
A queste parole, la mamma ritorna con la mente ai giorni in cui era bambina e con la sua bicicletta
rossa andava a scuola. Allora non c’era lo scuolabus e tutti i bambini uscivano di casa da soli,
anche quelli che abitavano lontano. Ricorda, con un brivido, il freddo delle mattine d’inverno, il
vapore che le usciva dalla bocca mentre pedalava affannata per arrivare in orario, le mani gelate
strette al manubrio e, nei giorni di pioggia, le gocce d’acqua che le entravano nel collo da un buchetto sul cappuccio della mantella di gomma gialla. Poi ricorda con un sorriso le giornate di pri-
– 13 –
mavera, fresche all’andata e calde al ritorno, i colori bruciati della campagna in autunno. Ma, soprattutto, ricorda il vento di aprile che, sospingendola da dietro, le dava la sensazione di avere le
ali come gli uccelli. In quelle giornate ventose, tenendosi al manubrio, allargava le gambe e gridava: “Voloooo…”. E, sull’onda di questi ricordi, pensa: – Forse non è giusto privare Marco di
questa esperienza, dopotutto è solo per un giorno… –
– Va bene, prendi la bici e vai, mi raccomando, stai attento! –
E Marco, contento, si avvia con la sua mountain bike. Percorre a tutta velocità il tratto di strada
tra i campi e arriva al punto in cui si deve immettere sulla provinciale che porta al paese. Con attenzione attraversa e comincia a pedalare soddisfatto e guardandosi intorno. La strada di tutti i
giorni sembra molto diversa, percorsa con la bicicletta. Vede alcuni fiori gialli che crescono sulle
rive del fosso, e che non aveva mai notato; sente il fruscio dell’erba mossa dal vento o da qualche
animaletto, ascolta il gracidare di alcune rane nascoste, nota anche le bottigliette di plastica e
l’immondizia gettata sul ciglio della strada da qualche automobilista maleducato…
A un certo punto, un’ombra passa accanto a lui sopra le spighe nel campo. Una sagoma che lo affianca per un tratto e poi lo supera velocemente come una freccia scagliata. Marco non la distingue.
– Forse è un animale, – pensa – perché non può essere altro che un animale… forse un uccello…
–
A scuola, quella mattina, Marco fatica a concentrarsi. La sua mente è impegnata a cercare di definire ciò che ha visto: un colore bruno-rossiccio, una forma a S… Il tempo sembra non passare
più. Finalmente suona la campana e lui si avvia pedalando veloce sulla strada di casa, scrutando
i campi a destra e a sinistra, ma… nulla. Arriva a casa un po’ deluso. Poi riflette che l’incontro è
avvenuto al mattino: forse a quell’ora l’animale si è appena svegliato e va in cerca di cibo, quindi
è più facile incontrarlo.
La mamma lo aspetta, un po’ in ansia, all’inizio della loro strada.
– Marco, tutto bene? –
– Ciao, mamma! Certo che tu eri proprio fortunata, è bellissimo andare a scuola in bicicletta! Posso
farlo per tutta la settimana? Poi da lunedì prossimo tornerà Roberto a prendermi… –
Un sorriso spunta sul viso della mamma. Un altro le si apre dentro: questo bambino è proprio com’era lei alla sua età…
– Va bene, Marco, ma solo per questa settimana, sospira rassegnata.
La mattina seguente, Marco decide di partire qualche minuto prima. Si prepara veloce, inforca la
bicicletta e via, in un baleno percorre il tratto che lo separa dalla provinciale, attraversa e rallenta.
Dopo pochi istanti un’ombra lo affianca e lo supera, proseguendo dritta e veloce. Marco si ferma,
mette una mano sulla fronte per schermare il sole, cercando di vedere. All’improvviso la sagoma
– 14 –
vira e, compiendo un giro, ritorna, punta verso di lui, gli passa accanto e se ne va. Il cuore del
bambino batte forte: Marco ha visto che è un uccello, ma non è riuscito a identificarlo. Il suo
corpo è lungo, sottile e dritto, proprio come una freccia con due grandi ali. Riprende a pedalare
veloce, non vuole fare tardi.
Appena arrivato a scuola, racconta a Giorgio, il suo migliore amico, l’incontro di quelle due mattine…
– Sicuramente possiamo scoprire di che uccello si tratta. Durante l’intervallo chiediamo alla maestra
il permesso di andare in biblioteca e cerchiamo tra le immagini sui libri finché non lo troviamo, –
suggerisce Giorgio.
E così, nell’intervallo si ritrovano in biblioteca con numerosi libri da sfogliare. Ma il tempo a disposizione è scarso, e Marco non ha visto bene l’animale…
La mattina dopo, la mamma rimane stupita perché, quando entra nella sua camera per svegliarlo,
Marco si è già vestito e lavato, ma lui gliene dice il motivo: teme che voglia accompagnarlo.
Dopo colazione prende la bici e, velocemente, raggiunge la strada provinciale, la attraversa e comincia a pedalare adagio. Vedendo l’ombra che lo affianca, Marco si ferma, l’uccello rallenta, vira
e compie due giri lenti intorno a lui. Gli occhi di Marco, questa volta, riescono a fotografare l’animale; il bambino riprende a pedalare e l’uccello gli vola accanto fino al cartello che indica l’inizio
del paese; poi inverte la rotta, mentre Marco prosegue fino a scuola.
Nell’intervallo lui e Giorgio vanno in biblioteca e Marco questa volta, tra le immagini dei libri, riconosce l’uccello: è uno splendido airone rosso. Con curiosità i due amici leggono le notizie e apprendono che è un uccello migratore che sverna in Africa e, in primavera, torna in varie zone
dell’Italia fra cui la pianura padana, dove costruisce il suo nido tra la vegetazione vicino a specchi
d’acqua dolce. Marco pensa immediatamente al grande fosso che corre lungo la strada provinciale
dove ha incontrato il “suo” airone, ed è contento di sapere che abiti così vicino a lui.
Il giorno dopo, il bambino è più sicuro di sé, e quando prende la provinciale e appare l’ombra, è
lui a prendere l’iniziativa: comincia a pedalare e poi, a più riprese, si ferma. L’uccello, a fianco, lo
imita: vola e rallenta fino quasi a fermarsi. Marco aumenta la velocità e l’airone fa lo stesso, finché
tra i due inizia una sorta di gara che termina al solito cartello; a quel punto l’animale vira e torna
indietro. Marco è felice perché si sono intesi, ma quello è stato solo un di allenamento. Ora gli
piacerebbe fare una vera gara, e deve essere la mattina dopo, che è l’ultimo giorno in cui andrà a
scuola in bicicletta. La sera si addormenta sperando che si esaudisca il suo desiderio.
La mattina seguente saluta la mamma con un grande sorriso:
– Oggi forse vincerò! – E la mamma, che non sa nulla dell’airone, pensa ad una gara di matematica
o grammatica.
– In bocca al lupo, – gli augura.
– 15 –
Marco si porta sulla strada provinciale e lì, appollaiato tra le spighe, ecco l’airone che sembra in
attesa. Quando vede il bambino, si leva in volo e compie tre cerchi sopra di lui. Poi i due sembrano
allinearsi: il bambino sulla terra e l’uccello in aria, a fianco del vecchio cippo miliare che segnava
il confine tra due comuni. Ad un via immaginario, dato dal bambino con un cenno della testa,
partono contemporaneamente.
Marco pedala il più velocemente possibile, mentre l’airone sembra una freccia scagliata da un arciere verso il cartello stradale. Il bambino comincia ad ansimare per lo sforzo, l’uccello rallenta in
modo impercettibile fino a lasciarsi sorpassare e Marco, per primo, raggiunge e tocca il cartello
che segna il punto d’arrivo. Esulta per la vittoria, ma subito dopo un pensiero lo attraversa: “Mi
ha lasciato vincere”.
I due si guardano, il bambino accetta la vittoria come il prezioso regalo di un amico, lo saluta con
la mano e si avvia a scuola, mentre l’airone vola sopra di lui e gli risponde con uno stridio.
Quando Marco torna a casa, nel pomeriggio, c’è anche il papà ad attenderlo.
– Com’è andata la gara, hai vinto? –
– Ho vinto un amico, – risponde Marco con un sorriso, e racconta la sua avventura. Poi, pensando
a ai compagni di scuola Roberto e Giorgio, desidera che arrivi presto lunedì per poterla raccontare
anche a loro.
Sul racconto
Ho deciso. Basta automobile, vado a lavorare in bicicletta!
Con questo pensiero in testa, la mattina dopo, percorro i sette chilometri che mi separano dal paese dove, tutti i giorni,
mi reco per lavoro. E inizio un’esperienza incredibile: rumori, colori, odori, ricordi, emozioni dimenticate riaffiorano.
Mi accompagnano per tutto il tragitto e ogni giorno si rinnovano. Da questo tuffo senso-percettivo emerge una sagoma
indistinta che mi si affianca per un tratto: io sulla strada e lei nel campo. L’appuntamento si rinnova per tre volte. È
l’invito a partecipare a una gara.
Marina
L’autrice
Marina Arnozzi insegna in una scuola dell’infanzia e, da sempre, ha la passione per la letteratura. In particolare predilige quella che si rivolge ai bambini fino a sei anni, nella quale parole e immagini si fondono. Ciò permette ai
bambini di leggere tramite le illustrazioni e di creare, sulla base di queste, nuove storie. Insieme ai suoi piccoli allievi,
Marina ha cominciato a inventare storie.
– 16 –
Sono stata una clandestina
di Armanda Belletti
Sono stata una clandestina. Proprio così, a undici anni da poco compiuti e per sei mesi, ho fatto
questa esperienza per nulla piacevole. Tanto più, a un’età nella quale si prende tutto molto sul
serio. Per sei mesi sono vissuta guardando fuori da una finestra, cercando di non farmi troppo vedere e con la paura che arrivasse la polizia a mandarmi via.
Dopo sei mesi, appena la burocrazia me lo permise, fui iscritta a scuola, che era di lingua tedesca.
Io spiccicavo appena alcune parole, ma mi aiutava una buona mimica.
Quello che vi racconterò è il mio impatto con l’accoglienza svizzera il mio primo giorno di scuola.
Il maestro che mi accolse – ricordo ancora il suo nome, “Herr Schultz” – era un uomo corpulento
e con una grande pappagorgia, ma simpatico e bonaccione. Ci piacemmo subito, fece di tutto per
farmi sentire a mio agio. In seguito mi accorsi che non sarebbero stati tutti così. Mi fece sedere
vicino a due bambine che avrebbero dovuto essere i miei angeli custodi, Kati e Susy. Mi piacerebbe
descrivere tanti particolari, ma il tempo non me lo concede, perciò arrivo al dunque.
Poco tempo dopo suonò la campanella ed ebbe inizio la ricreazione. Io mi tenni stretta ai miei
due angeli e, un po’ stordita, iniziai a scendere lo scalone che portava nel cortile della scuola, cercando di non farmi travolgere dalla marea di ragazzini.
Arrivata giù, mi accorsi che il cortile era molto grande. C’era un prato con diversi alberi di mele;
le mele, in Svizzera, sono dappertutto, ecco perché Guglielmo Tell ne scelse una come bersaglio:
allungò una mano e prese la prima cosa che trovò.
A un certo punto, cominciarono a formarsi dei gruppi e si iniziò a giocare. Kati e Susy non ebbero
molte difficoltà a farmi capire che si giocava a nascondino.
Io scelsi di nascondermi dietro a un muretto e mi piegai per non farmi vedere. Mi stavo sistemando
per bene, quando qualcuno, ispirato evidentemente dalla mia posa, mi assestò un micidiale calcio
nel sedere, facendomi cadere rovinosamente in avanti. Mi voltai a guardare: era stato un tipetto
dall’aria angelica, i capelli a caschetto color del lino e gli occhialini tondi. Un coro di risate accompagnò la mia caduta.
Io non sono mai stata brava a picchiare, ma forse l’orgoglio ferito, forse l’istinto, mi portarono a
reagire di scatto e a colpirlo con la cartella, dalla quale non mi ero ancora separata. L’impatto fu
fulminante, il biondino fu preso alla sprovvista mentre ancora rideva gloriandosi della sua impresa,
e la cartellata in piena faccia tramutò il suo sorriso in pianto.
A quel punto si scatenò la “guerra delle mele”. L’esercito nemico, cioè quasi tutta la scuola, tranne
– 17 –
i miei due angeli e alcuni neutrali – che, trattandosi della Svizzera, non potevano mancare – mi
bersagliò di mele. Grazie al cielo, i frutti erano quelli caduti, per cui meno duri; anzi, alcuni erano
proprio marci, riducendomi in uno stato che potete immaginare.
I più colpiti nella battaglia fummo naturalmente io e il biondino che intanto tenevo saldamente
per i capelli, sperando che, se non avevano pietà per me, ne avessero almeno per lui. Illusione!
Fummo liberati solo dal suono della campanella che decretava la fine della ricreazione.
Quello fu il mio primo impatto, è il caso di dirlo, con il mio status di “cingali”. Così, infatti, sono
chiamati gli italiani in Svizzera; non è un vezzeggiativo, anche perché spesso viene accompagnato
da uno sputo per terra. Su cosa significhi questa parola, ci sono due scuole di pensiero. Alcuni
propendono per una storpiatura di “zingari”, altri la fanno discendere dal gioco della morra, allora
molto praticato dagli operai italiani, “cinq cinq ses mora”. Comunque mi ci abituai, come del resto
hanno fatto i nostri meridionali con “terrone”. Dopo un po’, se subentra l’amicizia, diventa quasi
un nomignolo affettuoso.
Altre cose mi colpirono in Svizzera, fortunatamente in maniera meno letterale.
L’ora di religione, per esempio. Una parte della classe andava in un’aula e l’altra in un’altra. Scoprii
che i protestanti, che lì chiamavano “riformati”, esistevano davvero! E che erano più o meno come
me. Ma la cosa più sconvolgente era che i due preti, entrambi in pantaloni (per me era la prima
volta che vedevo un sacerdote indossare pantaloni: negli anni Cinquanta in Italia imperversava la
tonaca), scherzavano e ridevano tra loro, mentre aspettavano l’inizio della lezione.
Una delle cose che mi lasciò allibita fu la risposta che ricevetti a una fine argomentazione sostenuta davanti ai miei compagni. “Se gli italiani sono ‘cingali’”, dissi loro, “allora anche il Papa è un
‘cingali’”. Loro ribatterono che sì, non facevano sconti a nessuno: anche il Papa era un “cingali”!
Rimasi senza fiato; pensai che avevano un gran coraggio a sfidare i fulmini del cielo e che non
avevano neppure paura di andare all’inferno. Nello stesso tempo, tuttavia, mi sentii tranquillizzata:
in fin dei conti, ero in buona compagnia.
Come tutti gli emigrati, avevamo il problema della casa. Ad alcuni venivano affittati solai o scantinati; noi fummo più fortunati: condividevamo un appartamento di tre stanze con altre due famiglie. Una stanza – il soggiorno – era occupata dalla padrona di casa; cucina e bagno erano in
comune. Qui mi accorsi che eravamo “cingali” a seconda dei giorni e delle ore.
Non lo eravamo quando dall’Italia arrivava il cesto con salame, vino e parmigiano, che condividevamo alla sera, in giardino, anche con il genero della padrona di casa e la sua famiglia. E non eravamo “cingali” neanche il sabato pomeriggio fino alle cinque, cioè nelle ore in cui finivamo di
pulire l’appartamento, compresi soggiorno e scale rigorosamente in legno. E non era il legno che
abbiamo adesso nelle nostre case! Era un legno che andava pulito con la paglietta doga per doga
e poi lavato, incerato e lucidato. Un massacro, fatto in nome dei buoni rapporti internazionali.
– 18 –
Un giorno rimasi senza inchiostro per fare i compiti. Non essendoci la padrona di casa, pensai di
prenderlo in prestito dalla sua scrivania. Il genero, che abitava di sotto, sentì evidentemente dei
passi fuori orario, venne su scalzo per non fare rumore e mi sorprese con la refurtiva in mano.
“Cingali, cingali!”, mi aggredì all’improvviso facendomi quasi morire di infarto, “ladri!”.
Ma in Svizzera c’erano anche cose belle. Il cioccolato, per esempio. Dio, che goduria, ce n’era dappertutto quasi come le mele. Oppure le lezioni di botanica all’aperto nei boschi, che sembravano
quelli di Biancaneve e i sette nani, con i sentieri belli e ben tenuti, con piccole cataste di legno
ben allineate e piccole case sugli alberi dove si appostavano fotografi o pittori. E veramente mi
sembrava di sognare quando, andando per lamponi, incontravamo una famiglia di cerbiatti per
nulla spaventati.
La scoperta più bella la feci la sera di Natale. Ero stata invitata da una compagna di classe che
abitava in una bella casa ai margini del bosco. Dopo aver mangiato ed esserci scambiati dei piccoli
doni, ci vennero distribuiti dei bastoncini che qualcuno accese con dei fiammiferi. Si spensero le
luci e, mentre dai bastoncini scaturivano mille stelline, venne intonato il più celestiale canto che
avessi mai udito: “Stille Nacht, eilige Nacht…”.
A quel punto il mio cuore e tutto il mio essere furono invasi da un mistico amore universale, dove
trovarono posto anche il genero della padrona di casa e… il biondino con gli occhialini tondi.
Sul racconto
Nella mia breve attività di narratrice sono stata anche in qualche scuola e ho avuto modo di accorgermi di quanti bimbi
stranieri ci siano, oramai, in Italia. Alcuni avevano ancora l’aria spaesata di chi viene da un altro mondo e non capisce
ciò che gli altri dicono. Mi sono rivista bambina, tantissimi anni fa, quando anche io mi sentivo smarrita come loro. Ho
pensato, inoltre, che mi sarebbe piaciuto raccontare questa storia ai miei nipotini, i quali sono però ancora troppo
piccoli per capirla dalla mia voce. Ho deciso, così, di cambiare strumento e ho preso in mano la penna, sperando che
un giorno, leggendo, si rendano conto che anche noi italiani, un tempo, fummo ospiti – non sempre graditi – in altri
Paesi.
Armanda
L’autrice
Armanda Belletti, per quasi tutti, “Dina”. Classe 1940, narratrice per vocazione. Si innamora del teatro da bambina,
quando per la prima volta viene messa sul palco di una famiglia di attori girovaghi per sostituire la loro piccola figlia
malata. Da allora – ma forse lo faceva anche prima – ha continuato a raccontare favole ai bambini, libri che le sono
piaciuti o storie tratte da film: sia ad ascoltatori occasionali, sia a persone venute apposta per sentirla.
A sessant’anni, quando gli altri smettono, risale, finalmente, sul palcoscenico. E realizza un sogno: sulla stampa locale
il suo nome viene preceduto dal titolo di “attrice”.
– 19 –
Pezzettini di me
di Laura F.
Me la ricordo quella stretta valle, con la strada affiancata dal torrente, quasi scavata nelle rocce
che sfioravano l’auto man mano che ci inoltravamo in essa. Nonostante fosse piena estate, la giornata era veramente pessima: cielo coperto, un brivido di freddo e la pioggia a scrosci. Addirittura
– dopo un intervallo fin troppo lungo – il timore di aver sbagliato direzione…
Ma poi siamo arrivati a vedere l’albergo e fuori, ad aspettarci, il proprietario: un largo sorriso, una
stretta di mano e l’invito ad entrare, ché era pronto in tavola!
“Non male, come benvenuto”, ho pensato, e mi son sentita subito a casa in quel posto semplice,
un po’ fuori mano; e le nostre camere arrampicate lassù, sotto il tetto, col profumo di legno delle
vecchie travi e il silenzio assoluto.
È là che è rimasto un pezzettino di me, perché è fra quelle montagne che son riuscita ad arrivare
“in cima”, e non solo in senso reale.
Mi ha aiutata, il Placido, a credere in me stessa: mi ha insegnato a partir piano, ad avere pazienza,
ad apprezzare e giustamente temere i suoi monti, ricchi di cascatelle lievi come veli da sposa, e
poi l’ampio slargo dove sostavano – liberi – i cavalli.
Ho amato molto quei luoghi, nuovi per me, e i nostri rustici pic-nic, una volta giunti in cima.
“Prima di tutto, un pezzetto del nostro formaggio e mezzo bicchiere di vino!”: era questo che il
buon montanaro ci invitava a fare, appena giunti in vetta, da dove lo sguardo spaziava sulla diga
maestosa, là sotto, fra la cerchia di rocce grigie e il verde intenso che la circondava. “È la riserva
d’acqua di Brescia, quella!” e la indicava, orgoglioso.
Mi ricordo di lui, sempre attento, pieno di premure e di complimenti: ora regalava l’ultimo rododendro fiorito, ora si fermava se ci vedeva in difficoltà, ora incoraggiava i più piccoli, sempre i
primi ad arrivare, “Veri caprioli!”, anche se… di città!
Sono stata felice, in quelle estati, dal Placido: non era necessario nient’altro che essere se stessi,
in semplicità. Si andava oltre facilmente, guidati con garbo e comprensione da quell’uomo di un
tempo, senza però le “chiusure” di altri abitanti di quei luoghi, così differenti dal nostro ambiente
quotidiano.
Si faticava e si apprezzava tutto, di quel sudore e di quell’apprendere, stringendo i denti e incolonnandosi insieme, tutti uguali, tutti esseri umani uniti dal caso e dall’intento: arrivare lassù.
Quando ci penso, comprendo quanto ho imparato, raccolgo i pezzetti di me e li ricompongo diversamente, ma ogni giorno ricordo che…sì, ce la faccio; sì, ho una forza – dentro; e, infine, sì, Pla-
– 20 –
cido: grazie di tutto!
Sei stato molto molto importante per me.
Soprattutto in quella prima estate.
Sul racconto
Ci sono persone che ci toccano il cuore, da subito, appena incontrate. Da loro impariamo. Ci confidiamo. E il filo affettivo
che ci lega non viene mai spezzato.
Laura
L’autrice
Laura F. è una trevigliese, orgogliosa d’esserlo. Svolge un lavoro tecnico di scrittura, quotidiano, ma ama trovare le
parole per dar voce a sensazioni, sentimenti, pensieri. Scrive e legge molto “da sempre”, così come si diletta di arte
(disegno e decorazione), di buona cucina, adora il cinema e far lunghe passeggiate: la natura le ritempra lo spirito!
Ha poco più di cinquant’anni e s’interessa in modo approfondito della condizione femminile e di cultura.
– 21 –
Senza senso
di Daniela Invernizzi
“Ho una ragazza. Sara è la mia ragazza e siamo campioni del mondo!”
A questo pensava Davide pochi minuti prima dell’incidente. La sua macchina era stata centrata in
pieno da un furgone comparso davanti all’improvviso.
Il rumore dello schianto era stato terribile, simile a ferro che sbatte contro la lamiera. Subito dopo
Davide si era sentito come legato e imbavagliato, incapace di muovere anche un solo muscolo.
Aveva pensato a Sara, seduta dietro insieme all’amica, ma non riusciva a girarsi e a guardare.
Dall’autoradio Miguel Bosè cantava “Bravi ragazzi”: una canzone che non gli era mai piaciuta.
“Che assurdità morire con questa canzone cretina nelle orecchie!”, disse fra sé, e si stupì della
tranquillità con cui aveva avuto quel pensiero di morte.
Poi il sonno, e un’enorme stanchezza.
Si addormentò, cullato dalla voce suadente del d.j.
Fu quella la notte in cui la spensieratezza se ne andò per sempre. Quella in cui la vita piombò
come una zavorra a soffocare il senso di onnipotenza, di perenne stato di grazia che solo a sedici
anni si può avere.
Ma alle quattro del pomeriggio di quell’undici luglio, Sara stava ancora davanti allo specchio a rimirarsi, inconsapevole. Gioiva della giornata speciale, e della notte che si annunciava memorabile.
Nel quartiere avevano già appeso le bandiere. Davide arrivò con la Diane tricolore dipinta di fresco,
suscitando l’ilarità dei vecchietti affacciati al balcone alla ricerca di un briciolo d’aria.
“E se non vinciamo?” disse Sara ridendo.
Lui la guardò di traverso, facendo un gesto con la mano a scacciare quel pensiero molesto.
“Ci vediamo alle sette” si limitò a dire, ripartendo con una strombazzata.
La consueta calma piatta della domenica quel giorno era sostituita da una sorta di elettricità. In
tutta Treviglio si respirava un’aria strana, di attesa.
Alla festa popolare avevano sistemato i tavoli davanti al grande schermo, pronti a festeggiare con
salamelle, pizze e fiumi di birra. Bandiere tricolori delimitavano l’area sventolando lievi.
– 22 –
Dalle case con le finestre spalancate si sentiva il ronzio dei televisori. Erano tre settimane che in
tv si parlava solo di due argomenti: il suicidio di Roberto Calvi e i Mondiali di calcio. Il “banchiere
di Dio” era stato trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, ma la storia era tutt’altro
che conclusa e moltissimi ancora i punti oscuri.
Ma quello era il giorno della Finale. La Nazionale di Bearzot era pronta a fare il miracolo, a instillare
un po’ di fiducia in un’Italia che ancora avvertiva l’eco degli anni di piombo.
Sara ripensò ai giorni precedenti. Aveva tentato di convincere i genitori a darle il permesso di andare con gli altri a Torino, al concerto dei Rolling Stones. Ma non c’era stato verso.
“Chissà cosa succede in quei raduni” aveva detto la mamma, immaginando fiumi di droga, sedute
di sesso, rapimenti o chissà che.
“E poi, tornare di notte, non se ne parla“ aveva concluso.
“A parte il fatto che il concerto è di pomeriggio presto, proprio perché c’è la partita” aveva ribadito
Sara con tono saccente “e poi non sono mica sola, sul treno!”
“Comunque non ci vai”, era stata la sentenza, e Sara si era dovuta rassegnare.
Ma ora era contenta di essere rimasta a casa. La piccola cittadina che l’aveva vista nascere non le
era mai sembrata così bella, così viva. In cambio del mancato concerto, la mamma aveva dato il
permesso di star fuori fino a tardi.
Uscì per andare dall’amica Roberta. Inforcò la bicicletta sgangherata di mamma e partì di buona
lena. Prese via Libertà, a quell’ora deserta, per dirigersi verso il centro. Fece saltellare la bici sugli
scalini del Santuario e in un attimo arrivò nella piazza del municipio. Al Caffè gli uomini discutevano animatamente di calcio, le donne sorseggiavano bibite fresche. I ragazzi seduti sui gradini
della chiesa si prendevano in giro.
Giunta a casa dell’amica, la trovò che stava leggendo, come spesso faceva.
Anche Sara amava leggere e per questo si erano piaciute subito, sin dalle scuole medie. Tenevano
aggiornata una loro personale classifica dei libri più belli; entrambe non erano bravissime a scuola,
ma quando si trattava di romanzi non le batteva nessuno.
Quando la vide entrare, Roberta chiuse con uno scatto il suo libro e balzò in piedi:
“Hanno telefonato Paolo e gli altri da Torino!” disse tutta eccitata “Mick Jagger è salito in cima
alla gru vicino al palco e ha pronosticato la vittoria dell’Italia per 3 a 1!”
“Speriamo…” disse Sara facendo spallucce, pensando che in fondo a loro due di calcio non era
mai importato molto. Ma con tutto quel fermento, i ragazzini che ripetevano fino all’ossessione la
formazione (Zoff, Baresi, Bergomi, Cabrini…) come in una litania, la televisione, la radio, la strada,
non si parlava d’altro, come si poteva restare indifferenti?
– 23 –
E poi, finalmente una buona occasione per uscire la sera e fare un po’ di casino!
Ora il giorno era arrivato, tra poche ore Sara e i suoi amici sarebbero stati tutti lì, davanti al grande
schermo, per seguire con apprensione le sorti della Nazionale.
Parlarono un po’ della scuola. Il ginnasio era finito e a settembre avrebbero cominciato la prima
liceo. Nuovi professori, trattamento adulto. Una nuova fase.
“A proposito di novità” cominciò Roberta, ammiccando “L’hai detto a Davide?”
“No, tanto è inutile. Si sente troppo grande per me” disse Sara, più a se stessa che all’amica, pensando in fondo al suo cuore che mai e poi mai avrebbe avuto questo coraggio.
Aveva conosciuto Davide in uno dei tanti pomeriggi a “fare le vasche” su e giù per il centro storico:
portici, Piazza Garibaldi, Piazza Manara, poi su in via Roma e poi ancora giù, via Galliari, di nuovo
portici e via così…
In uno di questi giri lo aveva notato: alto, magrissimo, faccia da schiaffi ma occhi da bravo ragazzo.
Si erano conosciuti con la facilità e la naturalezza dei sedici anni e da allora erano diventati amici.
Lui frequentava la scuola professionale e voleva diventare geometra. Ora aveva appena finito gli
esami, ed era in attesa dei risultati.
“Sono venuta solo per avvisarti che Davide passa alle sette” disse Sara, “fatti trovare pronta.”
E senza dar modo all’amica di continuare il discorso, riprese la bicicletta.
Fece il giro largo passando per l’adiacente campagna. Nei campi il granoturco era già stato tagliato
e nell’aria pesante di umidità si sentiva il profumo dell’erba. La pianura, piatta e monotona, diventava bella in questa stagione agli occhi di Sara, che odiava il grigiore e la nebbia del lungo inverno.
Alle sette in punto Davide arrivò: indossava un paio di jeans e una semplice maglietta, ma in
testa, a mo’ di turbante, si era messo la bandiera dell’Italia.
Sara rise fra sé. Pensò che i ragazzi non perdono occasione per fare gli stupidi, ma in fondo la
cosa la divertiva.
Salutò i genitori, che si affacciarono per vedere l’auto tricolore e per fare le raccomandazioni di
rito.
Recuperata Roberta, alla festa trovarono tutti gli altri.
Il gruppo aveva già preso posto ai tavoli davanti allo schermo e si apprestava ad apparecchiare
con le tovagliette di carta. Si salutarono con grande slancio com’ erano soliti fare, facendo un gran
baccano, come se non si vedessero da secoli; poi ordinarono tutti pizza e birra.
Davide era particolarmente silenzioso.
– 24 –
“Che hai?” chiese Sara “sei preoccupato per la partita?”
Lui sembrò risvegliarsi in quel momento: “No, però… è che devo dirti una cosa.”
Il cuore le balzò in gola: “Cosa devi dirmi?”
“Magari dopo, adesso mangiamo”, fece lui girandosi, quasi ad attendere l’arrivo della sua pizza
come una salvezza.
L’area feste si stava riempiendo. La musica era stata interrotta per non dare fastidio alla partita.
La maggior parte delle persone si era accalcata nella zona ristorante, alcuni procurandosi le sedie
da altre postazioni, altri sedendosi per terra.
I bambini si rincorrevano con grande soddisfazione. Il cielo oscurava molto lentamente, anche se
già si potevano vedere le stelle.
La sigla della Mondovisione riempì l’aria, qualcuno applaudì come se fosse a teatro.
Lo schermo si aprì sullo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, gremito di spettatori e bandiere delle
due squadre. La voce emozionata ma ferma di Nando Martellini salutò i telespettatori ed elencò
le formazioni, mentre in campo entravano i giocatori.
L’arbitro diede il fischio d’inizio. Davide prese la mano di Sara.
Lei si voltò a guardarlo, ma lui aveva gli occhi fissi allo schermo. Non dissero una parola per tutto
il primo tempo, che passò in un lampo e senza reti. Non volava una mosca, non circolava un’auto,
le strade erano deserte. Solo i bambini più piccoli giocavano spensierati.
Roberta mangiucchiava nervosamente patatine fritte; Davide, invece, continuava a bere.
“La pianti con ’sta birra?” disse Sara vedendolo aprire l’ennesima lattina. “Di questo passo sarai
steso a terra k.o. prima della fine della partita!”
“Sara, sei bellissima” disse lui, già visibilmente alterato.
Lei arrossì; non era abituata ai complimenti, specie se arrivavano da Davide.
“Sei ubriaco” disse arrabbiata, pensando che la bella serata stesse prendendo una brutta piega.
Proprio in quel momento ricominciò la partita e tornò il silenzio. Durò poco: qualche minuto dopo,
lo stadio esplose in un boato: era goal!!! Paolo Rossi firmava anche la finale. Tutti si alzarono in
piedi e si abbracciarono, cadde qualche sedia, qualcuno accennò passi di danza.
Sara rimase seduta, ma Davide sembrò non accorgersene.
Al 24esimo Tardelli segnò la seconda rete; lo stadio sventolò il tricolore come impazzito, sullo
schermo apparve il Presidente Pertini che faceva no con la mano ai presenti, come a dire: “Non ci
prendete più”.
– 25 –
Al 38esimo la Germania accorciò le distanze, ma la cosa non sembrò preoccupare i giocatori italiani,
che apparivano carichi come non mai; e quando arrivò il terzo goal, a tre minuti dalla fine, lo
stadio impazzì, la folla davanti allo schermo esplose e con lei tutta la città: si sentì uno scoppio
di felicità all’unisono, come un coro di migliaia di voci.
La partita stava finendo, e mentre intorno a loro le persone si congratulavano a vicenda, Davide
prese le mani di Sara, se le portò al petto e disse: “Vuoi essere la mia ragazza?”.
Dallo schermo il cronista gridava: “È finita! Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni
del mondo!”.
Sara non rispose, ma il suo viso parlava per lei; stava per dire qualcosa, ma non ci riuscì, la vita
intorno a loro subì un’accelerazione, fu tutto un ballare, saltare, baciare chiunque capitasse a tiro.
La folla straripò. Le strade si riempirono improvvisamente di centinaia di auto che suonavano il
clacson all’impazzata, la gente si salutava, si abbracciava, entrava nelle fontane per giocare con
l’acqua, in una specie di delirio collettivo che Sara guardava sbigottita, ancora sottosopra per la
rivelazione di Davide.
Tutto sembrava così perfetto, seppure pazzo e delirante, un mondo bellissimo dove la gente si voleva bene, dove Davide le voleva bene, e avrebbe voluto che non finisse mai.
Saltarono in quattro sulla Diane tricolore per unirsi al serpentone di auto che festeggiava lungo
le strade della città, ma all’improvviso Davide deviò verso una strada di campagna.
“Dove vai?” gridò Sara, stordita da tutto quel baccano, dai canti e dalle risate degli amici e dalla
radio accesa al massimo volume; ma lui non rispose, continuava a suonare il clacson a tutti quelli
che incrociava e loro rispondevano più forte, in un carosello di suoni che sembrava lievitare di minuto in minuto.
Poi fu un attimo. Il furgone sbucò veloce e improvviso da dietro la curva. Davide sterzò un secondo
troppo tardi.
Per un tempo interminabile tutto sembrò fermarsi; solo dall’autoradio giungevano ancora le note
di una canzone.
Sara uscì dall’auto contorta, dove i colori della bandiera ora si confondevano fra loro, come in
un’enorme lattina schiacciata; avvertiva odore di fumo e di bruciato, di metallo e di sangue. Non
riusciva a pensare, sentiva soltanto nella sua testa la voce di Nando Martellini che ripeteva: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!”.
Si fermò un’auto, qualcuno gridò parole incomprensibili; Sara lo guardò allucinata, come se arrivasse da un altro mondo.
Poi le orecchie smisero di fischiare. Sara sentì distintamente i lamenti dei suoi amici ancora fra le
– 26 –
lamiere.
Si lasciò andare, e svenne.
Le prime luci di quell’alba estiva sbucavano oltre le case. Lunghe ombre si riflettevano sull’asfalto
deserto.
Sara uscì con i genitori dall’ospedale, avvolta in un golf di suo padre. Si guardò intorno, maledicendo fra sé i grilli che non la smettevano di cantare. Le strade erano sporche: lattine di birra,
cartacce, pezzi di cibo e di vetro. La città dormiva pesantemente dopo l’ubriacatura notturna.
Si rese conto che in una notte tutto era cambiato, che il suo mondo era cambiato: il suo grande
mondo spensierato e felice si era sgretolato in tanti mondi più reali e più tristi.
Pensò che non era giusto, che aveva solo sedici anni, che non doveva soffrire così; che i suoi amici
lottavano in ospedale e che la loro perenne felicità, ormai, non c’era più; che Davide non c’era
più.
Guardò sua madre: lei le sorrise mestamente, quasi avesse letto nei suoi pensieri. L’abbracciò.
Le bandiere tricolori brillavano alla luce del sole nascente.
Sul racconto
Non ero in Italia nel luglio 2006, l’ultima volta che la nostra Nazionale di calcio ha vinto i mondiali.
Per questo motivo, quando ho visto il tricolore sventolare a tutte le finestre lo scorso 17 marzo per 150 anni dell’unità
d’Italia, la memoria che si è risvegliata in me è stata quella del 1982, quando, sedicenne, partecipai ai festeggiamenti
per la vittoria.
Era la prima volta che vedevo la mia città così euforica, così festosa, e il ricordo di quella notte si è fissato nella mia
mente per non andarsene più.
In questo racconto ho cercato di ricreare il clima gioioso della città e la spensieratezza dei miei sedici anni.
Uno “stato di grazia” destinato a non durare per sempre; e a volte, come spesso raccontano le cronache, a terminare
troppo presto per uno stupido incidente, per un bicchiere di troppo, per la voglia di strafare.
Davide è un personaggio di fantasia, ma rappresenta tutte quelle giovani vite andate incontro a una morte assurda.
Forse tutte le morti sono “senza senso”, ma alcune lo sono di più.
Daniela
L’autrice
Daniela Invernizzi, classe 1966, trevigliese. Giornalista professionista, lavora da sempre a Radio Zeta, storica emittente
radiofonica di Caravaggio.
Sposata, madre di una ragazzina dodicenne, coltiva l’amore per il Buono (buoni amici, buoni viaggi, buone letture,
buona cucina…)
– 27 –
Laura
di Sara Maffioletti
1
“Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento di agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste
accoglie un sole smarrito…1 .”
La bambina è seduta nel banchetto della scuola elementare. Forse è troppo piccola per comprendere
le parole citate nel suo diario, volge lo sguardo fuori, oltre la finestra dell’aula grigia. Vede gli
alberi gialli d’autunno, mentre i versi della poesia le si dilatano dentro, li sente.
L’immaginazione viaggia oltre il cielo plumbeo, oltre i compagni e la maestra, sperimentando la
continuità e la discontinuità tra il suo mondo interiore e il mondo attorno.
2
Laura apre l’armadio, cerca qualcosa di nuovo. Niente nero. Indossa una t-shirt colorata. Prende
la sacca ed esce di casa.
È una bella giornata primaverile. La strada che scende verso il parco è un serpentone di automobili
parcheggiate.
Un uomo estrae dal bagagliaio la bicicletta del figlio. Finalmente anche Laura riesce a parcheggiare
e si incammina a piedi. Sottobraccio tiene un libro. Legge il retro della copertina: “I racconti sono
proiettili. Fulminanti. Sconvolgenti”2. Osserva il viso dell’autore, ha un’espressione enigmatica.
La fissa indagatore, il mento è appoggiato alla mano sinistra.
Percorre il vialetto tra gli alberi e la gente. Non è abituata a questa ressa.
Studia il prato e trova dove sedersi. Il sole tramonta oltre il fiume, non ci sono alberi che le fanno
ombra, le persone sono distanti abbastanza da non infastidirla.
Si accorge che le paillettes della maglietta brillano alla luce, si perde nel gioco dei riflessi che si
ritrova addosso. Sembra attorniata da lucciole blu. Alza il volto al cielo, i rami degli alberi le ap-
– 28 –
paiono neri in controluce. Le delicate geometrie le ricordano dei dipinti giapponesi. Nella sua immaginazione, tutto può divenire altro.
Appoggia la testa sulla sacca, si sdraia per godersi il primo caldo della stagione.
Non lontano si siedono delle ragazze, avranno sedici, diciassette anni. Estesi tatuaggi ricoprono
loro schiena e gambe. Una ha i capelli biondo platino, un’altra di un rosso incandescente. Porta
una frangetta che le sfiora gli occhi, incorniciati da un trucco pesante.
− E la tua storia come va? − domanda la ragazza rossa all’amica.
− Male. L’ho visto domenica, è stato bello, siamo stati bene… In settimana mi ha invitato al cinema
per mercoledì. Dovevo vedere un amico, ma poi gli ho detto di sì. La sera mi chiama, alle otto, per
dirmi che non può, deve andare a cena da suo fratello, che balla! Doveva vederne un’altra… sono
depressa… −
− Non è detto, stai a vedere − cercano di sollevarla le amiche.
− Mi scrive: ci becchiamo quando torno. Cosa vuol dire, dai! Ci becchiamo?! Non sono un suo
amico! Do peso alle parole! Gli uomini… sembrano dei bambini! −
Laura riflette sul mondo dei giovani che le è giunto alle orecchie. Gli atteggiamenti dei ragazzi
non sembrano molto distanti dai comportamenti degli uomini di quaranta e cinquant’anni che lei
conosce. L’amico di cui parlano le ricorda qualcuno di sua conoscenza.
− È rimasto un adolescente. Niente legami, niente responsabilità. –
Era venuta al parco per rilassarsi. Non voleva pensare.
Da tempo non ha una relazione fissa, ha incrociato uomini come rette tangenti ad una circonferenza.
Lei è il cerchio e nessuna intersezione affettiva.
Si volta con noncuranza verso le ragazze. La rossa sta indossando un paio di roller, mentre le altre
amiche iniziano a giocare a calcio. Ha le gambe segnate da una depilazione violenta.
Laura cerca di avviare il pc, che intanto a tirato fuori dalla sacca. Non funziona.
Prova a leggere qualche pagina del libro. Non riesce a concentrarsi. Il presente irrompe con i suoi
interrogativi. Come saranno i genitori della ragazza tatuata? Saranno degli ex “fricchettoni”? La
mamma è rimasta incinta da ragazza, è giovane. Adesso sta con un nuovo compagno. Il babbo magari gestisce un locale…
Vorrebbe alzarsi, chiedere alle ragazze se può giocare con loro. La guarderebbero come una zia un
po’ stramba, ma non le direbbero di no.
Laura torna a sdraiarsi, guarda di nuovo il cielo. Vorrebbe spegnere l’interruttore del pensiero,
vorrebbe una tregua. Riesce a non pensare quando va a correre, quando il cuore le pulsa violento
– 29 –
al petto e la pelle calda traspira un sudore salato. In quel momento percepisce solo il corpo che la
libera nel presente.
Com’erano i versi di quella poesia…? Il suo narratore interno le sussurra all’orecchio.
Ho molte istantanee.
Mi piace fotografare le foglie,
protese verso il cielo
o d’autunno
al loro ritorno al suolo.
3
S’incontrarono per la prima volta verso la fine dell’estate, in un bar all’aperto, dove i ragazzi liberi
dalla scuola si trovano con gli amici, per una birra e la musica di qualche gruppo rock.
Era il 26 agosto, Sant’Alessandro, patrono di Bergamo. Dall’alto delle mura veneziane, la città aveva
la bellezza delle cose che ormai ci appaiono distanti. Lontane dai rumori, lontane dagli uomini.
Laura lo intravide arrivare tra gli alberi e gli scooter parcheggiati, i capelli brizzolati gli cadevano
sulle spalle, una camicia a quadretti bianca e azzurra, in tinta con gli occhi di un blu straniero.
Lei era radiosa ed inquieta. Durante l’estate l’aveva cercato, ma non era riuscita a incontrarlo. Era
fuori città per dei concerti e poi sarebbe partito per un viaggio in Asia.
A gennaio era arrivato nella scuola dove Laura insegnava, si erano scambiati poche parole e i loro
sguardi si erano incrociati senza riuscire a nascondere l’attrazione reciproca.
Laura aveva tentato di mettere a tacere l’interesse che sentiva. – Un musicista? No, no, lascia perdere, non ti è bastato il chitarrista? Tipi troppo liberi, attraenti, sì, ma poi ti lasciano con un
pugno di mosche in mano. No, no!!! − si diceva.
− Lascia perdere, lascia perdere. − Cercare di ragionare non era servito, l’istinto l’aveva soggiogata
un’altra volta. Copiò da un registro della scuola il suo numero e gli inviò un messaggio.
Ciao, ti va un aperitivo? −
Il tempo di attesa della risposta le sembrò interminabile. Se fosse stato sposato? Se l’avesse letto
la moglie o una fidanzata? Se non le avesse risposto? Finalmente il cellulare squillò ad indicare
l’arrivo di un sms.
– Ciao, come stai? Buona idea, ma devo partire… Ci sei ad agosto? –
Laura esultò. – Bene! si disse. Aspetterò. −
L’estate passò veloce, arrivò agosto e di lui nessuna notizia.
– 30 –
Un giorno Laura tornò a scrivergli:
Sei libero uno di questi giorni ? −
Il bip di un messaggio in arrivo.
– Sì, ciao! Va bene domani sera? –
Laura cercò di calmare l’agitazione. Finalmente un nuovo incontro. Chissà come sarebbe andata?
4
Guidava nella sera e come in un film al rallentatore rivedeva il bel viso, la scrittura elegante, gli
occhi che si erano cercati. Lui le piaceva e forse lei piaceva a lui. Voleva saperlo.
Ciao, ma ci conosciamo? − la salutò.
Ci siamo già visti ? –
Risero, smorzando l’imbarazzo.
− Non dovresti fidarti ad invitare degli sconosciuti. Sono un serial killer, ma è la prima volta che
la vittima mi si propone di sua spontanea volontà! −
La frase annebbiò un poco il sorriso di Laura. − Che battuta macabra. E se lo fosse davvero? – si
domandò. No, dai! Provò a consolarsi. È solo humour un po’inglese, una battuta che non fa
ridere… −
Cercò così di allontanare l’inquietudine che era sopraggiunta.
Si sedettero a un tavolo troppo grande per due. Uno di fronte all’altra, iniziarono a conoscersi.
Io sono Laura, quella che incrociavi nei corridoi della scuola. –
E io Gabriele, una specie di pianista. –
Specie? Che genere fai ? –
Musica classica, − rispose lui con noncuranza.
Laura non ne sapeva nulla. La musica le piaceva, ma la sue conoscenze nell’ambito erano decisamente rock. Si ricordò solo di un breve periodo, dopo le scuole superiori. Ascoltava spesso in treno
una cassetta di Mozart, le piaceva il Requiem, la sua opera incompiuta. Le faceva venire i brividi.
Che potenza, possedeva.
Rotto il ghiaccio, aiutati dall’aperitivo, si parlarono sentendosi più vicini.
Ma perché non ci baciamo? propose lui, sorridendole.
Perché no? gli rispose.
La notte passò veloce e intensa.
– 31 –
5
Durante i mesi a seguire i loro appuntamenti divennero un rituale ciclico.
Si incontravano in un locale, lui le sorrideva, felice di ritrovarla ancora, nonostante i lunghi periodi
in cui era scomparso senza lasciare notizie.
Laura gli era piaciuta subito. Tuttavia, come era accaduto con le altre donne, le sue passioni avevano una scadenza. Da tutte era fuggito.
Sentiva dentro sé di non essere adatto a una relazione stabile. Un’inquietudine esistenziale lo accompagnava da sempre. Negli ultimi tempi, in particolare, mal si sopportava e aveva deciso, per
la prima volta, di seguire un percorso di psicoterapia. Nelle ultime sedute il terapeuta stava analizzando la relazione tra Gabriele e sua madre, una donna complessa che soffriva di depressione
da anni. Fin da bambino, Gabriele la ricordava chiudersi in glaciali silenzi che duravano spesso diverse settimane. Stava per ore con lo sguardo fisso rivolto alla finestra, perso chissà dove. Il figlio
riconosceva in sé quella “stranezza” che credeva, in parte, di aver ereditato proprio da lei.
Poco tempo prima dell’inizio della terapia aveva fatto uno strano sogno. Lui e Laura erano gemelli.
Venivano al mondo in una foresta tropicale dall’utero di una donna con la testa di un uccello esotico.
Cosa significava? Forse il suo destino e quello di Laura avevano una radice comune? Si erano incrociati in una vita trascorsa? Laura era il suo doppio? Uno specchio in cui vedere altre forme?
Sentiva che le risposte sarebbero arrivate, era solo questione di tempo.
A volte Gabriele cadeva in stati di trance, come se una parte di sé percorresse altri universi temporali e spaziali.
In quei momenti, componeva musica allucinata e visionaria.
Amava viaggiare e spesso cercava luoghi lontani e mistici. Era affascinato da alcune tribù indonesiane. Aveva assistito a dei rituali sacri con musiche ipnotiche e danze colorate.
In quei luoghi Gabriele si sentiva bene. Lì i mondi paralleli della sua mente non erano etichettati
come segni di follia, ma come visioni superiori, in grado di afferrare ciò che per molti è impercettibile.
6
Perché Gabriele non la cercava? Perché spariva per lunghi periodi? Laura avrebbe desiderato capire.
Fin dall’inizio, lui era stato sempre molto vago sulle sue assenze. Le aveva ribadito più volte di essere uno spirito libero, di non essere intenzionato ad avere una “relazione sentimentale”. Questo
era lui.
– 32 –
Dopo rabbia, risentimento, tentativi di cancellarlo dalla propria vita, si era rassegnata.
Era innamorata di lui e viveva la loro relazione come una passione romantica, libera e incompiuta.
Una mattina, girovagando per la città, si fermò in libreria. Su uno scaffale vide un libro con una
copertina in bianco e nero e le mani di un pianista in movimento sulla tastiera. Lesse: “Ecco,
questi pianoforti sono decisamente vivi. Luc si sedette sullo sgabello di uno Steinway a coda con
il coperchio aperto… Quegli strumenti avevano una vita propria e il loro respiro era la musica che
ancora risuonava nell’aria intorno a noi…”3
Laura l’acquistò, decisa a entrare nella bottega del protagonista del romanzo, il restauratore di
pianoforti. E decisa a entrare nella vita di Gabriele, di cui sapeva ancora così poco.
In un sito internet aveva scoperto che era un pianista molto bravo. Aveva suonato in ogni parte
del mondo, ricevendo importanti premi.
La lettura del romanzo la trascinò in un mondo sconosciuto e raffinato.
Nell’illusione di trovare lui, ebbe una visione: una mansarda a Parigi e la magia della musica che
si sprigionava dalle mani di Gabriele.
Rimase un sogno chiuso tra le pagine. Per tutta l’estate Gabriele non si fece vedere, lei chiuse il
libro e trovò altre mani che, seppure non riuscirono a scaldarla, resero meno vuoti i giorni della
mancanza.
7
Ciò che non cambia,
ciclico ritorna.
La porta si aprì silenziosa, alla parete il disegno del volto di un demone sorridente la accolse.
La stanza era avvolta nella penombra, la luce dalla strada illuminava le sagome del popolo delle
maschere tribali appese alle pareti.
Gabriele tentò di accendere una lampada, alta e coi segni della ruggine degli anni; non vi riuscì e
rimasero nel corridoio buio. Si guardarono, uno di fronte all’altra, nell’attesa.
Lui l’aveva condotta lì, ma era silenzioso. Laura non gli chiese nulla.
Si avvolsero in un abbraccio. Lui scese con le mani sul collo di lei. La lingua le penetrò tra le
labbra come in un morso.
La prese per mano e la guidò nel soggiorno. Poi si abbassò ad accendere le luci di un albero di Natale, tanto grande da apparire inappropriato in quella stanza strabordante di oggetti.
Seppur avvolta nel silenzio, le sembrò che quella casa parlasse.
– 33 –
Si misero sul tappeto quasi in una posizione di meditazione. L’albero iniziò a sibilare quasi a sembrare il verso di un animale.
Laura conservava per Gabriele quell’aria da eterna bambina, nonostante il tempo trascorso, dove
tutto era rimasto in sospeso. Gli lasciò quel libro che le aveva tenuto compagnia come per dirgli:
Io ho continuato a pensarti, ma questa è la tua vita. Forse sarà più utile a te. −
Lo stava lasciando? Non disse nulla e lui la ringraziò.
La passione si riaccese nell’oscurità. Laura rimase come incantata ad osservare la trasformazione
del viso di lui. Aveva perso i suoi modi controllati e moderati ed il suo volto, di una bellezza elegante e lunare, diveniva teso ed innervato. I capelli gli scivolavano sul viso ed incorniciavano la
figura di un demone, quasi fosse divenuto specchio delle maschere appese.
Un’oscura energia li attraversò, qualcosa di antico, di primordiale.
Rimasero intersecati l’uno all’altra, scoppiarono in un pianto. La stanza risuonò del disperato
vagito di chi viene o torna nel mondo.
− Siamo vivi? −
8
Gabriele iniziò a raccontarsi come non aveva mai fatto prima di allora. Era nato in Malesia, dove i
suoi genitori si erano trasferiti da alcuni anni. Aveva un fratello gemello, scomparso all’età di tre
anni in circostanze misteriose. Una notte d’estate trovarono il suo lettino vuoto. Fu cercato ovunque, invano.
Sua madre non si era mai rassegnata a quella perdita. Era convinta che vivesse in una tribù indigena malese. Infatti, alcune tradizioni arcaiche vedevano nei gemelli dei poteri soprannaturali.
Temuti, proprio per questa ragione, venivano rapiti e separati. In tal modo le loro facoltà sciamaniche venivano divise ed indirizzate verso i bisogni del villaggio.
Durante gli anni Gabriele aveva avvertito la presenza del fratello, sentendosi come diviso a metà.
Spesso gli sembrava di percepire ambienti, odori e voci di paesi sconosciuti.
Per via dei suoi comportamenti, da piccolo era stato preso in giro di continuo dai compagni di
scuola. Anche gli insegnanti lo consideravano problematico o, comunque, un allievo “non facile”.
Sua madre aveva deciso di cambiargli istituto e lo aveva mandato in una scuola per “bambini speciali”. I maestri della nuova scuola lo avevano indirizzato alla musica, in cui aveva dimostrato un
talento eccezionale. Aveva iniziato a suonare il pianoforte e da allora non aveva più smesso. Davanti ai tasti bianchi e neri, il suo spirito polifonico poteva sentirsi libero.
– 34 –
9
Laura si fermò all’edicola per comprare una rivista.
Cercò l’articolo e lesse: “Presto fiori d’arancio per il noto pianista Gabriele Salvetti”.
Tornò in auto, appoggiò il giornale sul sedile accanto e svoltò sulla strada provinciale, verso casa
di lui. Lo trovò chino sul tavolo. Scriveva qualcosa.
Ciao, Gabri! − lo salutò.
Lui alzò lento lo sguardo, le sorrise e si avvicinò per baciarla.
Cosa stai scrivendo? − gli chiese.
Un nuovo pezzo, quando sarà finito te lo farò ascoltare, − e intanto le accarezzava il volto.
Prima o dopo le nozze? domandò ancora lei.
Quali nozze? fece lui, con un sorrisetto furbo.
Non ci provare… replicò Laura mettendo il broncio, e intanto lo inseguiva girando intorno al
tavolo.
Non sapevo che qualcuno si dovesse sposare… Chi è, il vicino di casa? Dovremmo fargli gli auguri,
non trovi?… Gabriele inciampò in una scatola di cartone rimasta in mezzo al pavimento, ennesimo regalo di matrimonio consegnato quella mattina. In un attimo fu per terra, lei su di lui a
colpirlo con la borsetta, e cominciarono a ridere come matti.
Ah, sei tu a sposarti? E con chi? e proseguiva nello scherzo.
Lei pensò che non le sembrava vero, che da mesi Gabriele sembrava cambiato, che non lo aveva
mai visto sereno come in quel periodo.
Gli diede un bacio, si alzò, andò in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Quando tornò in soggiorno, si sentì gelare. Gabriele era al pianoforte e aveva indosso una delle maschere tribali. Da lì
dentro, guardava verso di lei.
Sul racconto
“Penso che non si possano creare dei personaggi
senza aver studiato a fondo gli uomini, come non si
può parlare una lingua che a patto di averla imparata seriamente.”
(Alexandre Dumas, La signora delle camelie)
Laura vive i sentimenti attraverso il linguaggio dei sensi. Mi sono ispirata alla scrittura sensuale di Anaïs Nin, ma nel
rispetto della sensibilità dei lettori più giovani ho accettato di “censurare” alcune parti del racconto (di cui conservo
con affetto la sua copia integrale…).
– 35 –
I personaggi sono stati ispirati da incontri reali con uomini e donne che ringrazio, ritenendoli fondamentali muse ispiratrici di varietà, complessità e di una originale bellezza in questi tempi moderni e liquidi.
Sara
L’autrice
Sara Maffioletti
Multiforme educatrice
gioca con i colori di una pittrice,
utilizza le voci ed il corpo dell’attrice
e adesso si improvvisa pure scrittrice.
Autrice e
di tanta energia
dissipatrice.
1 Vincenzo Cardarelli , “Autunno”, da Poesie, Mondadori, 1988.
2 Jeffery Deaver, La notte delle paura, Rizzoli, 2008.
3 Thaddeus E. Carhart, La bottega del pianoforte, Ponte alle Grazie, 2000.
– 36 –
L’uomo e l’abitudine
di Marino Polgati
Abitudini. Da appena sveglio a subito prima di dormire. Abitudini per evitare di pensare. Abitudini
elevate a rito, a ripetitiva liturgia che impedisce di pensare alla propria infelicità. Un’infelicità che
parte da lontano, che ha sempre sentito dentro come inalienabile parte di se stesso. Nulla l’ha fatta
nascere, nulla che lui ricordi, eppure un giorno se l’è trovata di fronte. Forse era ancora bambino, oppure all’inizio dell’adolescenza. Non lo sa, l’unica cosa che può dire è che non ricorda di aver trascorso
un giorno intero senza questa angosciante sensazione di infelicità e la quasi assoluta mancanza del
suo opposto, la felicità. Forse, mettendo insieme quei rari momenti, quei pochi spezzoni di vita nei
quali forse si è sentito felice, riuscirebbe a malapena a riempire quattro o cinque giorni. Poco, troppo
poco. Da quando è nato sono trascorsi almeno ventimila giorni, e se anche ne togliessimo un migliaio
o due dei primi anni di vita, quelli dell’inconsapevolezza, quattro o cinque giorni di felicità sono davvero pochi! E allora, via con le abitudini. Anonime, indifferenti, a volte piacevoli e comunque sempre
salvifiche. Come quella del pettirosso, nel periodo più triste e malinconico dell’anno, quello che va da
novembre ai primi di marzo. Il pettirosso che lo chiama tutte le mattine per farsi mettere delle briciole
di pane appena fuori dalla porta a vetri che guarda il suo piccolissimo giardino. E sta lì, a un paio di
metri, aspettando che sparga le briciole e richiuda la porta. Poi si avvicina a becchettare, e intanto i
loro occhi si guardano da pochi centimetri di distanza e si incrociano attraverso i vetri. Sono ormai
trent’anni che Martino ha quest’abitudine, da quando morirono i sui genitori e lui stava al davanzale
della finestra a guardare il nulla. Sentì cinguettare piano e si accorse di due pettirossi che lo guardavano stando appoggiati in cima alla rete di fronte. Prese del pane e lo sbriciolò sul davanzale. Aspettarono che lui arretrasse di un passo e subito, affamati, si precipitarono a becchettare. Guardandolo.
Da allora, non c’è inverno senza che almeno un pettirosso lo assecondi in questa sua abitudine.
Anche oggi Martino guarda il pettirosso, fuma una sigaretta e si prepara il caffè. Intanto, prima
di spogliarsi per il rito quotidiano della pulizia del corpo, aspetta che l’acqua calda della doccia
scaldi il bagno. Cinque minuti sotto la doccia, i capelli, pochi, che restano bagnati e che da anni
Martino non asciuga con il phon, ma solo con la salvietta. Il rito quotidiano prosegue con la vestizione in camera, dopo aver chiuso le finestre. L’aria immobile della notte ha lasciato il posto a
quella inquinata dell’esterno. Puntualmente Martino sistema il letto dopo aver ridato forma al cuscino, quindi scende le scale verso il box. Dovrebbe prendere l’auto e recarsi al lavoro, come ha
fatto per una vita, ma oggi no, e non perché sia festa o un giorno di ferie. No, oggi è un normale
giorno lavorativo per tutti e lo sarebbe anche per Martino, se non fosse per un particolare, un
piccolo gigantesco particolare. Oggi è il suo primo giorno da pensionato.
Ricorda la festa che gli hanno fatto solo tre giorni fa, ricorda i volti, le pacche sulle spalle, i complimenti, le parole d’invidia dei colleghi all’idea che ora si sarebbe finalmente riposato, che non
– 37 –
avrebbe più lavorato, mentre loro lì a sgobbare per pagare a lui la pensione. Ricorda i volti amici,
i loro sorrisi, le promesse di non perdersi di vista. Sapeva che non sarebbe stato così, lo sapevano
tutti, dicevano quelle parole pur consapevoli della loro ipocrisia, ma che altro si poteva dire? Una
volta che te ne vai, non vedi più nessuno! Non sei più nessuno! Martino gira la chiave nel cruscotto
e accende il motore. Non scende ad aprire la porta del garage. Non serve. Intanto sente il pettirosso
che lo sta ancora chiamando, forse quel mattino le briciole sono poche o il motivo del richiamo è
un altro. Accende la radio sulla solita stazione che ascolta da anni. Abitudini. Stavolta niente notiziario, niente lettura dei giornali, trasmettono una vecchissima canzone dei King Crimson, un
lunghissimo pezzo malinconico, di una bellezza struggente, Epitaph. Sorride, Martino. Sorride e
si dice che hanno scelto forse il meglio per salutarlo, anche se avrebbe preferito i Pink Floyd _
Echoes oppure Astronomy Domine _ ma così la scelta era forse più azzeccata. Schiaccia i quattro
tasti dei finestrini, che si abbassano.
E attende che l’aria si saturi dei gas di scarico, attende con gli occhi chiusi mentre la radio continua
a suonare Epitaph, attende mentre il canto del pettirosso diventa sempre più forte, tanto da sovrastare il calmo fluire della canzone. Disturbato, Martino riapre gli occhi. A pochi centimetri dal vetro,
proprio davanti a lui, due piccoli occhi lo fissano. Sembrano quasi rimproverarlo. Martino è stupito,
si chiede come possa essere entrato nel box il suo piccolo amico. Non ci sono fessure né aperture
qualsiasi. Ma, soprattutto, come farà il pettirosso a uscire prima che i gas di scarico abbiano sostituito quel poco d’aria respirabile rimasta? “Piccolo stupido, stai rovinando tutto!” sbotta Marino
arrabbiato, e intanto spegne il motore, apre la portiera e scende dall’auto. Spalanca il portone del
box per permettere all’uccellino di uscire, mentre una ventata di aria pulita spazza via il gas di scarico all’interno. Niente, non si muove dal cofano dell’auto. Martino, allora, allunga la mano e il pettirosso vi salta sopra cantando… Sembra felice. L’uomo lo accompagna di sopra, in giardino. Lo
appoggia sullo schienale di una sedia e gli porta delle nuove briciole, poi si siede, ancora arrabbiato,
ad osservarlo mentre becchetta. Si guardano ancora per un poco, poi, finalmente, Martino sorride.
Sul racconto
Apro gli occhi di colpo e guardo la sveglia. Quasi le otto. È tardissimo!!! È da anni che non mi svegliavo così tardi. Mi
precipito in bagno, mi lavo, faccio un caffè intanto che fumo la sigaretta e poi… “Cazzo, è domenica!” Mi assale un
senso di angoscia esagerato, sarà per la lunga e interminabile domenica che ho davanti? E oggi sentivo proprio la necessità di immergermi nelle salvifiche abitudini lavorative. Già, le abitudini! E quando non ci saranno più? Vedo nero!
Mi scrivo un racconto così vedo come va a finire (sì, gente; scrivere un racconto è una sorta di divinazione: può farti
vedere uno dei futuri possibili e, se il finale non ti va, lo cambi).
Marino
L’autore
Marino Polgati, truccazzanese di nascita, trevigliese d’adozione. Tutto sommato vecchio, ma non ancora abbastanza.
Ha scritto un paio di libri vent’anni fa, poi ha deciso che fosse più proficuo e necessario dedicarsi alla famiglia. I figli
crescono e il destino decide di lasciarlo solo; ritorna la passione per la scrittura e scrive un romanzo non male. Ad un
certo punto si chiede: “Perché non imparare come si scrive da qualcuno che se ne intende? Non è mai tardi, nella
vita, per imparare qualcosa di bello e migliorarsi”. Quindi il corso di scrittura, un’insegnante speciale, compagni di
classe fantastici… Vediamo cosa ne esce!
– 38 –
Il premio
di Stefano Spagnuolo
L’anno appena chiuso era stato proprio ricco di soddisfazioni. Avevo finalmente conseguito il budget di ricavi che la Banca mi aveva assegnato. Lo stress che mi accompagnava costantemente come
un avvoltoio sulla spalla era, almeno per un po’, finalmente svanito.
Marzo è tempo di pagelle, ma l’incontro con il mio manager mi lasciava tranquillo; insieme ai complimenti della Direzione, avrei anche portato a casa anche un premio.
Non avevo fatto però i conti con i tempi di magra che ormai colpivano anche i bilanci delle banche.
Dovetti fare proprio uno sforzo per rallegrarmi quando mi fu comunicato che il premio, per quell’anno, sarebbe consistito in un viaggio in Giamaica. Ufficialmente era previsto un minicorso di
istruzione sulle lettere di credito. Non che mi dispiacesse andarmene ai Caraibi a partecipare ad
una settimana di corso in un villaggio a cinque stelle con tutti i comfort, ma, avendo famiglia e
mutuo, il buon vecchio assegnino sarebbe stato molto più gradito. Neanche la presenza sui voucher
delle paroline magiche “tutto compreso”, che lasciavano intendere chissà che cosa, riuscivano a
smuovermi un minimo di sincera e partecipata allegria.
Così, tra le pacche sulle spalle dei colleghi e il sopracciglio alzato di mia moglie, una mattina partii
prestissimo per l’aeroporto. Partire nel bel mezzo della notte, lasciando le mie bimbe senza il solito
bacio del mattino, mi faceva sentire come se stessi facendo qualcosa di sbagliato: erano ormai
anni che in vacanza ci andavo solo con la famiglia.
C’era poi l’aspetto dei compagni di viaggio, colleghi premiati come me, ma dei quali avevo una conoscenza solo superficiale. Stare insieme per sette giorni con degli sconosciuti per condividere
una vacanza non mi permetteva di entrare nel clima rilassato che precede ogni viaggio. Solo con
uno di loro, Carmine, mi trovavo a mio agio; era una conoscenza di quando avevamo lavorato insieme all’ufficio fidi. Comunque, tra bancari, argomenti di conversazione, non ne sarebbero mancati.
Arrivammo così, tutti stanchi ma euforici, la notte successiva. Il “resort”, così si chiamano adesso
i villaggi di lusso, era proprio bello, oltre le mie aspettative. Grandi spazi lastricati di marmo, il
personale sempre sorridente, l’evidente benessere di tutti gli altri ospiti già presenti mi confermarono l’idea, all’arrivo, che tutto sommato me la sarei passata proprio bene.
Il mattino successivo, aperte le tende della stanza, fui quasi commosso dalla bellissima vista sull’oceano che si intravedeva tra le palme, il biancore della spiaggia ed il mare turchese. La vacanza
prometteva bene.
In spiaggia, presa posizione sotto una palma per leggere il mio libro, iniziai a svolgere la prevista
– 39 –
attività vacanziera: un po’ di sole e poi una bella nuotata. Sì, le premesse per un sano riposo
c’erano tutte. Le premesse, solo quelle, perché qualche nuvola molesta si manifestò di lì a poco
con Augusto, il collega di Milano.
Sdraiato vicino a me, il trentenne irrequieto, che già friggeva di noia in aeroplano, volle subito cimentarsi nello sport locale delle moto d’acqua. Si mise quindi a convincere tutti gli altri per affittarle per una mezz’ora. Non appena accesa la moto d’acqua, Augusto partì a razzo, sordo alle
raccomandazioni circa le correnti più al largo. Impiegammo tutta la mattina per ritrovarlo: Augusto
era finito in una baia dove la corrente lo aveva incastrato nelle mangrovie. Poco mancò che i
gestori del noleggio moto non lo aggredissero.
La settimana era iniziata in salita…
Il programma della sera prevedeva uno spettacolo di ballerine cubane. A Mario, cinquantenne romano, sembrò apparisse la Madonna quando, nel primo pomeriggio, fu invitato sul palco per provare i passi delle danze latino-americane. Fu l’ultima volta che passammo del tempo con lui; Mario
cambiò orari, in spiaggia non lo vedemmo quasi più, cenava presto con gli animatori, si abbronzava
solo quel minimo per non destare sospetti nella moglie. E nessuno osava andare in camera sua per
chiedergli notizie.
Il gallismo, sport nazionale degli italiani in vacanza senza moglie, non aveva colpito solo lui. Gigi
e Andrea, i due colleghi quarantenni di Rimini, si misero a tampinare con metodo due ragazze
dell’animazione. Le cercavano per una partita a ping-pong, per farsi spalmare la crema solare…
Ogni scusa era buona.
Pensavo che tale comportamento dovesse essere normale per due romagnoli cresciuti in estati cadenzate da piadine e turiste tedesche.
Così non mi stupii quando i due invitarono Doris e Sheila in un night fuori dal villaggio, nella vicina cittadina di Kingston, e nemmeno mi allarmai quando non li vidi rientrare per mezzanotte.
Fui svegliato a notte fonda da una telefonata. Rotta dal pianto, dall’altra parte, la voce di Andrea:
“Alessandro, per favore, vieni con quattrocento dollari al Black Mamba di Kingston, le due vipere
ci hanno incastrato con le consumazioni e qui non accettano carte di credito!”.
In quel momento iniziai a credere che la vacanza iniziava ad assumere risvolti veramente inquietanti.
Arrivai con un taxi pagato in anticipo a tariffa doppia ed ebbi la tentazione di non scendere
quando vidi quei marcantoni all’entrata. Tentennai un po’, ma poi misi mano ai dollari, bene in
vista, per rabbonire gli energumeni e portare fuori da lì i colleghi.
Gigi e Andrea non parlarono fino al ritorno al villaggio. Quando fu il momento di entrare in stanza,
Andrea tentò di ringraziarmi, ma io lo zittii dicendo: “Per favore, niente balle. Al ritorno in Italia,
mi fai il bonifico. Non voglio più avere nulla a che fare con voi due”.
– 40 –
Era l’unico modo per sopravvivere: avevo capito che per arrivare indenne alla fine di quella vacanza
e con la speranza di riposarmi un po’, dovevo evitare le prossime intemperanze dei miei colleghi.
Erano come i bimbi alle elementari, quando l’insegnante lasciava momentaneamente la classe. Ed
io non volevo proprio recitare la parte di quello eletto dalla maestra per controllare il Pierino di
turno.
Così feci. Carmine era d’accordo, e insieme ad Augusto passammo tranquillamente il resto della
vacanza, cercando di evitare ulteriori situazioni imbarazzanti.
Le giornate scorrevano serene; forse l’unico fastidio era quello di evitare i “rasta” sul bagnasciuga
che continuavano ad offrire tutta la varietà dei divertimenti locali: la “gangia”, ovvero la marjiuana, la “bamba” cioè cocaina, l’aragosta alla griglia e infine, scoperto che l’interlocutore era
italiano, l’immancabile “fiki-fiki”.
Mi chiedevo che male avessi commesso per essere bersagliato dai luoghi comuni che sembravano
accompagnare ovunque gli italiani. Sulla Luna si sarebbe dovuto andare per evitare certi sorrisi
ed ammiccamenti.
L’ultima sera, a cena, vidi Carmine che continuava a ridere come un cretino; all’inizio pensai che
avesse esagerato con la pigña colada dell’aperitivo.
Il perdurare di una eccessiva ilarità che degenerava in risate trattenute a fatica mi convinse che
Carmine aveva ceduto alle tentazioni fumose dei rasta…
Feci finta di niente, me ne stetti alla larga per il resto della serata; per fortuna, l’indomani sarebbe
tutto finito con la partenza verso casa.
Al mattino seguente, consegnata la chiave della stanza alla reception, ci contammo per salire sul
pullmino che ci avrebbe portati all’aeroporto: mancava Mario.
Figurarsi, quella era l’ora in cui si ritirava insieme alla sua ballerina. Decisi che da quel momento
avrei tirato diritto. “Che si fotta Mario e tutto il viagra che si è portato!” pensai, e salii sul pulmino.
Gli altri chiesero all’autista di aspettare ma, dopo una quindicina di minuti, fu chiaro che era inutile rischiare di perdere l’aereo. Mario sarebbe venuto in taxi a sue spese.
Al momento dell’imbarco, Mario era ancora assente. Consultando gli orari, c’era un altro aereo per
l’aeroporto di New York dove eravamo diretti. Negli USA avremmo dovuto aspettare otto ore il volo
successivo per Francoforte e Mario sarebbe riuscito a raggiungerci comunque.
Partimmo da Kingston in cinque. Non appena decollati, il comandante dell’aereo disse che quello
era l’ultimo volo in partenza perché era stato dichiarato uno sciopero dei controllori di volo giamaicani.
L’ultimo sguardo che diedi alla Giamaica fu di pietà per quell’isola che doveva ancora sopportare,
per un tempo indeterminato, gli eccessi venatori del mio collega.
– 41 –
Arrivammo a New York con i pensieri ancora parcheggiati su quella bianca spiaggia assolata.
Eravamo veramente poco disponibili per l’estenuante passaggio dalla dogana. Quando fu il turno
di Carmine, dopo il controllo del passaporto, si accese una luce nel piccolo box e l’ufficiale della
dogana intimò: “Random check!”. Carmine era stato sorteggiato per un ulteriore controllo.
Gli chiesero di presentare i palmi delle mani e un analista, affiancato da un erculeo poliziotto
nero con occhiali a specchio, gli passò una garza sulle mani. Carmine non fece in tempo a capire
cosa stesse accadendo che la macchinetta, ove era stato messo il tampone, iniziò a ticchettare.
Il poliziotto scrollò Carmine per le spalle e senza tanti complimenti lo portò in un ufficio. Gli
fecero un’accurata ispezione corporale, gli disfecero la valigia che nel frattempo avevano recuperato
e iniziarono a trattarlo come un Pablo Escobar de noartri.
La marijuana aveva lasciato il segno. Mi azzardai a chiedere notizie del mio collega, ma insieme
agli altri tre fummo considerati alla stregua di complici e sottoposti allo stesso esame delle mani.
Pregai tutti i santi del paradiso che nessuno avesse ceduto ad altre tentazioni e trattenni il fiato.
Speravo, inoltre, che Carmine non mi avesse involontariamente toccato e contaminato.
Dopo un’attesa che mi parve lunghissima, ci informarono che noi quattro potevamo proseguire,
Carmine no. Oltre che per un trafficante di droga, lo scambiarono per un ricercato.
Era una disavventura già capitata a suo tempo in Italia. Il collega era infatti omonimo di tale Carmine Gambino, la primula rossa dei narcotrafficanti colombiani. Purtroppo Carmine parlava male
l’inglese e il tempo passava senza che l’omonimia fosse verificata.
L’imbarco del nostro volo era già stato chiamato da un po’. Lasciammo un biglietto a Carmine dicendogli che avremmo spiegato noi, ai suoi parenti e alla banca, le ragioni del suo ritardo.
Il volo durò nove ore, quasi tutte sprofondate in un sonno quasi comatoso per la tensione accumulata.
Alla conta dei superstiti, eravamo rimasti in quattro.
Mentre stavamo per sbarcare, salutando come d’uso il comandante sulla soglia dell’aereo, vidi sulla
passerella due agenti della polizia locale affiancati da una hostess.
Questa bellezza nordica dallo sguardo algido indicava proprio noi. I due poliziotti attesero che
fossimo fuori dall’aereo e ci vennero incontro.
L’incubo, a quanto pareva, non era finito… “No! Non è possibile”, mi dissi mentre cercavo di interpretare gli sguardi taglienti dei due nibelunghi. C’era proprio qualcosa che non andava.
Gigi e Andrea durante il volo non avevano dormito quanto me, anzi probabilmente per niente.
Avevano scambiato la cortesia della hostess per una capitolazione al loro fascino latino e l’avevano
molestata. Insomma, dai segni che la ragazza faceva, sembrava che i due avessero allungato le
mani nel decolté quando Ingrid, così si chiamava la hostess, aveva porto loro il vassoietto del
– 42 –
pranzo.
Questa volta non volevo subire perquisizioni, interrogatori e reprimende. Feci quasi finta di non
conoscerli e proseguii.
Augusto provò a trattenermi, ma dovette provare la mia stessa stanchezza, perché ce ne andammo
insieme, senza neppure provare a offrire un possibile aiuto ai due marpioni.
Mancava solo l’ultimo volo, un’oretta e poi quell’odissea formato vacanza sarebbe finalmente finita.
A Milano, recuperati i bagagli, io e Augusto intravedemmo, al di là delle porte scorrevoli, le mogli
dei colleghi: le avevamo riconosciute dalle foto delle famiglie che ci eravamo mostrati a vicenda.
Presi dal panico per non saper cosa dire ma soprattutto per non voler raccontare faccende così
imbarazzanti, ci nascondemmo pensando al da farsi.
Augusto ebbe l’idea: ci togliemmo le magliette con scritto “Jamaica”, improvvisammo una tenuta
da facchini, appiccicammo sulle camicie stazzonate le carte d’imbarco come se fossero tesserini di
riconoscimento del personale dell’aeroporto e uscimmo senza guardare quelle poverette.
Non sapevo se fosse vigliaccheria o istinto di sopravvivenza, ma ero certo che non sarei stato in
grado di reggere l’ultimo e forse peggiore interrogatorio.
E quando mia moglie mi chiese come fosse andato il viaggio in Giamaica, le risposi: “Cosa vuoi, le
solite cose: sole, mare e… che altro?!?”
Sul racconto
Quanti luoghi comuni sui bancari…
Prima di lavorare per una banca pensavo che i miei attuali colleghi fossero come il mitico Beruschi della trasmissione
Drive In del tempo che fu: pancetta, faccia tosta, occhio vispo al gentil sesso.
Con il racconto di sei bancari in viaggio per un corso di formazione, ho voluto rassicurare gli eventuali lettori: molto di
ciò che comunemente si pensa è vero.
Volevo, tuttavia, rappresentare il bancario medio al di fuori del tran-tran quotidiano. Ne ho messi insieme sei e li ho
fatti partire per i Caraibi. Ed eccoli quindi laggiù, a briglia sciolta, lontani dal controllo di mogli e capi.
Buona lettura!
Stefano
Sull’autore
Stefano Spagnuolo lavora in banca e si occupa praticamente solo di numeri. Ha deciso, pertanto, di dedicare parte del
suo tempo libero anche alle parole e ha approfittato al volo di un corso di scrittura creativa.
– 43 –
Azzurro
di Fiorenza Torri
Respiro caldo, naso umido sulla sua mano. Delicato, ma inesorabile, Arturo la stava chiamando:
ore sei e trenta, la sua sveglia a quattro zampe.
Alzarsi presto non le costava fatica, anzi, quei momenti di inizio mattina, ancora sonnolenti, rallentati, le piacevano, ultimi prima della frenesia delle ore successive.
Non la sua, certo. Da mesi, oramai, viveva un’altra vita, in cui le giornate si trascinavano, spesso
incolori, troppe volte sorde.
Si alzò dal letto e si affrettò ad aprire le finestre; la sera precedente non aveva chiuso gli scuri:
amava vedere, nella notte, le piccole luci accese qua e là per la collina, le lampare non lontane
dalla costa, i lampioni del vecchio molo. Tutte immagini familiari, che ancora potevano offrirle
briciole di serenità.
Sì, era davanti al mare, cercava respiro.
Il terrazzino era un angolo proiettato sul golfo: cielo, mare, spiaggia e poi mirti, cespugli odorosi,
pini, una tavolozza di colori e la sensazione di un grande abbraccio.
L’avrebbe vista? si domandò, mentre scrutava l’orizzonte.
Il cielo era limpido, appena striato di giallo e di rosa, l’aria leggera, sottile.
“Eccola, finalmente” esclamò. Nessun dubbio, nessun miraggio, l’isola era di fronte a lei, seppure
lontana, e la linea del promontorio si stagliava nitida, netta, contro l’azzurro del cielo.
Pochi minuti ancora, prima che la luce abbagliante del sole inghiottisse tutto.
Quanta trepidante attesa, da bambina, quanta impaziente speranza di vedere l’isola, quella di cui
papà le raccontava.
Sarebbero passati tanti anni di immagini solo sognate prima di poterla scorgere, perché si sa,
l’alba non appartiene ai più piccoli.
Inebriata da quel panorama, avvertiva, tuttavia, qualcosa di insolito, un odore dolciastro, avvolgente: tabacco, si trattava di tabacco da pipa.
Timidamente, si sporse dalla ringhiera quel tanto che le permise di riconoscere una presenza maschile sul balconcino sottostante.
Si ritrasse contrariata, quasi fosse gelosa dello spettacolo che l’alba le aveva regalato.
– 44 –
Chi era quell’intruso, forse il nuovo proprietario dell’appartamento al secondo piano? Chiunque
fosse – concluse – usava tabacco di ottima qualità.
Più tardi, decise di scendere alla spiaggia. Sapeva che sarebbe stato molto divertente per il suo
cane, ma impegnativo per lei. La sua casa si trovava all’inizio della collina e per raggiungere il
mare avrebbe percorso una scaletta in pietra, una di quelle scorciatoie tipiche del paesaggio ligure,
contornate di vegetazione.
Le piaceva camminare lungo la spiaggia; fuori stagione appariva ampia, estesa, solitaria: qualche
gabbiano, cani liberi, poche silenziose persone. Arturo correva, nuotava, la raggiungeva portandole
pezzi di legno, rami di salice, regali che venivano dal mare. Ma lei continuava ad essere triste,
sola dentro, senza stimoli.
Raggiunse il torrione saraceno e si avviò verso la piazzetta, sperando che il cane la seguisse. Disubbidiente come suo solito, Arturo non rispondeva ai richiami, anzi, si prendeva gioco di lei, avvicinandosi per poi sfuggire alla vista del guinzaglio.
Doveva avere un aspetto pietoso, quando una mano provvidenziale riuscì ad immobilizzare il cane,
trattenendolo per il pelo.
Lei balbettò qualche ringraziamento e salutò: aveva riconosciuto l’odore di tabacco e si sentiva a
disagio.
Sua madre lo avrebbe descritto come “un uomo alto, una bella figura, distinto”; lei era rimasta
colpita dagli occhi azzurri, intensi, e da un innegabile fascino. Certo il naso era molto pronunciato,
ma il viso era espressivo, incorniciato da folti capelli grigi. Età? Beh, poteva essere suo padre.
Non aveva osato presentarsi, per non sembrare un’impicciona. Sarebbe venuta l’occasione, presto
o tardi.
Il resto della giornata trascorse tra nervosismo, malumore, noia. La notte non fu migliore: guardò
l’orologio troppe volte, in attesa dell’alba. Chissà se avrebbe rivisto l’isola? Si domandò, inquieta.
Era molto presto quando si ritrovò sul terrazzino. “Dai, fatti vedere” si sentì dire ad alta voce.
“Ma non sa che l’isola è misteriosa?” Odore di tabacco e una voce.
Si sporse e le venne spontaneo chiedere: “Anche lei ha un cane mattiniero?”
“No, cerco un’ispirazione. Buongiorno, mi chiamo Vittorio” Il tono era intrigante, tanto che lei
propose: “Le andrebbe una tazza di caffè caldo?”. Valutò che l’occasione era giusta per fare conoscenza e, soprattutto, per avere qualche notizia sull’isola.
Si stupì della propria cordialità: non era da lei intrattenersi con uno sconosciuto e ancor meno invitarlo in casa. Si domandò a cosa fosse dovuto quell’insolito comportamento, ma cacciò via la risposta più plausibile: solitudine. Voleva che fosse semplice, ordinaria curiosità.
Arturo accolse l’ospite con misurata diffidenza e lo tenne sotto stretta osservazione fino all’arrivo
– 45 –
del vassoio con caffè e delizie al cioccolato; furono sufficienti pochi bocconcini perché dichiarasse
eterna fedeltà a quel nuovo amico.
E i dolci baci al cioccolato furono anche il primo argomento di conversazione, un pretesto per fare
conoscenza.
“Lei sa che non sono un dolce esclusivo di questa città? Baci come questi si trovano un po’ ovunque, con piccole varianti.” Vittorio elencò una serie di specialità, soffermandosi sulle loro differenti
caratteristiche; nominò luoghi e arricchì la descrizione con citazioni in latino.
Quella prima lezione le permise di inquadrare il personaggio: senza dubbio si trovava in compagnia
di un uomo che amava esibire il proprio sapere, ma che riusciva a trasmetterlo suscitando interesse;
decisamente un buon affabulatore. Più tardi avrebbe concluso che con Vittorio non ci si poteva
annoiare, ma era da assumere a dosi “pediatriche”.
Tentò di intervenire, mirando diritta al suo obiettivo: “Confesso di sentirmi un po’ in soggezione:
lei ha viaggiato molto, da quanto capisco ha una vasta cultura, può intrattenere raccontando curiosità amene, forse misteri…”.
Forse un anziano giornalista, forse uno scrittore, si ripeteva mentre cercava di analizzarlo. Del
resto, aveva un linguaggio ricco e nello stesso tempo di facile comprensione e, comunque, era
davvero piacevole ascoltarlo.
Ancora non le era chiaro per quale ragione occupasse l’appartamento sottostante, né osava rivolgere domande precise al riguardo, anzi, ne era a tal punto incuriosita che decise di giocare con
astuzia le sue carte.
“Sono certa che apprezzerà anche lei questi nostri balconcini, si gode una vista splendida ed ogni
giorno si scorge qualcosa di nuovo, anche da lontano…”
“Se potessi disporre dell’appartamento, credo che soggiornerei a lungo qui, soprattutto in primavera. Ma conto di trattenermi una settimana, spero di terminare il mio lavoro.”
Ancora troppo poco. Lui continuò.
“C’è stato un lungo periodo della mia vita durante il quale ho viaggiato, per conoscere e far conoscere, per divulgare. Allora le giornate erano troppo corte, il tempo non bastava mai: dapprima
l’insegnamento e le lezioni private a qualche giovane studente svogliato, poi gli articoli per il
giornale della mia città e soprattutto il grande impegno per l’enciclopedia a fascicoli. Ma lei è
troppo giovane per ricordarsela.”
Compiaciuto il tono iniziale, con una vena melanconica poi e una punta di galanteria sul finire.
“Ed anche ora che le mie giornate sono oramai troppo lunghe, il tempo non mi basta: sono vicino
al capolinea e devo affrettarmi. Ma non riesco a concludere il mio ultimo libro, l’opera che vado
scrivendo da sempre, che mi sta aspettando come una paziente compagna.”
– 46 –
“E io aspetterò la pubblicazione, ma sappia che pretendo una dedica!” Per evitare le solite considerazioni sulla curiosità femminile, non chiese nulla di più.
Ma poi, si può chiedere a uno scrittore qualche anticipazione?
“Vedere l’isola la rallegra?”
Finalmente al dunque, eppure quella domanda la turbava: era così evidente la sua tristezza?
Cercò di rispondere senza apparire banale: “No, ma mi lascia un’illusione: ciò che ora è lontano
può, a volte, ritornare. Per qualche istante, quando riappare, mi regala una speranza, quasi fosse
una risposta ai miei perché”.
“È semplicemente un’isola lontana, non merita tanta attesa.”
“Forse, ma ora per me ha un significato particolare: sola, su questo balcone, aspetto di capire se
anche per me ci sarà un ritorno.”
Si guardarono negli occhi e lei sentì che non era necessario aggiungere altro.
“Ci sono delle domande alle quali non sappiamo dare risposta. Nel mio libro ho raccolto tanti perché: ad alcuni è la scienza a fornire una risposta, per altri sono state le convenzioni umane, per
altri ancora la storia, la matematica. Ma c’è ancora un perché, l’ultimo, a conclusione della mia ricerca, al quale non so dare una risposta. Chissà che la sua isola risvegli in me qualcosa…”
In cuor suo, fu grata a Vittorio quando seppe distoglierla da quel momento di tristezza, riaccendendo la sua curiosità iniziale: “Là vive una lucertola caratterizzata dal pigmento azzurro: si è
adattata al colore della massa calcarea e a quello di una pianta di rara bellezza, il litosferma, che
fiorisce d’inverno, simile per colore alla genziana. Il resto lo fanno le acque trasparenti ed il cielo
mantenuto sereno dai venti. È la più antica abitante dell’isola, scontrosa e sfuggente, si concede
poco ai visitatori. Eppure, chi si avventura tra scogli e sentieri ne avverte la presenza, quasi ne
fosse la silenziosa custode” .
Era affascinata, capiva che il suo interesse non era solamente dettato da curiosità. Per la prima
volta, dopo mesi, avvertiva un certo entusiasmo.
“Perché l’isola è misteriosa?” domandò.
Con voce e toni da narratore esperto e raffinato, la portò sull’isola. Dapprima la navigazione tranquilla, poi l’attracco al porticciolo e la risalita verso la collina. Un sentiero ampio, all’inizio, tra
cespugli profumati e fioriti, a picco sul mare, sotto il cielo celeste. E poi sempre più stretto, inerpicato, con vegetazione fitta. Un percorso lungo, di passo in passo inquietante: piante ad alto
fusto, rami ricadenti, liane intrecciate, silenzio.
Nessun incontro, solo il fruscio di uccelli che si muovevano nel bosco, pigne secche, muschi e, talvolta, il guizzo veloce della lucertola.
L’ombra, un leggero brivido, una strana sensazione accompagnavano chi si avventurava in direzione
– 47 –
della grotta. Non esistevano indicazioni, neppure quelle che i boscaioli solitamente incidono sulla
corteccia degli alberi, eppure si procedeva senza incertezze. Forse era l’improvviso bagliore azzurro
a condurre il visitatore. La lucertola era una guida avara, ma precisa.
Un antro cupo, un inspiegabile e imprevedibile deposito di giocattoli. Sì, di tutti i tipi, tamburini
di latta, trenini in legno oramai marcito, bambole senza occhi, senza braccia, piccole chitarre
senza corde, palle di varie misure. Un mondo di giochi, di cavallini a dondolo, di costruzioni, di
piccole automobili, da far confondere qualunque bambino, ma con la patina di cose abbandonate,
mai più toccate.
“A chi appartengono e per quale ragione si trovano nella grotta? Chi ce li ha messi?” domandò incuriosita.
Nessuno sapeva. O meglio, si potevano avanzare pittoresche ipotesi, ma nessuno aveva mai rivelato
nulla. Gli abitanti dell’isola custodivano gelosamente il mistero. E, insieme a loro, la lucertola.
Perché lì, ad aggiungersi negli anni, giocattoli inanimati? Per misteriosi folletti notturni, o forse
come ex voto, o erano doni propiziatori? Nessuno li aveva mai rimossi, l’insieme aveva l’aspetto
voluto dal trascorrere del tempo.
“Ma non è riuscito ad intervistare qualcuno?”
“Certo, non mi sono lasciato sfuggire l’opportunità, ma non ho ottenuto alcuna rivelazione, solo
silenzio assoluto.” Aveva anche tentato di far leva sulla vanità femminile, proponendo alle donne
dell’isola
un articolo, con tanto di fotografia. Non era servito. Quando aveva azzardato che avrebbe pubblicato comunque le fotografie scattate alla grotta, aveva ricevuto un ammonimento:
“Non puoi immaginare in che guaio ti troverai, non sai quante sciagure ne verranno.”
Lei era impaziente di conoscere la fine di quella strana storia.
“No, non ho pubblicato nulla e, alla fine, ho preferito strappare le fotografie, tranne una che porto
sempre con me.” Così dicendo, Vittorio estrasse dalla tasca della giacca una foto. La lucertola azzurra si stagliava contro il verde luminescente di una fitta vegetazione.
Lei la guardò a lungo.
Accadimenti straordinari o superstizione, profonde motivazioni o leggende popolari?
L’isola era riuscita a conservare il suo segreto.
Le sarebbe riapparsa? L’avrebbe cercata; qualcosa era ritornato. Un desiderio, ancora flebile, le
dava respiro, la spingeva a reagire.
Avrebbe risposto, Vittorio, all’ultimo perché della sua vita? Si, sarebbe riuscito a svelarlo. Avvertiva
in lui una serena tensione.
– 48 –
Insieme avrebbero raggiunto l’isola, per dare un senso ai loro misteri.
Sul racconto
Il racconto nasce dall’esperienza del corso di scrittura. Ho scritto qualcosa di vero, intrecciandolo con qualcosa che è
frutto della fantasia, ma tutto parla di me.
Fiorenza
L’autrice
Fiorenza Torri è una trevigliese di cinquantasette anni alla primissima esperienza di scrittura. Tante letture ma, dopo
gli anni del liceo ormai così lontani, nessuna composizione libera. Il corso le ha permesso di ricominciare; l’inizio è
stato impegnativo ma appassionante, e ora il desiderio di continuare si fa sentire.
– 49 –
– 50 –