Le erbe magiche del Terminillo

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Le erbe magiche del Terminillo
Le erbe magiche del Terminillo
Sabato 21 Gennaio 2012 16:14
Miti e leggende delle nostre montagne
Le erbe magiche del Terminillo
Fino a un secolo fa la montagna era solo dei montanari. Anche gli abitanti dei paesi attorno, se
potevano, se ne tenevano alla larga. Le alte quote, inospitali e rischiose, erano lasciate ai
pastori, ai taglialegna, ai carbonai, ai cavatori di neve; lì nascevano leggende di diavoli, di fate,
di tesori nascosti.
Nei tempi antichi, e ancora nella prima età moderna, alchimisti, maghi e ciarlatani percorrevano
i monti dell’Appennino alla ricerca di erbe fatate. Sul monte Vettore, sopra Norcia, la grotta della
Sibilla era meta di stregoni e avventurieri in cerca di poteri magici tanto che, nel Seicento, le
autorità la fecero sbancare e murare quanto restava per tenere lontana tutta quella gente
indesiderabile.
Anche il nostro Terminillo è montagna di leggende.
L’etnologo Giuseppe Bellucci, professore
all’Università di Perugia, le raccoglie e le dà alle stampe nel 1901. Racconta di rare erbe
magiche che nascono alle alte quote, attorno alle vette, nelle praterie battute dal vento. Solo lì
vegetano, secondo queste credenze, due piante portentose che fioriscono raramente. Sono
l’erba della concordia e quella della sconcordia; l’aspetto le accomuna ma le proprietà le
dividono. Dicono che la prima ristori l’anima e porti la pace nelle famiglie, e che la seconda, al
contrario, insinui odio, rancori e malanimo.
Fortunatamente riconoscerle non è difficile: quando si svelle, con delicatezza, la piantina,
bisogna osservare con la massima attenzione l’apparato radicale che ricorda nella forma una
piccola mano, con le radici che sembrano dita diafane e femminili. Se sono cinque, ben formate
e distese, è l’erba della concordia. Se, Dio ce ne scampi e liberi, fossero tre o quattro, come a
formare la mano deforme di un essere infernale, allora è la nefasta erba della sconcordia.
La radice va essiccata perfet-tamente e ridotta in polvere finissima in un mortaio; se verrà
disciolta nel vino e fatta bere alla persona da affatturare, a sua insaputa, l’effetto sarà
immediato.
In realtà queste piante sono semplicemente due bellissime e delicate orchidee selvatiche senza
poteri magici di nessun tipo, la Dactylorhiza maculata o Concordia e la Dactylorhiza latifolia,
Sconcordia. Arricchiscono anche i nostri prati e vanno protette con cura.
L’erba magica per eccellenza, però, a quanto racconta il Bellucci, è l’antimonio, che dicono si
possa trovare ancora più in alto, attorno alle scogliere a guardia della vetta della montagna.
Alla luce del giorno l’antimonio si confonde tra i vegetali più comuni; di notte, però, e solo nel
periodo della fioritura, si manifesta agli ardimentosi che, incuranti del buio e dei precipizi, vanno
erborizzando a quelle quote. Infatti nelle tenebre il suo fiore emana una luminescenza
misteriosa, tra l’elettrico e il fosforescente, che lo rende visibile.
Il ricercatore contrassegna il punto e attende l’alba, perché deve cavare la pianta con grande
cura, per non disperderne le qualità e soprattutto per non rimetterci la vita.
Bisogna anzitutto zappetellare piano piano tutt’attorno per liberare le radici, che vanno ripulite
dalla terra senza danneggiarle; attenti, però, a non svellere la grossa radice centrale. A questo
punto bisogna legare la pianta con una cordicella alla coda di un cane che l’erborista avrà avuto
cura di portare con sé; poi, con una bastonata, colpirà l’animale, che fuggirà sradicando così la
radice.
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Un tuono fortissimo echeggerà tutt’attorno e l’animale cadrà fulminato.
L’antimonio è pianta diabolica e il povero cane deve essere sacrificato affinché il demonio non
prenda l’anima dell’uomo.
La pianta così estratta, se utilizzata con sapienza, potrà mostrare tutte le sue virtù portentose e
curare ogni male.
Appare evidente che antimonio non è nome d’origine botanica ma viene dall’alchimia,
quell’antica e fantasiosa disciplina di studio che mescolava un po’ scienza con la magia e
l’occultismo; la pianta medicinale prende il nome di quella misteriosa sostanza che gli alchimisti,
nei loro trattati sempre fumosi, definiscono saturnina materia iniziale dell’arte trasmutatoria,
perfetto veleno e perfetta medicina.
Non stupisce che la portentosa pianta si ritrovi sul Terminillo; si racconta che Cecco d’Ascoli,
alchimista, astrologo e poeta, abbia compiuto grandi prodigi ai piedi della montagna; tagliò tra
rocce orride la via Salaria, costruì ponti in una notte, tutto per forza di negromanzia. Con questi
precedenti, non sorprende scoprire che finì la sua vita sul rogo, arso vivo a Firenze nell’anno
1327.
Il Bellucci ritiene che l’antimonio sia una pianta puramente leggendaria ma non è così:
l’antimonio non è altro che la famosa mandragora, Mandragora officinarum, detta anche erba
stregoria, antimonia, la bambolina, le manine. Pianta erbacea perenne della famiglia delle
solanacee, e quindi lontana parente della comune patata, è nota fin dall’antichità per certe sue
qualità terapeutiche ma è estremamente tossica, persino allucinogena.
Nelle credenze tradizionali l’aspetto di una pianta suggerisce le sue pretese virtù curative:
poiché la radice della mandragora somiglia vagamente a una figura umana, questo era
sufficiente per considerarla capace di guarire tutti i mali che affliggono il corpo dell’uomo. La
superstizione ha poi fatto il resto.
di Alberto Dionisi
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