RQDA 1.2011 copertina generale - Rivista quadrimestrale di Diritto

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RQDA 1.2011 copertina generale - Rivista quadrimestrale di Diritto
RIVISTA QUADRIMESTRALE
DI
DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
G. Giappichelli editore
INDICE
ARTICOLI
GIAN DOMENICO COMPORTI, La responsabilità per danno ambientale
Pag. 2
GIUSEPPE MANFREDI, Cambiamenti climatici e principio di precauzione
Pag. 28
EMANUELE BOSCOLO, La gestione integrata delle zone costiere in Italia: prospettivePag. 40
e prime esperienze
SILVIA SALARDI, Sustainable development: Definitions and Models of legal
regulation. Some legal-theoretical outlines on the role of law
Pag. 77
NOTE A SENTENZA
ANTONIO COLAVECCHIO, Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di
impianti da fonti rinnovabili (nota a Corte Cost., 22 dicembre 2010, n. 366)
Pag. 100
ENRICA BLASI, Il divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili: Pag. 123
insidie e prospettive della riforma (nota a Ordinanza Tar Roma, 25 febbraio 2011 n.
740)
OSSERVATORIO
GIAN FRANCO CARTEI, The Implementation of the European Landscape Convention: Pag. 148
the Legal Perspective.
MARCOS ALMEIDA CERREDA, DIANA SANTIAGO IGLESIAS, La salvaguardia del
paesaggio in Galizia: situazione attuale e prospettive future.
Pag. 157
MARTA D'AURIA, Cancun: per il “post-Kyoto” occorre attendere Durban.
(documenti) Opening of the sixteenth session of the Conference of the Parties
(documenti) Comunicato dell'Unione Europea sulla Conferenza di Cancun del 11
dicembre 2010
Pag. 189
Pag. 192
Pag. 195
FRANCESCO FONDERICO, ANDREA FARÌ, Rassegna della normativa ambientale
dell'ultimo anno
Pag. 197
INDEX
ARTICLES
GIAN DOMENICO COMPORTI, The liability for environmental damage
Pag. 2
GIUSEPPE MANFREDI, Climate change and the precautionary principle
Pag. 28
EMANUELE BOSCOLO, The integrated Coastal Zone Management in Italy: firstPag. 40
experiences and perspectives
SILVIA SALARDI, Sustainable development: Definitions and Models of legal
regulation. Some legal-theoretical outlines on the role of law
Pag. 77
NOTE A SENTENZA
ANTONIO COLAVECCHIO, The point on the constitutional jurisprudence on the subject Pag. 100
of renewable energy plants (note to the Constitution Court, December 22, 2010, No
366)
ENRICA BLASI, The prohibition of marketing of non-biodegradable shopping bags: Pag. 123
dangers and prospects of the reform (note to Ordinance Tar Rome, February 25, 2011
No 740)
OSSERVATORIO
GIAN FRANCO CARTEI, The Implementation of the European Landscape Convention: Pag. 148
the Legal Perspective.
MARCOS ALMEIDA CERREDA, DIANA SANTIAGO IGLESIAS, The landscape
conservation in Galicia: current situation and future prospects.
Pag. 157
MARTA D'AURIA, Cancun: the "post-Kyoto" must wait Durban.
(documenti) Opening of the sixteenth session of the Conference of the Parties
(documenti) Comunicato dell'Unione Europea sulla Conferenza di Cancun del 11
dicembre 2010
Pag. 189
Pag. 192
Pag. 195
FRANCESCO FONDERICO, ANDREA FARÌ, Review of environmental legislation of the
last year
Pag. 197
ARTICOLI
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
GIAN DOMENICO COMPORTI1
La responsabilità per danno ambientale2
SOMMARIO: 1. La lezione dei fatti. – 2. Il ruolo strategico, ma non esaustivo
della responsabilità civile. – 3. Il carattere relazionale dei rimedi al danno ed i
limiti dell’approccio tipologico. – 4. L’operazione rimediale ed i suoi principi: la
priorità della tutela in forma specifica e la procedimentalizzazione della
responsabilità. – 5. Il carattere residuale del risarcimento per equivalente ed il
ruolo strategico della valutazione economica dei danni. – 6. Conclusioni.
1. La lezione dei fatti.
Per condurre un’analisi adeguata del tema ed evitare di incagliarsi subito
nelle dispute di carattere ideologico e di principio che, soprattutto quando si parla
di responsabilità e di ambiente, finiscono per prevalere su una documentata analisi
della realtà, pare utile partire dall’analisi dei fatti. Ciò anche perché è stato da
tempo notato che le questioni su cui dibattono i giuristi sono sovente il frutto di un
«processo elaborativo che si compie in altre sedi»3. Da queste vicende periferiche
conviene, dunque, prendere le mosse per mettere progressivamente a fuoco le
dinamiche che si mettono in moto al verificarsi di un danno ambientale, per tale
intendendosi qualunque accadimento o evento che possa avere effetti dannosi
sull’ambiente nel suo complesso.
Partendo dall’episodio più recente, ancora oggi in fase di evoluzione, può
così ricordarsi che il 20 aprile 2010 un’esplosione ha colpito la Deepwater
Horizon, una piattaforma petrolifera della compagnia svizzera Transocean che
eseguiva perforazioni per conto della British Petroleum a 50 km dalle coste della
Louisiana. 11 operai sono morti e 17 sono rimasti gravemente feriti, ma alla
tragedia che ha colpito i lavoratori si è aggiunto il danno ambientale: la fuoriuscita
di migliaia di barili di petrolio al giorno dai due buchi posizionati nella trivella a
5.000 metri di profondità. Nel suo discorso televisivo del 15 giugno 2010, il
Presidente Usa Obama ha parlato del peggiore disastro ambientale che ha colpito
l’America: infatti, non si è trattato di un incidente da utilizzo, né di un evento che
ha prodotto un unico effetto in un limitato arco temporale, ma di una specie di
epidemia (così l’ha definita Obama) che produrrà conseguenze a molteplici livelli
1
∗ Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università degli Studi di Siena
2 Relazione presentata al Convegno su «Principio di precauzione e impianti petroliferi costieri»,
Livorno, 17 settembre 2010.
3 Chiarisce bene simili aspetti S. NESPOR, Il dibattito internazionale sulla responsabilità per danno
ambientale, in B. POZZO (a cura di), La nuova responsabilità civile per danno all’ambiente, Giuffrè,
Milano, 2002, pp.19 e 3.
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nei prossimi anni. Lo stesso Obama ha poi analizzato in serie le azioni avviate e
quelle da intraprendere:
a) anzitutto, la creazione di un team di scienziati e anche tecnici di BP, con il
compito di trovare il modo di bloccare la fuoriuscita di petrolio; a tale operazione
tecnica, si è associata un’attività di c.d. clean up condotta da un insieme di circa
30.000 uomini operanti presso 4 Stati sotto la direzione dell’ammiraglio Thad
Allen;
b) poi, le prime richieste risarcitorie, che hanno messo in allarme i vertici
dell’azienda ed il governo britannico per le possibili ricadute negative sul valore
delle azioni (a metà giugno è stata decisa l’istituzione di un fondo costituito da 20
miliardi di dollari e gestito in modo terzo ed indipendente da Kennet Feinberg, che
ha gestito anche il fondo per le vittime dell’11 settembre; mentre BP ha reso noto
che sono state presentate oltre 106.000 domande di risarcimento a fonte delle quali
sono stati erogati 164,9 milioni di dollari; nessuna richiesta è stata respinta e sono
presenti sul posto più di 1.050 periti);
c) quindi, un piano a lungo termine (long term Gulf Coast Restoration Plan)
per ripristinare le bellezze della regione colpita e l’istituzione di una commissione
nazionale di indagine per scoprire le cause del disastro e suggerire
raccomandazioni per migliorare gli standards di protezione e sicurezza nei casi di
perforazioni offshore (la National Commission on the BP Deepwater Horizon Oil
Spill and Offshore Drilling è stata costituita con l’executive order del 21 maggio
2010 che ha concesso 6 mesi di tempo per produrre un final public report).
Nel riassumere il proprio punto di vista, Obama ha infine sottolineato come
l’unico approccio che è inaccettabile in casi del genere è l’inazione, apparendo
inammissibile il principio del «too big and too difficult to meet».
Questa sintesi evidenzia la comparsa sulla scena del sito inquinato di una
pluralità di attori (politici, tecnici, economici e, in senso lato, sociali), ciascuno dei
quali rispondenti a logiche di responsabilità e di azione differenti. Elementi
ricorrenti di un collaudato copione appaiono i seguenti:
a) percezione della novità dell’evento e della sua entità: ogni episodio viene
avvertito come nuovo e più grave nella storia dell’umanità. Anche negli anni
passati è così accaduto che gravi fenomeni di inquinamento siano stati salutati
come disastri ecologici di entità epocale. Concentrando l’attenzione sulla più
diffusa tipologia di inquinamento marino 4, quella derivante dalla navigazione, si
possono citare i seguenti casi. Nel marzo del 1989 la petroliera Exxon Valdez si
incagliò su un fondale basso e roccioso della baia di Prince William, rovesciando in
mare 50.000 tonnellate di greggio che inquinarono 1.900 km di coste dell’Alaska
meridionale. Si stima che tale evento abbia provocato la morte di 250.000 mila
uccelli marini, 2.800 lontre, 300 foche, 250 acquile di mare e 22 orche; oltre alla
4
Secondo recenti calcoli dell’International Owners Pollution Federation, citati da L. CRISTOFARO,
Una panoramica sulle principali forme di inquinamento dell’ambiente marino, in Diritto
all’ambiente, 2009, dal 1970 a causa di incidenti alle petroliere sarebbero stati versati in mare circa
5,65 milioni di tonnellate di petrolio greggio.
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perdita di lavoro dei pescatori della zona ed a danni immensi all’economia della
regione. Il 2 dicembre 1999 la petroliera Erika battente bandiera maltese affondava
a circa 70 km a largo della punta di Penmarc’h (Francia) versando in mare circa
20.000 tonnellate di petrolio su un’area di circa 400 km di costa.
b) spettacolarizzazione della risposta sul piano politico. E’ noto che la
denuncia di problematiche diffuse, a rilevante impatto sociale e, dunque, ad alta
visibilità (l’inquinamento, come la sicurezza pubblica, la povertà, il debito
pubblico, ecc.) costituisce tecnica altamente redditizia in termini di consenso:
denunciare costa poco e rende molto, perché nobilita e manifesta l’impegno di una
certa parte politica su tematiche di interesse generale. Inoltre, più è elevato il tono
della denuncia ed il livello di allarme diffuso nell’immediatezza dei fatti, più si
creano i presupposti per proclamare il successo delle iniziative intraprese. Non a
caso, per tornare al caso californiano, all’allarmato messaggio televisivo del 15
giugno hanno fatto seguito: il 4 agosto – lo stesso giorno in cui BP annunciava il
definitivo stop kill del vulcano petrolifero - il rapporto «BP Deepwater Horizon Oil
Budget: What Happened To the Oil?» del National Incident Command (Nic) della
National Oceanic and Atmosphere Administration (Noaa) e di altre agenzie federali
del governo Usa, che annunciava, in toni giudicati da Greenpeace Usa anche
troppo ottimistici, che il 74% del greggio sversato sarebbe evaporato o bruciato e
che dunque rimarrebbe disperso solo il 24% di una marea nera calcolata in 4
milioni e 900 mila barili dal Flow rate techical group creato da Obama; le
dichiarazioni della geochimica Jaqueline Missel che coordina la pulitura delle coste
della Lousiana: «l’impatto è stato molto, molto inferiore a quel che si era temuto»;
fino al liberatore bagno di Obama e della figlia Sasha nelle salmastre acque di
Panama City il giorno di Ferragosto dinanzi ad una folla di fotografi, il cui
messaggio è chiaro: non abbiate paura, le acque non sono così inquinate come
credevamo e la situazione è ormai sotto controllo.
c) attivazione di un tavolo di tecnici ed esperti scientifici per capire le cause
dell’accaduto e trovare i rimedi specifici.
d) intervento a livello regolatorio per introdurre limiti e controlli più
stringenti. Così, in risposta al caso Exxon Mobil, nel 1990 gli Usa hanno adottato
l’Oil Pollution Act che ha imposto l’obbligo del doppio scafo a tutte le navi che
volessero approdato nei porti americani; in conseguenza di ciò, l’Organizzazione
Marittima Internazionale (Omi) ha introdotto l’obbligo del doppio scafo nella
Convenzione internazionale sulla prevenzione dell’inquinamento causato dalle navi
(Convenzione Marpol firmata a Londra il 2 novembre 1973); pertanto tutte le navi
consegnate a partire dal luglio 1996 devono essere equipaggiate con
un’intercapedine di circa 1,5/2 metri tra lo scafo esterno e le cisterne di carico per
contenere la eventuale fuoriscita di petrolio. Il caso Erika, invece, ha indotto a
modificare in modo significativo la legislazione marittima europea, con tre
pacchetti di direttive (Erika I e Erika II del marzo e dicembre 2000 e Erika III del
2009) che hanno condotto all’introduzione dell’obbligo del doppio scafo (con il
reg. CE n. 417/2002), alla nascita dell’Agenzia Europea per la Sicurezza
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Marittima, la cui sede è stata istituita a Lisbona dal dicembre 2003, alla creazione
ed implementazione di un sistema comunitario di monitoraggio e informazione.
e) denuncia delle responsabilità civili ed attivazione dei rimedi risarcitori. La
vicenda giudiziaria che ha fatto seguito al disastro Exxon Mobil si è conclusa dopo
circa 20 anni, con la condanna da parte della Corte di appello federale americana,
in data 16 giugno 2009, a una multa di 500 milioni di dollari oltre 480 milioni di
interessi, cifra molto ridotta rispetto alla condanna di primo grado (risarcimento di
33 mila persone tra pescatori e lavoratori marittimi per circa 3.4 miliardi di dollari,
oltre a 5 miliardi per danno ambientale) che la Corte Suprema il 25 giugno 2008
aveva giudicato eccessivamente punitiva, indicando un tetto massimo di 507
milioni di dollari. Il 27 agosto 2008 la Exxon Mobil ha accettato di pagare ai
pescatori e lavoratori danni equivalenti al 75% di quanto calcolato dalla Corte
Suprema, vale a dire circa 383 milioni di dollari e poi la Corte di appello ha
confermato il limite massimo citato. Nel caso Erika, il Tribunale di Parigi ha
condannato in solido nel gennaio 2008 la Total, noleggiatrice della nave, per
imprudenza, il Registro Navale Italiano per avere rilasciato il certificato nonostante
le precarie condizioni strutturali del mezzo, e l’armatore e gestore della petroliera
per non avere effettuato i necessari lavori di riparazione al fine di contenere i costi,
inducendo la Corte di Giustizia CE nel giugno 2008 a creare una vera e propria
filiera di responsabilità ampliando la sfera di imputazione della stessa in capo a
tutti coloro che nelle fasi della produzione, vendita e trasporto abbiano contribuito
al rischio dell’evento inquinante5.
Da simili considerazioni si evince, in via di prima approssimazione, che la
responsabilità rappresenta la chiave di attivazione di un circuito di facoltà
intellettive, immaginative e regolative capaci di sviluppare la c.d. «euristica della
paura».6, ovverosia di condurre «dalla paura alla cura» del problema, attraverso il
disvelamento «dell’importanza strategica della paura nel predisporre gli uomini
all’imperativo ineludibile della sopravvivenza».7. Essa costituisce, in generale, un
potente fattore di risposta8 ai timori ingenerati dalle emergenze ambientali e
strumento di mobilitazione di una serie articolata di azioni destinate ad interagire a
livelli diversi in uno scenario complesso che coinvolge una pluralità di interessi ed
5
Una più distesa analisi di tali aspetti, ed il superamento della responsabilità del solo proprietario
della nave affermata dalla Civil Liability Convention di Bruxelles del 1969, in funzione del
rafforzamento del principio «chi inquina paga», può leggersi in A. RELLA, Il caso “Erika” al vaglio
della Corte di Giustizia, in Riv. dir. dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2009, p. 5.
6
Cfr. H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, trad. it. a cura di P.P. PORTINARO, Il principio
responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009.
7
E. PULCINI, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino,
2009, p. 197.
8
Come si evince dalla radice etimologica di responsabilità, dal tardo latino respondĕre: cfr. U. CURI,
Introduzione, in B. GIACOMINI (a cura di), Il problema responsabilità, Cleup, Padova, 2004, p. 13; M.
FRANZONI, L’illecito, I, 2° ed., Giuffrè, Milano, 2010, p. 5.
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appare suscettibile di letture unificanti unicamente percorrendo la prospettiva che
muove dall’evento inquinante alla esigenza di adottare rimedi per la protezione
delle generazioni umane presenti e future.
2. Il ruolo strategico, ma non esaustivo della responsabilità civile.
In termini più propriamente giuridici, le considerazioni che precedono
trovano singolare corrispondenza nella lunga elaborazione che, muovendo dalla
concezione dell’ambiente come bene immateriale unitario formato da varie
componenti, ciascuna delle quali suscettibile di autonome forme di tutela e distinte
situazioni giuridiche soggettive9, giunge fino alla sua definizione quale «sistema di
relazioni» fra molteplici fattori (antropici, fisici, chimici, naturalistici, climatici,
paesaggistici, architettonici, culturali ed economici) ad opera di un Codice (art. 5,
lett. c) d.lgs. 3 aprile 2006, n.152) che pone come obiettivo primario la promozione
di adeguati «livelli di qualità della vita umana» (art. 2, comma 1). Tale dimensione
relazionale si riflette necessariamente sugli strumenti di intervento e di tutela, nel
senso che essi, non solo devono salvaguardare le condizioni per un equilibrato
rapporto tra le risorse da risparmiare e quelle da trasmettere alle generazioni future
(come impone il principio dello sviluppo sostenibile codificato dall’art. 3 quater,
come novellato dal d.lgs. 16 gennaio 2008 n. 4), ma devono tra loro combinarsi e
rapportarsi entro processi di «mobile ricerca di percorsi adattivi» che conducano
alla scoperta della risposta più adeguata alle sollecitazioni del momento 10.
In siffatto contesto, va collocata la tecnica della responsabilità civile, che
consiste nel «collegare ad un soggetto un evento dannoso, con l’ausilio di un
criterio di imputazione (colpevolezza, preposizione, custodia, proprietà),
sussistendo il rapporto di causalità». 11. Proprio in ragione delle sue caratteristiche,
già da tempo la più avvertita dottrina ha ritenuto non trattarsi dello strumento più
efficace per amministrare i danni diffusi cagionati da disastri di massa12 . E’
certamente vero, in generale, che essa rappresenta un «modo per far sì che il
pubblico realizzi di dovere rispondere per le possibili conseguenze dei suoi atti nei
9 Cfr. anche per adeguati e completi riferimenti G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente,
Giappichelli, Torino, 2008, p. 95.
10
I riferimenti al carattere relazionale e processuale del diritto ambientale sono tratti dal lavoro di M.
CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattivo, comune,
Giappichelli, Torino, 2007, cui si può fare rinvio per ogni approfondimento.
11
Così M. FRANZONI, L’illecito, cit., p. 7.
12 Cfr. P.G. MONATERI, Illecito e responsabilità civile, in M. BESSONE (a cura di), Trattato di diritto
privato, Giappichelli, Torino, 2002, p. 195.
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confronti della natura».13, e che la stessa vale a diffondere un comportamento
maggiormente informato alla prudenza, in quanto la minaccia della sanzione
risarcitoria nei confronti dei soggetti che hanno il controllo di un’attività inquinante
sollecita l’adozione di modalità operative e di tecniche più rispettose
dell’ecosistema. E’ però altrettanto vero che il campo normale di applicazione della
responsabilità civile è rappresentato da eventi circoscritti che coinvolgono una sola
vittima o gruppi ben individuabili di vittime, e che affinché simile tecnica
costituisca una risposta adeguata occorrono criteri chiari per l’identificazione
dell’autore, la quantificazione dei danni e la determinazione dell’apporto causale
dei potenziali fattori e soggetti inquinanti. Il danno all’ambiente, come tipica figura
di mass tort, si allontana decisamente da simile paradigma per il carattere diffuso e
diversificato degli interessi protetti e delle conseguenze dannose, lo strutturale
divario tra componenti individuali e collettive, l’incertezza del profilo causale, non
solo relativamente al rapporto tra l’azione e l’evento, ma anche tra l’evento ed i
vari danni che ne conseguono14. Per tali motivi, è stato esattamente notato che
insistere eccessivamente su tale modalità rimediale può condurre ad un suo utilizzo
puramente declamatorio, come tale inefficiente e «fonte di incertezze ed
eventualmente di eccessi casuali e dannosi»15.
Dal canto suo l’analisi economica, che segue una prospettiva essenzialmente
consequenzialista e pone attenzione al fronte del benessere sociale più che al
profilo della compensazione delle vittime16 , evidenzia anche un altro importante
profilo: la collettività, oltre a dare importanza alla qualità dell’ambiente e della
vita, «dà anche importanza ai beni materiali che sono causa del deterioramento
ambientale denunciato» 17. Di qui la rilevanza di un approccio pragmatico che
induce a valutare se i pregiudizi di una certa attività economica siano compensati
dai benefici che la stessa arreca e che si traduce nell’introduzione, sul piano
normativo o giurisprudenziale, di limitazioni risarcitorie volte ad evitare condanne
eccessive e spropositate che potrebbero condurre al fallimento dei danneggianti
con conseguenti gravissime ripercussioni su importanti settori dell’economia.
Come anche la vicenda BP da cui si è preso le mosse lascia intendere, la negazione
13 Così si legge nell’Introduzione del Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente,
presentato dalla Commissione CE il 9 febbraio 2000, nell’intento di rafforzare il principio «chi
inquina paga».
14
P. G. MONATERI, Il futuro della responsabilità civile per danni all’ambiente in Italia, in B. POZZO (a
cura di), La responsabilità ambientale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 137.
15 Così le sempre attuali considerazioni di P. TRIMARCHI, Per una riforma della responsabilità civile
per danno ambientale, in ID (a cura di), Per una riforma della responsabilità civile per danno
all’ambiente, Giuffrè, Milano, 1994, p. 246.
16
Cfr. S. SHAVELL, Analisi economica del diritto, ed. it. a cura di A. BACCINI-A. FINESCHI,
Giappichelli, Torino, 2004, p. 54.
17 F. ROMANI, Strumenti di politica economica per la tutela dell’ambiente, in Monte dei Paschi di
Siena - Note economiche, 1974, p. 21.
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da parte del Presidente Obama del principio «too big and too difficult to meet» non
giunge fino al punto di escludere la vigenza del correttivo principio «too big to
fail».
Altro profilo da considerare, è che spesso al risarcimento vero e proprio si
giunge solo all’esito e sulla base di percorsi e modalità concordate tra gli attori
della vicenda ed anche grazie alla mediazione politica. L’esperienza dimostra che
la transazione ha più successo delle condanne giudiziarie, in quanto,
contrariamente a quanto sostenuto a livello teorico circa i presunti elevati costi
transattivi dei danni diffusi e la conseguente scarsa appetibilità delle pratiche
concordatarie, la gestione processuale di una pluralità di domande risarcitorie si
appalesa ancora più costosa, anche in relazione agli esiti incerti e lontani nel
tempo, tanto che le parti preferiscono giungere ad un accordo anche perché
tendono a comportarsi sociologicamente come un gruppo riuscendo a veicolare
istanze unitarie e coerenti nei confronti dei soggetti responsabili18 . Ciò è
confermato dai veduti sviluppi della vicenda Exxon Valdez e, per rimanere entro i
confini domestici, dagli esiti del noto caso Seveso, definito con un decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri di approvazione di un atto di accollo e di
transazione delle liti tra lo Stato e la Regione Lombardia, da una parte, e la soc.
Icmesa e Givaudan dall’altra, e giunto all’esame dei tribunali civili solo per residue
richieste di danni non patrimoniali19. Significativo è altresì l’istituto del contratto di
transazione globale che, all’esito di una prassi ministeriale sperimentata con la
conclusione di accordi di programma allo scopo di mettere fine al notevole
contenzioso esistente con i destinatari di prescrizioni impositive di obblighi di
messa in sicurezza e di bonifica, è stato codificato dall’art. 2 del d.l. 30 dicembre
2008, n. 208, convertito nella l. 27 febbraio 2009, n. 13, recante «Misure
straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente». Tale
contratto, introdotto per ovviare al pratico insuccesso dei meccanismi di bonifica
dei siti inquinati disciplinati dal d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 e dal d.m. 25 ottobre
1999, n. 471.20 , viene inquadrato nell’ambito degli strumenti di attuazione degli
interventi di bonifica e messa in sicurezza di uno o più siti di interesse nazionale
con l’obiettivo di definire la spettanza e la quantificazione degli oneri di bonifica,
18
Simili notazioni sono sviluppate con estrema chiarezza da P.G. MONATERI, Illecito e responsabilità
civile, cit., p. 199 e nota 19.
19
Ibid., pp. 200-201. Da ultimo Cass., Sez. III, 13 maggio 2009, n. 11059, in questa Rivista, 2010,
numero 0, con commento di E. BLASI, Il caso Seveso: ampliamento della risarcibilità del danno non
patrimoniale e riflessi sulla nozione di bene-amiente, ha ammesso il risarcimento autonomo del
danno non patrimoniale derivante da reato, pur in assenza di danno biologico, in favore di coloro che
in virtù di un rapporto di vicinanza, per ragioni di residenza o di frequentazione abituale, con
l’ambiente inquinato ne hanno presuntivamente subito conseguenze in termini di «patema d’animo
indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute».
20 Vicenda su cui si vedano: A. MILONE, Bonifica dei siti di interesse nazionale: le recenti pronunce
del giudice amministrativo, in Ambiente & Sviluppo, 2009, p. 1010; F. GIAMPIETRO–A. QUARANTA,
Gli orientamenti del giudice amministrativo sulla bonifica nel passaggio tra il vecchio ed il nuovo
regime, ivi, 2008, p. 205.
8
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ANNO 2011 / NUMERO 1
di ripristino e di risarcimento del danno ambientale e degli altri eventuali danni che
possano essere chiesti dallo Stato e dagli altri enti territoriali; il relativo schema è
assoggettato ad adeguate procedure di contraddittorio e di coordinamento
infrastrutturale mediante le tecniche, rispettivamente, delle osservazioni e della
conferenza di servizi, cui è riservata l’acquisizione e valutazione di tutti gli
interessi rilevanti; la stipula dell’atto comporta l’abbandono del contenzioso
pendente e preclude ogni ulteriore azione per il rimborso degli oneri di bonifica e
di ripristino, per il risarcimento del danno ambientale nonché per le altre eventuali
pretese risarcitorie azionabili per i medesimi fatti dallo Stato e dagli altri enti
territoriali.
Da queste notazioni si può desumere una prima conclusione che funge da
sviluppo di quanto già notato in apertura: la responsabilità civile rappresenta una
risposta necessaria, in quanto anche le mediazioni politiche e le procedure
transattive appena vedute operano non nel vuoto ma in un ambiente mobilitato e
presidiato da regole di tort che possono svolgere una funzione strategica e
propulsiva per l’individuazione di soluzioni adeguate; si tratta però di una risposta
che non può essere né esclusiva né esaustiva, in quanto non è sufficiente traslare i
costi dei danni in capo ai presunti colpevoli per rendere l’ambiente più pulito e
ridurre per il futuro i rischi di ulteriori incidenti 21 . Sovradimensionarne la portata
può essere pertanto rischioso e controproducente.
3. Il carattere relazionale dei rimedi al danno ed i limiti dell’approccio
tipologico.
Per verità, i limiti e le particolarità del modello di responsabilità applicato al
danno ambientale sono stati evidenziati sin dall’entrata in vigore della prima
disciplina introdotta dall’art. 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349. Essa apparve subito
come «una sorta di mostruoso incrocio tra categorie di diritto pubblico e categorie
del diritto privato», che proiettava il rimedio risarcitorio in una logica punitiva e
sanzionatoria ritenuta estranea al sistema generale della responsabilità civile22.
Della stessa furono in particolare criticati: il criterio soggettivo di imputazione
della responsabilità, ritenuto inadeguato a fronteggiare fenomeni spesso legati ad
attività imprenditoriali o, comunque, ad incidenti di cui non è facile ricostruire la
dinamica in modo da individuare profili di colpevolezza ed in cui, in ogni caso,
non sono in grado di incidere in modo preventivo i potenziali danneggiati; il
ricorso al discusso principio dell’antigiuridicità, con la necessaria dimostrazione
21 Chiare in tal senso le notazioni svolte da P.G. MONATERI, Il futuro della responsabilità civile per
danni all’ambiente in Italia, cit., pp. 139-140, il quale osserva che la sfera classica del tort, cui siamo
abituati a guardare quando parliamo di responsabilità civile, rappresenta solo un sottoinsieme di un
«insieme molto più grande» composto da tutti i danni all’ambiente.
22 Così F. D. BUSNELLI, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, p. 643 ss.
ora in F. D. BUSNELLI – S. PATTI, Danno e responsabilità civile, Giappichelli, Torino, 2003, p. 155 ss.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
della violazione di norme e provvedimenti relativi all’ambiente; il non coerente
rapporto con la misura della riduzione in pristino ed i criteri di liquidazione dei
danni23 .
Nello stesso tempo, però, i richiami testuali e culturali alla responsabilità
aquiliana dell’art. 2043 c.c., tradizionalmente considerata quale termine di
riferimento di ogni ipotesi di responsabilità pubblica, hanno indotto dottrina e
giurisprudenza ad interrogarsi a lungo, con approccio tipologico, su possibili
consonanze o devianze rispetto al totalizzante modello generale, polarizzando
l’attenzione ed il dibattito sul meta-problema della comparazione di assetti
disciplinari24 . E’ così accaduto che, a dispetto della veduta marginalità del
risarcimento nel contesto delle risposte ordinamentali ai danni ambientali, molte
energie siano state investite proprio nell’analisi delle tecniche risarcitorie e delle
relazioni configurabili tra le varie tipologie previste dal legislatore. Un fenomeno
analogo si è verificato anche nel campo della responsabilità per esercizio
illegittimo della funzione amministrativa: introdotta con la nota sentenza Cass.,
Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500 e poi codificata con la l. 21 luglio 2000, n. 205,
essa ha suscitato accesi dibattiti teorici e vivaci contrasti tra le giurisdizioni civile e
amministrativa, ai quali ha fatto riscontro una limitata applicazione pratica ed il
forte ridimensionamento operato con le recenti riforme del processo sugli appalti e
la codificazione del processo amministrativo.
Simile impostazione ha condizionato anche le riforme che si sono succedute
nel ventennio che va dalla istituzione del Ministero dell’Ambiente all’approvazione
del Codice dell’ambiente. Sembra infatti che il legislatore, oltretutto fortemente
vincolato dal livello comunitario, abbia operato avendo riguardo soprattutto alle
tesi dibattute piuttosto che alle problematiche verificatesi nell’applicazione
concreta degli istituti. Il che ha condotto all’elaborazione di un assetto normativo
che difetta di unitarietà e coerenza ed appare più il frutto della stratificazione di
discipline e visioni differenti 25 che non di una scelta strategica e consapevole.
Così, se si volge attenzione alla parte quarta del Codice dell’ambiente (artt.
299-318), si ha la netta impressione della compresenza di normative diverse sia
ratione temporis sia con riferimento ai possibili destinatari.
Sotto il primo profilo, è noto che la nuova disciplina non è applicabile al
danno ambientale pregresso, per tale intendendosi quello «causato da
23
Cfr. in generale M. COMPORTI, La responsabilità per danno ambientale, in Foro it., 1987, III, p.
269.
24 Cfr., per esempio, la felice sintesi delle problematiche che «fanno del risarcimento del danno
ambientale uno degli ambiti più controversi della responsabilità civile» svolta da M. GORGONI,
Ripristino, bonifica, risarcimento in forma specifica: dei vari volti della riparazione del danno
all’ambiente, in AA.VV., Liber amicorum per Francesco Donato Busnelli, Giuffrè, Milano, 2008, p.
324, ove sono anche reperibili i principali riferimenti alla dottrina e giurisprudenza sull’argomento.
25
In generale, sui limiti della codificazione in materia ambientale, si rinvia a F. FRACCHIA,
“Codificare” l’ambiente, in M. P. CHITI e R. URSI (a cura di), Studi sul Codice dell’ambiente,
Giappichelli, Torino, 2009, p. 14.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
un’emissione, un evento o un incidente verificatisi prima della data di entrata in
vigore della parte sesta» (art. 303, lett. f), né alle situazioni di inquinamento per le
quali siano già state «avviate le procedure relative alla bonifica, o sia stata avviata
o sia intervenuta la bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti» (art. 303, lett.
i): a tali eventi anteriori al 29 aprile 2006 continuerà, dunque, ad applicarsi l’art. 18
della l. n. 349/1986, la cui abrogazione (disposta dall’art. 318, comma 2, lett. a del
Codice) produrrà effetto solo con riguardo ai fatti accaduti ed accertati
successivamente a tale data26. La ultrattività del regime previgente è stata solo in
parte mitigata dall’art. 5 bis del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con
modificazioni nella l. 20 novembre 2009, n. 166, che, allo scopo di superare la
procedura di infrazione n. 2007/4679 promossa dalla Commissione ai sensi
dell’art. 226 del Trattato CE, ha esteso alle domande risarcitorie proposte o da
proporre ai sensi dell’art. 18 della l.n. 349/1986 l’applicazione dei criteri di
determinazione dell’obbligazione risarcitoria stabiliti dall’art. 311, commi 2 e 3 del
Codice, con l’unico limite dei giudizi definiti con sentenze passate in giudicato. Si
assiste, infatti, ad una disapplicazione parziale del contenuto dell’art. 18, facendo
peraltro salva la ultrattività di altre disposizioni speciali (es. per i danni da
inquinamento marino, da attività nucleare, da incendi boschivi, da impiego di
organismi geneticamente modificati, da incenerimento di rifiuti 27) e restando
irrisolto il problema dei rinvii recettizi da alcune di esse fatti all’art. 1828.
Sotto il secondo profilo, mentre gli artt. 300 e 304 e ss. contemplano una
responsabilità speciale per le specifiche e selezionate attività professionali
(elencate nell’allegato III della direttiva) sottoposte a regolamentazione
amministrativa ai sensi della direttiva 2004/35/CE, in quanto ritenute
potenzialmente pericolose per la salute e l’ambiente29, gli artt. 311 e ss. prevedono
una ipotesi di responsabilità generale e residuale per chiunque arrechi danno
all’ambiente nell’esercizio di attività biologiche o imprenditoriali indifferenziate.
La prima forma di responsabilità, in quanto riferita ad attività assoggettate a
stringenti controlli preventivi e standards di emissione impositivi di valori di
qualità del corpo recettore che già contemplano il livello ottimale di inquinamento
26
Cfr. E. GALLO, L’evoluzione sociale e giuridica del concetto di danno ambientale, in Amministrare,
2010, p. 262, e la conforme giurisprudenza ivi citata.
27
Una illustrazione dei vari sistemi di responsabilità vigenti alla vigilia del Codice si deve a F.
GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all’ambiente: sintesi di leggi e giurisprudenza messe a
confronto con la direttiva 2004/35/CE e con il T.U.A., in Riv. giur. amb., 2006, p. 19.
28
Su questi aspetti, si veda G. TADDEI, Il risarcimento del danno ambientale dopo l’art. 5 bis del D.L.
n. 135/2009, in Ambiente&Sviluppo, 2010, p. 126.
29
Cfr. U. SALANITRO, Il risarcimento del danno ambientale: un confronto tra vecchia e nuova
disciplina, in S. PAGLIANTINI - E. QUADRI - D. SINESIO (a cura di), Scritti in onore di Marco
Comporti, Giuffrè, Milano, 2008, p. 2406.
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ritenuto compatibile con la salubrità ambientale30, pare avvicinarsi notevolmente al
modello della responsabilità oggettiva o presunta di cui all’art. 2050 c.c., posto che
gli obblighi di prevenzione e di ripristino scattano per il mero verificarsi del danno
e la sua ascrivibilità all’operatore, mentre lo stesso è esonerato dai relativi costi
solo se è in grado di fornire le prove liberatorie indicate dall’art. 308, commi 4 e 5.
Il riferimento ad operatori professionali qualificati parrebbe giustificare il rinvio ad
una soglia rilevante di danno, misurabile con riferimento al deterioramento diretto
o indiretto di una risorsa naturale o delle utilità da essa assicurate (art. 300), con
conseguente esclusione della figura del danno presunto o danno-evento (lesione in
sé dell’ambiente) e coloritura in senso per lo più compensativo di una
30 Sulla progressiva tipizzazione del concetto di salubrità ambientale, ormai strettamente collegato al
rispetto dei limiti legali di immissione, si veda da ultimo Cass., Sez. II, 8 marzo 2010, n. 5564,
secondo cui l’art. 844 c.c. «deve essere letto, tenendo conto che il limite della tutela della salute è da
ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una
interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze
della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita. Ne consegue che le immissioni
acustiche determinate da un’attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel
pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che
le subisce, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire
ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici
che consentano l’esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire
immissioni superiori alla normale tollerabilità».
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
responsabilità che è collegata al rischio d’impresa e si configura, dunque, in
termini di responsabilità da posizione o imprenditoriale31.
La seconda forma di responsabilità, invece, sembra ricalcare il modello
soggettivo del vecchio art. 18, laddove il fatto illecito è collegato ad azioni od
omissioni compiute con violazione di legge, di regolamento o di provvedimento
amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme
tecniche (art. 311, comma 2). Il carettere indifferenziato dei soggetti e delle attività,
unitamente alla soglia indeterminata del danno, identificato in via generale con
qualunque alterazione dell’ambiente, sono compensati dal criterio selettivo della
colpa e dalla coloritura in senso per lo più punitivo della responsabilità.
Ma, soprattutto, l’aspetto generale che rende maggiormente arduo seguire i
consueti approcci pare essere la compresenza, accanto alla tradizionale idea di
rispondere di qualcosa, rendendo conto delle proprie azioni secondo una logica
retributiva e simmetrica, dell’idea di rispondere a qualcuno. Una responsabilità
per32 che, in un contesto, come veduto, fortemente relazionale e connotato da
31 In questi termini puramente oggettivi è stata definita la responsabilità di operatori economici «che
producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti»
dal Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia, in sede di appello cautelare (cfr. ord.
in data 2 aprile 2008) avverso la sentenza del TAR Sicilia, sez. II, 20 luglio 2007, n. 1254, che, con
riferimento al noto caso dell’inquinamento della Rada di Augusta per effetto della realizzazione negli
anni ’60 del polo petrolchimico Augusta-Priolo-Melilli, aveva invece offerto una lettura unificante e
combinata delle varie disposizioni del Codice (seguita e sviluppata anche da B. POZZO, La direttiva
2004/35/CE e il suo recepimento in Italia, in Riv. giur. amb., 2010, pp. 61 ss.), privilegiando il criterio
della colpa di cui all’art. 311, comma 2, in luogo di quello di strict liability ritenuto anche inefficiente
dal punto di vista della tutela ambientale. Sulla questione, è da ultimo intervenuta la Corte giust., con
sentenza 9 marzo 2010, in causa C-378/08, la quale ha evidenziato la centralità del nesso di causalità
chiarendo che, anche in caso di sua presunzione, l’autorità competente deve comunque disporre «di
indizi plausibili» in grado di darvi fondamento, «quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore
all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti
impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività». Anche nelle ipotesi di responsabilità
oggettiva, dunque, il principio «chi inquina paga» impone l’accertamento dell’origine della
contaminazione e della sua imputazione causale all’attività dell’imprenditore. Nelle conclusioni
dell’Avvocato Generale Juliane Kokott, presentate il 22 ottobre 2009, si legge che il termine
«Verursacherprinzip» (letteralmente «principio del soggetto causatore»), con cui si traduce in tedesco
il principio «chi inquina paga», mira a stabilire che colui che ha provocato un inquinamento è
responsabile per la sua eliminazione e che «una responsabilità svincolata da un contributo causale alla
causazione del danno non corrisponderebbe all’orientamento della direttiva» potendo produrre il
controproducente effetto di attenuare la responsabilità del soggetto effettivamente responsabile:
infatti, «non la società e neppure i terzi, bensì l’inquinatore è il soggetto tenuto a sopportare le spese
per eliminare un inquinamento. La conseguenza è che si verifica una internalizzazione dei costi
ambientali, vale a dire questi ultimi vengono inglobati nei costi di produzione dell’impresa
inquinatrice» (par. 85 e 98). Si veda il commento di G. TADDEI, Responsabilità, nesso causale e
giusto procedimento (nota a Corte di Giustizia 9 marzo 2010 in C 378/08 e CC 379-380/08), in
Ambiente&Sviluppo, 2010, p. 437.
32 Cfr. per approfondimenti H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., p. 117; E. PULCINI, La cura del
mondo, cit., pp. 225-262.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
principi solidaristici33, si configura come «farsi carico del futuro» e si declina
secono una logica asimmetrica che privilegia «l’attenzione all’unicità dell’altro,
alla specificità della situazione, alle relazioni nelle quali il soggetto si trova di volta
in volta a essere inserito e delle quali non può fare a meno di tenere conto in quanto
significative per la sua stessa identità e per il suo stesso progetto di vita» 34.
Ragionare dunque per modelli e relativi assetti disciplinari, allo scopo di
metterne in evidenza continuità o cesure nel passaggio dei vari regimi giuridici,
appare poco proficuo ed anzi fuorviante, dovendosi invece preferire un approccio
operazionale35 che, inducendo a misurare il rarefatto ambiente della responsabilità
con l’ambito concreto ed operativo dell’esperienza, spinge l’interprete a fuoriuscire
da un atteggiamento meramente esegetico per configurare la reazione ai singoli
fenomeni di inquinamento in termini di operazione unitaria che, attraverso la
combinazione di diversi strumenti, possa condurre al soddisfacente risultato di
integrare il fiducioso sguardo per il futuro con l’ineludibile rendiconto con il
passato.
4. L’operazione rimediale ed i suoi principi: la priorità della tutela in forma
specifica e la procedimentalizzazione della responsabilità.
Dalle superiori considerazioni discende l’ipotesi di lettura della fattispecie
«responsabilità per danno ambientale» in termini di operazione unitaria e
complessa in cui si susseguono e si associano strumenti di azione e di reazione.
Si tratta ora di vedere i principi fondamentali che regolano i rapporti tra tali
strumenti e reggono lo svolgimento di simile operazione.
Scontato il richiamo ai principi dell’azione preventiva e della correzione dei
rischi alla fonte, da leggere anche in connessione con il fondamentale canone della
precauzione, conviene in questa sede soffermarsi sulla priorità della tutela in forma
specifica, che implica una risposta capace di assicurare l’evolutiva ed adattiva
valutazione degli interessi in gioco in modo da adeguarne la composizione al
mutare delle circostanze di fatto e di diritto, rispetto a quella per equivalente, che,
alla stregua di una via di fuga, lascia invece immutato l’assetto di interessi che si è
venuto a creare in un certo momento monetizzandone lo scompenso prodotto dall’
illecito evento perturbativo.
Per una migliore comprensione del punto pare utile volgere lo sguardo al già
accennato versante del risarcimento da illegittimo esercizio della funzione
33 Messi particolarmente in evidenza da F. FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria
dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. economia, 2002, p. 215; ID., Lo
sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie
umana, Ed. Scientifica, Napoli, 2010.
34
E. PULCINI, La cura del mondo, cit., pp. 257-258.
35
Per la cui messa a fuoco, con riferimento alla nozione di operazione, sia consentito rinviare a G. D.
COMPORTI, Il principio di consensualità tra bilanci e prospettive, in www.giustamm.it, n. 4/2010.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
amministrativa. Per quanto il dibattito che ha interessato la tematica abbia nel
tempo assunto i toni esoterici di uno scontro ideologico incentrato sulla figura della
pregiudizialità e condizionato dal confronto competitivo tra giurisdizioni, lo stesso
ha comunque rivelato una questione di fondo: la riparazione di un pregiudizio
sofferto dal titolare di una situazione soggettiva posta in relazione a situazioni
soggettive terze, suscettibili di assumere portata collettiva, difficilmente può essere
disgiunta da un preliminare momento di valutazione comparativa degli interessi in
gioco, onde consentire un loro rinnovato assetto. L’illecito, cadendo entro un
rapporto plurisoggettivo che tocca profili non confinabili entro i limiti della
relazione bipolare vittima-danneggiante, rappresenta occasione per attivare gli
strumenti (quali il potere di autotutela) ed i rimedi (che vanno da quelli interni al
ben noto circuito: azione di impugnazione - effetti conformativi della sentenza giudizio di ottemperanza, fino all’azione di condanna e/o adempimento) idonei ad
incidere su precedenti decisioni distributive di beni e risorse ed attribuire a chi ne
ha diritto l’utilità pretesa, rendendo percorribile solo in via residuale e
complementare la via della compensazione per equivalente. Questa assume una
funzione minimale nell’economia dei rimedi esperibili, non già nel senso indicato
dalla Corte di Cassazione, cioè in quanto «misura minima e perciò necessaria di
tutela di un interesse» 36, ma in quella divisata dal Consiglio di Stato di misura
residuale entro un sistema che consente il passaggio a riparazioni per equivalente
solo quando l’interesse legittimo sia stato impiegato quale strumento di
36
In questi termini Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30254, in Danno e responsabilità, 2009, p.
722, con commento di M. Clarich, chiariva che a tale forma di tutela può aggiungersi anche quella
impugnatoria, che dunque assumerebbe natura accessiva a quella base di tipo risarcitorio, spettando
comunque «al titolare della situazione protetta, in linea di principio, scegliere a quale fare ricorso in
vista di ottenere ristoro al pregiudizio provocatogli dall’essere mancata la soddisfazione che è attesa
attraverso la condotta altrui».
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
conformazione dell’attività amministrativa37. Simile impostazione è già stata
codificata nel settore degli appalti pubblici (cfr. gli artt. 243 bis, 245 bis, 245 ter,
245 quater, 245 quinques, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, introdotti dal d.lgs. 20
marzo 2010, n. 53 e poi per lo più confluiti nel Codice del processo
amministrativo), anticipando così il più generale assetto delle tutele che, pure
all’esito di un travagliato iter e con lievi varianti, è stato definito in sede di riordino
del processo amministrativo (cfr. art. 30 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104). E’, infatti,
previsto che il ricorso giurisdizionale sia preceduto da una informativa relativa ai
vizi rilevati, in modo da mettere la stazione appaltante in condizione di attivare in
via di autotutela misure di correzione o di bonifica dell’errore alla fonte; è quindi
attribuita al giudice amministrativo giurisdizione esclusiva tanto in ordine
all’aggiudicazione quanto sulla sorte del contratto al fine di disporre, a seguito
dell’annullamento del primo atto (c.d. pregiudizialità di annullamento) e dopo
avere dichiarato la inefficacia totale e parziale del secondo (c.d. pregiudizialità
«composta»), e tenuto conto degli interessi delle parti, dei vizi riscontrati e dello
stato di avanzamento della fattispecie, l’aggiudicazione ed il subentro nel contratto
in favore del terzo pretermesso; è stato, di conseguenza, limitato il rimedio
risarcitorio all’ipotesi residuale e subordinata in cui il giudice non dichiari
37 Parte della giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di poter ricavare simili affermazioni dai
principi costituzionali. Per esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2280, in Foro amm.C.d.S., 2002, p. 897, ha sostenuto che la «effettività della tutela del cittadino nei confronti dell’attività
provvedimentale o materiale della pubblica amministrazione, predicata a livello costituzionale dagli
articoli 24 e 113, impone di non considerare la tutela restitutoria o ripristinatoria come eventuale o
eccezionale, limitata ad ipotesi residuale, ed anzi spinge a ritenere che proprio la tutela risarcitoria
patrimoniale deve essere considerata sussidiaria rispetto alla prima, con la conseguenza che essa deve
considerarsi praticabile solo quando quella restitutoria non possa essere conseguita con successo».
Altre volte si è richiamato il «doveroso contemperamento dei principi di civiltà giuridica conseguenti
al riconoscimento della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi con quelli di doverosa tutela
degli interessi anche patrimoniali dell’amministrazione» (Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 2001, n.
1684, in Foro amm., 2001, p. 400); o si è fatto appello ai principi di coerenza dell’ordinamento e di
certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico. Simili prospettazioni hanno alimentato una
linea di pensiero che è giunta almeno fino a Cons. Stato, Ad. pl., 22 ottobre 2007, n. 12, in Foro it.,
2008, p. 1; Id., Sez. VI, 3 febbraio 2009, n. 578; Id., Sez. VI, 21 aprile 2009, n. 2436, in Foro it, 2009,
p. 536. Si legge infatti nella sentenza n. 12/2007 che il «coinvolgimento» dell’interesse del singolo
nell’interesse della collettività spiega la priorità dell’azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è
possibile «conformare l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo
equilibrio tra l’uno e gli altri interessi». La stessa Relazione all’atto del Governo n. 212, recante lo
schema di decreto legislativo di attuazione della delega per il riordino del processo amministrativo, ha
addotto «evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica
amministrazione» a giustificazione della previsione di termini decadenziali per l’esercizio dell’azione
risarcitoria e del richiamo ai principi dell’art. 1227 c.c.
16
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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l’inefficacia del contratto, lasciando così immutato l’assetto degli interessi
esistente38.
Non è allora un caso se un altro e correlato settore a forte incidenza
comunitaria ha ricevuto una sistemazione sostanzialmente analoga. Come negli
appalti si è sentita la necessità di evitare che un assetto di interessi viziato ed
inefficace potesse permanere in danno della collettività, valorizzando così la
effettiva tutela del terzo in funzione della bonifica delle procedure inquinate, così
le politiche comunitarie in campo ambientale hanno da tempo evidenziato la
necessità di evitare che il medesimo principio della concorrenza potesse essere
pregiudicato dall’esistenza di inefficienti regimi di responsabilità. Simile esigenza,
si è tradotta nella preferenza accordata già nel vecchio art. 18 al ripristino dello
stato dei luoghi, in ragione dell’assunto – ripetuto da costante giurisprudenza – che
dalla condotta illecita dell’agente normalmente scaturiscono, oltre ad effetti
dannosi istantanei, anche sequele di effetti lesivi permanenti o destinati a rinnovarsi
nel tempo futuro e a colpire categorie indeterminate di soggetti e beni con
conseguenze, oltre tutto, di difficile previsione e di ancor più opinabile
quantificazione in termini monetari.
Rispetto a tale impostazione, la normativa attuale introduce alcuni elementi
di maggiore chiarezza. Per un verso, infatti, viene inserita nella disciplina generale
la rinnovata normativa in materia di bonifica dei siti inquinati risalente al c.d.
decreto Ronchi del 1997. Tale procedura, ora contemplata dagli artt. 242 e ss. del
Codice, si configura quale misura di ripristino delle matrici ambientali contaminate
che si pone in termini di specialità e di priorità rispetto al risarcimento per
equivalente: specialità, perché definisce in modo puntuale e particolare la serie di
adempimenti volti ad integrare la nozione di ripristino della precedente situazione
cui fa generico riferimento l’art. 311, comma 2; priorità, perché, in linea con la
prassi seguita dalle amministrazioni soprattutto con riferimento agli inquinamenti
marini, lacuali e fluviali, la stessa disposizione normativa chiarisce che la bonifica
deve necessariamente precedere il risarcimento, che dunque assume carattere
soltanto residuale 39. Appare pertanto evidente che, al verificarsi di un evento
potenzialmente in grado di contaminare l’ambiente o in presenza di rischi di
aggravamento di situazioni di contaminazione storiche, il responsabile
dell’inquinamento deve mettere in opera entro le successive 24 ore le necessarie
misure di prevenzione con le modalità di cui all’art. 304, comma 2, ed
eventualmente di messa in sicurezza di urgenza, all’esito delle quali si perverrà,
38 Per approfondimenti, si vedano: M. LIPARI, Il recepimento delle “direttiva ricorsi”: il nuovo
processo super-accelerato in materia di appalti e l’inefficacia “flessibile” del contratto, in Foro
amm.-Tar, 2010, XCI; A. BARTOLINI – S. FANTINI – F. FIGORILLI, Il decreto legislativo di
recepimento della direttiva ricorsi: il nuovo rito in materia di appalti, lo standstill contrattuale e
l’inefficacia del contratto, in Urb. app., 2010, p. 660.
39
Cfr. G. TADDEI, Il rapporto tra bonifica e risarcimento del danno ambientale, in
Ambiente&Sviluppo, 2009, p. 419.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
passando per una serie articolata di sub-procedimenti40 , alla definizione del
progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o
permanente e, ove necessario, delle ulteriori misure di riparazione e ripristino
ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante
dallo stato di contaminazione presente nel sito (art. 242, comma 7). Se si tiene
conto anche del concorrente potere di ordinanza ex art. 313 cui il Ministro
dell’ambiente può fare ricorso per ingiungere il ripristino ambientale o, in
mancanza, il pagamento di una somma pari al valore economico del danno
accertato, con conseguente assorbimento anche del giudizio risarcitorio che, per
suo effetto, diviene improponibile ed improcedibile (art. 315), ben si comprende
che il risarcimento avviene più per via procedimentale che non processuale ed è
retto dai fondamentali principi di adeguatezza istruttoria, partecipazione,
contraddittorio, coordinamento infrastrutturale, motivazione, valutazione
comparativa dei vantaggi e svantaggi delle differenti opzioni esistenti sul campo e
proporzionalità, che regolano l’attività amministrativa 41.
Simile procedimentalizzazione dell’operazione riparatoria implica alcune
rilevanti conseguenze. La prima è che la tutela delle posizioni soggettive coinvolte
avviene soprattutto per il tramite dell’interesse alla partecipazione procedimentale,
presidiata dalla garanzia del contraddittorio sin dalle preliminari verifiche
istruttorie (es. consulenze tecniche, ispezioni, verificazioni e ricerche ex art. 312,
commi 3 e 4) e destinata a svolgersi secondo le svariate modalità all’uopo previste
(accordi, accordi di programma, conferenze di servizi, concerti, intese, denunce,
osservazioni, deduzioni, accesso agli atti), piuttosto che per mezzo dell’azione
giurisdizionale. A tale ampia legittimazione procedimentale fa naturalmente
riscontro una generale legittimazione a ricorrere al giudice amministrativo, in sede
di giurisdizione esclusiva, per l’annullamento degli atti e provvedimenti adottati
40
Per il cui esame si rinvia ora a P. M. VIPIANA PERPETUA, La bonifica dei siti contaminati:
considerazioni sui profili procedimentali, in Urb. app., 2010, p. 922; ID., L’istruttoria nei
procedimenti di bonifica dei siti inquinati, ibid., p. 1133. Il procedimento si ramifica nelle seguenti
principali fasi: indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento al fine di verificare il
livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC); in caso di superamento delle medesime
CSC, autorizzazione del piano di caratterizzazione recante la descrizione delle operazioni da svolgere
per la ricerca delle sostanze contaminanti; approvazione del documento di analisi del rischio sito
specifica per la verifica delle concentrazioni soglia di rischio (CSR); in caso di non superamento dei
valori CSR, dichiarazione di conclusione positiva del procedimento, con eventuale definizione di un
programma di monitoraggio; in caso di superamento dei valori CSR, approvazione del progetto
operativo di bonifica. Analogo svolgimento ha anche la procedura di bonifica dei siti di interesse
nazionale di cui all’art. 252 del Codice, che si caratterizza dunque solo per la competenza accentrata
in capo al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e per le preliminari operazioni di
individuazione e perimetrazione dei siti che sono espressive dell’indirizzo politico-amministrativo. In
termini di specialità si configura invece il procedimento di bonifica dei siti di preminente interesse
pubblico per la riconversione industriale, ora disciplinato dall’art. 252 bis del Codice, che ruota
intorno al meccanismo consensuale dell’accordo di programma.
41 Se ne veda l’adeguata applicazione assicurata, tra gli altri, da parte del TAR Toscana, Sez. II, nelle
sentenze: 6 maggio 2009, n. 762; 14 ottobre 2009, n. 1540; 18 dicembre 2009, n. 3973; e da ultimo 6
luglio 2010, n. 2316.
18
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dall’amministrazione, o per la contestazione del silenzio inadempimento o ancora
per il risarcimento del danno subito non già a causa dell’illecito ambientale ma per
effetto del ritardo nell’attivazione da parte del Ministro delle misure di
precauzione, prevenzione o contenimento del danno (art. 310 in relazione all’art.
133, lett. s, c.p.a.). Per contro, ad una tutela fortemente sbilanciata sul privilegiato
fronte amministrativo (procedimento e processo), appare a questo punto logico che,
per una ragione di coerenza e simmetria funzionale, si associ una limitazione delle
forme di accesso alla residuale azione risarcitoria per danno ambientale, la cui
legittimazione risulta adesso riservata ex art. 311, comma 1, allo Stato, per il
tramite del Ministro dell’ambiente, quale ente esponenziale di un interesse
collettivo a carattere nazionale ed unitario. Tale opzione accentratrice, per quanto
non escluda 42 una concorrente ed autonoma legittimazione processuale in capo alle
Regioni ed altri enti territoriali sul cui territorio si sia consumato il vulnus
ambientale43 o alle associazioni ambientaliste che agiscano per fare valere iure
proprio il differente pregiudizio44 patito dal sodalizio rappresentato a causa del
42
Come sottolinea Corte cost., 23 luglio 2009, n. 235, punto 12 della motivazione.
43 A tali enti un orientamento giurisprudenziale meno formalistico tende, per esempio, a riconoscere
una autonoma legittimazione a promuovere l’azione civile in sede penale ai sensi della clausola
generale di cui all’art. 2043 c.c.: cfr. Cass. pen, Sez. III, 11 gennaio 2010, n. 755, nonché Trib. Siena,
Sez. distaccata di Poggibonsi, ord. 18 febbraio 2010, in Riv. giur. amb., 2010, p. 581, con nota di A.
GRATANI, Enti territoriali e azione risarcitoria ambientale dopo il TUA.
44 Comprensivo anche del danno all’immagine, anche turistica, dell’ente per il discredito derivante
alla propria sfera funzionale dal danno ambientale. Così già Cass., Sez. III, 15 aprile 1998, n. 3807, in
Giust. civ., 1999, I, p. 223, con note di Cacciavillani e Lo Iudice sul disastro del Vajont. Cfr. anche
Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2004, n. 48402, che richiama altri precedenti.
19
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
degrado ambientale45, si risolve in definitiva in una semplificazione della cabina di
regia dell’intera operazione in funzione della conduzione di una strategia unitaria
che, scongiurando il rischio di duplicazioni e dispersioni delle iniziative e
valorizzando il principio della collaborazione intersoggettiva (art. 299, comma 2),
possa condurre ad esiti più apprezzabili in termini di tutela ambientale. Piuttosto, la
segnalata procedimentalizzazione della responsabilità comporta, come segnalato, la
diffusione di un notevole contenzioso 46 di competenza del giudice amministrativo,
con conseguente possibile incremento della concorrenza tra le giurisdizioni (civile,
45 Così, sempre relativamente alla costituzione di parte civile nel processo penale, Cass. pen., Sez. III,
16 aprile 2010, n. 14828, che, nel riassumere la giurisprudenza sul punto, ha ricordato come la
legittimazione non riguarda il danno ambientale di natura pubblica ed è limitata alle associazioni non
portatrici di interessi meramente diffusi, comuni a più persone e non sucettibili di appropriazione
individuale, ma esponenziali di interessi ambientali, la cui concreta differenziazione e
soggettivizzazione più desumersi da circostanze quali: il fine statutario, il radicamento nel territorio
anche attraverso sedi sociali, la rappresentatività di un numero significativo di consociati, la
continuità del suo contributo a difesa del territorio. Resta inoltre sempre salva la possibilità di
intervenire nei giudizi per danno ambientale, ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 349/1986
non abrogato dall’art. 318 del Codice (TAR Toscana, Sez. II, 2 dicembre 2009, n. 2584). Sul punto la
giurisprudenza è ferma nell’ammettere la legittimazione processuale delle associazioni nazionali
destinatarie del decreto di riconoscimento di cui all’art. 13 della stessa l.n. 349/1986, e non alle
relative articolazioni regionali o territoriali, che non hanno autonomia neppure relativamente ad atti
ad efficacia territoriale limitata (Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2010, n. 1403); esiste altresì un
crescente indirizzo volto a ritenere possibile una legittimazione caso per caso in favore di associazioni
o comitati anche non riconosciuti, purché abbiano fra gli scopi statutari la tutela ambientale, operino
nell’area geografica che viene in rilievo, e rivestano una posizione differenziata in virtù di un
adeguato grado di rappresentatività, il collegamento stabile nel tempo con il territorio di riferimento e
un’azione dotata di apprezzabile consistenza anche tenuto conto del numero e della qualità degli
associati (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23 aprile 2003, n. 1830; Id., Sez. VI, 25 giugno 2008, n. 3234; TAR
Piemonte, Sez. I, 25 settembre 2009, n. 2292; TAR Toscana, Sez. II, 6 ottobre 2009, n. 1505). Per
una diffusa ed aggiornata panoramica dei vari orientamenti giurisprudenziali, si rinvia a Corte di
Cassazione – Ufficio del Massimario e del Ruolo, Relazione tematica n. 112 del 1° settembre 2010,
dal titolo «Riferimenti normativi vecchi e nuovi nella delineazione delle responsabilità da illecito
ambientale e profili soggettivi di risarcibilità a favore del soggetto leso», par. 7.
46 Cfr. A.L. DE CESARIS, L’amministrazione fa male all’ambiente e all’impresa, in Riv. giur. amb.,
2007, p. 836; P.M. VIPIANA PERPETUA, La bonifica dei siti contaminati, cit., p. 916.
20
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
penale, contabile ed amministrativa) 47 abilitate ad intervenire sulle medesime
vicende, che non appare in linea con il principio della semplificazione e
concentrazione delle tutele che dovrebbe fungere da contrappeso alla
moltiplicazione delle azioni disponibili ed essere condizione ineludibile per il
satisfattivo sviluppo dell’unitaria operazione rimediale48.
Per altro verso, poi, a seguito della riformulazione dell’art. 311 operata dal
citato art. 5 bis del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, risulta ora meglio illustrata la
articolazione e successione delle misure di riparazione in forma specifica del danno
ambientale. Tenendo conto dei rilievi formulati dalla Commissione CE nella
procedura di infrazione n. 2007/4679, si è creato un esplicito collegamento tra la
disposizione normativa in esame e gli istituti della riparazione complementare e
compensativa contemplati dall’Allegato II della direttiva 2004/35/CE. In mancanza
di riparazione «primaria», intesa come misura di ripristino delle condizioni
originarie, è così prevista, nell’ordine: l’adozione di misure di riparazione
«complementari», aventi lo scopo di ottenere, eventualmente anche in un sito
alternativo geograficamente collegato a quello danneggiato tenuto conto degli
interessi della popolazione colpita, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo
a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fose tornato alle condizioni
originarie; infine, l’adozione di misure di ripazione «compensativa», volte a
compensare la perdita temporanea di risorse naturali e servizi in attesa del
ripristino e consistente in ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali
protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo, con eslcusione di
forme di compensazione finanziaria all’ente pubblico esponenziale della
collettività.
47
Giudicata di dubbia legittimità costituzionale da F. GIAMPIETRO, La responsabilità per danno
all’ambiente: la concorrenza delle giurisdizioni, in Danno e resp., 2007, p. 725. Riserve e valutazioni
ciritiche sono espresse anche da E. FOLLIERI, Aspetti problematici della tutela risarcitoria contro i
danni all’ambiente, in W. CORTESE (a cura di), Diritto al paesaggio e diritto del paesaggio, Palermo,
2008, p. 122, il quale osserva che la conseguenza «è che, a seconda del giudice investito della
controversia, si avrà una responsabilità connotata da diverse valutazioni degli elementi essenziali»
indicati dalla normativa. Per una ragionata messa a fuoco dei confini, si veda ancora la citata
Relazione tematica n. 112 della Corte di Cassazione, «Riferimenti normativi vecchi e nuovi nella
delineazione delle responsabilità da illecito ambientale e profili soggettivi di risarcibilità a favore del
soggetto leso», par. 8, ove si dimostra che, nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia, dei servizi
pubblici e dei rifiuti, l’ambito della giurisdizione amministrativa esclusiva è riferito alle sole
controversie sui riflessi individuali della compromissione ambientale, con esclusione dell’azione
risarcitoria del danno ambientale di matrice pubblica.
48 Altra essendo poi la questione del valore da attribuire alla concentrazione e, quindi, della via
attraverso cui giungere a tale esito: se attraverso scelte individuali rimesse ai soggetti agenti o
attraverso una scelta generale compiuta a livello normativo. Per una analisi dei termini del problema,
sia consentito rinviare a G. D. COMPORTI, Il sindacato del giudice delle obbligazioni pubbliche, in Dir.
proc. amm., 2010, p. 413.
21
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
5. Il carattere residuale del risarcimento per equivalente ed il ruolo
strategico della valutazione economica dei danni.
Quando l’effettivo ripristino o l’adozione delle vedute misure di riparazione
complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o
eccessivamente onerose ai sensi dell’art. 2058 c.c. o comunque attuate in modo
incompleto o difforme rispetto a quanto prescritto, il danneggiante è obbligato «in
via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello
Stato». Così dispone la seconda parte del nuovo art. 311, comma 2, ripendendo un
principio che era già desumibile, con specifico riferimento al potere di ordinanza
ministeriale, dall’art. 313, comma 2, del Codice: quello del carattere residuale del
risarcimento monetario.
Si tratta, infatti, di una forma di riparazione a carattere sostitutivo,
complementare e succedeneo, che funge da elemento di chiusura del sistema della
responsabilità. La sua pratica consistenza dipende peraltro dal tipo di matrice49
ambientale danneggiata e dalle circostanze fisiche, economiche, sociali e temporali
che caretterizzano il singolo evento, apparendo così configurabile una tendenziale
distinzione tra ipotesi di danno pieno, riferito a risorse naturali non suscettibili in
quanto tali di bonifica, e ipotesi di danno residuo, riferito alle altre risorse naturali
e graduabile per ordine di importanza secondo la seguente scala: bonifica, secondo
le circostanze, in tutto o in parte impossibile o eccessivamente onerosa, bonifica in
tutto o in parte omessa o comunque attuata in modo incompleto o difforme rispetto
a quanto prescritto, bonifica ingiustificatamente ritardata.
Non costituisce invece impedimento alla bonifica e, quindi, via di fuga
legittimante il risarcimento per equivalente, l’ipotesi della mancata, impossibile o
oltremodo difficoltosa individuazione del soggetto responsabile, assai frequente in
tema di inquinamento diffuso o storico. In simili casi, infatti, gli interventi di
recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, devono essere svolti
d’ufficio dalla pubblica amministrazione competente, individuata alla luce del
principio di sussidiarietà nel livello territoriale proporzionato alla tipologia ed
all’estensione dell’inquinamento (dunque, si va dal comune al Ministero per i siti
di interesse nazionale). Il diritto al recupero delle relative spese nei confronti dei
proprietari incolpevoli, nei limiti dell’aumento di valore del sito a seguito
49
L’approccio per matrici, sotteso anche alla direttiva comunitaria 2004/35, consiste nella
scomposizione dell’ambiente nelle risorse elementari naturali che lo compongono (di tipo abiotico:
aria, acqua, suolo; o biotico: flora e fauna) ed i relativi ecosistemi specifici (es. l’ecosistema fluviale)
e consente di associare a tali unità le funzioni o i servizi che possono essere interessati dal danno in
termini di valori d’uso, diretti (assicurati dalla risorsa in quanto direttamente fruibile da parte di
individui e/o in processi economici) o indiretti (assicurati dalle interazioni tra componenti abiotiche e
biotiche che garantiscono l’equilibrio dell’ecosistema) e/o valori passivi. Tale procedura permette
dunque di legare la valutazione scientifica del danno, ovvero degli effetti fisicamente misurabili in
termini qualitativi e quantitativi, alla valutazione economica del danno attraverso l’individuazione
delle funzioni compromesse per ogni risorsa naturale. Per una adeguata illustrazione di simile
metodologia operativa, si può rinviare allo studio dell’APAT, Il risarcimento del danno ambientale:
aspetti teorici e operativi della valutazione economica, Roma, 2006, capp. 6 e 7.
22
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dell’esecuzione della bonifica, va ricondotto nell’alveo delle azioni di ingiustificato
arricchimento, dalle quali si differenzia per l’esistenza di particolari forme di
garanzia (onere reale e privilegio speciale immobiliare) che assicurano il recupero
stesso (art. 253 del Codice). Né può confondersi con i rimedi risarcitori l’azione di
rivalsa verso l’effettivo responsabile che spetta al mero proprietario del fondo che
sia stato colpito dall’azione di arricchimento dell’amministrazione o abbia
provveduto spontaneamente, pure senza esservi tenuto 50, a porre in essere gli
interventi di bonifica per mantenere l’area interessata libera da pesi.
Per quanto, come sin qui veduto, l’ambito applicativo del risarcimento
monetario sia circoscritto, non altrettanto può dirsi della operazione di valutazione
del danno.
Trattasi di procedura complessa ed articolata, che afferisce non solo
all’appendice residuale del risarcimento per equivalente ma interessa, in via
preliminare, anche tutte le forme di riparazione che integrano la modalità del
ripristino. Già la direttiva 2004/35/CE lega la scelta concreta delle misure di
riparazione alla valutazione del danno e prescrive che, nel caso in cui i metodi di
equivalenza risorsa - risorsa o servizio - servizio non fossero praticabili, o lo
fossero ma con tempi e costi eccessivi, l’autorità competente può scegliere le
misure di riparazione complementare e compensativa i cui costi siano equivalenti
al valore monetrario stimato delle risorse naturali e/o servizi perduti. Lo stesso
principio direttivo è poi richiamato dal novellato terzo comma dell’art. 311 quale
termine di riferimento per la definizione ministeriale dei criteri di determinazione,
non soltanto del risarcimento per equivalente, ma anche dell’eccessiva onerosità
che costituisce causa di legittimo passaggio dalla tutela in forma specifica a quella
per equivalente. Si tratta, dunque, di uno snodo fondamentale che assume portata
decisiva, presupposta e condizionante dell’intera operazione.
La valutazione del danno ambientale, considerato come un peggioramento
del flusso di benessere proveniente da un bene a fruizione collettiva, tende a
tradurre in termini economici la contrazione del benessere sofferta dai fruitori
presenti e futuri del bene danneggiato, individuando la somma in grado di fornire
agli stessi un insieme di utilità equivalente a quello perduto. Essa implica il
confronto tra i benefici prodotti dalla risorsa naturale in assenza di danno (c.d.
situazione senza) e quelli erogabili dalla medesima risorsa dopo l’evento dannoso
(c.d. situazione con), e si sviluppa a partire dagli aggiustamenti posti in essere dai
soggetti colpiti per minimizzare la portata delle conseguenze negative (stima
indiretta) per giungere alla stima diretta delle variazioni di utilità in caso di assenza
di strategie di adattamento. Tali benefici sono misurati sia in termini di valori d’uso
che gli individui associano a determinate risorse, e che sono analizzabili secondo le
50
La giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere illegittime tutte le determinazioni
amministrative che pongono in tutto o in parte a carico del proprietario o del detentore del fondo i
costi e gli oneri anche procedurali di bonifica, senza che sia stata accertata nel caso concreto e nel
rispetto del principio del contraddittorio l’effettiva responsabilità in ordine all’inquinamento. Cfr. per
esempio: TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 837; TAR Toscana, Sez. II, 5
giugno 2009, n. 984 e 6 luglio 2010, n. 2316.
23
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
note teorie del consumatore e/o produttore, sia in termini di valori passivi espressi
da fruitori in senso lato non già in relazione ad un uso economico, diretto e
materiale ma in relazione al desiderio che le stesse continuino ad esistere e ad
essere fruibili in futuro. I metodi di misurazione sono classificabili in tre principali
categorie: preferenze imputate, preferenze rilevate e preferenze dichiarate. Le
prime due seguono un approccio duale, nel senso che si basano sull’equivalenza
tra utilità perduta e somma di denaro in grado di ripristinarla facendo leva sugli
adattamenti dei fruitori valutabili come variazioni della spesa o dei costi di
produzione di beni e servizi scambiati sul mercato. Ad esse sono riconducibili
metodi (il costo per le spese difensive, il costo del ripristino, il costo di
surrogazione, il profitto indebito, i prezzi di mercato, le funzioni di produzione, i
prezzi edonici, il costo di viaggio) che consentono di cogliere soprattutto i valori
d’uso avendo riguardo al comportamento dei soggetti nei mercati reali, limite che è
compensato dalle esigenze informative relativamente contenute e quindi dai costi e
tempi ridotti, ed appare accettabile quando il danno è ripristinabile e reversibile ed
i valori passivi sono di entità trascurabile. La terza, che appare sicuramente più
onerosa in termini di costi e di tempi basandosi sulla simulazione di mercati
ipotetici cui si giunge attraverso interviste a mezzo di questionari di un campione
di individui, diviene invece decisiva allorché siano danneggiate in modo
irreversibile risorse o servizi non riproducibili né surrogabili.
L’idea di fondo che scaturisce dal complesso delle superiori indicazioni
metodologiche51 calate nel contesto funzionalmente unitario dell’operazione, in cui
azione e reazione si tengono e si connettono, è che il prima condiziona e conforma
il dopo: nel senso che, salva sempre la possibilità di fare valere il danno da perdite
temporanee ed il danno non patrimoniale 52, quanto più si è potuto/dovuto fare in
sede di azione preventiva e di bonifica, e quindi sotto forma di spese difensive 53, di
51 Per approfondimenti ed esemplificazioni, si rinvia al citato studio dell’APAT, Il risarcimento del
danno ambientale, p. 75 ss.
52
Cass., Sez. III, 17 aprile 2008, n. 10118, in Giur. it., 2008, p. 2708, con nota di P. FIMIANI, La tutela
risarcitoria a seguito del danno ambientale, ha chiarito che «non sussiste una duplicazione
risarcitoria qualora il responsabile sia condannato al ripristino dello stato dei luoghi ed al pagamento
di una somma di denaro a titolo di risarcimento, essendo la condanna volta ad elidere, per il primo
aspetto, il pregiudizio non patrimoniale del vulnus all’ambiente in quanto bene giuridico unitario ed
immateriale e, per il secondo, quello patrimoniale verificatosi nel periodo successivo al verificarsi
dell’evento lesivo».
53 Comprendenti anche le spese per le polizze assicurative, quelle per le azioni urgenti di primo
intervento e di messa in sicurezza, ma anche il pricing applicato dagli istituti di credito al
finanziamento di attività che presentano rischi ambientali elevati (con conseguente aumento del
rischio di insolvenza del cliente).
24
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
ripristino 54 e di surrogazione55 , tanto meno sarà richiesto fare in sede di
risarcimento per equivalente. I due momenti non possono essere gestiti con logiche
autonome e scollegate e un importante elemento di collegamento è rappresentato
proprio da quel processo di valutazione delle varie componenti del danno che, sulla
scorta anche di adeguate analisi costi - efficacia, dovrebbe sorreggere e guidare sin
dall’inizio la definizione della più appropriata opzione di riparazione (come recita
il punto 1.3 dell’Allegato 3 alla parte quarta del Codice), anziché essere confinata
ex post nelle anguste e problematiche vicende peritali che condizionano l’esito dei
processi. Nella indicata prospettiva assumono particolare importanza i riferimenti
normativi alla individuazione delle «migliori tecniche di intervento a costi
sostenibili»56, alla necessità di operare in modo compatibile con la prosecuzione
della attività ed ai costi sostenuti per il ripristino, che compaiono con riferimento
alle procedure di bonifica (art. 242, commi 8 e 10), di prevenzione e ripristino (art.
308) ed a quella per ordinanza ministeriale (art. 314, comma 3); mentre desta
perplessità il mancato richiamo di tale fondamentale parametro, pure presente nel
vecchio art. 18, nell’ambito della disposizione normativa volta ad indirizzare la
determinazione per via ministeriale dei criteri di liquidazione del danno, ove viene
fatto sibillino riferimento al valore monetario stimato delle risorse e dei servizi
perduti (art. 311, comma 3).
Simile prospettiva dovrebbe, in definitiva, condurre ad arginare la logica
punitiva che si cela dietro la scorciatoia delle liquidazioni condotte per via
equitativa o tabellare e forfettaria, come quella ancora oggi riproposta dall’art. 314,
comma 3 del Codice che, oltre tutto avendo riguardo al procedimento per
ordinanza, proeitta in un problematico campo di applicazione generale il
meccanismo di conversione sanzione-danno che l’originario art. 58 del d.lgs. 11
54 Si distingue tra ripristino in senso stretto, che si riferise alle condizioni ed ai materiali originari e
consente di fare riferimento agli attuali prezzi di mercato, e ripristino funzionale; in tale caso la
riproduzione riguarda beni con caratteristiche diverse o in siti alternativi che siano in grado di
assicurare la stessa funzionalità di quello danneggiato (es. la funzione idrogeologica di un bosco
compromessa a seguito di disboscamento abusivo può essere ripristinata, senza riprodurre il bosco,
attarverso manufatti alternativi come briglie o muri di sponda). Tale metodo tende ad avvicinarsi alla
surrogazione e implica il problema di tenere conto dei valori passivi e d’uso che gli individui
associano al bene perduto.
55 Il cui costo è dato dalla somma delle spese affrontate per sostituire il bene danneggiato con altri
beni capaci di svolgere le stesse funzioni o fornire le stesse utilità. Ad esso viene fatto sovente ricorso
per valutare i siti ricreativi compromessi da un evento (parchi, giardini pubblici).
56 Analogo criterio di commisurazione del grado di interventi da compiere per fronteggiare gli eventi
che rischiano di compromettere la qualità dell’aria ambiente, è richiamato dal recente d.lgs. 13 agosto
2010, n. 155, recante attuazione della direttiva 2008/50/CE per un’aria più pulita in Europa, che in più
parti fa riferimento all’adozione di misure «che non comportano costi sproporzionati» in relazione
agli obiettivi da perseguire (es. artt. 9, comma 1 e 13 comma 1).
25
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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maggio 1999, n. 152 contemplava per i soli illeciti amministrativi e penali previsti
in materia di scarichi57 .
D’altra parte, la teoria della responsabilità civile insegna che tali derive
sanzionatorie ancora presenti nel sistema rischiano di limitare la funzione
deterrente, che è sottesa al principio «chi inquina paga» 58, in quanto i potenziali
inquinatori sono indotti a non adottare le cautele necessarie a ridurre
l’inquinamento ove le probabilità di vedersi addossato un obbligo risarcitorio non
risultino commisurate nell’an e nel quantum alle condotte esigibili dal soggetto
agente: in tali casi, infatti, si introducono elementi di incertezza e casualità che
interrompono il rapporto esistente tra il costo delle polizze assicurative59 per danno
ambientale ed il potenziale carico risarcitorio, rendendo tendenzialmente uguale la
posizione del soggetto che investe in misure di contenimento dei rischi e di quello
che invece risparmia su tali spese di aggiornamento tecnologico.
L’enunciazione necessariamente sintetica di simili questioni ha lo scopo non
già di disorientare il lettore, quanto di renderlo consapevole delle profonde
variabili in gioco e della presenza di delicate opzioni valoriali60 che si collocano al
di là del dato meramente economico e della relativa prospettiva efficientista e si
presentano ad essere meglio colte, analizzate e sviluppate in seno ai procedimenti
amministrativi piuttosto che nei processi. I primi, infatti, muovendosi in un
ambiente dialogico e negoziale idoneo a selezionare anche le migliori competenze
tecniche, manifestano una capacità di presa diretta, tempestiva e continuativa con
la realtà dei fatti che ai secondi manca61.
Tutto ciò implica un mutamento della tradizionale prospettiva giustizialista
che non appare pienamente colto dal dato normativo (art. 311, comma 3), se è vero
che, in termini contraddittori con l’impianto complessivo fin qui descritto, oltre ad
avere incrementato le sedi giudiziarie abilitate a pronunciarsi sulle vicende
57 Si leggano, in proposito, le condivisibili osservazioni critiche di F. GIAMPIETRO, La responsabilità
per danno all’ambiente nel TUA, cit., p. 1058 e note 47-48.
58 Cfr. in generale DE SADELEER, Environmental Principles. From Political Slogans to Legal Rules,
Oxford, 2002, p. 42 ss., ripreso da B. POZZO, La direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia,
cit., p. 9.
59 Incertezza che induce, oltre tutto, molte compagnie a non sottoscrivere più le polizze assicurative
per attività con elevate esposizioni ambientali, come riferito da A CROSETTI, Danno ambientale e
risorse naturali dopo il D. Lgs. n. 152/2006: rilievi problematici, in Quaderni reg., 2010, p. 496, nota
50.
60 Oltre alla scelta del tipo di intervento, si pensi anche alla priorità da dare alla riparazione di certi
danni, nel caso di simultaneità di eventi avversi. Ai fini della relativa decisione, l’art. 306, comma 3,
prescrive che l’autorità competente deve tenere conto anche della natura, entità e gravità dei diversi
casi di danno nonché della possibilità di un ripristino naturale.
61 Cfr. R. FERRARA, La protezione dell’ambiente e il procedimento amministrativo nella “società del
rischio”, in Dir. soc., 2006, p. 512; più in generale, sia consentito rinviare all’analisi sviluppata in G.
D. COMPORTI, Il procedimento amministrativo, in F. FRACCHIA (a cura di), Manuale di diritto
pubblico, Ed. Scientifica, Napoli, 2010, p. 209.
26
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contermini al danno ambientale, la riforma ha individuato nei metodi liquidatori
impiegati dalla pregressa giurisprudenza nazionale e comunitaria un parametro guida cui attenersi nella fissazione degli attesi criteri ministeriali di valutazione dei
risarcimenti. Come dire che ci si prepara al futuro guardando ancora al passato.
E’ invece nell’amministrazione più che nella giurisdizione che vanno
ricercate le risorse e competenze per assicurare una regolazione - gestione dei
rischi ambientali62 capace di condurre «oltre il principio di precauzione»,
impedendo il ripetersi di errori ai quali finisce per essere esposta la gente che
soccombe alla paura63.
62 Tecnica di cui si può apprezzare la recente declinazione per opera del d. lgs. 13 agosto 2010, n. 155,
in materia di qualità dell’aria ambiente, che prevede la seguente sequenza di interventi: zonizzazione
del territorio (art. 3), classificazione delle zone e degli agglomerati ai fini della valutazione della
qualità dell’aria (artt. 4-5); nel caso di accertato superamento dei valori limite, adozione mediante
opportune procedure di raccordo e concertazione di piani e misure per agire sulle principali sorgenti
di emissione e ripristinare i valori limite nel più breve tempo possibile (art. 9, con l’avvertenza che le
misure non comportino costi sproporzionati); piani e misure per ridurre il rischio di superamento dei
valori limite, in presenza di significative e comprovate circostanze attinenti alla durata e gravità del
rischio ed alla possibilità di ridurlo (art. 10).
63 Per riprendere il messaggio di C. R. SUNSTEIN, Laws of Fear. Beyond the Precautionary Principle
(2005), trad. it. di U. IZZO, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Il Mulino,
Bologna, 2010.
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ABSTRACT
Gian Domenico Comporti – La responsabilità per danno ambientale
La tecnica della responsabilità civile non costituisce lo strumento più efficace per
amministrare i danni diffusi causati da disastri di massa. Il danno ambientale
rappresenta infatti il tipico esemplare di mass tort, al quale è difficile applicare un
paradigma rimediale concepito con riferimento a fattispecie molto più semplici e
lineari. Tali difficoltà trapelano anche dalla odierna legislazione, che fornisce una
serie di spunti sintomatici di un crescente favor verso forme riparatorie alternative
al mero risarcimento per equivalente. L’articolo ripercorre in modo critico questi
spunti, sollecitando la riflessione sulla necessità di sperimentare tecniche di
contrasto all’inquinamento che si esprimano soprattutto al di fuori del processo, e
in particolare nell’ambito di una sempre più partecipata istruttoria procedimentale.
-------------------------------------------------------------------------------------------------The compensation for damages is not the most effective way in order to administer
the widespread damage caused by mass disasters. Environmental damage is in fact
a typical example of mass tort: so it is difficult to apply to this kind of damage a
paradigm designed with reference to much more simple situations. These
difficulties are often underlined by the environmental law, which provides a set of
cues revealing a growing appreciation for remedies which are alternative to mere
compensation for equivalent. The paper underdraws these cues critically, focusing
to anti-pollution techniques which take place outside the litigation and, particularly,
in the context of an increasing participation to the preliminary evaluation in the
administrative procedure.
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GIUSEPPE MANFREDI*
Cambiamenti climatici e principio di precauzione**
Sommario: 1. Le ricadute sociali e istituzionali dei cambiamenti climatici. 2.
Il fondamento precauzionale degli interventi in tema di cambiamenti climatici. 3. Il
significato del principio di precauzione. 4. Principio di precauzione e politiche
della scienza. 5. La gestione del rischio.
1. Le ricadute sociali e istituzionali dei cambiamenti climatici.
Mi viene chiesto di parlare del principio di precauzione in rapporto ai cambiamenti climatici.
L’argomento ovviamente è di ordine giuridico: nondimeno, dato che devo
trattarlo davanti a una platea in cui siedono per lo più scienziati ed economisti, vorrei affrontarlo partendo da un piano che i giuristi probabilmente definirebbero sociologico (anche se, per vero, esso non pertiene interamente alla sociologia per
com’è generalmente intesa: ma soprattutto i giuspubblicisti a partire almeno dalla
prolusione palermitana di Vittorio Emanuele Orlando hanno il vezzo di definire
come sociologico tutto ciò che non si colloca su un piano strettamente giuridico).
Peraltro, non è che non creda in ciò che viene definito autonomia e autosufficienza del giuridico: per intenderci, ritengo che i problemi di diritto positivo vadano affrontati e risolti tramite strumenti squisitamente giuridici.
Nondimeno, penso che questi problemi possano essere esaminati pure partendo da dati e da considerazioni metagiuridici, che sono di estrema utilità per
comprendere il contesto in cui si inscrivono i fenomeni giuridici, e, quindi, per
comprendere almeno una parte delle dinamiche che li interessano.
Fatta questa premessa - tutt’altro che accattivante, ma necessaria per non
disorientare l’uditorio - vorrei iniziare osservando che la questione dei cambiamenti climatici è interessante, direi quasi avvincente, in eguale misura sia per l’una sia
per l’altra di quelle che Charles Snow definiva le due culture 1: non solo per chi si
occupa di scienze naturali, ma anche per chi si occupa di scienze sociali - e, quindi,
pure per il giurista, che in definitiva è uno scienziato sociale, anche se abbastanza
peculiare -.
E ciò non solo per le implicazioni che i mutamenti climatici potrebbero avere sull’economia e sulla società, e, in generale, sulla vita umana sul nostro pianeta,
* Professore straordinario nella Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore.
** Il testo riproduce, con alcune modifiche, la relazione al convegno Cambiamenti climatici: ipotesi
ed evidenze scientifiche, Trento, 29-30 ottobre 2010.
1 V. C. SNOW, Le due culture, Padova, Marsilio, 2005.
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ma anche per tutte le ricadute che questa problematica ha avuto durante gli scorsi
due decenni nel dibattito politico, e, quindi, sulle dinamiche istituzionali.
Basti ricordare cos’è accaduto negli Stati Uniti: il paese a cui si deve la quota in assoluto maggiore di emissioni inquinanti in atmosfera (se non erro, all’inizio
di questo decennio era oltre un terzo del totale); ma che, ciò nonostante, a oggi,
come noto, non ha ancora aderito al Protocollo di Kyoto del 1997.
Negli Stati Uniti a proposito dei cambiamenti climatici si è sviluppato un
dibattito estremamente acceso, che, peraltro, si è subito polarizzato sull’asse destra/
sinistra, con i negatori dell’influenza delle attività umane sul clima per lo più collocati a destra, e gli assertori di questa influenza per lo più collocati a sinistra.
Peraltro questo dibattito ha registrato anche veri e propri scandali: è noto che
durante lo scorso decennio la NASA è stata accusata di non rivelare una serie di
dati che avvaloravano le tesi sul riscaldamento globale per favorire le scelte dell’amministrazione Bush.
E nel 2009 è scoppiato il cosiddetto Climategate, quando dei ricercatori di
un’università inglese sono stati accusati di aver tenuto comportamenti analoghi, ma
per finalità diametralmente opposte, poiché i dati che avevano raccolto non dimostravano un particolare deterioramento del clima.
Il dibattito ha avuto vari riscontri persino a livello di cultura popolare: ad
esempio, nel 2004 è uscito nelle sale cinematografiche il film L’alba del giorno
dopo di Emmerich, dove la catastrofe climatica che di lì a poco avrebbe sconvolto
il pianeta ha come prologo lo scontro tra uno scienziato che denuncia il gravissimo
rischio che sta correndo il clima del pianeta e il vicepresidente degli Stati Uniti che
ribatte che l’economia non è abbastanza florida perché ci si possa occupare del
problema.
Nello stesso anno è stato pubblicato pure uno degli ultimi romanzi di Crichton, Stato di paura, in cui invece sono alcuni esponenti per così dire deviati del
movimento ecologista a provocare disastri ambientali per sfruttare la paura del riscaldamento globale a fini politici ed economici.
Ora, pare abbastanza ovvio che questo dibattito è dovuto principalmente alle
ricadute economiche di estremo rilievo di ogni tipo di azione, o di inazione, in tema di climate change.
A ciò si aggiunga che anche per quanto riguarda la climatologia non è facile
attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su profili che non sono immediatamente
comprensibili.
Ad esempio, considerazioni sull’influenza dell’aumento della nuvolosità sui
valori di albedo, e, quindi, sul riscaldamento o sul raffreddamento della superficie
terrestre che ne deriva, ben difficilmente possono interessare il grande pubblico
come le tesi di chi preannuncia una qualche catastrofe epocale, o, per contro, di
quelle di chi accusa l’IPCC, il Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, di commettere errori madornali, o, addirittura, di essere in malafede.
E, d’altra parte, sappiamo bene che negli ultimi tempi i mezzi di comunicazione di massa - non solo in Italia - sono inclini alla spettacolarizzazione degli
eventi, e, pertanto, anche per quanto riguarda le tesi scientifiche, tendono a enfatiz-
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zare e ad amplificare le posizioni più estreme e più dogmatiche, piuttosto che
quelle ragionate e riflessive.
2. Il fondamento precauzionale degli interventi in tema di cambiamenti climatici.
Ma con tutta probabilità a questo dibattito non sono estranee neppure problematiche squisitamente giuridiche, che si riallacciano al peculiare fondamento
degli interventi in materia.
In proposito occorre innanzitutto ricordare che a oggi lo studio dei fenomeni
climatici forse è ancora distante anni, o decenni, dalla elaborazione di modelli
esplicativi attendibili.
Inoltre anche in futuro il clima presumibilmente sarà destinato a restare connotato da una predittività limitata, perché esso costituisce un sistema caotico, in cui
non è possibile individuare con esattezza le retroazioni, il feedback, delle modifiche dei singoli componenti, e, in particolare, delle modifiche dei vari gas serra presenti in atmosfera2.
Le questioni climatiche rappresentano dunque un tipico esempio di ciò che
Maria Chiara Tallacchini definisce efficacemente come scienza incerta3.
Ma è proprio perché la scienza a tutt’oggi non ha gli strumenti per definire
con precisione e con esattezza tutti i termini del rapporto tra attività umane e cambiamenti climatici che gli interventi pattizi e legislativi in proposito – in primo luogo, lo stesso Protocollo di Kyoto - si sono sempre basati sul principio di precauzione: che, secondo la definizione datane nella Dichiarazione di Rio, adottata nella
Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, implica appunto che «laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di
piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l’adozione
di misure efficaci in termini di costi volte a prevenire il degrado ambientale» 4.
Ora, è noto che il principio di precauzione è circondato da molta diffidenza,
perché si teme che esso sia espressione di un atteggiamento antiscientifico, se non
addirittura oscurantistico.
2
V. K. EMANUEL, Piccola lezione sul clima, Bologna, Il Mulino, 2008, passim.
3
M.C. TALLACCHINI, Ambiente e diritto della scienza incerta, in S. GRASSI-M. CECCHETTI-A. ANAmbiente e diritto, Firenze, Olschki, 1999, I, pp. 57 ss., e Diritto per la natura, Torino,
Giappichelli, 1996.
DRONIO,
4
Nella dottrina italiana sulle norme in tema di cambiamento climatico si segnalano in particolare gli
studi pubblicati in F. FRACCHIA-M. OCCHIENA (a cura di), Climate change: la risposta del diritto,
Napoli, Editoriale scientifica, 2010 (e ivi, in relazione al principio di precauzione, V. MOLASCHI,
Livelli di protezione ambientale e tutela precauzionale differenziata: una riflessione alla luce della
giurisprudenza costituzionale, pp. 67 ss.), ma v. almeno anche B. POZZO, La nuova direttiva (2003/
87/CE) sullo scambio di quote di emissione: prime osservazioni, in Riv. giur. ambiente, 2004, pp. 11
ss.
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Ed è per tale ragione che di questo principio – e, quindi, anche degli interventi che si basano su di esso, quali quelli in tema di cambiamenti cimatici – non
possono non diffidare le politiche pubbliche statunitensi.
Come si legge nello studio di Sheila Jasanoff Fabbriche della natura, l’approccio delle istituzioni americane nei confronti delle questioni scientifiche e tecnologiche è per lo più connotato da una fiducia nel progresso scientifico e tecnologico decisamente ottimistica, che in definitiva si riallaccia al paradigma della
scienza pura e disinteressata che si deve al sociologo Robert Merton, e, ancor prima, allo stesso individualismo liberale5.
Certo, vero è che non mancano interventi statunitensi in tema di ambiente –
anche a livello federale - che sono basati su un approccio precauzionale implicito:
ne viene considerato buon esempio sin dall’inizio degli anni novanta l’operato della Commissione congiunta Stati Uniti/Canada sull’inquinamento dei Grandi Laghi.
Ma ciò nonostante, a oggi le istituzioni statunitensi rifuggono ancora dalla
formalizzazione e dall’esplicitazione di questo principio.
3. Il significato del principio di precauzione.
Ciò posto, un modo per evitare che in ordine alla questione dei cambiamenti
climatici si sconti il peso di contrapposizioni dovute a petizioni di principio può
essere pure quello di dimostrare che i timori in ordine al principio giuridico che
costituisce il fondamento degli interventi in materia sono in gran parte infondati.
A tal fine penso che sia opportuno fare un poco di chiarezza sul significato
effettivo del principio di precauzione.
Si sa che sul punto negli scorsi anni è stato detto praticamente tutto e il contrario di tutto.
Ad esempio, in uno scritto di Grassi di una decina di anni fa si rilevava che
dalla disamina della letteratura giuridica italiana e straniera emergono «almeno sei
fondamentali concetti che sono riconducibili al principio precauzionale», ossia
«l’anticipazione preventiva», «la salvaguardia degli ecosistemi o spazi ambientali
liberi», «la proporzionalità della risposta o efficacia rispetto ai costi dei margini di
errore», «il dovere di cautela, o inversione dell’onere della prova», «la promozione
dei diritti naturali intrinseci», «l’obbligo di pagare per il debito ecologico causato
nel passato» 6.
Ma di fronte a rassegne di opinioni siffatte si intuiva immediatamente che il
principio che qui interessa veniva letteralmente sovraccaricato di significati.
5 S. JASANOFF, Fabbriche della natura. Biotecnologie e democrazia, Milano, Il Saggiatore, 2008,
passim.
6
S. GRASSI, Prime osservazioni sul principio di precauzione nel diritto positivo, in Dir. gest. amb.,
2001, pp. 45 ss.
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In altri termini, sembra che - almeno inizialmente - nel principio di precauzione si sia voluto trovare una conferma delle aspettative più diverse, se non più
disparate.
D’altro canto, se per un momento allarghiamo l’angolo visuale al di là dello
specifico problema che qui interessa, ci rendiamo subito conto che si tratta di null’altro che della ripetizione di un fenomeno che negli ultimi decenni si è verificato
in generale per lo stesso ambientalismo.
E’ abbastanza evidente che anche le problematiche ambientali molto spesso
sono state caricate di attese di natura etica, o di aspettative di giustizia sociale, che
di per sé sono sicuramente nobilissime, ma che con l’ambiente hanno a che fare
punto o poco.
Ciò è avvenuto in primis nella cultura popolare e nel dibattito politico, eppoi
anche nella riflessione filosofica, e in quella stessa giuridica.
Ma in modo provocatorio si potrebbe osservare che una società imperialista
e schiavista come quella dell’antica Roma era sicuramente più rispettosa dell’ambiente di una società (ben lungi dalla perfezione, ma, comunque) più pacifica e più
egualitaria, ma tecnologicamente più avanzata, quale la nostra.
Oppure si potrebbe citare un libro recentemente tradotto in italiano, Green
metropolis di David Owen, dove si sostiene che una città come New York dal punto
di vista ambientale è senz’altro più sostenibile di insediamenti umani dotati di minore densità abitativa, che solo apparentemente sono meglio inseriti nell’ambiente;
e si arriva alla conclusione che in ultima analisi l’avversione dei movimenti ambientalisti nei confronti degli agglomerati urbani è dovuta in gran parte al fatto che
durante gli scorsi decenni la sensibilità ambientalista si è incrociata con un atteggiamento che ha matrici diverse, e che come fine ultimo non persegue certo la tutela dell’ecosistema, ossia con l’avversione per l’urbanesimo7.
4. Principio di precauzione e politiche della scienza.
Vero è che il principio di precauzione sta a segnare (anche) il definitivo abbandono del positivismo e dello scientismo ingenui che connotavano le tendenze
culturali prevalenti nell’ottocento e all’inizio del novecento: ossia di quella fiducia
acritica nei confronti della scienza e del progresso tecnologico che tanto bene era
rappresentata dal ballo excelsior con cui a fine ottocento la borghesia milanese celebrava le invenzioni e le grandi opere del periodo, quali il telegrafo, il piroscafo, il
canale di Suez, etc.
Ed è altrettanto vero che in questo principio è implicita (anche) la richiesta
di una maggior richiesta di controllo sociale sugli sviluppi della tecnologia.
D’altro canto è quasi inutile ricordare che il ventesimo secolo ci ha dimostrato ripetutamente, quasi ad nauseam, che il progresso tecnologico può avere delle
ricadute di estrema pericolosità per l’ambiente e per la salute umana.
7
D. OWEN, Green metropolis, Milano, Egea, 2010.
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Ciò nondimeno, penso che il principio di precauzione, se rettamente inteso,
sia ben lungi dal rappresentare una forma di rifiuto acritico del progresso scientifico.
Qualche tempo fa lo avevo sostenuto innanzitutto sulla base di un argomento
semantico (ancora una volta ripreso dagli studi di Maria Chiara Tallacchini), perché
la precauzione nei confronti di un qualsiasi fenomeno è un atteggiamento che si
colloca in posizione equidistante rispetto sia alla accettazione acritica (se si vuole,
alla sconsideratezza) sia al rifiuto acritico (se si preferisce, alla paura) del fenomeno medesimo8.
Eppoi sulla base dei dati testuali che si ricavano dalle fonti internazionali e
comunitarie che disciplinano questo principio.
In ambito internazionale il principio di precauzione ha infatti trovato posto
tra i principi che devono governare il cosiddetto sviluppo sostenibile, in particolare
nella Dichiarazione di Rio del 1992.
E già questa collocazione implica che esso non può sfociare in un rifiuto e in
una chiusura nei confronti dell’innovazione, perché altrimenti la precauzione verrebbe a collidere con il primo termine di tale endiadi, lo sviluppo, e si tradurrebbe
nel suo opposto, ovverosia nella stagnazione.
Ad analoghe conclusioni conducono poi a livello comunitario i contenuti
nella Comunicazione della Commissione CE del 2 febbraio 2000.
Il presupposto degli interventi precauzionali viene individuato in quello stesso indicato nella Dichiarazione di Rio, ossia in una situazione di incertezza scientifica sugli «effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno, da un prodotto
o da un procedimento».
Giova però soprattutto sottolineare che la Comunicazione afferma che un’incertezza siffatta può aversi solo a fronte di divisioni interne alla comunità scientifica, allorché la tesi della pericolosità di detti effetti venga sostenuta anche «solo da
una frazione minoritaria della comunità … purché la credibilità e la reputazione di
tale frazione siano riconosciute».
Inoltre la Comunicazione prevede pure che le azioni fondate sul principio in
discorso devono sempre restare soggette a revisione in base ai nuovi dati scientifici.
Sicché a livello comunitario l’individuazione dei presupposti per applicare il
principio in discorso in ultima analisi viene demandata proprio alla comunità scientifica.
8 Mi riferisco a Note sull’attuazione del principio di precauzione in diritto pubblico, in Dir. pubbl.,
2004, 1075 ss. Sul principio di precauzione nell’ordinamento italiano, oltre agli studi che vengono
citati in seguito, v. almeno anche M. ANTONIOLI, Precauzionalità, gestione del rischio e azione amministrativa, in Riv. it. Dir. pubbl. com., 2007, pp. 60 ss.; M. P. CHITI, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’ amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, ivi, 2006, pp. 7 ss., G.
D. COMPORTI, Contenuto e limiti del governo amministrativo dell'inquinamento elettromagnetico alla
luce del principio di precauzione, in Riv. giur. ambiente, 2005, pp. 215 ss. Lo studio più completo in
proposito resta comunque senz’altro quello di F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, Giuffré, 2005.
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Visto in questi termini, il principio di precauzione non solo è tutt’altro che
oscurantistico, o antiscientifico, ma finisce piuttosto per risultare connotato da
un’intrinseca scientificità.
Solo che la scientificità che qui è presupposta non è quella mitica, e malintesa, che stava alla base degli atteggiamenti rappresentati dal ballo excelsior, ma
quella reale ed effettiva, che dà per scontato che la scienza sia sempre in evoluzione, e, quindi, che essa sia sempre disponibile a rimettere in discussione i risultati a
cui perviene.
E che la scienza sia in continua evoluzione non è certo una novità.
Basti ricordare che poco meno di un secolo fa Weber, ne La scienza come
professione, avvertiva che è proprio per tale ragione che lo scienziato in definitiva
lavora per essere superato, e per essere dimenticato: «… ognuno di noi sa che, nella scienza, ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti, cinquant’anni.
Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza, al quale esso è
sottoposto ed esposto in un modo del tutto specifico rispetto a tutti gli altri elementi
della cultura per i quali pur vale la stessa cosa: ogni “riuscita” scientifica comporta
nuove “questioni” e vuole essere “superata” e invecchiare … ma essere superati
scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche
il nostro scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri procedano più avanti
di noi. In linea di principio, questo progresso tende all’infinito …» 9.
E’ scontato che ciò avvenga per l’appunto attraverso un continuo dibattito
all’interno della comunità scientifica: ed è parimenti scontato che in questo contesto le opinioni innovative inizialmente non possono essere altro che minoritarie.
Di nuovo negli ultimi tempi probabilmente vi è l’estrema velocità e rapidità
con cui ciò avviene: non è d’altra parte casuale che tra le visioni e le immagini del
futuro che ci vengono proposte dai mezzi di comunicazione di massa ormai trovi
spazio addirittura quella della singolarità tecnologica, ossia di un punto al di là del
quale il progresso è destinato ad accelerare oltre ogni previsione, e magari oltre la
stessa capacità di comprensione umana.
Ma è proprio questa rapidità dell’evoluzione scientifica, inusitata in passato,
che rende necessario un atteggiamento istituzionale più pronto e più reattivo: che
viene appunto reso possibile dal principio in discorso.
Della scientificità di cui s’è detto troviamo poi svariate conferme anche nella
elaborazione giurisprudenziale e normativa italiana.
Ad esempio, per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte costituzionale, nella sentenza n.116/2006 si è affermato che all'esercizio della libertà di iniziativa economica possono essere imposti dei limiti «sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell'interesse dell'ambiente e della salute umana»; ma pure
che ciò può legittimamente avvenire soltanto sulla base di «indirizzi fondati sulla
verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sopranazionali, a ciò
9 M. WEBER, La scienza come professione, in Id. La scienza come professione. La politica come professione, Milano, Mondadori, 2006, pp. 18 ss.
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deputati, dato l'essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico-scientifici».
E nella sentenza n.406/2005 si è rilevato che il principio di precauzione è un
«criterio direttivo che deve ispirare l'elaborazione, la definizione e l'attuazione
delle politiche ambientali della Comunità Europea sulla base di dati scientifici...
circa gli effetti che possono essere prodotti da una determinata attività» 10.
Per quanto invece riguarda la produzione legislativa, il comma 2 dell’art.301
del c.d. Codice dell’ambiente ex d.lgs. n.152 del 2006 afferma che in generale l'applicazione del principio di precauzione «concerne il rischio che comunque possa
essere individuato a sèguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva».
E il comma 4 di questa stessa disposizione prevede che le misure di prevenzione adottate devono essere sempre «aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici» 11.
5. La gestione del rischio.
Non bisogna però dimenticare che il principio in discorso implica pure che,
dopo che è avvenuta l’individuazione e la valutazione del rischio da parte della
comunità scientifica, si apra una fase di gestione del rischio (se si preferisce, di risk
management), che compete alle istituzioni: ossia, a seconda degli assetti di competenze di volta in volta prescelti, al potere legislativo, al potere esecutivo, alla pubblica amministrazione 12.
Ma in questo, ancora una volta, non vi è nulla di antiscientifico.
E’ infatti evidente che la decisione sul livello dei rischi che una società intende sopportare non è una questione scientifica, ma, piuttosto, una questione politica, o amministrativa.
Ciò posto, risulterebbe incongruo se a occuparsene fosse la scienza, che in
proposito non ha nessun sapere specifico.
A questa stregua si finirebbe per demandare un problema che riguarda l’intera società a una sua sola frazione, ossia la comunità scientifica (o, meglio, il settore
della comunità scientifica che si occupa della specifica questione che di volta in
volta implica dei rischi): e, quindi, si produrrebbe una situazione decisamente pa-
10 V., in proposito, L. BUTTI, Principio precauzionale, Codice dell’ambiente e giurisprudenza delle
corti comunitarie e della corte costituzionale, in Riv. giur. ambiente, 2006, pp. 809 ss.
11
Su questa disposizione v. almeno F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nella recente codificazione, in M. P. CHITI, R. URSI, Studi sul Codice dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 77
ss., e L. BUTTI, op. cit..
12 V., sul punto, M. CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come <diritto dell’ambiente>, in www.federalismi.it; A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, Giuffré, 2006, spec. p.
80, e, soprattutto, l’ampia analisi di B. MARCHETTI, Il principio di precauzione, in M. A. SANDULLI
(a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffré, 2011, pp. 149 ss.
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radossale, laddove una élite tecnocratica sarebbe incaricata di occuparsi di questioni che in definitiva non attengono alla scienza o alla tecnica.
E’ dunque abbastanza scontato che risulta preferibile che a occuparsi di questioni siffatte siano chiamate istituzioni dotate di una qualche legittimazione rappresentativa, che deriva dalla società nella sua interezza.
Certo, non può escludersi a priori che gli interventi precauzionali disposti da
tali istituzioni possano condurre a una qualche chiusura nei confronti dell’innovazione.
Ma probabilmente non vi sono metodi atti a evitare tout court eventualità
siffatte: come, in generale, non esistono metodi atti a evitare qualsivoglia possibilità di errore da parte delle istituzioni rappresentative.
E’ però senz’altro possibile elaborare dei contrappesi atti a rendere tali eventualità abbastanza remote.
Non a caso già la citata Comunicazione della Commissione CE aveva curato
di rendere tali eventualità abbastanza remote dettando una serie di parametri atti a
fungere da limiti interni alle misure precauzionali, sicché ogni azione precauzionale dev’essere «- proporzionale al livello prescelto di protezione; - non discriminatoria nella sua applicazione; - coerente con misure analoghe già adottate; - basata
su un esame dei potenziali vantaggi ed oneri (possibilmente attraverso un'analisi
costi/benefici)…» 13.
Nello stesso senso è poi andata anche la giurisprudenza comunitaria più recente, soprattutto laddove ha curato di circoscrivere l’ambito di applicazione delle
misure precauzionali.
Negli anni novanta dello scorso secolo il giudice comunitario sembrava
orientato ad accogliere una visione del principio in discorso per cui è sufficiente
anche una mera possibilità di pregiudizio per legittimare misure inibitorie, e per cui
spetta a chi vuol realizzare una innovazione l’onere della prova della innocuità dell’innovazione medesima.
Ma nel decennio appena trascorso la Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado si sono orientati in modo sensibilmente diverso.
Un univoco indirizzo dei giudici comunitari in sostanza ha innalzato la soglia di rischio al di là della quale possono essere implementate misure precauzionali: in particolare, si è affermato che le misure precauzionali sono ammissibili solo
in presenza di rischi probabili, anziché meramente possibili, e sulla base di indizi
seri14.
Ad esempio, nella sentenza del Tribunale di primo grado 11.9.2002 si è rilevato che «dal principio di precauzione, come interpretato dal giudice comunitario,
deriva … che una misura preventiva può essere adottata esclusivamente qualora il
rischio, senza che la sua esistenza e la sua portata siano state dimostrate “pienamente” da dati scientifici concludenti, appaia almeno sufficientemente documentato sulla base dei dati scientifici disponibili al momento dell'adozione di tale misura
13
L. BUTTI, op. cit., 817.
14
Così F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nella recente codificazione, cit., 86.
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… l'adozione di misure, anche se preventive, sulla base di un approccio puramente
ipotetico del rischio, sarebbe ancor più inadeguata in una materia come quella del
caso di specie. Infatti, in un tale ambito, come è anche pacifico tra le parti, non
può esistere un livello di “rischio zero” nei limiti in cui l'assenza totale del minimo
rischio attuale o futuro … non può essere scientificamente provata … Il principio
di precauzione può, dunque, essere applicato solamente a situazioni il cui il rischio, in particolare per la salute umana, pur non essendo fondato su semplici ipotesi non provate scientificamente, non ha ancora potuto essere pienamente dimostrato».
E anche la Corte di Giustizia, nella sentenza del 23.9.2003, ha precisato che
le misure precauzionali possono essere adottate solo in presenza della «probabilità
di un danno reale».
Inoltre i giudici comunitari hanno affermato pure che a carico di colui che
propone una innovazione tecnologica non può essere richiesta una qualche prova
della assoluta innocuità di un’innovazione, perché una dimostrazione siffatta sarebbe impossibile, e si tradurrebbe in ciò che i giuristi chiamano probatio diabolica: sicché la prova della pericolosità dell’innovazione deve gravare sull’istituzione
che si ripropone di inibirla15.
Nella sentenza della Corte di Giustizia 5.2.2004 in particolare si è osservato
che «poiché l'art. 36 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 30 CE)
contiene una deroga, da interpretare restrittivamente, al principio della libera circolazione delle merci nell'ambito della Comunità, tocca alle autorità nazionali che
ad esso si richiamano dimostrare in ciascun caso, alla luce delle abitudini alimentari nazionali e tenuto conto dei risultati della ricerca scientifica internazionale,
che la loro normativa è necessaria per tutelare effettivamente gli interessi considerati da detto articolo e, segnatamente, che la commercializzazione dei prodotti di
cui trattasi presenta un rischio reale per la salute» 16.
Sul punto suscita invece una qualche perplessità la legislazione italiana, dato
che il già citato art.301 del Codice dell’ambiente prevede che l’attuazione delle
misure precauzionali debba avvenire «in caso di pericoli, anche solo potenziali,
per la salute umana e per l'ambiente»: anche se, per vero, a oggi il Ministero dell’ambiente non pare propenso ad abusare dei poteri riconosciutigli da questa disposizione.
Né va sottaciuto che in dottrina non è mancato chi - in particolare, De Leonardis - ha letto la formula anzidetta alla luce degli orientamenti della giurisprudenza comunitaria, e, quindi, ha sostenuto che pure qui il presupposto delle misure
precauzionali è il rischio probabile anziché il rischio possibile 17.
15
Cfr. F. DE LEONARDIS, op. loc. ult. cit..
16 Per altre pronunzie che vanno nel senso di quelle citate nel testo si rinvia alla puntuale ed esaustiva
rassegna della giurisprudenza comunitaria svolta da B. MARCHETTI, Il principio di precauzione, cit.
17
F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nella recente codificazione, cit.
37
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ANNO 2011 / NUMERO 1
Ulteriori perplessità derivano poi dal fatto che l’art.301 sembra configurare
le misure precauzionali come una sorta di species dei poteri di ordinanza: il che
non pare del tutto consono al principio di legalità sostanziale, e, per quanto qui interessa, lascia ovviamente adito alla possibilità di abusi dei poteri precauzionali.
Ma ciò in definitiva si riallaccia a una generale tendenza del nostro ordinamento, che talora negli ultimi tempi – per riprendere la nota distinzione di Schmitt
– sembra quasi rifarsi alle categorie dello Stato governativo, che predilige la decisione del caso concreto, invece che a quelle dello Stato legislativo, che preferisce
dettare regole generali18: ma è ovvio che si tratta di un discorso che qui non è possibile affrontare, dato che ci porterebbe sin troppo lontano.
GIUSEPPE MANFREDI
18
C. SCHMITT, Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del <politico>, Bologna, Il Mulino, 1998,
pp. 211 ss.
38
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ABSTRACT
Giuseppe Manfredi - Cambiamenti climatici e principio di precauzione
L’articolo esamina la tematica del principio di precauzione in rapporto ai
cambiamenti climatici: in particolare, viene messo in luce come gli interventi pattizi e legislativi volti a contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici si siano per lo più basati sul principio di precauzione in ragione della
difficoltà di definire con precisione il rapporto tra attività umane e conseguenze sul clima. L’Autore nota che la fortuna del principio di precauzione
ha probabilmente significato l’abbandono della fiducia acritica nei confronti
della scienza e del progresso tecnologico; passa poi a dimostrare come, sulla
base dei dati testuali che si ricavano dalle fonti internazionali e comunitarie
che disciplinano il principio di precauzione (e in particolare il suo essere
associato al principio dello sviluppo sostenibile), quest’ultimo in realtà non
rappresenti una forma di rifiuto acritico del progresso scientifico.
-------------------------------------------------------------------------------------------This article examines the topic of principle of precaution in relation to climate changes: in particular, it is underlighten that legislative and conventional interventions intended to contrast climate changes have been mainly
based on the principle of precaution as a result of the difficulty of precisely
defining the relationship among human activities and consequences on climate. The Author notes that the success of the principle of precaution has
probably meant to abandon an acritical trust on science and technological
progress; then he demonstrates that, based on textual data derived from international and Community sources governing the principle of precaution
(and in particular the fact that it is associated with the principle of sustainable development), the latter does not represent a form of acritical refusal of
the scientific development.
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ANNO 2011 / NUMERO 1
EMANUELE BOSCOLO*
La gestione integrata delle zone costiere in Italia: prospettive e prime
esperienze.
Sommario: 1. Premessa: la rilevanza della GIZC. 2. La nozione di GIZC
nel Protocollo di Madrid. 3. La caratterizzazione della zona costiera e la
riconsiderazione oggettuale della zona costiera. 4 Il modello amministrativo
deducibile dal Protocollo. 5. Le sperimentazioni italiane. 6. La zona costiera come
piattaforma multifunzionale e come risorsa comune. 7. Un bilancio (deficitario)
tra demanio marittimo e urbanistica. 8. Politiche circolari, adattative, partecipate.
9. L’esempio della Sardegna: il piano paesaggistico e la Conservatoria delle
Coste. 10. Il Piano Regionale delle Coste della Puglia.
1.
Premessa: la rilevanza della GIZC.
La nozione di Gestione Integrata delle Zone Costiere (GIZC) si è
consolidata a livello sovranazionale 1, sulla scia dell’antesignana Coastal Zone
Management Act introdotta negli Stati Uniti sin dal 1972. Questo innovativo
schema di tutela e gestione delle zone costiere fatica tuttavia a penetrare in maniera
organica nell’ordinamento ambientale italiano e il dato relativo alla sua diffusione
non va oltre alcune esperienze sperimentali (infra), che hanno peraltro lasciato
intravedere risultati assai interessanti ancorché abbiano coinvolto un novero
limitato di comuni e una percentuale ridottissima degli oltre 7.400 chilometri di
coste italiane (questo elemento quantitativo dovrebbe bastare ad imporre la
considerazione della GIZC quale politica primaria per gli assetti ambientali ed
economici dell’intero paese).
Siamo di fronte ad un fondamentale capitolo del diritto ambientale, quasi
ignorato dalla legislazione interna, malgrado siano sotto gli occhi di tutti il degrado
di ampi tratti costieri e, più in generale, l’uso inflattivo che delle risorse costiere si
è fatto negli ultimi decenni e che prosegue tutt’oggi a ritmi inquietanti2. Si tratta di
una politica pubblica ancora in attesa di trovare strumenti attuativi adeguati e,
* Professore associato di diritto amministrativo, Università dell’Insubria, Como.
1 Per una puntuale rassegna delle fonti internazionali, v. N. GRECO, Costituzione e regolazione.
Interessi, norme e regole sullo sfruttamento delle risorse naturali, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 149
ss.
2
AA.VV., Lo stato dei litorali italiani, in Studi costieri, 10, 2006; G. ABBATE – A. CIAMPINO – M.
ORLANDO - V. TODARO, Territori costieri, Franco Angeli, Milano, 2009; M. FERRARI – G. FEIRRO,
Inquadramento fisico-ambientale delle coste italiane, in Le risorse del mare e delle coste.
Ordinamento, amministrazione e gestione integrata, in N. GRECO (a cura di), Edistudio, Roma, 2010.
40
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
ancor prima, una iscrizione nell’agenda dei problemi della società italiana3 . Del
resto, manca ancor più a monte una consapevolezza diffusa della rilevanza della
zona costiera quale risorsa comune produttiva di servizi ambientali: non si ha la
distinta percezione di come in questo contesto, sempre più ridotto per effetto dello
schiacciamento provocato dall’avanzare della linea dell’urbanizzato (coastal
squeeze), si concentri la più parte della biodiversità marina; al massimo si tende a
vedere nel litorale un paesaggio (peraltro quasi ovunque ‘sfregiato’ da realizzazioni
incongrue) od un luogo da riservare alla fruizione turistica. Questo deficit di
consapevolezza, anche a fronte delle sollecitazioni antesignanamente espresse dalla
dottrina pubblicistica 4, ha sicuramente sin qui concorso alla mancata iscrizione
delle coste nel catalogo dei beni ambientali meritevoli di una specifica strategia di
protezione e di orientamento verso un uso responsabile.
Per muovere qualche passo in tale direzione si sono dovute attendere
sollecitazioni giunte dall’esterno. Anche in questo settore sembra tuttavia
riproporsi il copione già visto molte volte, con il nostro paese che accusa vistosi
ritardi nel recepimento dei documenti internazionali: basti ricordare come i vincoli
comunitari imponessero di adottare sin dal 2006 una strategia nazionale di cui non
v’è ancora traccia e come l’Italia in sede UE non abbia neppure dato risposta alla
richiesta di un report informativo circa lo stato di attuazione della piattaforma
comunitaria 5.
2.
La nozione di GIZC nel Protocollo di Madrid.
A livello sovranazionale, la principale fonte normativa è costituita dal
Protocollo sulla gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo, sottoscritto
a Madrid il 21 gennaio 2008. Il Protocollo di Madrid6 costituisce un documento
attuativo della Convenzione sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale del
3
C. ARTOM – R. BOBBIO, Le coste italiane tra politiche di settore e necessità d’integrazione, in
Urbanistica Informazione Dossier, 2005, P. 77. A fare da ideale contrappunto alla situazione italiana,
va ricordato che in Francia, a partire dall’aprile 2009, si è articolata una iniziativa denominata
Grenelle de la mer, una sorta di incontro di tutti gli stakeholdes (gli “stati generali” del mare), da cui
sono emerse innumerevoli proposte riassunte in X. LAFON – S. TRAYER (a cura di), Ministère de
l’écologie, de l’énergie, de développement durable et de l’aménagement du territoir, Agir pour le
littoral. Mobilitastion scientifique pour renouvellement des politiques publiques, Parigi, 2009.
4 N. GRECO – B. MURRONI, Demanio marittimo, zone costiere, assetto del territorio, Il Mulino,
Bologna, 1980.
5
Comunicazione della Commissione, «Relazione al Parlamento europeo e al Consiglio: Valutazione
della gestione integrata delle zone costiere (GIZC) in Europa», COM(2007)308 def.
6
Il cui progetto è il risultato delle riunioni protrattesi per un triennio di un apposito gruppo di esperti
non governativi, presieduto dal giurista francese Michel Prieur.
41
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Mediterraneo (Convenzione di Barcellona del 1976) 7, dalla quale discendono
anche altre fondamentali linee comuni di azione protezionistica, fra cui quella tesa
alla istituzione di aree marine protette 8. Il Protocollo è stato elaborato nell’ambito
del Piano d’azione per il Mediterraneo dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite
per l’ambiente) ed esprime, innanzitutto, la definizione analitica di questa figura
(«un processo dinamico per la gestione e l’uso sostenibile delle zone costiere, che
tiene conto nel contempo della fragilità degli ecosistemi e dei paesaggi costieri,
della diversità delle attività e degli utilizzi, delle loro interazioni, della vocazione
marittima di alcuni di essi e del loro impatto sulle componenti marine e terrestri»:
art. 2 Protocollo). Già da questa proposizione definitoria traspaiono nitidamente i
tratti di uno strumento fondamentale in vista di un ridisegno dei modelli di azione
praticati dalle amministrazioni pubbliche rispetto al territorio costiero, per la prima
volta assunto oggettualmente quale segmento territoriale omogeneo ad elevata
valenza ambientale.
La gestione integrata delle zone costiere si è imposta da tempo quale
priorità anche per l’Unione europea. Su questo versante ha assunto un notevole
rilievo una Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 30 maggio 2002
(2002/413/CE) specificamente riferita alla Gestione Integrata delle Zone Costiere
in Europa, cui ha fatto seguito una importante Comunicazione della Commissione
(COM/2007/208 def.). Il concetto di “gestione integrata” è stato inoltre ripreso in
taluni documenti comunitari in materia di politiche marittime integrate9 e di pesca
e acquacoltura10. Cenni alla GIZC si trovano anche nella importante direttiva
quadro sulla qualità ambientale delle acque marine e nei documenti sulla strategia
europea rispetto al problema del cambiamento climatico. Va tuttavia rimarcato che
gli atti dell’Unione specificamente tesi all’introduzione della nozione di GIZC, non
avendo rango formale di direttiva, hanno prodotto scarsi effetti, come si è dovuto
riconoscere in occasione di una tornata di verifica effettuata nel 200711. Gli atti
dell’Unione hanno comunque costituito il retroterra del Protocollo di Madrid e la
7 T. SCOVAZZI, Il Progetto di Protocollo mediterraneo sulla gestione integrata delle zone costiere, in
Riv. giur. ambiente, 2006, p. 355.
8 A. CONIO, Tutela del mare e aree marine protette, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente,
Giappichelli, Torino, 2008 p. 335.
9 Tra i più significativi, la Comunicazione della Commissione (COM/2007/575/def.), intitolata «Una
politica marittima integrata per l’Unione europea».
10 Risoluzione del Parlamento europeo del 2 settembre 2008 sulla pesca e l’acquacoltura nel contesto
della gestione integrata delle zone costiere in Europa (2008/2014(INI)).
11 Comunicazione della Commissione, «Relazione al Parlamento europeo e al Consiglio: Valutazione
della gestione integrata delle zone costiere (GIZC) in Europa», cit.
42
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
stessa Ue ha poi sottoscritto il Protocollo 12, facendone quindi propri i contenuti,
che vengono anche per tale via riproposti con forza agli stati membri.
3.
La caratterizzazione della zona costiera e la riconsiderazione
oggettuale della zona costiera.
Alla base della nozione della GIZC vi è una riconsiderazione dello spazio
costiero, le cui valenze ambientali postulano l’attribuzione allo stesso di uno
statuto ontologico imperniato primariamente su tale dimensione, rispetto alla quale
dovrà essere valutata la compatibilità delle attività antropiche destinate a
dispiegarsi in tale ambito13.
La prima questione attiene dunque alla corretta identificazione di tale
oggetto nello spazio geografico. La zona costiera, sulla scorta del Protocollo di
Madrid, dovrà essere perimetrata in seguito ad una analitica caratterizzazione dei
morfo-tipi e delle continuità ecologico-paesaggistiche 14 salientemente correlate alle
dinamiche relazionali tra la terra e il mare: si profila quindi una estensione spaziale
della strategia di tutela a cui non si era spinta – almeno in termini così puntuali l’azione condotta dagli organi dell’Unione europea. Una tale nozione di zona
costiera prelude infatti alla sottoposizione ad azioni di tutela e di programmazione
sostenibile degli usi di un areale decisamente più ampio rispetto alla sottile strisca
di territorio tradizionalmente corrispondente alla mera sommatoria dei beni
rientranti nella eterogenea categoria del demanio marittimo 15 definita dall’art. 28
cod. nav. del 1942 e dall’art. 822 c.c.
La zona costiera così delimitata (anche verso il mare: si pensi alla funzione
regolatoria che assumono le praterie di posidonia), con distinta emersione delle
rispettive valenze ecologiche (in funzione della preservazione della biodiversità,
12 Decisione del Consiglio del 13 settembre 2010 relativa alla conclusione, a nome dell'Unione
europea, del protocollo sulla gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo della
convenzione sulla protezione dell'ambiente marino e del litorale del Mediterraneo; Decisione del
Consiglio del 4 dicembre 2008 concernente la firma, a nome della Comunità europea, del protocollo
sulla gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo (convenzione sulla protezione
dell'ambiente marino e del litorale del Mediterraneo) (2009/89/CE).
13
Tra i primi scritti impegnati a sollevare tale questione, cfr. J. DE LANVERSIN, Pour un statut du
littoral, in AIDA, 1978, p. 136 (in termini ampiamente riassuntivi del dibattito francese, si veda
invece, A. CALDERARO, Le littoral, Parigi, 2004) e R. W. G. CARTER, Coastals Environmental
change, Londra, 1988.
14
Per zona costiera si intende nel Protocollo (art. 2): «l’area geomorfologica situata ai due lati della
spiaggia, in cui l’interazione tra la componente marina e quella terrestre si manifesta in forma di
sistemi ecologici e di risorse complessi costituiti da componenti biotiche e abiotiche che coesistono e
interagiscono con le comunità antropiche e le relative attività socioeconomiche».
15
F. A. QUERCI, Demanio marittimo, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 92.
43
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
ma anche in ragione dei servizi ambientali garantiti) e fruizionali16 , verrà dunque
per la prima volta in rilievo alla stregua di un oggetto unitario, da sottoporre a
decisioni indifferibili, esprimibili in via ottimale ad una scala territoriale adeguata
(anche se spesso suscettibili di trovare attuazione ad una scala necessariamente
micro-locale, secondo un modello amministrativo transcalare). Un tale oggetto,
connotato da una particolare complessità, pone quindi una serie di problemi
innanzitutto in ragione della latitudine non corrispondente alle tradizionali
circoscrizioni amministrative e della inattitudine degli ordinari strumenti
amministrativi a garantirne un governo efficiente.
Il Protocollo non approda alla predeterminazione di uno specifico modello
amministrativo corrispondente in termini paradigmatici alla GIZC. La gestione
integrata si configura piuttosto come un risultato complessivo che presuppone
innanzitutto un processo di riallineamento allo statuto oggettuale della zona
costiera degli eterogenei strumenti amministrativi propri delle diverse tradizioni
nazionali (ad esempio, in Francia assumono un rilievo determinante approcci
negoziali che si esplicano nei contratti di fiume e di baia17, mentre in altri paesi,
come l’Italia, mantengono un peso preponderante le misure pianificatorie di
matrice urbanistica). Il Protocollo, con una formulazione forse troppo debole e
compromissoria, si limita a far carico ai governi nazionali di prevedere un quadro
comune di norme e assetti amministrativi che dovrebbero fare principalmente leva
sul coordinamento tra le diverse amministrazioni titolari di competenze settoriali e
tra gli innumerevoli piani che hanno ad oggetto da diverse angolature lo spazio
costiero o che esprimono una regolazione delle attività che scaricano esternalità su
tale ambito. Anche la citata raccomandazione comunitaria invita a prevedere una
“strategia nazionale” da elaborare mediante un mix di misure amministrative e di
azioni di soft law18. L’intento del Protocollo è di propugnare l’estensione uniforme
nell’intero bacino mediterraneo di un nuovo paradigma giuridico-amministrativo di
tutela e gestione degli areali costieri, imperniato sull’idea-cardine che in questi
spazi l’intervento pubblico, a differenza di quanto è accaduto sino ad oggi, debba
essere prioritariamente funzionalizzato a garantire un orizzonte di sostenibilità alle
molteplici attività antropiche che si concentrano con particolare intensità (e a volte
conflittualità) nella fascia litoranea e generano pressioni atte a perturbare – spesso
16 A. MONTAGNA, Demanio marittimo e impedimento dell'uso pubblico: verso la affermazione di un
diritto di uso pubblico delle collettività sulle nostre coste, in Riv. giur. ambiente, 2001,p. 621.
17
In Francia la figura del “contrat de baie” (de lac, de rivière, de nappe) è stata introdotta con una
ordinanza del Ministre de l’environnement et du cadre de vie del 5 febbraio 1981 (modificata il 22
marzo 1993 ed il 24 ottobre 1994). L’intera materia è stata quindi sottoposta ad una integrale
revisione con la circulaire del 30 gennaio 2004.
18
E. MOSTACCI, La soft law nel sistema delle fonti: uno studio comparato, Cedam, Padova 2008; si
veda ancora la «Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2002
relativa all’attuazione della gestione integrata delle zone costiere in Europa» (2002/413/CE),
Capitolo IV, Strategie nazionali.
44
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
esizialmente - il fragilissimo comparto ecosistemico posto all’intersezione tra il
retroterra e lo spazio marino.
Da una così radicale riconsiderazione dell’ordine assiologico deriva –
come detto – l’indefettibile esigenza di prefigurare un approccio innovativamente
olistico ai temi della tutela e della regolamentazione degli usi praticabili nello
spazio costiero, in una prospettiva di superamento del tradizionale modello
articolato per settori amministrativi separati. L’obiettivo, detto in altri termini, è
quello di ricondurre ad un orizzonte retto dal principio di responsabilità
intergenerazionale, su cui il Protocollo pone insistentemente l’accento, ogni azione
atta a scaricare pressioni sulla zona costiera.
Il primo effetto che il Protocollo innesca attiene dunque alla
riconformazione a questo rinnovato ordine valoriale dei diversi strumenti di
amministrazione attraverso cui gli stati ordinariamente programmano tale spazio e
ne governano le trasformazioni, secondo logiche che sino ad oggi hanno visto la
soverchiante prevalenza degli interessi di matrice economica 19. Si può fare
l’esempio delle concessioni ad uso turistico degli arenili20: la riconduzione di
questo istituto entro la cornice della GIZC, ad onta del mantenimento dell’etichetta
categoriale, postula una profonda revisione dell’istituto (peraltro già ampiamente in
atto), in particolare delle condizioni di assegnazione e di mantenimento del diritto
di sfruttamento esclusivo: ciò in ragione della necessità di subordinare lo
sfruttamento turistico alla verifica della capacità di carico del segmento costiero
interessato. Dietro alla conservazione del nomen che rimonta ad una stagione
connotata da un diverso ordine valoriale, si profila quindi una autentica
destrutturazione-ricostruzione di uno degli istituti che ha sin qui avuto maggior
incidenza nel determinare la marcata antropizzazione dell’ambito costiero.
Il secondo effetto attiene alla integrazione orizzontale tra questi diversi
strumenti (dai piani ai provvedimenti a carattere puntuale), che oggi danno luogo
ad una gestione gravemente frammentaria, spesso fonte di conflitti tra aspettative
d’uso diverse, entro la quale le ragioni ambientali risultano sistematicamente
recessive. In tal senso dovrebbe registrarsi una convergenza tra le politiche
19
V. CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in, Titolarità pubblica e
regolazione dei beni – La dirigenza nel pubblico impiego. Annuario AIPDA, 2003, Giuffrè, Milano,
2004, p. 24.
20
L. ANCIS, Tendenze evolutive delle concessioni turistico-ricreative sul demanio marittimo, in Dir.
trasp., 2006, p. 157.
45
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
portuali21 e diportistiche22, quelle di gestione del demanio, quelle urbanistiche e
paesaggistiche, quelle turistiche, quelle di preservazione delle aree protette e dei
siti di interesse comunitario, quelle della pesca 23 e l’elenco potrebbe continuare,
mettendo l’interprete di fronte all’inestricabile groviglio di competenze e strumenti
attraverso cui è oggi frammentata la gestione del territorio corrispondente alla zona
costiera.
4 Il modello amministrativo deducibile dal Protocollo.
Questi pochi cenni dovrebbero essere sufficienti a mettere in evidenza la
portata del cambiamento che si profila all’orizzonte. Si tratta di un autentico
mutamento di paradigma24, dalla logica del prelievo e dello sfruttamento ad un
modello di intervento amministrativo preordinato ad assicurare piena sostenibilità25
negli usi di una risorsa fondamentale che la civiltà mediterranea (sviluppatasi
proprio lungo le coste) deve continuare a porre al centro del proprio sviluppo ma
deve anche preservare per evitare la dispersione di interi ecosistemi e per
continuare a beneficiare dei servizi ambientali da essi prodotti. Nel contempo, il
mutamento di paradigma costringerà a rivedere dalla radice l’impostazione del
sistema amministrativo, cresciuto sulla spinta del riconoscimento di una pluralità di
interessi lasciati privi di coordinamento e spesso caratterizzati dall’assumere le
risorse costiere come una mera piattaforma e non come un elemento di valore. Si
profila un mutamento molto più radicale, volendo fare un paragone, rispetto a
21
Per tutti, G. PERICU, Porto (Navigazione interna), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, p. 423; G.
SIRIANNI, I porti marittimi, in Trattato di diritto amministrativo, S. CASSESE (a cura di), II ed.,
Milano, 2003, p. 2545; F. MANGANARO, Il porto da ‘bene demaniale’ ad ‘azienda’, in A. POLICE (a
cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Giuffrè, Milano, 2008, p. 247; in
prospettiva europea, D. U. GALLETTA – D. M. TRAINA, Trasporti marittimi e porti, in M. P. CHITI–G.
GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, II ed., Giuffrè, Milano, 2007, p. 2112.
22
L. ACQUARONE – M. P. VIPIANA, Porti turistici, in Dig. disc. pubbl., XI, Torino, 1995, p. 184.
23 C. LAVAVA, La pesca, in Trattato di diritto amministrativo, cit., p. 3281; F. G. PIZZETTI, La pesca,
in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p. 1377.
24
Riprendendo la nota schematizzazione epistemologica di T. S. KUHN (ID., La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1999, p. 90; ID., Dogma contro critica. Mondi possibili nella
storia della scienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000). Di “transizione paradigmatica” ha
parlato, con riferimento al consolidamento del paradigma della sostenibilità nel diritto dell’ambiente,
F. FONDERICO, La Corte costituzionale e il codice dell’ambiente, in Giornale dir. amm., 2010, p. 370.
25
Sul concetto di sostenibilità ci si può limitare a citare il volume di F. FRACCHIA, Lo sviluppo
sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana,
Editoriale Scientifica, Napoli, 2010.
46
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
quello che ha investito la materia delle acque 26, anch’essa oggetto di uno
scorrimento di paradigma (dalle acque quale bene da sfruttare alle acque quale
risorsa ambientale da preservare27); in quest’ultimo settore il legislatore nazionale
era infatti già intervenuto (seppur in termini parziali), dando la stura al processo di
ripensamento dell’oggetto delle tutela. Il recepimento della Direttiva 2000/60/CE28
non ha quindi avuto (almeno a prima vista) effetti così dirompenti quali è facile
preconizzare potrebbe produrre l’introduzione della GIZC (rectius di un modello
istituzionale di GIZC “presa sul serio”) entro un quadro ordinamentale che pare
ancora saldamente ancorato a principi e schemi ordinatori ai quali resta
sostanzialmente estraneo un vincolo forte di sostenibilità.
Il Protocollo identifica analiticamente gli obiettivi cui deve tendere la
GIZC mediante una serie di proposizioni che hanno il pregio di richiamare
espressamente l’ordine di valori sotteso al trattato internazionale e le principali
linee di azione che dovrebbero discendere dal trattato; lì infatti si menzionano
partitamente (art. 5) le esigenze: a) di favorire lo sviluppo sostenibile delle zone
costiere attraverso una pianificazione razionale delle attività, atta a conciliare lo
sviluppo economico, sociale e culturale con il rispetto dell’ambiente e dei
paesaggi; b) di preservare le zone costiere a vantaggio delle generazioni presenti e
future; c) di garantire l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali e, in particolare,
delle risorse idriche; d) di assicurare la conservazione dell’integrità degli
ecosistemi, dei paesaggi e della geomorfologia del litorale; e) di prevenire e/o
ridurre gli effetti dei rischi naturali e in particolare dei cambiamenti climatici.
Per il raggiungimento di questi ambiziosi traguardi (specie se si considera
lo stato in cui versano ampi tratti litoranei, anche nel nostro paese), il Protocollo
(art. 6) identifica alcuni principi generali, ai quali dovrà informarsi l’azione di
revisione della modellistica amministrativa; in particolare, l’elencazione di tali
principi prende le mosse dalla sottolineatura del dato (comunemente accettato in
sede scientifica) secondo cui – bandita ogni separatezza - occorre «prendere in
particolare considerazione il patrimonio biologico e le dinamiche e il
funzionamento naturali della zona intercotidale, nonché la complementarità e
l’interdipendenza della parte marina e di quella terrestre, che costituiscono
un’unica entità». Da ciò derivano coerentemente i tre principi di fondo che
possono essere qualificati come i pilastri su cui dovrebbe reggersi la gestione
integrata delle zone costiere: a. l’esigenza che ogni decisione sia informata ad una
preventiva verifica della capacità di carico delle zone costiere; b. la garanzia di «un
26 A.
PIOGGIA, Acqua e ambiente, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, cit., p. 231 ss..
27 G. PASTORI, Tutela e gestione delle acque: verso un nuovo modello di amministrazione, in Studi in
onore di Feliciano Benvenuti, III, Mucchi Editore, Modena, 1996, p. 1289.
28 P. URBANI, Il recepimento della direttiva comunitaria sulle acque (2000/60): profili istituzionali di
un nuovo governo delle acque, in Riv. giur. ambiente, 2004, p. 209; F. DI DIO, La direttiva quadro
sulle acque: un approccio ecosistemico alla pianificazione e gestione della risorsa idrica, in Dir. giur.
agr., 2006, p. 496.
47
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ANNO 2011 / NUMERO 1
coordinamento istituzionale intersettoriale dei vari servizi amministrativi e
autorità regionali e locali competenti per le zone costiere»; c. la previsione di «una
governance appropriata, che consenta alle popolazioni locali e ai soggetti della
società civile interessati dalle zone costiere una partecipazione adeguata e
tempestiva nell’ambito di un processo decisionale trasparente». Politiche fondate
sulla conoscenza e la valutazione anticipata degli effetti, politiche intersettoriali,
politiche aperte al coinvolgimento di tutti gli stakeholders: ecco lo schema tripolare
da cui dovrebbe prendere le mosse la costruzione della strategia nazionale (per
riprendere il lessico europeo) per la GIZC.
Il Protocollo si articola poi in una serie di capitoli settoriali, in cui sono
espresse alcune indicazioni di maggior dettaglio con riferimento: a. alla
salvaguardia dalle trasformazioni del territorio costiero (con previsione, tra l’altro,
di una generalizzata fascia di inedificabilità della profondità di 100 metri dalla
linea corrispondente al livello superiore di marea invernale), b. alle attività
economiche (onde accordare preferenza nella zona costiera a quelle che
«richiedono la prossimità immediata al mare»), tra le quali il turismo (con il
dichiarato obiettivo di favorire forme di fruizione dello spazio costiero alternative e
più sostenibili rispetto all’invalso schema balneare: la cd. “monocultura della
spiaggia”, rafforzatasi inusitatamente negli ultimi decenni, che nei mesi estivi
induce – come ormai ovunque evidente - pressioni eccessive sulle spiagge e sui
quadranti attigui e in molti luoghi costringe a continui ripascimenti artificiali, in
una insensata lotta contro la inarginabile forza erosiva del mare), c. ai paesaggi
costieri (la cui varietà viene riconosciuta come un valore non solo sul piano
estetico-formale, ma anche per le valenze identitarie e testimoniali), d. alle isole
(rispetto all’insularità il Protocollo insiste sulle esigenze di protezione, specie
rispetto ai rischi rappresentati dall’afflusso turistico incontrollato e dalla
marginalizzazione delle micro-comunità autoctone).
Di notevole rilevanza anche la disposizione del Protocollo (art. 20)
dedicata alla politica fondiaria, che offre la base per l’adozione di «meccanismi per
l’acquisizione, la cessione, la donazione o il trasferimento di superfici al demanio
pubblico e istituire servitù sulle proprietà», dietro i quali sembra di poter
intravedere un chiaro richiamo all’esperienza francese del Conservatoire de
l’espace littoral29 e a quella inglese del National Trust for Places of Historic
Interest or Natural Beauty 30 e all’idea della progressiva acquisizione in mano
29 L. CASERTANO, Proprietà e ambiente. La soluzione italiana a confronto con le nuove esigenze di
tutela, Giuffrè, Milano, 2008, p. 76.
30 C. DESIDERI–E. A. IMPARATO, Beni ambientali e proprietà: i casi del National Trust e del
Conservatoire de l’Espace littoral, Giuffrè, Milano, 2005.
48
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
pubblica di porzioni della zona costiera, quale estrema misura volta a sottrarre tali
spazi alle spinte in direzione della trasformazione31.
5. Le sperimentazioni italiane.
Negli anni scorsi (partire dal 2007) una sperimentazione della GIZC ha
visto coinvolte entro il progetto ICZM-MED (Azioni Concertate, Strumenti e
Criteri per l’applicazione della Gestione Integrata delle Zone Costiere
Mediterranee) 32 una serie di regioni europee, tra le quali anche l’Emilia Romagna,
la Liguria e il Lazio.
Va subito detto che queste iniziative hanno offerto risultati decisamente
interessanti, specie sul versante della messa punto di tecniche di modellizzazione
applicabili ai processi erosivi (con focalizzazioni sulla circolazione orizzontale dei
sedimenti e sugli effetti indotti dalla realizzazioni di barriere, opere portuali e altri
elementi fisici), alle azioni di ripascimento delle spiagge33 (da sottoporre ad una
attenta valutazione costi-benefici, non limitata alle sole preferenze degli operatori
turistici, ma estesa anche alla distinta rilevazione dei costi ambientali indotti34) e
alla preservazione della biodiversità marina e costiera, sottoposta a molteplici
fattori di pressione e disturbo.
Il limite di queste iniziative sta invece nell’avere coinvolto solo alcune
specifiche realtà a scala sostanzialmente comunale. Questa circostanza ha favorito
la messa fuoco, con risoluzione di dettaglio, di talune questioni cruciali per
particolari luoghi, ma ha finito per lasciare in ombra le potenzialità della GIZC
applicata ad unità spaziali significative e non riducibili. Si è comunque raggiunta la
piena dimostrazione di come le decisioni di protezione delle spiagge o di disegno
dei sistemi turistici presentino un indubbio e significativo risvolto ambientale, in
nome del quale occorre rivedere gli schemi decisionali, introiettando entro gli
31 Il dibattito sulla “demanializzazione dell’ambiente” è ancora poco vivace nel nostro paese, mentre
di “appropriation public comme ultime recours dans la protection de l’environnement” si è spesso
parlato in Francia: si veda, tra gli altri, S. CAUDAL, La domanialité publique comme instrument de
protection de l’environment, in AJDA, 2009, p. 2329, così come negli Stati Uniti, dove sta
riprendendo grande spazio la posizione propugnata dalla Public Trust Doctrine (v. R. K. CRAIG, A
Comparative Guide to Eastern Public Trust Doctrine: Classification of States, Property Rights, and
State Summaries, in Penn. State Environmental Law Review, 2008, p. 1).
32 Ampi
riferimenti in www.ermesambiente.it.
33 G. GARZIA, L’erosione costiera e gli interventi di ripascimento del litorale: il quadro giuridico
attuale e le prospettive di riforma, in Riv. giur. ambiente, 2008, p. 243.
34
M. STALLWORTHY, Sustainability, coastal erosion and climate change: an environmental justice
analysis, in Journal of Environmental Law, 2006, p. 357; S. CAPPUCCI - D. SCARCELLA - A.
TARAMELLI - M. MAFFUCCI - L. ROSSI - F. GIAIME, Sediment management and ICZM: an Italian case
study, www.enea.it.
49
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
stessi la tematica ambientale, con il risultato che nella GIZC l’interesse ambientale
non potrà più ridursi a un mero termine di confronto esogeno da valutare ex post,
ma dovrà essere preso in considerazione sin dalla fase di impostazione della
decisione e incorporato nella stessa. E’ il caso – per fare l’esempio che con
maggior nitore è emerso dalla fase di sperimentazione - della decisione di
ripascimento, la cui sostenibilità va valutata sulla base di una dettagliata analisi
costi-benefici, entro la quale occorre assegnare un valore (ad esempio mediante il
criterio della willingness to pay)35 anche agli elementi ambientali sacrificati.
A causa del carattere locale delle sperimentazioni, è rimasta in ombra la
portata strategica della GIZC e non è adeguatamente emerso come essa si configuri
quale policy necessariamente transcalare, con decisioni assunte ad un livello
amministrativo adeguato alla redazione di un modello conoscitivo coerente con la
complessità dei fenomeni ambientali e insediativi e all’assunzione di decisioni
programmatorie estese ad unità idro-eco-morfologicamente significative, con
azioni applicative efficacemente praticabili a scala micro-locale, con conseguente
necessità di un design istituzionale capace di interrelare e coordinare l’azione di
amministrazioni diverse. Tornando all’esempio delle spiagge, resta forte
l’impressione che si sia rimasti ancorati allo stato di fatto, senza prendere in
considerazione l’opzione di un ripensamento delle condizioni di concedibilità e
quindi di revocabilità di talune concessioni in conseguenza della rilevata
incompatibilità ambientale dello sfruttamento turistico intensivo (come dimostra il
modello dell’impronta ecologica applicato ai casi di studio e la continua necessità
di proteggere le spiagge della naturale erosione, dando conseguentemente ingresso
ad una grave alterazione dei cicli di trasporto solido nelle acque costiere dalle foci
fluviali).
Queste sperimentazioni sono peraltro rimaste un dato del tutto
estemporaneo e, malgrado anche la Carta di Siracusa sulla biodiversità sottoscritta
nell’aprile 2009 riconfermi enfaticamente l’impegno dell’Italia nel «conseguire
una conservazione e uno sviluppo sostenibile delle fasce costiere e marine, in
particolare, applicando i principi di gestione integrata delle coste come quelli già
attivati nel Mediterraneo dal programma UNEP Regional Seas Programme», non
si registrano iniziative concrete in tale direzione, né sul fronte legislativo né sul
versante amministrativo.
35
«Il costo derivante dalla scarsità è dato dal più alto valore che un utilizzatore alternativo
attribuirebbe a quella unità di bene; una certa allocazione è efficiente se la WTP/WTA da parte
dell’uso corrente è superiore a quella che garantirebbe qualunque altro uso alternativo. Ai fini della
valutazione economica non conta dunque se un bene è abbondante o scarso in assoluto, ma solo se lo
è in relazione con la potenziale domanda» 35: A. MASSARUTTO – A. DE CARLI, I costi economici della
siccità: il caso del Po, in Econ. font. ener. amb., 2009, p. 125.
50
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Mentre in Francia, volendo fare un confronto 36, è stato riservato alla GIZC
un apposito articolo del Code de l’environnement37 , in Italia il codice
dell’ambiente 38 non fa alcuna menzione di tale innovativo modello di articolazione
delle politiche ambientali e anche i più recenti interventi sul versante della tutela
qualitativa delle acque marine39 debbono essere considerati alla stregua di
altrettante occasioni perse rispetto all’imperativo di traduzione delle proposizioni
del Protocollo di Madrid e del concetto stesso di GIZC in un corpo di norme
uniformi per la zona costiera italiana, bene ambientale che resta quindi ancora oggi
governato in maniera sub-ottimale attraverso strumenti comunque inappropriati,
principalmente poiché non concepiti per mettere al centro delle politiche le
specificità di quello che – con un ossimoro – si potrebbe definire un isospazio delle
differenze (un isospazio in quanto ambito fortemente omogeneo sotto il profilo
della contaminazione ecotonale e della mutua influenza ecologica tra terra e mare,
ma fortemente differenziato al proprio interno, in quanto composto da ambiti
morfologici e vocazionali profondamente diversi tra loro).
6. La zona costiera come piattaforma multifunzionale e come risorsa
comune.
I documenti sin qui citati muovono tutti dalla consapevolezza40 - espressa
sin dalla Conferenza di Rio del 1992 (dichiarazione 17 di Agenda 21) - che il
territorio costiero costituisce una piattaforma multifunzionale, ossia un bene
ambientale insuscettibile di essere completamente sottratto alla fruizione e all’uso
36
J. ROCHETTE, Le traitement d’une singularité territoriale: la zone côtière, étude en droit
international et en droit comparé franco-italien, Nantes-Milano, 2007.
37
Code de l’environnement, Art. 219, créé par loi n° 2010-788 du 12 juillet 2010 - art. 166.
38 Si impiega questo sintagma unicamente per ragioni di sintesi, nella piena consapevolezza che il d.
lgs. 152/2006 non costituisce affatto una autentica codificazione, neppure dopo le pur rilevanti
modifiche introdotte con il d. lgs. 16 gennaio 2008, n. 4: sul punto si vedano F. FONDERICO, La
‘codificazione’ del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, p.
612; G. ROSSI, Diritto dell’ambiente, cit., p. 48; F. FRACCHIA, “Codification” and the Environment,
in Italian Journal of Public Law, 2009, p. 49; ID., Codificare l’ambiente, in M. P. CHITI – R. URSI (a
cura di), Studi sul Codice dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2009, p. 19, ove si ricorda che il
Codice non estende le proprie previsioni a taluni fondamentali settori (inquinamento acustico,
luminoso ed elettromagnetico) e non norma né la partecipazione ai procedimenti ambientali né l’uso
degli strumenti economici.
39 Decreto legislativo 13 ottobre 2010, n. 190, in attuazione della direttiva 2008/56/CE, che istituisce
un quadro per l'azione comunitaria nel campo della politica per l'ambiente marino e si prefigge
l’obiettivo di un “buono stato ecologico” delle acque marine entro il 2020.
Peraltro diffusa ben oltre il continente europeo: S. MANCUSO, La conferenza panafricana sulla
gestione integrata delle zone costiere (pacsicom), in Riv. giur. ambiente, 1999, p. 415.
40
51
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
da parte delle comunità. Si può quindi parlare di un bene non rinnovabile a
utilizzo-prelievo necessario.
Salvo ridotte porzioni di eccezionale interesse e rilevanza, tutelabili
mediante l’istituzione di parchi e riserve costiere, la vera sfida passa dunque per la
messa a fuoco degli elementi di valore riscontrabili in tale area (la cd.
caratterizzazione) e per una rigerarchizzazione degli interessi pubblici atta a
imporre di integrare in ogni decisione (pianificatoria o a carattere puntuale) una
valutazione circa gli effetti indotti sulle valenze ambientali complessive del
comparto costiero, onde consentire una distinta ponderazione del sacrificio che
ogni utilizzo o trasformazione prevista postula sul piano della riduzione
dell’attitudine di tale spazio a garantire funzioni ecologiche e paesaggistiche.
Il tema si presenta di particolare complessità in ragione delle fortissime
sollecitazioni e aspettative d’uso che si concentrano sullo spazio costiero 41.
Sotto il profilo insediativo, la zona costiera costituisce una sorta di “iperluogo”42. In questo spazio limitato si addensano infatti – spesso in termini
stridentemente conflittuali - una elevatissima tensione demografica (il 31 % della
popolazione italiana vive in ambito costiero) e molteplici fattori di pressione legati
agli usi turistico-ricreativi e produttivi (energia, acquacoltura, cantieristica, etc.)
che qui debbono necessariamente trovare spazio. Queste sono anche le principali
determinanti del tradizionale modello di sviluppo lineare fronte-mare (che ha
indotto in tutto il Mediterraneo una semplificazione-banalizzazione del paesaggio
costiero43).
Nella zona costiera sono ancora presenti significativi ed estesi ambiti di
naturalità, connotati dell’elevatissimo pregio degli ecosistemi che si formano, per
fare solo alcuni esempi, nelle zone dunali, nelle lagune e nelle cd. acque di
scambio 44. Su questi ambiti debbono quindi esplicarsi rigorose azioni di tutela,
volte ad impedire la dispersione degli spazi naturali, per effetto della spinta al
consumo di suolo45 che tende ad impoverire gli ecosistemi costieri, pregiudica le
41
C. P AHL – J. S ENDZIMIR – P. J EFFREY , Resources Management in Transition, in
www.ecologyandsociety.it, 2009.
42 Per usare una espressione diffusa nel lessico urbanistico (dove questo sintagma si è sviluppato per
derivazione dal neologismo “non-luogo”, impiegato per primo dal sociologo M. Augé (v. M. AUGÉ,
Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèutera Editrice Milano, 1993).
43 E. BOSCOLO, Paesaggio e tecniche di regolazione: i contenuti del piano paesaggistico, in Modelli
di composizione degli interessi nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, Riv. giur.
urbanistica, 2008, p. 130.
44 Delle quali si occupano organicamente i piani di gestione distrettuali, adottati nel febbraio 2010
dalle autorità di bacino.
45 Un modello che, secondo F. KARRER, Pianificazione infrastrutturazione dei centri urbani costieri,
in Le risorse del mare e delle coste. Ordinamento, amministrazione e gestione integrata, cit., p. 527,
trova la propria simbolica ipostasi nelle iniziative di alcuni comuni orientate alla riqualificazione del
waterfront in un dimensione meramente estetica (beautification).
52
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
funzionalità ecologiche, per il concomitante effetto della loro riduzione quantitativa
e della loro “insularizzazione”.
V’è poi da aggiungere che questo spazio “conteso” è anche l’ambito su cui
inevitabilmente si concentrano le aspettative di fruizione del mare da parte della
collettività.
I territori costieri esprimono quindi, ad un tempo, un rilevante valore d’uso
(in ragione delle opportunità economiche e di sviluppo che qui possono
dispiegarsi), ma anche un fondamentale valore di lascito (per le valenze ambientali
e paesaggistiche che esprimono).
Il problema di fondo si riassume dunque nella ricerca di un non facile
equilibrio tra le politiche di tutela e le spinte in direzione di un sempre più
intensivo sfruttamento, secondo il tipico dilemma della sostenibilità che proprio nel
contesto costiero si pone in termini per molti versi esemplari, mettendo di fronte ad
una difficile prova i decisori pubblici.
Nel comparto costiero – si aggiunga - i problemi di tutela ambientale sono
accentuati, per un verso, dalla particolare aggressività delle spinte verso lo
sfruttamento di uno spazio considerato essenziale e infungibile per talune attività
ad elevato margine di profittabilità e, per altro verso, dalla notevole vulnerabilità di
tali ambiti, connotati da dinamiche instabili (si pensi alle zone umide costiere 46 o ai
cordoni dunali) e più d’altri esposti alla forza modificatrice degli elementi naturali:
si pensi alla forza erosiva del mare, piuttosto che al fenomeno della risalita del
cuneo salino riscontrabile ormai in molti ambiti perifluviali e si tenga inoltre
presente che i litorali spiaggiosi costituiranno già nei prossimi decenni i quadranti
maggiormente esposti all’innalzamento del livello marino conseguente al climate
change47.
Nella percezione diffusa fatica ad affermarsi l’idea – che costituisce invece
il presupposto concettuale su cui poggiare in modello amministrativo della GIZC –
secondo cui la fascia costiera rappresenti una risorsa comune48.
Una risorsa finita, nel senso che gli spazi disponibili, specie se si escludono
a priori estese aree ad elevata naturalità da considerare assolutamente “intangibili”,
sono davvero limitate e scarse rispetto alla domanda, anche in un paese come il
nostro a notevole estensione costiera. Di conseguenza, gli spazi utilmente
46
Si veda sul punto il contributo di S. ARIANO – N. CARESTIATO, Un territorio tra terra e mare: la
laguna di Marano. Attività, attori, conflitti in un ecosistema fragile, in di N. CARESTIATO – A.
GUARAN (a cura di), Water in the euro-mediterranean area, Forum Editore, Udine, 2010.
47 R. K. GRAIG, “Stationarity in dead” – Long live transformation: five principles for climate change
adaptation law, in Harvard Environmental Law Review, 9, 2010; M. BREIL – M. CATENACCI – C. M.
TRAVISI, Le zone costiere italiane. Quantificazione economica degli impatti e delle misure di
adattamento, in C. CARRARO (a cura di), Cambiamenti climatici e strategie di adattamento in Italia,
Una valutazione economica, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 235
48
V. INSERGUET - BRISSET, Droit de l’environnement, Rennes, 2005, p. 159.
53
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
impiegabili per funzioni ad elevato valore aggiunto debbono essere utilizzati con la
massima efficienza, anche a costo di forzare le preferenze individuali 49.
Una risorsa non resiliente50 , nel senso che le trasformazioni e i
frazionamenti dello spazio costiero sono difficilmente regredibili e producono
effetti di lunghissimo periodo, determinando l’inattitudine della risorsa ad
assolvere ad altre funzioni, con la conseguente necessità di far precedere ogni
intervento antropico da una rigorosa modellizzazione dei correlativi effetti (come
espressamente indicato nel Protocollo e secondo un modello non dissimile da quelli
prefigurati in sede di VAS e di VIA).
Una risorsa essenziale, in quanto taluni tra i bisogni che aspirano ad avere
soddisfazione mercé l’accesso al mare sono effettivamente meritevoli di una
risposta: si pensi alle valenze sociali e pro-coesive ormai comunemente ascritte al
turismo, ma si pensi anche ad alcune attività come quelle portuali ed energetiche,
che debbono necessariamente trovare adeguati spazi in tale areale; il discorso
potrebbe inoltre continuare con il riferimento alle valenze identitarie che assume la
permanenza di alcune forme di popolamento delle coste in antichi borghi, la cui
sopravvivenza è messa a rischio dalla competizione con gli spazi del turismo, o il
mantenimento di forme tradizionali di pesca e ittiocoltura.
Una risorsa comunitaria nel senso che nella letteratura internazionale e
segnatamente nella (notissima) dottrina dei commons (si pensi ai lavori del Premio
Nobel E. Olstrom 51) si tende a dare a tale espressione, con l’intento di prospettare
la decisiva importanza di forme di auto-responsabilizzazione delle comunità
costiere rispetto alla gestione di risorse destinate all’esaurimento a causa dei limiti
della razionalità egoistica-individuale52, e nel senso, su cui aveva posto l’accento
49 E’ il caso delle norme incentivali finalizzate a favorire la delocalizzazione di strutture turistiche
dalla costa varate dalla Regione Sardegna (amplius infra).
50 Nello studio dei fenomeni ambientali viene direttamente in rilievo il concetto-chiave di resilienza,
intesa (secondo studi promossi per primo negli anni Settanta da C. S. HOLLING, Resilience and
Stability of Ecological Systems, in Ann. Rew. Ecol. System., 1973, 1, ed oggi promossi in primis da un
consorzio di istituti di ricerca denominato Resilience Alliance) come attitudine di un sistema
ambientale di adattarsi alle sollecitazioni esogene senza mutare definitivamente le proprie
caratteristiche: su questi temi, che qui non possono trovare adeguato sviluppo, esiste una ampia
letteratura internazionale facilmente rinvenibile anche attraverso la rivista Ecology and Society
(www.ecologyandsociety.org).
51
E. OLSTROM, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006.
52 G. BRAVO, Nè tragedia, nè commedia: la teoria dei ‘commons’ e la sfida della complessità, in
Rass. it. sociol., 2002, in part., 640.
54
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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già M.S. Giannini53, di beni che garantiscono utilità a fruizione indivisa, secondo
una proposta ricostruttiva che aveva il grande merito di travalicare la dicotomia
bene demaniale-bene privato 54. In quanto risorse comuni55 rispetto ai territori
costieri si pone quindi un limite allo sfruttamento derivante dal vincolo di
trasferimento alle generazioni future (art. 5, lett. b), Protocollo) di spazi costieri
bastevoli all’esercizio delle funzioni essenziali e naturalisticamente adeguate alla
53
M. S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 35, aveva parlato di «beni che rendono servizi
indivisibili per natura». Su questo decisivo profilo qualificatorio ha posto l’accento anche M. ARSÌ, I
beni pubblici, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Dir. amm. spec., II,
Milano, 2003, p. 1715. Giannini è successivamente tornato sul tema della proprietà collettiva dei beni
ambientali anche in ID., Introduzione sulla potestà conformativa del territorio, in L. BARBIERA (a cura
di), Proprietà, danno ambientale e tutela dell’ambiente, Napoli, 1989, p. 5). Su questo originalissimo
profilo del pensiero gianniniano, che si rivela di decisiva utilità per fornire alcune coordinate nello
studio della demanialità idrica e marittima, si vedano le considerazioni di S. CASSESE, Le teorie della
demanialità e la trasformazione dei beni pubblici, in U. MATTEI - E. REVIGLIO - S. RODOTÀ (a cura
di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna, 2007, in part., 69. Su
questo particolare profilo si veda anche A. BIXIO, Proprietà pubblica e divisione della proprietà.
Riflessioni sulla proprietà pubblica in Massimo Severo Giannini, in S. CASSESE – G. CALCATERRA –
M. D’ALBERTI – A. BIXIO (a cura di), L’unità del diritto. Massimo Severo Giannini e la teoria
giuridica, Bologna, 1994, p. 99.
54 Nel settore delle acque l’esempio di figure come i cd. contratti di fiume è decisamente illuminante
in tal senso.
55 E’ il caso di ricordare che negli anni scorsi una commissione ministeriale, presieduta da S. Rodotà,
aveva formulato una proposta di revisione della normativa codicistica sui beni pubblici, entro la quale
assumeva un significato particolare la previsione della categoria dei beni comuni. Il testo del progetto
di disegno di legge delega e la relazione di accompagnamento sono pubblicati in Pol. dir., 2008, 537:
in particolare ivi era previsto che “I beni comuni sono quei beni a consumo non rivale, ma esauribile,
come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i
beni culturali, etc. (compresi i diritti di immagine sui medesimi beni), i quali, a prescindere dalla loro
appartenenza pubblica o privata, esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e
al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione
collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future”: M. RENNA, I “beni
comuni” e la Commissione Rodotà. Una nuovo regime per le proprietà collettive, www.labsus.it.
55
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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preservazione della biodiversità che ivi si concentra con una ricchezza e
complessità davvero uniche56.
La tematica della gestione integrata delle risorse costiere si inscrive quindi
nel più ampio capitolo della ricerca di modelli di decisione collettiva rispetto ad
attività antropiche che si esplicano su risorse naturali a sfruttamento necessario57;
detto in termini schematici: le coste costituiscono indubbiamente una riserva di
naturalità, ma – nel contempo – costituiscono anche un segmento territoriale entro
il quale debbono irrinunciabilmente trovare localizzazione talune attività umane
produttive di disturbo58. Di lì l’esigenza di identificare soglie di compatibilità e
modelli di valutazione preventiva della sostenibilità59, atti a scongiurare quella
situazione che sin dal 1968 è stata immaginificamente definita dal biologo G.
Hardin 60 fallimento dei commons.
7. Un bilancio (deficitario) tra demanio marittimo e urbanistica.
Volendo azzardare un bilancio, si deve riconoscere che anche nel nostro
paese - in una condizione di sostanziale ‘separatezza’ tra terra e mare - la gestione
dello spazio costiero mediante i tradizionali schemi amministrativi, rigidamente
legati ai modelli settoriali tipici della gestione del demanio marittimo,
dell’urbanistica e della disciplina del paesaggio, dello sviluppo portuale, etc., in
56 Sul cd. principio di responsabilità, che postula una responsabilità generazionale, occorre richiamare
la riflessione fondativa di H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un'etica per la società
tecnologica, Einaudi, 1993, p. 37. Dello stesso H. JONAS si veda anche il più recente Sull'orlo
dell'abisso, conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino, 2000: secondo Jonas,
mentre in passato l’esserci dell’uomo era considerato un dato certo, oggi l’attitudine distruttiva della
tecnologia sulle risorse naturali induce a dedurre in una specifica obbligazione tale risultato:
l’imperativo kantiano va conseguentemente così riformulato: “agisci in modo che le conseguenze
della tua azione siano compatibili con la preservazione di una autentica vita umana sulla terra …
includi nella tua attuale scelta l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà” (Il
principio di responsabilità, cit., p. 16). Si vedano anche J. C. TREMMEL, A Theory of
Intergenerational Justice, Londra, 2009; M. TALLACCHINI, Diritto per la natura, Giappichelli, Torino,
1996, e R. BIFULCO, Diritto e generazioni future,Giuffrè, Milano, 2008; G. PARISI, Cambiamenti nel
concetto di natura, in E. CADELO, (a cura di), Idee di natura. Tredici scienziati a confronto, Marsilio,
Venezia, 2008, p., 120.
57 Sul versante giuridico, si veda il fondamentale contributo di M. CAFAGNO, Principi e strumenti di
tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattivo, comune, Giappichelli, Torino, 2006, corredato
da un amplissimo apparato di rinvii bibliografici.
58
Sulle quali valga ancora il rinvio a N. GRECO, Costituzione e regolazione, cit., p., 179 ss.
59
W. BAUMOL - W. OATES, The Theory of Environmental Policy, Cambridge, 1988.
60
G. HARDIN, The Tragedy of Commons, in Science, 1968, 1243; sul punto si vedano T. COZZI – S.
ZAMAGNI, Istituzioni di economia politica. Un testo europeo, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 516 e i
contributi contenuti in E. OLSTROM - T. DIETZ - N. DOLŠAK - P. C. STERN - S. STONICH, E. U. WEBER
(a cura di), The Drama of the Commons, Washington, 2002.
56
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
carenza di una convergenza e di un allargamento dell’orizzonte decisionale
derivante dal riconoscimento di una specificità sostantiva della fascia costiera, ha
portato quasi ovunque ad esiti profondamente deludenti 61. Hanno sin qui dominato
il campo le politiche dello sviluppo e il ritardo nella prefigurazione di una azione di
organica tutela di tali spazi si è fatto viepiù evidente: il prezzo di un tale
disallineamento delle politiche pubbliche rispetto alla salvaguardia dei valori
ecologici è rappresentato dallo stato di compromissione di ampi tratti di litorale,
ormai irreversibilmente receduti a comparti a consolidata antropizzazione. Un
censimento delle coste (che ancora manca) farebbe venire alla luce una realtà fatta
di ambiti spesso sottoposti a pressioni incompatibili con la capacità di carico dei
sistemi ambientali62 e sovente sottratti alla fruizione collettiva in una logica di
privatizzazione-parcellizzazione del litorale. Per paradosso, la sottrazione alle
funzioni ecologiche di ampi tratti del litorale non è coincisa con un allargamento
degli spazi riservati all’uso generale dei cittadini, bensì con l’attribuzione di diritti
d’uso esclusivo a vantaggio di un numero limitato di operatori economici: in tal
guisa vengono frustrate sia le possibilità di godimento di servizi a fruizione
indivisa, sia l’aspettativa a praticare uti cives usi non appropriativi degli spazi
costieri.
In Italia – come accennato - lo spazio costiero è stato amministrato
mediante tecniche diverse. Da un lato la demanializzazione di uno spazio ridotto
(sulle spoglie dell’antica idea romanistica secondo cui il litorale era riconducibile
al ridotto novero delle res communes omnium, in una logica tesa ad assicurare a
ciascuno l’accesso ad una risorsa ritenuta illimitatamente disponibile e sottratta alla
tendenza verso appropriazioni esclusive63), dall’altro la sottoposizione dello spazio
retrostante ad una pianificazione delle trasformazioni territoriali che per una lunga
stagione (non ancora conclusasi in molte regioni) si è ridotta alla pianificazione
urbanistica di livello comunale.
61
N. GRECO, La gestione integrata delle coste. Pesca, urbanistica, turismo, ambiente, Giuffrè,
Milano, 1990.
62 La carrying capacity corrisponde alla pressione antropica sopportabile dalle risorse costiere senza
accusare perdite delle proprie caratteristiche strutturali e senza dismissioni delle proprie funzioni.
63 A questo proposito appare imprescindibile riandare alla millenaria costruzione del diritto romano e
precisamente a Elio Marciano e quindi al celeberrimo frammento (D. I, 8, 2, 1, Marcianus libro tertio
institutionum), secondo cui “Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica,
quaedam universitatis, quaedam nullius pleraque singulorum, quae veriis ex causis cuique
adquiruntur” e “et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et
per hoc litora maris”.
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ANNO 2011 / NUMERO 1
La categoria del demanio marittimo, come quello idrico, è oggetto di un
mutamento di portata strutturale, che investe le ragioni stesse della demanialità64.
Le logiche sottese al richiamo alla formula tralatizia degli “usi pubblici del mare”65
sono state sacrificate alla tendenza ad uno sfruttamento inflattivo dei beni costieri
demaniali, specie per ragioni legate allo sviluppo dell’imprenditorialità turistica, il
cui presupposto era costituito – come aveva sottolineato F. Benvenuti66 - dalla
concezione del demanio marittimo quale bene produttivo e dalla astratta
concedibilità senza limitazioni dell’intero patrimonio costiero, secondo un modello
incondizionatamente dominato dalla domanda 67. Solo di recente, è emersa la
necessità di ripensare un tale paradigma, a partire da una riconsiderazione
dell’oggetto stesso della demanialità, da assumere non alla stregua di un bene
rilevante in quanto suscettibile di assicurare utilità secondo logiche economiche,
bensì quale porzione di un fondamentale comparto ambientale di scambio terramare, atto ad assicurare servizi ecologici (e culturali) a fruizione indivisa. In tal
senso, la nozione di demanialità (concetto sul quale è da tempo in atto un processo
di revisione teorica68) va ripensata su basi completamente diverse rispetto al
passato. Il demanio costiero e marittimo 69 non va infatti identificato con un novero
di beni appartenenti allo Stato in una logica para-dominicale, a dare corpo ad una
64
Per una rilettura in chiave funzionale, attenta dunque agli utilizzi, dei beni pubblici, si veda G.
I beni, in S. CASSESE (a cura di), Istituzioni di diritto amministrativo, II ed., Giuffrè,
Milano, 2009, p. 203; A. POLICE, I beni di proprietà pubblica, in F. G. SCOCA (a cura di), Diritto
amministrativo, Giappichelli, Torino, 2008, p. 641; per un’analisi delle problematiche che si pongono
nella categoria del demanio marittimo, si veda C. CACCIAVILLANI, Profili funzionali del demanio
marittimo, in G. COLOMBINI (a cura di), I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali,
Jovene, Napoli, 2009, 75.
DELLA CANANEA,
65 M. L. CORBINO, Il demanio marittimo. Nuovi profili sostanziali, Giuffrè, Milano, 1990; G.
COLOMBINI, Lido e spiaggia, in Dig. disc. pubbl., IX, Torino, 1994, p. 264.
66
F. BENVENUTI, Il demanio marittimo tra passato e futuro, in Riv. dir. nav., 1965, 154 e ora in ID.,
Scritti giuridici, III, Milano, 2006, 2391.
67
N. GRECO – F. GHERARDUCCI (a cura di), I beni pubblici in Italia. Profili funzionali e problemi di
gestione, Il Mulino, Bologna, 1982.
68
Sulla crisi che le costruzioni teorico-formali sui beni pubblici stanno attraversando si vedano: V.
CERULLI IRELLI, I beni pubblici nel codice civile: una classificazione in via di superamento, in Econ.
pubbl., 1990, 523 (e, già prima, ID., Proprietà pubblica e diritti collettivi, Cedam, Padova, 1983); V.
CAPUTI JAMBRENGHI, Premesse per una teoria dell’uso dei beni pubblici, Jovene, Napoli, 1979; M.
RENNA, Beni pubblici, in S. CASSESE (a cura di), Diz. dir. pubbl., I, Giuffrè, Milano, 2006, p. 714 (e,
ancora prima, ID., La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Giuffrè, Milano,
2004); S. CASSESE, La teoria della demanialità e la trasformazione dei beni pubblici, in Invertire la
rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, cit., 67.
69 N. GRECO - B. MURRONI, Demanio marittimo, zone costiere, assetto del territorio, Il Mulino,
Bologna, 1980.
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ANNO 2011 / NUMERO 1
antistorica proprietà pubblica70. Più che di un rapporto di appartenenza sarebbe
invece preferibile parlare di una mera imputazione al soggetto pubblico: una
imputazione avente ad oggetto risorse 71 che vanno doverosamente 72 tutelate e
gestite nella prospettiva della loro preservazione di lungo periodo, armonizzando le
logiche dello sfruttamento con quelle della conservazione 73.
Echi di questo processo di riconformazione categoriale del demanio
marittimo che si fa sempre più evidente si possono cogliere in alcune recenti prese
di posizione della Cassazione74 , che – relativamente alle valli da pesca nella laguna
veneta - ha identificato proprio nelle valenze ambientali l’elemento determinante
per sancire la demanialità 75 (una demanialità meramente custodiale, svuotata di
ogni residuo profilo dominicale, che – nelle parole della suprema Corte - sottende
una doppia imputazione allo Stato e alla Comunità) e nella considerazione che il
70 S. CASSESE, I beni pubblici: circolazione e tutela, Giuffré, Milano, 1969, p. 144. Come noto, l’idea
di una “proprietà pubblica attribuita allo Stato per tutela dell’uso pubblico, un diritto sui generis,
esercitato promiscuamente con atti d’imperio e con atti di dominio civile, diritto misto di pubblico e
di privato” risale ad O. RANELLETTI, Concetto natura e limiti del demanio pubblico, in Giur. it., 1897,
326, ed ora anche in E. FERRARI, B. SORDI, I beni pubblici, in O. RANELLETTI, Scritti giuridici scelti, ,
Jovene, Napoli, 1992, p. 269, ed è andata rafforzandosi nella riflessione di E. GUICCIARDI, Il
demanio, Padova, 1934 (rist. 1989), p. 15. Si veda anche A. M. SANDULLI, Beni pubblici, in Enc. dir.,
V, 1959, Giuffrè, Milano, 277.
71
P. PERLINGERI, La gestione del patrimonio pubblico: dalla logica dominicale alla destinazione
funzionale, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, cit., p. 89.
72 V. CAPUTI JAMBRENGHI, Proprietà dovere dei beni in titolarità pubblica, in Associazione italiana
dei professori di diritto amministrativo, Annuario 2003. Titolarità pubblica e regolazione dei beni –
La dirigenza nel pubblico impiego, cit., 61.
73 L. BOBBIO, Le politiche contrattualizzate, in C. DONOLO, Il futuro delle politiche pubbliche,
Giuffrè, Milano, 2006, p. 61.
74 G. ROSSI, L’ambiente ed il diritto, in questa Rivista, 2010, 7, ha recentemente ricordato che nella
formazione del diritto ambientale la giurisprudenza ha giocato sovente un fondamentale ruolo
anticipatore.
75 La Corte di Cassazione (Cass., ss.uu., 16 febbraio 2011, n. 3813; Cass., SS.UU., 14 febbraio 1011,
n. 3665), ha premesso che nella identificazione del novero dei beni pubblici “non è più possibile
limitarsi, in tema di individuazione dei beni pubblici o demaniali, all'esame della sola normativa
codicistica del '42, risultando indispensabile integrare la stessa con le varie fonti dell'ordinamento e
specificamente con le (successive) norme costituzionali”: su questa base la Cassazione, ponendosi su
un piano di diretta derivazione costituzionale, ha profilato un doppia titolarità dei beni “comuni” che
compongono il patrimonio ambientale-marittimo, rispetto ai quali il richiamo alla “‘demanialità’
esprime una duplice appartenenza alla collettività ed al suo ente esponenziale, dove la seconda
(titolarità del bene in senso stretto) si presenta, per così dire, come appartenenza di servizio che è
necessaria, perchè è questo ente che può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti
caratteristiche del bene e la loro fruizione”.
59
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
decreto sul cd. federalismo demaniale (D. lgs. 28 maggio 2010, n. 85 76) riserva al
demanio marittimo e a quello idrico, destinati in futuro a dare corpo ad una nuova
macrocategoria di beni demanial-ambientali, connotata dai caratteri della
necessaria pubblicità (a differenza degli altri beni compresi nell’elenco dell’art.
822 c.c., trasferiti alle regioni in una logica che contempla l’approdo della
successiva alienazione), proiettata alla cd. valorizzazione ambientale77 .
Entro la cornice di questo nuovo ordine, appare ineludibile anche un
ripensamento del sistema delle concessioni (specie di quelle per usi turisticoricreativi) 78. Le concessioni d’uso sono attribuibili nei limiti di una preventiva
pianificazione, tesa ad identificare a priori gli spazi adibibili alla fruizione turistica
a partire dall’identificazione delle aree ad elevata valenza ambientale da sottrarre a
tale forma di utilizzo 79. L’assegnazione deve inoltre conseguire a rigorose
76
F. PIZZETTI, Il federalismo demaniale: un buon segnale verso un federalismo fiscale ‘ben
temperato’, in Le Regioni, 2010, 3; A. POLICE, Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori
o dismissioni locali?, in Giorn. dir. amm., 2010, 1223.
77 D. lgs. 28 maggio 2005, n. 85, art. 2, comma V, lett. e): “valorizzazione ambientale. In applicazione
di tale criterio la valorizzazione del bene e' realizzata avendo riguardo alle caratteristiche fisiche,
morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e sociali dei beni trasferiti, al fine di assicurare lo
sviluppo del territorio e la salvaguardia dei valori ambientali”.
78 M. D’ALBERTI, La concessione amministrativa. Aspetti della contrattualità delle pubbliche
amministrazioni, Napoli, 1981, in part., 29; questo istituto è stato al centro di una articolata analisi
condotta tempo addietro dall’Autorità Garante per il mercato e la Concorrenza: cfr. M. D’ALBERTI (a
cura di), Concorrenza e concessioni, in Temi e Problemi, 8, 1998.
79 Nella prospettiva di una complessiva riconsiderazione dell’intera (sub)materia delle concessioni
turistico-ricreative, è stata recentemente disposta una proroga di sei anni delle concessioni scadenti
entro il 2010: ciò al fine di consentire all’intero sistema di adeguarsi alle indicazioni di derivazione
comunitaria in tema di concorrenzialità e di recupero dei costi ambientali: TAR Puglia, Sez. Lecce, I,
13 aprile 2011, n. 679 “In materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi con
finalità turistico-ricreative, il termine di sei anni con cui l’articolo 1, comma 18, del D.L. n.
194/2009, a fronte dell’abrogazione dell’art. 37, comma 2, del Codice della navigazione, ha disposto
la proroga delle concessioni in essere sino al 31 dicembre 2015, è stato stabilito per consentire
l’introduzione di una nuova disciplina della materia conforme ai principi comunitari e, pertanto, non
esorbita dalla sfera della discrezionalità legislativa. Infatti, nel dettare norme transitorie, il
legislatore gode della più ampia discrezionalità, con l’unico limite costituito dal rispetto del principio
di ragionevolezza. Poiché il termine di sei anni coincide con la durata minima delle concessioni, e
sotto questo profilo costituisce un’ultima proroga, la cui ragione può essere individuata nella
necessità di far rientrare dagli investimenti gli operatori che avevano comunque fatto affidamento
sulla precedente legislazione in materia di diritto di insistenza, dando loro il tempo necessario
all’ammortamento delle spese sostenute, deve ritenersi che non è manifestamente irragionevole un
regime transitorio che, nel regolare l’esaurimento delle situazioni preesistenti, formatesi in base a un
regime all’epoca valido, indichi un termine di sei anni per l’adeguamento ai principi comunitari”. Si
va anche C. LAMI – C. A. NEBBIA COLOMBA – S. VILLAMENA, Le concessioni demaniali marittime tra
passato, presente e futuro, Exeo edizioni, Padova, 2010.
60
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
procedure comparative80, atte a far emergere una ‘doppia efficienza’, legata, da un
lato, alla ritrazione del massimo risultato di utilità sociale dello sfruttamento del
bene (efficienza a cui corrisponde anche la corresponsione di un canone
direttamente parametrato su tali risultati e non più su una frusta logica tabellare81,
idoneo a incorporare il valore delle risorse ambientali, secondo il principio full
recovery cost82), dall’altro, alla compatibilità ambientale degli utilizzi (ad esempio,
rispetto agli stabilimenti balneari, con riferimento alla minor invasività delle
tecniche di protezione con sbarramenti fisici e di ciclico ripascimento delle
spiagge).
Il demanio marittimo ha comunque una estensione decisamente più ridotta
rispetto all’ampia area retrostante che – come si è compreso solo con grande ritardo
– si pone in continuità e in rapporto di mutua interrelazione con lo spazio marino e
sulla quale occorre estendere – come ricorda il Protocollo di Madrid - una azione di
tutela. Nel tempo questo segmento di territorio, lasciato in proprietà privata e
considerato di pubblico interesse solo in presenza di un vincolo paesaggistico, non
ex se in quanto bene costiero, è stato sottoposto ad una regolamentazione degli usi
espressa pressoché soltanto attraverso le leve dell’urbanistica e del paesaggio (nelle
zone gravate da vincoli a carattere puntuale o ex lege, dopo la legge 431/1985)83.
80 In relazione ai più recenti sviluppi giurisprudenziali si veda M. D’ORSOGNA, Le concessioni
demaniali marittime nel prisma ella concorrenza: un nodo ancora irrisolto, in Urb. e app., 2011, 599.
Sull’incidenza che ha invece avuto in subjecta materia il cd. diritto di insistenza, si vedano le
considerazioni critiche di F. LONGO, Brevi note sulla giurisprudenza amministrativa in materia di
diniego di rinnovo di concessione di utilizzo di beni pubblici, in TAR, 1993, II, 157; S. CASSESE,
Concessione di beni pubblici e diritto di insistenza, in Giorn. dir. amm., 2003, 355; L. R. PERFETTI,
“Diritto di insistenza” e rinnovo della concessione di pubblici servizi, in Foro amm.-C.d.S., 2003,
621; C. CALLERI, Diritto di insistenza e interpretazione dell’art. 37 cod. nav., in Dir. trasporti, 2008,
467.
81 M. D’ALBERTI, Per la riforma e la valorizzazione delle concessioni, in Invertire la rotta, cit., p.
286, ove si afferma che “il valore della concessione va dunque commisurato al rilievo economico e
giuridico dell’attività imprenditoriale svolta dal concessionario, nonché dei diritti e dei poteri ad
esso conferiti, più che all’entità dei beni sui quali la concessione si esercita. Questa, però, non è la
via seguita nel nostro sistema e vi sono molte disfunzioni nella disciplina delle concessioni”; V.
CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione dei beni, in Annuario 2003. Titolarità pubblica e
regolazione dei beni, cit., p. 21; P. D’AMELIO, Determinazione dei canoni demaniali: la
corrispettività garanzia di una corretta utilizzazione del bene pubblico, in Giust. amm., 2008, in part.,
231.
82 Si può sostenere che i canoni dovuti da chi faccia un uso eccezionale della risorsa demaniale
debbano avviarsi ad assumere una funzione compensativa dei costi-opportunità e delle esternalità che
si scaricano (spillover effect) sulle comunità costiere.
83
S. AMOROSINO, Introduzione al diritto del paesaggio, Laterza, Bari, 2010.
61
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Senza soffermarsi in questa sede sui limiti intrinseci della disciplina urbanistica84 e
sui rapporti tra questa e la gestione del demanio marittimo 85, che solo in tempi
recenti – anche grazie alla sottoposizione dei piani a valutazione ambientale
strategica86 – comincia a ricostruirsi attorno all’idea-cardine della valenza del
territorio quale risorsa ambientale esauribile, va rimarcato che, anche a cagione
della sostanziale carenza dei livelli pianificatori sovra-comunali e dei piani
paesaggistici, nel dominio dell’urbanistica lo spazio costiero è stato amministrato
da ciascun comune, dando la stura ad un processo di frammentazione e di
concorrenzialità tra luoghi, spesso impegnati in una miope rincorsa verso la
stereotipa condizione di località balneare (con conseguente affievolimento dei
valori identitari originari). E’ solo il caso di ricordare che la nozione di zona
costiera come oggetto autonomo e come ambito da proteggere era estranea al
lessico dell’urbanistica e questo ha favorito fenomeni inflattivi come le saldature e
lo sprawl urbano (si pensi agli agglomerati abitativo-turistici che si addensano
disordinatamente sulle coste), ai quali è sottesa la mancata percezione di un limite
nel consumo di un suolo pregiato come quello costiero e dei costi ambientali
connessi ad un tale modello insediativo.
Nel nostro paese la principale difficoltà che si profila all’orizzonte e che si
dovrà ineludibilmente affrontare nel prossimo periodo attiene alla ricomprensione
dello spazio identificato quale zona costiera nel demanio marittimo, oggetto di
funzioni di tutela e gestorie che l’amministrazione esercita dalla sua posizione
privilegiata di attributario-custode, e di un ben più ampio quadrante territoriale sul
quale una pluralità di amministrazioni esercitano funzioni conformative dei
contenuti della proprietà privata. E’ subito il caso di dire che – al di là di alcune
specifiche aree – non pare profilabile, almeno nel breve periodo, una
demanializzazione estesa all’intera zona costiera, con conseguente necessità di
configurare un modello regolatorio necessariamente articolato in misure applicabili
ai beni demaniali (ad esempio sul versante della revoca di concessioni ritenute non
compatibili con le valenze ambientali) e in previsioni di ri-orientamento delle
funzioni pianificatorie. Il ricorso a tecniche diverse non può tuttavia preludere ad
84 E. BOSCOLO, Il piano regolatore comunale – Il superamento del modello tradizionale – Le
perequazioni e le compensazioni, in M. A. CABIDDU (a cura di), Il governo del territorio,
Giappichelli, Torino, 2011, 121.
85 Sul punto S. LICCIARDELLO, Demanio marittimo ed autonomie territoriali, in Beni pubblici: tutela,
valorizzazione e gestione, cit., 265,
86 Sulla VAS si vedano: L. GALLO, Valutazione ambientale strategica, in Dig. disc. pubbl., Agg., III,
Torino, 2008, 946; E. BOSCOLO, La valutazione ambientale di piani e programmi, in Riv. giur.
edilizia, 2009, 1, e precedentemente E. BOSCOLO, La valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e
programmi: dalla VIA alla VAS, in Urb e. app., 2002, 1123; M. CAFAGNO, Principi e strumenti di
tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit., in part., 340; G. MANFREDI,
VIA e VAS nel codice dell’ambiente, in Riv. giur. ambiente, 2009, 63; F. FRACCHIA – MATTASOGLIO,
Lo sviluppo sostenibile alla prova: la disciplina di VIA e VAS alla luce del d.lg. n. 152/2006, in Riv.
trim. dir. pubbl., 2008, 121.
62
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
una diversa efficacia delle azioni amministrative o ad uno sdoppiamento della
GIZC. Sul punto non dovrebbe esservi spazio per ambiguità e si dovrebbe ricercare
la massima coerenza intrinseca tra gli obiettivi da assegnare in chiave unificante
alla zona costiera nel suo complesso, le traiettorie di revisione dei modelli
gestionali della parte pubblica di tale ambito e i risultati raggiungibili in chiave
conformativa dell’ampia parte privata di tale bene ambientale.
8. Politiche circolari, adattative, partecipate.
Come si è detto, nell’ordinamento italiano non sono state ancora assunte
specifiche iniziative legislative (di competenza dello Stato in quanto riconducibili
alla materia ‘tutela degli ecosistemi’ di cui all’art. 117, lett. s), Cost., ma
inevitabilmente destinate ad intrecciarsi indissolubilmente con molteplici
competenze regionali, ad es., in tema di governo del territorio o di turismo)
specificamente finalizzate all’introduzione della gestione integrata delle zone
costiere.
Su questo versante, va ribadito che il Protocollo di Madrid non vincola gli
stati rispetto alle soluzioni organizzative da seguire nel rendere effettive le
indicazioni convenzionali. Il Protocollo, per fare degli esempi, non identifica unità
minime di intervento (sul modello dei distretti idrografici in materia di governo
delle acque), non vincola alla istituzione di amministrazioni specializzate di nuovo
conio e non impone la previsione di nuove figure pianificatorie riservate alle zone
costiere, destinate ad aggiungersi o a sostituire quelle attualmente previste (dalla
legislazione urbanistica, portuale, energetica, della tutela dei suoli e delle coste,
della pesca, etc.). Sembra azzardato preconizzare, almeno nel breve periodo,
significative riallocazioni di competenze, mentre è pensabile che si possano
configurare dispositivi di coordinamento 87 che prevedano la partecipazione ai
procedimenti (specie a quelli pianificatori) di tutte le amministrazioni coinvolte, in
una prospettiva tesa ad assicurare quantomeno la piena e contestuale
considerazione di tutti gli interessi pubblici di volta in volta coinvolti (entro una
gerarchizzazione che garantisca tuttavia la primarietà dell’interesse ambientale).
Questo è forse il primo risultato possibile sul versante della integrazione tra
87 Sul piano dei modelli di attività dell’amministrazione, il
tema della GIZC solleva in termini
ineludibili il problema del coordinamento tra l’azione delle diverse amministrazioni che esercitano
competenze comunque incidenti sul territorio costiero; sul punto occorre dunque riandare alle
affermazioni della dottrina amministrativistica: F. G. SCOCA, Le relazioni organizzative, in Diritto
amministrativo, cit., p. 71; restano inoltre sempre cariche di significato le pagine di V. BACHELET,
Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 630 e di G. MARONGIU, Il coordinamento come
principio politico di organizzazione della complessità sociale, in G. AMATO – G. MARONGIU, Il
Mulino, Bologna, 1982, 145.
63
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
competenze e visioni settoriali oggi fortemente settorializzate 88, entro il
tradizionale modello di amministrazione disaggregata e multipolare 89.
Una autentica discontinuità rispetto al tradizionale assetto amministrativo
sembra invece profilabile sul piano delle modalità di esercizio delle funzioni
amministrative destinate a convergere entro la GIZC.
La gestione sostenibile della zona costiera postula innanzitutto la messa
punto di dispositivi fortemente adattativi (secondo lo schema che si definisce
usualmente Adaptative Management90 ), direttamente funzionali alla gestione di
dinamiche complesse91 (condizionate cioè da una pluralità di fattori
interdipendenti, con profili evolutivi non completamente predeterminabili, anche in
ragione della presenza di talune dinamiche di tipo irriducibilmente stocastico),
come quelle che si manifestano tipicamente nella zona costiera.
Inoltre, si tratta di politiche e azioni che necessitano di un supplemento di
effettività, che – come opportunamente ricorda il Protocollo - può venire
unicamente dalla attivazione di modelli di governance condivisa tra i diversi attori,
pubblici e privati, territoriali ed economici. Mediante tali politiche – che spesso si
esplicheranno mediante il ricorso a strumenti incentivali (con ampio ricorso
all’analisi economica92 ) – si dovrà cercare non solo di incidere in chiave
protezionistica su specifici segmenti di costa, ma anche di intervenire su dinamiche
territoriali e usi consolidati, che spesso hanno determinato il sedimentarsi di
strutture fisiche incongrue od hanno provocato la riduzione dell’efficienza degli
ecosistemi.
Quanto sin qui detto è sufficiente a mettere in rilievo la profonda
discontinuità che segna la distanza tra la GIZC e i tradizionali modelli di azione
amministrativa93. Nella ricerca di talune coordinate utili in funzione classificatoria,
88
In questa prospettiva assumono un peso soverchio, per fare solo un esempio, le regole di
strutturazione della conferenza dei servizi (sulle quali, ex multis, G. COMPORTI, Il coordinamento
infrastrutturale, Giuffrè, Milano, 1996) e sulle operazioni amministrative (concetto rivisto nell’ottica
della convergenza tra l’attività di più amministrazioni da D. D’ORSOGNA, Contributo allo studio
dell’operazione amministrativa, Editoriale Scientifica, Napoli, 2005).
89
M. BOMBARDELLI, La sostituzione amministrativa, Cedam, Padova, 2004.
90
Il lavoro capostipite di questo orientamento è rappresentato da C. WALTHERS, Adaptative
management of renevable resources, New York, 1986.
91
C. D. MALAGNINO, L’ambiente sistema complesso. Strumenti giuridici ed economici di tutela,
Cedam, Padova, 2007p. 14; in termini più generali, B. TRONCARELLI, Complessità e diritto. Oltre la
ragione sistemica, Giuffrè, Milano, 2002; restano inoltre sempre rilevanti le indicazioni espresse da
M. LOSANO, Sistema struttura nel diritto. III. Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè, Milano,
2002.
92
G. NAPOLITANO - M. ABRESCIA, Analisi economica del diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 2009.
93
R. MISURACCA – B. FASOLO – M. CARDACI (a cura di), I processi decisionali. Paradossi, sfide,
supporti, Il Mulino, Bologna, 2007.
64
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si possono invece riscontrare – come è stato autorevolmente messo in luce94 alcune analogie con il fenomeno della regolazione95 e, soprattutto, con la stagione
apertasi con l’adozione dei piani di gestione per gli otto distretti idrografici,
attraverso cui è stato finalmente tradotto nel nostro paese il modello di governo
delle acque prefigurato dalla direttiva-quadro 2000/60/CE (piani che – è il caso di
ricordarlo – si estendono anche alle acque costiere e di scambio, con conseguente
ravvicinamento e ineludibile integrazione delle politiche per le acque interne e
marino-costiere).
Alla luce di quanto detto, le politiche di gestione integrata della zona
costiera dovrebbero tendere ad assumere un caratteristico schema ordinatore. In
primo luogo, dovrebbero assolvere la funzione di strutturare un frame (da framing:
dare una ‘cornice’ ad una policy) entro cui verrebbero a convergere, come si è
detto, tutte le funzioni oggi fortemente settorializzate e talune azioni di
coordinamento di nuovo conio. Questa operazione non si dovrebbe sostanziare
unicamente in un re-naming. In realtà il risultato di questa operazione dovrebbe
avrebbe la portata di ricondurre entro un comune orizzonte valoriale improntato
alla sostenibilità attività amministrative che, in precedenza, erano rette da logiche
proprie, scollegate tra loro. Di seguito, tutte le azioni, a partire da quelle di tipo
dialogico-comunicativo, saranno dunque qualificabili in quanto riconducibili al
frame delle politiche per la sostenibilità in ambito costiero: tale connotazione
tenderà quindi ad affermarsi nel dibattito pubblico 96, ma diverrà soprattutto
elemento determinante nell’interpretazione-applicazione ambientalmente orientata
di atti normativi e amministrativi e nell’esercizio della discrezionalità
amministrativa (potranno così prevalere, per fare un esempio, letture e decisioni
favorevoli alla conservazione ambientale in luogo dello sfruttamento turistico
intensivo di taluni tratti spiaggiosi e si potrà così anche giungere alla revoca di
94
N. GRECO, Costituzione e regolazione, cit., passim.
95 A. LA SPINA 96 A.
G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Il Mulino, Bologna, 2000.
LIPPI, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 123.
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talune concessioni maggiormente impattanti, anche in carenza di indennizzi, come
accade nel settore idrico 97).
L’intera policy per le zone costiere andrà inoltre disegnata secondo un
caratteristico schema (il cd. policy cycle) 98 ad andamento circolare (mentre le
funzioni tradizionali tendono a riflettere uno schema lineare, ritagliato sulla
sequenza attivazione-istruttoria-decisione): uno schema alla base del quale si
colloca la costruzione di un adeguato apparato conoscitivo, entro cui andranno
ricercate le ragioni e le giustificazioni delle decisioni. Alla messa a fuoco delle
problematiche da affrontare farà ordinariamente seguito la prefigurazione di una
pluralità di scenari, sui quali avviare il confronto. La selezione dello scenario
eligibile - su basi oggettivate, non solo per effetto della legittimazione a decidere
unilateralmente riservata all’autorità amministrativa – non esaurirà l’azione
pubblica, che dovrà costantemente articolarsi in un monitoraggio dei risultati
prodotti dalla concreta applicazione della politica pubblica, con l’obiettivo di
misurarne, grazie ad alcuni indicatori, l’adeguatezza e di introdurre i necessari
correttivi, in coerenza con i feedbacks raccolti (in questo senso si può parlare di
politiche adattative).
Quanto ai contenuti, le politiche integrate per le coste si caratterizzano per
l’adozione di una prospettiva globale (che prevede la trattazione congiunta di temi
interrelati e che – come detto - assume ad oggetto il territorio costiero come un
quid unitario), in un’ottica di programmazione di lungo periodo. Queste politiche
debbono necessariamente incorporare l’incertezza99 che deriva dalle
interdipendenze tra diversi sistemi naturali e diverse forme di pressione antropica e
sono funzionali alla definizione, condivisa da tutti gli stakeholders, delle forme di
uso razionale della risorsa costiera. Per far ciò occorre che queste politiche non
scolorino le differenze, soprattutto di tipo identitario, tra le diverse realtà locali,
97 Cass., SS. UU., 21 dicembre 2005, n. 28268. Il potere di revoca costituisce una prerogativa
irrinunciabile per l’amministrazione che debba ‘riallineare’ le determinazioni concessorie ai
mutamenti sopravvenuti. Questa esigenza si avverte in termini più stringenti nel settore ambientale,
entro cui è maggiore la complessità e l’incertezza, tanto da rendere instabile anche la definizione del
punto di compatibilità tra gli interessi pubblici alla tutela delle acque e l’aspettativa del
concessionario a derivare una quantità predeterminata di risorsa idrica. Anche questo dato, centrale
nella fissazione dell’oggetto del rapporto giuridico, risulta sfuggente ad una cristallizzazione
operabile mercé il provvedimento concessorio: guardando alle concessioni idriche, si potrebbe quindi
parlare - con un gioco di parole - di concessioni in condizione di ‘incertezza-certa’. La messa a fuoco
di questo orizzonte di incertezza costituisce il presupposto logico per l’affermazione secondo cui in
queste fattispecie non solo il consolidamento della posizione del concessionario (un tempo si parlava
di un diritto soggettivo nascente dalla concessione) non costituisce un limite all’esercizio del potere di
revisione, ma è financo da escludere alla radice la configurabilità di un affidamento (legittimate
expectation) meritevole di tutela in capo al concessionario.
98 M. HOWELETT - M. RAMECH, Studying Public Policy: Policy cyles and policy subsystems, Oxford,
1995.
99
R. AXELROD - M. D. COHEN, Harnessing Complexity, New York, 1999; E. PRIGOGINE, Le leggi del
caos, Laterza, Bari, 2008.
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ANNO 2011 / NUMERO 1
con conseguente conferma della centralità del momento conoscitivo di
caratterizzazione dell’areale costiero.
Nella predisposizione di tali strumenti e nella loro applicazione nelle
diverse realtà, sin dalla fase di redazione dell’apparato conoscitivo, assume un
soverchio rilievo la partecipazione dei portatori di interessi100. Occorre dunque che
le amministrazioni coinvolte – anche sulla scia della Convenzione di Aarhus101 assumano un ruolo pro-attivo rispetto alla attivazione di strumenti tesi a sollecitare
la più ampia partecipazione102. Nei documenti sovranazionali non sono stati
dettagliati gli strumenti e le forme che dovrebbero seguire i dispositivi
partecipativi, ma è pensabile che possano trovare adeguato spazio procedure di
consultazione 103, momenti di ascolto strutturato, community visioning, sondaggi
deliberativi104 , dibattiti pubblici (sul modello dell’esperienza francese della
Commission nationale de débat public105). Va tuttavia ricordato che questi
strumenti hanno sinora dato risultati apprezzabili solo nella condizione di
100
M. CALABRÒ, Potere amministrativo e partecipazione procedimentale. Il caso ambiente, Editoriale
Scientifica, Napoli, 2004; G. MANFREDI – S. NESPOR, Ambiente e democrazia: un dibattito, in Riv.
giur. ambiente, 2010, 293.
101
Convenzione di Aarhus, aperta alla sottoscrizione nel 1998 dai paesi membri della Commissione
Economica per l’Europa delle Nazioni Unite e ratificata dall’Italia con l. 16 marzo 2001, n. 108: sul
punto, si vedano J. HARRISON, Legislazione ambientale europea e libertà di informazione: la
Convenzione di Aarhus, in Riv. giur. ambiente, 2000, 27; B. DALLE, Instruments of a Universal
Toolbox or Gadgest of Domestic Administration? The Aarhus Convention and Global Governance, in
Riv. trim. dir. pubbl., 2010, 41; D. BORGONOVO RE, Informazione ambientale e diritto di accesso, in
S. NESPOR – A. L. DE CESARIS (a cura di), Codice dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2009, p. 1478; A.
GRASSO, Ambiente. Articolazione di settore e normativa di riferimento, in M. P. CHITI – G. GRECO (a
cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, p. spec., I, II ed., Giuffrè, Milano, 2007, p. 273.
Sui complessi dispositivi di verifica della effettiva penetrazione nei diritti nazionali dei principi
affermati dalla Convenzione di Aarhus, si veda M. MACCHIA, La compliance al diritto amministrativo
globale: il sistema di controllo della convenzione di Aarhus, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 637.
102
In questa direzione le politiche per le coste potranno attingere da una modellistica che è venuta
strutturandosi nel periodo più recente, soprattutto, in campo urbanistico: L. CASINI, L’equilibrio degli
interessi nel governo del territorio, Giuffrè, Milano, 2005; G. FERA, Comunità, urbanistica,
partecipazione, Franco Angeli, Milano, 2009.
103
Lo stesso D.lgs. 85/2010 cit. prevede che (art. 2 ”… L'ente territoriale, a seguito del
trasferimento, dispone del bene nell'interesse della collettività rappresentata ed e' tenuto a favorire la
massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima
collettività' territoriale rappresentata. Ciascun ente assicura l'informazione della collettività' circa il
processo di valorizzazione, anche tramite divulgazione sul proprio sito internet istituzionale. Ciascun
ente può indire forme di consultazione popolare, anche in forma telematica, in base alle norme dei
rispettivi Statuti”).
104 A. MAGNEIR
105
- P. RUSSO, Sociologia dei sistemi urbani, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 203.
L. CASINI, L’inchiesta pubblica. Analisi comparata, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 43.
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prossimità, legata a procedimenti dislocati su scala comunale106 . A ciò va aggiunto
che la democrazia ambientale, che trova un vettore di razionalizzazione negli
istituti di partecipazione, ha sin qui assunto le matrici tipiche del conflitto rispetto
al siting 107 di infrastrutture avvertite come variamente impattanti a livello locale (si
pensi – in ambito costale – alle vicende legate agli impianti di rigasificazione108).
Nelle politiche costiere verranno invece sovente in rilievo decisioni, piani e
programmi a contenuto non (ancora) localizzativo, strumenti cioè atti ad esprimere
decisioni preliminari non sempre immediatamente percepibili come premessa
diretta e immediata rispetto a radicali mutamenti riferibili all’intorno di vita di
comunità specifiche. Si intravede quindi il rischio, specie rispetto a decisioni di
competenza di enti sovracomunali, che si possa manifestare una carenza di
attenzione diffusa, e si avverte quindi il bisogno di strutture e iniziative
comunicative tese a colmare tale vuoto di coinvolgimento, onde evitare che la
GIZC receda, in stridente contrasto con i documenti ispiratori, a strumento
aridamente tecnocratico.
9. L’esempio della Sardegna: il piano paesaggistico e la Conservatoria
delle Coste.
Fissate queste coordinate di fondo, è ora possibile passare in rassegna due
tra le più avanzate esperienze di gestione integrata delle zone costiere riscontrabili
nel nostro paese 109. Si tratta delle iniziative autonomamente promosse, entro il
riferimento culturale dei documenti sovranazionali testé citati, dalle regioni
Sardegna e Puglia.
Si sono già ricordate le innumerevoli le esperienze-pilota che, a livello
sperimentale, si sono avviate in quasi tutte le regioni costiere d’Italia, ma –
indubbiamente – le attività svolte od avviate dalle autorità sarde e pugliesi si
contraddistinguono per una maggior organicità e, soprattutto, per la innovatività
106
T. MANNARINI, La cittadinanza attiva. Psicologia sociale della partecipazione pubblica, Il
Mulino, Bologna, 2009, passim. Sul punto si veda la convincente proposta ricostruttiva avanzata da
G. ENDRICI, Territori e ambiente, in C. BARBATI - G. ENDRICI (a cura di), Territorialità positiva.
Mercato, ambiente e poteri subnazionali, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 146.
107 Su queste tendenze si vedano C. PACCHI, Una via italiana alla gestione dei conflitti ambientali?,
in Equilibri, 1999, 335; L. BOBBIO - A. ZEPPETELLA, Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni
locali, Franco Angeli, Milano, 1999; L. BOBBIO, La democrazia non abita a Gordio. Studio sui
processi decisionali politico-amministrativi, Franco Angeli, Milano, 1996.
108
M. MORISI – A. PACI (a cura di), Il bisogno di decidere, Il Mulino, Bologna, 2009.
109
Per una completa rassegna, si veda, N. GRECO – P. BIODINI, L’approccio diversificato e talora
immaturo di alcune Regioni costiere nella gestione integrata delle coste. Catalogo degli interventi
regionali di tipo pianificatorio, in Le risorse del mare e delle coste. Ordinamento, amministrazione e
gestione integrata, cit., 447.
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degli strumenti (analitici, per la costruzione della conoscenza, ma anche
incentivali, nella ricerca di una superiore effettività).
La Regione Sardegna ha sviluppato una incisiva politica di salvaguardia
delle coste a partire dalla l.r. 25 novembre 2004, n. 8. Con tale legge110, nella logica
della decisione di arresto, è stata preclusa – sino alla approvazione del piano
paesaggistico – la realizzazione di trasformazioni edificatorie entro al fascia di due
chilometri dalla linea di battigia. Questa legge, che per la prima volta ha fatto della
costa come tale un oggetto di azione amministrativa non settoriale, ha assolto la
funzione di una sorta di ‘misura di salvaguardia’ 111 ope legis112 e, nei fatti, ha
impedito che una teoria di previsioni espansive espresse da piani regolatori assai
datati trovassero attuazione, con conseguente formazione di un ‘muro’ (reale e
percepito) tra terra e mare113.
Il secondo, fondamentale tassello della politica regionale per le coste è
stato rappresentato dalla approvazione del piano paesaggistico. Si tratta, come si è
detto altrove 114, del più avanzato sforzo di pianificazione paesaggistica sin qui
tentato in Italia e, soprattutto, si tratta di un piano che prende le mosse dalla
ricezione della nozione di paesaggio espressa dalla Convenzione Europea del
Paesaggio 115.
Il dibattito che è seguito all’approvazione del piano paesaggistico sardo si è
appuntato, principalmente sulle misure di protezione delle coste e della fascia
costiera.
Il paesaggio sardo, dopo la modifica dell’art. 131 del D. lgs. 22 gennaio 2004, n.
42, si presta ad essere scomposto in tre strati116 e le coste rientrano a pieno titolo
110
La cui costituzionalità è stata sancita da C. cost., 6 febbraio 2006, n. 51, in Riv. giur. ambiente,
2006, 453, con nota di S. DELIPERI, La Corte costituzionale ‘salva’ le coste della Sardegna.
111 E. BOSCOLO, La durata limitata (e graduata) delle misure di salvaguardia tra disposizioni statali e
regionali, in Giorn. dir. amm., 2008, 968.
112
S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, Giuffrè, Milano, 2007.
113
E’il caso dell’insediamento alberghiero di ‘Cala Giunco’ presso Villasimius, definitivamente
bloccato dopo una vicenda durata oltre un trentennio: Cons. Stato, sez. VI, 7 giugno 2009, n. 5459, in
Urb. app., 2009, con nota di E. BOSCOLO, Il piano paesaggistico della Sardegna: la forma piano tra
beni paesaggistici e territori-paesaggio.
114
E. BOSCOLO, Paesaggio e tecniche di regolazione: i contenuti del piano paesaggistico, cit.
115
AA. VV., in G. F. CARTEI (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio,
Il Mulino, Bologna, 2007, p. 220.
116 E. BOSCOLO, Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb.e app., 2008, 79;
ID., La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati’, in La nuova disciplina
del paesaggio: commento alla riforma del 2008 - Riv. giur. urbanistica., 2009, 57; G. SCIULLO, Il
paesaggio tra la Convenzione e il Codice, in www.aedon.it; P. CARPENTIERI, La nozione giuridica di
paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 363.
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ANNO 2011 / NUMERO 1
nel primo strato, che comprende i beni paesaggistici in senso proprio117, sui quali si
concentra la funzione di tutela. Va subito detto che la logica di identificazione di
tale bene paesaggistico non è quella geografica che informava la l. 431/1985; il
bene protetto non è neppure rappresentato dagli elementi puntuali (scogliere,
falesie, spiagge, dune, stagni), di cui la costa sarda pure è ricchissima, ma piuttosto
dal sistema costiero nel complesso e nella superiore rilevanza della suo assetto
compositivo (in piena coerenza con le indicazioni Protocollo di Madrid).
Il secondo ‘strato’ comprende invece quelli che la Convenzione Europea
del Paesaggio definisce “paesaggi della vita quotidiana”. Si tratta del paesaggio
diffuso, ossia della trama dei territori ordinariamente regolati unicamente in chiave
urbanistica, secondo obiettivi di funzionalizzazione ai bisogni insediativi e d’uso in
senso più lato. La disciplina paesaggistica rispetto a questi territori non si sostanzia
in una azione di tutela, bensì nella preservazione e nell’aggiornamento continuo di
dimensioni e profili che conformano l’identità morfologica di un territorio, ossia di
particolari caratteri che – ritornando alla definizione generale di cui al primo
comma dell’art. 131 cit. - sono idonei a rendere percepibili per le comunità valori
principalmente di matrice identitaria. Sono i territori, e nel contempo i paesaggi,
‘feriali’, comunque capaci di esprimere – sempre in ragione del loro assetto
materiale – messaggi di senso e non solo utilità d’uso. In questi territori, tra i quali
rientrano anche molti ambiti di primo retro-costa, la salvaguardia del paesaggio,
fuori dagli schemi tipici della funzione di tutela in senso proprio (e fuori quindi
dalle competenze e dal ‘primato’ dello Stato nella funzione di tutela), si raccorda
trasversalmente con il governo del territorio: sono infatti i piani urbanistici ad
incorporare le coordinate dettate dal piano paesaggistico e ad esprimere – nel
contempo – le direttive propriamente riconducibili alla GIZC. In vista di una più
efficace azione di gestione della fascia costiera, gli interventi nelle zone
pericostiere debbono innanzitutto essere innovativamente valutati anche per le
interferenze che si generano con gli areali costieri in senso proprio.
Completa poi il quadro il terzo ‘strato’ che – riprendendo lo schema della
Convenzione europea - comprende i paesaggi degradati (“aree compromesse o
degradate”: art. 135, IV comma, lett. b), del codice: cd. Wasteland), per i quali
debbono essere previste politiche di ricostituzione dei valori paesistici che hanno
subito appannamenti o compromissioni. Sono i luoghi del paesaggio-negato,
rispetto ai quali occorre strutturare una strategia di costruzione (ri-costruzione) di
117
Sul punto, con riferimento al potere di estendere gli ambiti soggetti a protezione mediante lo
strumento pianificatorio, si veda Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 marzo 2011 n. 1366, in
www.pausania.it, “In materia di tutela del paesaggio, è da ritenersi ragionevole l’apposizione di un
vincolo da piano paesaggistico ai sensi dell’art. 134, lett. c), d.lgs. n. 42 del 2004, ad un’area di
estensione maggiore rispetto a quella gravata da preesistente vincolo archeologico, se tale nuovo
vincolo risulta funzionale alla conservazione del contesto di giacenza del patrimonio archeologico
nazionale già emerso ed oggetto di vincolo provvedimentale”.
70
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
nuovi assetti valoriali118 e tra questi rientrano anche innumerevoli areali costieri,
sovente compromessi da iniziative turistiche particolarmente impattanti o da usi
per scopi produttivi di ampi tratti costieri. La funzione di tutela delle coste si
esplica attraverso un sostanziale divieto di nuovi insediamenti, ma - in una strategia
pro-attiva - assumono un ruolo decisivo anche misure incentivanti per la
delocalizzazione di attività e presenze incongrue. Nel denso capitolo del piano
riservato al ‘turismo sostenibile’ sono infatti previsti incentivi sino al 25% di
aumento della volumetria esistente per la trasformazione di ‘seconde case’ in
strutture alberghiere e ‘premi’ che giungono sino al 100% della volumetria
esistente per il trasferimento di strutture altamente impattanti - tra le quali i
campeggi - nell’entroterra.
A margine di questo schema tripartito, ben scolpito entro il piano
paesaggistico della Sardegna, si fa spazio il richiamo sempre più frequente alle
dinamiche della percezione quale processo ottico-intellettivo in gran parte non
volontario 119. Scardinato il ruolo esclusivo delle regole dell’estetica (e anche grazie
agli apporti della gestaltica120 e delle neuroscienze121) il risultato sono piani (come
quello sardo) che muovono dall’identificazione di isopecettive (tipiche quelle che
abbracciano un golfo) e di catalizzatori e detrattori percettivi (tipici esempi i
paesaggi degradati come una miniera dismessa sull’orizzonte di chi osservi la terra
dal mare o la verticalità isolata e massiva di un grande albergo a ridosso di una
spiaggia). Allo stesso modo, si indagano le dinamiche che inducono il soggetto
della percezione a rimanere impressionato da alcuni elementi di elevato valore
simbolico e di maggior impatto materico, cromatico o formale (in Sardegna gli
esempi vanno dalle caratteristiche formazioni di scogli alle spiagge a granulometria
variabile), nei quali si tende a riassumere, specie nella percezione cinematica (da
una strada, da un treno, dal mare), la dimensione iconica (e di senso) di un
paesaggio, entro un processo in cui giocano un ruolo determinate anche le
118
Per questi ambiti dovrà essere attivata una politica attiva, volta alla “realizzazione di nuovi valori
paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a requisiti di qualità e sostenibilità”: art. 131, VI
comma, del codice del paesaggio.
119
In sostanza, come hanno concorso a spiegare le neuroscienze, la percezione rimanda
costantemente (ed istantaneamente) ad un set esperienziale del soggetto, entro cui vengono
immediatamente riconosciuti e classificati come significativi tanto i tratti del bello (secondo canoni
previamente interiorizzati dal soggetto), quanto valenze di altra natura. La percezione funge quindi da
connettivo tra la visione e la conoscenza: C. BARBATI, Il paesaggio come realtà etico-culturale, in W.
CORTESE (a cura di), Diritto al paesaggio e diritto del paesaggio, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008,
31.
120 R. ARNHEIM, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 2006.
121 G. KANIZSA, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e gestalt, Il Mulino, Bologna, 1980. In
quest’opera – come in quelle riconducibili a questo filone di studi – si mettono in rilievo le
dimensione ottico-cognitive della percezione. Sul rapporto tra le neuroscienze e il diritto si veda ora
L. CAPRARO – V. CUZZOCREA - E. PICOZZA – D. TERRACINA, Neurodiritto. Una introduzione,
Giappichelli, Torino, 2011.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
conoscenze sedimentate. L’acquisita capacità di discernere le meccaniche della
percezione, oltre a fornire un contributo essenziale nella definizione delle unità di
paesaggio, concorre ad una allocazione più efficiente delle risorse regolatorie (per
definizione scarse: si pensi alla volumetria incentivale122, ossia ad una ‘moneta’ che
i comuni non ‘battono’ a costo zero, ma ‘pagano’ sul versante del consumo di
suolo): la delocalizzazione delle strutture incongrue verso l’entroterra ha infatti, a
sua volta, un pesante impatto sul territorio retro-costiero. Questo dato mette a nudo
l’esigenza che dietro queste operazioni – proprio come indica sul piano
metodologico la GIZC - vi sia sempre un bilancio di sostenibilità complessivo, che
consenta di cogliere l’inevitabile trade off tra preservazione del paesaggio costiero
e valori territoriali diffusi. In altre parole, il piano sardo pare confermare con
grande evidenza due dati: a. la gestione integrata delle coste non si esaurisce nel
solo ambito costiero, ma implica connessioni con i territori retrostanti, con
conseguente necessità di non recidere i nessi con la pianificazione di area vasta (si
pensi ai PTCP provinciali) e di non considerare la GIZC alla stregua di una
monade; b. la politica per le coste non costituisce un esercizio ‘a somma zero’, ma
– come tutte le decisioni di allocazione selettiva di una risorsa scarsa (le
opportunità di sfruttamento del territorio costiero) - postula il sacrificio di interessi
che reclamano indennizzi o contropartite compensative, con la conseguenza che si
impone una rigida discretizzazione degli obiettivi concretamente perseguibili alla
luce delle risorse regolatorie disponibili (nell’esempio appena fatto, la volumetria
incentivale).
La messa a fuoco dei valori espressi dalla costa sarda (e dunque delle
molteplici traiettorie attraverso cui un territorio tra terra e mare esprime senso)
presuppone la necessità di una meticolosa scomposizione dell’areale litoraneo nei
suoi frammenti significativi (comunque collocati entro una trama territoriale). Il
piano paesaggistico della Sardegna insegna che il primo passo da compiere
consiste nel non arrestarsi al livello delle macro-identità, spesso frutto
dell’ipostatizzazione di uno stereotipo. In Sardegna tale rischio era elevatissimo e
avrebbe indotto ad una semplificazione-banalizzazione: la complessità della
varietà-diversità della costa sarda si sarebbe potuta ridurre a poche celebrate
immagini delle scogliere o delle acque cristalline, ossia in un ritratto metaforico, in
cui il simbolo (l’iconema, che in una sineddoche prende il posto della complessità)
avrebbe fatto velo su una fitta e complessa trama di valori e di oggetti
estremamente significativi al fine della comprensione-descrizione adeguatamente
analitica del paesaggio costiero sardo (che è anche paesaggio del lavoro, della
pesca, della miniera, della salina, etc.) Il piano paesaggistico sardo è quindi capace
di abbracciare l’intero territorio della regione e tutta la fascia costiera, e in questo
senso è pienamente in linea con l’idea di paesaggio integrale propugnata dalla
Convenzione Europea del Paesaggio, ma è anche il risultato di un approccio
analitico, antitetico rispetto ad un facile olismo di maniera. Il piano non assurge
122 A. BARTOLINI, I diritti edificatori in funzione premiale (le c.d. premialità edilizie), in Riv. giur.
urbanistica, 2008, 429.
72
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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quindi a strumento di costruzione di una artefatta identità regionale, ma costituisce
piuttosto uno strumento per il riconoscimento dei paesaggi sardi, in primis di
quello costiero.
Assume quindi un ruolo decisivo la strutturazione dei piani paesaggistici
(art. 135, II comma, del codice del paesaggio) per ‘ambiti’123. Ciascun ambito
costituisce quindi un contenitore entro cui si esprime una policy paesaggistica. Una
tale forma-piano, più che una tendenza alla frammentazione, mette allo scoperto la
natura meramente formale del riferimento geografico-amministrativo al territorio
regionale: al di là dell’attribuzione di competenza alla regione, sono i caratteri
salienti dei diversi paesaggi a determinare i contorni delle unità pianificatorie
effettive 124 e la dimensione costiera – per costituendo un denominatore comune –
non assurge ad elemento omologante, a detrimento della capacità del piano di
cogliere la diversità dei molti paesaggi costieri sardi, per ciascuno dei quali lo
sforzo è nel senso di esprimere proposizioni regolatorie analitiche (di tutela
integrale in alcuni casi, di tutela e valorizzazione in altri). E’ il processo logico
ripercorso in una significativa sentenza pronunciata su ricorso del Comune di
Arzachena125.
La struttura del piano sardo è particolarmente interessante e si articola in
una ‘doppia maglia’, tanto sul piano conoscitivo, quanto sul versante più
strettamente regolatorio 126. Il processo di decodificazione del paesaggio sardo e la
sua tipizzazione in figure ed elementi ricorrenti si è articolato nella strutturazione
di tre ‘assetti’: tre chiavi disciplinari, metodologiche ed assiologiche di analisi. Il
paesaggio - anche quello costiero - è quasi sempre sintesi tra elementi naturali e
lasciti dell’azione antropica (storica ed attuale): nel piano sardo si prefigurano
conseguentemente un assetto ambientale (nel quale si descrivono i profili ed i
‘funzionamenti’ del paesaggio naturalistico, con particolari accentuazioni
dell’ecologia marina), un assetto storico-culturale (nel quale, accanto alla
evidenziazione dei manufatti di rilievo monumentale, si dedica molta attenzione
alle architetture minori e agli elementi materiali – si pensi alle torri di avvistamento
e ai siti industriali ed estrattivi – che si sono compenetrati con la cultura popolare e
rappresentano una risorsa identitaria lontana dai percorsi del turismo di massa) e un
assetto insediativo (nel quale vengono mesi in luce i percorsi di diffusione
insediativa e viene analizzato lo stato della fascia costiera, oggetto di una autentica
‘scoperta’ a partire dagli anni settanta del secondo scorso, che ha innescato una
123
P. URBANI, Strumenti giuridici per il paesaggio. Qualche riflessione sulle tecniche di redazione
dei nuovi piani paesaggistici, in Interpretazioni di paesaggio, cit., p. 79; F. BALLETTI - S. SOPPA,
Paesaggio in evoluzione. Identificazione, interpretazione, progetto, Franco Anglei, Milano, 2005.
124 A.
125
LANZANI, I paesaggi italiani, Meltemi, Roma, 2003, p. 370.
TAR Sardegna, Sez. II, 12 giugno 2009, n. 979, in Urb. e app., 2009, 1192.
126
E. BOSCOLO, Paesaggio e tecniche di regolazione: i contenuti del piano paesaggistico, cit.,
passim.
73
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
pericolosa tendenza allo sviluppo lineare e alla diffusione di una architettura
lussuosamente vernacolare, ma in realtà priva di valenze autenticamente
identitarie).
Il terzo tassello nella strategia di gestione delle risorse costiere da parte
della Regione Sardegna è rappresentato dalla costituzione, con l.r. 29 maggio 2007,
n. 2, di una agenzia, denominata Conservatoria delle coste della Sardegna, sulla
scia dell’importante esempio francese (l. 86-2 del 3 gennaio 1986 127 che ha istituito
il Conservatoire de l’espace littoral) 128. Tale agenzia deve muoversi nella direzione
della progressiva acquisizione delle aree costiere, correttamente assunte alla
stregua di un common a rischio di dispersione delle proprie funzioni naturali, ove
lasciato esposto alle spinte individualistiche. La Conservatoria, ente dotato di
personalità giuridica di diritto pubblico, oltre ad assumere la funzione di
coordinamento di tutte le azioni che si dispiegano sul territorio regionale in materia
di gestione integrata delle zone costiere e ad esercitare le funzioni di gestione del
demanio marittimo, attua una politica di progressiva acquisizione delle aree poste
in zona costiera anche mediante il ricorso al potere espropriativo. E’ evidente
infatti come sullo sfondo della previsione di questa tecnica di intervento si stagli
nella sua massima espressione la prospettiva custodiale a cui si è fatto cenno 129,
che passa anche per la sottrazione alla disponibilità privata di particolari beni
comuni maggiormente esposti – come la costa sarda – a pressioni non sostenibili.
Va detto che la Conservatoria, al di là delle ricorrenti voci di una sua
soppressione, certamente non dispone di fondi sufficienti a sviluppare una organica
politica acquisitiva e, allo stato, gestisce per la più parte terreni di proprietà
regionale. La politica acquisitiva, in un contesto di risorse scarse, presuppone
quindi una razionalizzazione, per evitare il rapido consumo delle risorse disponibili
con risultati sub-ottimali. Costituisce traccia di questo sforzo il set di criteri di cui
la Conservatoria si è dotata in vista delle prime iniziative acquisitive: si tratta di
una matrice multicriteria, nella quale si compendiano valenze paesaggistiche,
elementi di rischio e vulnerabilità e possibilità gestionali future, onde concentrare –
con la massima efficienza l’azione acquisitiva laddove essa non appaia vicariabile
dagli strumenti meramente conformativi, ancora una volta quale corollario di una
analitica caratterizzazione della zona costiera.
10. Il Piano Regionale delle Coste della Puglia.
127 C. DESIDERI - E. A. IMPARATO, Beni ambientali e proprietà . I casi del National Trust e del
Conservatorie de l’espace litoral, cit., passim; S. CASU, Note in tema di gestione integrata del litorale
e Conservatoria delle coste della Sardegna, in www.giustamm.it.
128 J. ROCHETTE, Recenti sviluppi sulla politica francese di tutela delle zone costiere, in Riv. giur.
ambiente, 2007, 1091.
129 E. REVIGLIO, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della
Commissione Rodotà, in Pol. dir., 2008, p. 534.
74
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Solo apparentemente più semplice lo schema di fondo dell’azione avviata
dalla Regione Puglia. Anche in questo caso la disciplina di protezione si è
dispiegata per effetto di una legge regionale (l.r. Puglia 23 giugno 2006, n. 17), che
ha previsto la redazione di un ‘Piano Regionale delle Coste’ (PRC). Tale strumento
si ancora, innanzitutto, ad un articolato apparato conoscitivo che passa per una
caratterizzazione puntuale dei morfo-tipi costieri pugliesi, che vanno dalle rocce
garganiche e salentine alle lunghe distese sabbiose, con susseguirsi di fragili
ecosistemi di scambio ricompresi solo di recente in innumerevoli parchi naturali,
S.I.C. e Z.P.S. e di aree periurbane in degrado, prive di ogni valenza identitaria.
Il PRC ha identificato alcuni interventi prioritari volti a garantire la
valorizzazione e la tutela-integrità delle aree costiere e ha introdotto alcune
proposizioni di principio, tra le quali merita un cenno quella secondo cui una quota
non inferiore al 60% della lunghezza di costa concedibile deve essere riservata
all’uso pubblico e alla balneazione.
Le attività di redazione del PRC (non ancora approvato in via definitiva)
hanno consentito importanti scambi interdisciplinari e hanno consentito di superare
la tradizionale frammentazione delle diverse politiche settoriali. Questo approccio
metodologico è approdato alla scomposizione della costa pugliese (non in unità
amministrative, bensì) in sette unità fisiografiche principali, delle quali sono state
dettagliare le caratteristiche e le criticità, con schede che – secondo un principio di
miglior definizione – sono state poi completate a livello comunale. Quest’ultimo,
per le ragioni sopra ricordate, costituisce un importante insegnamento, da tenere
presente in tutte le attività di GIZC.
Particolare attenzione nella redazione del PRC è stata dedicata al fenomeno
concessorio, con realizzazione del primo censimento delle aree concesse e con
identificazione delle condizioni che ostano al rinnovo delle concessioni (presenza
di lame, di fenomeni erosivi, di ripascimenti programmati, etc.). In particolare, è
stata fatta chiarezza sulla portata del rischio-erosione, con predisposizione di un
modello che è valso a far emergere le interconnessioni con le politiche idriche e per
la tutela dei suoli130 . Anche le sensibilità ambientali dei diversi segmenti della costa
sono state dettagliatamente classificate e divengono elemento di necessaria
considerazione rispetto ad ogni iniziativa anche solo potenzialmente perturbativa,
da valutare ex ante secondo una sofisticata metodologia sintetizzabile
nell’acronimo D-P-S-I-R (determinante-pressione-stato-impatto-risposta).
Entro la cornice delle politiche costiere integrate promosse dalla Regione
Puglia si inseriscono anche iniziative anticipatorie di singoli comuni che hanno
recentemente rivisto i rispettivi strumenti urbanistici, riservando particolare
attenzione alle tematiche della tutela costiera, a riprova di come l’introduzione
nell’agenda pubblica del tema della GIZC determina, prima di tutto, una
130
Più di recente è stata approvata una deliberazione della Giunta regionale (10 marzo 2011, n. 410),
recante approvazione delle “Linee guida per la individuazione di interventi tesi a mitigare le
situazioni di maggiore criticità delle coste basse pugliesi”.
75
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
riconsiderazione ab intrinseco degli ordinari strumenti di amministrazione. E’ il
caso, per fare solo uno tra i molti esempi possibili, del Comune di Fasano, che ha
previsto un sofisticato modello perequativo-compensativo 131 finalizzato a favorire
la riqualificazione di un ampio tratto di costa mediante la delocalizzazione di
alcune strutture alberghiere e la formazione di opere di riequilibrio in una
situazione territoriale sottoposta alle pressioni derivanti da un massivo sviluppo
turistico consumatosi – in carenza di adeguate urbanizzazioni – nei decenni scorsi.
Va rimarcato come si tratti di politiche propriamente regolative: infatti il comune
deve assumere un ruolo pro-attivo, mediante l’indizione di sessioni per favorire
dinamicamente l’incontro tra la domanda e l’offerta di diritti edificatorie e si
riserva di riallocare le attribuzioni volumetriche secondo un vincolo di piena
efficacia delle decisioni pubbliche.
Nel complesso, si tratta di iniziative destinate a dare corpo ad un nuovo
paradigma di azione amministrativa, nel quale le coste non rappresentano più
soltanto una zona urbanistica tra le altre, ancorché gravata da specifici vincoli, ma
vengono qualificate in guisa di risorsa collettiva da preservare anche mediante
operazioni compensative straordinarie, che prevedono la circolazione di diritti
edificatori e crediti compensativi132 secondo il modello della perequazione
urbanistico-ambientale.
In conclusione, va tuttavia segnalato che queste prime operazioni
all’insegna della tutela della risorsa costiera sono state spesso accompagnate da
resistenze e ricorsi dei proprietari e dei soggetti interessati alla perpetuazione del
tradizionale modello di sfruttamento (è il caso del piano paesaggistico sardo, che
ha generato una imponente mole di contenziosi133). In Puglia, inoltre, il lavoro di
costruzione del piano per le coste non si è ancora tradotto in atti precettivi, con il
131
E. BOSCOLO, Le perequazioni e le compensazioni, in Riv. giur. urbanistica, 2010, 104.
132
M. RENNA, Vincoli alla proprietà e diritto dell'ambiente, in D. DE CAROLIS - E. FERRARI - A.
POLICE (a cura di ), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Giuffrè, Milano, 2005, 389.
133
E. BOSCOLO, La forma piano tra beni paesaggistici e territori-paesaggio, cit.
76
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
risultato che il sistema concessorio viene gestito in maniera inadeguata mediante
un coacervo di proroghe134.
Si tratta comunque di esperienze ampiamente positive, produttive di
risultati già tangibilmente percepibili, che occorre tuttavia ricondurre indilatamente
entro l’alveo di una cornice giuridica più precisa. In altri termini, queste esperienze
di sperimentazione della gestione integrata della zona costiera altro non fanno che
sottolineare l’urgenza di un pieno recepimento entro il diritto amministrativo
interno del modello di azione prefigurato a livello sovranazionale e già utilmente
praticato in due regioni connotate da una vasta estensione del litorale e da una
intrinseca fragilità della fascia costiera.
ABSTRACT
134
Tar Puglia, sez. Lecce, I, 13 aprile 2011, n. 678 “In caso di mancata approvazione del Piano
regionale delle coste ad oltre due anni di distanza rispetto alla tempistica legislativamente prevista,
una lettura costituzionalmente orientata della l. rg. Puglia 23 giugno 2006 n. 17 impone di ritenere
che, nelle ulteriori more della adozione del suddetto Piano regionale, ai comuni marittimi non possa
essere inibita – pena la violazione delle proprie prerogative, costituzionalmente accordate, in tema di
governo del territorio – la possibilità di disciplinare, sebbene in via temporanea ed ai soli fini del
rinnovo, l'uso del territorio costiero. Infatti, la lettura costituzionalmente orientata data alla
normativa in esame, porta a ritenere che le concessioni non possono essere di durata tale da
contrastare con la futura pianificazione ad opera del piano delle coste. Nel contempo, l’esigenza di
non pregiudicare l’assetto complessivamente previsto dal piano delle coste, nell’imminenza della
formazione dello stesso, milita nel senso dell’accoglimento delle sole istanze di rinnovo delle
concessioni; il rilascio di nuove concessioni, anche se temporanee, è appunto idoneo a pregiudicare
tale assetto a seguito del “rinnovo” delle medesime”; Cons. St., Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3145,
secondo cui “l'art. 17, l. rg. Puglia n. 17 del 2006 affida alla pianificazione la gestione delle coste,
prevedendo sempre in via di pianificazione una percentuale minima di aree demaniali marittime,
riservate ad uso pubblico e alla libera balneazione (60% del territorio comunale, ex art. 16, l. r. n. 17
citata) e disponendo in via transitoria la possibilità del rinnovo delle concessioni. Ciò comporta che i
Comuni sono in primo luogo liberi di decidere se procedere, o meno, al rinnovo delle concessioni,
potendo anche optare per non rinnovare (a nessuno) la concessione. Se i Comuni decidono che un
determinato tratto di costa può essere lasciato in concessione sono in primo luogo vincolati alle
condizioni delle concessioni esistenti, non potendo procedere ad un ampliamento delle stesse. Non
esiste, invece, anche un vincolo soggettivo in quanto la ratio della norma regionale, inquadrata
all'interno dell'intera l. n. 17 del 2006, è solo quella di consentire l'eventuale prosecuzione del regime
della concessione su un determinato tratto di arenile, e non anche quella di garantire una sorta di
rendita di posizione per i precedenti concessionari”.
77
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Emanuele Boscolo - La gestione integrata delle zone costiere in Italia: prospettive
e prime esperienze.
Il saggio è dedicato alla tematica della gestione integrata delle zone costiere
(GIZC) e prende le mosse dal dato normativo (il Protocollo di Madrid ne
costituisce la fonte di riferimento), per giungere, attraverso l’esame delle
sperimentazioni condotte in Italia, all’affermazione della natura di piattaforma
multifunzionale propria del territorio costiero, in quanto bene ambientale
insuscettibile di essere sottratto alla fruizione collettiva e sul quale ricadono una
molteplicità di interessi diversificati. La tematica si iscrive dunque nel più ampio
contesto della ricerca di modelli di decisione collettiva rispetto ad attività
antropiche che si esplicano su risorse naturali a sfruttamento necessario. Tale
caratterizzazione spiega in parte l’inadeguatezza dei tradizionali modelli di azione
amministrativa, a cui l’Autore ritiene preferibili modelli con carattere ordinatore, e
andamento circolare, adattativo e partecipativo. La panoramica si conclude infine
con l’esame di due esperienze di gestione integrata delle zone costiere della
Sardegna e della Puglia.
--------------------------------------------------------------------------------------------------The essay analyses the integrated coastal management topic. After analyzing the
legal framework (especially the Madrid Protocol), and the experimentations done
in Italy concerning this new kind of coastal management, the Author indicates the
multifunctional character of coastal territories. This topic lays under a larger
framework: the search of collective decisional models on human activities that
involve essential natural resources. Such nature explains the unsuitability of
traditional models of administrative activity. The Author seems to prefer a new
circular, adaptative and shared model. Lastly the paper examines the cases of
Puglia and Sardegna.
78
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
SILVIA SALARDI*
Sustainable development: Definitions and Models of legal regulation.
Some legal-theoretical outlines on the role of law.
Sommario: 1. Introduction. 2. Scientific definitions of sustainable development.
3. Law and the balance of interests. 4. Sustainable Development as a meta-principle
and the role of the Integration Principle. 5. Models of legal regulation. 6. Conclusions
and outlook.
1. Introduction.
Sustainable development is a fascinating yet controversial concept. Especially,
the legal debate on this topic has been very heated from its beginning. Nowadays, the
issue concerning how to define legally sustainable development is still an open
question despite important efforts made in recently to move on and define the concept 1.
* PhD, University of Milano-Bicocca, Italy.
1 R.W. KATES, T.M PARRIS, A. LEISERWOTIZ, What is sustainable development? Goals, indicators, values
and practice, in Environment Science and Policy for Sustainable Development, 47 (3), 2005, pp. 8-21. See
also: M.C. CORDONIER SEGGER, A. KHALFAN, Sustainable Development Law. Principles, Practices and
Prospects, Oxford University Press, Oxford, 2004; M.C. CORDONIER SEGGER, Significant developments in
sustainable development law and governance: A proposal, in Natural Resources Forum 28, 2004, pp.
61-74; cfr. P. SANDS, Principles of International Environmental Law, Cambridge University Press, 2005;
A.E. BOYLE, Some reflections on the relationship of treaties and soft law, in International and
Comparative Law Quarterly, 48, 1999, pp. 901-913; P. BIRNIE, A. BOYLE, International Law and the
Environment, Oxford University Press, 2002; D. FRENCH, International law and policy of sustainable
development, Juris Publishing, Manchester University Press, 2002; cfr. H. KELLER, C. VON ARB,
Nachhaltige Entwicklung im Völkerrecht: Begriff-Ursprung-Qualifikation, in URP 5, 2006; S. ATAPATTU,
Emerging Principles of International Environmental Law, Transnational Publishers, Ardsley, NY, 2006; P.
FOIS (a cura di) Il Principio dello Sviluppo sostenibile nel Diritto Internazionale ed Europeo
dell’ambiente, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006; F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile
dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010; F.
FRACCHIA, Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in questa Rivista, 2010, pp.13-42.
77
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
There are definitions of sustainable development in legal texts of a different
nature. But these definitions are often too vague2, too long and not functional. Since
1992 all the attempts to define sustainable development as a principle in its own right
have failed. In fact, the aspect on which the doctrine agrees is the lack of a universally
accepted legal definition 3. A collective approach to the term seems to be the trend
followed by the international doctrine today. According to this idea, sustainable
development is composed of various principles and rules which can be found in
international agreements as well as in other legal sources. Effective implementation of
sustainable development is achieved through the implementation of these single
normative provisions.
To overcome the problems related to a legal definition of sustainable
development, it has been suggested that «a point has been reached in the debate (on
sustainability) where the discussion can no longer simply be restricted to the concept’s
meaning -though that remains important- but must now be more actively focused upon
how sustainable development is to be implemented in practical terms» 4.
There is a certain truth in this statement, at least from a pragmatic point of view.
Nevertheless, it must be recognized that the importance of adequate definitions is
2
There is a definition of sustainable development in a regional agreement, 2002 Convention on
Cooperation in the Protection and Sustainable Development of the Marine and Coastal Environment of
the Northeast Pacific:« Sustainable development is the process of progressive change in the quality of life
of human beings, which places it as the centre and primordial subjects of development, by means of
economic growth with social equity and transformation of production methods and consumption patterns,
sustained by the ecological balance and life support systems of the region. This process implies respect for
regional, national and local ethnic and cultural diversity, and full public participation, peaceful
coexistence in harmony with nature, without prejudice to and ensuring the quality of life of future
generation ».
3 S. EPINEY, M. SCHEYLI, Le concept de développement durable en droit international public, SZIER 2/97,
p.251. A. EPINEY, Gerechtigkeit im Umweltvölkerrecht, in Aus Politik und Zeitgeschichte 24/2007, 11,
2007.
4
D. FRENCH, op.cit..
78
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
essential to the legal discipline. Indeed, this has been underlined for centuries5 let us
think for example of the different approaches to define the concept of Law6 .
Before reaching any further question of a definition of sustainable development,
we should focus on the multidisciplinary character of the concept 7. Being a
multidisciplinary concept means that its implementation requires co-operation of
operators from different scientific fields. A given definition of sustainable development
summarizing all the peculiar aspects of the different disciplines does not exist. It would
make no sense to search for it. Indeed, sustainable development is not a state of things
that once described remains fixed forever. It is rather a process, which needs to be
adapted to the current necessities of human society.
Though there is perhaps not an urgency, from a political and social point of
view, for a clear definition of sustainable development, the same cannot be said for the
legal field. Without a clear and precise definition of sustainable development, which
states the conditions for its use, legislators will not be able to implement it correctly.
Although law is not the only instrument 8 that could help to implement sustainable
5 See for example: J. BENTHAM, A Fragment of Government, Oxford, Clarendon Press, 1948, orig. 1776; J.
AUSTIN, The Province of Jurisprudence Determined, Weinfeld and Nicolson, London, 1954, orig. 1832; H.
KELSEN (1960), Reine Rechtslehre, Deuticke, Wien; U. SCARPELLI, La definizione nel diritto, in Diritto e
analisi del linguaggio, Edizioni Comunità, Milano, 1976; R. DWORKIN, Taking Rights Seriously,
Duckworth, London, 1978; U. SCARPELLI, Contributo alla semantica del linguaggio normativo, Milano,
Giuffré, 1985; H.L.A. HART, Il Concetto di Diritto, Torino, Einaudi, 1998; W. OTT, Der
Rechtspositivismus kritische Würdigung auf der Grundlage eines juristischen Pragmatismus, Berlin,
Duncker & Humblot, 1992; N. BOBBIO, Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del diritto, Torino,
Giappichelli, 1996; T. HOBBES, Leviathan, Oxford, Oxford University Press, 1996, orig. 1651.
Law as a command (JOHN AUSTIN), law as rules (HERBERT HART), law as principles (RONALD
DWORKIN), law as ethics (Natural law theory) etc.
6
«Law does not exist in isolation….solutions to the environmental problems we are facing will demand
equal contributions from science and politics, as well as sound economics….I am a firm believer in
multilateralism», E. DOWDESWELL, Sustainable Development: The Contribution of International Law, in
Sustainable Development and International Law, Norwell, W. Lang, Kluwer Academic Publishers Group,
1995; See also S. SALARDI, W. ZIMMERMANN, Sustainability: from political and moral declarations to
legally binding rules. A comparative analysis of three European countries (Switzerland, Germany, Italy),
in the conference proceedings of the International Sustainability Conference (ISC05) entitled Strategies
for a sustainable society, October 2005, Basel, 2005. The necessity of a co-operation among different
disciplines is also underlined by A. LANZA, Lo sviluppo sostenibile, Bologna, Il Mulino, 2002; F.
FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della
specie umana, op.cit..
7
E. DOWDESWELL (1995), Sustainable Development: The Contribution of International Law, in
Sustainable Development and International Law, Norwell, W. Lang, Norwell, Kluwer Academic
Publishers Group; D. FRENCH, op.cit..
8
79
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
development, it surely represents an essential tool in the path towards sustainability for
at least two reasons: First, it is able to create effective obligations on States and other
actors with an essential role in the promotion of sustainable development. Second, and
most interesting, it is the role that law can play as a framework for the balance of
interests.
In this paper the attention will be focused first of all on the definitions of
sustainable development in different scientific fields, namely in natural and social
sciences. The paper can be effectively divided into two parts. In the first part the aim
will be to find out what these definitions have in common, and to identify the adequate
tool to balance all the peculiar aspects emerging from the different disciplines. It will
be suggested that law can properly serve this purpose 9.
Starting from this last suggestion, the second part of the paper deals with the
current legal status of sustainable development, in particular with the aim to answer the
following questions:
• What is sustainable development from a legal viewpoint?
• What is its relationship with the integration principle?
• What kind of legal approach to sustainable development is most opportune?
• Rigid or flexible models of legal regulations?
This paper does not claim to provide a complete overview of all the issues
concerning sustainable development. The main aim is to provide a framework for the
discussion of the still open perplexities, which surround the concept of sustainable
development, and to clarify some theoretical aspects10 , in order to show the main
elements that could lead to a balanced approach to the theory of sustainable
development.
2. Scientific definitions of sustainable development.
This paragraph goes through the most interesting definitions of sustainability in
natural and social sciences to find out how law can contribute to the implementation of
sustainable development. Sustainable development or sustainability (used in this paper
9 The role of law in international environmental protection is well described in P. BIRNIE, A. BOYLE,
International law and the environment, Oxford, Oxford University Press, 2002.
10 The methodological background is represented by the analytic philosophy as developed in the USA,
Great Britain and Italy with particular focus on the most important authors.
80
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
interchangeably as in Agenda 21 11) originated in the context of the natural sciences.
That is why the definitions in natural sciences are analysed first.
Sustainable development originated in the forestry field (1712)12, and was used
later in the expression ‘sustained yield field’, which means «the amount of a resource
that can be harvested without reducing its long-term stock»13.
In the forest sector sustainability refers to «the maintenance of the potential for
our forest and associated aquatic ecosystems to produce the same quantity and quality
of goods and services in perpetuity» 14.
The ecological definition of sustainability «basically implies the preservation of
biodiversity at a sustainable level… sustainability does not necessarily imply
maintaining some static natural state, but rather maintaining the resilience and capacity
of the ecosystem to adapt to change… The ecological view of sustainability focuses on
the stability of the biophysical system. Of particular importance is the viability of
subsystems (species, biotic components) that are critical to the global stability of the
11 Agenda 21 is a plan of action elaborated in Rio 1992 at the United Nations Conference on Environment
and Development. The decision of using the two concepts interchangeably is due to the fact that the
arguments generally used to distinguish between sustainability and sustainable development do not seem
very convincing. See for example B. RICHARDSON, S. WOOD, Environmental law for sustainability. A
reader, Oxford and Portland, Oregon, Hart Publishing, 2006; “As Dovers and Connor point out…
‘sustainability’ is a higher-order social goal or a fundamental property of natural or human systems,
whereas ‘sustainable development’ is the variable (and we would add contestable) policy manifestation of
society’s attempts to address that goal and enhance that property”. Another possible distinction between
the two is based on the consideration that sustainable development gives priority to development, while
sustainability is primarily about environment. T. O’Riordan (2002), Biodiversity, sustainability and human
communities protecting beyond the protected, Cambridge, Cambridge University Press.
From a legal viewpoint, if we want to make a useful distinction, we should decide which of the two terms
should be used in the legal field, and then identify important peculiarities to distinguish the selected one
from the other one. I do not think that at the moment this kind of diversification would bring an important
turning in the legal theory of sustainable development, that is why I do not try this distinction.
12 A. Di Giulio (2004), Die Idee der Nachhaltigkeit im Verständnis der Vereinten Nationen. Anspruch,
Bedeutung and Schwierigkeiten, Münster: Lit.
A. Bernasconi (1996) Von der Nachhaltigkeit zu
nachhaltigen Systemen forstliche Planung als Grundlage nachhaltiger Waldbewirtschaftung, Zürich,
Schweizerischer Forstverein. H. Schanz (1996), Forstliche Nachhaltigkeit sozialwissenschaftliche Analyse
der Begriffsinhalte und- funktionen. Freiburg, Institut für Forstökonomie Alber-Ludwigs-Universität
Freiburg. D. Wachter (2006), Nachhaltige Entwicklung. Das Konzept und seine Umsetzung in der Schweiz,
Zürich/Chur, Rüegger Verlag.
13
M. Munasinghe (1995), Defining and measuring sustainability the biogeophysical foundations,
Washington DC, The World Bank.
Note that the Mountain Forest Protocol for the implementation of the Alpine Convention states in the
Preamble the idea of sustainability used in forestry.
14
M. Munasinghe (1995), op.cit.
81
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
overall ecosystem. Protection of biological diversity is a key aspect»15.
These ecological definitions state the roots of the biological concepts of
sustainability. According to this approach «ecosystem sustainability is defined in terms
of stability in the numbers and amounts of species present, and their resilience to
natural and manmade perturbations»16.
From a biophysical perspective sustainability is «linked to the idea that the
dynamic processes of the natural environment can become unstable as a result of
stresses imposed by human activity…Sustainability…refers to maintaining a system’s
stability, which implies limiting the stress to sustainable levels on ecosystems that are
central to the stability of the global system»17.
Obviously, all these definitions are quite different from one another.
Nevertheless, a common aspect can be identified: Namely, the idea of ‘maintaining
something’. This aspect, which was already present in the definition given in the
forestry sector, represents the key and common element. What should be maintained
changes then according to the particular discipline: It can be the resilience and the
capacity of ecosystems to adapt or the system’s stability and the same quantity and
quality of goods and services in perpetuity, etc.
Sustainability has also been defined in social sciences, in particular in
economics, in politics and in law. In these contexts, definitions also vary a lot from
discipline to discipline. But the idea of preserving and maintaining ‘something’ (which,
in a very wide sense, are the natural resources) can be seen as the unifying element.
Starting with economics, the general definition of sustainability implies «that the
resource base infinitely provides an annual flow of benefits having the same value in
real terms» Indeed, «sustainability refers to the phenomenon of being able to maintain
resources or assets forever»18.
In 1994 the World Bank elaborated the capital stock model which complements
the three pillars model (according to which sustainable development means the
integration of economic, social and environmental aspects into all sector policies, with
all aspects having equal weight). This model identifies three types of capital stock
15
M. Munasinghe (1995), op.cit.
J. A Souder, S. Fairfax, L. Ruth (1998), Sustainable Resources Management and State School Lands:
The Quest of Guiding Principles, in Natural Resources Journal, 34, pp. 271-304.
16
17
M. Munasinghe (1995), op.cit.
18
K. P. Rao (2002), International environmental law and economics , Oxford, Blackwell Publishers.
82
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
which summed up give sustainability (Ksd= K env + K econ + K soc)19. «According to
this view, the Earth’s “capital” should not simply be consumed but needs to be
constantly renewed. Sustainability is achieved when it is possible to live off the interest
rather than on the capital»20.
This model can be refined by adding the two notions of weak and strong
sustainability21.
Weak sustainability (WS) «is built on the assumption of unlimited
substitutability of natural capital» 22. «Resource use by previous generations should not
exceed a level that would prevent subsequent generations from achieving a level of
well-being at least as great»23.
Instead, strong sustainability (SS) «regards natural capital as fundamentally nonsubstitutable through other forms of capital”24, this definition “places special emphasis
on preserving natural (as opposed to total) capital under the assumption that natural
and physical capital offers limited substitution possibilities» 25.
A third alternative definition of sustainable locations is the ‘environmental
sustainability’. According to this approach «the physical flows of individual resources
should be maintained, not merely the value of the aggregate. For fishery…this
19 ARE, Federal Office for Spatial Plannng (2005), Sustainable development-definition and constitutional
status in Switzerland. D. Giardi, V. Trapanesi (2006), Uomo Ambiente Sviluppo, Roma, Geva edizioni.
20 ARE,
Federal Office for Spatiala Planning (2005), op.cit.
Different impacts of the two notions of sustainability on institutions and policy are highlighted in
B. Richardson, S. Wood (2006), op.cit.
21
22E.
Neumayer (2003), Weak versus strong sustainability. Exploring the limits of two opposing paradigms,
Cheltenham, Eward Elgar.
See also P. Ekins, S. Simon, L. Deutsch, C. Folke, R. De Groot (2003), A framework for the practical
application of the concepts of critical natural capital and strong sustainability, in Ecological Economics,
44, pp. 165-185.
G. Atkinson, R. Dubourg, K. Hamilton, M. Munasinghe, D. Pearce, C. Young (1997), Measuring
Sustainable Development, macroeconomics and the Environment, Cheltenham: Uk-Lyme, US, Edward
Elgar. T. Tietenberg (2003), Environmental and natural resource economics, Boston, Addison Wesley. D.
Giardi, V. Trapanesi (2006), op.cit.
23
24
E. Neumayer (2003), op.cit.
25 G. Atkinson, R. Dubourg, K. Hamilton, M. Munasinghe, D. Pearce, C. Young (1997), op.cit. K.P.
Dolde, Gesellschaft für Umweltrecht (Deutschland) (2001), Umweltrecht im Wandel Bilanz und
Perspektiven aus Anlass des 25-jährigen Bestehens der Gesellschaft für Umweltrecht, Berlin, Erich
Schmidt. T. Tietenberg (2003), op.cit.
83
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
definition would emphasize maintaining a constant fish catch (referred to as a
sustainable yield), rather than a constant value of the fishery. For a wetland, it would
involve preserving specific ecological functions, not merely its value»26.
Closely connected to economic sustainability is social sustainability (here just
mentioned for the sake of completeness), which adds to the first «consideration of the
beneficiaries and consequences of economic activity»27. From this viewpoint, the
attempt is to maintain the stability of social and cultural systems28. Key aspects of this
approach are the intra- and intergenerational equity 29.
From a political perspective30, the milestone of all definitions is contained in the
Brundtland Report, which states the most quoted definition of sustainable
development:
«Humanity has the ability to make development sustainable – to ensure that it
meets the needs of the present without compromising the ability of future generations
to meet their own needs» 31.
The political trend of the last years shows a preference for a more
comprehensive idea of sustainable development embracing at least three aspects,
termed ‘pillars’: Environment, economy and society. In the documents following up
the Rio Summit, this trend is particularly evident, although there is no direct mention
of the three pillars model (Agenda 21, Rio Declaration etc.). Explicit mention is made
some years later in 2002 Plan of Implementation, elaborated at the Johannesburg
26
T. Tietenberg (2003), op.cit.
27
J. A Souder, S. Fairfax, L. Ruth (1998), op.cit.
28
M. Munasinghe, Mohan (1995), op.cit.
29 A. Lanza (2002), op.cit. Intra-generational equity means equal access to the resources (not only the
environmental ones) for all the citizens of the world, without any kind of distinction. Inter-generational
equity means equal opportunity among future generations.
30 Sustainability as a political concept see for example W. Lang, H. Hohmann, A. Epiney (1999), Das
Konzept der Nachhaltigen Entwicklung völker- und europarechtliche Aspekte, Bern, Stämpfli- Schulthess.
31
WCED (1987), Our Common Future, Oxford, University Press.
84
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Summit 32, and in the Johannesburg Declaration on Sustainable Development 33.
The Summit also proposed the Decade of Education for Sustainable
Development (ESD). And the United Nations Assembly in its 57th Session in
December 2002 proclaimed the Decade of Education for Sustainable Development for
the period of 2005-2014. ESD also refers to the three pillars of sustainability including
economic, social and environmental dimensions (Education for Sustainable
Development).
But what about the legal science? What is the relationship of law with
sustainable development?
Curiously, the legal field is the one where it has been difficult 34, and still is, to
find a widely accepted definition of sustainable development.
At the international and the European level there are many acts (soft and hard
law) which mention the concept 35, but a proper definition is hard to find. At the
national level, there are constitutional provisions concerning sustainability in different
32 The Plan of Implementation of the World Summit on
Sustainable Development, Johannesburg 2002, under the section concerning ‘Objectives’ states at Article
139. Measures to strengthen institutional arrangements on sustainable development,
at all levels, should be taken within the framework of Agenda 21, 45 build on
developments since the United Nations Conference on Environment and
Development and lead to the achievement of, inter alia, the following objectives:
(a) Strengthening commitments to sustainable development;
(b) Integration of the economic, social and environmental dimensions of
sustainable development in a balanced manner.
This last statement refers to the three pillars conception of sustainable development.
33 The
Johannesburg Declaration on Sustainable Development states: 5. Accordingly, we assume a
collective responsibility to advance and strengthen the interdependent and mutually reinforcing pillars of
sustainable development — economic development, social development and environmental protection —
at the local, national, regional and global levels.
G. Handl (1995), Sustainable Development: General Rules versus Specific Obligations. Sustainable
Development and International Law , Norwell, W. Lang, Kluwer Academic Publishers Group.
34
35 There are legally non-binding documents prior to 1992, which mention the concept: 1989 Declaration of
the G7 Paris Economic Summit, 1989 Hague Declaration on the Environment, 1990 Langkawi
Commonwealth Declaration, 1990 Bergen Declaration of the UN Economic Commission for Europe, 1991
Beijing Declaration of Developing Countries.
All the documents as follow-up to the Rio Summit 1992 (Rio Declaration, Un Framework Convention on
Climate Change, Agenda 21, Convention on biological diversity, The Statement of Principles for the
Sustainable Management of Forests).
At the European level, sustainable development is mentioned in different acts, such as the Environment
Action Programmes, in the Charter of Fundamental Rights, in the EU Treaties, just to mention a few.
85
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
countries36, but a clear definition is also hard to find.
However, despite the conceptual uncertainties surrounding the legal dimension
of the concept, it can be stated that there is a normative trend moving towards the
multi-pillars model37 (at least three pillars), and that in the last years sustainable
development has also gained the title of a procedural principle with a widely
recognized potential influence on the litigations38.
Why has there been so little and slow progress in the legal field with regard to
sustainable development?
One general reason for this delay regards the relationship of law with society.
Indeed, it rarely happens that law anticipates society with its regulations. Law usually
regulates situations tha already exist in society, and in this sense there is a ‘chronic
delay’ in the legal approach to societal questions.
With regard to sustainable development, however, this is not the main reason for
the lack of a definition. Indeed, environmental problems have been on the political
agenda since at least 1972 and sustainable development since 1987. Therefore, the
essential reason for this critical situation is the lack of political will. Symptomatic of
this condition is «the inadequacy of international law and the lack of appropriate
institutional structures» 39.
For years the legal path to sustainability was mainly based on international
36 The Charter for the Environment in the French Constitution; in the Swiss Constitution provisions on
sustainable development are present in the Preamble, under the General Provisions in Article 2 (Purpose),
under Environment and Zoning in Article 73 (Sustainable development), under Relations with foreign
countries in Article 54 (Foreign Relations). In Germany Article 20a of the Constitution (Protection of the
natural bases of life) has been interpreted in the sense that sustainable development is formally anchored
as a general policy objective to be addressed by all parts of government, although there is no explicit
mention of the term itself. In the Swedish Constitution Article 2, under the Chapter concerning the Basic
principles of the form of government states: The public institutions shall promote sustainable development
leading to a good environment for present and future generations. Explicit mention of the concept is also
made in Article 66 of the Constitution of the Portuguese Republic, under the Title Environment and
Quality of life.
37
S. Salardi, W. Zimmermann (2005), op.cit.
V. Lowe (1999), Sustainable Developments and unsustainable arguments. International Law and
sustainable development, Oxford, Oxford University Press. P. Birnie, A. Boyle (2002), op.cit. D.
Wilkinson (2002), Environment and law, London, Routledge. D. French (2005), op.cit. For a summary of
the different positions see S. Salardi, Il diritto internazionale in materia di sviluppo sostenibile. Quali
progressi dopo Rio?, Rivista Giuridica dell’Ambiente, Sezione Osservatorio Internazionale, a cura di
Tullio Scovazzi, Giuffré, Milano, 3:4, pp. 657-683.
38
39
D. French (2005), op.cit.
86
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
agreements in which the concept is not mentioned as a legally-binding one40.
Consequently, effective obligations for States cannot be derived from these documents,
so the legal implementation is up to state good will.
It has been difficult, and still is, to overcome this initial and long-lasting inertia.
States fear the interference of international obligations with their sovereignty, and in
the balance of economic and environmental interests, the economic ones still seem to
prevail. Sustainable development requires, instead, a rethinking of the current legal
methodology in dealing with environmental problems. Adopting the multi-pillars
model is not without costs for States and for society in general. It requires more than
the simple incorporation of environmental criteria into developmental decisions41. It
demands, in fact, radical changes in institutions so that (at least) the three pillars can be
treated in a balanced way42. There are many contrasting interests which hinder the
promotion of this model, such as the gap between North and South, between developed
and developing Countries, among economic, social and environmental interests. The
lack of will persists. The essential question regards how much time is left: Once the
point of no return is reached, the costs for the implementation of sustainable
development in accordance with the proposed model will be much higher.
3. Law and the balance of interests.
The above-mentioned scientific definitions of sustainable development show
that the different disciplines share the core idea of maintaining something. What
should be maintained in the last resort are always the natural resources. Where they
differ is in their approach with regard to these goods. Economics seems to focus on the
40
H. Keller, C. von Arb, (2006), op.cit.
41 M. Decleris (2000), The law of sustainable development. General principles. A report produced for the
European Commission, European Communities, Belgium, European Communities.
S. Wood, (2006), Voluntary environmental codes and sustainability, in Environmental Law for
sustainability. A reader. Portland, Hart Publishing: «Sustainability requires a massive departure from
business as usual», p. 266.
S. Dovers, (2006), Institutional Policy Change for Sustainability, in Environmental Law for
Sustainability. A reader. «Sustainability represents a complex suite of significant problems… It will take
significant time and effort to ‘get our heads round’ the problem set, especially in parts of the institutional
system that have not previously thought much about interconnected environmental, social and economic
phenomena. Coming to see problems in new ways and admitting new approaches to policy will involve
changes in values among members of policy communities, and making policies for sustainability really
work will require generalised changes in social values».
See also G. Rossi (2010), L’ambiente e il diritto, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, n. 0,
pp. 8-12, available at http://www.rqda.eu/?p=22.
42
87
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
question of efficiency, politics on the intra- and intergenerational equity, and natural
sciences on the resilience to perturbations and on the systems’stability. All these
disciplines with their approaches to sustainable development should work together to
give a chance to succeed to this concept.
To create the conditions for a co-operation among the disciplines, which is the
basis to make sustainable development succeed as a multidisciplinary concept, we need
a tool capable of creating frameworks within which, on the one hand, various kinds of
measures, especially incentives and disincentives, of different origins -such as
economic, political, social etc.- can operate and, on the other hand, (frameworks
which) permit to implement sustainable development through other regimes, such as
Human Rights approaches or climate change regimes43 .
I suggest that law could serve this purpose. First of all there are many examples
that show how law is used to working with concepts and definitions which belong to
other scientific fields, and redefining them to implement the adequate regulation 44.
Second, and more interesting for our discussion, is the role that law plays in
creating adequate frameworks in which different instruments or disciplines (economic,
social, political, ethical etc.) can operate. Indeed, law is able to «codify values, to
operationalize basic elements and to ascertain best practice»45 and of course to
prescribe conducts46.
43 Indeed, the debate concerning climate change and how to combat it has highlighted that climate change
is not simply an environmental problem. It involves ecological, social and economic questions, in this
sense it is strictly linked with the three pillars model of sustainability. The three dimensions of sustainable
development could help to tackle climate change. Indeed, it seems to exist a strict relationship between the
two issues: Climate change poses for the international and national community questions of both an
intergenerational and intragenerational nature, which are core aspects of the strategy of sustainable
development. The principles and themes of sustainable development have been a constant source of
inspiration within the climate change regime. See also A. Boyle, M. Anderson (eds), (2003), Human
Rights Approaches to Environmental Protection, Oxford, Clarendon Paperbacks.
An example of this exchange between law and other disciplines is represented by the requirement of
mens rea for conviction in murder cases. The definition of the mental state required as an element delicti,
i.e. mens rea, is borrowed from the psychiatry and clearly redefined so that it can serve the legal purposes.
44
45
D. French (2005), op.cit.
46 C. Nino (1996), Introduzione all’analisi del diritto, Torino, Giappichelli. See also H. Kelsen (1952),
Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino. H.L.Hart (1968), Punishment and Responsibility,
Essays in the Philosophy of Law, Clarendon Press, Oxford. N. Bobbio (1977), Dalla Struttura alla
Funzione, Edizioni Comunità, Milano. U. Scarpelli (1976), La Definizione nel Diritto, op.cit. H.L.Hart
(1991), Il Concetto di Diritto, op.cit. U. Scarpelli, P. Di Lucia (a cura di) (1994), Il linguaggio del diritto,
Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano.
88
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
A good example for this second role is represented by the relationship between
law and bioethics.
This discipline tries to find rational and coherent answers - in co-operation with
operators from different fields- to the problems emerging -in its broader meaning- from
the interventions of human activities on the environment and -in its narrower meaningfrom the medical and the biogenetic interventions on human beings. This second
meaning is the most used and known. It is with regard to the legal regulation of these
bioethical issues that a long struggle took place in the past recent years, and sometimes
still does (let us think of the Italian context), among those opposing legal regulation
and those in favour of it.
The chief argument used by opponents of legal regulation was that medicalscientific research would have suffered if constrained by legal rules. Fortunately, the
trend changed. And nowadays, the relationship between bioethics and law constitutes a
point in the debate that can not be omitted. However, the main question about which
role law should play is still controversial.
To answer this question authors47 like Herbert Hart elaborated the idea that law
should not be a means to impose choices, but a protective framework in whose norms
and sanctions the ethical choices of the individual can find the best guarantee of
respect and implementation.
Of course, bioethics and sustainable development are two different issues (I
mentioned it to show what problems could arise when studying sustainable
development from a legal point of view), however they share the multidisciplinarity
and their conflictual relationship with law.
It is for these common aspects that many considerations concerning this last
point, developed in the bioethical field to argue in favour of or against the legal
regulation of bioethical issues, are also useful for our remarks on sustainable
development. To better clarify my considerations on this point, I will try to answer the
following question:
Why is law particularly suitable for creating the conditions in which interests
can be balanced?
First, law, intended as an institutionalized, formalized system with a coercive
force, is “all-pervasive” 48 and cannot easily be avoided (unlike other methods for
influencing human behaviour, such as ethics, social norms, etc.).
47 The relationship between law and morality was studied by different legal philosophical movements, i.e.
the legal positivism, the legal realism, and from the Natural Law’s perspective. Herber Hart proposes the
thesis of Law as a choosing system, in Punishment and Responsibility (1968), Clarendon Press.
H. Kelsen (1960), op.cit. N. Bobbio (1977), Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen. Dalla
Struttura alla Funzione, Milano, Edizioni Comunità. D. Wilkinson (2002), op.cit.
48
89
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Second, modern legal systems are modelled on the Rule of Law49 , which
guarantees, on the one hand, the equal treatment of everyone before the law, and on the
other hand, thanks to the principle of legality 50, it is able to create obligations on States
to implement those principles expressed in formal legal provisions51 .
Law is the only tool able to permit a fair balance of interests among so many
disciplines and actors dealing with sustainable development, and the only tool that
possesses the instruments (coercive measures as well as incentives) to create
obligations.
This supposes, of course, a teleological conception of law. According to this
perspective the relevant aspects of law are the foreseeable consequences of actions and
the instrumentality of principles used to justify norms and conducts of behaviour with
respect to the objectives that should be achieved.
There is a third reason to choose law, and that is to overcome the uncertainties
that are derived from the complexities of the different scientific definitions.
49 L. Ferrajoli (1996), Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, Laterza. K. Sobota
(1997), Das Prinzip Rechtsstaat verfassungs- und verwaltungsrechtliche Aspekte, Tübingen, Mohr
Siebeck. M.L. Esteban Fernãandez (1999), The rule of law in the European constitution, The Hague,
Kluwer Law International, 221. M. Neumann (2002), The rule of law: politicizing ethics, Aldershot,
Ashgate. D. Zolo (2002), Teoria e critica dello Stato di diritto, Milano, Feltrinelli; L. Ferrajoli (2001), Lo
Stato di diritto tra passato e futuro, in Lo Stato di Diritto, D. Zolo a cura di, Feltrinelli, Milano. On the
idea of the Rule of Law as a model, human artificial creation see T. Hobbes (1651), Leviathan and J.
Locke (1689), A Letter concerning Tolerance.
50 Two meanings: Mere legality means that “all governmental activity takes place within the limits set by
correctly adopted legislation, which includes the legal norms of all ranks (constitution, law, ordinance)”.
Strict legality: the public authorities are law governed with regard also to the contents of their actions.
L. Ferrajoli (1997), op.cit. For the historical development of the concept see for example S. E. Finer
(1997), The history of government from the earliest times, Oxford, Oxford University Press.
51 In the Rule of Law with a rigid Constitution, besides the original principles and values stated in the
early stage of Constitutionalism, actual values and interests have been added. Among these newly
introduced interests and values there is no fixed hierarchy, being their weight constantly subject to balance
according to different social, political needs. Massimo Severo Giannini proposed in the field of
Administrative Law the idea of a comparative balance of secondary interests with regard to a primary
interest, see the quotation in F. del Giudice, L. Delpino, C. Silvestro, (2010) Diritto Amministrativo, V
eds., edizioni giuridiche Simone, p. 694. See also M.S. Giannini (1939), Il potere discrezionale della
pubblica amministrazione, Milano, Giuffré.
Albert Dicey popularized the phrase Rule of Law in his book Introduction to the study of the law of the
Constitution,
London: MacMillan, New York: St. Martin’s Press, 1961.
90
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Law has, in fact, the capability to guarantee a differentiated approach to
environmental, social and economic issues at different levels52 : International, regional
and national.
Thanks to these different sources, law ensures that global problems are tackled
from an international perspective, whereas regional and national law helps to preserve
national or regional interests.
Among the disciplines mentioned there is not such a powerful weapon to
implement sustainable development as law seems to be.
4. Sustainable Development as a meta-principle and the role of the Integration
Principle.
Law can serve for the purpose of promoting sustainable development if the
object of its study is clearly specified. Definitions of concepts are essential in legal
theory. They do not need to be stipulative definitions. Explicative definitions53 of
concepts are generally enough precise for legislative purposes.
A clear and precise definition of sustainable development is lacking in legal
theory.
The legal history of the concept shows the difficulties that theorists face when
dealing with sustainable development.
The question ‘is sustainable development a concept, a principle or a rule?’ 54 has
to do with the normativity of sustainable development. If it is a principle, it has some
kind of normative value, otherwise it is legally irrelevant. The attempts to emancipate
sustainable development from the political qualification to give it a legal status and to
identify its legal nature were based on a judicial case decided by the International
52 The term ‘international’ in this paper is used to refer to international law, consisting «to a significant
extent, of the voluntary negotiated agreements of sovereign states», D. Wilkinson (2002), op.cit.
53 Stipulative definitions give a new meaning to existing terms for the purpose of argument or introduce
completely new terms as in natural sciences. Explicative definitions redifine existing vague terms, so that
they can be used for legal purposes. See on this topic U. Scarpelli (1976), op.cit.
54 P. Sands (1995), International law in the Field of Sustainable Development: Emerging Legal Principles.
Sustainable development and international law, Norwell, W. Lang, Kluwer Academic Publishers Group. V.
Lowe (1999), op.cit. M. van Harmelen, M. van Leeuwen, T. de Vette (2005), International Law of
Sustainable Development: Legal Aspects of Environmental Security on the Indonesian Island of
Kalimantan, Kalimantan, Indonesia, The Hague Brussels Washington DC.
91
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Court of Justice (ICJ): Gabčikovo-Nagymaros Project (Hungary/Slovakia) 199755.
Indeed, although the Case was a traditional case in many respects -it dealt with a
dispute between two States with regard to the management of a common watercourseit also provided the opportunity to reflect on the legal status and nature of sustainable
development 56.
The heated debate concerning the legal nature and status of sustainable
development, originated from that decision, has calmed down since then and, there
seems to be an agreement on considering sustainable development a guiding principle
with an influencing power on international litigations57 .
At the national level, there are many constitutional provisions with an explicit
mention of sustainable development, although it is not always clear if these provisions
refer to the one pillar, two pillars or three pillars model of sustainability. Sustainable
development, as mentioned in these constitutional provisions, represents a
programmatic norm 58 and/or a norm which expresses the superior values of a legal
system. Inserted in the Constitution it acquires formal validity and States, as direct
receivers of these provisions, have to orient their action to the implementation of the
principle. From a legal-theoretical viewpoint, sustainable development can be qualified
as a ‘meta-principle’59. Meta-principles operate on a procedural level and not on a
substantive one60.
55 «The case arose out of a 1977 Treaty in which Hungary and Czechoslovakia agreed on a joint project to
build hydroelectric facilities and improve navigation and flood control on the Danube». For more details I
remind to V. Lowe (1999), op.cit. See also Birnie and Boyle (2002), op.cit; or the web-page of the ICJ
http://www.icj-cij.org/icjwww/idocket/ihs/ihsframe.htm.
56 The ICJ hold a conservative approach on the topic, but its vice-president C. Weeramantry, in his
separate opinion, recognized that «there are plentiful indications...of that degree of “general recognition
among states of a certain practice as obligatory“ to give the principle of sustainable development the
nature of customary law», ICJ Report (1997) 7.
D. French (2005), op.cit. A. Boyle (1999), International law and sustainable development past
achievements and future challenges, Oxford, Oxford University Press. H. Keller, C. von Arb (2006),
op.cit.
57
58
An interesting analytical classification of legal principles can be found in R. Guastini, (2005), Dalle
fonti alle norme, Torino, Giappichelli. For a critical approach to the new environmental principles see S.
Salardi (2009), I principi ambientali ’nel’ diritto: old wine in new bottle?, Notizie di Politeia, Rivista di
etica e scelte pubbliche, n. 96/2009, pp. 53-67.
59
V. Lowe (1999), op.cit. D. Wilkinson (2002), op.cit.
60 In the field of bioethics a meta-principle is the principle of tolerance as elaborated by U. Scarpelli or the
autonomy principle in Mill’s and Kant’s perspectives.
92
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
According to Lowe, sustainable development «is a meta-principle, acting upon
other legal rules and principles» 61. Other principles, such as the preventive principle,
the precautionary principle and the polluter pays principle are organized under this
meta-principle and contribute to its implementation 62.
The normative trend, from the Summit of Rio until recent times, shows that the
three pillars model is preferred at the international, at the regional level (EU) and, in
some cases, also at the national level63. The political and legal meaning of this model is
the integration of economic, social and environmental aspects into all sector policies,
with all aspects having equal weight.
From a theoretical viewpoint, sustainable development is then a meta-principle
whose legal definition is expressed through the multi-pillars model (at least three
pillars), whereas its implementation is achieved through the integration principle64.
What does this mean and what is the relationship between sustainable development and
the integration principle65?
Integration is not a new idea. Even prior to the 1972 Stockholm Conference it is
possible to find a “linkage between conservation and development”66, indeed «at the
first UN conference on conservation in 1949, and in 1971 the General Assembly
expressed its convinction that ‘development plans should be compatible with a sound
ecology and that adequate environmental conditions can best be ensured by the
promotion of development, at both the national and international levels» 67 .
61
V. Lowe (1999), op.cit.
62
D. Wilkinson (2002), op.cit.
63
See for example Swiss Federal Council (2002), Sustainable Development Strategy, Berne, Switzerland.
64 S. Salardi (2008), Profili teorico-giuridici del principio d’integrazione come strumento d’attuazione
dello sviluppo sostenibile. Nella normativa comunitaria e nazionale italiana e svizzera in materia di risorse
idriche, biologiche e forestali, Il Diritto dell’Economia, Mucchi-editore, 3:4, pp. 662-690.
65 See, for instance, as an attempt to answer the same question F. Fracchia (2010), Sviluppo sostenibile e
diritti delle generazioni future, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, n. 0, pp.13-42,
available at http://www.rqda.eu/?p=22. See also M. Renna (2009), Ambiente e Territorio nell’Ordinamento
Europeo, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, n. 3-4, pp. 649-700.
66
P. Sands, (1995), op.cit.
67
P. Sands (1995), op.cit.
93
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ANNO 2011 / NUMERO 1
The integration principle, stated for example in Article 6 of the TCE68, does not
coincide in its original meaning with the three pillars model. Its meaning depends on
the choosen
interpretation. It could be interpreted, for example, as a simple
incorporation of environmental criteria into developmental decisions. This
interpretation would lead to a policy «which does not harm the environment»69.
However, nowadays the integration principle does not only mean incorporation of
environmental criteria in the decision-making process, but it means that “decisionmakers” should «give equal weighting»70 to the economic, environmental and social
aspects71 . This conclusion can be drawn by
considering that, after the Rio Summit and the Summit of Johannesburg,
sustainability should be interpreted in the light of the new understanding emerging
from Agenda 21, the Rio Declaration and the documents as following up to
Johannesburg Summit. This is just to point out that there is a conceptual difference
between sustainable development, the multi-pillars model and the principle of
integration, which sometimes happens to be forgotten.
From a legal viewpoint, sustainable development is then, as stated, a metaprinciple with procedural effects, and its definition is expressed through the multipillars model, whereas the integration principle is the tool for its concrete
implementation.
With this distinction in mind, it follows, in my opinion, that the provision
concerning the integration principle in the TCE does not change the legal status of
68 «Environmental protection requirements must be integrated into the definition and implementation of
the Community policies and activities… in particular with a view to promoting sustainable development».
See Case C-371/98 (The Queen v. Secretary of State for the Enviroment, Transport and the Regions ex
parte First Corporate Shipping, Ltd), Opinion of Advocate General Léger, March, 7th, 2000, according to
whom sustainable development «emphasises the necessary balance between various interests which
sometimes clash, but which must be reconciled».
69 M. Decleris (2000), op.cit. P. Dell’Anno (2004), Principi del diritto ambientale europeo e nazionale,
Giuffrè, Milano.
70
D. French (2005), op.cit.
71 Of this idea for instance P.A. Pillitu (2006), Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto ambientale
del’Unione europea, in Il Principio dello Sviluppo Sostenibile nel Diritto Internazionale ed Europeo
dell’Ambiente, P. Fois a cura di, p. 241; S. Salardi (2008), op.cit. See on the European level, for instance,
Article 37 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union, which states: «A high level of
environmental protection and the improvement of the quality of the environment must be integrated into
the policies of the Union and ensured in accordance with the principle of sustainable development».
94
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
sustainable development, i.e. from a principle to a rule72 as it has been stated: «The
fundamental rule of sustainability was proclaimed globally as ‘soft’ law, but for the
countries of the European Union it has become a legal rule by virtue of the Maastricht
and Amsterdam Treaties» 73. These two things are not conceptually the same.
Indeed, the questions are: Does sustainable development need to become a rule?
Can its characteristic of multidisciplinary concept better be expressed through a
principle than through a rule?
The great advantage of principles is their flexibility74, because they can adapt
better to changing situations: «The criticism that principles are vague and
indeterminate misses the point that principles are, by definition, general guides to
action: they do not, and are not intended to, provide specific rules of behaviour or
precise technical standards» 75.
72
Differences between principles and rules have been studied for example by R. Dworkin (1978), op.cit.
Alder, John, D. Wilkinson, I. Cheyne (1999), Environmental law and ethics, Houndmills, Macmillan.
73
M. Decleris (2000), op.cit.
74
See in general on the historical debate on principles and rules N. Bobbio (1972), Contributi ad un
dizionario giuridico, Giappichelli, Torino, pp. 257 ss. V. Giordano (2004), Il positivismo e la sfida dei
principi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. A. Sciumé (1998), Principi generali del diritto. Itinerari
storici di una formula, Giappichelli, Torino, p. 12. See also U. Scarpelli (1987), Dalla legge al codice, dal
codice ai principi, in Rivista di Filosofia, LXXVIII:1, pp. 3-15.
G. Limone (2006), Lo Statuto teorico dei principi fra norme e valori, in La forza normativa dei principi. Il
contributo del diritto ambientale alla teoria generale, CEDAM, pp. 45 ss. On the difficulty about
distinguishing moral and legal principles B. Celano (2006), Principi, regole, autorità, in Eur. e dir. priv., 3,
pp. 1061-1086.
See also R. Ago (1957), Positive Law and International Law, in The American Journal of International
law, 51:4, pp. 691-733. Cfr. anche R.B. Schlesinger (1957), Research on the General Principles of Law
Recognized by Civilized Nationas, in The American Journal of International Law, 51:4, pp. 734-753. Per
un commento alla disputa tra Hart e Dworkin in merito alla necessità di distinguere o meno tra norme e
principi, cfr. J. Raz (1972), Legal Principles and the Limits of Law, in The Yale Law Journal Company
Inc., 81:5, pp. 823-854. Nel contesto nazionale E. Betti (1971), Interpretazione della legge e degli atti
giuridici, Giuffré, Milano, p. 312. La questione della natura-struttura e del ruolo dei principi generali del
diritto, in particolare nel diritto internazionale, sono trattati ad esempio da A. Verdross (1950), Völkerrecht,
Springer Verlag, Wien, pp. 113 ss. G. Balladore Pallieri (1962), Diritto internazionale pubblico, Giuffré,
pp. 93 ss. B. Cheng (1993), General principles of law: as applied by International Courts and tribunals,
Cambridge University Press, Cambridge; P. Sands (1995), Principles of international environmental law,
Manchester University Press, Manchester. N. De Sadeleer (2002), Environmental Principles, from
political slogans to legal rules, Oxford University Press. S. Salardi (2009), op.cit.
75
D. Wilkinson (2002), op.cit.
95
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
If law should serve the purpose of creating a framework in which all interests
should be considered, the legal definition of sustainable development should not be too
narrow. And the legal status and nature of such a concept should be the one that
guarantees a certain flexibility. In this way, sustainable development, as a guiding
principle, ensures that this aim is achieved.
5. Models of legal regulation.
For a long time the debate concerning sustainable development was essentially
political
with little or no interest for the legal issues on this topic.
The legal context was intentionally left out of the discussion for a long time76.
This is due to different reasons: On the one hand, the States feared the obligations,
which derived from legal rules, especially those imposed by international law limiting
their national sovereignty. On the other hand, the fact that sustainable development is
not ‘properly’ a legal issue has contributed to the idea that there is no need for legal
regulation.
Moreover, opponents (especially from economic science) of the legal regulation
argued that Law is a rigid system incapable of adapting fast to the various and
unpredictable needs of society.
In recent years, however, this debate on the legal regulation of sustainable
development seems to have smoothed over.
Two main considerations can be useful to explain this change: On the one hand,
the awareness that States are not willing to intervene for the conservation of natural
resources as it would be necessary, if not obliged to. So the absence of a proper legallybinding obligation, and in particular of effective sanctions, represents a significant gap
in the path towards sustainability.
On the other hand, without a legal regulation, committed especially, but not only,
to the legislative instrument, there is the risk that the roles and the liabilities of the
subjects involved in the implementation of sustainable development will not be clearly
identified. This would be committed as a last resort to the logic of profit and power.
For these reasons it can be stated that scepticism about creating a legal
framework to implement sustainable development has been to a great extent overcome.
Therefore, the step forward is to identify the most suitable legal regulation for the topic
of sustainable development.
This is, in my opinion, an important issue, on which the Italian legislator should
focus, when dealing with legal provisions in the environmental field. Indeed, in Italy,
76
It took 14 years (from 1992 to 2006) to codify the principle of sustainable development in Italy ’Decreto legislativo’ n. 152/2006, termed Environmental Code.
96
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
environmental law is not at all ‘simple’ and ‘clear’, as auspicated by Cesare Beccaria77,
being, instead, carachterized by what has been termed “legislazione
alluvionale” (massive hypertrophy of norms).
Hence, I will take into account two variants of legal regulation and then show
the preference for one of these two.
A first possibility is a legal regulation promulgated by a “strong and
governing” 78 State able to «undertake the responsibility to steer society towards the
ideal of sustainable development»79. In this view, the State should undergo changes in
structure and operation, in which «the most important change is to abandon the
evaluative neutrality of the former liberal State…The sustainable State has an ideology
and a mission: to bring about sustainable development. Consequently, it is the
guarantor of a certain public morality, thanks to which it has the authority to lead and
control markets» 80.
This proposal is based on a particular model of law: i.e., law as a tool to impose
certain ethical values. In this sense, law coincides with a given ethical perspective like
in the tradition of Natural Law81 . However, it has been stated in the previous
paragraphs that law is a good tool for creating the frameworks in which different
ethical perspectives and disciplines can operate with the guarantee of finding an
adequate balance of their interests. Therefore, a ‘strong’ interference of law in
regulating all the issues concerning sustainable development could turn out to be
counterproductive as it could have the negative effect of creating obstacles to some
activities82 .
77
C. Beccaria (1973), Dei Delitti e delle Pene, a cura di G.D. Pisapia, Giuffré, Milano.
78
M. Decleris (2000), op.cit.
79
M. Decleris (2000), op.cit.
80
M. Decleris (2000), op.cit.
81 According to this theory “there is some degree of necessary connection between law and morality…
Natural law is the idea that law must have a certain reasonable moral content in order to be called law at
all”, D. Wilkinson (2002), op.cit
82 C. Abbot (2006), Environmental Command Regulation, in Environmental Law for sustainability. A
reader. Starting from the distinction among three different ideal types of law, namely ‘substantive law’,
‘formal law’, ‘reflexive law’, the author shows the success and failure of the ‘strict’ command and control
technique and the shift to more flexible regulatory system. The ‘strict’ command and control technique
does not seem to be «effective in dealing with matters such as diffuse air and water pollution from
agriculture and air pollution from vehicles. Moreover, newly emerging environmental problems including
climate change and indoor air pollution are ill-suited to command systems».
97
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
That is why we should distrust this model and look for a different one.
The model I propose can be described with the help of the following adjectives:
‘flexible’, ‘light’, ‘open’, ‘sober’ and ‘compatible’83.
A legal regulation is ‘flexible’, if it does not fix rules that pretend to last forever,
but it can adapt to the evolution of different needs, for example new scientific
discoveries.
A ‘light’ regulation is composed of not too many rules, which deal with the
procedural and technical aspects without imposing a particular viewpoint (ethical,
political, social or economic).
Besides these two aspects the model should be ‘open’, that is to say it should not
prefer one point of view, but permit the confrontation among different positions
(environmental, social, economic).
‘Sober’ indicates a regulation able to integrate the legal tools with other extralegal instruments, such as, for example, the voluntary environmental codes84 , the
economic and social evaluations and so on.
Last but not least, this legal regulation should be based on the “rule of
compatibility” 85 among different values and not on the “rule of preponderance”86 of
one value. These two rules remind us, in a concise way, of the historical problem
regarding the role attributed to law: Law as a tool to impose choices and determined
moral values vs. Law as a choosing system which permits «to predict and plan the
future course of our lives within the coercive framework of the law» 87. A legal
regulation characterized by the above- identified elements will be able to represent the
adequate framework for the balance of the interests involved in the discussion on
sustainable development.
6. Conclusions and outlook.
83 I have borrowed this terminology from the bioethical debate on the role of law: P. Borsellino (1999),
Bioetica tra autonomia e diritto, Milano, Zadig.
S. Wood (2006), op.cit. It will take different kinds of knowledge, different kinds of institutions, different
kinds of collaboration, different kinds of voluntary codes and new kinds of law to meet this bigger
challange“, p. 276.
84
85
P. Borsellino (1999), op.cit.
86
P. Borsellino (1999), op.cit.
87 H. L.A. Hart (1992), Punishment and responsibility. Essays in the philosophy of law, Oxford, Oxford
University Press .
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Sustainable development is a concept full of ethical implications arising from
different disciplines (natural sciences, economics, politics, law etc.) which all
contribute to its implementation.
As sustainable development is a progressive process rather than a static one, to
be comprehensive its implementation requires, on the one hand, the contribution of all
the instruments and knowledge provided by challenged disciplines. On the other hand,
to be effective this implementation should take place in a coordinated way, i.e. within a
legal adequate framework. Sustainable development poses a very specific challenge to
public decision-makers: To balance the economic, environmental and social aspects in
an equal way. Making this choice (multi-pillars model) necessitates decisions
concerning how to protect natural resources and how much freedom has to be left to
economic activities, as well as how to create the adequate balance of conflicting
interests. Beyond the minimum necessary to sustain natural resources in their physical
existence, implementing sustainable development involves mediating conflicting
visions of what is value in human life.
For this reason, I think that all the debate regarding sustainable development
should be based both on the ethics of responsibility (which involves the model of law
as a choosing system), and on the ethics of solidarity, being sustainable development a
universal common concern.
99
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
ABSTRACT
Silvia Salardi - Sustainable development: Definitions and Models of legal regulation.
Some legal-theoretical outlines on the role of law
Lo sviluppo sostenibile è un concetto affascinante e controverso. In particolare, il
dibattito giuridico su questo tema è stato molto controverso fin dal suo inizio. Come
concetto multidisciplinare lo sviluppo sostenibile può trovare una completa
implementazione se le differenti discipline cooperano tra loro. La legge può servire
adeguatamente allo scopo di creare un quadro per l’equilibrio dei vari interessi
coinvolti (economico, sociale, politico). Per questa ragione, è importante ridefinire lo
sviluppo sostenibile in modo che il legislatore possa correttamente identificare il
modello più adeguato di regolamentazione giuridica che possa contribuire a realizzare
uno sviluppo sostenibile in un modo globale. In questo articolo si suggerisce che la
regolazione giuridica potrebbe/dovrebbe essere basata su una “regola di compatibilità”
tra differenti valori e non sulla “regola della preponderanza” di uno di essi.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------Sustainable development is a fascinating yet controversial concept. In particular, the
legal debate on this topic has been very heated from its beginning. As a
multidisciplinary concept sustainable development can find a complete
implementation if different disciplines co-operate. Law can properly serve for the
purpose of creating a framework for the balance of the different involved interests
(economic, social, political). For this reason, it is important to redefine sustainable
development so that legislators can successfully identify the most adequate model of
legal regulation which can best help to implement sustainable development in a
comprehensive way. In this paper, it is suggested that the legal regulation could/should
be based on the “rule of compatibility” among different values and not on the “rule of
preponderance” of one value.
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NOTE A SENTENZA
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ANNO 2011 / NUMERO 1
Corte Cost., 22 dicembre 2010, n. 366
Segue nota di Antonio Colavecchio
Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di impianti da fonti
rinnovabili.
Il testo della sentenza:
Ritenuto in fatto
1.1. – Nel corso di giudizio di impugnazione da parte di C.G. di alcuni
provvedimenti amministrativi con cui il Comune di B. ha vietato l’inizio dei lavori
per la realizzazione di un impianto eolico per la produzione di energia elettrica, di
potenza pari ad 1 MW, per il quale la C. aveva inoltrato una denuncia di inizio di
attività, il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, con ordinanza del 24
settembre 2009 (reg. ord. n. 5 del 2010), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 27 della legge Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1
(Disposizioni integrative e modifiche della legge regionale 31 dicembre 2007, n. 40
– Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2008 e bilancio
pluriennale 2008-2010 della Regione Puglia e prima variazione al bilancio di
previsione per l’esercizio finanziario 2008), per violazione dell’articolo 117, terzo
comma, della Costituzione.
1.2. – Il rimettente riepiloga le disposizioni vigenti in materia di
autorizzazione alla realizzazione di impianti eolici, muovendo dal decreto
legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE
relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche
rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), il cui art. 12 stabilisce, al comma 3,
che la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da
fonti rinnovabili sono soggetti ad un’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione
(o dalla Provincia delegata) nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela
dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, che costituisce, ove
occorra, variante allo strumento urbanistico. Il comma 5 dell’art. 12 prevede, poi,
un regime semplificato per gli impianti di minore capacità produttiva, richiamando
la disciplina della denuncia di inizio attività di cui agli articoli 22 e 23 del decreto
del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia). La tabella allegata al
d.lgs. n. 387 del 2003 fissa a 60 kW la soglia per la produzione di energia eolica in
regime semplificato. Maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche
dei siti di installazione per i quali si procede con la disciplina semplificata della
DIA possono essere individuate con decreto del Ministro dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
del mare, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
1.3. – La Regione Puglia avrebbe, per contro, inteso accentuare la
semplificazione procedurale per la realizzazione di impianti eolici aventi una
ridotta capacità di generazione. Infatti, l’art. 27 della legge regionale n. 1 del 2008,
applicabile ratione temporis, ha disposto che per gli impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili, con potenza elettrica nominale fino a 1 MW e
da realizzare nella Regione Puglia, fatte salve le norme in materia di valutazione di
impatto ambientale e di valutazione di incidenza, si applica la disciplina della
denuncia di inizio attività (DIA), di cui agli articoli 22 e 23 del d.P.R. n. 380 del
2001. La disposizione è stata abrogata dall’art. 6 della legge della Regione Puglia
21 ottobre 2008, n. 31 (Norme in materia di produzione di energia da fonti
rinnovabili e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale), che
ha tuttavia transitoriamente previsto, all’art. 7, l’applicabilità della previgente
disciplina alle denunce presentate fino a trenta giorni prima della sua entrata in
vigore.
1.4. – Il Tar Puglia motiva la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale, rammentando che la ricorrente ha presentato in data 23 aprile 2008
al Comune di B. denuncia di inizio attività per la costruzione di un aerogeneratore
di potenza pari ad l MW, avvalendosi della più favorevole previsione dell’art. 27
della legge regionale n. 1 del 2008 (che innalza appunto fino ad 1 MW la soglia
massima di potenza introdotta dalla disciplina statale).
Questa norma – osserva il rimettente – costituisce la fonte che avrebbe
legittimato (secondo la tesi della ricorrente) l’avvio della costruzione e
dell’esercizio dell’impianto sulla base di semplice asseverazione; d’altra parte,
viene espressamente invocata dalla ricorrente, mediante motivi di gravame, quale
parametro di verifica della legittimità degli atti adottati dal Comune di B..
Osserva il ancora il collegio rimettente che gli impianti eolici con capacità di
generazione tra 60 kW e l MW risultano sottoposti dalla legge statale all’ordinario
regime dell’autorizzazione unica, mentre l’art. 27 della legge regionale ne consente
la realizzazione mediante DIA, con le modalità di cui agli artt. 22 e 23 del d.P.R. n.
380 del 2001.
1.5. – In ordine alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale, il rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale (sentenza n.
383 del 2005) che riconduce la disciplina delle procedure autorizzative in materia
di energia alla «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» di cui
al terzo comma dell’art. 117 Cost. (competenza concorrente), escludendo
l’assimilabilità della materia dell’energia al «governo del territorio» ed alla
«sicurezza ed ordine pubblico» ovvero ai «livelli essenziali delle prestazioni
101
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale». Rileva quindi il Tar, che la disciplina legislativa statale dei moduli di
definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione
amministrativa e della celerità, esprime un principio fondamentale della materia
che vincola il legislatore regionale (cfr., in questo senso, Corte cost. 27 luglio 2005,
n. 336, relativa alla DIA per gli impianti di telecomunicazioni; Corte cost. 1°
ottobre 2003, n. 303, relativa alla DIA edilizia).
Trasponendo le riferite conclusioni alla materia degli impianti eolici, a
parere del giudice a quo deve affermarsi che, sul piano costituzionale, la
definizione del regime autorizzatorio per nuove attività costituisce disciplina di
principio, cui le Regioni non possono liberamente derogare.
Con riferimento alle soglie fissate per la DIA, se ne trarrebbe conferma dal
disposto dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 387 del 2003, secondo il quale
l’eventuale innalzamento del limite di capacità produttiva degli impianti (rispetto a
quello di 60 kW fissato dalla tabella A allegata al decreto), ai fini dell’applicabilità
del regime semplificato, può essere disposto solo con decreto del Ministro dello
sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente, previa intesa con la
Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del d.lgs. n. 281 del 1997.
Introducendo una più elevata soglia di potenza massima (1 MW) per
l’esperibilità della DIA, la norma regionale determinerebbe il duplice effetto di
espandere l’area di applicazione del regime semplificato mediante DIA e di
ampliare le competenze dei Comuni, in senso opposto alla scelta operata dal
legislatore statale con l’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 387 del 2003, che assegna in
via primaria alle Regioni o alle Province delegate il compito di autorizzare la
costruzione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
2.1. – Sono intervenute nel giudizio costituzionale la S.S.e la S.P.O.,
svolgendo difese ad opponendum ai fini della dichiarazione d’inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale, o, in subordine, della sua infondatezza.
Le due società assumono la propria legittimazione ad intervenire nel giudizio
di legittimità costituzionale, stante la loro qualità di parte nel giudizio a quo,
acquisita in forza dell’intervento compiuto con atto del 15 febbraio 2010, notificato
in pari data alle parti costituite, a mezzo del servizio postale e depositato presso la
segreteria del Tar Puglia in data 17 febbraio 2010.
Aggiungono di avere un interesse qualificato alla partecipazione al giudizio,
in considerazione degli effetti – rilevanti, diretti ed immediati – che l’eventuale
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate produrrebbe
sull’attività da esse svolta su tutto il territorio regionale, avvalendosi proprio della
semplificazione amministrativa e procedimentale introdotta con la norma
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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sospettata di illegittimità costituzionale. L’eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale esporrebbe le intervenienti ad un grave pregiudizio, condizionando
lo sviluppo della rete delle energie da tutte le fonti rinnovabili in tutta la Regione
Puglia, ed incidendo sull’adempimento degli obblighi e sui contratti nel frattempo
sottoscritti.
Considerato in diritto
1.1. – Il Tar Puglia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 27 della
legge Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1 (Disposizioni integrative e modifiche
della legge regionale 31 dicembre 2007, n. 40 – Disposizioni per la formazione del
bilancio di previsione 2008 e bilancio pluriennale 2008-2010 della Regione Puglia
e prima variazione al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008), per
violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
1.2. – Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità degli interventi
spiegati nel giudizio costituzionale da S.S.e da S.P.O.
Le due società non sono titolari di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, bensì di un interesse di mero
fatto.
Il giudizio a quo attiene a questioni inerenti la DIA relativa ad un impianto
eolico, mentre le intervenienti dichiarano di essere operatori nel settore degli
impianti fotovoltaici.
Neppure può sostenersi che le suddette società siano parti nel giudizio a quo.
È vero che esse sono intervenute nel giudizio amministrativo a quo, con atto
notificato alle altre parti in causa il 15 febbraio 2010: tale giudizio, però, era stato
dichiarato sospeso per l’incidente di costituzionalità, con la stessa ordinanza di
rimessione depositata il 24 settembre 2009, sicché quell’intervento appare
palesemente strumentale al proposito di far valere le proprie ragioni nel giudizio di
costituzionalità.
Ciò non appare possibile per un duplice ordine di considerazioni,
rispettivamente attinenti al giudizio a quo ed al giudizio costituzionale.
Sotto il primo profilo, può dirsi in generale che lo stato di quiescenza
processuale impedisce il compimento di qualsiasi atto, salvo esigenze cautelari, che
sarebbe affetto da nullità e non produttivo di effetti (Cass. n. 23836 del 2004; n.
4427 del 2004; n. 8939 del 1987).
Più specificamente, riguardo al processo amministrativo, l’art. 22 della legge
6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali),
103
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
richiamandosi alle norme di procedura davanti al Consiglio di Stato (vedi gli artt.
38 e 39 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, Regolamento per la procedura
dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), concede alle parti
interessate, cui la domanda di intervento sia stata notificata, la facoltà di presentare
memorie, istanze e documenti: segno che sull’ammissibilità dell’intervento deve
istaurarsi il contraddittorio, senza di che l’interveniente non può considerarsi parte
in giudizio, abilitata a spiegare attività difensive.
Sotto il secondo profilo, la giurisprudenza costituzionale ammette, nel
giudizio incidentale di legittimità costituzionale, l’intervento dei soggetti che sono
parti in causa del giudizio a quo al momento del deposito o della lettura in
dibattimento dell’ordinanza di rimessione (sentenze n. 62 del 1993 e n. 145 del
2002; ordinanza n. 251 del 2002). Ciò si evince innanzi tutto dalla lettera dell’art.
25, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), il quale attribuisce la facoltà di
costituirsi dinanzi alla Corte alle parti destinatarie della notificazione
dell’ordinanza di rimessione ai sensi dell’art. 23: parti che però sono soltanto
quelle già costituite nel giudizio a quo. Inoltre, gli artt. 23 e 25 della stessa legge n.
87 del 1953, nonché gli artt. 2 e 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale – disponendo che l’ordinanza di rimessione deve essere
notificata alle parti del giudizio a quo, ove non sia stata letta in dibattimento, che la
regolarità della notificazione deve essere controllata dal Presidente della Corte
prima di disporre la pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta Ufficiale e che
dall’ultima notificazione decorre il termine (perentorio) di venti giorni per la
costituzione – regolano la costituzione delle parti davanti alla Corte, e gli
adempimenti connessi, in modo tale da essere applicabili alle sole parti costituite
nel giudizio a quo al momento del deposito dell’ordinanza di rimessione. Il che
rende manifesta la voluntas legis di attribuire soltanto alle parti già costituite nel
giudizio a quo, al momento del deposito (o della lettura in dibattimento
dell’ordinanza), la legittimazione a costituirsi dinanzi alla Corte costituzionale
(sentenza n. 220 del 1988).
2.1. – La questione è fondata.
2.2. – L’installazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di energia
è regolata dalla norma statale di principio, nella materia «produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell’energia», di competenza concorrente (sentenze n. 282
del 2009; nn. 194, 168 e 124 del 2010), di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003,
il quale prevede, ai commi 3 e 4, una disciplina generale caratterizzata da un
procedimento che si conclude con il rilascio di una autorizzazione unica. A tale
disciplina fanno eccezione determinati impianti che, se producono energia in
misura inferiore a quella indicata dalla tabella allegata allo stesso d.lgs. n. 387 del
2003, sono sottoposti alla disciplina della denuncia di inizio attività (art. 12,
comma 5). In particolare, la tabella distingue i suddetti impianti in base alla
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tipologia di fonte che utilizzano (eolica, soglia 60 kW, solare, soglia 20 kW, etc).
Sempre l’indicato art. 12, comma 5, prevede che «con decreto del Ministro dello
sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono
essere individuate maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei
siti di installazione per i quali si procede con la medesima disciplina della denuncia
di inizio attività».
L’art. 27 della legge Regione Puglia n. 1 del 2008, prevede l’applicazione
della disciplina della DIA agli impianti di capacità di generazione fino a 1 MW per
l’energia eolica. La norma, abrogata dall’art. 6 della legge della Regione Puglia 21
ottobre 2008, n. 31 (Norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili
e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale), resta
applicabile – come esattamente ha osservato il rimettente – alle denunce, come
quella oggetto del giudizio a quo, presentate fino a trenta giorni prima della entrata
in vigore di questa (art. 7 della legge n. 31 del 2008).
L’art. 3 della stessa legge regionale sopravvenuta, che analogamente
prevedeva il regime semplificato della DIA per potenze elettriche nominali
superiori (fino a 1 MW) a quelle previste alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del
2003, è stato, d’altro canto, dichiarato illegittimo con sentenza n. 119 del 2010.
L’aumento della soglia di potenza per la quale, innalzando la capacità
rispetto ai limiti di cui alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, la
costruzione dell’impianto risulta subordinata a procedure semplificate, è stato
ritenuto illegittimo, in quanto maggiori soglie di capacità di generazione e
caratteristiche dei siti di installazione, per i quali si proceda con diversa disciplina,
possono essere individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare, d’intesa con la Conferenza unificata, senza che la Regione possa
provvedervi autonomamente (sentenze nn. 194, 124 e 119 del 2010).
Anche la norma censurata finisce per incidere sulla disciplina amministrativa
di impianti, costruiti nel territorio regionale, destinati alla produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili, per i quali l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, attesa la
loro capacità di generazione superiore a determinati valori di soglia, prevede
un’autorizzazione unica, mirata al vaglio dei molteplici interessi coinvolti.
L’art. 27 della legge Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1, va dunque
dichiarato anch’esso costituzionalmente illegittimo, per l’ambito di applicabilità
che ancora conserva.
105
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
La pronuncia di illegittimità deve essere limitata alla lettera b) del comma 1
dell’art. 27, che riguarda propriamente gli impianti eolici, essendo solo questa
oggetto del giudizio a quo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi della S.S. e della S.P.O. ;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera b) della
legge Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1 (Disposizioni integrative e modifiche
della legge regionale 31 dicembre 2007, n. 40 – Disposizioni per la formazione del
bilancio di previsione 2008 e bilancio pluriennale 2008-2010 della Regione Puglia
e prima variazione al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008).
Antonio Colavecchio*
Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di impianti da fonti
rinnovabili.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le “massime” enucleabili dalla
giurisprudenza costituzionale in tema di impianti da fonti rinnovabili. – 3. Alcune
considerazioni finali (in prospettiva).
1. Premessa
Con la sentenza n. 366 del 2010 1, la Consulta torna a sanzionare con la
declaratoria di incostituzionalità norme regionali dirette ad estendere, in
**
1
Professore associato di diritto amministrativo, Università degli Studi di Foggia.
Corte cost., 22 dicembre 2010, n. 366.
106
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
riferimento alle procedure per la realizzazione di impianti di produzione di energia
da fonti rinnovabili, l’ambito di applicabilità del regime semplificato della
denuncia di inizio attività (DIA). Già in quattro precedenti occasioni2 , infatti, il
giudice delle leggi aveva dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni
regionali le quali, fissando soglie di capacità di generazione più elevate di quelle
individuate a livello nazionale per il ricorso alla procedura di DIA (in luogo
dell’autorizzazione unica), si ponevano in contrasto con la disciplina statale di
principio nella materia, a riparto concorrente, della «produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell’energia», di cui all’art. 117, comma 3, Cost. Più in
dettaglio, la norma statale di principio che, in quelle occasioni – come nella
fattispecie in esame – risultava violata, ovvero, in altri termini, la “normaparametro interposta”, era costituita dall’art. 12, del d. lgs. n. 387 del 20033, il
quale, per la costruzione e l’esercizio degli impianti da fonti rinnovabili, prevede
una disciplina generale caratterizzata da un procedimento che si conclude con il
rilascio di un’autorizzazione unica di competenza regionale 4 (cfr. commi 3 e 4). A
tale disciplina fanno eccezione gli impianti con una capacità di generazione
inferiore rispetto alle soglie indicate (tabella A, allegata al medesimo decreto
legislativo), diversificate per ciascuna fonte rinnovabile5: tali tipologie di impianti
sono infatti sottoposte alla disciplina della DIA, di cui agli artt. 22 e 23 del decreto
del Presidente della Repubblica n. 380/2001 6, da presentare al Comune competente
per territorio (cfr. comma 5, art. 12 d.lgs. n. 387/2003). La possibilità di fissare
maggiori soglie di capacità di generazione – oltre che caratteristiche dei siti di
installazione – per le quali è applicabile la medesima disciplina della DIA è
“riservata” ad una fonte normativa a competenza – si potrebbe dire –
“specializzata”, individuata in un «decreto del Ministro dello sviluppo economico,
di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare,
2
V. infra.
3
Decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, «Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla
promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell’elettricità». Per un esame di tale disciplina legislativa, cfr. F. NICOLETTI, Lo sviluppo e la
promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili alla luce del d. lgs. 29 dicembre 2003,
n. 387, in Dir. ed economia, 2004, p. 367 ss., e S. FANETTI, L’autorizzazione unica per la costruzione
e l’esercizio di impianti alimentati da fonti rinnovabili, in B. POZZO (a cura di), Le politiche
energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, Giuffrè,
Milano, 2009, p. 157 ss.
4 … o provinciale, in caso di delega da parte della Regione. Sulle criticità che il modello
dell’autorizzazione unica di cui all’art. 12, d.lgs. n. 387/2003 ha rivelato nella sua applicazione
concreta, si rinvia all’attenta analisi di A. FARÌ, Il procedimento di autorizzazione per gli impianti da
fonti energetiche rinnovabili. Complessità e spunti di riflessione, in Astrid-online.it.
5
… eolica, soglia 60 kW, solare, soglia 20 kW, etc.
6
D.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia».
107
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
d’intesa con la Conferenza unificata». È appena il caso di notare che tale fonte
normativa è dotata di “forza delegificante”, in quanto abilitata a modificare,
innalzandoli, i limiti fissati dalla tabella allegata al d.lgs. n. 387/2003, e quindi, a
derogare alle previsioni contenute in un atto legislativo.
Ora, nella fattispecie decisa con la sentenza in esame, la norma regionale
“indubbiata”7 prevedeva l’esperibilità della DIA per gli impianti da fonte eolica
con capacità di generazione fino a 1 MW, laddove, invece, la tabella allegata al
d.lgs. n. 387 del 2003 fissava a 60 kW la soglia per la produzione di energia eolica
in regime semplificato. Come appare evidente, la previsione regionale, innalzando
fino ad 1 MW la soglia massima di potenza introdotta dalla disciplina statale,
configurava una violazione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 387 del 2003, il
quale, come visto, consentiva che la modifica “in aumento” dei limiti individuati
dall’allegata tabella A per l’accesso al procedimento di DIA potesse essere operata
solo dalla suddetta fonte normativa “specializzata”.
Il mero raffronto – “a colonne parallele” – tra la disciplina statale di
principio e quella regionale oggetto di scrutinio, rivelando una palese
incompatibilità di contenuti normativi, era dunque già di per sé sufficiente per
consentire alla Corte di pronunciare l’illegittimità costituzionale della disciplina
regionale stessa.
Peraltro, la decisione in tal senso era resa alla Corte ancor più agevole – ove
ciò potesse essere possibile – ed anzi “vincolata” dalla sua pregressa
giurisprudenza in fattispecie analoghe se non identiche: come anticipato, infatti, già
in quattro precedenti occasioni, la Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità di
disposizioni regionali del tipo descritto, per di più, in una di tali occasioni,
promananti dalla stessa Regione “autrice” della disposizione annullata con la
7 La sentenza n. 366 del 2010 è scaturita da un giudizio incidentale di legittimità costituzionale
promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, il quale, nell’ambito di un
procedimento di impugnazione di provvedimenti amministrativi del Comune di Biccari (FG), inibitori
dell’inizio dei lavori per la realizzazione di un impianto eolico per la produzione di energia elettrica
con potenza pari ad 1 MW, fatto oggetto di DIA, aveva dubitato della costituzionalità dell’art. 27
della legge Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1 («Disposizioni integrative e modifiche della legge
regionale 31 dicembre 2007, n. 40 – Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2008 e
bilancio pluriennale 2008-2010 della Regione Puglia – e prima variazione al bilancio di previsione
per l'esercizio finanziario 2008»), per violazione dell’art. 117, comma 3, Cost. La disposizione
regionale in questione, pur abrogata dall’art. 6 della legge Regione Puglia 21 ottobre 2008, n. 31
(«Norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili e per la riduzione di immissioni
inquinanti e in materia ambientale»), rimaneva tuttavia applicabile, ratione temporis, alla DIA oggetto
del giudizio a quo; ciò in virtù della norma transitoria contenuta nell’art. 7 della predetta legge n. 31
del 2008, che prevedeva l’applicabilità della previgente disciplina alle denunce presentate fino a
trenta giorni prima dell’entrata in vigore della legge medesima.
108
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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pronuncia in commento. Il riferimento è alle sentenze nn. 119 8, 1249, 194 10 e 313 11,
tutte del 2010, in cui il giudice delle leggi aveva chiaramente e perentoriamente
affermato che «maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti
di installazione per i quali si procede con la disciplina della DIA possono essere
individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto
8 Corte cost., 26 marzo 2010, n. 119 (a commento della quale, L. NANNIPIERI, Regioni ed energia
rinnovabile: sono (ancora una volta) dichiarate incostituzionali norme regionali che pongono
limitazioni alla localizzazione di impianti da fonti rinnovabili, dettate in assenza delle linee guida
statali, in www.rivistaaic, n. 0/2010, e D. OTTOLENGHI, L. CAPOZZO, Recenti sviluppi nella normativa
in materia di energia rinnovabile: Corte Costituzionale e Autorità Antitrust, in
www.amministrazioneincammino.luiss.it. Con tale decisione, la Corte, accogliendo parzialmente il
ricorso proposto dal Governo nei confronti di alcune disposizioni della legge della Regione Puglia n.
31/2008, ha dichiarato, per quanto nello specifico rileva, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della
legge regionale stessa, il quale, per alcune tipologie di impianti specificamente elencati, per la
produzione di energia da fonti rinnovabili – non solo solare ed eolica, ma anche per impianti idraulici,
a biomassa e a gas – prevedeva l’estensione della DIA anche per potenze elettriche nominali superiori
(fino a 1 MWe) a quelle previste alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003.
9
Corte cost., 1° aprile 2010, n. 124 (a commento della quale, oltre a D. OTTOLENGHI - L. CAPOZZO,
Recenti sviluppi nella normativa in materia di energia rinnovabile: Corte Costituzionale e Autorità
Antitrust, cit., N. RANGONE, Fonti rinnovabili di energia: stato della regolazione e prospettive di
riforma, in Giur. cost., 2010, p. 1490 ss.). In tale pronunzia, la Corte, ritenendo in gran parte fondate
le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Governo, con separati ricorsi, avverso alcune
disposizioni della legge della Regione Calabria 11 novembre 2008, n. 38 («Proroga del termine di cui
al comma 3, art. 53, legge regionale 13 giugno 2008, n. 15») e della legge della Regione Calabria 29
dicembre 2008, n. 42 («Misure in materia di energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili»), ha
dichiarato l’incostituzionalità del punto 2.3 dell’Allegato sub 1 della legge regionale n. 42 del 2008, il
quale individuava un elenco di tipologie di impianti (con potenza nominale inferiore o uguale a 500
Kwe) soggetti alla sola disciplina della DIA.
10
Corte cost., 4 giugno 2010, n. 194 (con commento di A.M. BASSO, Insediamenti di impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: le competenze degli enti territoriali tra normativa
interna e procedure amministrative, in Dir. giur. agr., 2010, p. 458 ss.). Con la sentenza de qua, la
Consulta, in accoglimento della questione di legittimità costituzionale proposta dal Governo nei
confronti dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22 («Nuova
disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel
territorio della Regione Molise»), ha dichiarato l’incostituzionalità della disposizione stessa, la quale
attribuiva ai Comuni la competenza autorizzativa degli impianti per la produzione di energia elettrica
da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico, secondo le procedure
semplificate stabilite dalle “linee guida” regionali.
11 Corte cost., 11 novembre 2010, n. 313. Con tale decisione, la Corte, accogliendo in parte le censure
di costituzionalità mosse dal Governo nei confronti di alcune disposizioni della legge della Regione
Toscana 23 novembre 2009, n. 71 («Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 –
Disposizioni in materia di energia»), ha dichiarato, per quel che qui interessa, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 10, comma 2, della citata legge regionale n. 71 del 2009, che sostituendo l’art.
16, comma 3, lett. f) della legge regionale n. 39 del 2005, aveva innalzato le soglie per le quali è
ammessa la DIA, per gli impianti eolici da 60 a 100 chilowatt (lett. f, n. 1) e per i fotovoltaici da 20 a
200 chilowatt (lett. f, n. 2).
109
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la
Conferenza unificata, senza che la Regione possa provvedervi autonomamente» 12.
La sentenza in commento si pone quindi in linea di piena – e necessaria13 –
continuità rispetto ad un indirizzo giurisprudenziale ormai già ben delineato. Essa,
pertanto, non offre particolari elementi di novità rispetto alle precedenti pronunzie
in tema di impianti alimentati da fonti rinnovabili, e segnatamente di procedure per
la loro realizzazione; tuttavia, la sentenza stessa, consolidando ulteriormente (ed in
modo ormai “granitico”) il suddetto indirizzo, consente di fare il “punto” sulla
giurisprudenza costituzionale in subiecta materia, anche nel suo rapporto dialogico
con l’evoluzione della normativa.
2. Le “massime” enucleabili dalla giurisprudenza costituzionale in tema di
impianti da fonti rinnovabili
Orbene, nel senso proposto, possono individuarsi una serie di punti
fondamentali su cui la giurisprudenza costituzionale risulta ormai essersi
stabilmente attestata, i quali verranno di seguito enucleati ed illustrati a mo’ di
“massime”, tra loro articolate secondo un ordine logico-consequenziale nonché di
connessione per oggetto.
A) La disciplina degli insediamenti di impianti alimentati da fonti rinnovabili
di energia è attribuita alla potestà legislativa concorrente in materia di «produzione,
trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» di cui all’art. 117, comma 3,
Cost.14. Pur non potendosi trascurare la rilevanza che, con riguardo a questi
impianti, riveste la tutela dell’ambiente e del paesaggio 15, si rivela centrale, nella
disciplina ad essi relativa, il profilo afferente alla gestione delle fonti energetiche in
vista di un efficiente approvvigionamento presso i diversi ambiti territoriali16.
12
Così punto 4.2 Cons. in dir., sent. n. 119/2010; in terminis: punto 6.2 Cons. in dir., sent. n.
124/2010; punto 3 Cons. in dir., in fine, sent. n. 194/2010; punto 3.2 Cons. in dir., sent. n. 313/2010.
13
… in un’ottica di “fedeltà al precedente”.
14
Cfr., in particolare, Corte cost., 9 novembre 2006, n. 364 (con commento di M. D’AURIA, Impianti
eolici e termine massimo di conclusione del procedimento, in Giornale dir. amm., p. 493 ss.), punto 3
Cons. in dir., e 6 novembre 2009, n. 282 (con commento di S. PELINO, Impianti eolici: tra regime
autorizzatorio e concessione di bene collettivo, in Riv. giur. ambiente, 2010, p. 334 ss.), punto 3 Cons.
in dir.
15
Cfr. Corte cost., 29 maggio 2009, n. 166, punto 6 Cons. in dir. A commento di tale decisione, cfr. V.
MOLASCHI, Paesaggio versus ambiente: osservazioni alla luce della giurisprudenza in materia di
realizzazione di impianti eolici, in Riv. giur. edilizia, 5/6, II, 2009, p. 171 ss., e P. LOMBARDI, Corte
costituzionale e autorizzazione degli impianti di energia eolica: concezione assolutizzante del
paesaggio o ponderazione di interessi?, in Riv. giur. edilizia, I, 2009, p.1469 ss.
16
Corte cost., 6 novembre 2009, n. 282, punto 3 Cons. in dir.
110
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
B) L’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, di attuazione della direttiva 2001/77/
CE17 relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche
rinnovabili, enuncia i principi fondamentali in materia di «produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell’energia», e, nella specie, in tema di produzione di
energia da fonti rinnovabili18 . Ulteriori princìpi fondamentali sono fissati, anche in
questo ambito, dalla legge n. 239 del 2004 19, che ha realizzato «il riordino
dell’intero settore energetico, mediante una legislazione di cornice»20. È dunque
alla stregua di tali principi che vanno scrutinate le disposizioni regionali relative
alla produzione di energia derivante da fonti rinnovabili.
C) La fonte competente, in via esclusiva, a disporre l’innalzamento dei limiti
di capacità produttiva degli impianti, ai fini dell’applicabilità del regime
semplificato, è un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con
il Ministro dell’ambiente, previa intesa con la Conferenza unificata; è pertanto
precluso alle Regioni di provvedere in tal senso mediante un autonomo intervento
legislativo. La ratio dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 387 del 2003 è, infatti,
quella di consentire l’individuazione di soglie diverse di potenza rispetto a quelle
indicate dalla tabella allegata al medesimo decreto legislativo «solo a seguito di un
procedimento che, in ragione delle diverse materie interessate (tutela del territorio,
tutela dell’ambiente, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia),
coinvolge lo Stato e le Regioni in applicazione del principio di leale
collaborazione, il quale impedisce ogni autonomo intervento legislativo
regionale» 21.
D) I limiti di principio contenuti nella tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del
2003 non sono pregiudicati dall’art. 1-quater del decreto-legge n. 105 del 2010 22,
17 Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, sulla
promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell’elettricità.
18 Cfr., in particolare, Corte cost., n. 364/2006, punto 3 Cons. in dir., e sent. n. 282 del 2009, punto 3
Cons. in dir.
19 Legge 23 agosto 2004, n. 239, «Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il
riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia».
20 Cfr. sent. n. 282 del 2009, punto 3 Cons. in dir., e, soprattutto, sent. 14 ottobre 2005, n. 383, punti
12 e 13 Cons. in dir. Per un commento alla sentenza n. 383/2005, che è di particolare rilievo sia per
l’oggetto del relativo giudizio (disposizioni del decreto-legge n. 239/2003 – c.d. anti-blackout –, quale
convertito, con modificazioni, nella legge n. 290/2003, nonché disposizioni della legge di riordino del
settore energetico), sia perché in essa la Corte si sofferma funditus sulla dimensione contenutistica
della materia “energia”, v. Q. CAMERLENGO, Autonomia regionale e uniformità sostenibile: principi
fondamentali, sussidiarietà e intese forti, in Le Regioni, p. 422 ss.
21
Sent. n. 124/2010, punto 6.2 Cons. in dir.; analogamente, sentt. n. 119/2010, punto 4.2 Cons. in dir.,
n. 194/2010, punto 3 Cons. in dir., e n. 313/2010, punto 3.2 Cons. in dir.
22 Decreto-legge 8 luglio 2010, n. 105 («Misure urgenti in materia di energia»), convertito, con
modificazioni, dalla legge 13 agosto 2010, n. 129.
111
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
inserito dalla legge di conversione n. 129 del 2010, che fa salvi gli effetti relativi
alle procedure di DIA per la realizzazione di impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili, che risultino avviate in conformità a disposizioni
regionali recanti soglie superiori a quelle di cui alla tabella medesima. La norma
sopra citata (c.d. “salva-DIA”)23, infatti, introduce, nel quadro della decretazione
d’urgenza nel settore dell’energia, una sanatoria limitata nel tempo, tanto da porre
la condizione «che gli impianti siano entrati in esercizio entro centocinquanta
giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto»24.
E) Innalzare le soglie per le quali i principi della legislazione statale
ammettono la DIA non è alle Regioni consentito neppure in via di attuazione della
disciplina comunitaria sulle fonti energetiche rinnovabili. Se è vero che l’apertura
verso una ulteriore liberalizzazione del regime autorizzatorio per la costruzione e
l’esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili possa cogliersi dalla legge
n. 96 del 2010 25, che delega il Governo ad attuare la direttiva 2009/28/CE26,
estendendo il regime della DIA alla realizzazione degli impianti per la produzione
di energia elettrica con capacità di generazione non superiore ad 1 megawatt
elettrico (art. 17), tuttavia, il recepimento della direttiva stessa, per ragioni di
uniformità sul territorio nazionale, legate alla funzionalità della rete, spetta allo
Stato (entro il 5 dicembre 2010)27. Quindi, non è consentito alla Regione derogare
frattanto ai limiti vigenti, sia pure anticipando il recepimento della normativa
comunitaria 28.
F) In mancanza dell’approvazione, in sede di Conferenza unificata ex art. 12,
comma 10, del d.lgs. n. 387/2003, delle linee guida nazionali per il corretto
inserimento degli impianti da fonti rinnovabili nel paesaggio, è preclusa alle
Regioni l’adozione di una propria disciplina in ordine ai siti non idonei
all’installazione di tali impianti. La richiamata norma deve infatti qualificarsi come
espressione della competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale ex art.
23
… sul cui ambito di applicazione v. la circolare del Ministero dello sviluppo economico –
Dipartimento per l’energia, in data 15 dicembre 2010.
24
Corte cost., sent. n. 313 del 2010, punto 3.3 Cons. in dir.
25
Legge 4 giugno 2010, n. 96, «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2009».
26
Direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, «Sulla
promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle
direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE».
27 Il legislatore nazionale ha provveduto al recepimento della direttiva 2009/28/CE con il decreto
legislativo 3 marzo 2011, n. 28, «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso
dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/
CE e 2003/30/CE».
28
Corte cost., sent. n. 313 del 2010, punto 3.3 Cons. in dir.
112
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
117, comma 2, lett. s), Cost.29, essendo la predisposizione delle indicate linee guida
finalizzata precipuamente a garantire un’adeguata tutela paesaggistica30; di talché
non è consentito alle Regioni «proprio in considerazione del preminente interesse
di tutela ambientale perseguito dalla disposizione statale, di provvedere
autonomamente alla individuazione di criteri per il corretto inserimento nel
paesaggio degli impianti alimentati da fonti di energia alternativa» 31.
Anche sotto il profilo dell’art. 117, comma 3, Cost., peraltro,
l’individuazione da parte delle Regioni, nelle more dell’approvazione delle linee
guida nazionali, di aree territoriali interdette all’installazione di impianti da fonti
rinnovabili, contrasta con il principio fondamentale fissato dall’art. 12, comma 10,
del d.lgs. n. 387/2003 in tema di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia», che prevede espressamente l’intervento della legislazione regionale
soltanto «in attuazione» delle linee guida medesime32 . Il bilanciamento tra le
esigenze connesse alla produzione di energia e gli interessi, variamente modulati,
rilevanti in questo ambito impone, infatti, una prima ponderazione concertata in
ossequio al principio di leale cooperazione, al fine di consentire alle Regioni ed
agli enti locali di contribuire alla compiuta definizione di adeguate forme di
29
La «tutela dell’ambiente» è inquadrata, come noto, nella “categoria” delle materie c.d.
“trasversali”, o “materie-non materie”, ovvero ancora “materie di scopo”, le quali, secondo quanto
ripetutamente evidenziato dalla Corte costituzionale nella sua opera di interpretazione delle “voci”
contenute nell’elenco di cui al comma 2 del nuovo art. 117 Cost., individuano competenze del
legislatore statale idonee ad incidere sui più diversi oggetti, con l’obiettivo di raggiungere la finalità
costituzionalmente fissata. Sui caratteri delle materie “trasversali”, si rinvia, anche per i riferimenti
giurisprudenziali, alle ampie ricostruzioni di R. CARANTA, La tutela della concorrenza, le competenze
legislative e la difficile applicazione del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, p. 990 ss.;
G. SCACCIA, Le competenze legislative sussidiarie e trasversali, in Dir. pubbl., 2004, p. 461 ss.; F.
BENELLI, La «smaterializzazione delle materie». Problemi teorici ed applicativi del nuovo Titolo V
della Costituzione, Giuffrè, Milano, 2006; F.S. MARINI, I criteri di interpretazione delle materie, in
G. CORSO, V. LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Parte
generale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 90 ss. In specie, sulla giurisprudenza costituzionale in materia
ambientale post riforma del Titolo V Cost., v., ex multis, B. POZZO - M. RENNA (a cura di), L’ambiente
nel nuovo Titolo V della Costituzione, Quaderni della Riv. giur. ambiente, 15, 2004 Giuffrè, Milano;
G. MANFREDI, Tre modelli di riparto delle competenze in tema di ambiente, in Istituz. Federalismo,
2004, p. 509 ss.; A. COLAVECCHIO, La tutela dell’ambiente fra Stato e Regioni: l’ordine delle
competenze nel prisma della giurisprudenza costituzionale, in F. GABRIELE - A.M. NICO (a cura di),
La tutela multilivello dell’ambiente, Cacucci, Bari, 2005, p. 1 ss.; P. MADDALENA, L’interpretazione
dell’art. 117 e dell’art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza costituzionale in
tema di tutela e di fruizione dell’ambiente, in Federalismi.it, 9, 2010.
30
Cfr. sentt. n. 166 del 2009, punto 6 Cons. in dir., e n. 119 del 2010, punto 3.2 Cons. in dir., nonché,
da ultimo, Corte cost., sent. 3 marzo 2011, n. 67, punto 6.1 Cons. in dir.
31 Così Corte cost., sent. n. 166 del 2009, punto 6 Cons. in dir.; in terminis, Corte cost., sent. 26
novembre 2010, n. 344, punto 2.1 Cons. in dir.
32
Sent. n. 67 del 2011, punto 6.1 Cons. in dir.
113
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
contemperamento di tali esigenze 33. Una volta raggiunto tale equilibrio, ogni
Regione potrà adeguare i criteri così definiti alle specifiche caratteristiche dei
rispettivi contesti territoriali34. Di conseguenza, non è conforme al principio di
leale collaborazione una disciplina regionale che non ottemperi alla necessità di
ponderazione concertata degli interessi rilevanti nell’ambito della produzione di
energia da fonti rinnovabili35.
G) L’impossibilità da parte delle Regioni di adottare una propria disciplina in
ordine ai siti non idonei alla installazione degli impianti da fonti rinnovabili prima
dell’approvazione delle indicate linee guida nazionali rende, poi, irrilevante
l’adozione di queste ultime – avvenuta con il D.M. 10 settembre 201036 – nelle
more di un giudizio di costituzionalità37.
H) Alle Regioni non è consentito introdurre divieti all’installazione degli
impianti eolici off-shore, neanche per le opere connesse ricadenti sul territorio
regionale. Tali divieti, infatti, si pongono in contrasto con disposizioni legislative
statali operanti quali princìpi fondamentali nella materia concorrente della
«produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», e segnatamente con
l’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 387 del 2003, a tenor del quale «per gli impianti
off-shore l’autorizzazione è rilasciata dal Ministero dei trasporti, sentiti il Ministero
dello sviluppo economico e il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e
del mare, con le modalità di cui al comma 4 e previa concessione d’uso del
demanio marittimo da parte della competente autorità marittima», nonché con l’art.
1, comma 7, lett. l), della legge n. 239 del 2004, secondo cui allo Stato spetta
l’esercizio delle funzioni amministrative afferenti alla «utilizzazione del pubblico
demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità di
approvvigionamento di fonti di energia».
I) Le Regioni non possono esonerare dalla necessità del titolo abilitativo
l’installazione di alcuni tipi di impianti di generazione di energia da fonti
rinnovabili, sul presupposto che la Regione e gli enti locali siano i soggetti
responsabili degli interventi. Va infatti considerato che la titolarità dell’intervento
non toglie che nella realizzazione di un siffatto impianto, come di qualsiasi opera
pubblica, sia necessaria la compartecipazione di tutti i soggetti portatori di interessi
33
Sent. n. 282 del 2009, punto 4.1 Cons. in dir.
34
Sent. n. 282 del 2009, ibidem.
35 Cfr. sentt. n. 282 del 2009, punto 4.1 Cons. in dir., e n. 119 del 2010, punto 3.2 Cons. in dir., nonché
sent. 6 maggio 2010, n. 168, punto 4.2 Cons. in dir.
36
Recante «Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili».
37 Corte cost., sent. n. 344 del 2010, punto 2.1, in fine, Cons. in dir.; in terminis, sent. n. 67 del 2011,
punto 6.1 Cons. in dir.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
(ambientale 38, culturale, urbanistico, sanitario) coinvolti nella realizzazione
dell’opera 39. La finalità di composizione degli interessi coinvolti è perseguita dalla
previsione dell’autorizzazione unica, che, pur attribuita alla competenza regionale,
è il risultato di una conferenza di servizi, che assume, nell’intento della
semplificazione e accelerazione dell’azione amministrativa, la funzione di
coordinamento e mediazione degli interessi in gioco40 al fine di individuare,
mediante il contestuale confronto degli interessi dei soggetti che li rappresentano,
l’interesse pubblico primario e prevalente41.
L) Le Regioni non possono disporre sospensioni delle procedure
autorizzative per la realizzazione di impianti da fonti rinnovabili, laddove ciò
comporti il superamento del termine massimo di conclusione procedimentale
fissato dal legislatore statale. L’indicazione del termine di centottanta giorni per la
conclusione del procedimento in parola, contenuta nell’art. 12, comma 4, del
d.lgs. n. 387/2003, deve infatti qualificarsi quale principio fondamentale in
materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»,
vincolante, quindi, per il legislatore regionale, in quanto «tale disposizione
risulta ispirata alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità
garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro
un termine definito del procedimento autorizzativo» 42.
M) Le Regioni non possono introdurre limiti massimi autorizzabili di
potenza di energia da fonti rinnovabili. Una disciplina prevedente limiti alla
produzione di energia da tali fonti sul territorio regionale opera, infatti, «in modo
diametralmente opposto rispetto alle norme internazionali (Protocollo di Kyoto) e
comunitarie (art. 3 direttiva n. 2001/77/CE) le quali, nell’incentivare lo sviluppo
38
È noto che l’interesse ambientale, insieme ad altri interessi “sensibili” (quali, a titolo
esemplificativo, la tutela della salute, la tutela del patrimonio culturale, la difesa nazionale, la
pubblica sicurezza, etc.), è destinatario di uno speciale trattamento in ambito procedimentale.
L’inerenza di tale interesse ad un determinato procedimento ne altera, infatti, l’ordinaria
conformazione, riducendo o eliminando l’area di azione dei cc.dd. istituti di semplificazione. In
argomento, tra gli altri, G. ROSSI, Parte generale, in IDEM (a cura di), Diritto dell’ambiente,
Giappichelli, Torino, 2008, p. 85 ss.; M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. edilizia, n.
1, p. 37 ss.; A. RALLO, Funzione di tutela ambientale e procedimento amministrativo, Editoriale
Scientifica, Napoli, 2000; G. CAIA, La gestione dell’ambiente: principi di semplificazione e di
coordinamento, in S. GRASSI - M. CECCHETTI - A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, vol. I,
Olschki, Firenze 1999, p. 237 ss.
39
Così sent. n. 313 del 2010, punto 4.2 Cons. in dir.
40 Sottolinea, peraltro, l’insufficienza della conferenza di servizi, se non accompagnata da un riassetto
organizzativo del settore delle fonti rinnovabili, a realizzare l’esigenza di semplificazione del sistema,
G.M. CARUSO, La complessità organizzativa nel settore delle fonti energetiche rinnovabili, in Astridonline.it.
41
Sent. n. 313 del 2010, ibidem.
42 Sentt. n. 364/2006, punto 3 Cons. in dir., n. 282/2009, punto 6.1 Cons. in dir., e n. 124/2010, punto
2.2 Cons. in dir.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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delle suddette fonti di energia, individuano soglie minime di produzione che ogni
Stato si impegna a raggiungere entro un determinato periodo di tempo» 43. Sotto
tale profilo, si configura, quindi, una violazione dei vincoli internazionali e
comunitari di cui al primo comma dell’art. 117 Cost.
N) Le Regioni non possono costituire quote di riserva strategica, in
riferimento a fonti di energia rinnovabile, da destinare ad azioni per lo sviluppo del
tessuto industriale regionale. Una normativa regionale che disponga in tal senso,
prevedendo anche un accesso preferenziale al mercato per operatori con
partenariato del territorio regionale, è contrastante con il principio di cui all’art. 41
Cost., in quanto sottrae una quota della potenza di energia autorizzabile al libero
mercato e, nel destinarlo a determinate finalità, individua i possibili legittimati ad
ottenere la suddetta quota sulla base di requisiti del tutto atecnici44. D’altra parte, è
principio acquisito che discriminare le imprese sulla base di un elemento di
localizzazione territoriale contrasta con il principio secondo cui la Regione non può
adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle
persone e delle cose fra le Regioni, discendendo da ciò «il divieto per i legislatori
regionali di frapporre barriere di carattere protezionistico alla prestazione, nel
proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di
soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale (nonché, in base ai
principi comunitari sulla libertà di prestazione dei servizi, in qualsiasi paese
dell’Unione europea)» 45.
O) Le Regioni non possono imporre misure di compensazione patrimoniale 46
per il rilascio dell’autorizzazione unica all’installazione di impianti di produzione
di energia elettrica da fonti rinnovabili.
La legge statale, infatti, vieta tassativamente l’imposizione di corrispettivo
quale condizione per il rilascio di siffatti titoli abilitativi, tenuto conto che la
costruzione e l’esercizio di impianti da fonti rinnovabili sono libere attività
d’impresa soggette alla sola autorizzazione amministrativa della Regione, secondo
43
Sent. n. 124 del 2010, punto 3.1 Cons. in dir. In ottemperanza agli indirizzi sopra riportati l’art. 2,
comma 167, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), prevede che «Il Ministro
dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, emana, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente disposizione, uno o più decreti per definire la ripartizione fra regioni e province autonome di
Trento e di Bolzano della quota minima di incremento dell’energia prodotta con fonti rinnovabili per
raggiungere l’obiettivo del 17 per cento del consumo interno lordo entro 2020 ed i successivi
aggiornamenti proposti dall’Unione europea […]».
44
Sent. n. 124 del 2009, punto 4.2 Cons. in dir.
45
Corte cost., 26 giugno 2001, n. 207, punto 5 Cons. in dir.
46 Come chiarito dallo stesso giudice costituzionale, «per misure di compensazione s’intende, in
genere, la monetizzazione degli effetti negativi che l’impatto ambientale determina, per cui chi
propone l’istallazione di un determinato impianto s’impegna a devolvere, all’ente locale cui compete
l’autorizzazione, determinati servizi o prestazioni»: sent. n. 124/2010, punto 9.2 Cons. in dir.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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il principio fondamentale fissato dall’art. 12, comma 6, del d.lgs. n. 387 del 2003 47.
Sono, al contrario, ammessi gli accordi che contemplino misure di compensazione
e riequilibrio ambientale, nel senso che il pregiudizio subito dall’ambiente per
l’impatto del nuovo impianto, oggetto di autorizzazione, viene compensato
dall’impegno ad una riduzione delle emissioni inquinanti da parte dell’operatore
economico proponente48. Ciò in virtù dell’art. 1, comma 4, lett. f), della legge n.
239/2004, che, dopo aver posto il principio della localizzazione delle infrastrutture
energetiche in rapporto ad un adeguato equilibrio territoriale, ammette
concentrazioni territoriali di attività, impianti e infrastrutture ad elevato impatto
territoriale, prevedendo in tal caso misure di compensazione e di riequilibrio
ambientale, anche relativamente ad impianti alimentati da fonti rinnovabili49. Al
riguardo il successivo comma 5 afferma il diritto di Regioni ed enti locali di
stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di
compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di
politica energetica nazionale, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 12 del d.lgs.
n. 387 del 2003 50.
3. Alcune considerazioni finali (in prospettiva)
Dalle “massime” sopra enucleate si può agevolmente notare che la
“sanzione” di incostituzionalità delle norme regionali relative alle procedure per la
realizzazione di impianti da fonti rinnovabili discende pressoché esclusivamente
dall’accertamento di un contrasto con i principi fondamentali fissati in materia di
“energia” dalla legge dello Stato, oppure da una violazione di parametri
costituzionali non integrati da norme sulla competenza51 . Non discende mai,
invece, dall’invasione, da parte del legislatore regionale, di una materia
riconducibile, in via totalitaria o prevalente, ad una delle competenze esclusive
47
Cfr. sent. n. 282/2009, punto 7.1 Cons. in dir., e sent. n. 124 del 2010, punto 9.2 Cons. in dir.
48
Così sent. n. 124 del 2010, punto 9.2 Cons. in dir.
49 … dopo la sentenza n. 383 del 2005. Con tale decisione, infatti, la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 4, lett. f), della legge n. 239/2004 limitatamente alle parole «con
esclusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili». Quindi, per effetto di tale pronuncia è stata
estesa anche al legislatore regionale la facoltà di introdurre misure di compensazione nella disciplina
delle fonti rinnovabili di energia, peraltro a condizione che i beneficiari delle predette misure non
siano né le Regioni, né le Province eventualmente delegate.
50
Il quale, appunto, vieta che l’autorizzazione possa prevedere (o essere subordinata a)
compensazioni a favore della Regione o della Provincia delegata.
51
È questo il caso, in particolare, del parametro costituito dall’art. 41 Cost., sulla iniziativa
economica privata, in violazione del quale si pone la normativa regionale che prevede l’istituzione di
quote di riserva strategica, in relazione a fonti rinnovabili, da destinare ad iniziative per lo sviluppo
dell’industria regionale: v. la “massima” sub N) del par. 2.
117
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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statali. Soltanto in una fattispecie 52, invero, la declaratoria di incostituzionalità
delle previsioni regionali viene sancita evocandosi una clausola di attribuzione di
competenza esclusiva statale, quella in materia di «tutela dell’ambiente» ex art.
117, comma 2, lett. s), Cost., ma anche in tale fattispecie viene pur sempre rilevato
il contrasto con una norma di principio 53 (id est, principio fondamentale) della
legislazione dello Stato, che di detta competenza sarebbe espressiva 54.
In più, può osservarsi che, nella giurisprudenza costituzionale così
ricostruita in relazione all’ambito della produzione di energia da fonti rinnovabili, è
assai sullo sfondo, se non inesistente, il riferimento ad interessi unitari che possono
giustificare, in via di sussidiarietà, l’attrazione in capo allo Stato di funzioni di
competenza regionale.
Quanto sopra evidenziato consente di marcare una differenza, che
appare alquanto accentuata, tra la giurisprudenza costituzionale esaminata e quella
in tema di produzione di energia da fonti convenzionali, laddove il modello di
rapporto tra Stato e Regioni in questo ambito risulta “plasmato” attraverso un ben
più massiccio impiego di strumenti che, facendo leva sulla necessità di tutelare
interessi di ordine unitario, portano a riconoscere allo Stato un ruolo “dominante”
nella “gestione” del potere amministrativo e, al contempo, di quello legislativo
inerente l’ambito stesso.
In tema di produzione di energia da fonti convenzionali, infatti, la Corte
costituzionale, pur affermando la «prevalente riferibilità» della relativa disciplina55
alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al
52 ... quella delle discipline regionali, che, in assenza delle linee guida statali, vietano la realizzazione
di impianti da fonti rinnovabili in determinate parti del territorio regionale: v. la “massima” sub F) del
par. 2.
53
… l’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003.
54
Per completezza d’analisi, va comunque rilevata una certa “oscillazione” (o quanto meno
contraddizione), sul punto, del giudice costituzionale, il quale, pur assegnando, con carattere di
“prevalenza”, alla competenza esclusiva statale in tema di tutela dell’ambiente la disciplina per il
corretto inserimento degli impianti da fonti rinnovabili nel paesaggio, non “rinuncia” tuttavia, in
alcune decisioni, ad attribuire rilievo anche alla competenza concorrente in materia di energia (cfr.,
per esempio, sent. n. 67/2011, punto 6.1 Cons. in dir.).
55 ... e precisamente della disciplina del procedimento amministrativo finalizzato a garantire la
produzione e l’approvvigionamento dell’energia elettrica, di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7
(c.d. “sblocca-centrali”), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2002, n. 55. Per un esame
Per un esame analitico di tale normativa, si rinvia a E. PICOZZA (a cura di), Il nuovo regime
autorizzatorio degli impianti di produzione di energia elettrica, Giappichelli, Torino, 2003.
118
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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terzo comma dell’art. 117 Cost.56, ha tuttavia ritenuto, con riguardo a tale ambito di
competenza regionale, non difforme dalla Costituzione «riconoscere un ruolo
fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni
amministrative» 57, secondo l’indirizzo assunto dalla normativa statale di riordino
dell’intero settore energetico 58 e sia pure a seguito della introduzione di adeguati
meccanismi di leale collaborazione, ove ritenuti costituzionalmente necessari59.
Esigenze unitarie e ragioni di uniformità, infatti, sono ripetutamente indicati dalla
Corte come elementi giustificativi della chiamata in sussidiarietà, in capo ad organi
dello Stato, di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello
nazionale. In tale prospettiva, sono state ritenute giustificabili sul piano della
legittimità costituzionale norme in cui, per l’area appartenente alla competenza
legislativa regionale di tipo concorrente, il legislatore statale ha disposto la
“chiamata in sussidiarietà” di una buona parte delle funzioni amministrative
concernenti il settore energetico, con l’attribuzione di rilevanti responsabilità ad
organi statali e, quindi, con la parallela disciplina legislativa da parte dello Stato di
settori che di norma dovrebbero essere di competenza regionale ai sensi del terzo
56 Sent. n. 383/2005, punto 12 Cons. in dir., e, precedentemente, in senso analogo, sent. 13 gennaio
2004, n. 6, punto 6 Cons. in dir. A commento di tale decisione, con cui è stato definito il giudizio
avente ad oggetto il decreto “sblocca-centrali” e la relativa legge di conversione, v., tra gli altri, F.
BILANCIA, La riforma del titolo V della Costituzione e la «perdurante assenza di una trasformazione
delle istituzioni parlamentari», in Giur. cost., 2004, p. 137 ss.; F. DE LEONARDIS, La Consulta tra
interesse nazionale e energia elettrica, ivi, 2004, p. 145 ss.; E. PESARESI, Nel regionalismo a tendenza
duale, il difficile equilibrio tra unità ed autonomia, ivi, 2004, p. 153 ss.; O. CHESSA, Sussidiarietà ed
esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, in Le Regioni, 2004, p. 941
ss.
57
Così sent. n. 6 del 2004, punto 6 Cons. in dir.
58
Cfr. sent. n. 383 del 2005, punto 15 Cons. in dir.
59
Cfr. sent. n. 6 del 2004, punto 7 Cons. in dir., e sent. n. 383 del 2005, punto 15 Cons. in dir.
119
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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comma dell’art. 117 Cost 60. Per esempio, per quanto nello specifico rileva, la Corte
ha valutato come effettivamente sussistenti i presupposti che legittimano la
chiamata in sussidiarietà di funzioni regionali a livello statale, sulla base del
riconoscimento della preminente esigenza di evitare il pericolo di interruzione della
fornitura dell’energia elettrica a livello nazionale, attraverso una accentuata
semplificazione delle «procedure autorizzatorie necessarie alla costruzione o al
ripotenziamento di impianti di energia elettrica di particolare rilievo»61.
Inoltre, e più in generale, il riordino del settore energetico, «caratterizzato,
sul piano del modello organizzativo e gestionale, dalla attribuzione dei maggiori
poteri amministrativi ad organi statali», si giustifica poiché tali organi sono ritenuti
«gli unici a cui naturalmente non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno
nazionale di energia e quindi idonei ad operare in modo adeguato per ridurre
eventuali situazioni di gravi carenze a livello nazionale»62.
Ora, nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili, le esigenze
di carattere unitario che connotano l’ambito della produzione da fonti
60 Il riferimento è, evidentemente, al congegno allocativo delle competenze escogitato dalla Corte
costituzionale nella ormai “storica” sentenza 1° ottobre 2003, n. 303 (in materia di infrastrutture ed
insediamenti produttivi strategici). In tale decisione, la Corte ha individuato nel principio di
sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. un «meccanismo dinamico» che in determinati casi può
giustificare «una deroga alla normale ripartizione delle competenze», in forza della quale le funzioni
amministrative attratte allo Stato per soddisfare esigenze unitarie, trascinano con sé, in ossequio al
principio di legalità, anche l’esercizio della corrispondente funzione legislativa (che così sale dal
livello regionale a quello statale, a prescindere dalla rigida suddivisione nominale per materia di cui al
dettato dell’art. 117): cfr. punto 2.1 Cons. in dir. A commento della sentenza n. 303 del 2003, che,
secondo il giudizio diffuso in dottrina, ha introdotto un’innovazione di straordinario impatto sul
complessivo assetto dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, cfr., ex multis, A. ANZON,
Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in Giur.
cost., 2003, p. 2782 ss.; A. D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza
ortopedica della Corte costituzionale, ivi, 2003, p. 2776 ss.; A. MOSCARINI, Sussidiarietà e
Supremacy Clause sono davvero perfettamente equivalenti?, ivi, 2003, p. 2791 ss.; F. FRACCHIA, Dei
problemi non (completamente) risolti dalla Corte costituzionale: funzioni amministrative statali nelle
materie di competenza regionale residuale, norme statali cedevoli e metodo dell’intesa, in Foro. it.,
2004, I, p. 1014 ss.; R. FERRARA, Unità dell’ordinamento giuridico e principio di sussidiarietà: il
punto di vista della Corte costituzionale, ivi, p. 1018 ss.; S. BARTOLE, Collaborazione e sussidiarietà
nel nuovo ordine regionale, in Le Regioni, 2004, p. 578 ss.; L. VIOLINI, I confini della sussidiarietà:
potestà legislativa “concorrente”, leale collaborazione e strict scrutiny, ivi, p. 587 ss.
61
Sent. n. 6 del 2004, punto 7 Cons. in dir.
62
Sent. n. 383/2005, punto 15 Cons. in dir.
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convenzionali – oltre che altri ampi segmenti della materia energetica63 –
sembrano, nel “prisma” delle sentenze esaminate, restare, per così dire, “defilati”;
ciò, forse, anche in considerazione del carattere meno “strategico” che viene
“tradizionalmente” attribuito alle risorse energetiche rinnovabili. Non può tuttavia
escludersi – ed appare anzi molto probabile – che, in un futuro più che prossimo, il
peso strategico delle energie alternative possa aumentare considerevolmente, e ciò
non soltanto in vista della necessità di adempiere ad obblighi internazionali64 e
comunitari 65, ma anche – se non soprattutto – sulla spinta di recenti, drammatici
63 Si pensi, in particolare, ai segmenti della trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica, in
riferimento ai quali la Corte ha più volte affermato che le esigenze unitarie caratterizzanti un sistema
a rete comportano la necessità di caratteristiche tecnico-costruttive uniformi, definibili, ergo, solo a
livello centrale. In tal senso è emblematica la sentenza 17 marzo 2006, n. 103, di accoglimento delle
censure di incostituzionalità mosse dal Governo nei confronti di una norma della Regione Abruzzo,
che imponeva ai gestori delle reti elettriche «l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili sul
mercato». In tale decisione, infatti, la Corte ha osservato che nel settore della trasmissione e
distribuzione dell’energia elettrica «sussistono esigenze di unitarietà nella determinazione, tra l’altro,
dei criteri tecnici […], che non ammettono interferenze da parte delle Regioni per effetto di autonome
previsioni legislative […], le quali, imponendo ai gestori che operano a livello regionale l’utilizzo di
distinte tecnologie, eventualmente anche diverse da quelle previste dalla normativa statale, possano
produrre una elevata diversificazione della rete di distribuzione dell’energia elettrica, con notevoli
inconvenienti sul piano tecnico ed economico» (punto 9.1 del Considerato in diritto). Con la
conseguenza che «deve […] essere riconosciuto esclusivamente allo Stato, in questa materia, il
compito, tra l’altro, di prescrivere l’utilizzo di determinate tecnologie, sia al fine di assicurare la tutela
dell’ambiente e del paesaggio e di promuovere l’innovazione tecnologica e le azioni di risanamento
volte a minimizzare l’intensità e gli effetti dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sia al
fine di assicurare unitarietà ed uniformità alla rete nazionale» (ibidem).
64 In proposito, va soprattutto considerato il Protocollo di Kyoto aggiunto alla Convenzione-quadro
delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, adottato l’11 dicembre 1997. Tale accordo
internazionale (ratificato e reso esecutivo con legge 1° giugno 2002, n. 120) pone il vincolo in capo ai
Paesi industrializzati di ridurre le emissioni dei gas serra del 5,2% nel periodo 2008 – 2012 rispetto
alle emissioni del 1990 (considerato come “anno-base”), prevedendo a tal fine una serie di mezzi di
azione, tra cui, per quanto nello specifico rileva, lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili. In
argomento, cfr., di recente, R.B. STEWART - J.B. WIENER, Reconstructing Climate Policy: Beyond
Kyoto, American Enterprise Institute Press, Washington, 2003; G. CARPANI - M. CECCHETTI - T.
GROPPI - A. SINISCALCHI - M. CARLI, Governance ambientale e politiche normative. L’attuazione del
Protocollo di Kyoto, Il Mulino, Bologna, 2008; M. MONTINI, Il Protocollo di Kyoto e il Clean
development mechanism: aspetti giuridici e istituzionali, Giuffrè, Milano, 2008.
65 Al riguardo, assume rilievo primario il c.d. “pacchetto clima-energia”, approvato dal Parlamento
europeo il 17 dicembre 2008 e pubblicato nella G.U.U.E. L 140 del 5 giugno 2009. Il pacchetto,
anche noto come “20-20-20” e composto da un regolamento, quattro direttive – tra cui la direttiva
2009/29/CE – e una decisione, individua un complesso di strumenti finalizzati a conseguire gli
obiettivi che l’Unione europea si è posta per il 2020: ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto
serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili. In
argomento, cfr., amplius, D. CALDIROLA, Energia, clima e generazioni future, in Amministrare, 2009,
p. 281 ss., e B. POZZO, Le politiche comunitarie in campo energetico, in B. POZZO (a cura di), Le
politiche energetiche comunitarie, cit., p. 64 ss.
121
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
accadimenti66, i quali ultimi, (ri)portando in primo piano i problemi e i rischi legati
alla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili in genere 67, nonché
all’impiego dell’energia atomica per usi civili68 , rendono certamente assai più
pressante la necessità di realizzare un’alternativa, appunto, “valida” e
“sostenibile”69 alle fonti convenzionali. In questa (attuale e urgente) prospettiva,
può non sembrare del tutto irrealistico ipotizzare che la Corte costituzionale possa
“ri-calibrare” la propria giurisprudenza70, applicando in modo molto più esteso al
campo delle fonti rinnovabili (recte: alternative) il ricco “instrumentario” 71 da essa
66 Ci si riferisce, con ogni evidenza, alla “crisi libica”, iniziata nel febbraio 2011 e di poco preceduta
da vasti rivolgimenti politico-sociali in altri Paesi del Nord-Africa, nonché all’incidente occorso alla
centrale nucleare di Fukushima Daiichi, in conseguenza del devastante terremoto, accompagnato da
tsunami, che ha colpito la costa nord-orientale del Giappone nel marzo 2011. Gli effetti “dissuasivi”
di tale incidente nucleare non hanno tardato a farsi avvertire anche a livello di legislative public
opinion, sino a condurre nel nostro Paese – che, con la recente definizione, nel decreto legislativo 15
febbraio 2010, n. 31, di una disciplina organica del processo di produzione dell’energia
elettronucleare, si era inoltrato alquanto sulla strada del ritorno all’energia atomica – all’adozione di
una “moratoria” sul nucleare. Il riferimento è all’art. 5 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, il
quale, al dichiarato scopo di «acquisire ulteriori evidenze scientifiche sui parametri di sicurezza» in
relazione alla localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di
produzione di energia nucleare, sospende, per un anno dall’entrata in vigore del d.l. medesimo,
l’efficacia delle pertinenti disposizioni del sopra citato d.lgs. n. 31/2010. Per un commento alla nuova
disciplina legislativa della “materia nucleare”, cfr. L. AMMANNATI - M. DE FOCATIIS, Un nuovo diritto
per il nucleare. Una prima lettura del d. lgs. 31/2010, in Astrid-online.it, nonché G. NAPOLITANO - A.
ZOPPINI (a cura di), Annuario di Diritto dell’energia 2011. Il diritto dell’energia nucleare, ed ivi, in
particolare, i contributi di G. MORBIDELLI, L’iter autorizzatorio, p. 121 ss., M. CLARICH, Gli
strumenti di accelerazione delle procedure, p. 149 ss., M. D’ALBERTI, La localizzazione degli
impianti nucleari: il difficile percorso per decidere, p. 167 ss., A. POLICE, L’informazione dei
cittadini, p. 175 ss.
67
… sul piano della c.d. “vulnerabilità energetica”.
68
… sul piano della salute e dell’ambiente.
69 Sul punto cfr. B.L. BOSCHETTI, Il governo dell’incertezza nella politica energetica: l’energia tra
innovazione e sostenibilità ambientale, in Amministrare, 2009, p., 257 ss., e F. VETRÒ, Sviluppo
sostenibile e problemi dell’energia, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di Maria Luisa
Bassi. Sulla più generale tematica dello “sviluppo sostenibile”, si rinvia all’ampia trattazione di F.
FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela
della specie umana, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010.
70 … soprattutto a fronte di una legislazione statale più pervasiva nell’ambito della produzione da
fonti rinnovabili.
71
… in particolare, “chiamata in sussidiarietà”, materie “trasversali”, “criterio di prevalenza”,
“segmentazione” degli ambiti materiali.
122
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
elaborato per la salvaguardia degli interessi nazionali unitari che
contraddistinguono il settore energetico 72.
Antonio Colavecchio - Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di
impianti da fonti rinnovabili.
Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale (dopo quattro analoghe
pronunce), torna a dichiarare l’incostituzionalità di una legge regionale che
estendeva il regime semplificato della DIA anche agli impianti di produzione di
energia da fonti rinnovabili, per i quali invece il legislatore nazionale richiede
l’autorizzazione unica. L’Autore, prendendo le mosse da questa pronuncia,
ripercorre la consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di impianti
alimentati da fonti rinnovabili. L’incostituzionalità deriva prevalentemente dal
contrasto di leggi regionali con i principi fondamentali fissati dallo Stato in materia
di energia, materia oggetto di competenza concorrente. Più raramente
l’incostituzionalità discende dall’invasione da parte del legislatore regionale della
sfera di competenza esclusiva dello Stato, come nel caso dell’individuazione dei
siti non idonei all’installazione degli impianti (rientrante nella competenza statale
in materia di tutela dell’ambiente), inibita alle Regioni nelle more dell’emanazione
delle linee guida nazionali. Si evidenziano infine le differenze tra la giurisprudenza
costituzionale in materia di fonti rinnovabili e quella in materia di fonti
convenzionali, laddove soltanto nel secondo caso l’esigenza di tutelare interessi
unitari giustifica la frequente attrazione in capo allo Stato di funzioni regionali, in
via di sussidiarietà. Il crescente peso delle energie rinnovabili indurrà
probabilmente in futuro la Corte Costituzionale ad applicare anche in questo settore
il ricco “in strumentario” da essa elaborato a salvaguardia degli interessi nazionali
unitari che contraddistinguono il settore energetico tradizionale.
-------------------------------------------------------------------------------------------By the examined decision the Constitutional Court (after four similar decisions),
states that regional law doesn’t comply with national law when it extends the
simplified rule of DIA to renewable energy installations for whom the State
provides a single license. The analyzed sentence provides for an effort to
summarize the jurisprudential objectives previously achieved about renewable
energy installations. The unconstitutional statement comes from the collision
between regional law and national principles in the energy field, which is under a
joint competence. Rarely the unconstitutional statement comes from the collision
between regional law and national law on subjects that are under exclusive State
competence, such as in case of the identification of places that cannot hold any
72
In argomento sia consentito il rinvio a A. COLAVECCHIO, Il nuovo (?) riparto di competenze StatoRegioni nella materia “energia”, in D. FLORENZANO - S. MANICA, Il governo dell’energia tra Stato e
Regioni, Ed. Università di Trento, Trento, 2009, p. 20 ss.
123
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
renewable energy installation. Lastly, the Author deals with the differences
between constitutional jurisprudence about renewable energy and about traditional
one. Even if only about traditional energy the need to defend the only national
interest involves that regional competences come to the national level, the growing
importance of renewable energy will bring to the same conclusions for those
sources too.
124
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Ordinanza Tar Roma, 25 febbraio 2011 n. 740
Segue nota di Enrica Blasi
Il divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili: insidie e
prospettive della riforma
Testo dell’ordinanza:
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 874 del 2011, proposto da: U., D.,
Soc. di L.P., Soc. L.P., Soc. S.M., in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t.,
rappresentati e difesi dagli avv. ti L.B., F.P. e S.G., con domicilio eletto presso lo
studio di quest’ultimo in ..;
contro
il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il
Ministero dello Sviluppo Economico, il Ministero delle Politiche Agricole
Alimentari e Forestali, in persona dei rispettivi Ministri p. t., rappresentati e difesi
dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui sono domiciliati per legge in
Roma, via dei Portoghesi, 12;
e con l'intervento di
ad opponendum, Associazione L.O., in persona del legale rappresentante p.
t., rappresentata e difesa dagli avv. ti M.F. e M.I., con domicilio eletto presso lo
studio della prima in ...;
per l'annullamento,
previa sospensione dell'efficacia,
- della nota del 30 dicembre 2010 del Ministero dell’ambiente e della tutela
del territorio e del mare recante precisazioni in merito al divieto di
commercializzazione delle buste di plastica in vigore dal 01 gennaio 2011;
- del provvedimento, reso noto con comunicato stampa pubblicato sul sito
istituzionale del Ministero dello sviluppo economico il 30 dicembre 2010;
di ogni altro atto o provvedimento, anche non conosciuti, ivi compresa
l’ulteriore prescrizione resa nota dal Ministero dello sviluppo economico, a mezzo
proprio addetto stampa, il 3 gennaio 2011 con cui si precisa che “Forma,
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dimensioni e spessore non contano, il bando all’utilizzo di buste e sacchetti vale
per tutte le categorie”;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato
in difesa delle Amministrazioni centrali intimate;
Visto l’atto di intervento ad opponendum di L.O.;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento
impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2011 il Cons.
Donatella Scala e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
CONSIDERATO che, ai sensi del combinato disposto dei commi 1129 e
1130 dell’art. 1, commi della legge n. 296/2006, sin dal 2007 è stato avviato il
programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione della
commercializzazione di sacchi per l'asporto delle merci che, secondo i criteri fissati
dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello
comunitario, non risultino biodegradabili, ed è stato individuato, decorrere dal 1°
gennaio 2011, il definitivo divieto della detta commercializzazione di sacchi non
biodegradabili per l'asporto delle merci che non rispondano entro tale data, ai
criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a
livello comunitario;
RILEVATO che le note impugnate hanno consistenza di meri comunicati con
valenza ricognitiva della decorrenza del divieto di commercializzazione previsto
inequivocabilmente dalla legge;
RITENUTO, pertanto, che non sussistono i presupposti per accordare la
chiesta misura cautelare, anche in considerazione del fatto che all’applicazione
della norma non sono connesse sanzioni per il caso della violazione e che il danno
lamentato ha consistenza meramente patrimoniale, come tale suscettibile di
integrale ristoro nella opportuna sede del merito;
124
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
RITENUTO di compensare le spese di lite in tale fase, attesa la peculiarità
della fattispecie trattata;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione Terza Ter RESPINGE l’istanza cautelare citata in premessa.
Compensa le spese della presente fase cautelare.
La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata
presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
125
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Enrica Blasi*
Il divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili: insidie
e prospettive della riforma
Sommario - 1. Premessa. – 2. L’iter normativo: il ruolo del programma
sperimentale. – 3. La nuova disciplina sugli shoppers e la libera circolazione degli
imballaggi. – 4. Segue: La nuova disciplina sugli shoppers, gli obiettivi di
riduzione delle emissioni atmosferiche e la gestione dei rifiuti. – 5. Omessa notifica
alla Commissione europea: i confini incerti della regola tecnica. 6. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Con l’ordinanza in commento, il giudice amministrativo si è pronunciato sul
divieto, recentemente introdotto, di commercializzazione dei sacchi non
biodegradabili per l’asporto delle merci1 , fornendone alcune importanti chiavi di
lettura2. Sebbene l’ordinanza sembri preludere ad una pronuncia di irricevibilità per
la non impugnabilità degli atti, di cui si afferma la «consistenza di meri comunicati
*Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo, Università degli Studi di Roma Tre.
1 Con i termini (equivalenti) di sacchi per l’asporto delle merci, shoppers, sacchetti con manici, si fa
riferimento alle comuni buste consegnate al consumatore, gratuitamente o a titolo oneroso, in
qualsiasi negozio o supermercato per riporvi le merci acquistate e trasportarle più agevolmente nel
luogo di consumo. Fino al 1° gennaio 2011, data di entrata in vigore dei commi 1129 e 1130, dell’art.
1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, queste buste erano prevalentemente di plastica, ferma
restando la possibilità, a scelta dei singoli distributori finali, di commercializzare anche buste di carta,
di tela o di materiali bioplastici. Con l’entrata in vigore di nuove previsioni di legge, come si dirà nel
corpo del presente lavoro, si è vietata la commercializzazione delle buste di plastica, permettendo
solo la distribuzione, peraltro gratuita, delle scorte residue ed imponendo per il resto l’utilizzo di
buste in materiali biodegradabili.
2
Occorre precisare che nel corso della stesura della presente nota si è conclusa la fase cautelare del
giudizio in esame, giunta dinanzi al Consiglio di Stato a seguito dell’impugnazione dell’ordinanza in
commento. I giudici di Palazzo Spada, con l’ordinanza n. 1714 del 18 aprile 2011, si sono allineati
alla posizione del TAR, affermando l’assoluta irrilevanza della mancata approvazione del programma
sperimentale ai fini dell’entrata in vigore del divieto di commercializzazione delle buste non
biodegradabili, il quale ultimo è quindi definitivamente operante dal 1° gennaio 2011.
126
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
con valenza ricognitiva della legge»3, essa non si limita all’esame dei soli profili di
rito, lasciando intravedere l’intenzione del giudice amministrativo di spingersi fino
ad una valutazione del merito della vicenda, e cogliere dunque l’occasione offerta
dal caso di specie per chiarire alcuni profili di incertezza generati dalla recente
riforma.
Il divieto di commercializzazione delle buste non biodegradabili, che era
stato inserito nell’art. 1, commi 1129 e 1130, della finanziaria per il 2007 (legge 27
3 Oggetto del ricorso promosso da Unionplast (ovvero l’associazione di categoria delle industrie
trasformatrici delle materie plastiche) sono due comunicati stampa riferibili rispettivamente al
Ministero dello sviluppo economico e al Ministero dell’ambiente, ed una terza comunicazione
dell’addetto stampa del Ministero dello sviluppo economico comparsa su un sito di informazione
(www.ecodallecitta.it), con i quali, a parere della ricorrente, i dicasteri avrebbero conferito specificità
al dettato normativo, dettandone le modalità applicative, e configurandosi in questo modo come
provvedimenti in grado di incidere su specifiche situazioni giuridiche soggettive. Al contrario, i
giudici del TAR sembrano ravvisare nelle note impugnate una natura meramente ricognitiva del
divieto di fonte legislativa, nella misura in cui ritengono che «le note impugnate hanno consistenza di
meri comunicati con valenza ricognitiva della decorrenza del divieto di commercializzazione previsto
inequivocabilmente dalla legge».
Sul carattere non provvedimentale dei comunicati stampa impugnati molto vi sarebbe da dire, con
riferimento anche alle più ampie tematiche della natura ed impugnabilità dei provvedimenti
amministrativi; tuttavia il tenore del presente lavoro non consente di soffermarsi su tali questioni.
Basti qui ricordare che il provvedimento amministrativo, per come è stato inteso dalla migliore
dottrina, costituisce la manifestazione doverosa di un potere pubblico volto al soddisfacimento di
quegli interessi cui è preposta, per legge, l’amministrazione che lo emana. Nel caso di specie, il
contenuto meramente reiterativo del dettato normativo proprio dei due comunicati stampa, sembra
renderli del tutto avulsi da qualsiasi forma di esercizio autoritativo del potere. La letteratura giuridica
relativa alla tematica del provvedimento amministrativo è copiosa. Si ricordino, tra i molti illustri
autori, M.S. GIANNINI, voce Atto amministrativo, in Enc. dir.; M.S. GIANNINI, Lezioni di diritto
amministrativo, Giuffrè, Milano, 1950; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I, Giuffrè,
Milano, 1954; R. ALESSI, Spunti ricostruttivi per la teoria dell’atto amministrativo, in Jus, 1941, p.
385. Per una ricostruzione del concetto si veda G. ROSSI, Principi di diritto amministrativo,
Giappichelli, Torino, 2010, p. 321 ss..
127
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dicembre 2006, n. 296), 4 è entrato in vigore il 1° gennaio 2011, riscuotendo
un’osservanza pressoché univoca da parte di tutti gli operatori della grande, media
e piccola distribuzione.
Si tratta di una riforma che, pur non annoverando precedenti dello stesso
tenore e rigore nel panorama europeo 5, non può dirsi isolata nel contesto globale.
Numerosi paesi extra-europei hanno da tempo vietato nel loro territorio la
distribuzione e la commercializzazione di buste non biodegradabili, ed altri hanno
imposto specifiche misure fiscali sulle stesse.6
I vari interventi normativi sono stati inoltre preceduti e supportati da
approfonditi studi scientifici condotti da organismi internazionali e istituti di
ricerca, pubblici e privati, i quali hanno rivelato la forte incidenza negativa causata
4
Si riporta qui, per chiarezza espositiva, il testo dei due commi del primo articolo della legge 27
dicembre 2006, n. 296, rinviando per un approfondimento sulla stessa ai paragrafi successivi del
presente lavoro. Il comma 1129, dell’art. 1, della l. n. 27 dicembre 2006, n. 296 prevede che: «Ai fini
della riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, del rafforzamento della protezione
ambientale e del sostegno alle filiere agro-industriali nel campo dei biomateriali, è avviato, a partire
dal 2007, un programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione della
commercializzazione di sacchi per l’asporto delle merci che, secondo i criteri fissati dalla normativa
comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario non risultano biodegradabili». Il
successivo comma 1130 dispone altresì che: «Il programma di cui al comma 1129, definito con
decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, da
adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge previo parere
delle competenti Commissioni parlamentari, è finalizzato ad individuare le misure da introdurre
progressivamente nell’ordinamento interno al fine di giungere al definitivo divieto, a decorrere dal 1°
gennaio 2011, della commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l’asporto delle merci che
non rispondano entro tale data, ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche
approvate a livello comunitario».
5
Come si spiegherà più avanti, la disciplina italiana, recando il totale divieto di commercializzazione
delle sporte di plastica, ne comporta il definitivo bando dal mercato nazionale. In Europa invece, gli
unici sei stati che hanno adottato iniziative normative in questo settore (Belgio, Danimarca,
Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Romania), lo hanno fatto soltanto in modo indiretto attraverso misure
di tassazione.
6
Ad oggi sono diciassette i Paesi che hanno vietato la commercializzazione delle buste di plastica
(Bangladesh, Bhutan, Botswana, Brasile, Cina, Eritrea, Kenya, Macedonia, Papua Nuova Guinea,
Ruanda, Somalia, Somaliland, Sud Africa, Taiwan, Tanzania, Togo, Uganda). Ad essi si affiancano
città ed enti locali che hanno provveduto in maniera analoga sul territorio di loro competenza (si
tratta, ad esempio, di Alaska, California, Hawaii, North Carolina, San Francisco, Buenos Aires, Città
del Messico, Parigi, Corsica, Australian Capital Territory, Northern Territory, Delhi, Quebec, ecc.). A
questi si aggiungono gli Stati, le città e le regioni autonome che, pur non avendo previsto la messa al
bando totale degli shoppers non biodegradabili, li hanno sottoposti a forme di tassazione al fine di
disincentivarne l’uso (solo a titolo esemplificativo si ricordino Hong Kong, Seattle, Toronto,
Washington, Andalucia, Cantabria ecc).
128
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dalla produzione e dalla dispersione delle buste di plastica non biodegradabile, con
riferimento a tutte le matrici ambientali, alla fauna e alla salute dell’uomo. 7
Dai risultati scientifici è emerso che il nostro paese è esposto al problema
sotto un duplice profilo: dal punto di vista geografico, poiché è situato al centro del
Mar Mediterraneo, il cui tasso di inquinamento da plastica è particolarmente
elevato, e da un punto di vista sociologico, poiché consolidate abitudini di
7
Le attività di ricerca scientifica è promossa da tempo dalle Nazioni Unite, nell’ambito dell’UnepUnited Nations Environmental Program ed è volta a valutare i fattori di rischio connessi
all’immissione sul mercato delle buste di plastica non biodegradabile. Ne sono derivati una serie di
importanti studi, molti dei quali hanno peraltro costituito il fondamento scientifico di normative
analoghe a quella italiana, adottate da paesi non europei (in particolare il Kenya e l’Australia). Per un
approfondimento dei risultati scientifici si vedano: UNEP, Unep Year Book, Emerging Issues in our
global environment, 2011; UNEP Marine Litter: A Global Challenge, 2009, entrambi disponibili sul
sito ufficiale www.unep.org; UNEP, Selection, design and implementation of economic instruments in
the solid waste management sector in Kenya – the case of plastic bags, 2005; Dipartimento per
l’Ambiente del Governo Australiano, Platic Shopping Bags – Analysis of Levis and Environmental
Impact – Final report, 2002; Ecobilan PwC in collaborazione con Agence de Environment et de la
Maitrise de l’Energie, Evaluation des impacts environmentaux des sacs de caisse Carrefour (Analyse
du cycle de vie de sacs de caisse en plastique, papier et materiau biodegradable, 2005, studio
realizzato su incarico della società Carrefour. Questi studi hanno rilevato che le buste di plastica
costituiscono la seconda fonte di inquinamento dei mari per gravità, comportando non solo
immaginabili conseguenze in termini di alterazione del paesaggio, ma anche e soprattutto gravissimi
rischi per la fauna e dunque per l’equilibrio della biodiversità e degli ecosistemi marini. Molti
animali, infatti, confondendo le buste con possibili prede (soprattutto gli animali che si cibano di
plancton e di meduse), le ingeriscono rimanendone soffocati.
In Italia, Legambiente e le Agenzie Regionali per l’Ambiente si sono impegnati nell’attività di analisi,
producendo recenti studi sull’impatto ambientale delle buste di plastica non biodegradabile, nonché
sull’analisi del loro ciclo di vita. Si possono a tal proposito ricordare: Il ciclo di vita del sacchetto per
la spesa, studio pubblicato nell’agosto 2010 da Legambiente; L’impatto della plastica e dei sacchetti
sull’ambiente marino, studio redatto da Arpa Emilia Romagna, Arpa Toscana e la struttura
oceanografica Daphne II, e pubblicato il 9 marzo 2011.
Tra i contributi che offrono un’analisi economica della questione, si possono citare: AA.VV, Study on
the ban of plastic bags in China, in Journal of Sustainable Development, 2009; SHEILA KILLIAN,
Revenue Services and Environmental Taxes: a Comparative Study of the Irish and South African
Approaches to a Levy on Plastic Bags, in Social Science Research Network, 2005; F. CONVERY, S.
MCDONNELL, S. FERREIRA, The most popular tax in Europe? Lessons from the Irish plastic bags
levy, working paper 2007, University College of Dublin.
129
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
consumo hanno collocato l’Italia in vetta alla classifica dei paesi europei per
utilizzo dei sacchetti di plastica usa e getta.8
Le evidenze scientifiche sono alla base di un percorso evolutivo che ha
inciso in primo luogo sulla sensibilità e sulle abitudini degli individui, per poi
manifestarsi a livello normativo. Non deve dunque sorprendere l’iniziativa del
nostro legislatore, la quale tuttavia, per le sue numerose criticità formali, non ha
mancato di generare problemi ed incertezze interpretative. L’intera vicenda è stata
peraltro accompagnata da un acceso dibattito mediatico, sia in considerazione del
fatto che il divieto rappresenta l’ennesimo episodio di conflittualità tra interessi
economico-produttivi e interessi ambientali, entrambi essenziali per la collettività,
sia perché esso non coinvolge solo i settori produttivi, ma ogni singolo individuo in
qualità di consumatore, avendo ad oggetto un bene di uso quotidiano. Come spesso
avviene, anche in questo caso l’incertezza normativa ha alimentato il contenzioso
giudiziario 9, che nella specie ha avuto come protagonisti da un lato l’Associazione
8
Alcuni studi rivelano che in Italia si registra il più alto consumo annuale di imballaggi procapite di
tutta Europa: circa 137 Kg per abitante contro la media europea di 74 Kg. Il 25% dei sacchetti di
plastica prodotti in Europa sono utilizzati in Italia. Si tratta di circa 300 sacchetti di plastica a testa,
per un totale di 20 miliardi di buste distribuite ogni anno nel nostro paese. Esse corrisponderebbero al
consumo di 27 milioni di barili di petrolio ogni anno. Per un approfondimento sul tema si vedano le
premesse al Protocollo d’intesa per il divieto di erogazione dei sacchetti non biodegradabili per
l’asporto delle merci e degli alimenti, stipulato il 23 dicembre 2010 tra il Comune di Venezia e le
associazioni dei consumatori presenti sul territorio comunale; la delibera del Consiglio Comunale di
Torino del 5 luglio 2010, prot. n. 1476/048, con cui si è disposto il divieto di distribuzione di buste
non biodegradabili ai consumatori; nonchè i due dossier Il ciclo di vita del sacchetto per la spesa e
Cosa accade nel mondo?, redatti da Legambiente Onlus nell’agosto 2010, reperibili sul sito
www.viviconstile.org. Inoltre non va dimenticato che il nostro paese, circondato dal mare, subisce più
di altri le conseguenze gravissime in termini di inquinamento ambientale e alterazione degli habitat
faunistici marini, derivanti dalla dispersione di rifiuti di plastica, in particolare delle buste. Per
approfondimenti si rinvia allo studio L’impatto della plastica e dei sacchetti sull’ambiente marino,
redatto da Arpa Emilia Romagna, Arpa Toscana e la struttura oceanografica Daphe II, e pubblicato in
data 9 marzo 2011. I problemi arrecati alla fauna marina, incidendo sulla catena alimentare, non
possono non ripercuotersi anche sulla salute dell’uomo.
9
Per uno sguardo più ampio al problema dell’inflazione normativa e dell’incertezza normativa tipica
del nostro ordinamento giuridico, e sui costi, le inefficienze e l’incremento del contenzioso che ne
deriva si vedano: A. NATALINI, G. TIBERI (a cura di), La tela di Penelope. Primo rapporto Astrid sulla
semplificazione legislativa e burocratica, Il Mulino, Bologna, 2010; S. ROSSI, Controtempo. L’Italia
nella crisi mondiale, Laterza, Bari, 2009; Camera dei deputati, Osservatorio sulla legislazione,
Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Roma 2010.
Per uno sguardo specifico alla complessità normativa in materia ambientale si vedano: M. RENNA,
Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. edilizia, 2008, I, p. 37; M. RENNA, Le semplificazioni
amministrative (nel decreto legislativo n. 1252 del 2006), in Riv. giur. amb., 2009, 5, p. 649; M.
RENNA, Funzioni e organizzazione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino
2008.
130
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
rappresentativa della filiera produttiva della plastica (Unionplast), 10 dall’altro i
Ministeri coinvolti dall’iniziativa legislativa (il Ministero dell’ambiente, il
Ministero dello sviluppo economico e il Ministero delle politiche agricole e
forestali), sostenuti nelle loro ragioni dall’intervento di Legambiente.
La vicenda in esame, infatti, pur prendendo le mosse dall’impugnazione di
due atti ministeriali, si è fin da subito mostrata un’ottima occasione per il giudice
amministrativo per fare chiarezza sui profili essenziali del nuovo assetto
normativo, sciogliendone, per quanto possibile, i nodi problematici.
La questione, oltre che di grande attualità e rilevanza pratica, è interessante
dal punto di vista teorico, poiché rispecchia alcune delle principali criticità che
affliggono il settore ambientale, come il rapporto tra la potestà normativa nazionale
e i vincoli derivanti dal diritto europeo, e fa intravedere il profilarsi di nuovi
equilibri tra ambiente e mercato nel settore preso in considerazione.
2. L’iter normativo: il ruolo del programma sperimentale.
L’operatività del divieto di commercializzazione dei cc.dd. shoppers non
biodegradabili, formalizzato in legge fin dal 2006, era inizialmente prevista a
decorrere dal 1° gennaio 2010, ovvero tre anni dopo l’iniziale manifestazione della
voluntas legis. Durante tale periodo, per espressa previsione normativa, si sarebbe
dovuto svolgere un programma sperimentale, da adottare con decreto
ministeriale11, volto a consentire un graduale adeguamento del mercato all’entrata
in vigore del divieto12. Successivamente, l’iniziale termine di vigenza veniva
prorogato al 1° gennaio 2011 13, data in cui il divieto di commercializzazione degli
shoppers in plastica non biodegradabile è definitivamente entrato in vigore.
Durante questo periodo, tuttavia, il previsto programma sperimentale non è
mai stato attuato, in quanto il decreto ministeriale che avrebbe dovuto recarne i
tratti essenziali non è stato adottato.
10 Unionplast fa parte della Federazione Nazionale fra le Industrie della Gomma, Cavi Elettrici ed
Affini e delle Industrie Trasformatrici di Materie Plastiche ed Affini, costituita il 21 luglio 2005, e
aderente a Confindustria. Insieme ad Assogomma, Unionplast è una delle due associazioni costituite
all’interno della federazione, rappresentative rispettivamente dei settori della produzione di manufatti
in gomma e di manufatti in materie plastiche ed affini.
11 Il comma 1130, dell’art. 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 demandava la predisposizione del
programma sperimentale ad un decreto concertato, da emanare entro centoventi giorni dall’entrata in
vigore della legge, di competenza del Ministro dello sviluppo economico, in concerto con il Ministero
dell’ambiente ed il Ministero delle politiche agricole e forestali.
12 Ai sensi del comma 1130 dell’art. della Finanziaria per il 2007 il programma era finalizzato ad
«individuare le misure da introdurre progressivamente nell’ordinamento interno al fine di giungere al
definitivo divieto».
13
Cfr. art. 23, comma 21 novies del d.l. 1° luglio 2009, n. 78 (convertito con modificazioni in legge 3
agosto 2009, n. 102).
131
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Il primo profilo di indagine riguarda dunque i rapporti tra il programma
sperimentale ed il divieto di fonte legislativa, al fine di comprendere quali siano le
conseguenze della mancata adozione del primo.
Una delle possibili ricostruzioni, quella proposta dalla ricorrente Unionplast,
ravvisa nella mancata adozione del decreto ministeriale un ineliminabile ostacolo
all’entrata in vigore del divieto, ritenendo quest’ultimo cronologicamente e
logicamente subordinato all’emanazione del programma sperimentale e dunque
vanificato dall’assenza di esso. Ciò in quanto il medesimo programma avrebbe
dovuto orientare la fase transitoria, volta a raccogliere le informazioni necessarie
per dare concretezza operativa ad un dettato normativo volutamente generico.14
Facendo riferimento alla norma, l’aver espressamente disposto, al comma
1130, che il programma sperimentale sia «finalizzato ad individuare le misure da
introdurre progressivamente nell’ordinamento interno al fine di giungere al
definitivo divieto, a decorrere dal 1° gennaio 2011, della commercializzazione dei
sacchi non biodegradabili per l’asporto delle merci» rivelerebbe, sviluppando
l’argomentazione della ricorrente, l’esistenza di un nesso di rigida consequenzialità
tra il programma e l’entrata in vigore del divieto.
Di diverso avviso si è invece mostrato il TAR, il quale ha affermato che il
divieto è «definitivo» dal 1° gennaio 2011, ed è «previsto inequivocabilmente dalla
legge» 15. L’interpretazione posta a sostegno di tali statuizioni appare, in vero,
coerente sia con il tenore letterale, che con la ratio della legge, e dunque
condivisibile.
La lettera della norma sembra rivelare che il legislatore ha inteso perseguire
una duplice finalità: quella, fondamentale, di eliminare dal commercio i sacchetti
non biodegradabili, e quella, strumentale alla prima, di consentire al mercato un
adeguamento graduale alla riforma. Ed infatti la norma prevede allo stesso tempo
che «ai fini della riduzione delle emissioni… è avviato un programma
sperimentale….» (comma 1129), e che «il programma è finalizzato….a giungere al
definitivo divieto a decorrere dal 1° gennaio 2011 della commercializzazione dei
sacchi non biodegradabili» (comma 1130).
Le due previsioni sono rivolte a diversi destinatari: la prima, comportando
un’attività autoritativa (ovvero l’adozione del programma sperimentale) è
indirizzata alla pubblica amministrazione, la seconda, trattandosi di un divieto di
commercializzazione di beni di ampio consumo, riguarda la generalità dei
consociati ed è dunque immediatamente esecutiva. Tra le due disposizioni non pare
14
Aderendo a questa impostazione, la fase di sperimentazione avrebbe avuto lo scopo,
presumibilmente, di permettere una valutazione ex ante dell’impatto dell’entrata in vigore del divieto
sui singoli segmenti di mercato coinvolti, e di orientare dunque, attraverso successive specificazioni,
la portata normativa del divieto.
15
In tal senso anche l’ordinanza del Consiglio di Stato, sopravvenuta in fase di scrittura della presente
nota, conclusiva in appello della fase cautelare, afferma che «la perentorietà del termine indicato
dall’art. 1, co. 1130, legge 26 dicembre 2006, n. 296» è tale da non far dubitare che il divieto operi
«definitivamente e automaticamente».
132
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
sussistere alcun rapporto di subordinazione reciproca, ma semplicemente una
diversa collocazione temporale di quanto ciascuna dispone.
Dalla ratio della norma emerge altresì che l’obiettivo perseguito dal
legislatore non è, evidentemente, la realizzazione di un programma sperimentale,
ma la tutela dell’ambiente attraverso l’eliminazione dal mercato delle buste non
biodegradabili. Nell’economia complessiva della riforma il programma
sperimentale svolge un ruolo preparatorio e strumentale rispetto all’entrata in
vigore divieto, senza tuttavia costituirne presupposto essenziale.
Del resto a voler ritenere il contrario, due sarebbero le possibili
interpretazioni della norma in esame.
Da un lato potrebbe ritenersi che il mancato esercizio di un potere
amministrativo (quello di emanare il decreto ministeriale recante il programma
sperimentale) abbia avuto l’effetto di vanificare una previsione legislativa.
Dall’altro sembrerebbe che il potere legislativo non si sia esaurito con
l’emanazione delle disposizioni in esame, ma che il rinvio al decreto ministeriale
sia stato dettato dall’esigenza di dare specificità ad un dettato normativo
generico16 , conferendo così al programma sperimentale il carattere
dell’innovatività, ovvero la forza tipica della legge di modificare «il sistema
costituito dal complesso degli atti aventi forza di legge». 17
Entrambe le ipotesi risultano chiaramente in contrasto con il principio di
legalità.
E dunque sembra opportuno concordare con il Tribunale amministrativo
nella misura in cui questo ha ritenuto che l’adozione del programma non sia stata
concepita come “condizione” per l’adozione del divieto, dal momento che in
quest’ultima ipotesi sarebbe stata necessaria un’espressa previsione di legge.
Il far discendere la vigenza del divieto dalla necessaria emanazione di un
programma sperimentale non consentirebbe inoltre di considerare che durante il
periodo transitorio intercorrente tra il 2007 (in cui i due commi recanti il divieto
sono entrati in vigore) e il 2011 (termine di decorrenza del divieto), gli operatori
economici coinvolti avrebbero potuto orientare diversamente le proprie politiche
aziendali, ad esempio mediante la conversione e l’adattamento dei propri sistemi
produttivi, oppure localizzando all’estero il proprio mercato di riferimento,
indipendentemente dall’esistenza di un programma sperimentale, ciò a conferma
del carattere non essenziale dello stesso.
16 Taluni autori hanno definito con i termini di “fuga dal regolamento” il fenomeno del rinvio operato
da fonti di rango legislativo a favore di decreti ministeriali di natura non regolamentare, al fine di
fornire concretezza a disposizioni normative dal tenore generico. Parte della dottrina ha peraltro
rilevato la censurabilità delle disposizioni legislative contenenti tali forme di rinvio, sotto il profilo
dell’eccesso di potere. Sul punto v. G. TARLI BARBIERI, Il potere regolamentare del Governo
(1996-2006), in Osservatorio sulle fonti, 2006, p. 183 ss.; G. TARLI BARBIERI, voce Regolamenti
governativi e ministeriali, in Enc. giur. del Sole 24 ore, Bergamo, 2007, p. 206 ss..
17
A. M. SANDULLI, Legge. Forza di legge. Valore di legge, in Riv. trim. dir. pubb., 1957, p. 269.
133
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Da ultimo va ricordato che a livello locale molti comuni, nell’ambito della
propria autonomia, hanno adottato previsioni analoghe a quella di legge per i
territori di loro competenza18 già prima dell’entrata in vigore del divieto, rivelando
così l’esistenza di un sentire comune favorevole alla riforma, ed in un certo senso
raggiungendo per altre vie lo stesso scopo perseguito dal legislatore con la
previsione di un programma sperimentale.
3. La nuova disciplina sugli shoppers e la libera circolazione degli
imballaggi
Superato questo primo ordine di questioni, emerge quello relativo al rapporto
tra esigenze di tutela ambientale da un lato e garanzia della concorrenzialità del
mercato e delle libera circolazione delle merci dall’altro 19.
18 Ad oggi i comuni che hanno già applicato il divieto di distribuzione dei sacchetti di plastica o che
hanno avviato iniziative per disincentivarne l’uso, sono più di 135, come è possibile leggere nel sito
istituzionale del Comune di Venezia, uno dei più attivi nella promozione dell’iniziativa “Porta la
Sporta”, avviata dall’associazione “Comuni Virtuosi” per incentivare l’uso della sporta di tela, in
sostituzione delle buste di plastica monouso (http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/
ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/41178). A livello giurisprudenziale si veda: Pret. Cortona, 22
novembre 1988, in Foro it., 1989, I, p. 1999. Sulla competenza dei comuni ad intervenire
normativamente nel settore dei rifiuti si veda: V. CIGNANO, La potestà regolamentare del Comune in
materia di rifiuti e il principio di proporzionalità, in Foro amm.-TAR, 2008, 12, p. 3287.
19
Per una completa analisi del rapporto tra ambiente e mercato si vedano: M. CAFAGNO, Principi e
strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Giappichelli, Torino,
2007; M. CAFAGNO, Mercato e ambiente, in M. P. CHITI-R. URSI (a cura di), Principi Studi sul codice
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2009, p. 53; ID., Strumenti di mercato a tutela dell’ambiente, in
G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2008; F. DE LEONARDIS, La disciplina
dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir. amm., 3, 2004; M. CLARICH, La tutela
dell’ambiente attraverso il mercato, relazione al convegno dell’Associazione italiana dei professori di
diritto amministrativo dell’anno 2006, tenutasi a Venezia in tema di Analisi economica e diritto
amministrativo, pubblicata in Annuario AIPDA 2006, Giuffrè, Milano, 2007, p. 103; E. GERELLI-A.
MAJOCCHI-G. PANELLA-V. PATRIZII, Mercato unico e ambiente. Contrasto o compatibilità?, Milano,
1993; U. MATTEI-F. PULITINI (a cura di), Consumatore, ambiente, concorrenza. Analisi economica del
diritto, Giuffrè, Milano,1994.
134
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Ed infatti, come è noto, gli artt. 26, 29, 20 34 e 35 21 del TFUE stabiliscono il
principio generale di libera circolazione delle merci su tutto il territorio
dell’Unione, ai fini della realizzazione di un mercato unico senza frontiere. Dunque
qualsiasi normativa di uno Stato nazionale che vieti la circolazione di un
determinato bene o abbia effetto equivalente ad una restrizione della concorrenza22
risulta illegittima per violazione di tale principio.
Ciò varrebbe ancor più per quei beni, come quello di cui si discute, per i
quali il principio di libera circolazione viene previsto espressamente dalla
normativa di settore: l’art. 18 della direttiva 94/62/CE in materia di imballaggi
prevede infatti che «gli Stati membri non possono ostacolare l’immissione sul
mercato nel loro territorio di imballaggi conformi alle disposizioni della presente
direttiva». Analogamente, a livello nazionale l’art. 217 del d.lgs. 152/2006 indica
tra gli obiettivi della disciplina degli imballaggi sia la tutela dell’ambiente, che il
funzionamento del mercato, al fine di «evitare discriminazioni nei confronti dei
prodotti importati, prevenire l’insorgere di ostacoli agli scambi e distorsioni alla
concorrenza».
E che le buste per l’asporto delle merci appartengano alla categoria degli
imballaggi viene dedotto dall’analisi della normativa e della giurisprudenza che su
di esse si sono formate. Ai sensi dell’art. 3 della direttiva 94/62/CE, sono
imballaggi «tutti i prodotti composti di materiali di qualsiasi natura, adibiti a
contenere e a proteggere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti, a
consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore
o all’utilizzatore, e ad assicurare la loro presentazione». Essi si suddividono
ulteriormente in tre categorie, in base alla funzione svolta: gli imballaggi per la
vendita, inscindibili dal prodotto venduto; gli imballaggi multipli, che servono a
20 L’art. 26 del TFUE (ex art. 14 del TCE), è la disposizione di apertura del titolo dedicato alla
disciplina del mercato interno nell’ambito delle politiche dell’Unione. Esso dispone, al secondo
paragrafo che: «il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata
la libera circolazione delle merci (…) secondo le disposizioni dei trattati». L’art. 29 del TFUE (ex art.
24 del TCE), dando concretezza al principio di libera circolazione delle merci, specifica che «sono
considerati in libera pratica in uno Stato membro i prodotti provenienti da Paesi terzi per i quali
siano state adempiute in tale Stato le formalità di importazione e riscossi i dazi doganali e le tasse di
effetto equivalente esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi e
tasse».
21 Gli artt. 34 e 35 del TFUE (ex artt. 28 e 29 del TCE), contengono la disciplina in materia di divieto
delle restrizioni quantitative alla libera circolazione delle merci tra gli stati membri, dando dunque
ulteriore specificazione ai principi di cui agli artt. 28 e 29 del TFUE. Come si può leggere negli stessi
articoli «sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi
misura di effetto equivalente» (art. 34 TFUE); «sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni
quantitative all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente» (art. 35 TFUE).
22 Sulla definizione di misure ad effetto equivalente è più volte intervenuta la Corte di Giustizia in
funzione chiarificatrice di quanto già previsto normativamente dall’art. 34 TFUE. Si vedano la
sentenza Dassonville, Corte giust. CE, 11 luglio 1974, C-8/74.
135
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
raggruppare un certo numero di unità di vendita, da cui rimangono però separabili;
gli imballaggi per il trasporto, finalizzati a consentire il semplice trasporto di un
certo numero di unità di vendita. Gli shoppers risulterebbero inseriti in
quest’ultima categoria, secondo quanto previsto dagli esempi illustrativi forniti
dall’allegato I della direttiva, tra i quali figurano «i sacchetti o borse di carta o di
plastica» 23.
In tal senso si è orientata la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che nella
sentenza Plato Plastik24 si è espressa nei seguenti termini: «i sacchetti di plastica
con manici, consegnati gratuitamente o a titolo oneroso a un cliente in un negozio,
costituiscono imballaggi ai sensi della direttiva. Infatti, essendo destinati ad essere
riempiti con le merci acquistate dal cliente medesimo ed essendo concepiti in modo
da facilitare il trasporto delle unità di vendita al fine di evitare la loro
manipolazione fisica e i danni connessi al loro trasporto, tali sacchetti rispondono
ai due requisiti previsti all’art. 3, punto 1, della direttiva».
Dal momento che le buste per l’asporto delle merci oggetto della recente
riforma, sono da ritenere imballaggi, e quindi ricadono nell’ambito di applicazione
delle norme specificamente previste per questa categoria di merci, si pone il
quesito della compatibilità tra i due regimi normativi, alla luce del fatto che, mentre
la nuova disciplina sugli shoppers differenzia la sua operatività a seconda del
materiale di produzione utilizzato per la realizzazione delle buste, la direttiva
98/62/CE, al contrario, sancisce espressamente la libera circolazione di tutti gli
imballaggi, che, come recita l’art. 3, possono essere «composti di materiali di
qualsiasi natura».
Sebbene il TAR non si sia pronunciato sulla compatibilità del divieto di
commercializzare gli shoppers non biodegradabili con i principi europei in materia
di libera circolazione delle merci, ed in particolare con la direttiva 94/62/CE,
23
Per una ricostruzione del tema della gestione degli imballaggi si vedano: M. BELLAVISTA, Gestione
degli imballaggi. Brevi note su alcuni aspetti problematici presenti nel titolo II del d.lgs. 5 febbraio
1997, n. 22, in Nuova Rass. leg. dott e giur., 1997, 17, p. 1722; T. MAROCCO, Prospettive del
riciclaggio degli imballaggi: il ruolo del Consorzio nazionale imballaggi (CONAI), in Riv. giur.
ambiente, 1999, p. 1007; M. PERNICE, La gestione dei rifiuti di imballaggi: il Consorzio nazionale
imballaggi e i consorzi di filiera, in Le istituzioni del federalismo, 1999, 1, p. 101; A. GRATANI, Il
“riciclaggio dei rifiuti da imballaggio” è una forma di recupero. La Corte ne definisce la nozione e
precisa il recupero energetico tramite rifiuti, in Riv. giur. ambiente, 2003, p. 988; ID., L’istituzione dei
sistemi nazionali di recupero di imballaggi monouso o “c.d. a perdere” e tutela ambientale, in Riv.
giur. ambiente, 2005, 2, p. 277; S. R. CERRUTO, La disciplina giuridica degli imballaggi e dei rifiuti
di imballaggio, in Riv. giur. ambiente, 2009, 01, p. 79.
24 Sentenza Plato Plastik Robert Frank GmbH c. Caropack Handelsgellschaft mbH, Corte giust. CE,
29 aprile 2004, C-341/01, in Riv. giur. ambiente, 2005, 2, 278, con nota di A. GRATANI, L’istituzione di
sistemi nazionali di recupero di imballaggi monouso o c.d. a perdere e la tutela ambientale.
Sull’inclusione delle buste per l’asporto delle merci nella più ampia categoria degli imballaggi si è
pronunciata anche la dottrina, allineandosi alla pronuncia della Corte di Giustizia; sul punto v.:
GRATANI, Gli shoppers sono rifiuti di imballaggi ai sensi della normativa comunitaria, in Riv. giur.
ambiente, 2005, 2, p. 269.
136
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
nonché con le previsioni del nostro codice dell’ambiente dedicate agli imballaggi,
sono opportune alcune considerazioni su tale aspetto.
Aderendo ad un’interpretazione letterale delle norme, appare evidente che il
divieto di commercializzazione di una tipologia di imballaggi, ovvero le buste, che
siano stati prodotti con materiali non biodegradabili, si pone in contrasto
inconciliabile con l’opposto divieto di ostacolare la libera circolazione di tutti gli
imballaggi, di qualsiasi materiale essi siano composti.
Se però si allarga lo sguardo all’intero contesto normativo, offrendo alle
norme un’interpretazione evolutiva e sistematica25 , se ne può dedurre la
rispondenza della nuova disciplina ai valori e agli obiettivi dell’Unione Europea,
nonché la coerenza con la recente riforma in materia di rifiuti e con gli impegni in
tema di inquinamento atmosferico assunti dall’Europa a livello internazionale.
Sotto il primo profilo, occorre ricordare che l’art. 36 del TFUE (ex art. 30
del TCE), introduce una deroga ai divieto di restrizioni quantitative alle
importazioni per quelle misure giustificate, tra le altre, da esigenze di «tutela della
salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali», a
condizione che esse non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né
una restrizione dissimulata del commercio tra stati. 26
Dunque, se è vero che le deroghe al divieto di restrizioni alla concorrenza
sono ammesse qualora si tratti di tutelare la salute dell’uomo o degli animali, la
disciplina recentemente introdotta in Italia, alla luce dei dati scientifici di cui si è
dato conto, dovrebbe collocarsi tra le ipotesi derogatorie, prevalendo sulle esigenze
di mercato.
Peraltro la Corte di Giustizia, che in più occasioni ha riconosciuto
all’ambiente la qualifica di “esigenza imperativa”,27 quand’anche in conflitto col
mercato, nel caso Enichem c. Cinisello Balsamo del 1989, si è già pronunciata nel
senso della legittimità della decisione adottata dal sindaco di un comune italiano
(per l’appunto quello di Cinisello Balsamo), con cui si vietava l’uso delle buste non
25 Sull’importanza dell’interpretazione teleologica, al fine di tener conto del carattere evolutivo del
diritto comunitario, si rinvia a B.BEUTLER-R. BIEBER-J. PIPKORN-J. STREIL-J.H.H. WEILER, L'Unione
europea. Istituzioni, ordinamento e politiche, ed. it. V. BIAGIOTTI-J.H.H. WEILER (a cura di), Il
Mulino, Bologna, 1998, 306.
26 Copiosa è la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, che ha contribuito a delineare gli
specifici confini di tale definizione normativa. In particolare si possono citare il caso Commissione c.
Regno di Danimarca, sentenza Corte giust. CE, 20 settembre 1988, C-302/86, in cui la Corte ha
ravvisato nell’esigenza di rispondere ad esigenze imperative di rango comunitario il presupposto di
ammissibilità di ogni disciplina restrittiva della concorrenza, e nella proporzionalità della misura
rispetto al fine perseguito il limite di ogni limitazione della concorrenza; Corte giust. CE, 11 luglio
1974, C-8/74, Procureur du Roi v Benoît and Gustave Dassonville, in Dir. comm. internaz. 2009, 1, p.
160, con nota di M. Melloni; Corte giust. CE, 1 giugno 1994, C-317/92, Commissione c. Repubblica
federale di Germania.
27 Sul punto v. Corte giust. CE, 7 febbraio 1985, C-240/83, Oli usati; Corte giust. CE, 20 settembre
1988, C-302/86, Commissione c. Danimarca; Corte giust. CE, 9 luglio 1993, C-2/90, Commissione c.
Belgio.
137
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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biodegradabili nel territorio di competenza al fine di proteggere l’ambiente 28. In
questa occasione, la Corte chiarì che l’assenza, nella direttiva 75/442 (in materia di
rifiuti) di un divieto analogo a quello imposto a livello comunale, non costituiva
impedimento alcuno ad intervenire con previsioni più restrittive del mercato in
funzione di protezione ambientale.29
Del resto lo stesso art. 193 del TFUE (ex art. 176 del TCE) stabilisce che «i
provvedimenti di protezione adottati in virtù dell’art. 192 non impediscono ai
singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti per una protezione
ancora maggiore».30
Se ciò può dirsi per la disciplina generale in materia di circolazione delle
merci, non può che valere analogamente anche per quella peculiare tipologia di
merci che sono gli imballaggi.
A tale proposito l’art. 4 della direttiva 94/62/CE prevede che «gli Stati
membri provvedono a che, oltre alle misure di prevenzione della formazione dei
rifiuti di imballaggio adottate conformemente all’art. 9, siano adottate altre misure
preventive» specificando che esse possono consistere in «programmi nazionali, o
in azioni analoghe (…) volti a riunire e sfruttare le molteplici iniziative prese sul
territorio degli Stati membri nel settore della prevenzione».
Peraltro va considerato che l’esigenza ambientale, che ormai da tempo viene
riconosciuta come idonea a imporre il sacrifico delle finalità economiche, sul finire
del 2009 ha assunto il rango di diritto fondamentale, vincolante per ogni istituzione
e stato membro.
Infatti, non solo il Trattato contiene disposizioni specificamente dedicate
all’ambiente (artt. 191-193 del TUE31), ma l’art. 3 del TUE, così come modificato
28
Corte giust. CE, 13 luglio 1989, C-380/87, Enichem c. Cinisello Balsamo, in TAR, 1988, I, p. 133.
29 Nella sentenza, al paragrafo 8, si può leggere che «Una diversa interpretazione non troverebbe
fondamento nella lettera della direttiva, e sarebbe d’altra parte, in contrasto con gli obiettivi di essa.
Infatti, risulta dall’art. 3 della direttiva che questa è diretta, tra l’altro, a favorire le misure nazionali
atte a prevenire la formazioni di rifiuti. Orbene, la limitazione o il divieto di vendita o di utilizzazione
di prodotti quali i contenitori non biodegradabili sono idonei a contribuire a tale obiettivo».
30 In tal senso si veda la sentenza della Corte giustizia del 20 maggio 1992, in -290/90, Commissione
c. Germania; Corte giust. CE, 10 novembre 1982, C-261/81.
31 Si tratta dei vecchi artt. 174-176 del TUE, in cui vengono enunciati gli obiettivi della politica
dell’Unione in materia di ambiente, i principi essenziali a cui essa deve ispirarsi, il ruolo specifico
svolto a tal fine dalle istituzioni europee e dagli stati membri (art. 191 TFUE), le procedure
decisionali previste a livello europeo (art. 192 TFUE) ed i margini di potestà normativa degli stati
membri nei settori ambientali pur coperti da una disciplina europea (art. 193 TFUE).
138
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
dal Trattato di Lisbona32, pone come obiettivi dell’Unione europea, collocati sullo
stesso piano, l’instaurazione del mercato unico interno, e l’esigenza di perseguire
uno sviluppo sostenibile basato anche su un elevato livello di tutela e di
miglioramento della qualità dell’ambiente. In tal modo giunge ad ulteriore
rafforzamento il percorso di valorizzazione dell’interesse ambientale, iniziato a
livello giurisprudenziale, e che già aveva avuto un importante traguardo
nell’inserimento, ad opera del Trattato di Amsterdam, dell’art. 6 nel TUE (attuale
art. 11 del TUE) con cui si è resa obbligatoria l’integrazione dell’interesse
ambientale in tutte le politiche comunitarie.
Peraltro l’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea33, a
cui il Trattato di Lisbona ha conferito la stessa vincolatività delle norme dei
Trattati, è appositamente dedicato alla tutela dell’ambiente e dispone che «un
livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono
essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio
dello sviluppo sostenibile».
Dunque il nuovo contesto europeo, modificato dall’entrata in vigore nel
2009 del Trattato di Lisbona, conferisce un più solido fondamento alla disciplina in
esame.
4. Segue: La nuova disciplina sugli shoppers, gli obiettivi di riduzione delle
emissioni atmosferiche e la gestione dei rifiuti
L’accenno al principio dello sviluppo sostenibile, con cui si è chiuso il
paragrafo precedente, permette di allargare lo sguardo a un ulteriore profilo di
indagine, da cui discende la rispondenza della nuova disciplina anche alle
previsioni in materia di rifiuti e di inquinamento atmosferico.
Come rivelano gli studi scientifici, sebbene la plastica, come materia prima,
abbia un costo assai minore rispetto alle cc.dd. bioplastiche, a un’analisi
complessiva dell’intero ciclo di vita del bene, essa ha un costo finale assai
maggiore 34. Trattandosi di un materiale derivato dal petrolio, non solo il suo
utilizzo comporta costi di importazione non indifferenti, ma la natura fossile del
32 Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1° dicembre 2009, comportando alcune modifiche
sostanziali all’assetto europeo, tra le quali la riduzione ad unità del dualismo di Comunità ed Unione,
oggi unificate nella seconda, dotata di personalità giuridica. I Trattati sono stati inoltre distinti in
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), erede del TCE, e Trattato sull’Unione
Europa, in continuità col precedente TUE.
33 Per approfondimenti si rinvia a: G. PISTORIO, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea. Effettività versus efficacia, e L. S. ROSSI, Il rapporto fra Trattato di Lisbona e la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, in G. BRONZINI-F. GUARIELLO-V. PICCONE (a cura di), La
scommessa dell’Europa: diritti, istituzioni, politiche, Ediesse, Roma, 2009.
34
Si veda sul punto The use of LCAs on plastic bags in an IPP context – report, studio redatto da
Eurocommerce-Environment e Logistics nel 2004.
139
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
combustibile usato come materia prima rende la plastica totalmente difforme dai
dettami del principio di sviluppo sostenibile, secondo cui l’utilizzo delle risorse
attualmente disponibili, non deve pregiudicare la possibilità per le generazioni
future di soddisfare analogamente i propri bisogni.35 Dunque il favor normativo per
le bioplastiche, realizzate con la lavorazione di amidi e oli vegetali, si pone in
sintonia con tale principio e con le disposizioni che ne impongono il rispetto.
Infine i processi di lavorazione chimico-industriali necessari per la
realizzazione della plastica comportano l’immissione in atmosfera di grandi
quantità di Co2,36 diversamente da quanto avviene nella lavorazione delle
bioplastiche. Tale obiettivo conferisce alla norma anche una funzione strategica
con riferimento agli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti, di cui all’art.
5 del sesto programma di azione per l’ambiente 37 in materia di riduzione delle
emissioni climalteranti, ed ancor più con quelli assunti a livello internazionale con
35 Per una completa ricostruzione del principio dello sviluppo sostenibile si rinvia a F. FRACCHIA, Lo
sviluppo sostenibile, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010. Ulteriori informazioni sul principio dello
sviluppo sostenibile si possono rinvenire in: N. OLIVETTI RASON, in AA. VV., Diritto dell’ambiente,
Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 12 ss; R. FERRARA, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in
R. FERRARA (a cura di) La tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2006; H.E. DALY, Oltre la
crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile, Einaudi, Milano, 2001.
36 In termini di inquinamento atmosferico si è registrato che ogni sacchetto di plastica determina
l’immissione in atmosfera di 2,109 kg di Co2. (cfr. Platic Shopping Bags – Analysis of Levis and
Environmental Impact – Final report, 2002), mentre l’immissione annuale registrata è di 200.000
tonnellate di Co2 (cfr. Ordinanza n. 170 del 26 agosto 2010 del Comune di Santa Maria Capua
Vetere).
37 Si tratta della decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, adottata il 22
luglio 2002, in GUCE L 242 del 10 settembre 2002, con cui sono state definite le politiche
comunitarie valide per il periodo compreso tra il 22 luglio 2002 e il 21 luglio 2012. Per una
ricostruzione della genesi dei programmi comunitari in materia ambientale si veda: L. KRÄMER,
Manuale di diritto comunitario per l’ambiente, Giuffrè, Milano, 2002.
140
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
il Protocollo di Kyoto 38, confermati a Copenaghen39 e rafforzati con il recente
accordo di Cancun.40
In tal senso appare decisivo l’incipit del comma 1129, che pone come scopo
ultimo del divieto di commercializzazione degli shoppers non biodegradabili, la
«riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, di rafforzamento
della protezione ambientale e di sostegno alle filiere agro-industriali nel campo dei
biomateriali».
Da ultimo, anche le modifiche recentemente apportate dal d.lgs. 3 dicembre
2010, n. 205 al nostro codice dell’ambiente, in recepimento della direttiva 2008/98/
CE in materia di rifiuti, hanno contribuito a conferire maggiore solidità al divieto
di commercializzazione delle buste non biodegradabili.
Tale direttiva prevede una gerarchia di rifiuti, da applicare «quale ordine di
priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei
rifiuti» (art. 4, par. 1). Il vertice di tale gerarchia dei rifiuti è rappresentato
dall’attività di prevenzione, volta ad impedire la stessa formazione dei rifiuti,
eliminando così ab initio ogni problema di successiva gestione e individuando
nell’attività di smaltimento l’extrema ratio. L’inasprimento della responsabilità
estesa del produttore (art. 8), induce a porre l’attenzione sugli stessi processi
produttivi, al fine di garantire l’ingresso sul mercato di beni più facilmente gestibili
nel momento in cui diventino rifiuti. Il secondo paragrafo dell’art. 8 della direttiva
dispone infatti che «gli Stati membri possono adottare misure appropriate per
38 Per un esame più approfondito del Protocollo di Kyoto, si vedano: L. MASSAI, L’applicazione del
Protocollo di Kyoto e il dibattito sulla fase post-Kyoto, in Riv. giur. ambiente, 2006, 5, p. 769; S. DE
ANGELIS, L’attuazione del protocollo di Kyoto nel diritto interno, in M. CARLI (a cura di) Governance
ambientale e politiche normative: l’attuazione del Protocollo di Kyoto, Il Mulino, Bologna, 2008; M.
D’AURIA, L’emission trading e la negoziazione policentrica, in S. CASSESE-M. CONTICELLI (a cura
di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, Milano, 2006; M. CECCHETTI,
Governance ambientale e attuazione del Protocollo di Kyoto: priorità e linee guida per
l’elaborazione di nuove politiche normative, in M. CARLI (a cura di) Governance ambientale e
politiche normative: l’attuazione del Protocollo di Kyoto, cit..
39 A Copenhagen si è svolta, dal 7 al 18 dicembre 2009, la quindicesima Conference of the Parties
(COP15), per discutere del futuro del Protocollo di Kyoto in vista della sua scadenza, prevista per il
2012. Il Copenhagen Accord, che rappresenta l’esito dei lavori, è tuttavia un documento privo di
disposizioni vincolanti. Sul tema si rinvia al commento di M. D’AURIA, Il Copenhagen Accord: un
passaggio interlocutorio verso l’assunzione di responsabilità “globali”, nel precedente numero di
questa Rivista.
40
La sedicesima Conference of the Parties (COP16) delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si
è svolta nel dicembre 2010 nella città messicana di Cancun ed ha condotto ad un accordo, con cui
sono stati aggiornati (in termini maggiormente rigorosi) gli obiettivi individuati a Kyoto, al fine di
scongiurare il previsto innalzamento di 2 gradi della temperatura del pianeta. Le misure decise per
ridurre le emissioni atmosferiche passano attraverso l’istituzione di un Fondo Verde Climatico
Globale, la creazione di un nuovo sistema per la diffusione di tecnologie rispettose del clima e per
ridurre le emissioni causate dalla deforestazione. Si è in tal modo scongiurata la reale minaccia di un
definitivo stallo della trattativa internazionale sui cambiamenti climatici, rimasta in sospeso dopo gli
esiti deludenti del vertice di Copenaghen del 2009.
141
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
incoraggiare la progettazione dei prodotti volta a ridurre i loro impatti ambientali
e la produzione di rifiuti durante la produzione e il successivo utilizzo dei prodotti
e ad assicurare che il recupero e lo smaltimento dei prodotti che sono diventati
rifiuti avvengano in conformità agli artt. 4 e 13». E lo stesso art. 219 in materia di
imballaggi dispone «l’incentivazione e la promozione della prevenzione alla fonte
della quantità e della pericolosità nella fabbricazione degli imballaggi e dei rifiuti
da imballaggio, soprattutto attraverso iniziative anche di natura economica, in
conformità ai principi del diritto comunitario, volta a promuovere lo sviluppo di
tecnologie pulite e a ridurre a monte la produzione e l’utilizzazione di imballaggi,
nonché a favorire la produzione di imballaggi riutilizzabili e il loro concreto
utilizzo».
La nuova disciplina favorisce la produzione delle buste in materiali
biodegradabili, consentendo una più facile gestione degli imballaggi fin dalla loro
immissione sul mercato, in quanto i materiali biodegradabili non necessitano di
smaltimento, ma sono sottoposti ad un processo di compostaggio, che ne accelera i
normali tempi di biodegradazione, trasformando le materie bioplastiche in
compost, riutilizzabile come di fertilizzante. Le buste biodegradabili sono dunque
in grado di essere gestite, in qualità di rifiuto, senza alcun impatto inquinante con
l’ambiente. Questo loro ruolo risulta oggi ulteriormente valorizzato dalla
previsione dell’art. 182 ter del d.lgs. 152/2006 41, ai sensi del quale «La raccolta
separata dei rifiuti organici deve
essere effettuata con contenitori a
svuotamento riutilizzabili o con sacchetti compostabili certificati a norma UNI
EN 13432-2002». Il divieto di commercializzazione delle buste non biodegradabili
consente dunque di conformarsi anche alle previsioni europee in materia di rifiuti
medio tempore intervenute, in quanto garantisce che gli impianti di compostaggio
della frazione umida, raccolta separatamente per obbligo di legge, producano un
compost di qualità, non alterato dalla presenza di materiali plastici, come spesso
invece è avvenuto fino ad oggi.
5. Omessa notifica alla Commissione europea: i confini incerti della regola
tecnica.
Occorre infine analizzare un ultimo profilo di criticità, su cui il TAR non si è
pronunciato, e che rimane, allo stato attuale, ancora non del tutto risolto. Si tratta
della mancata notifica della norma alla Commissione europea, come la direttiva
98/34/CE del 22 giugno 1998 prevede con riferimento ai progetti nazionali di
norme tecniche. Qualora si ritenesse, infatti, che la norma in commento presenti i
requisiti della regola tecnica, la mancata notificazione del relativo progetto ne
determinerebbe l’illegittimità, e la possibile attivazione di una procedura di
41
Disposizione introdotta dal d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.
142
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
infrazione nei confronti del nostro paese42 . A tale quadro normativo deve
aggiungersi un ultimo tassello, ovvero l’avvenuta notifica alla Commissione, in
data 5 aprile 2011, di un nuovo progetto normativo dal tenore particolarmente
dettagliato, avente il duplice obiettivo di fornire specificità al divieto entrato in
vigore il 1° gennaio, e rimediare ex ante all’eventuale profilo di irregolarità che,
come detto, potrebbe dar luogo ad una procedura di infrazione a livello europeo.
Ai sensi della direttiva 98/34/CE, modificata dalla direttiva 98/48/CE, per
regola tecnica43 deve intendersi ogni «specificazione tecnica o altro requisito, (…)
comprese le relative disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui
osservanza sia obbligatoria de iure o de facto per la commercializzazione (…) o
l’utilizzo degli stessi in uno stato membro (…), nonché le disposizioni legislative,
regolamentari ed amministrative degli stati membri (…) che vietano la
fabbricazione, l’importazione, la commercializzazione o l’utilizzo di un
prodotto 44».
La notificazione di tali regole tecniche è volta a permettere alla
Commissione di effettuare un controllo preventivo su quei progetti normativi
nazionali idonei ad introdurre limitazioni alla concorrenza e alla libera circolazione
delle merci e dei servizi. L’inadempimento a tali obblighi di notifica da parte dello
42 A tale proposito va precisato che l’Unione europea ha avviato nei confronti del nostro paese una
procedura pilota al fine di accertare in via interlocutoria la sussistenza di un eventuale
inadempimento. La modalità di indagine del cd. EuPilot permette infatti agli organi dell’Unione di
svolgere indagini istruttorie e di porre rimedio informalmente alla discrasia tra il diritto nazionale e il
diritto europeo, avviando una procedura di infrazione soltanto quando l’eventuale accertata
divergenza tra i due livelli normativi risulti irrimediabile dallo stato coinvolto. L’EuPilot non è
dunque, una procedura di infrazione, ma una vera e propria modalità di lavoro congiunto tra organi
nazionali e comunitari, volto a risolvere i problemi di compatibilità delle normative statali con il
diritto comunitario fin dal loro insorgere, evitando così l’attivazione della procedura di infrazione.
L’introduzione di questa forma di coordinamento è da rinvenire nella comunicazione Un’Europa dei
risultati, COM(2007) 502. Il progetto, denominato "EU Pilot", è operativo dalla metà di aprile 2008
con quindici Stati membri volontari partecipanti: Austria, Danimarca, Germania, Finlandia, Irlanda,
Italia, Lituania, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Repubblica ceca, Slovenia, Spagna, Svezia e
Ungheria.
43
Per una chiarificazione in materia di veda il contributo di L. PRUDENZANO, Sull’interpretazione
funzionale degli obblighi di comunicazione di regole tecniche, in Giust. civ., 2010, 10, p. 2108.
44 Tale definizione è stata inoltre specificata dall’attività interpretativa della Corte di Giustizia,
secondo cui si deve trattare di «specificazioni che definiscono le caratteristiche dei prodotti» e che
siano in grado di produrre effetti giuridici propri. Si vedano a tale proposito la sentenza Corte giust.
CE, 30 aprile 1996, C-194/94, Cia Security International c. Securitel, e Corte giust. CE, 1° giugno
1994, C-317/92, Commissione c. Germania; Corte giust. CE, 16 giugno 1998, C-226/97, Lemmens;
Corte giust. CE, 8 settembre 2005, C-303/04, Lidl Italia, in Dir. comunitario e scambi internaz., 2007,
3, p. 533, con nota di D. PISANELLO, Applicazione della sentenza Lidl Italia all’interno degli Stati
membri: legislazione interna e normativa comunitaria a confronto.
143
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
stato avrebbe come conseguenza l’inefficacia della norma, come chiarito dalla
Corte di Giustizia.45
V’è però da dire che l’ultimo periodo dell’art. 1 della direttiva 98/34/CE
esonera da tale obbligo di notifica le misure che siano ritenute necessarie dallo
stato membro per «garantire la protezione delle persone (…), in occasione
dell’impiego di prodotti a condizione che tali misure non influiscano sui prodotti
stessi». Sembrerebbe dunque, che le stesse esigenze di tutela che nei trattati
consentono la deroga rispetto al generale divieto di restrizioni alla concorrenza,
comportino anche la deroga all’obbligo di notifica delle misure restrittive.
Le ipotesi che si profilano con riferimento alla disciplina in esame sono
essenzialmente due.
Si potrebbe ritenere che la norma italiana sia una regola tecnica, in quanto
prescrive il carattere della biodegradabilità per determinati beni, come condizione
alla loro commercializzabilità, vietando al tempo stesso l’immissione sul mercato
di quelli che ne siano privi. In tal caso la mancata notifica della nostra normativa
ne causerebbe l’illegittimità, la disapplicabilità, oltre alla possibilità di subire una
procedura di infrazione in sede europea. La ricorrente Unionplast, che prospetta
questa ricostruzione, ricorda altresì che in un caso analogo verificatosi nel 2006, la
Francia ha notificato alla Commissione europea una proposta di decreto sulla
messa al bando delle sportine monouso non biodegradabili. Da ciò dovrebbe
dedursi che analoga notifica sarebbe stata necessaria anche da parte del legislatore
italiano.
Occorre però distinguere i due casi, in quanto la norma francese conteneva il
richiamo a specifici parametri e standard tecnici da rispettare, prospettando altresì
conseguenze sanzionatorie per la loro inosservanza. 46 A ben vedere la disciplina
italiana non solo è priva di alcuna indicazione di dettaglio che permetta di definire
puntualmente le merci oggetto del divieto nella loro composizione organica, ma
non prospetta alcuna conseguenza sanzionatoria per la sua stessa violazione. Al
contrario, il nuovo progetto normativo si presenta molto più simile a quello
francese di quanto non lo siano le disposizioni formulate nel 2006 ed entrate in
vigore il 1° gennaio 2011.
Analizzando le differenze tra i due testi normativi italiani (quello contenuto
nella legge 296/2006 e quello di recente redazione), è possibile comprendere come
soltanto il secondo presenti i caratteri della regola tecnica, e come tale sia stato
correttamente notificato.
45
Sentenza della Corte di Giustizia, 30 aprile 1996, C-194/94, CIA Security Service c. Securitel.
46 La norma prevedeva il divieto di distribuzione, sia gratuita che a pagamento, al consumatore finale
delle buste di plastica secondo la definizione delle stesse data dallo standard NF EN 13429. «Lo
stesso inoltre determina le condizioni per verificare la biodegradabilità delle borse che possono
essere immesse sul mercato, cioè buste che abbiano i requisiti di biodegradabilità richiesti dallo
standard NF EN 13432 o qualsiasi altro sandard che impone un equivalente livello di
biodegradabilità. Il mancato rispetto del divieto previsto dallo schema di decreto dovrà essere punito
con una sanzione di terza classe».
144
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
In primo luogo, esso reca il riferimento allo standard Uni En 13432:2002,
che descrive non solo il requisito della biodegradabilità, ma anche quello della
compostabilità47, stringendo ulteriormente la portata applicativa del divieto
normativo. 48
In secondo luogo, il nuovo progetto di legge precisa gli specifici parametri
dimensionali e di spessore richiesti ai sacchetti distribuiti sul mercato, al fine di
garantirne la riutilizzabilità nel tempo 49, e totalmente assenti nelle disposizioni
normative del 2006.
Infine il nuovo testo reca l’espressa previsione di conseguenze sanzionatorie
(pecuniarie) per l’ipotesi di trasgressione al divieto, similarmente, sotto questo
profilo, a quanto veniva previsto dal progetto normativo francese.
Alla luce di tali considerazioni risulta evidente la maggior specificità del
progetto normativo notificato alla Commissione europea, e, di contro, il carattere
dispositivo, ma generico sotto il profilo tecnico, della norma formulata nel 2006.
Al momento in cui si scrive non si conoscono gli esiti dell’esame condotto
dalla Commissione con riferimento al progetto di legge notificato, né parimenti
dell’EuPilot volto a valutare la sussistenza di un inadempimento per la mancata
notifica delle disposizioni contenute nel primo articolo della legge n. 296/2006.
47 Tra la nozione di biodegradabilità e quella di compostabilità vi è una differenza essenziale, che è
possibile cogliere semplicemente considerando che la maggior parte dei materiali esistenti (di origine
naturale o artificiale) sono biodegradabili, in quanto idonei a subire processi di decomposizione in
presenza di determinate condizioni atmosferiche e di ossigenazione. La vera differenza riguarda i
tempi di biodegradazione, in quanto per alcuni di questi materiali i tempi di biodegradazione possono
consistere anche in centinaia d’anni. Dunque la biodegradabilità non è condizione sufficiente a
garantire anche la compostabilità, per la quale ultima è necessario invece che la sostanza non soltanto
sia biodegradabile, ma in presenza di determinate condizioni possa subire il processo di recupero
organico nella forma del compostaggio. Lo standard Uni En 13432:2002 è stato elaborato per fornire
presunzione di conformità ai requisiti necessari affinchè una sostanza o materiale possa subire
processi di recupero organico in tempi relativamente brevi (dell’ordine di grandezza di meno di un
anno) in presenza di determinate condizioni. Il requisito della compostabilità risulta oggi
particolarmente importante alla luce dell’introduzione nel codice dell’ambiente, ad opera del d.lgs.
205/2010, dell’art. 182 ter, ai sensi del quale «la raccolta differenziata dei rifiuti organici deve essere
effettuata con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti compostabili certificati a norma
Uni En 13432:2002».
48
Alla luce del comma 1130, del primo articolo della legge 296/2006, risultava vietata la
commercializzazione dei sacchi non biodegradabili, e dunque era consentita quella delle sporte
prodotte con ogni materiale biodegradabile. Il nuovo progetto normativo invece, consente la vendita
delle sole buste prodotte in materiali non soltanto biodegradabili, ma anche compostabili. Escludendo
dunque quelli semplicemente biodegradabili.
49 In particolare si richiede che i sacchetti utilizzati per il trasporto delle merci ed immessi sul mercato
non solo siano prodotti utilizzando materiali biodegradabili e compostabili, ma che abbiano uno
spessore di 400 micron, manici accessori e dispositivi di chiusura tali da renderli un prodotto
riutilizzabile nel tempo e da dissuadere il consumatore dall’approccio “usa e getta” (si consideri che
le buste comunemente utilizzate ad oggi presso i luoghi di rivendita hanno uno spessore di 23
micron).
145
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Resta dunque da vedere quali posizioni verranno assunte dagli organi
europei con riferimento ad entrambi i profili.
6. Considerazioni conclusive.
In conclusione, è possibile affermare che le numerose problematiche
interpretative gravanti sulla nuova disciplina, siano state parzialmente chiarite
dall’ordinanza in commento 50. Altri aspetti rimangono ancora incerti, e tuttavia
riguardano prevalentemente alcune criticità legate all’iter formale di redazione
della norma, piuttosto che la sostanza del divieto, la cui bontà non è stata posta in
dubbio neppure dinanzi al giudice amministrativo.
È difficile prevedere le posizioni che l’Unione europea assumerà al termine
dell’attività istruttoria svolta nell’ambito della procedura pilota, o con riferimento
al progetto di legge di recente notificato alla Commissione, o infine se una
iniziativa analoga a quella italiana verrà assunta a livello europeo.
L’unico punto fermo è che, a prescindere da quelle che saranno le sorti
formali della norma, essa ha già cambiato le abitudini dei consumatori e ciò
difficilmente potrà essere reversibile.
50 Che, come già detto, è stata confermata in secondo grado dal Consiglio di Stato, che, concludendo
la fase cautelare, ha affermato con forza anche maggiore la definitiva vigenza della norma, e
l’irrilevanza ai fini della stessa della mancata adozione del programma sperimentale.
146
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Enrica Blasi - Il divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili:
insidie e prospettive della riforma
L’ordinanza in commento costituisce la prima pronuncia giurisprudenziale relativa
al divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili, la cui recente
entrata in vigore (il 1° gennaio 2011), non ha mancato di sollevare perplessità
interpretative, nonostante la pressoché unanime osservanza riscontrata. Il giudice
amministrativo chiarisce dunque che, sul piano dell’iter normativo, la mancata
adozione del previsto programma sperimentale, preordinato all’entrata in vigore
del divieto, non ha impedito quest’ultima, stante l’autonomia, logica e cronologica,
tra essi sussistente. Vengono altresì sciolti i dubbi in ordine alla compatibilità del
divieto con la disciplina europea a tutela della concorrenza, nel senso della piena
conformità della nuova normativa alle esigenze di tutela ambientale e di sviluppo
sostenibile, obiettivi rafforzati dal Trattato di Lisbona, nonché alle previsioni in
materia di rifiuti di cui alla direttiva 2008/98/CE, da poco recepita nel nostro
ordinamento giuridico. Resta invece incerta la natura di “regola tecnica” del
divieto in esame, da cui discenderebbe la violazione della direttiva 98/34/CE per
omessa previa notifica alla Commissione europea.
--------------------------------------------------------------------------------------------------The examined decision provides for an effort to work out the issue relating to the
ban of plastic bags, that came into effect on 1° January 2011, and, although the
pervasive compliance to the same ban, it caused lots of legal questions. The
administrative judge clarifies that, in spite of the lack of the explerimental
program, the law has regularly come into effects, because the ban and the program
are not constrained each other. The ban is accordant with European law, because its
aim is to prevent environment hazard and support sustainable development, as well
as in the wish of the Treaty of Lisbon, and the of the waste management directive
2008/98/CE. It’s still in doubt if the Italian law is a technical regulation, and if it
should have been notify to the European Commission.
147
OSSERVATORIO
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
GIAN FRANCO CARTEI ∗
The Implementation of the European Landscape Convention: the Legal
Perspective1
SUMMARY: 1. The Convention and its nature: rules or principles? - 2. Is
there a right to landscape? No, there are the responsibilities of public authorities. –
3. What sort of participation? – 4. What remedies? Help from international
environmental law. – 5. Help from the laws of the European Union.
1. The Convention and its nature: rules or principles?
This meeting is being held, with the talks to be given and the resolutions to
be adopted, in order to define the principle thematic areas of the European
Landscape Convention in terms of multidisciplinary approaches. Two full days will
be devoted to this task.
One must recognise, first of all, that the Convention is first and foremost, an
international treaty, that is a juridical act and, as such, must be understood known
and interpreted.
Many of us are familiar with the Convention and its contents. Please allow
me, then, to simply summarise some of its principle features.
The Convention is the first international act adopted by a European
institution with the aim of promoting the protection, management and planning of
European landscape. One ought to bear in mind, however, that landscape has been
the object of legislation, direct or indirect, in many European States. The Italian
Constitution of 1948, for example, makes explicit reference to landscape and Italy
has long implemented landscape policy based on historic heritage since the first
decade of 20th century.
The novelty of the Convention with respect to these other juridical texts is
the definition of landscape it offers: «landscape means an area, as perceived by
people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or
human factors».
But the new ideas do not end here. Consider the scope of the Convention:
« (…) the Convention applies to the entire territory of the Parties and covers
natural, rural, urban and peri-urban areas. (…) It concerns landscapes that might be
considered outstanding as well as everyday or degraded landscapes». It simply
means that all landscapes deserve attention, regardless of their value.
It seems equally certain at the same time that this juridical perspective raises
a number of questions that can hinder the implementation and the enforcement of
the Convention.
∗∗ Full Professor of Administrative law at the University of Firenze.
1 Opening Lecture at the Congress «Living Landscape. The European Landscape Convention in
research perspective», Firenze 18-19 October 2010.
148
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Let us consider the principle of subsidiarity. On the one hand, this would
seem to postulate a rigorous application of the notion of local self-government in
the sense of the European Charter of Local Self-government (public decisions must
be made at the institutional and geographical level closest to the interested parties);
on the other hand, art.12 specifies that the Convention «shall not prejudice stricter
provisions concerning landscape protection, management and planning contained
in other existing or future binding national or international instruments».The
absence of any indication as to the parameters defining «stricter provisions permits
each State to claim that its own legislation is in accordance with the Convention».
Think of Italy where the landscape policies belong to the legislation and
administration of the State.
In addition, the Guidelines for the implementation of the Convention provide
that «each State decides on its own institutional organisation in landscape matters
according to its overall institutional organisation (centralised, decentralised,
federal) at the existing government levels (from national to local) and according to
its own administrative and cultural traditions and existing structures». Moreover, it
is also stated that «higher administrative levels may assume the tasks of guidance
and co-ordination where these are not dealt with at local level (…) or where this
would lead to greater efficiency (part. II.1)».
Let us consider the «general measure» of integration of landscape into its
regional and town planning policies and in its cultural, environmental, agricultural,
social and in any other policies with possible direct or indirect impact on
landscape. The importance of this correlation of landscape with other land use
policies is clear. One is astounded, though, that this objective is formulated without
any reference to the mechanisms for achieving such an end.
The same inadequacy is encountered in the Convention’s idea of the
landscape planning it envisions. Such planning is of fundamental importance to
any landscape policy. But the lack of any reference to contents, to procedures, to
the interests to be privileged runs the risk of legitimising decisions not consonant
with the spirit of the Convention.
A first conclusion becomes clear. The Convention does not set forth
prescriptions. Its contents, in fact, consist of principles, not rules; of objectives, not
means. This is a methodological limit because anyone who is familiar with politics
and the workings of land use knows very well that means are no less important
than objectives: it is the means, in fact, that nearly always help define objectives,
not the reverse.
Before continuing one should deal with another aspect that, in my opinion, is
pivotal to evaluating the efficacy of the Convention.
2. Is there a right to landscape? No, there are the responsibilities
of public authorities.
149
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
It has been said that the Convention is an extension of human rights to take
in the environment 2. According to the Guidelines for the implementation of the
European Landscape Convention: «The legal recognition of landscape implies
rights and responsibilities on the part of all institutions and citizens of Europe
towards their physical surroundings».
Actually the Convention does not discuss landscape in terms of rights but in
terms of duties.
One cannot speak of a right to landscape for a number of reasons: the
Convention always refers to the activities of public servants and to their powers
and responsibilities; it does not endow individuals with a right; it never speaks of
safeguards.
One must also consider that the object of the Convention is difficult to
identify within a juridical sphere. Take the very definition of landscape as per Art.1
a: «Landscape means an area, as perceived by people, whose character is the result
of action and interaction of natural and/or human factors».
Landscape is thus not so much a specific geographical area, but the area as
perceived by the people in it. Who and how to measure that perception? How can
we tell whether that perception has been duly noted? Nor is clarification to be
found in Art.5 a, where landscape is, at the same time: «an essential component of
people’s surroundings, an expression of the diversity of their shared cultural and
natural heritage, and a foundation of their identity».
Moreover, as the Preamble confirms, landscape, for the Convention, has
many meanings, not all of them entirely complementary. It refers to social needs
and economic activity, quality of life and the environment. The term is applied to
different contexts: places of outstanding beauty and degraded areas, which imply
land use policies that are distinctive and at times divergent.
Even the reference to «people» is too generic to assert the existence of a
right to landscape. Who could claim a right to landscape? The population
represents a collective body in itself incapable of formulating a right, but, at most,
a collective interest.
Finally, no entity is called upon to guarantee that the provisions of the
Conventions be respected. In contrast to the Convention of Human Rights, no
judge in Strasbourg is called upon to interpret and apply the Convention on
Landscape.
Landscape is essentially an element of public administration to treat as «a
territorial project». This is also the sense of the Council of Europe’s Explanatory
Report: «The general purpose of the Convention is to encourage public authorities
to adopt policies and measures at local, regional, national, and international level
(…)». That is to say that the Convention has to be interpreted in terms of
responsibility and accountability of public authorities.
2 M.
PRIEUR, Landscape and sustainable development (Challenges of the European Landscape
Convention), Council of Europe Pub., 2006, p. 11.
150
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
To state that landscape cannot be recognised as a right is not to deny the
legal implications of the Convention. This simply shifts the perspective of our
analysis and discerns its juridical meaning not in a specific good or object but in a
process of creation and comparison.
I consequently maintain that no element of the Convention can be
implemented without taking into account two factors: a) the assertion of the
principle of sustainable development and b) participation of the public.
In my opinion the principle of sustainable development is the basis of every
other principle enshrined in the Convention, starting from the principle of
integration of landscape dimension in territorial policies.
The text of the Convention refers to this principle but offers no definition
other than that given on the Preamble, according to which it is «based on a
balanced and harmonious relationship between social needs, economic activity and
the environment». This risks leaving that principle with a purely generic and
declamatory force.
This concept originates, as we know, in the mid 1980’s, when the Bruntland
Commission formulated it in its report «Our Common Future». Since then it has
always stood for an integration of environmental concerns with development.
Accordingly, the Rio Conference of 1992 affirmed that «environmental protection
shall constitute an integral part of the development process».
As applied to the Convention this principle makes landscape the result of a
dynamic process of comparing and balancing interests, public and private,
individual and collective. And it does so with an important specification: the
principle of sustainable development indicates not only the necessity that landscape
policy be correlated with the other policies, but places the landscape at the top of
the territorial priorities to be considered. It in fact constitutes a criterion that must
guide the actions of all public authorities with responsibilities related to landscape.
Finally, the principle of sustainability, which treats landscape as a limited resource,
reinforces the idea that landscape must be understood not as a right but as duties
and responsibilities of public administrations.
It is precisely the principle of sustainability that explains the importance of
public involvement in the regulation of landscape. Of fundamental importance, it
would seem, is the phrase in Art.5 c «to establish procedures for the participation
of the general public, local and regional authorities, and other parties with an
interest in the definition and implementation of the landscape policies». The
procedures of landscape administration cannot be divorced from this participation.
It is only participation that, in my opinion, can make known the collective
perception incorporated into Art.1 of the Convention. The same may be said of the
drawing up of the «Landscape quality objectives». Indeed, «the formulation by the
competent public authorities of the aspirations of the public with regard to the
landscape features of their surroundings» (art. 1, c) seems necessarily linked to a
mechanism of public participation.
151
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
3. What sort of participation?
According to the Convention a «general measure» is «to establish
procedures for the participation of the general public, local and regional authorities,
and other parties with an interest in the definition and implementation of the
landscape policies». According to the Convention’s Guidelines a general principle
is «to make use of public participation» (Part II.2.3).
More specifically, according to the Guidelines public participation creates a
relationship with the environment which is fundamental to sustainable
development; it also strengthens cultural identity and objectives and action to
define.
Participation implies two-way communication: «from experts to the
population and viceversa». All of this is very important because it means
recognising that the action of evaluating landscapes incorporates a system of values
belonging to «both scholarly culture and to popular culture». Still more important
is the recognition that «the concept of participation involves taking into account the
social perception of landscape and popular aspirations in choices regarding
landscape protection, management and planning». The concept of landscape is
discussed as entailing an exercise in democracy. To this end it is necessary to bring
into the process of drawing up and implementing landscape policies «all the
relevant stakeholders: national, regional, and local authorities, the population
directly affected, the general public, non-governmental organisations, economic
operators and landscape professionals and scientists».
Not a great deal, however, is said concerning «the procedures for approving
choices» except a reference to such diverse phenomena as consultations, public
inquiries and educational exhibitions. Given the fundamental importance of this
procedural aspect, such a lacuna risks compromising the effectiveness of the
Convention.
The need, therefore, becomes apparent to devise juridical remedies in order
to put into practice the principles of the Convention and thus permit effectiveness,
implementation and enforcement.
4. What remedies? Help from international environmental law.
It is important to begin from the fact that the convergence between the
notions of landscape and environment is much stronger at the international level
than it is at the national level. The meaning attributed to «landscape» in the
Convention unites two meanings. The first is that obviously related to territorial
policy, the second is linked to the environment and conceives the landscape as a
part of the environment 3. To the latter sense, in fact, the Preamble and text allude in
3
M. PRIEUR, Landscape and sustainable development, cit., p. 15.
152
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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their references in to sustainable development, to human well-being and to the
quality of life. Similarly, the 1998 Aarhus Convention of the United Nations, in the
section on «Environmental information», refers «the state of the environment» but
also to «landscape and natural sites». Nor ought we to underestimate the reference
made in the Preamble of the Convention to the Aarhus Convention.
Actually, it is very important to invoke the application of the Aarhus
Convention because it incorporates elements that are incomplete in the Convention
whose tenth anniversary we are celebrating today. The Aarhus Convention is
widely recognised as establishing a new benchmark in environmental democracy.
This contains numerous prescriptions that I believe should have a big
influence on the implementation of the European Landscape Convention. It
recognizes every person’s right to a healthy environment. The environmental rights
protected under the Convention are to be respected by public authorities, included
public and private bodies performing public administrative functions or providing
public services. This means that the Convention embraces governmental
accountability, transparency and responsiveness.
The Convention provides three environmental rights, which form the three
pillars of the Convention: the right to know, the right to participate and the right to
access to justice.
The access to environmental information (art. 4) simply means that anyone
can ask for environmental information possessed by any public or private body
performing a public function without an interest having to be stated. The definition
of environmental information is broad, including information on any element of the
environment.
It is significant that the Convention expressly refers here to landscape (Art.
2, 3 a). But it is even more significant that the Convention regulates the «right to
participate» with a view to making «decision-makers more accountable and
environmental decision-making more transparent». All the activities mentioned
have a significant impact not only on the environment but also on the landscape.
The importance of the prescriptions of the Convention toward the regulation of
landscape lies in the following words: here the public concerned means «the public
affected or likely to be affected by, or having an interest in, the environmental
decision-making (Art.2, 5); it shall be informed early in the process and in a
effective manner (Art. 6, 2); Each Party shall provide for early public participation,
when all options are open and effective participation can take place (Art. 6, 4)».
One should also mention «the right to access to justice». For the rights to
information and to public participation to be effective, the public must have the
right to justice. The Landscape Convention provides nothing in this respect,
whereas the Aarhus Convention provides that members of the public should be able
to challenge any violation of national law relating to the environment.
Again, the provision for legal recourse is the best guarantee of the efficacy
of the Convention.
We must bear in mind that the Aarhus Convention is directly concerned only
with environmental law and not with landscape. It can, nonetheless, also be
153
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
applied, on the one hand, in safeguarding interests very closely related to landscape
and, on the other hand, as it is invoked in the Preamble of the Convention on
Landscape, it can at least provide a model as regards the informed participation of
the public in decisions on land use.
The correlation of environment and landscape yields another implication.
Indeed, it should be noted that the formulation of a right to a healthy environment,
problematic though it be, has begun to have an impact thanks to the European
Court of Human Rights. In a 2001 decision (Hatton vs. United Kingdom) the
sanction imposed on the State affirms the safeguard provided for in Art.8 of the
Convention. The right to a healthy environment is here subsumed under the right to
respect for private and family life. According to Mr. Justice Costa: «the State has
positive duties, and (…) the right to a healthy environment is included in the
concept of the right to respect for private and family life».
5. Help from the laws of the European Union.
The laws of the European Union can also help make the principles of the
European Landscape Convention enforceable.
Here, too, we must look to environmental policy, and here, too, there can be
no doubt that the juridical meaning of environment in European law cannot be
identified with «landscape», as it refers, rather, to pollution. Nor can it be doubted
that landscape policy lacks a specific legal basis in the European Union Treaty. It is
also true, however, that its environmental policy has much in common with the
regulation of landscape – and in both its principles and its subject matter.
As regards the principles one need only note that art.11 of the Treaty
provides that: «Environmental protection requirements must be integrated into the
definition and implementation of the Union’s policies and activities, in particular to
promoting sustainable development».
Moreover, art. 191 affirms an objective (prudent and rational utilisation of
natural resources) which is common to European Landscape Convention. No less
important, the principles of precaution and prevention prescribed should also apply
to landscape policies.
The parameters drawn from European Union law are even more significant
if we look at the directives concerning the environment. The first reference is to the
European Impact Assessment Directive in force since 1985 and applied to a wide
range of public and private projects listed in the Directive itself.
The directive shall apply to the assessment of the environmental effects of
those «projects» which are likely to have significant effects on the environment
(airports, motorways, pipelines…). According to art. 1 of the directive «project»
also means also «interventions in the natural surroundings and landscape». And
«landscape» is also referred to in article 3 which says that the environmental
impact assessment shall identify, describe and assess the effects of a project on
154
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
(….) the landscape, fauna, flora, the cultural heritage and the interaction between
the factors mentioned.
The directive provides that projects likely to have significant effects on the
environment, in the broad meaning noted above, are subject to a requirement for
development consent and an assessment with regard to their effects. This implies
that: a) the developer must provide information on the environmental impact; b)
the environmental authorities and the public must be informed and consulted.
To this end, art.6 provides that «The public concerned shall be given early
and effective opportunities in the environmental decision-making procedures …
and shall, for that purpose, be entitled to express comments and opinions when all
options are open to the competent authority…before the decision on the request for
development consent is taken».
The importance of the participation of the general public is described by Art.
8 of the Directive as follows: «The results of consultations and information
gathered pursuant art. 5, 6 and 7 must be taken into consideration in the
development consent procedure».
It comes as no surprise, then, that the enforcement of this directive is highly
effective. Art. 9 a, in fact, requires that members of the public concerned (a) having
a sufficient interest, or alternatively (b) maintaining the impairment of a right
«have access to a review procedure before a court of law or another independent
and impartial body established by law to challenge the substantive or procedural
legality of the decisions, acts or omissions subject to the public participation
provisions of this Directive».
In any event, the State must guarantee «wide access to justice».
No less important is the 2001 directive on the Assessment of the effects of
certain plans and programmes on the environment.
Unlike the previous directive, this one does not refer explicitly to
«landscape». There are, nonetheless, numerous points in common with the
discipline of landscape, such as the affirmation of the precautionary principle and
sustainable development.
The basis of the directive is that «All plans and programmes which are likely
to have significant effects on the environment should be made subject to systematic
environmental assessment (Cons.10)».
By «environmental assessment» is meant «the preparation of an
environmental report, the carrying out of consultations, the taking into account of
the environmental report and the results of the consultations in decision-making
and the provision of information on the decision» (Art.2).
An environmental assessment shall be carried out for all plans and
programmes «which are prepared for agriculture, forestry (...) industry, transport
(…) town and country planning and land use …» (Art.3).
General obligation of the directive is that «The environmental assessment
shall be carried out during the preparation of a plan or programme and before its
adoption or submission to the legislative procedure» (Art.4).
155
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
After the adoption of a plan or programme public authorities, the public and
any Member State are informed about the plan, its content and the environmental
features of the plan (Art.9).
In light of the foregoing considerations it seems evident that the European
Union law can make an important contribution to the effectiveness and the
implementation of the European Landscape Convention.
156
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
MARCOS ALMEIDA CERREDA!
DIANA SANTIAGO IGLESIAS**
La salvaguardia del paesaggio in Galizia: situazione attuale e prospettive
future! **
Sommario: I. Introduzione: la crescente rilevanza giuridica del paesaggio e
la sua progressiva tutela nella comunitá autonoma galiziana. II. La Legge 7/2008,
del 7 luglio, sulla protezione del paesaggio in Galizia. 1. Ambito di competenza. 2.
Oggetto, fine ed ambito. 3. Principi-guida in materia di paesaggio 3.1. Principio di
riconoscimento giuridico della rilevanza del paesaggio. 3.2. Principio di
ordinamento, gestione e protezione del paesaggio. 3.3. Principio di promozione del
paesaggio. 3.4. Principio di collaborazione interamministrativa e di
collaborazione pubblico-privata per la protezione e per la promozione del
paesaggio. 4. Strumenti giuridici in materia di paesaggio. 4.1. Strumenti per la
protezione, la gestione, l’ordinamento e la promozione del paesaggio. A. Strumenti
imperativi unilaterali. A.1. Cataloghi del paesaggio. A.2. Direttive per il
Paesaggio. A.3. Studi sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica. A.4. Piani
d’azione relativi al paesaggio in aree protette. B. Strumenti volontari bilaterali o
multilaterali. B.1. Patti per il paesaggio. B.2. Accordi volontari in aree di speciale
interesse paesaggistico. 4.2. Strumenti d’analisi, studio e sensibilizzazione in
materia di paesaggio. A. Osservatorio Galiziano per il Paesaggio. B. Attività di
formazione, sensibilizzazione, educazione e concertazione. III. Riflessioni
conclusive. 1. Definizioni. 2. Strumenti per la protezione, l’ordinamento e la
gestione del paesaggio. 3. Strumenti d’organizzazione, di sensibilizzazione e di
concertazione per le politiche per il paesaggio. IV. Bibliografia.
I. Introduzione: la crescente rilevanza giuridica del paesaggio e la sua
progressiva tutela nella comunità autonoma galiziana.
La Comunità Autonoma della Galizia possiede una grande ricchezza
paesaggistica, composta da un mosaico di paesaggi distinti: litorali, fluviali,
rocciosi, boscosi, ecc. e di rapporti particolari tra gli stessi. Ciononostante, questa
ricchezza è scemata, giorno dopo giorno, a causa del degrado di molte aree del suo
territorio. Tale degrado si spiega a causa del progresso socioeconomico che la
Galizia ha sperimentato nel secolo scorso. Questo, da un lato, ha comportato un
!∗
Profesor Contratado Doctor dell'Università di Santiago di Compostela.
** Profesora Ayudante Doctor dell'Università di Santiago di Compostela.
 *** Il presente lavoro è frutto della rielaborazione, della traduzione e dell’approfondimento
dell’articolo La disciplina de la protección del paisaje en la comunidad autónoma de Galicia, in
Revista Catalana de Dret Ambiental, num. 1, 2010.
157
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
cambiamento radicale dell’attività della società galiziana – che ha abbandonato lo
svolgimento di attività agricole, silvicole e di allevamento del bestiame
soppiantandole con l’avvio di attività industriali e relative al settore dei servizi, che
interessano maggiormente il settore del turismo, - e, dall’altro, ha contribuito a
generare una notevole crescita urbanistica che, in molti casi, è avvenuta senza
alcun tipo di controllo.
Malgrado ciò, c’è da dire, fortunatamente, che questa tendenza negativa sta
svanendo, considerato che possiamo constatare che, progressivamente, la società
galiziana ed i suoi rappresentanti politici stanno prendendo coscienza
dell’importanza del paesaggio, non solo in quanto esso rappresenta una risorsa
economica di grande valore, ma anche perché è un elemento integrante della
cultura propria; di conseguenza, la prima esige ciò che i secondi hanno iniziato a
fare, ossia adottare le misure necessarie alla salvaguardia della ricchezza
paesaggistica galiziana1.
In questo modo, l’anteriormente menzionata «presa di coscienza» si è vista
riflessa nell’introduzione del paesaggio, come elemento da preservare, in svariate
norme2, legate, fondamentalmente, all’ordinamento del territorio e all’urbanistica3,
all’ambiente ed alle risorse naturali4.
Di dette norme, è conveniente mettere in evidenza due dati che
rappresentano altrettanti momenti chiave dell’iter di consolidamento di una tutela
1 Ad esempio, il Rapporto del “Valedor do pobo” del 2006 (BOPG, del 21 gennaio del 2008) può
essere ritenuto un esempio importante e recente di questa “presa di coscienza”.
2
Per un’analisi delle stesse, cfr.: A. MARTÍNEZ NIETO, La contaminación del paisaje, in Actualidad
Administrativa, num. 20, 1998, pp. 440 e ss. e J.L. DE VICENTE GONZÁLEZ, Normas de aplicación
directa y protección del paisaje en la Ley de Cantabria, 2/2001, del 25 giugno; ¿Límites a la
discrecionalidad de la Administración o conceptos jurídicos indeterminados?, in Revista de Estudios
de la Administración Local, num. 292-293, 2003, pp. 271-327.
3
V. Legge 9/2002, del 30 dicembre, sull’Ordinamento Urbanistico e sulla Protezione dell’Ambiente
Rurale, modificata dalla legge 2/2010, del 25 marzo.
Questa norma contiene numerosi precetti rilevanti in materia, fra i quali emergono l’articolo 32.2.g
che delimita il terreno rustico di protezione del paesaggio e l’articolo 38 che stabilisce gli usi
consentiti all’interno del suddetto terreno.
4
V. Legge 8/2002, del 18 dicembre, sulla Protezione dell’Atmosfera in Galizia; Legge 5/2006, del 30
giugno, sulla Protezione, la Conservazione ed il Potenziamento dei Fiumi Galiziani o Legge 3/2008,
del 23 maggio, sulle Miniere in Galizia.
158
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
giuridica del paesaggio in Galizia, particolareggiata, diretta e globale 5.
Innanzitutto, c’è la legge 1/1995, del 2 gennaio, sulla Protezione
dell’Ambiente della Galizia. Questo testo normativo, da un lato, nell’articolo 2,
determina come proprio criterio fondatore il principio di utilizzo razionale e di
difesa delle risorse naturali e del paesaggio, e, dall’altro, nell’articolo 4, considera
il paesaggio un elemento da proteggere.
L’articolo 20.1 insiste in questa seconda accezione dettando l’obbligo
dell’Amministrazione autonoma di redigere inventari, come fase previa alla
catalogazione, dei distinti spazi, settori ambientali ed ecosistemi da proteggere, tra
i quali cita espressamente il paesaggio. Come possiamo osservare, questa Legge
contempla, in diversi precetti, il paesaggio come un elemento degno di protezione
dalla prospettiva ambientale6.
In secondo luogo, avanzando verso una tutela specifica per il paesaggio,
troviamo la Legge 9/2001, del 21 agosto, sulla Conservazione della Natura della
Galizia. Questa legge, nell’articolo 8, definisce spazi naturali protetti quegli spazi,
dichiarati tali, che comprendono elementi o sistemi naturali di particolare valore,
interesse o unicità, dovuti tanto all’azione ed all’evoluzione naturale quanto
all’attività umana. D’altro canto, l’articolo 9.1.f, elenca una sorta di categoria in
riferimento a questi spazi naturali protetti: quella di “Paesaggio Protetto”.
L’articolo 15 di questa Legge regolamenta la categoria in questione, la cui
dichiarazione di conformità all’articolo 24 della stessa spetta, per Decreto, al
“Consello de la Xunta” della Galizia, su proposta della “Consellería” competente
in materia d’ambiente, stabilendo che: «1. I paesaggi protetti sono spazi che, in
base ai loro valori peculiari, tanto estetici e culturali quanto relativi alla relazione
armoniosa tra l’uomo e la natura, sono da ritenere meritevoli di una protezione
speciale. 2. Il regime per la salvaguardia dei paesaggi protetti mira alla
conservazione dei rapporti e dei processi, sia naturali che socioeconomici, che
5
L’idea del paesaggio come concetto giuridico differenziato è un fenomeno abbastanza recente, sia in
Galizia, che in Spagna. L’esistenza di una legislazione specifica in materia di tutela del paesaggio è
molto recente, dato che fino a non molto tempo fa questa costituiva una problematica marginale
regolata, in maniera incidentale e dispersa, da norme sull’ambiente, sull’urbanistica, sulle risorse
naturali o sul patrimonio.
Su quest’argomento, v.: L. MARTÍN-RETORTILLO BAQUER, Problemas jurídicos de la tutela del
paisaje, in Revista de Administración Pública, num. 71, 1973, pp. 423-442; A. MARTÍNEZ NIETO, La
protección del paisaje en el Derecho español (I), in Actualidad Administrativa, num. 32, 1993, pp.
397-411 e La protección del paisaje en el Derecho español (II), in Actualidad Administrativa, num.
33, 1993, pp. 413-430; C. FERNÁNDEZ RODRÍGUEZ, La protección del paisaje. Un estudio de Derecho
español y comparado, Marcial Pons, Madrid-Barcelona, 2007, pp. 27 e ss. y F. CANALES PINACHO, y
P. OCHOA GÓMEZ, La juridificación del paisaje o de cómo convertir un criterio esencialmente
estético en un bien jurídico objetivable, in Diario La Ley, num. 7183, 2009, pp. 1-34.
6
V. un commento critico su questa legge in A. NOGUEIRA LÓPEZ, La regulación medioambiental en
la Comunidad Autónoma de Galicia (Ley de Protección Ambiental de Galicia y decretos de
desarrollo), in Revista Andaluza de Administración Pública, num. 24, 1995, pp. 319-337. Sui tempi
minimi per la conclusione degli accordi volontari, v. A. NOGUEIRA LÓPEZ, La actividad de fomento
para la protección de la atmósfera, nella stampa.
159
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
hanno contribuito alla loro formazione e ne rendono possibile la sopravvivenza»7.
È evidente che questa norma già comprende una tutela del paesaggio più concreta e
particolareggiata rispetto a quella della Legge del 1995, nonostante persista nel
regolamentare il paesaggio non come fenomeno globale bensì come elemento
localizzato e preciso. 8
Infine, in seguito a questi due rilevanti precedenti, ha luogo l’approvazione
della Legge 7/2008, del 7 luglio, sulla Protezione del Paesaggio in Galizia (d’ora in
avanti, LPPG), per mezzo della quale si include nell’Ordinamento galiziano una
regolamentazione generale del paesaggio, intendendo l’intero territorio della
Comunità Autonoma e non più solo alcune parti che possano vantare un valore
speciale o particolare9. Si tratta, senza ombra di dubbio, di un’importante
regolamentazione, visto e considerato che rappresenta la terza regolamentazione di
questo tipo che sia mai stata approvata in Spagna: è stata infatti preceduta soltanto
dalla Legge 4/2004, del 30 giugno, sull’Ordinamento del Territorio e sulla
7
Questo precetto risponde a quanto disposto nella normativa statale di base, concretamente, a quanto
stabilito nell’articolo 34 della Legge 42/2007, del 13 dicembre, del Patrimonio Naturale e della
Biodiversità che ordina: «[I] Paesaggi Protetti sono parti del territorio che le Amministrazioni
competenti, tramite la pianificazione applicabile, per i loro valori naturali, estetici e culturali, in
conformità al Convegno sul Paesaggio del Consiglio d’Europa, considerino meritevoli di una
protezione speciale.
2. Gli obiettivi principali della gestione dei Paesaggi Protetti sono i seguenti:
a) La conservazione dei valori particolari che li caratterizzano.
b) La preservazione dell’interazione armoniosa tra la natura e la cultura in una zona determinata.
3. Nei Paesaggi Protetti si salvaguarderà il mantenimento delle pratiche di carattere tradizionale che
constribuiscono alla preservazione dei loro valori e delle loro risorse naturali».
Questo precetto, in accordo alla Seconda Disposizione Finale di detta Legge, ha carattere di
legislazione di base sulla protezione dell’ambiente, conformemente a quanto disposto nell’articolo
149.1.23 della Costituzione.
Riguardo alla tutela del paesaggio ad opera della giurisprudenza, possiamo citare: la sentenza del
Tribunale Supremo del 10 dicembre del 2009, Aula del Contenzioso-Amministrativo, ricorso num.
4384/2005; la sentenza del Tribunale Superiore di Giustizia dell’Asturia del 26 luglio del 1996, Aula
del Contenzioso-Amministrativo, ricorso num. 1620/1994; la sentenza del Tribunale Superiore di
Giustizia delle Isole Baleari dell’1 giugno del 2001, Aula del Contenzioso-Amministrativo, ricorso
num. 332/1997; la sentenza del Tribunale Superiore di Giustizia della Murcia del 9 novembre del
2001, Aula del Contenzioso-Amministrativo, ricorso num. 1007/2000 e la sentenza del Tribunale
Superiore di Giustizia della Comunità Valenziana dell’8 ottobre del 2008, Aula del ContenziosoAmministrativo, ricorso num. 1014/2006
Nella Legge 9/2001 è possibile rintracciare riferimenti al paesaggio in vari precetti, come l’articolo 32
che regolamenta il contenuto dei piani regolatori delle risorse naturali o l’articolo 63 che regola le
infrazioni meno gravi.
8
Per analisi sui precedenti normativi in materia d’ordinamento del paesaggio nella Comunità
Autonoma della Galizia, v. A. DÍAZ OTERO, El valor jurídico del paisaje en el derecho público
gallego, in Corts: Anuario de Derecho Parlamentario, num. 21, 2009, pp. 141 e ss.
9
V. A. NOGUEIRA LÓPEZ, y F. J. SANZ LARRUGA, Galicia: los afanes por aprobar las leyes y planes
ambientales pendientes en el final de la legislatura, in Observatorio de políticas ambientales 2009, F.
LÓPEZ RAMÓN (coord.), Thomson Reuters, Cizur Menor, 2009, pp. 525-564.
160
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Protezione del Paesaggio, in Valenzia (d’ora in avanti, LVOTPP), e dalla Legge
8/2005, dell’8 giugno, sulla Protezione, la Gestione e l’Ordinamento del Paesaggio,
in Catalogna (d’ora in avanti, LCPGOP).
Questa Legge nasce con l’intezione di integrare (nel senso di aumentare la
protezione e la promozione giuridica del paesaggio), e non di soppiantare, le norme
anteriormente citate. A sostegno di questa affermazione, riferiamo il fatto che in
seguito alla sua approvazione sono stati promulgati il Decreto 263/2008, del 13
novembre, per cui si dichiara paesaggio protetto la “Valle del fiume Navea”, ed il
Decreto 294/2008, dell’11 dicembre, per cui viene dichiarato paesaggio protetto
“Penedos de Pasarela e Traba”; in entrambi i casi è rintracciabile il fatto che dette
norme si applicano congiuntamente.
Concludiamo questa breve introduzione evidenziando il fatto che il presente
lavoro solo pretende, con spirito critico, di rendere nota la regolamentazione sulla
protezione del paesaggio contenuta nella già citata LPPG, soprattutto in un'ottica di
confronto con le precedenti regolamentazioni delle altre Comunità Autonome.
II. La legge 7/2008, del 7 luglio, sulla protezione del paesaggio in galizia.
1. Ambito di competenza
Lo statuto d’Autonomia della Galizia, nell’articolo 27.30, stabilisce che
dettare norme aggiuntive relative alla protezione dell’ambiente e del paesaggio è di
competenza esclusiva della Comunità Autonoma, nei termini dell’articolo 149.1.23
della Costituzione Spagnola; precetto che, a sua volta, afferma che lo Stato
possiede la competenza esclusiva per la legislazione di base sulla protezione
dell’ambiente, senza per questo pregiudicare la facoltà delle Comunità Autonome
di stabilire norme aggiuntive per la protezione dello stesso.
Detto altrimenti, allo Stato compete emettere la legislazione di principio per
la creazione di un minimo comune denominatore in materia di protezione di questi
beni giuridici; alle Comunità Autonome spetta, invece, sviluppare la normativa in
questione, eventualmente approvando norme aggiuntive volte ad introdurre più
elevati livelli di tutela.
Bisogna sottolineare il fatto che nel precetto contenuto nello Statuto della
Galizia si riconosce come titolo di competenza autonomo “il paesaggio” – se legato
all’ambiente – cosa che non appare nella Costituzione; in questo modo lo Statuto
diventa una sorta di precursore nel cammino verso la implementazione della tutela
161
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
del paesaggio 10.
Al momento della promulgazione della LPPG, il Parlamento galiziano, oltre
a basarsi sul titolo di competenza, invoca l’articolo 27.3 dello Statuto d’Autonomia
della Galizia relativo alla competenza esclusiva della Comunità Autonoma della
Galizia in materia di ordinamento del territorio, urbanistica e nuclei abitativi.
2. Oggetto, fine ed ambito
La LPPG ha per oggetto, in conformità all’articolo 1, il riconoscimento
10 Successivamente, questo titolo verrà raccolto: nell’articolo 28.3 della Legge Organica 4/1983, del
25 febbraio, dello Statuto d’Autonomia della Castiglia e León, disposizione oggi contenuta
nell’articolo 70.1.35 della Legge Organica 14/2007, del 30 novembre; nell’articolo 37.3 della Legge
Organica 8/1982, del 10 agosto, dello Statuto d’Autonomia dell’Aragona per la redazione della Legge
Organica 5/1996, del 30 dicembre, disposizione oggi contenuta nell’articolo 71.22 della Legge
Organica 5/2007, del 20 aprile, per la riforma dello Statuto d’Autonomia dell’Aragona; nell’articolo
9.1 della Legge Organica 3/1982, del 9 giugno, sullo Statuto d’Autonomia de La Rioja, nella
redazione della Legge Organica 2/1999, del 7 gennaio o nell’articolo 149.1 della Legge Organica
6/2006, del 19 luglio, sullo Statuto d’Autonomia della Catalogna.
In questi ed in altri testi statutari, il paesaggoo, e più specificamente la sua protezione e la sua
promozione, appaiono, di tanto in tanto, come un principio regolatore ovvero come un obiettivo da
raggiungere. Fra i testi in questione possiamo elencare: l’articolo 12.3.6 della Legge Organica 6/1981,
del 30 dicembre, sullo Statuto d’Autonomia dell’Andalusia, oggi riproposto nell’articolo 37 della
Legge Organica 2/2007, del 19 marzo, sullo statuto d’Autonomia dell’Andalusia; l’articolo 4.4.g della
Legge Organica 9/1982, del 10 agosto, sullo Statuto d’Autonomia delle Isole Baleari, oggi
ripresentato nella Legge Organica 1/2007, del 28 febbraio, sulla riforma dello Statuto d’Autonomia
delle Isole Baleari; l’articolo 5.2.f della Legge Organica 1/1995, del 13 marzo, sullo Statuto
d’Autonomia di Ceuta e della Legge Organica 2/1995, del 13 marzo, sullo Statuto d’Autonomia di
Melilla, o l’articolo 46.4 della Legge Organica 6/2006, del 19 luglio, sullo Statuto d’Autonomia della
Catalogna.
Infine, è opportuno evidenziare che anche alcuni degli Statuti di seconda generazione riconoscono il
diritto dei cittadini a godere del paesaggio. In questo senso è possibile citare, per esempio: l’articolo
27.1 della Legge Organica 6/2006, del 19 luglio, sullo Statuto d’Autonomia della Catalogna o
l’articolo 28.1 della Legge Organica 2/2007, del 19 marzo, sullo Statuto d’Autonomia dell’Andalusia.
Il fatto di inserire l'affermazione di diritti negli Statuti d’Autonomia ha generato nella dottrina una
appassionata polemica riguardo alla loro legittimità costituzionale ed utilità, v. rispetto alla stessa e
rispetto all’efficacia di questi diritti: L. DÍEZ-PICAZO, ¿Pueden los Estatutos de Autonomía declarar
derechos, deberes y principios?, in Revista Española de Derecho Constitucional, num. 78, 2007, pp.
63 e ss.; De nuevo sobre las declaraciones estatuarias de derechos: respuesta a Francisco Caamaño,
in Revista Española de Derecho Constitucional, n. 81, 2007, pp. 63 e ss.; F. CAAMAÑO DOMÍNGUEZ,
Sí, pueden (Declaraciones de derechos y Estatutos de Autonomía), in Revista Española de Derecho
Constitucional, num. 79, 2007, pp. 33 e ss.; E. EXPÓSITO, La regulación de los Derechos en los
nuevos Estatutos de autonomía, in Revista de Estudis Autonòmics i Federals, num. 5, 2007, pp. 147 e
ss.; J. L. MARTÍNEZ LÓPEZ-MUÑIZ, Estatutos de Autonomía y Declaraciones de Derechos, in
Derechos Fundamentales y otros estudios en homenaje al prof. Dr. Lorenzo Martín-Retortillo, vol. I,
Gobierno de Aragón et al., Zaragoza, 2008, pp. 161 e ss. y L. ORTEGA ÁLVAREZ, Los derechos
ciudadanos en los nuevos estatutos de autonomía, in Derechos Fundamentales y otros estudios en
homenaje al prof. Dr. Lorenzo Martín-Retortillo, vol. I, Gobierno de Aragón et al., Zaragoza, 2008,
pp. 185 e ss.
162
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
giuridico, la protezione, la gestione e l’ordinamento del paesaggio galiziano. Esso,
conformemente all’articolo 3.1.a della LPPG, corrisponde a qualunque parte del
territorio galiziano percepita in quanto tale dalla popolazione, il cui carattere sia il
risultato dell’azione e dell’interazione di fattori naturali e umani11.
La LPPG ha come fine quello di preservare e ordinare tutti gli elementi che
configurano il paesaggio della Galizia nella prospettiva dello sviluppo sostenibile,
avendo assimilato l’idea che il paesaggio, in quanto pervade l’ambito ambientale,
culturale, sociale ed economico della comunità galiziana, riveste un’importanza
tale da costituire un primario interesse generale di quest'ultima. Per questo motivo,
e dato che possiede questo carattere trasversale, la LPPG stimola la piena
integrazione del paesaggio in tutte le politiche di settore che incidono sullo stesso.
Le disposizioni della LPPG, in conformità all’articolo 4, si applicheranno
nell’intero territorio della Galizia, sia che si tratti di aree naturali, rurali, urbane o
periurbane, sia che si tratti di altre aree di alto valore ambientale e culturale e
perfino di paesaggi degradati, arrivando ad estendersi nelle zone terrestri,
marittimo-terrestri ed alle acque interne12.
Infine, è necessario sottolineare che l’approvazione della LPPG risponde
all’esigenza di rendere applicabili le disposizioni della Convenzione Europea sul
Paesaggio (d’ora in avanti, CEP), che furono approvate a Firenze il 20 ottobre del
2000, su proposta del Consiglio d’Europa13, e furono ratificate dal Regno di
Spagna il 6 novembre del 2007, entrando in vigore l’1 marzo del 2008 14.
3. Principi-guida in materia di paesaggio
L’articolo 2.1 della LPPG stabilisce che i poteri pubblici, nella loro attività
11
In questo precetto viene recepita pedissequamente la definizione contenuta nell’articolo 1.a della
CEP.
12
Quest’ambito corrisponde essenzialmente a quanto previsto dall’articolo 2 della CEP.
13 Fra i precedenti immediati della CEP, è possibile citare le Carte per il Paesaggio Mediterraneo,
formulate dalle regioni Andalusia, Languedoc-Roussillon, Toscana e Veneto ed adottate dalla
Conferenza dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa.
14
Riguardo al contenuto, alla portata ed al significado di questo documento, v.: F. ZOIDO NARANJO,
La Convención Europea del Paisaje y su aplicación en España, in Ciudad y Territorio. Estudios
Territoriales, num. 23 (128), 2001, pp. 275-281; M. PRIEUR, La Convención Europea del Paisaje, in
Revista Andaluza de Administración Pública, num. 50, 2003, pp. 19-25; I. LASAGABASTER
HERRARTE, y I. LAZCANO BROTÓNS, Protección del paisaje, ordenación del territorio y espacios
naturales protegidos, in Revista Vasca de Administración Pública, num. 70, 2004, pp. 128 y ss.; A.
FABEIRO MOSQUERA, La protección del paisaje: su creciente importancia en el ámbito internacional
y la dispersión de instrumentos jurídicos para su protección integral en el Derecho español, in
Revista Española de Derecho Administrativo, num. 131, 2006, pp. 533 e ss.; C. FERNÁNDEZ
RODRÍGUEZ, La protección del paisaj, cit., pp. 82 e ss.
163
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
in materia di paesaggio, si devono ispirare ai principi elencati nel secondo comma
del predetto precetto. In realtà, nell’articolo 2.2 della LPPG non sono presenti
principi ispiratori formulati in modo tecnicamente preciso, ma soltanto alcuni
corollari degli stessi dai quali desumerli.
Stando così le cose, possiamo affermare, alla luce del contenuto di questa
disposizione, che il comportamento dei poteri pubblici deve uniformarsi ai seguenti
principi: a) riconoscimento giuridico della rilevanza del paesaggio; b) protezione
del paesaggio; c) promozione del paesaggio; d) collaborazione interamministrativa
e collaborazione pubblico-privata in ordine alla protezione ed al rilancio del
paesaggio.
Nel prosieguo del presente lavoro spiegheremo ognuno di questi principi e le
loro principali manifestazioni contenute nella LPPG.
3.1. Principio di riconoscimento giuridico della rilevanza del paesaggio
Conformemente all’articolo 2.2.a, i poteri pubblici galiziani devono
riconoscere giuridicamente il paesaggio come elemento essenziale dell’ambiente e
del benessere collettivo, segno della qualità delle vita delle persone e componente
fondamentale del patrimonio naturale e culturale della Galizia, espressione della
propria identità 15.
Per rafforzare questo principio, sarebbe stato opportuno includere nella
LPPG un articolo che specificasse quali fossero le finalità che l’attività dei poteri
pubblici avrebbe dovuto perseguire in detta materia16.
15
Il riconoscimento giuridico del paesaggio, nei termini previsti dal già citato articolo 2.2.a della
LPPG, è una delle misure generali per cui gli Stati firmanti del CEP si compromettono, in accordo
all’articolo 5.a dello stesso.
16 Avrebbe potuto servito da modello l’articolo 8 delle LCPGOP, il quale stabilisce che:
“Le azioni messe in atto riguardanti il paesaggio possono avere, tra le tante, le seguenti finalità:
a) La preservazione dei paesaggi che, per il loro carattere naturale o culturale, richiedano interventi
specifici e integrati.
b) Il miglioramento paesaggistico delle periferie e delle vie d’accesso alle città ed alle cittadine, così
come l’eliminazione, la riduzione ed il trasferimento degli elementi, degli utilizzi e delle attività che
le degradano.
c) Il mantenimento, il miglioramento e il restauro dei paesaggi agrari e rurali.
d) L’articolazione armonica dei paesaggi, riservando particolare attenzione agli spazi di contatto tra
gli ambiti urbani e tra gli ambiti terrestri e marini.
e) L’elaborazione di progetti d’integrazione paesaggistica per aree di attività industriali e commerciali
e per le infrastrutture.
f) Il supporto delle attuazioni delle amministrazioni locali e degli enti privati per la promozione e
protezione del paesaggio.
g) Le acquisizioni di terreno per incrementare il patrimonio pubblico del suolo nelle aree che si
stimano “ di interesse” per la gestione paesaggistica.
h) L’attribuzione di valore al paesaggio in quanto risorsa turistica.
In questa direzione, nella procedura della LPPG, il GPPG introdusse un emendamento aggiuntivo
attraverso l'articolo 7 bis.
164
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
3.2. Principio di ordinamento, gestione e protezione del paesaggio
Questo principio si sostanzia, essenzialmente, in un duplice mandato per i
poteri pubblici galiziani.
In primo luogo, in base all’articolo 2.2.b della LPPG, i poteri pubblici
devono difendere e preservare il paesaggio, favorendo una relazione armonica e
rispettosa tra la popolazione e gli spazi, rilanciando un uso razionale e ordinato del
territorio che tenga in considerazione i valori naturali e culturali dei paesaggi. A
garanzia di questa relazione armonica tra gli abitanti e gli spazi, l’articolo 2.2.c
della LPPG, disciplinando l’iter parlamentare di questa norma17, riconosce alle
persone che vivono nelle zone di speciale interesse paesaggistico il diritto ad uno
sviluppo economico, culturale e sociale, nonché equilibrato e sostenibile.
In secondo luogo, secondo l’articolo 2.2.d della LPPG, i poteri pubblici
galiziani devono ideare e attuare politiche proprie del paesaggio 18. L’articolo 5
della LPPG insiste su questa necessità, disponendo che i poteri pubblici veglino
affinché, nell’ambito della loro competenza e a seconda della tipologia di ogni
territorio, si adottino le misure specifiche necessarie alla protezione, alla gestione e
all’ordinamento del paesaggio, nella misura in cui quest’ultimo richieda un
progetto e comporti l’attuazione di politiche mirate.
Le politiche sul paesaggio vengono definite, dall’articolo 3.b della LPPG,
come la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti dei principi
generali delle strategie e delle direttive che permettono l’adozione di misure
specifiche dirette alla protezione, gestione e pianificazione dei paesaggi19 .
Questi tre fini – protezione, gestione e pianificazione dei paesaggi – delle
politiche sul paesaggio vengono chiariti nell’articolo 6 della LPPG nel seguente
modo:
- La pianificazione del paesaggio comprende la realizzazione di tutte quelle
azioni che presentano un carattere lungimirante particolarmente accentuato che
mira a mantenere, migliorare, restaurare o rigenerare paesaggi20.
- La gestione del paesaggio comprende tutte quelle azioni che, dalla
prospettiva dell’uso sostenibile del territorio, garantiscono il mantenimento
regolare del paesaggio, mediante il controllo delle trasformazioni indotte dai
17
V. BOPG del 16 aprile, del 22 maggio, dell’ 11 giugno e del 16 giugno del 2008.
18
Cfr. articolo 5.b del CEP.
19
Cfr. articolo 1.b del CEP.
20
Cfr. l’articolo 1.f del CEP. Occorre mettere in rilievo che la redazione della LPPG è,
probabilmente, leggermente più restrittiva rispetto a quella della CEP, visto e considerato che non
include il termine “creare”.
165
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
processi sociali, economici e ambientali21.
- La protezione del paesaggio coinvolge tutte quelle azioni che hanno come
fine la preservazione e la conservazione degli elementi più significativi e
caratteristici di un paesaggio, giustificati per il loro valore patrimoniale, come
risultato della loro configurazione naturale o dell’intervento umano sull’habitat 22.
Infine, occorre evidenziare che, per l’articolo 2.2.d della LPPG, le politiche
sul paesaggio devono essere comprese nelle politiche di protezione ambientale, di
ordinamento territoriale ed urbanistica, in materia culturale, turistica, agraria,
sociale ed economica, ed in quelle altre che possano avere un impatto diretto o
indiretto sul paesaggio 23. Questo mandato si ripropone nell’articolo 5.2 della
LPPG, il quale stabilisce che i poteri pubblici includeranno la considerazione del
paesaggio nelle politiche di ordinamento territoriale e di urbanistica, e nelle loro
politiche ambientali, per il patrimonio culturale, agricolo, forestale, sociale,
turistico, industriale ed economico, così come in qualsiasi altra politica di settore
21
Cfr. l’articolo 1.e del CEP.
22
Cfr. articolo 1.d del CEP.
23
Cfr. articolo 5.d del CEP.
166
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
che possa generare un impatto diretto o indiretto sul paesaggio 24.
3.
Principio di promozione del paesaggio
Mettere in pratica adeguatamente questo principio implica:
- Sensibilizzare la società galiziana sia riguardo al valore, l’importanza e le
funzioni del paesaggio, sia rispetto ai processi di trasformazione che sperimenta
(art. 2.2.g della LPPG) 25. L’articolo 14.1 della LPPG, che si analizzerà in seguito,
impone, in questo campo, determinati obblighi alla “Xunta” della Galizia.
- Promuovere lo studio e la formazione in materia di paesaggio, sviluppando
attività specifiche sull’importanza, la protezione, la gestione e l’ordinamento del
24 Come esempio di questa integrazione, è possibile citare l’articolo 42 “Condizioni generali delle
costruzioni in terreno rustico” della Legge 9/2002, del 30 dicembre, sull’Ordinamento Urbanistico e
sulla Protezione dell’Ambiente Rurale, modificata dalla Legge 2/2010, del 25 marzo, che stabilisce
che: «1. Per concedere la licenza od autorizzare qualsiasi tipo di costruzione o installazione in suolo
rustico, si dovrà giustificare il soddisfacimento dei seguenti requisiti: [...]
b) Prevedere le misure correttive necessarie a minimizzare l’incidenza dell’attività richiesta sul
territorio, così come ogni misura, condizione o limiti tendenti ad ottenere la minore occupazione
territoriale e la migliore protezione del paesaggio, delle risorse produttive e dell’ambiente naturale,
così come la preservazione del patrimonio culturale e la peculiarità e tipologia architettonica della
zona.
c) Soddisfare i seguenti requisiti di edificazione: [...]
– Il volume massimo della costruzione sarà simile a quello delle costruzioni tradizionali esistenti sul
terreno rustico del contesto territoriale [...]. In ogni caso, dovranno adottarsi le misure correttive
necessarie per garantire il minimo impatto visivo sul paesaggio e la minima alterazione del rilievo
naturale dei terreni.
– Le caratteristiche tipologiche delle costruzioni dovranno essere congruenti alle tipologie rurali
tradizionali del contesto, in particolare, le condizioni di volumetria, il trattamento delle facciate, la
morfologia e la grandezza delle aperture, e le soluzioni di copertura, che, in ogni caso, saranno
costituite da piani continui senza interruzioni nelle proprie pendenze. Salvi i casi opportunamente
giustificati per la qualità architettonica del progetto, i materiali impiegati per il completamento della
copertura saranno tegole, ceramica o ardesia, rispettando la tipologia propria della zona […]
– Le caratteristiche estetiche e costruttive ed i materiali, i colori e le rifiniture saranno confacenti al
paesaggio rurale e alle costruzioni tradizionali del contesto. In questo senso, per la rifinitura delle
costruzioni si impiegherà la pietra ed altri materiali tradizionali e propri della zona. In casi giustificati
dalla qualità architettonica della costruzione, potranno impiegarsi altri materiali conformi ai valori
naturali, al paesaggio rurale ed alle costruzioni tradizionali del contesto.
– I recinti e le cinte saranno preferibilmente costituiti da vegetazione, non essendovi possibilità che
quelli realizzati in materiale opaco di fabbrica eccedano il metro di altezza, eccetto in appezzamenti
edificati, per i quali il limite fissato è di 1,50 metri. In ogni caso, dovranno essere fabbricati con
materiali tradizionali del contesto rurale in cui si situano, non essendo permesso l’uso del cemento o
di altro materiale di fabbrica, salvo che siano debitamente rivestiti e verniciati nelle forme che si
specificano nella normativa [...]».
25
Cfr. articolo 6.A del CEP.
167
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
paesaggio (art. 2.2.h della LPPG)26.
L’articolo 14.2 della LPPG, che sarà oggetto di studio più avanti, prevede
diverse azioni in quest’ambito.
3.4. Principio di collaborazione interamministrativa e collaborazione
pubblico-privata per la protezione e per la promozione del paesaggio
Questo principio si traduce, inizialmente, in:
- Promuovere il coordinamento e la collaborazione tra le distinte
Amministrazioni Pubbliche in materia di paesaggio (art. 2.2.e della LPPG). In
questo senso, da un lato, l’articolo 7 della LPPG, ordina alla “Xunta” della Galizia
di potenziare la cooperazione con tutte le Pubbliche Amministrazioni competenti
nel territorio, specialmente con le Amministrazioni locali, con l’obiettivo di
promuovere lo sviluppo di politiche comuni, dovutamente coordinate e
programmate, che assicurino la realizzazione dei fini di ordinamento, gestione e
promozione del paesaggio perseguiti dalla LPPG; dall’altro lato, l’articolo 5.3
dispone che la “Xunta” della Galizia deve stimolare attività di cooperazione oltre
confine nei distinti livelli territoriali, per l’elaborazione di politiche e programmi
comuni in materia di paesaggio, anche con le Comunità Autonome confinanti con
la Galizia; in questa direzione, l’articolo 12.4 della LPPG, in particolare, ordina
all’Amministrazione ambientale galiziana, nelle aree oltre confine o
interautonomiche dotate di qualche spazio naturale protetto, di promuovere la
formulazione di piani d’azione congiunti in materia di paesaggio27.
− Creare meccanismi di partecipazione sociale per le decisioni e per la
definizione di politiche sul paesaggio, soprattutto rispetto alle Entità locali (art.
2.2.f della LPPG)28. In linea con questo principio, la LPPG stabilisce distinti
procedimenti partecipativi negli articoli 9.5 e 10.6.
4. Strumenti giuridici in materia di paesaggio
La LPPG mette a disposizione dei poteri pubblici due tipi di strumenti per il
conseguimento del loro fine 29: gli strumenti per la protezione, la gestione e
l’ordinamento del paesaggio e gli strumenti d’organizzazione, di sensibilizazzione
26 Cfr. articolo 6.B del CEP. Sembra opportuno rilevare che le previsioni della LPPG in questa
materia sono meno restrittive di quelle della CEP.
27
Cfr. articolo 9 del CEP.
28
Cfr. articolo 5.c del CEP.
29 Rileviamo che, ad ogni modo, essi non sono gli unici strumenti esistenti atti al raggiungimento dei
suddetti fini. Difatti, possiamo mettere in rilievo i Piani Speciali per la Protezione dei Paesaggi di
Interesse, regolati nell’articolo 69 della Legge 9/2002, del 30 dicembre, riguardante l’Ordinamento
Urbanistico e la Protezione dell’Ambiente Rurale, modificata dalla Legge 2/2010, del 25 marzo.
168
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
e di concertazione delle politiche per il paesaggio30.
4.1. Strumenti per la protezione, la gestione, l’ordinamento e la promozione
del paesaggio
Questi strumenti si possono classificare in due gruppi, in funzione dei
soggetti che intervengono negli stessi e delle condizioni in cui lo fanno. In primo
luogo, abbiamo gli strumenti imperativi unilaterali, obbligatori, la cui adozione
spetta all’Amministrazione autonomica, anche se in alcune occasioni la loro
elaborazione è frutto dell’iniziativa di un privato 31. In secondo luogo, riscontriamo
l’esistenza di strumenti volontari bilaterali o multilaterali, che costituiscono il
risultato della libera contrattazione fra differenti soggetti, i quali collaborano, su un
piano di parità, ai fini dell’adozione di una serie di misure per la promozione e per
la tutela del paesaggio.
A. Strumenti imperativi unilaterali
Conformemente all’articolo 8 della LPPG, sono strumenti per la protezione,
la gestione e l’ordinamento del paesaggio della Galizia: i Cataloghi del Paesaggio,
le Direttive per il Paesaggio, gli Studi sull’Impatto e sull’Integrazione
30
Cfr. articolo 6.C, D ed E del CEP.
31
In conformità all’articolo 16 del Decreto 316/2009, del 4 giugno, che stabilisce la struttura organica
della “Consellería de Medio Ambiente, Territorio e Infraestructuras”, l’elenco degli strumenti che di
seguito si studieranno non costituiscono un numerus clausus.
169
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Paesaggistica e i Piani d’Azione sul Paesaggio in Aree Protette 32.
A.1. Cataloghi del Paesaggio
Questi strumenti vengono regolamentati nell’articolo 9 della LPPG, nel
quale è compresa la loro definizione, il loro contenuto essenziale e la procedura
alla quale attenersi per la loro elaborazione.
In questo modo, il primo comma dello stesso articolo definisce i Cataloghi
del Paesaggio come i documenti di riferimento che, avendo riguardo alle distinte
aree geografiche, morfologiche, urbane e litorali esistenti nel territorio galiziano,
delimitano, in base ai differenti studi e lavori esistenti in materia, le grandi aree
paesiggistiche della Galizia, individuando i diversi tipi di paesaggio esistenti in
ognuna di esse e le loro caratteristiche differenziali33.
Riguardo il suo contenuto, è necessario indicare che, per il secondo comma
del già citato articolo 9, i Cataloghi del Paesaggio devono comprendere: in primo
luogo, l’individuazione dei differenti tipi di paesaggio che esistono in ogni area
paesaggistica; in secondo luogo, un inventario dei valori paesaggistici presenti in
ogni area paesaggistica, distinguendo quegli ambiti in cui ognuna di queste aree si
trovi in uno stato di deterioramento e necessiti di particolari misure di intervento e
32
Nell’ambito della Comunità Valenziana, in conformità all’articolo 30 della LVOTPP, sono
strumenti d’ordinamento e di gestione del paesaggio: i Piani d’Azione Territoriale e, in assenza di
questi o come loro complemento, i Piani Generali. Entrambi, secondo quanto afferma il secondo
comma di questo precetto, dovranno comprendere uno Studio sul Paesaggio. Questo mentre il
Decreto 120/2006, dell’11 agosto, che approva il Regolamento del Paesaggio della Comunità
Valenziana (d’ora in avanti, RPCV), specifica, nel suo articolo 23, più dettagliatamente, gli strumenti
per la protezione, l’ordinamento e la gestione del paesaggio. In base a questo precetto, si tratta de: Il
Piano d’Azione Territoriale per il Paesaggio della Comunità Valenziana, gli Studi sul Paesaggio, gli
Studi sull’Integrazione Paesaggistica, i Cataloghi del Paesaggio ed i Programmi per il Paesaggio.
Circa gli strumenti di ordinamento e di gestione del paesaggio nella LVOTPP, v.: E. MARTÍNEZ
MARTÍNEZ, La Ley 4/2004, de ordenación del territorio y protección del paisaje de la Comunidad
Valenciana: hacia una ordenación estructural sostenible, in Revista Aranzadi de Derecho Ambiental,
num. 9, 2006, pp. 315 e ss. e La protección del medio natural en la Ley 4/2004, de ordenación del
territorio y protección del paisaje de la Comunidad Valenciana, Corts Valencianes, Valencia, 2007,
pp. 69 e ss.
In Catalogna, gli strumenti per la protezione, la gestione e l’ordinamento del paesaggio, sono previsti
negli articoli 9.a, 12 e 14 della LCOGOP in cui vengono regolamentati i Cataloghi del Paesaggio, le
Direttive per il Paesaggio e le Carte per il Paesaggio e nell’articolo 19 del Decreto 343/2006, del 19
settembre, dal quale prende forma la citata Legge (d’ora in avanti, RPC) in cui, oltre agli strumenti
citati, vengono regolamentati gli Studi e i Rapporti sull’Impatto e sull’Integrazione Paesaggistica.
33
Come abbiamo osservato, questi Cataloghi sono altresì regolati dalla legislazione autonomica
valenziana e catalana. Ciononostante, è necessario sottolineare il fatto che mentre in Galizia ed in
Catalogna si tratta di strumenti di ambito generale che abbracciano tutto il territorio, in Valenzia
contemplano solo le Unità di Paesaggio o le Risorse Paesaggistiche oggetto di protezione speciale.
Tuttavia, bisogna anche ricordare che, in Galizia ed in Catalogna, i due strumenti non si configurano
in modo identico, giacché assolvono a differenti funzioni; in Catalogna i Cataloghi definiscono gli
obiettivi di qualità paesaggistica per ogni unità di paesaggio e riuniscono le misure e le azioni
necessarie a raggiungere gli obiettivi di qualità paesaggistica, mentre in Galizia dette funzioni sono di
competenza delle Direttive per il Paesaggio.
170
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
protezione; in terzo luogo, un’analisi delle cause che hanno causato l’esistenza di
questi tipi di paesaggio, e di quelle che incidono attualmente sugli elementi del
paesaggio e sulla loro possibile evoluzione; in quarto luogo, una diagnosi sullo
stato attuale del paesaggio in ogni area paesaggistica; e, in quinto luogo, la
delimitazione delle unità di paesaggio presenti in ogni area, intese come ambiti
territoriali aventi valori paesaggistici omogenei e coerenti. In questo senso, il terzo
comma dell’articolo 9, prevede la possibilità che nei Cataloghi del Paesaggio si
definiscano determinate zone geografiche quali “Aree avente speciale interesse
paesaggistico”, relativamente ai valori naturali e culturali in esse presenti.
Riguardo all’elaborazione di questi Cataloghi, occorre analizzare due
questioni: gli organi competenti per la loro redazione ed approvazione; il relativo
procedimento cui bisogna attenersi.
La formazione dei Cataloghi del Paesaggio spetta, secondo quanto esprime
l’articolo 9.4 della LPPG, all’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio 34 e la loro
approvazione è di competenza, in conformità all’articolo 9.6 della LPPG, del
“Consello de la Xunta” della Galizia.
Per l’elaborazione dei progetti inerenti ai Cataloghi del Paesaggio,
l’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio deve prendere in considerazione altri
Cataloghi già esistenti in materia paesaggistica. Una volta che si siano redattati
detti progetti, ai sensi dell’articolo 9.5 della LPPG, deve avviarsi una fase di
informazione al pubblico di durata non inferiore a due mesi affinché ogni eventuale
interessato possa produrre le osservazioni che ritenga opportune. In seguito alla
risposta alle osservazioni proposte, i progetti devono essere rinviati alla
“Consellería” competente in materia di ambiente, affinché questa li sottoponga
prima all'analisi delle “Consellerías” competenti in materia di ordinamento del
territorio e patrimonio culturale e, successivamente, li faccia pervenire al “Consello
de la Xunta” per la loro approvazione.
A.2. Direttive per il Paesaggio
Le Direttive per il Paesaggio, in conformità a quanto stabilito dall’articolo
10.1 della LPPG, sono quelle deliberazioni che, basate sui Cataloghi del Paesaggio,
definiscono e specificano, per ogni unità di paesaggio, gli obiettivi inerenti alla
34 La Seconda Disposizione Aggiuntiva della LPPG stabilisce che, fino a quando non si costituirà
l’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio, la competenza per l’elaborazione dei Cataloghi del
Paesaggio spetterà alla “Consellería” competente in materia d’ambiente.
171
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
qualità paesaggistica che si vuole raggiungere35.
Questi ultimi, secondo l’articolo 3.c della LPPG, fanno parte della
pianificazione, ad opera delle autorità competenti ed in relazione ad un paesaggio
specifico, delle aspirazioni della collettività riguardo alle caratteristiche
paesaggistiche del proprio contesto ambientale36.
Sul contenuto di queste Direttive per il Paesaggio, il terzo comma del
menzionato articolo stabilisce che esse devono comprendere: in primo luogo, la
definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica per ogni unità di paesaggio; in
secondo luogo, una proposta concernente misure ed azioni specifiche finalizzate al
raggiungimento degli obiettivi di qualità e di recupero di quelle aree che presentino
ambiti di degrado; in terzo luogo, una descrizione sia degli indicatori della qualità
paesaggistica per il controllo e per la supervisione del suo stato, sia una descrizione
dell’evoluzione delle unità di paesaggio; in quarto luogo, una serie di norme e
raccomandazioni per la definizione dei piani urbanistici e settoriali, nonché delle
strategie regionali o locali funzionali a uno sviluppo sostenibile del territorio, al
fine di integrare in questi strumenti gli obiettivi di qualità paesaggistica.
35
Nella Comunità Valenziana, le Direttive per il Paesaggio non si regolano in modo indipendente;
difatti c’è la LVOTPP che prevede due strumenti complementari che compiono una funzione simile: i
Piani d’Azione Territoriale e gli Studi sul Paesaggio.
Così, l’articolo 11.2 di questa legge dispone che la “Generalitat” approverà un Piano d’Azione
Territoriale per il Paesaggio in cui, oltre ad individuare e proteggere i paesaggi di rilevanza regionale
nel territorio valenziano, si fisseranno direttive e criteri per l’elaborazione di Studi sul Paesaggio, sul
suo valore e sulla sua implicita protezione; l’articolo 31 dello stesso testo legale specifica che in essi,
tra l’altro, si definiranno gli obiettivi di qualità paesaggistica dell’ambito di studio, mentre l’articolo
32 conclude che in essi verranno proposte misure per il miglioramento degli ambiti degradati e misure
di restauro o di riabilitazione paesaggistica in contesti aventi un alto grado di deterioramento o con un
alta incidenza riguardo alla percezione del territorio.
Per un’analisi approfondita dell’ordinamento dei Piani d’Azione Territoriale e degli Studi sul
Paesaggio nella normativa valenziana sul paesaggio, v.: C. FERNÁNDEZ RODRÍGUEZ, La protección
del paisaje, cit., pp. 128 e ss. e El estreno de nuestro Derecho en la ordenación paisajística: a
propósito de la ordenación y protección del paisaje en la legislación valenciana, in Revista de
Administración Pública, num. 172, 2007, pp. 382 e ss.
In Catalogna la configurazione delle Direttive per il Paesaggio è molto differente, come è possibile
dedurre dal tenore letterale dell’articolo 12 della LCPGOP, ai sensi del quale: «1. Le direttive per il
paesaggio sono le determinazioni che, basandosi sui cataloghi del paesaggio, specificano e assumono
normativamente le proposte inerenti agli obiettivi di qualità paesaggistica nei piani territoriali parziali
o nei piani direttivi territoriali.
2.I piani territoriali parziali ed i piani direttivi territoriali indicano i casi in cui le direttive sono
d’applicazione diretta, o sono di incorporazione obbligatoria sempre e quando si produca la modifica
o la revisione della pianificazione urbanistica, o, ancora, nei casi in cui le attuazioni richiedono una
relazione precettiva dell’organo competente in materia di paesaggio. I piani territoriali parziali ed i
piani direttivi territoriali possono anche decidere quando le direttive per il paesaggio sono
raccomandazioni per la pianificazione urbanistica, per le Carte per il paesaggio e per altri piani o
programmi derivanti dalle politiche settoriali che incidono nel paesaggio. In quest’ultimo caso, i piani
o programmi che si approvano devono essere confacenti alle raccomandazioni delle direttive per il
paesaggio».
36
Cfr. articolo 1.c del CEP.
172
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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A proposito della formulazione delle Direttive per il Paesaggio, è necessario
specificare: a chi spetta elaborarle, como devono essere realizzate e chi deve
approvarle.
In armonia con quanto previsto dall’articolo 10.6 della LPPG, l’eleborazione
dei progetti riguardanti le Direttive per il Paesaggio spetta alla “Consellería”
competente in materia di ambiente e sviluppo sostenibile. Al momento di redigere
detti progetti, in conformità all’articolo 10.4 della LPPG, bisogna tener conto del
fatto che queste Direttive devono essere congruenti con le determinazioni che, in
materia di paesaggio, possono essere desunte da altri strumenti normativi.
Secondo questo stesso precetto, la procedura alla quale bisogna attenersi
prima dell’approvazione dei progetti consta: a) dell'informazione pubblica, da
realizzarsi per un periodo minimo di due mesi, che costituisce il consolidamento
dell’articolo 10.2 della LPPG, il quale stabilisce che, nella misura in cui gli
obiettivi di qualità paesaggistica devono esprimere le aspirazioni della cittadinanza
riguardo alla valorizzazione e al livello di impegno della collettività rispetto alla
protezione del paesaggio, la fissazione di questi obiettivi deve realizzarsi attraverso
un processo di partecipazione pubblica; b) del comunicato precettivo dei Comuni
interessati e c) del comunicato precettivo delle “Consellerías” competenti in
materia di ordinamento del territorio e di patrimonio culturale.
Infine, bisogna rilevare che, secondo l’articolo 10.7 della LPPG, la
competenza per l’approvazione dei progetti relativi alle Direttive per il Paesaggio è
propria del “Consello de la Xunta” della Galizia.
Le norme raccolte in queste Direttive, in conformità all’articolo 10.4 della
LPPG, sono vincolanti, dal momento della loro approvazione, per gli strumenti di
pianificazione settoriale ed urbanistica37. Inoltre, in questo senso, l’articolo 10.5
della LPPG dispone che la valutazione ambientale di quei piani e programmi che
devono essere sottomesi ad essa in accordo a quanto stabilito dalla Legge 9/2006,
del 28 aprile, riguardante la valutazione degli effetti di determinati Piani e
Programmi sull’Ambiente, deve includere criteri che abbiano come fine la
protezione del paesaggio e facilitare il suo ordinamento e la sua gestione. Per
questo, il documento di riferimento previsto dall’articolo 19 della Legge in
questione, stabilirà i tempi ed i criteri da seguire per la valutazione ambientale del
piano e del programma e comprenderà, in forma precettiva, le norme contenute
nelle Direttive per il Paesaggio.
Probabilmente, il legislatore galiziano, per rinsaldare la forza vincolante e
l’efficacia di questo strumento, avrebbe potuto integrare alcuni precetti di
applicazione diretta, nei quali venissero regolamentate misure concrete destinate a
promuovere una adeguata integrazione paesaggistica nella pianificazione
territoriale ed urbanistica, traguardo che è stato peraltro raggiunto in altre
37 In questo senso, l’articolo 84 della Legge 9/2002, del 30 dicembre, sull’Ordinamento, l’Urbanistica
e la Protezione dell’Ambiente Rurale, modificata dalla Legge 2/2010, del 25 marzo, prevede che i
progetti dei Piani Generali si devono sottoporre a una verifica della loro congruenza mediante gli
strumenti previsti dalla LPPG.
173
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
Comunità Autonome38.
A.3. Studi sull’Impatto e sull’Integrazione Paesaggistica
Attenendosi al tenore letterale dell’articolo 11 della LGGP, gli Studi
sull’Impatto e sull’Integrazione Paesaggistica sono documenti che, da un lato,
valutano gli effetti e le ripercussioni che l’esecuzione degli atti, delle azioni o delle
attività che si vogliono realizzare possono avere sul paesaggio e, dall’altro,
comprendono i criteri e le misure attinenti all’integrazione paesaggistica necessari
a mitigare l’impatto dei progetti e ad ottenere una loro piena e corretta integrazione
paesaggistica 39.
A tal proposito occorre chiarire tre aspetti: a) quali progetti devono essere
oggetto di detti Studi; b) qual è il loro contenuto minimo e c) chi interviene
nell’elaborazione e nell’approvazione degli stessi.
Quanto ai progetti che devono essere oggetto degli Studi sull’Impatto e
sull’Integrazione Paesaggistica occorre segnalare che questi possono essere
racchiusi in due insiemi. Il primo, in conformità all’articolo 11.1 della LPPG,
consta di tutti quei progetti che devono essere sottoposti a procedimento di
Valutazione di Impatto Ambientale, in conformità a quanto stabilito dalla
38
Così, l’articolo 33 della LVOTPP decreta che gli strumenti di ordinamento territoriale devono
integrare i seguenti criteri: «Adeguamento alla pendenza naturale del terreno, di modo che essa varii
il meno possibile ed affinché si predisponga l’adattamento alla topografia del terreno, tanto dal punto
di vista dell’edificazione quanto da quello dell’appezzamento, della rete viaria e delle infrastrutture
lineari.
b) Impedire la costruzione su elementi dominanti o sulla cima delle montagne, su bordi di scarpate e
vette del terreno; sono fatti salvi i lavori relativi a infrastrutture e attrezzature di utilità pubblica che
debbano occupare dette ubicazioni.
c) Integrazione degli elementi topografici significativi in quanto condizionanti il progetto, come
pendii e rialzi di rilievi, corsi naturali, muri, terrazzamenti, sentieri tradizionali ed altri ancora,
proponendo le azioni di integrazione necessarie a combattere il deterioramento della qualità
paesaggistica.
V. anche gli articoli 34, 35 e 36 dello stesso testo legale, in cui si regolano, rispettivamente, le norme
di applicazione diretta nel contesto rurale, le norme relative al paesaggio urbano ed i programmi di
estetica urbana.
A proposito del carattere vincolante delle Direttive, v. A. DÍAZ OTERO, El valor jurídico del paisaje,
cit., pp. 161 e ss.
39 Anche nella normativa in materia di paesaggio di altre Comunità Autonome, si sono introdotti
strumenti simili. Per esempio, nella Comunità Valenziana sono previsti gli Studi sull’Integrazione
Paesaggistica, regolati dagli articoli 48 e ss. del RPCV, che mirano, in conformità a quanto disposto
nell’articolo 49, a «prevedere e valutare la portata e l’importanza degli effetti che i nuovi
procedimenti o la riconfigurazione di procedimenti preesistenti possono produrre sulla natura del
paesaggio e sulla sua percezione, e a determinare strategie per evitare gli impatti o lenire i possibili
effetti negativi»; in Catalogna, si regolano gli Studi sull’Impatto e sull’Integrazione Paesaggistica
negli articoli 19 e ss. del RPC, definiti nell’articolo 19 come «documento tecnico destinato a
considerare le conseguenze che ha sul paesaggio l’esecuzione di procedure, progetti di lavori o
attività e ad esporre i criteri adottati per la loro integrazione».
174
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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legislazione settoriale vigente. Il secondo gruppo, in base all’articolo 11.4 della
LPPG, è composto da quei progetti che, nonostante non siano da sottoporre ai
procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale, si vogliono tuttavia realizzare
nelle zone geografiche identificate come “Aree di speciale interesse paesaggistico”
e rientrano in quei casi che il “Consello de la Xunta” definisce normativamente. Il
“Consello de la Xunta”, per la determinazione di questi casi deve tenere in conto
parametri come l’esistenza di spazi naturali protetti, la distanza rispetto alla linea di
costa, il volume delle edificazioni, la superficie interessata relativamente al
progetto, l’incidenza sulle risorse naturali e la presenza di elementi di valore del
patrimonio naturale culturale40.
Questi Studi, secondo l’articolo 11.2 della LPPG, devono avere questo
contenuto: una diagnosi relativa allo stato attuale del paesaggio (principali
componenti, valori paesaggistici, visibilità e fragilità del paesaggio); le
caratteristiche principali del progetto; l’impatto che il progetto può scatenare sugli
elementi che formano il paesaggio; la giustificazione relativa al modo in cui si
integrano nel progetto gli obiettivi di qualità paesaggistica e le indicazioni delle
Direttive per il Paesaggio fissate per le unità di paesaggio nelle quali si pretende di
attuare il progetto41; ed i criteri e le misure da adottare per raggiungere
l’integrazione paesaggistica del progetto.
Riguardo all’ultima questione – chi interviene nell’elaborazione e
nell’approvazione degli Studi – occorre evidenziare: in primo luogo, che spetta ai
40 Per la loro determinazione, si puó tenene conto della regolamentazione realizzata tanto in Valenzia
come in Catalogna.
Nella Comunità Valenziana, in conformità all’articolo 48.4 del RPCV dovranno essere accompagnati
dallo Studio sull’Integrazione Paesaggistica: «a) La pianificazione urbanistica per lo sviluppo
contemplata nei comma b, c, d e f dell’articolo 38 della Legge 16/2005, del 30 dicembre.
b) I solleciti di licenze urbanistiche all’interno degli insiemi e dei contesti dichiarati Beni di Interesse
Culturale e Spazi Naturali Protetti.
c) Le richieste di Dichiarazione di Interesse Comunitario.
d) Autorizzazioni e licenze in terreno non urbanizzabile non comprese negli anteriori ambiti.
e) I progetti sottoposti a valutazione di impatto ambientale, disciplinata dalla Legge 2/1989, del 3
marzo e dal suo Regolamento di attuazione approvato con il Decreto 162/1990, del 15 ottobre,
sostituendosi l’analisi sull’impatto visivo con il menzionato studio, conforme a quanto indicato
nell’articolo 58 di questo Regolamento.
f) Progetti di infrastrutture e opere pubbliche.
A sua volta, in Catalogna, l’articolo 20 del RPC indica che gli Studi sull’Impatto e sull’Integrazione
paesaggistica sono precettivi nei seguenti casi: «a) In quelle procedure, usi, attività e nuove
costruzioni in terreno non urbanizzabile che si devono autorizzare in virtù del procedimento previsto
dall’articolo 48 del Decreto Legislativo 1/2005, del 26 luglio, con il quale viene approvato il Testo
Consolidato della Legge sull’Urbanismo.
b) Nei casi in cui venga richiesta la pianificazione territoriale o urbanistica.
c) In tutti gli altri casi in cui così stabilisca qualunque legge o disposizione di carattere generale.
41 L’articolo 11.2.d della LPPG specifica che questa stipulazione sarà precettiva quando verranno
approvate le Direttive per il Paesaggio. Si tratta, in questo caso, di una previsione impropria, giacché
la stessa avrebbe dovuto essere integrata, per esempio, nella Seconda Disposizione Finale della
LPPG.
175
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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soggetti promotori di detti progetti elaborare gli Studi sull’Impatto e
sull’Integrazione Paesaggistica e, se del caso, di integrarli negli Studi sull’Impatto
Ambientale; in secondo luogo, che è competenza della “Consellería” responsabile
in materia di ambiente elaborare il Rapporto sull’Impatto e sull’Integrazione
Paesaggistica in seno ai procedimenti di Dichiarazione e di Valutazione di Impatto
Ambientale, Rapporto che verrà integrato nella corrispondente Dichiarazione
sull’Impatto Ambientale42.
A.4. Piani d’Azione relativi al Paesaggio in Aree Protette
I Piani d’Azione relativi al Paesaggio in Aree Protette sono documenti che
hanno come obiettivo la protezione, la gestione e l’ordinamento del paesaggio in
quei territori dichiarati spazi protetti, secondo quanto disposto dalla normativa
galiziana vigente in materia di conservazione della natura43.
Il suo contenuto, in accordo a quanto previsto dall’articolo 12.2 della LPPG,
consisterà in una proposta concernente misure per il mantenimento, il
miglioramento, il recupero o la rigenerazione dei paesaggi presenti nell’area
protetta, che si adatterà alle indicazioni contenute nelle Direttive per il Paesaggio
per il territorio che ospita lo spazio protetto, in conformità ai criteri di qualità
paesaggistica stabiliti.
Questi Piani d’Azione, secondo il già citato articolo 12.2 della LPPG,
saranno integrati dagli strumenti di pianificazione e di ordinamento dell’area
protetta, previsti dalla normativa galiziana vigente in materia di conservazione
della natura 44.
La competenza riguardante l'iniziativa per la formulazione di questi Piani
d’Azione spetta alla “Consellería” competente in materia d’ambiente, alla quale
l’articolo 12.3 della LPPG affida il compito di fare in modo che tutte le zone
geografiche segnalate nei Cataloghi del Paesaggio como “Aree di speciale interesse
paesaggistico” dispongano della protezione specifica che permetta la preservazione
dei loro valori.
42
Per una maggiore chiarezza normativa, sarebbe conveniente che lo sviluppo normativo della LPPG
comprendesse una definizione chiara relativa al “Rapporto sull’Impatto e sull’Integrazione
Paesaggistica” della quale detta Legge è priva. In questo senso, si potrebbe prendere come modello
l’articolo 22.1 del RPC che stabilisce: «Il rapporto sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica ha lo
scopo di valutare l’idoneità e l’accettabilità dei criteri o delle misure adottate dagli studi a cui si
riferiscono l’articolo 19 e ss. di questo Decreto, per integrare nel paesaggio le procedure, gli usi, le
opere o le attività da realizzare».
43
V. Legge 9/2001, del 21 agosto, sulla Conservazione della Natura della Galizia, in particolare, gli
articoli 9, 10, 15 e 24.
44
V. Legge 9/2001, del 21 agosto, sulla Conservazione della Natura della Galizia.
176
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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B. Strumenti volontari bilaterali o multilaterali
B.1. Patti per il paesaggio
Secondo l’articolo 14.3 della LPPG, la “Xunta” della Galizia deve
promuovere la stipulazione dei Patti per il Paesaggio quale strumento di
concertazione tra le Amministrazioni pubbliche, le Entità locali e i rimanenti attori
economici e sociali di un determinato territorio che volontariamente desiderino
realizzare attività di protezione e potenziamento dei paesaggi e della qualità di vita
dei cittadini, in un’ottica politica di sviluppo sostenibile.
Questi Patti, ai sensi della disposizione stessa, includeranno nel loro
contenuto le procedure concrete e specifiche che dovranno avviare i distinti attori
partecipanti per raggiungere gli obiettivi di qualità paesaggistica corrispondenti
all’ambito spaziale cui si riferiscono.
In conformità all’articolo 14.4 della LPPG, i Patti per il paesaggio che si
stipulano tra la “Xunta” della Galizia e le Amministrazioni locali, così come quelli
che si originano tra altri attori economici e sociali, dovranno tener conto delle
raccomandazioni e delle indicazioni dei Cataloghi del Paesaggio e delle Direttive
per il Paesaggio per quell’ambito geografico, così come dell’esistenza di spazi od
elementi inventariati del patrimonio naturale, artistico o culturale 45.
B.2. Accordi volontari in Aree di Speciale Interesse Paesaggistico
Ai sensi dell’articolo 14.5 della LPPG, la “Xunta” della Galizia, nelle Aree
di Speciale Interesse Paesaggistico, deve facilitare la sottoscrizione di Accordi
volontari tra le persone proprietarie delle terre e le Entità pubbliche, con il fine di
appoggiare e collaborare nella difesa e nella conservazione dei valori naturali e
45
Uno strumento di contenuto analogo è previsto nell’articolo 14 della LCPGOP: le Carte per il
Paesaggio. Esse vengono definite, nel primo comma del suddetto articolo, «strumenti di
concertazione riguardo le strategie tra pubblici e privati per compiere procedure relative alla
protezione, gestione e ordinamento del paesaggio che abbiano come obiettivo mantenere i suoi
valori». Secondo l’articolo 18.5 del RCP, le Carte per il Paesaggio devono avere il seguente
contenuto: «a) La diagnosi delle dinamiche del paesaggio.
b) La definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica da raggiungere all’interno dell’ambito
territoriale che interessa la carta per il paesaggio. Detti obiettivi devono essere coerenti rispetto agli
obiettivi di qualità stabiliti per ognuna delle unità di paesaggio definite nei corrispondenti Cataloghi
del Paesaggio.
c) Elaborazione di un programma di gestione nel quale si concretizzino le azioni specifiche che
devono intraprendere i diversi attori, ed in cui debba essere assicurata la partecipazione dei cittadini».
Il GPPG, nel corso dell’iter parlamentare della LPPG, mediante gli emendamenti n. 6 al comma 5
dell’articolo 8 e n. 13 per l’inserimento dell’articolo 11 bis, propose di includervi una
regolamentazione molto simile alla normativa catalana.
177
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
culturali presenti in queste aree 46.
4.2. Strumenti di analisi, studio e sensibilizzazione in materia di paesaggio
La LPPG prevede due strumenti per l’organizzazione, la sensibilizzazione e
la concertazione delle politiche sul paesaggio, uno di carattere organico,
l’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio 47, e, un altro di tipo funzionale, le azioni
di formazione, sensibilizzazione, educazione e concertazione.
A. Osservatorio Galiziano per il Paesaggio
L’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio costituirà, secondo l’articolo 13.1
della LPPG, un’entità di appoggio e consulenza per la “Xunta” della Galizia48 in
materia di paesaggio, ed in tema di collaborazione e coordinamento con altre
46 La futura evoluzione normativa della LPPG dovrà concretizzare il contenuto di questi Accordi. In
questo senso, si potrebbe stabilire che in essi vengano riunite le procedure necessarie per garantire la
preservazione, il miglioramento e la valorizzazione dei paesaggi che per il proprio valor naturale,
visivo o culturale esigano una collaborazione pubblico-privata; nella fattispecie, si prevedono: il
mantenimento, il miglioramento e la restaurazione dei paesaggi forestali, agricoli e rurali; il
potenziamento paesaggistico degli insediamenti rurali, specialmente attraverso l’eliminazione, la
riduzione o il trasferimento degli elementi, degli usi o delle attività che degradino il paesaggio; il
potenziamento paesaggistico di contesti storici e archeologici e la valorizzazione del paesaggio
particolare di qualsiasi luogo come risorsa turistica.
47
Per mezzo della creazione di questo ente si intende rispondere alle esigenze contenute negli articoli
7 e 8 del CEP.
48
Attualmente, in conformità all’articolo 16 del Decreto 316/2009, del 4 giugno, con il quale viene
disciplinata la struttura organica della “Consellería de Medio Ambiente, Territorio e Infraestructura”,
le competenze e le funzioni dell’Amministrazione autonomica in materia di paesaggio spettano alla
Direzione Generale di Sostenibilità e Paesaggio. Per l’esercizio di queste funzioni, la Direzione
Generale di Sostenibilità e Paesaggio si avvale della “Vicedirezione Generale per il Paesaggio ed il
Territorio” che si vede attribuite, tra le tante, le seguenti competenze: a) La protezione, la gestione e
l’ordinamento del paesaggio. b) L’attivazione di strumenti per la protezione, la gestione e
l’ordinamento dei paesaggi della Galizia, quali i Cataloghi del Paesaggio della Galizia, le Direttive
per il Paesaggio, gli Studi sull’Impatto e sull’Integrazione Paesaggistica, i Piani d’Azione relativi al
Paesaggio in aree protette, cosí come qualsiasi altro che si consideri necessario per l'attuazione dei
commi precedenti.
Questa Vicedirezione Generale per il Paesaggio ed il Territorio, a sua volta, per l’esercizio delle
funzioni appena indicate, dispone del Servizio per il Paesaggio, a cui corrispondono le competenze
affidate alla Vicedirezione Generale per quanto riguarda l’area tematica del paesaggio e che, più
generalmente, è incaricata di fornirle assistenza, così come di esercitare qualunque altra funzione che,
per propria competenza, possa attribuirle la persona titolare della Vicedirezione Generale.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Amministrazioni e settori della società49.
Rispetto al carattere giuridico dell’Osservatorio, occorre ripetere che il citato
articolo 13, nel suo secondo comma 50 e la Prima Disposizione Finale della LPPG51 ,
affidano all’Amministrazione autonomica un’ampio potere decisionale per poter
scegliere la forma giuridica che deve adottare lo stesso, la quale forma può essere
quella di un mero organo amministrativo52 , ma anche quella di un ente
personificato, essendo, probabilmente, il modello più adeguato per la sua
composizione e per le sue funzioni quello dell’Agenzia o quello del Consorzio,
malgrado non si possano scartare i rimanenti tipi di enti strumentali previsti dalla
Legislazione autonomica53.
In riferimento alla sua composizione, è opportuno mettere in rilievo che
l’articolo 13.4 della LPPG lascia nelle mani della “Xunta” della Galizia la
definizione della stessa. Questa norma, da un lato, richiede espressamente che si
49
Tanto in Valenzia come in Catalogna esistono Organismi simili all’Osservatorio Galiziano per il
Paesaggio.
Nella Comunità Valenziana, attraverso l’articolo 65 della LVOTPP, viene fondato l’Istituto per il
Paesaggio della “Generalitat” che viene definito, in base al sesto comma di detto precetto, un organo
di sussidio tecnico per la “Generalitat” e per il resto delle Amministrazioni pubbliche valenziane
riguardo al compito di definire ed eseguire le politiche per il paesaggio.
Nella Comunità Autonoma della Catalogna, si predispose la creazione dell’Osservatorio per il
Paesaggio per mezzo della LCPGOP, il cui articolo 13.1 lo definisce come un’entità di sostegno e di
collaborazione per l’Amministrazione della “Generalitat” rispetto a tutte le questioni relative
all’elaborazione, all’applicazione ed alla gestione delle politiche proprie del paesaggio.
50
Questo precetto segnala che: «L’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio adotterà la forma che più
si confà alle sue funzioni».
51
Questa Disposizione afferma che: «La “Xunta” della Galizia, in un periodo massimo di sei mesi, a
partire dalla data di pubblicazione della presente Legge, approverà le disposizioni regolative di
attuazione per [...] la costituzione, la natura giuridica, le funzioni, la composizione, il funzionamento
ed altri aspetti organizzativi dell’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio [...]».
52
Trattandosi, in questo caso, di uno degli organi previsti dall’articolo 22.2 della Legge 30/1992, del
26 novembre, sul Regime Giuridico delle Amministrazioni Pubbliche e della Procedura
Amministrativa Comune.
53 È necessario ricordare che il GPPG propose, per mezzo dell’emendamento n. 17 al secondo comma
dell’articolo 13, che nel testo della LPPG si stabilisse che l’Osservatorio non si dotasse di personalità
giuridica propria.
Nella Comunità Valenziana, l’articolo 65.2 della LVOTPP, configura l’Istituto per il Paesaggio della
“Generalidad” come una Entità di Diritto Pubblico «dotata di personalità giuridica pubblica
differenziata, patrimonio e tesoreria propri, così come di autonomia di gestione e piena capacità
giuridica e operativa, essendo di sua competenza l’esercizio delle facoltà amministrative specifiche
per il raggiungimento dei suoi fini, fatta eccezione per la facoltà espropriativa».
Neanche in Catalogna, l’articolo 13.2 della LCPGOP definisce la forma di personificazione giuridica
che deve adottare l’Osservatorio per il Paesaggio. Questa manovra viene realizzata nel RPC, il cui
l'articolo 16.2 lo delinea quale consorzio assegnato al Dipartimento di Politica Territoriale e Opere
Pubbliche.
179
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
garantisca la presenza equilibrata di uomini e donne, e, dall’altro, poichè lo
configura alla stregua di un ente di collaborazione e di coordinamento con altre
Amministrazioni e con diversi settori della società, impone, indirettamente, che
dette Amministrazioni e settori sociali siano in questo rappresentati54.
All’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio spetterebbero, secondo quanto
prescrive l’articolo 13.4 della LPPG, le funzioni relative a sei distinti ambiti:
1.- Analisi dei paesaggi. In questo terreno l’Osservatorio deve valutare lo
stato di conservazione dei paesaggi galiziani e analizzare le loro trasformazioni e la
loro prevedibile evoluzione.
2.- Studio e rapporto in materia paesaggistica. In quest’ambito, l’attività
dell’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio consiste nel realizzare studi e proposte
in materia di paesaggio e nell’elaborare, ogni quattro anni, un rapporto sullo stato
del paesaggio in Galizia, rapporto che la “Xunta” dovrà presentare innanzi al
Parlamento della Galizia.
3.- Pianificazione nell’ambito paesaggistico. In questo campo, spetta
all’Osservatorio delimitare le grandi aree paesaggistiche sulle quali si
consolideranno i Cataloghi del Paesaggio ed elaborare gli stessi.
4.- Canalizzazione della collaborazione interamministrativa in materia
paesaggistica. In quest’ambito l’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio deve: in
primo luogo, promuovere la collaborazione e la cooperazione in materia di
paesaggio, soprattutto mediante l’assistenza scientifica e tecnica per altre
Amministrazioni ed attraverso la realizzazione di scambi di esperienze con fini di
formazione ed informazione, specialmente in materia di paesaggi oltre confine; in
secondo luogo, fungere da organo di consulenza degli Enti locali per la messa a
54
In questa materia, come in altre alle quali abbiamo prima fatto riferimento, al momento di avanzare
verso l’evoluzione regolativa, si possono considerare le disposizioni contenute nella legislazione
catalana e valenziana.
Riguardo la composizione dell’Osservatorio per il Paesaggio catalano, sarebbe opportuno ricordare
che l’articolo 13.3 della LCPGOP, esige che si tengano in considerazione i diversi attori che agiscono
nel territorio e nel paesaggio o che ad esso sono vincolati; concretamente, i Dipartimenti della
“Generalitat” implicati, gli Enti Locali e diversi settori sociali, professionali ed economici. Inoltre,
l’articolo 16.3 del RPC aggiunge che faranno parte dell’Osservatorio delle Entità Municipali, i
Collegi Professionali che abbiano attinenza con la materia, le Università catalane e le entità private
che realizzino attività vincolate al territorio o al paesaggio.
Occorre rilevare che il GPPG propose, attraverso l’emendamento n. 17 al secondo comma
dell’articolo 13, che fosse stabilita per l’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio una composizione
simile.
D’altronde l’articolo 67 della LVOTPP afferma, per quanto riguarda l’Organizzazione dell’Istituto per
il Paesaggio della “Generalitat”: «3. Il Consiglio Direttivo sarà composto dal “Conseller” competente
in materia di paesaggio, che lo dirigerà, dal Direttore dell’Istituto per il Paesaggio della “Generalitat”
e da altri membri che verranno designati nelle forme che suggerisce il Regolamento per
l’organizzazione ed il funzionamento. 4. Su proposta del Direttore dell’Istituto per il Paesaggio, il
Consiglio Direttivo crearà organi adatti a stimolare la partecipazione delle istituzioni e degli enti
valenziani vincolati alle politiche proprie del paesaggio, ed in particolare delle corporazioni locali.
Nello stesso modo, potranno crearsi organi aggiuntivi di carattere tecnico per realizzare attività di
consulenza».
180
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
punto di politiche sul paesaggio relative alla pianificazione urbanistica e territoriale
e, in terzo luogo, partecipare a reti di osservatori per il paesaggio ed enti simili,
creati a livello statale, europeo od internazionale.
5.- Supervisione di iniziative in materia paesaggistica. Spetta
all’Osservatorio monitorare iniziative di qualunque tipo, di ambito statale, europeo
ed internazionale, in materia di paesaggio; in particolare, iniziative di ricerca e di
divulgazione di conoscenza.
6.- Formazione e sensibilizzazione in materia paesaggistica. É una funzione
essenziale dell’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio formare, sensibilizzare e
rendere partecipe la società galiziana riguardo alla necessità di proteggere e gestire
in modo opportuno i paesaggi della Comunità autonoma.
B. Attività di formazione, sensibilizzazione, educazione e concertazione
Le Attivitá di formazione, sensibilizzazione, educazione e concertazione
sono, conformemente all’articolo 14 della LPPG, quelle attività promosse dalla
“Xunta” della Galizia e indirizzate, generalmente, alla società galiziana e, in
particolare, ai dirigenti ed utenti del territorio che mirano alla promozione della
comprensione, rispetto e salvaguardia degli elementi che comprendono il
paesaggio della Comunità Autonoma.
La LPPG, da un lato, nel campo della formazione e dell’educazione, obbliga
la “Xunta” della Galizia a introdurre lo studio del paesaggio nei distinti cicli
educativi e a promuovere la formazione di specialisti in interventi sul paesaggio e,
dall’altro lato, nell’ambito della concertazione, obbliga la “Xunta” a favorire la
predisposizione di Patti sul paesaggio e la stipulazione di Accordi volontari per le
Aree di Speciale Interesse Paesaggistico.
III.
Riflessioni conclusive
In generale, come è stato segnalato nel presente lavoro, la LPPG implica un
importante passo verso l’ordinamento, la gestione, la promozione e la tutela dei
paesaggi della Comunità autonoma galiziana. Le sue disposizioni, chiaramente
influenzate dall’anteriore normativa catalana, costituiscono il primo passo verso
l’attuazione del CEP.
Ciononostante, resta molto lavoro da ultimare in questo campo. Per questo,
sarebbe conveniente che, senza ulteriori contrattempi, si proseguisse nel senso
della elaborazione di un Regolamento – il cui possibile contenuto sarà trattato nel
prosieguo – per lo sviluppo di questa normativa, e, fatto questo, ci si avviasse verso
la costituzione dell’Osservatorio per il Paesaggio e l’elaborazione degli strumenti
181
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
essenziali previsti nella LPPG55 .
In riferimento ai tempi per la maturazione della LPPG, occorre evidenziare
che il regolamento per l’esecuzione della stessa dovrebbe regolare, per lo meno, tre
questioni: in primo luogo, dovrebbe definire chiaramente e in maniera precisa una
serie di concetti trattati nella LPPG il cui contenuto e la cui portata non sono stati
delimitati a sufficienza, cosa che può rendere difficoltosa la sua corretta
applicazione; in secondo luogo, deve regolare nei dettagli gli strumenti per la
protezione, per l’ordinamento e per la gestione del paesaggio, previsti nella LPPG
e, date le carenze avvertite negli stessi, crearne altri complementari per raggiungere
gli obiettivi fissati nella LPPG; infine, in terzo luogo, dovrebbe regolamentare gli
strumenti per l’organizzazione, la sensibilizzazione e la concertazione delle
politiche sul paesaggio, creandone, inoltre, dei complementari rispetto a quelli
legalmente previsti, qualora siano indispensabili per il raggiungimento degli
obiettivi che, in quest’ambito, la LPPG suggerisce.
Di seguito si elencheranno brevemente gli aspetti che sarebbe opportuno si
regolassero, in relazione ad ognuna delle questioni anteriormente indicate,
mediante l’evoluzione normativa della LPPG.
1. Definizioni
Como è già stato espresso, una corretta evoluzione della LPPG esige una
precisa specificazione dei concetti sui quali detta norma si poggia. Perciò, è
necessario che la disciplina per la trattazione della LPPG stabilisca con chiarezza il
significato di quei concetti, non definiti nella stessa, e di quegli altri la cui
definizione legale non è cosí esauriente come dovrebbe essere.
La normativa per l’elaborazione della LPPG dovrebbe definire, almeno, i
seguenti termini:
- conflitti paesaggistici: tali si dovrebbero considerare gli atti, i fatti, gli
elementi o i fattori che sottraggano o possano sottrarre valore visivo, ecologico,
culturale o storico alle unità di paesaggio.
- grandi aree paesaggistiche: queste sarebbero frazioni del paesaggio della
Comunità Autonoma delimitate in funzione delle distinte aree geografiche,
morfologiche, urbane e litorali esistenti nella stessa.
- indicatori paesaggistici: con questa espressione ci si riferirebbe agli
elementi di carattere visivo, ambientale, patrimoniale, economico e sociale che
consentono di determinare lo stato di un paesaggio e controllare la sua evoluzione.
- integrazione paesaggistica: questa espressione farebbe riferimento a quegli
55
La “Consellería” competente in materia d’ambiente ha avviato nel corso degli ultimi mesi
l’elaborazione dei 20 Cataloghi del Paesaggio previsti. L’organo ha fissato l’anno 2014 come data
ultima per il compimento dell’opera.
A proposito della possibile efficacia di questi strumenti, dall’ottica dell’esperienza catalana, v.: J.
NOGUÉ, y P. SALA, El paisaje en la ordenación del territorio. Los catálogos de paisaje de Cataluña,
in Cuadernos Geográficos, num. 43, 2008, pp. 69-98.
182
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
interventi che si inseriscono nel paesaggio nella misura in cui non incidono
negativamente nella natura del luogo in cui vengono realizzati e non impediscono
la possibilità di percepire le risorse paesaggistiche.
- obiettivi generali di qualità paesaggistica: sarebbero quelli che
manifestano le aspirazioni popolari rispetto a ciò che è inerente alle caratteristiche
paesaggistiche del territorio della Comunità Autonoma.
- paesaggio: per quanto riguarda questo termine, alla definizione legale – in
base alla quale si deve intendere per paesaggio qualsiasi parte del territorio
percepita in quanto tale dagli abitanti, il cui carattere derivi dall’azione di fattori
umani e dalle loro interrelazioni – bisognerebbe aggiungere quattro dimensioni da
tenere in conto per la caratterizzazione di un paesaggio: la naturale – dato che il
paesaggio è costituito da elementi naturali come il suolo, l’acqua, l’aria e via
dicendo; l’umana – nella misura in cui l’umanità modella il paesaggio per mezzo
delle sue attività sull’ambiente; la sensoriale – dato che le persone percepiscono il
paesaggio attraverso i loro propri sensi; la temporale – considerato che il paesaggio
evolve a causa di fattori naturali ed umani.
- sistema di valutazione strategica del paesaggio: si potrebbe definire come
il procedimento che permette di determinare il grado di soddisfacimento degli
indicatori paesaggistici e degli obiettivi concreti di qualità paesaggistica fissati per
ogni unità di paesaggio e l’efficacia delle azioni e delle misure che si avviano per
raggiungere detti obiettivi.
- unità di paesaggio: con questo termine ci si riferirebbe agli ambiti
territoriali nei quali si divide una grande area paesaggistica per poter contare su di
una configurazione strutturale, funzionale o intuitivamente differenziata e con
valori paesaggistici omogenei, coerenti e differenziati rispetto alle unità contigue.
- valutazione delle unità di paesaggio: con questo concetto si intenderebbe
l’operazione consistente nella valutazione quantitativa e qualitativa dei suoi valori
paesaggistici e dello stato di ordinamento, gestione e conservazione degli stessi,
esistenti nelle distinte unità paesaggistiche, tenendo in considerazione gli indicatori
paesaggistici e gli obiettivi di qualità paesaggistica nonché i conflitti paesaggistici
in esse presenti.
- valori paesaggistici: si potrebbero definire come le risorse aventi un
interesse visivo, ecologico, culturale o storico che servono per la individuazione e
la valutazione delle unità di paesaggio.
2. Strumenti per la protezione, l’ordinamento e la gestione del paesaggio
Oltre agli strumenti regolamentati dalla LPPG in quest’ambito (i cataloghi
del paesaggio, le direttive per il paesaggio, gli studi sull’impatto paesaggistico e i
piani d’azione per il paesaggio in aree protette), la cui disciplina, evidentemente,
dev’essere completata dal regolamento per lo sviluppo di detta Legge,
probabilmente sarebbe conveniente normativizzare nello stesso quadro nuovi
strumenti: la mappa del paesaggio della Galizia, le norme di integrazione
183
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
paesaggistica, i rapporti sull’impatto paesaggistico e i programmi per il paesaggio.
Così, in primo luogo, riguardo agli strumenti già previsti dalla LPPG, il suo
regolamento di attuazione potrebbe:
a) riguardo i cataloghi del paesaggio:
- definirli come documenti di carattere descrittivo; definire le unità di
paesaggi esistenti in una determinata area paesaggistica; descrivere
minuziosamente le relazioni e le interazioni tra fattori ambientali, culturali, sociali
ed economici che spieghino la loro parvenza attuale e la percezione che di questi
hanno i cittadini; individuare i loro valori e lo stato di conservazione; proporre gli
obiettivi concreti di qualità da rispettare, così come le misure e le azioni necessarie
per questo.
- definire le loro funzioni, tra le quali dovrebbero essere comprese: la
delimitazione delle unità di paesaggio; l’identificazione dei valori paesaggistici;
l’analisi delle cause che determinarono la configurazione del paesaggio attuale e le
tendenze future; l’elaborazione di una diagnosi del paesaggio; rendere fattibile la
concretizzazione degli obiettivi generali di qualità paesaggistica per ogni unità di
paesaggio; proporre misure e azioni per raggiungere gli obiettivi di qualità
paesaggistica; stabilire criteri per la definizione dei programmi per il paesaggio;
orientare le iniziative degli agenti economici e sociali; o servire come base per
portare a termine campagne di sensibilizzazione ed educazione in materia di
paesaggio.
- stabilire il loro contenuto, ossia, stabilire i documenti che devono,
necessariamente, essere inclusi nei cataloghi; in particolare, imporre l’allegazione
di una memoria descrittiva, diagnostica e valutativa – in cui si individuino gli
elementi definitori del paesaggio per tutto l’ambito territoriale e per ogni unità di
paesaggio – e una cartografia di ogni unità di paesaggio.
- fissare il loro procedimento per l’elaborazione, l’approvazione e la
modifica.
b) per quanto riguarda le direttive per il paesaggio:
- specificare le loro funzioni, tra le quali dovrebbero essere comprese: i) la
fissazione degli obiettivi concreti di qualità paesaggistica per ogni unità di
paesaggio; ii) la fissazione delle misure ed azioni necessarie per raggiungerli; iii) la
definizione degli indicatori di qualità paesaggistica per il controllo e la
supervisione dello stato e dell’evoluzione delle unità di paesaggio; iv) la fissazione
dei tempi e dei criteri per la definizione dei piani urbanistici e settoriali e dei
programmi per i paesaggi; e v) l'elaborazione di criteri di orientamento delle
iniziative e dei progetti degli attori economici e sociali.
- definire il loro procedimento per l’elaborazione, l’approvazione e la
modifica.
c) rispetto agli studi sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica:
- definirli come documenti tecnici che hanno per oggetto la valutazioni degli
effetti che produce sul paesaggio la messa in atto di azioni, progetti di opere,
attività di nuova installazione o rimodellamento di azioni preesistenti e la
determinazione delle misure necessarie alla loro integrazione al fine di evitare o
184
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
mitigare i possibili conflitti paesaggistici che si possono presentare.
- fissare i casi in cui sarà obbligatorio portare avanti questi studi.
- stabilire il loro contenuto che dovrà consistere: nella descrizione delle
azioni o dei progetti di lavori o attività e la loro delimitazione; nella redazione di
una memoria di diagnosi e valutazione; in una relazione avente ad oggetto le
misure di integrazione e in una documentazione grafica necessaria per visualizzare
gli impatti e le proposte di integrazione del progetto nel paesaggio.
In secondo luogo, la Normativa per lo sviluppo della LPPG, con l’idea di
raggiungere una completa operatività della stessa, dovrebbe prevedere la creazione
dei seguenti strumenti:
a) norme d’integrazione paesaggistica, rispetto alla quale dovrebbe stabilirsi:
- la loro definizione come parametri per giustificare che un’azione si può
considerare integrata nel paesaggio e per determinare l'opportunità di autorizzare
azioni che potenzialmente potrebbero generare un conflitto paesaggistico.
- le sue funzioni, tra le quali, necessariamente, devono considerarsi:
orientare l’elaborazione di iniziative e progetti degli attori economici e sociali;
stabilire tempi e criteri per la definizione di piani urbanistici e settoriali; facilitare
l’elaborazione di studi di impatto ed integrazione paesaggistica; e oggettivizzare i
criteri per la emissione dei rapporti sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica.
- definire il loro procedimento per l’elaborazione, l’approvazione e la
modifica.
b) rapporti sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica:
- la loro definizione: sarebbero quelli che hanno per oggetto la valutazione,
negli studi sull’impatto e sull’integrazione paesaggistica, dell’idoneità e
dell’accettabilità delle misure proposte, con il fine di integrare nel paesaggio le
azioni, gli usi, le opere o le attività che si intendono realizzare.
- la determinazione della loro natura: dovrebbe trattarsi di un rapporto
precettivo e vincolante.
- l'individuazione dell’organo competente per la loro emissione.
- la fissazione del procedimento relativo al rapporto per l’esecuzione di
attività e progetti di opere, tanto di quelle attività che non siano soggette alla
dichiarazione di impatto ambientale quanto di quelle che invece lo sono.
3. Strumenti di organizzazione, di sensibilizzazione e di concertazione per le
politiche per il paesaggio
Nella Normativa per lo sviluppo della LPPG, oltre a regolare in maniera
dettagliata la natura, il regime giuridico, l’organizzazione, le funzioni e il
funzionamento dell’Osservatorio Galiziano per il Paesaggio, è necessario dotare di
contenuto effettivo, fondamentalmente, i patti per il paesaggio.
Questi patti per il paesaggio dovrebbero definirsi come strumenti di
concertazione di strategie tra gli attori pubblici e privati che avrebbero l’obiettivo
di realizzare atti di protezione, gestione e ordinamento del paesaggio.
185
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
La loro natura giuridica dovrebbe essere quella di accordi di diritto pubblico
tra una o varie Amministrazioni pubbliche e una o vari enti privati.
Essenzialmente, il regime giuridico di questi patti per il paesaggio sarà
quello fissato dalle sue proprie clausole. Ciononostante, per risolvere i dubbi che
possano presentarsi nell’applicazione degli stessi, si potrebbe ricorrere ai principi
propri della contrattazione pubblica nella misura in cui, evidentemente, detti
principi siano compatibili con la natura e con i fini di questi accordi.
Infine, per quanto riguarda il loro contenuto, sembra opportuno che la
normativa sullo sviluppo della LPPG stabilisca alcune prescrizioni minime che gli
stessi devono incorporare. Tra queste, potrebbe delinearsi l’inclusione de: a) la
delimitazione dell’ambito dell’azione oggetto dei patti; b) l’identificazione dei
conflitti che si intende risolvere con gli stessi o l’individuazione della situazione
che si desidera migliorare con la loro sottoscrizione e con la loro fissazione in
funzione degli obiettivi da raggiungere; c) la giustificazione della corrispondenza
del patto, nel suo ambito, agli strumenti paesaggistici in vigore; d) la
programmazione nella quale si concretizzeranno le azioni specifiche che si
impegneranno al realizzare i differenti attori del patto; e) l’individuazione dei
mezzi che si impiegheranno nell’esecuzione del patto.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2011 / NUMERO 1
ABSTRACT
Marcos Almeida Cerreda, Diana Santiago Iglesias – La salvaguardia del paesaggio
in Galizia: situazione attuale e prospettive future
I poteri pubblici hanno pian piano raggiunto un certo grado di consapevolezza
riguardo l’importanza del paesaggio come risorsa economica ed elemento
integrante della cultura propria della Galizia. Questa sensibilizzazione si è tradotta,
giuridicamente, nell’approvazione della Legge 7/2008, del 7 luglio, sulla
Protezione del Paesaggio della Galizia, analizzata, in questo lavoro, allo scopo di
offrire delle proposte di sviluppo della medessima.
-------------------------------------------------------------------------------------------Public powers have been becoming aware of the importance of landscape as an
economic resource and as element integrating the peculiar culture of Galicia. The
awareness rising about this issue has culminated with the Lei 7/2008, do 7 de xullo,
de protección da paisaxe de Galicia (Landscape Protection Act 2008), which is
analyzed in this note, with the aim of making proposals of its development.
188
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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MARTA D’AURIA
Cancun: per il “post-Kyoto” occorre attendere Durban
La sedicesima Conference of the Parties (COP16, 29 novembre-10 dicembre
2010), si è tenuta a Cancun.
Dopo la COP15 (Copenaghen, 7-18 dicembre 2009) e il Copenaghen
Accord, la COP16 ha costituito l’occasione per stabilire se il Protocollo di Kyoto
dovesse o meno avere un futuro. Se si guarda ai risultati del precedente summit,
questa volta si può dire che qualche passo avanti vi è stato, ma è ancora lunga la
strada che porta a un nuovo accordo sul clima.
Dal 1997, anno della firma del Protocollo di Kyoto, si svolge ogni anno la
Conference of the Parties (COP), al fine di adottare iniziative per la piena
attuazione del Protocollo.
A Cancun (in Messico) si è svolta la sedicesima Conferenza (COP16), alla
quale hanno partecipato 194 paesi.
La precedente COP si era conclusa (nel 2010) con il Copenaghen Accord: un
compromesso “minimale”, raggiunto da soli cinque paesi, privo di obiettivi
vincolanti di riduzione delle emissioni, del quale l’assemblea plenaria si era
limitata a prendere atto. Usa, Cina, India, Brasile e Sud Africa avevano assunto
l’impegno di realizzare (future e non meglio specificate) iniziative per limitare
l’innalzamento della temperatura media del pianeta entro due gradi centigradi in
più rispetto ai livelli pre-industriali. L’Accordo prevedeva, poi, l’istituzione di un
fondo per sostenere lo sforzo dei paesi in via di sviluppo nell’adozione di
tecnologie meno inquinanti (si rinvia a M. D’AURIA, Il Copenhagen Accord: un
passaggio interlocutorio verso l’assunzione di responsabilità “globali”, in questa
Rivista, 2010, n. 0).
Dati i risultati della precedente Conferenza, su quella di Cancun non erano
riposte grandi aspettative. Vi era, però, la consapevolezza che il vertice avrebbe
potuto costituire l’occasione per decidere se il Protocollo di Kyoto potesse, o
dovesse, avere un futuro oppure no.
La situazione dei paesi partecipanti si è presentata, come sempre, piuttosto
differenziata.
La Cina, in base al Protocollo di Kyoto, non ha obiettivi vincolanti di
riduzione delle emissioni, ma la sua partecipazione a un qualsiasi programma di
abbattimento delle emissioni è imprescindibile, dal momento che questo Paese è,
ormai, responsabile del 24 per cento delle emissioni a livello globale. La Cina è,
peraltro, ferma nel richiedere che siano i paesi ricchi ad assumere impegni
vincolanti di riduzione delle emissioni; tuttavia, ha confermato di voler ridurre
l’intensità energetica attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie: essa, infatti, vanta la
leadership negli investimenti in tecnologie per le energie rinnovabili (oltre 40
miliardi di dollari nel 2009-2010). Proprio queste tecnologie sono al centro
dell’attenzione dei policy makers: come è stato detto, «la lotta al cambiamento
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climatico è la più grande legittimazione (o “driver”, in termini economicofinanziari) verso le energie pulite e il nucleare, insieme alla sicurezza energetica.
Nasce da lì il quadro normativo internazionale che spinge verso la riduzione delle
emissioni di gas serra con l’aumento delle rinnovabili» (L. SALVIOLI, Se le energie
rinnovabili fossero pronte non ci sarebbe bisogno di Cancun, Il Sole24ore,
13.12.2010).
Negli Usa (paese che, tra l’altro, non ha ratificato il Protocollo di Kyoto), il
Climate Change Bill si è arenato al Senato e, soprattutto dopo il risultato delle
elezioni di midterm, non sembra che sia collocato tra i punti principali dell’agenda
del Presidente. Al vertice di Cancun, gli Usa hanno ribadito il proprio impegno di
ridurre, entro il 2020, le emissioni del 17 per cento rispetto ai livelli del 2005 (e
non, come previsto dal Protocollo di Kyoto, rispetto al 1990), il che equivale a una
riduzione minore rispetto a quella che si realizzerebbe prendendo come anno base
il 1990.
Quanto alla posizione dell’Italia, in un’intervista rilasciata al Sole24ore il 29
novembre 2010, il Ministro dell’ambiente ha dichiarato che il nostro Paese, pur
non essendo contrario ad assumere nuovi impegni, non avrebbe sostenuto iniziative
- come quelle di ulteriore riduzione delle emissioni inquinanti - costose e
pregiudizievoli per la competitività delle industrie italiane, se i grandi inquinatori
(gli Usa, la Cina e l’India primi fra tutti) non avessero assunto impegni vincolanti
di riduzione delle emissioni.
In ogni caso, occorre considerare che l’Italia resta vincolata a quanto
stabilito in sede europea. Resta, infatti, confermata la politica ambientale ed
energetica dell’Europa, che non solo ha istituito (in via sperimentale dal 2005 e a
regime dal 2008) un mercato finanziario da miliardi di euro per lo scambio dei
diritti di emissione, ma che, con la c.d. “direttiva 20-20-20” ha registrato l’impegno
degli Stati a ridurre, entro il 2020, le emissioni del 20 per cento.
A Cancun, le Parti hanno assunto impegni di riduzione delle emissioni, ma si
tratta di impegni volontari, seppur approvati dall’assemblea plenaria della COP
(dato non trascurabile, considerato che nel precedente summit l’assemblea aveva
semplicemente preso atto dell’accordo raggiunto da soli cinque paesi). Al tempo
stesso, i paesi Annex I (quelli, cioè, che, ai sensi del Protocollo di Kyoto, si sono
impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 5,2 per cento rispetto al
1990 nel periodo 2008-2012) hanno concordato sulla necessità di realizzare, nel
2020, una riduzione delle emissioni tra il 25 e il 40 per cento rispetto ai livelli del
1990. All’insieme di questi impegni dovranno seguire iniziative concrete, della cui
programmazione - però - non si fa cenno nella decisione finale.
Sul fronte dei finanziamenti, il Copenhagen Accord recava l’impegno dei
paesi industrializzati a creare il Copenhagen Green Climate Fund («an operating
entity of the financial mechanism of the Convention»), volto ad assicurare ai paesi
in via di sviluppo misure di sostegno nei programmi di contrasto agli effetti causati
dal cambiamento climatico, nonché a trasferire in quei paesi tecnologie a basso
impatto ambientale. La COP16 riconosce, ora, la validità dell’impegno e conferma
la dotazione del fondo: 30 miliardi di dollari in ciascun anno del triennio
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2010-2012, 100 miliardi all’anno dal 2020. La cifra è importante e, come ha
ricordato il segretario generale dell’Onu, si tratta di investimenti strategici, essendo
destinati allo sviluppo sostenibile di vaste aree del mondo e alla sicurezza degli
approvvigionamenti energetici, sempre più scarsi e concentrati in aree dalla forte
instabilità politica. Per i primi quattro anni, sarà la World Bank a gestire il fondo,
con criteri e modalità che restano, però, tutti da definire.
Va sottolineata, infine, una vicenda la cui importanza va ben al di là della sua
natura procedurale. Si tratta di questo: il documento con cui le Parti, facendo
riferimento al Protocollo di Kyoto e alla necessità di darvi continuità, si dichiarano
impegnate ad adottare iniziative per la riduzione delle emissioni è stato approvato
non già all’unanimità (v’è stata l’opposizione della Bolivia), bensì “per consenso”.
La presidenza messicana ha, evidentemente, forzato l’applicazione della regola del
consenso, ma si è trattato di una forzatura che, «se da una parte ha evitato un altro
fallimento stile Copenhagen, dall’altra rappresenta un precedente che sicuramente
avrà importanti conseguenze sul funzionamento delle prossime conferenze» (L.
MASSAI, Il finto accordo di Cancun, in QualEnergia, 15.12.1010). Intanto, la
Bolivia ha già annunciato che presenterà ricorso alla Corte internazionale di
giustizia.
La prossima COP si terrà a Durban (Sud Africa) nel dicembre 2011. Sarebbe
auspicabile che le Parti si presentassero con programmi condivisi e con l’impegno
di assumere iniziative concrete e relative responsabilità, poiché nel 2012 terminerà
il “first commitment period” (e, cioè, l’arco temporale 2008-2012 che il Protocollo
di Kyoto ha individuato come il periodo per realizzare gli impegni vincolanti di
riduzione delle emissioni). Non dotarsi di nuove regole per contrastare il
cambiamento climatico equivarrebbe, infatti, ad attestare il fallimento (non tanto e
non solo della diplomazia internazionale, quanto) della capacità degli Stati di far
fronte a problemi che, pur superando i confini di ciascun Paese, richiedono, in
primo luogo e nell’interesse comune a tutti, forti impegni nazionali.
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FRANCESCO FONDERICO - ANDREA FARÌ
Rassegna della normativa ambientale dell' ultimo anno.
1.
Le linee evolutive recenti della normativa ambientale.
Lo sviluppo recente della normativa ambientale nell'ordinamento italiano
evidenzia in modo definitivo come l'elemento trainante della propulsione
normativa sia costituito quasi interamente dall'attuazione della disciplina
comunitaria.
Dalla rassegna critica della produzione normativa italiana degli ultimi mesi
si desume, infatti, come dato preponderante l'adozione di decreti legislativi di
recepimento di direttive comunitarie, accanto alla altrettanto congenita produzione
di carattere sostanzialmente emergenziale e contingente legata ad esigenze
temporali, segnatamente proroghe di scadenze contenute in precedenti
provvedimenti.
Con la sola eccezione del D.Lgs. 128/2010, appare ragionevole sostenere,
di contro, che solo la parte residuale dello sforzo normativo recente sia stato
concentrato sulla produzione di discipline di implementazione dell'ordinamento
"ambientale" non legato ad impellenze comunitarie. E proprio in questi casi,
peraltro, gli interventi del legislatore sono stati al centro di notevoli discussioni e
contrapposizioni con i soggetti destinatari principali della regolazione: si pensi ai
decreti sul Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti - SISTRI ed ai decreti
di definizione dei meccanismi di incentivazione delle energie rinnovabili.
La sintetica rassegna dei recenti interventi normativi che può essere
condotta in questa sede assume come criterio di esposizione una ripartizione tra
aree omogenee di incidenza delle discipline, esaminando, nell'ordine, dapprima le
disposizioni che incidono su istituti di carattere trasversale e, successivamente, le
norme in tema di acque, inquinamento atmosferico, rifiuti ed energie rinnovabili.
2. Le discipline di natura trasversale.
Il più significativo degli interventi concernenti quelli che possono essere
considerati istituti trasversali, è il D.Lgs. 29 giugno 2010, n. 128. Con tale
normativa è stato operato un ulteriore c.d. "correttivo” al testo unico ambientale,
che ha modificato la disciplina in materia di valutazione d’impatto ambientale
(VIA), valutazione ambientale strategica (VAS) e prevenzione integrata degli
inquinamenti (IPPC).
In estrema sintesi, si può ritenere che tale intervento abbia prodotto un
duplice effetto. Per un verso ha perseguito finalità di chiarificazione e
semplificazione normativa, per altro verso ha proseguito nell'operazione di
accorpamento normativo e "codificazione" della disciplina ambientale.
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Sotto il primo profilo si considerino le modifiche introdotte in tema di
VIA, nel senso di meglio specificare le procedure di integrazione procedimentale
con le altre autorizzazioni ambientali, individuando con maggiore chiarezza le
ipotesi di attivazione della procedura di VIA in caso di modifiche dei progetti e
delle opere, nonché, assai significativamente, il chiarimento (resosi necessario
anche in ragione dei rilievi comunitari sollevati sul punto) sulla vincolatività della
VAS nei procedimenti di approvazione di piani e programmi .
Il secondo profilo riguarda invece l'inclusione della disciplina
dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA) nel D.lgs. 152/2006, al titolo III-bis
della Parte II. La disciplina, prima contenuta nel D.Lgs. 59/2005, è stata trasposta
con poche modifiche sostanziali.
Sempre nel novero delle disposizioni di carattere generale, appare
opportuno segnalare l'implementazione della disciplina in tema di appalti verdi
(green public procurement), operata, da un lato, con l'approvazione del
regolamento di attuazione del D.Lgs. 163/2006 ( DPR 5 ottobre 2010, n. 207), dove
figurano la disposizioni sull'inclusione del fattore ambientale nei contratti pubblici.
Dall'altro lato, sono stati adottati alcuni provvedimenti di portata minore, come il
D.lgs. 3 marzo 2011, n. 24 in attuazione della direttiva 2009/33/Ce sulle
"regole ambientali" per gli appalti per acquisti di veicoli da parte della pubblica
amministrazione, nonché il
DM 22 febbraio 2011, contenente i "Criteri
minimi per gli appalti "verdi" della pubblica amministrazione per l'acquisto di
prodotti tessili, arredi per ufficio, illuminazione pubblica, apparecchiature
informatiche".
Infine, rassegna sia pure al di fuori della normativa strettamente
“ambientale”, ma con effetti di natura trasversale, deve essere segnalata la
disciplina sul c.d. Federalismo demaniale, contenuta nel D.Lgs. 85/2010
(Attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di un proprio
patrimonio, in attuazione dell'articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42), con la
quale si disciplina il meccanismo di trasferimento dei beni di proprietà dello Stato
agli enti territoriali minori, incidendo sul regime dominicale di molti beni
ambientali. Sono infatti trasferiti alle regioni, ad es., i beni del c.d. demanio idrico,
con alcune tassative ipotesi di esclusione, mentre restano esclusi dal trasferimento
le riserve e i parchi naturali di rilevanza nazionale.
3. Le modifiche in tema di inquinamento atmosferico.
Con riferimento alla disciplina dell'inquinamento atmosferico e della
qualità dell'aria si devono segnalare due interventi significativi.
Il primo è contenuto nel già citato D.Lgs. 128/2010, dal cui art. 3 sono
state introdotte modifiche ed integrazioni alla Parte V del D.Lgs. 152/2006 in
materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera. In particolare,
le modifiche più significative hanno riguardato la distinzione tra la definizione di
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impianto e quella di stabilimento, che viene ad assumere un ruolo centrale ai fini
del rilascio dell’autorizzazione ad immettere emissioni in atmosfera. Sono stati
inoltre precisati aspetti di natura procedimentale relativamente alle autorizzazioni
dei nuovi impianti e il rinnovo di precedenti autorizzazioni, con una migliore
definizione dei poteri istruttori dell’amministrazione competente, nonché la
previsione di forme di efficace semplificazione (possibilità di considerare più
impianti localizzati nello stesso stabilimento come un unico impianto, qualora
abbiano caratteristiche tecniche, costruttive e di emissione simili, ed omogenee).
Il secondo intervento normativo ha invece riguardato la disciplina della
qualità dell'aria. Le finalità del D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 155, che recepisce la
Direttiva 2008/50/CE, sono quelle di assicurare la qualità dell’aria, garantire un
livello di informazione elevato sulla qualità dell’aria, nonché realizzare una
migliore cooperazione tra gli Stati dell’Unione europea e tra gli enti territoriali
coinvolti dalle funzioni di tutela. Il D.Lgs. 155/2010 prevede inoltre un complesso
sistema tecnico di misurazione, monitoraggio ed intervento in funzione dell'attività
di programmazione e pianificazione da parte delle regioni, sottoposta alle verifiche
del Ministero dell'Ambiente e dell'ISPRA.
Sono infatti previsti, per un verso, progetti di “zonizzazione” del territorio
e di adeguamento della “rete di misura” attraverso l’installazione ed il
mantenimento delle stazioni di misurazione e, per altro verso, i “piani di qualità
dell’aria”, al fine di individuare tutte le misure di intervento, ed i “piani d’azione”,
che individuano le misure necessarie per ottenere una riduzione del rischio di
superamento dei valori limite, dei valori obiettivo e delle soglie di allarme.
Di non minore impatto regolatorio, sempre in tema di inquinamento
atmosferico, è l'attuazione della direttiva 2008/101/CE, avvenuta con il D.Lgs. 30
dicembre 2010, n. 257, relativa all'inclusione delle attività di trasporto aereo nel
sistema comunitario di scambio delle quote di emissioni dei gas a effetto serra.
4. Gli interventi normativi in tema di rifiuti.
Particolarmente fervente è stata l'attività normativa in materia di rifiuti.
Anche in questo ambito il traino al legislatore nazionale è stato offerto dalla
necessità di attuare le disposizioni comunitarie.
Il D.Lgs. n. 205 del 10 dicembre 2010 ha infatti recepito nell’ordinamento
italiano la direttiva 2008/98/CE in materia di rifiuti, modificando profondamente la
parte IV del D.Lgs. 152/2006.
Gli aspetti interessati dalla normativa di recepimento sono molti, tuttavia se
ne possono evidenziare alcuni di sicura rilevanza: la gerarchia dei rifiuti, le nozioni
di sottoprodotto ed end of waste, gli obiettivi di recupero e di raccolta differenziata,
la responsabilità estesa del produttore e la tracciabilità dei rifiuti.
Con la gerarchia si stabilisce l’ordine di priorità di ciò che costituisce la
migliore opzione ambientale nella normativa e politica dei rifiuti. La gerarchia
prevede che il ciclo dei rifiuti debba essere orientato in primo luogo alla
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prevenzione, in subordine alla c.d. “preparazione per il riutilizzo”, poi al
riciclaggio, all’eventuale recupero di altro tipo (ivi incluso il recupero di energia) e
solo come ultima opzione, qualora tutte quella finora citate non fossero esperibili,
si prevede lo smaltimento. In particolare, l’attenzione alla prevenzione dei rifiuti,
sia con disposizioni vincolanti (come quelle sul riutilizzo dei prodotti ovvero sulla
preparazione per il riutilizzo), sia con disposizioni programmatiche (come quella
sui programmi di prevenzione), trova nel Dlgs 205/2010 un rinnovato vigore
rispetto alla disciplina previgente, in linea con i più recenti dettami comunitari. Il
nuovo testo dell’articolo 179 stabilisce i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti,
e chiarisce che solo in via eccezionale è possibile discostarsi dall’ordine di priorità,
in relazione a flussi di rifiuti specifici.
Anche con riferimento alla nozione di sottoprodotto, invece, il D.Lgs. 205
apporta significative innovazioni rispetto alla disciplina previgente.
Com’è noto, i sottoprodotti non sono rifiuti bensì prodotti secondari
conseguenti l’attività produttiva principale. pertanto, ampliare la nozione di
sottoprodotto equivale a restringere l’ambito di applicazione della disciplina sui
rifiuti, oltre che, a condizione che siano soddisfatti i criteri previsti, dare attuazione
alla “gerarchia dei rifiuti”. Il nuovo art. 184-bis del Dlgs n. 152 del 2006, definisce
come sottoprodotto qualsiasi sostanza che presenti contemporaneamente
determinate caratteristiche (la sostanza deve essere originata da un processo di
produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non sia la
produzione di tale sostanza od oggetto; è necessario che la sostanza venga
riutilizzata nel corso di un successivo processo di produzione o anche di
utilizzazione da parte del produttore o di terzi; deve essere certo che la sostanza o
l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di
produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o anche di terzi e la
sostanza o l’oggetto deve essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale; è necessario che l’ulteriore
utilizzo sia legale). Al comma 2 dell’art. 184-bis è prevista la possibilità di
emanazione di uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare, al fine di definire, nel rispetto delle condizioni di cui al
comma 1 dell’art. 184-bis, anche criteri qualitativi e/o quantitativi affinché
specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotto e non
rifiuto.
Sulla cessazione della qualifica di rifiuto (end of waste), con D.Lgs.
205/2010 viene introdotto nel D.Lgs. 152/2006 l’articolo 184-ter in cui si prevede
la specificazione delle modalità attraverso le quali un rifiuto cessa di essere tale,
ovvero “quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il
riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici”. Tali
criteri dovranno tuttavia essere previsti con decreto ministeriale da adottare nel
rispetto di condizioni specifiche: la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato
per scopi specifici; esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la
normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; l’utilizzo della sostanza o
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute
umana. Tale disposizione prende il posto di quella contenuta nel previgente articolo
181-bis “materie, sostanze e prodotti secondari”.
Un ulteriore punto qualificante del recepimento della direttiva comunitaria
sui rifiuti è costituito dagli obiettivi di recupero e riciclaggio (art. 181). Allo scopo
di raggiungere gli obiettivi posti in sede comunitaria, lo strumento privilegiato è
dato dalla raccolta separata dei rifiuti, che continua ad essere uno degli strumenti
importanti, seppure non l’unico, per agevolare e migliorare il potenziale di riciclo e
recupero. Inoltre, mentre nell’ordinamento italiano gli obiettivi finora esistenti
riguardavano esclusivamente la raccolta differenziata, contenuti all’art. 205 del
Dlgs 152/2006, in ambito comunitario gli obiettivi si riferiscono al recupero del
rifiuto ed indicano, come strumento obbligatorio, la raccolta differenziata. Ne
deriva che l’obiettivo comunitario è più ambizioso, e presuppone una sistema di
raccolta efficiente ed improntato al principio di differenziazione.
Per quanto riguarda il principio della responsabilità estesa del produttore
l’art. 178-bis rappresenta la generalizzazione di un principio già attuato con
riferimento a specifiche filiere produttive e di recupero (ad es. pneumatici fuori
uso). Tuttavia, la nuova disposizione rimanda l’operatività del principio stesso
all’adozione di uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare che definiranno le modalità e i criteri di introduzione della
responsabilità estesa del produttore del prodotto. Tale principio riveste una
importanza decisiva per l’impostazione comunitaria della riduzione e prevenzione
dei rifiuti, e la sua applicazione concreta sarà legata alla volontà di adozione dei
decreti attuativi.
Un tema di grande impatto in materia di rifiuti è quello del controllo della
tracciabilità degli stessi. Con il D.M. 17 dicembre 2009, adottato sulla base di
precedenti disposizioni (articolo 14-bis del D.L. n. 78 del 2009, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009) è stato appunto istituito il Sistema di
Tracciabilità (SISTRI). Il D.Lgs. 205/2011 ha introdotto nell’ordinamento
l’apparato sanzionatorio ad esso connesso, in vista dell’entrata in vigore definitiva
del sistema. Posta la rilevante complessità tecnica di tale sistema, negli ultimi mesi
la tematica è stata oggetto di numerosi interventi “correttivi”, dapprima per
prorogare il termine di entrata in vigore ed apportare lievi modifiche ( D.M. 28
settembre 2010; D.M. 22 dicembre 2010), successivamente per accorpare in unico
atto, di natura regolamentare, la disciplina del SISTRI e fornire agli operatori un
“testo unico” (D.M. 18 febbraio 2011, n. 52), infine ancora per prorogare,
differenziando in base alle categorie produttive coinvolte, il termine di entrata in
operatività del sistema stesso (D.M. 26 maggio 2011).
Oltre agli interventi finora menzionati, in tema di rifiuti le disposizioni più
rilevanti hanno riguardato
le modifiche al D.Lgs. 188/2008 relativo a "pile,
accumulatori e relativi rifiuti", operate con il D.Lgs. 11 febbraio 2011, n. 21 e, di
notevole impatto concreto sul ciclo di gestione dei rifiuti, il D.M. 27 settembre
2010, che disciplina i nuovi criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica.
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5. Gli interventi normativi in tema di energia.
Il quadro normativo relativo alla regolazione delle tematiche energetiche
ha subito alcuni rilevanti interventi di modifica. In particolare i versanti sui quali si
è registrata una notevole attività del legislatore sono stati due: energie rinnovabili
ed energia nucleare.
Con riferimento all'energia prodotta da fonti rinnovabili, evidenziando solo
le innovazioni più recenti e rilevanti, si registrano, per un verso, gli interventi che
hanno condotto all'adozione delle tanto attese "Linee guida per l'autorizzazione
degli impianti alimentati da fonti rinnovabili" (D.M. 10 settembre 2010), nonché
del c.d. "Terzo conto energia" di disciplina degli incentivi per impianti fotovoltaici
(D.M. 6 agosto 2010). Per altro verso, con il
Dlgs 3 marzo 2011, n. 28 è stata
recepita nel nostro ordinamento la direttiva 2009/28/CE in materia di promozione
dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.
Quest'ultimo intervento rappresenta una nuova disciplina-quadro per il
settore, dal momento che vengono definiti gli strumenti, i meccanismi, gli incentivi
nonché il quadro istituzionale, finanziario e giuridico, necessari per il
raggiungimento degli obiettivi di promozione già prefissati dalla suddetta direttiva
in vista del 2020. Il decreto si pone quale cornice normativa rinnovata del settore,
ponendo le prescrizioni relative alle procedure amministrative di autorizzazione
degli impianti, le regole per la garanzia di origine dell'energia prodotta,
l’informazione e la formazione dei soggetti coinvolti nelle procedure tecniche su
cui si regge tale sistema di riconoscimento dell'energia prodotta e di connessione
con i meccanismi incentivanti ad essa relativi. Una parte specifica è dedicata alla
disciplina dei biocarburanti, successivamente integrata dall'adozione del D.Lgs. 31
marzo 2011 n. 55 (Attuazione della direttiva 2009/30/CE) .
Al D.lgs. 28/2011 è seguito a stretto giro il D.M. 5 maggio 2011, relativo
alla incentivazione della produzione di energia elettrica
da impianti solari
fotovoltaici (c.d. Quarto Conto energia), resosi necessario in ragione della
cessazione anticipata dei meccanismi di incentivazione del c.d. Terzo conto energia
disposta proprio con il D.Lgs. 28/2011.
Sul versante dell'energia nucleare, invece, la rassegna normativa registra la
chiusura del cerchio, con ritorno al punto di partenza. La disciplina in origine
contenuta nel D.Lgs. 31/2010, in un primo momento oggetto di alcune modifiche
operate con il D.Lgs. 23 marzo 2011, n. 41 è stata rimessa in discussione funditus
in ragione, per un verso, dei drammatici eventi di Fukushima (Giappone), e, per
altro verso, della contestuale pendenza di un referendum abrogativo delle
disposizioni fondamentali (dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 28/2011, e approvato nel giugno 2011 dalla maggioranza degli elettori).
Sulla scorta di tale dibattito, il legislatore ha tratto la decisione di rivedere la
disciplina, dapprima con la sospensione dell'efficacia del d.lgs. 31/2010, disposta
dal D.L. 34/2011 (art. 5), e successivamente con l'abrogazione della disciplina
stessa con la legge di conversione 75/2011, con la sola esclusione della parte
riguardante il Deposito nazionale delle scorie.
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6. Le novità in tema di acque.
La breve rassegna delle novità normative degli ultimi mesi si chiude con
gli interventi in tema di acque, che tuttavia, seppur significativi, non contengono
quelle modifiche di ordine strutturale alla parte Terza del D.Lgs. 152/2006, pure
previste nella legge delega del 2009.
In particolare, si segnala il D.Lgs. 10 dicembre 2010, n. 219, relativo agli
"Standard di qualità ambientale nel settore della politica delle acque - Attuazione
della direttiva 2008/105/Ce". Il provvedimento recepisce quanto stabilito dalle
direttive 2009/90/Ce in materia di specifiche tecniche per l’analisi chimica e il
monitoraggio dello stato delle acque e 2008/105/Ce sugli standard di qualità
ambientale in materia di acque. Le modifiche incidono sulla Parte II del D.Lgs.
152/2006 (tra cui le nuove definizioni di "buono stato chimico delle acque", "limite
di rilevabilità" e "limite di quantificazione"), al fine di garantire il perseguimento
degli obiettivi di riduzione dell'inquinamento provocato dalle sostanze prioritarie
(direttiva 2000/60/Ce) entro il 2015.
Un intervento maggiormente significativo è stato invece adottato con
riferimento all'ambiente marino, in relazione al quale il D.Lgs. 13 ottobre 2010, n.
190, ha attuato la direttiva 2008/56/Ce che istituisce un quadro per l’azione
comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino. Tale decreto, che ha
posto gli obiettivi prioritari per la protezione e la preservazione dell’ambiente
marino, prevede l’adozione di misure necessarie a mantenere un buono stato
ambientale del mare, da raggiungere entro il 2020. Le molteplici strategie
contemplate mirano alla tutela dell’ambiente marino, circoscrivendo il più
possibile l’impatto delle attività antropiche e garantendo un uso sostenibile delle
risorse nell’interesse generale.
Di portata più circoscritta ma parimenti rilevante, deve essere segnalato
inoltre il D.M. 8 novembre 2010, n. 260, recante i "Criteri tecnici per la
classificazione dello stato dei corpi idrici superficiali" che ha modificato le norme
tecniche allegate alla Parte III del D.Lgs. 152/2006.
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