SENTIERI DELLA RICERCA

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SENTIERI DELLA RICERCA
ISSN 1826-7920
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I SENTIERI DELLA RICERCA
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I
SENTIERI
DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
Del Boca
Labanca
Magnani
Scardigli
Abbonizio
Aguzzi
Bassi
Fekini
Tambone
Gandolfo
Calchi Novati
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EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I SENTIERI DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
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Crodo
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I Sentieri della Ricerca
è una pubblicazione del Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo.
Direttore
Angelo Del Boca
Condirettori
Giorgio Rochat, Nicola Labanca
Redattrice
Severina Fontana
Comitato scientifico
Marina Addis Saba, Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele,
Gian Mario Bravo, Marco Buttino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni
Clodomiro, Jacques Delarue, Mirco Dondi, Angelo d’Orsi, Nuruddin
Farah, Edgardo Ferrari, Mimmo Franzinelli, Sandro Gerbi, Francesco
Germinario, Claudio Gorlier, Mario Isnenghi, Lutz Klinkhammer,
Nicola Labanca, Marco Lenci, Aram Mattioli, Gilbert Meynier, Pierre
Milza, Renato Monteleone, Marco Mozzati, Richard Pankhurst, Giorgio
Rochat, Massimo Romandini, Alain Rouaud, Gerhard Schreiber,
Francesco Surdich, Nicola Tranfaglia, Jean Luc Vellut, Bahru Zewde
La rivista esce in fascicoli semestrali
Direttore Angelo Del Boca
Editrice: Centro Studi Piero Ginocchi
Via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)
Stampa: Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli
Via Jenghi, 10 - 28877 Ornavasso (VB)
www.saccardotipografia.net
N. 13 - 1° Sem. 2011
Numero di registrazione presso il Tribunale di Verbania: 8, in data 9 giugno 2005
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Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1
Prezzo di copertina � 20,00
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Abbonamento sostenitore � 100,00
C.C.P. n. 14099287 intestato al Centro Studi Piero Ginocchi
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causale abbonamento: ISDR
Questo volume esce grazie anche al contributo dell’avvocato Anwar Fekini, che
con Angelo Del Boca ha fondato in Crodo il Centro di documentazione AraboAfricano presso il Centro Studi Piero Ginocchi.
Provincia del
Verbano Cusio Ossola
Comune di Crodo
Sommario
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Cento anni in Libia
di Angelo Del Boca
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La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani degli ultimi
venticinque anni
di Nicola Labanca
55
I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia
di Alberto Magnani
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Gli ascari operanti in Libia nei materiali dell’archivio
dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito
di Marco Scardigli
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Bestie, e umani.
Un documento per la storia dei campi di concentramento in Cirenaica
di Nicola Labanca
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Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali
coloniali in Libia
di Isabella Abbonizio
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Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
di Matteo Aguzzi
161
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
di Gabriele Bassi
191
La Libye avant le renouveau actuel
di Anwar Fekini
205I Buddenbrook d’Oltremare
di Nicolò Tambone
243
Il tesoro archeologico della Libia
di Francesca Gandolfo
295
Le visite di Gheddafi in Italia
di Giampaolo Calchi Novati
Cento anni in Libia
di Angelo Del Boca
1. Alle 15.30 del 3 ottobre 1911 le venti navi al comando del viceammiraglio Luigi Faravelli aprivano il fuoco sui forti di Tripoli mettendoli rapidamente a tacere. Due giorni dopo, alle 3 del pomeriggio, 1.732
marinai, comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, prendevano
terra e occupavano la città, abbandonata dai turchi e dai soldati arabi. Nel
proclama ai libici, subito diffuso dal governatore provvisorio, contrammiraglio Raffaele Borea Ricci, si leggevano le prime paterne bugie: «Voi siete
ormai nostri figli. Avete come noi gli stessi diritti di tutti gli Italiani dai
quali non è lecito distinguervi. Gridate dunque con tutti i nostri fratelli
d’Italia: viva il Re, viva l’Italia».
La guerra contro la Turchia, voluta dai nazionalisti e avallata dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, era cominciata. Sarebbe durata quasi due anni, con alterne fortune. Ma il bombardamento delle fortificazioni
dei Dardanelli e la successiva occupazione del Dodecaneso, insidiando la
Turchia più da vicino, la costringevano a firmare la pace di Ouchy, che
assegnava all’Italia la sovranità sulle tre regioni della Libia: Tripolitania,
Cirenaica e Fezzan. Quest’ultima immensa regione, di difficile accesso,
non veniva occupata che nel 1914, in seguito alla spericolata spedizione
del tenente-colonnello Antonio Miani, il quale si spingeva all’interno del
territorio desertico con pochi uomini e scarsi mezzi.
Lo scoppio della prima guerra mondiale ribaltava la situazione ridando
fiducia ai turchi e consentendo agli arabi, sotto la guida del Gran Senusso,
di promuovere una grande rivolta. Nel giro di pochi mesi Miani era costretto ad abbandonare il Fezzan mentre venivano sgomberati tumultuosamente quasi tutti i presidi della Tripolitania. Secondo i calcoli di Vincenzo
Giovanni Di Meo, «la tragedia si materializzava in 5.600 morti, in qualche
migliaio di feriti, in circa 2.000 prigionieri». Anche le perdite in materiale
bellico erano ingenti: 37 cannoni, 20 mitragliatrici, 9.048 fucili, 28.021
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Angelo Del Boca
colpi di cannone, 6.185.000 cartucce, 37 autocarri, 14 stazioni radio. Si
trattava di un arsenale in grado di armare almeno dieci mehalle. Il disastro
libico pareggiava o superava quello di Adua. Ma le sue conseguenze erano
di gran lunga peggiori: in effetti l’Italia conservava in Tripolitania soltanto
le città di Tripoli e di Homs, assediate da 20 mila ribelli.
2. Nonostante l’abilità e il coraggio di generali come Ameglio, Latini e
Cassinis, l’assedio agli avamposti italiani durava per anni, grazie ai continui
attacchi sferrati dai più autorevoli capi tripolini, come Suleiman el-Baruni,
Mohamed Fekini, Chalifa ben Ascar e Mahdi es-Sunni. È soltanto con la
fine della prima guerra mondiale e con l’arrivo a Tripoli di ingenti rinforzi
(3 divisioni, 200 cannoni, 40 aeroplani, 700 autocarri), che la situazione
cambiava ancora una volta. Ma se era relativamente facile rispedire a casa
il contingente turco, ben più difficile era trovare un accordo con gli arabi,
che ora pretendevano addirittura di stabilire in Tripolitania la Giamhuriyya
et-Trabulsia, ossia la Repubblica di Tripolitania.
Per evitare altri massacri, il governatore Vincenzo Garioni rinviava il già
predisposto attacco alle posizioni arabe e accettava di incontrare i delegati
tripolini a Khallet ez-Zeitun, dove con essi firmava la pace e uno schema
di Statuto, il quale, pur non essendo integralmente democratico, avrebbe
potuto ridare la voce ad un popolo a lungo represso e fargli guadagnare
qualche decennio nel difficile cammino verso la maturità politica. Purtroppo gli istituti promessi, a cominciare dal Parlamento locale, non sarebbero
mai entrati in funzione in Tripolitania. Lungaggini ed insolvenze avrebbero
ben presto mandato in soffitta lo Statuto ed ogni forma di collaborazione.
A metà del 1921, lo Statuto libico si poteva ormai considerare definitivamente sepolto. Ancora prima che arrivasse il fascismo, a spazzar via in
Libia ogni speranza di libertà e di cooperazione fra le razze, le correnti più
tradizionaliste in seno alla liberaldemocrazia tornavano a prevalere e imponevano il loro programma di pura e semplice sottomissione degli arabi.
Appena giunto in colonia, il nuovo governatore Giuseppe Volpi decideva
di occupare Misurata Marina per chiarire ai libici che la «stagione delle
chiacchiere sotto la tenda» era finita e che l’Italia tornava ad esercitare in
Tripolitania i suoi diritti di potenza occupante.
Con l’avvento del fascismo si assisteva alla graduale rioccupazione del
territorio libico. A guidare le operazioni militari erano personaggi di primo
piano del regime e dell’esercito, come il quadrumviro Emilio De Bono e
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Cento anni in Libia
il capo di stato maggiore generale Maresciallo Pietro Badoglio. Sul terreno agiva, fra gli altri generali, Rodolfo Graziani, abile manovratore di
reparti eritrei, la cui fama, crescente, associava la reputazione di soldato
imbattibile a quella di «macellaio di arabi». Nel 1928 veniva rioccupata
integralmente la Tripolitania; nel 1930 il Fezzan. Più ardua la penetrazione nella Cirenaica, dove un genio della guerriglia, il vicario del Senusso,
Omar al-Mukhtàr, dava con poche centinaia di uomini filo da torcere ad
interi eserciti.
In una famosa e tragica lettera a Graziani, il governatore Badoglio precisava i motivi del fallimento della controguerriglia tradizionale e indicava
i nuovi metodi da adottare, anche se severissimi e addirittura catastrofici
per i libici: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben
preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo
la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina
della popolazione cosidetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata
e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la
popolazione della Cirenaica».
Pianificata da Badoglio e da Graziani, la deportazione di oltre 100 mila
abitanti della Cirenaica veniva realizzata tra il luglio del 1930 e il maggio
dell’anno successivo. Alcune popolazioni, come quelle della Marmarica,
furono costrette e percorrere 1.100 chilometri nella stagione più inclemente. «Chi indugiava – recita un documento dell’epoca – veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per
necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro
terre e i loro beni».
I deportati venivano infine rinchiusi in quindici campi di concentramento nel Sud-Bengasino e, peggio ancora, nel deserto della Sirtica, dove la denutrizione, le malattie epidemiche e i tentativi di fuga causavano
ingenti perdite. Secondo le stime del commissario regionale di Bengasi,
Egidi, in poco più di un anno i reclusi nel lager di Soluch scendevano da
20.123 a 15.830, e quelli di Sidi Ahmed el-Megrun da 13.050 a 10.197.
In tre anni, la massima durata dei campi, la popolazione carceraria diminuiva da 100 mila a 60 mila. Raccontava un recluso nel campo di el
Abgheila: «Ogni giorno uscivano dal campo cinquanta cadaveri. Venivano
sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li
contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata.
O persone che morivano di fame o di malattia».
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Angelo Del Boca
Come Badoglio aveva previsto, la deportazione delle popolazioni della
Cirenaica causava un fortissimo indebolimento della guerriglia di Omar al
Mukhtàr. L’11 settembre 1931 veniva lui stesso fatto prigioniero all’uadi
Bu Taga, subito trasferito a Bengasi, sottoposto ad una farsa di processo e
immediatamente impiccato nel lager di Soluch, dinanzi a ventimila reclusi.
Stroncata la ribellione, liquidati nel 1933 i campi di concentramento, l’anno successivo Badoglio rientrava in patria e Mussolini nominava come suo
successore il ministro dell’Aeronautica e celebre trasvolatore Italo Balbo.
3. Per la prima volta, dopo la finta elargizione degli Statuti libici, un
governatore italiano tornava a parlare agli arabi di collaborazione e, a modo suo, cercava di realizzarla, mettendo in atto un sostanzioso programma
educativo, creando una Scuola superiore di cultura islamica, istituendo
una forma di cittadinanza favorevole agli arabi, agevolando infine l’annuale pellegrinaggio dei libici alla Mecca. Nell’ottobre del 1938, a quattro anni dal suo arrivo in Libia, Balbo tracciava questo bilancio: «La coesistenza
delle due collettività ha già raggiunto uno stato di armonia e di equilibrio,
quale può esserci invidiato da quelle potenze colonizzatrici che ben prima
di noi hanno fatto le loro prove nel Nord Africa […]. Noi avremo in Libia
non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani musulmani, gli
uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere elementi cosruttori di un
grande potente organismo, l’Impero Fascista».
Ma Balbo non intendeva soltanto distinguersi dai suoi predecessori,
invitando al dialogo gli abitanti della Libia e cercando di strapparli alla
loro arretratezza. Aveva anche fretta di costruire, di lasciare traccia peritura
del suo passaggio, con opere, come la litoranea Balbia, che collegava con i
suoi 1.822 chilometri il confine con la Tunisia con quello dell’Egitto. Ma
non tutte le realizzazioni di Balbo avranno il pregio di essere bene accolte
dai libici.
I risultati della colonizzazione demografica, tanto esaltati dal regime,
non potevano essere apprezzati dai contadini arabi, i quali si vedevano
relegati sui terreni meno produttivi. In realtà, tutta la terra migliore veniva sottratta ai libici e passata ai 30 mila coloni italiani giunti in Libia
nel 1938-39 e sistemati in decine di villaggi costruiti a spese dello Stato.
«I beduini sono convinti che Balbo intenda distruggerli con la frode, così
come Graziani ha cercato di distruggerli con le mitragliatrici e le bombe»,
commentava il celebre antropologo inglese Evans Pritchard.
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Cento anni in Libia
In effetti, se è vero che con Balbo gli arabi cominciavano a ricevere
qualche assistenza nei campi sociale, sanitario e scolastico, ed erano incoraggiati a rendere meno arcaica la loro agricoltura, era anche vero che di
terre agli arabi ne distribuì poche, e quelle poche più per rispondere alle
critiche e per motivi di propaganda che non per un piano ben determinato. In pratica, venivano riservati alla colonizzazione araba 1.393 ettari,
pari ad una trecentesima parte della terra assegnata agli italiani. Lo scoppio
della seconda guerra mondiale avrebbe impedito anche questa modesta assegnazione e mandato in rovina anche l’intera colonizzazione demografica.
Il deserto si sarebbe riappropriato dei bianchi villaggi agricoli e dei sogni
dei suoi innocenti abitanti.
4. Con la guerra se ne sarebbe andato per primo Italo Balbo, abbattuto
dalla nostra stessa antiaerea. Poi sarebbe stato clamorosamente sconfitto
Rodolfo Graziani ed infine lo stesso genio della guerra Erwin Rommel
sarebbe stato battuto ad El Alamein, provocando una disastrosa ritirata
che si sarebbe conclusa soltanto in Tunisia. Con la Libia, l’Italia avrebbe
perso nel febbraio del 1943 l’ultima sua colonia, che passava, per otto anni,
sotto l’amministrazione britannica. Il 24 dicembre 1951, infine, nasceva il
Regno Unito di Libia sotto la guida di re Mohammed Idris el-Mahdi esSenussi, il quale accettava l’incarico non per ambizione, ma per dovere e
per le pressioni esercitate su di lui dalla Gran Bretagna.
Per la comunità italiana di Libia, il regno di Mohammed Idris aveva
inizio nell’incertezza e nell’inquietudine. Estromessa totalmente dalla guida del paese, esclusa per sempre dalla vita politica, essa viveva per alcuni
anni in una sorta di limbo, in attesa che un accordo italo-libico ne definisse
la sorte. In questo clima di indecisione, molti coloni abbandonavano le loro proprietà e rientravano in Italia. I primi villaggi a spopolarsi erano quelli
di Marconi e Tazzoli. Poco dopo la sabbia del deserto, non più trattenuta
dalle siepi, cominciava a ricoprire i campi, invadeva le aie, penetrava nelle
case coloniche, e nel cielo le pale degli aeromotori giravano a vuoto, con
un cigolio sinistro.
L’accordo italo-libico giungeva in ritardo, nel 1957, quando ormai la
comunità italiana, che all’inizio degli anni cinquanta contava ancora 45
mila unità, si era ridotta a 27 mila. L’accordo prevedeva che l’Italia avrebbe
versato alla Libia la somma di 2.750.000 lire libiche (pari 4.812.500.000
lire italiane). I libici avrebbero voluto che questa somma fosse stata erogata
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Angelo Del Boca
per compensare i danni di guerra e quelli causati dalla lunga dominazione
coloniale. Causale che gli italiani si rifiutavano di riconoscere. Essi versavano invece la somma «quale contributo alla ricostruzione economica
della Libia». Con questo gretto artificio l’Italia repubblicana e democratica
decideva pertanto di coprire gli errori e le responsabilità dell’Italia fascista.
Alla metà degli anni sessanta la comunità italiana, dopo aver goduto un
periodo abbastanza soddisfacente, tornava a piombare nell’inquietudine.
In Libia la tensione raggiungeva il livello di guardia. Lo stesso re Idris si
rendeva conto che non poteva continuare a praticare la sua politica di aperture progressiste e di brusche virate conservatrici. Scontenti del regime non
erano più soltanto gli studenti, i sindacalisti e gli aderenti ai nuovi elementi
panarabi, ma molti fra gli stessi ufficiali dell’esercito, specie di grado inferiore. A rendere ancora più turbolenta la situazione era il precipitare della
crisi arabo-israeliana in un nuovo e aperto conflitto armato. Il 2 giugno
1967 nelle moschee libiche gli ulema cominciavano a proclamare la guerra
santa. Tre giorni dopo, quando la radio annunciava che l’esercito israeliano
aveva aperto le ostilità, la popolazione di Tripoli scendeva in piazza. Andavano in fiamme un centinaio di negozi di italiani e 17 ebrei restavano
uccisi. Veniva saccheggiato e poi bruciato anche il Circolo Italia. I tempi,
in Libia, erano ormai maturi per un cambiamento radicale.
5. Ad approfittare dello scontento e dell’incertezza erano gli Ufficiali
Liberi, che alle 2.30 del 1° settembre 1969 mettevano a punto l’«Operazione Gerusalemme», che consentiva loro, senza spargere sangue, di assumere in poche ore il potere. E subito dopo un oscuro capitano Muammar
Gheddafi leggeva alla radio di Bengasi un proclama che diceva, fra l’altro:
«Le tue forze armate hanno distrutto il regime reazionario, retrogrado e
decadente. D’ora in avanti la Libia sarà considerata una libera repubblica
sovrana, porterà il nome di Repubblica Araba Libica, e con l’aiuto di Dio
ascenderà alle più alte sfere».
Il giovanissimo capitano (27 anni) era esattamente l’opposto del vecchio sovrano. Sapeva ciò che voleva e lo voleva intensamente, senza un
attimo di indecisione. Nel giro di un anno dava il benservito ad inglesi e
americani sloggiandoli dalle loro basi militari di Wheelus Field, di Tobruk
ed Elem Aden. Come seconda mossa, otteneva dalle compagnie petrolifere
che agivano da anni sul territorio libico una percentuale più equa sugli
introiti del petrolio. Vinta la battaglia delle basi militari e quella contro i
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Cento anni in Libia
petrolieri, Gheddafi preparava quella contro la comunità italiana, la quale,
per quanto ridotta, era ancora troppo attiva e ingombrante per non ricordare gli anni oscuri del colonialismo.
Il 21 luglio 1970 Tripoli promulgava tre leggi di importanza capitale,
che prevedevano la confisca di tutti i beni degli italiani e degli ebrei e
l’immediata espulsione di tutti i membri delle due comunità. La sanzione
comportava la cacciata di circa 20 mila italiani e l’incameramento totale
dei loro beni, valutati in 200 miliardi di lire. Era così radicale l’atteggiamento dei libici, che il governo italiano era costretto a provvedere al reimbarco anche delle salme di 20.492 soldati caduti in Libia, compresa quella
di Italo Balbo.
Nonostante l’aspetto violento della cacciata e l’entità dei beni «recuperati», Gheddafi non riteneva affatto chiuso il contenzioso con Roma.
Giudicando l’indennizzo versato a re Idris assolutamente risibile, obbligava
la Farnesina ad aprire con Tripoli nuovi negoziati, che si sarebbero protratti
per più di trent’anni senza esito alcuno. Ma il colonnello non si scomponeva, sapeva aspettare. Non si indignava quando ascoltava la ormai logora
battuta «abbiamo già dato» e neppure quando gli offrivano modesti risarcimenti, come la costruzione di un ospedale o la bonifica dei campi di mine.
E non chiedeva soltanto beni materiali, ma una precisa parola di condanna
per gli orrori della notte coloniale. Con pazienza e metodo, ogni anno, in
ottobre, nei giorni dello sbarco giolittiano a Tripoli, Muammar Gheddafi
ripescava l’argomento dei risarcimenti e ricordava all’Italia il suo debito.
Con Gheddafi abbiamo vissuto quarant’anni facendo eccellenti affari,
comprando un terzo del petrolio necessario, ma sfiorando però anche la
guerra. Merito e colpa di Gheddafi: un personaggio estremamente complesso, oggi promotore di una terza teoria internazionale e domani terrorista a livello planetario; ora costruttore di alleanze di stampo continentale
ed ora delicato narratore di favole moderne. Uomo di pace, ma più spesso
di guerra. Vanitoso sino al ridicolo, ma dalla memoria inesausta. Sincero
sino al punto di confessarmi, nel corso di una intervista concessami a Tripoli nel 1996, che il suo Libro Verde, stampato in milioni di copie, non era
stato apprezzato dai libici: «Sono certamente deluso. I princìpi contenuti
nel Libro Verde sono ovviamente dei princìpi utopistici. Se però la mia
gente li avesse adottati, oggi vivremmo in un mondo più felice, più verde.
Ma è difficile, con la gente di oggi, conseguire tali risultati. Di conseguenza
il nostro mondo è ancora, purtroppo, di colore nero. Veda i quotidiani
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Angelo Del Boca
scempi della natura, le quotidiane tragedie».
Difficile andare d’accordo con un personaggio di questo livello. Per
alcuni decenni i politici italiani lo hanno sottostimato, criticato, a volte
deriso. Soprattutto non hanno pronunciato quella parola di condanna del
colonialismo che Gheddafi voleva ascoltare. È soltanto alla fine degli anni
novanta dello scorso millennio che uomini di governo come Lamberto
Dini e Massimo D’Alema compiono il passo tanto atteso, che prelude a
trattative serie, che andranno finalmente in porto nel nuovo millennio.
Il 30 agosto 2008, a Bengasi, viene firmato un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione fra Roma e Tripoli, che porta le firme di Muammar Gheddafi e di Silvio Berlusconi. Costituito da 23 articoli, il trattato
prevede il versamento, in venti annualità, da parte dell’Italia, di 5 miliardi
di dollari, con i quali verrà realizzata una nuova e più ampia via Balbia, da
Ras Ideir ad Assoloum. Il 2 marzo 2009 il trattato viene ratificato dinanzi
al Congresso Generale del Popolo libico riunito a Sirte. Nel corso della cerimonia il presidente del Consiglio Berlusconi dichiara: «Ancora una volta
e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo
e vi chiedo perdono». Replica Gheddafi: «Accettiamo le scuse dell’Italia per
l’occupazione colonialista, e prego tutti i libici di vincere i risentimenti e
tendere la mano ai loro amici italiani in un rapporto paritario, di rispetto
reciproco».
Si chiude così, dopo un secolo, la nostra sciagurata avventura in Libia.
Abbiamo pagato, molto salato, il prezzo dei nostri errori, che non sono
pochi. Basta fare due calcoli e ci accorgiamo che abbiamo ucciso, «sulla
quarta sponda», più di 100 mila libici, vale a dire un ottavo dell’intera
popolazione. Che Gheddafi ci abbia tenuto, per così lungo tempo, una
implacabile ostilità, è più che ragionevole. Oggi, però, è stato ampiamente
ripagato sia dal punto di vista materiale che morale, e il colonnello lo ha
ammesso in più occasioni. Ma quanto vale una vita umana? Quanto valgono 100 mila cittadini libici? C’è un prezzo?
Tutto finito, allora? Nessun conto in sospeso? Fra Roma e Tripoli l’intesa è totale? Non si direbbe. Il trattato è stato dalle due parti ratificato, i pagamenti seguono un normale corso, e persino l’afflusso degli africani sulle
rive di Lampedusa è notevolmente diminuito. Ma qualcosa non funziona
al vertice della Giamahirrya, perchè la Libia non è una democrazia. Per
quanti sforzi faccia uno dei figli di Gheddafi, il plurilaureato Seif el-Islam,
per dare al suo paese una Costituzione liberale ed avviarlo tra le nazioni
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Cento anni in Libia
progressiste, la Libia di oggi è un paese autocratico, che non rispetta i diritti umani, riempie le carceri di oppositori politici e gestisce in maniera
feudale le immense ricchezze del petrolio. Nel trattato di Bengasi non c’è
(non poteva esserci) una richiesta formale di democrazia. Anche perchè il
nostro Paese, in questo preciso momento, non ne abbonda.
6. Poi, all’improvviso, a porre in discussione la stabilità del regime autoritario di Gheddafi, non era il figlio liberale Seif el-Islam e tantomeno
la fragile democrazia italiana, ma l’imprevista rivolta dei giovani arabi che
mettevano a soqquadro Tunisia, Egitto, Algeria, Siria, Yemen, provocando
la caduta dei governi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Per un
effetto domino anche la Libia subiva le conseguenze di questa rivolta, anche se i risultati erano molto diversi e non provocavano l’immediata caduta
della dittatura di Gheddafi.
In Libia le prime manifestazioni di violenza si verificavano principalmente in Cirenaica, fra Bengasi e Tobruk, e nel giro di una settimana l’intera regione riusciva ad eliminare ogni presenza delle forze lealiste
e a costituire un Consiglio nazionale libico di transizione. Del resto la
Cirenaica, dove è ancora forte l’influenza della Senussia, la confraternita
politico-religiosa che ha espresso re Idris, deposto da Gheddafi, è sempre
stata una spina nel fianco del rais e non è nuova a movimenti di ribellione.
Sacche di rivolta si manifestavano però anche in Tripolitania, soprattutto nelle città di Zavia e Misurata, brutalmente represse dalle forze di Gheddafi, che disponevano di un forte numero di carri armati, di artiglieria pesante, di missili e di cacciabombardieri. L’entità del conflitto e la presunta
necessità di proteggere i civili autorizzavano il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite a promulgare la risoluzione n. 1973 che accordava ad una
coalizione internazionale, capeggiata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, di intervenire militarmente in Libia, con operazioni di no-fly zone. Ma
dopo due mesi di massicci bombardamenti aerei e di lancio di missili da
parte delle navi, risultava distrutto soltanto il 30 per cento del dispositivo
bellico di Gheddafi, e si cominciava a pensare di risolvere radicalmente la
questione impiegando anche forze di terra.
Dinanzi a ciò che accadeva in Nord-Africa, e soprattutto in Libia, a
partire dal 17 febbraio 2011, l’atteggiamento del governo italiano era un
misto di stupore e di sconcerto. Colto di sorpresa, il premier Berlusconi giudicava inopportuno disturbare il colonnello Gheddafi e lasciava al
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Angelo Del Boca
ministro degli Esteri Frattini e a quello della Difesa La Russa il compito
di superare il primo disorientamento. In effetti la posizione dell’Italia era
particolarmente difficile, tenuto conto che il trattato bilaterale firmato a
Bengasi nell’agosto 2008 comprendeva fra l’altro una clausola di non aggressione e una di non ingerenza.
La prima mossa italiana fu quella di dichiarare congelato il trattato di
amicizia e cooperazione con Tripoli, confidando con questo atto di rimuovere un grave ostacolo e, di conseguenza, di poter agire liberamente nei
confronti di Gheddafi. Ma il blocco del trattato era di nessuna validità in
quanto unilaterale e non deciso dalle due parti. Dopo questo iniziale infortunio, la condotta del governo italiano si caratterizzava per una costante incertezza, tanto da essere giudicata ondivaga. Se da un lato sembrava
allinearsi con i sedici paesi della coalizione decisamente ostili al regime di
Gheddafi offrendo l’utilizzo di sette basi e partecipando alle ostilità con
un forte numero di cacciabombardieri, dall’altro rivelava una singolare
prudenza poichè ai nostri Tornado era vietato sganciare ordigni contro le
posizioni libiche.
Meglio sarebbe stato, per l’Italia, se si fosse defilata come aveva fatto la Germania della Merkel. I suoi antichi e stretti legami con la Libia
avrebbero giustificato questa decisione, certamente meno criticabile del
vago, incerto, equivoco coinvolgimento in Odyssey Dawn. Poichè adesso
ci troviamo in una pessima situazione, quella di ripetere, a cento anni di
distanza, l’aggressione ad un paese sovrano. Anche se la guerra contro il
regime di Gheddafi è contrabbandata come un’operazione «umanitaria»
e trova dei difensori del livello del filosofo Bernard-Henri Lèvy, in realtà
si tratta di un intervento dalle precise connotazioni neo-colonialiste. Va
anche detto che da questo confronto l’Italia è destinata a ricavare soltanto
degli svantaggi, come si è già visto quando si è trovata sola ad affrontare il
problema degli sbarchi dei profughi dalla sponda africana.
Un’ultima osservazione. Il colonnello Gheddafi ha immense responsabilità, soprattutto nei riguardi del suo popolo, al quale ha negato per
decenni il rispetto dei diritti umani ed una giusta ridistribuzione degli introiti del petrolio, ma quando, in un discorso pronunciato nel suo ridotto
di Bab el Azizia si è scagliato contro l’Italia tacciandola di tradimento, è
difficile dargli torto. Poiché il capo di Stato che è stato accolto in Italia per
ben quattro volte e con tutti gli onori, è lo stesso capo di Stato che oggi
l’Odyssey Dawn ha bloccato nella sua fortezza, lo ha ripetutamente bom16
Cento anni in Libia
bardato, con la precisa intenzione di eliminarlo.
Ad alcuni mesi dall’inizio delle operazioni militari in Libia è sempre
più chiara la sensazione che ci troviamo di fronte ad una guerra inutile e
sbagliata. E visto che l’opzione militare ha rivelato tutti i suoi limiti, si parla ormai chiaramente di adottare una soluzione politica, giudicata anche
nella dichiarazione finale del convegno di Doha come «il solo mezzo per
portare una pace durevole in Libia». Scrive, dal canto suo, Lucio Caracciolo: «La guerra in Libia merita di essere studiata come esempio di collasso
dell’informazione. Abbiamo iniziato una campagna militare sulla base di
notizie spesso manipolate se non del tutto false. Ora non sappiamo come
uscirne. L’unica certezza è che le prime vittime della “guerra umanitaria”
costruita dalla disinformazione sono i libici che pensavamo di salvare dalla
morsa di Gheddafi».
17
La guerra di Libia nelle pubblicazioni
e negli studi italiani degli ultimi venticinque anni
di Nicola Labanca
Una traduzione che ha atteso novant’anni
Nel 1913 Pierre Loti vide la Turchia agonizzante e, nella sua passione orientalista, decise di combattere letterariamente l’occupazione italiana
della Libia e le guerre nazionali balcaniche1. Qualcuno osservò che, da exufficiale di marina francese, la sua critica a quella che in Italia si chiamava
ancora la guerra italo-turca e che poi divenne la guerra di Libia era scontata: la Francia non vedeva di buon occhio il rafforzamento mediterraneo
dell’Italia. Inoltre egli sembrava sposare la causa della Turchia quale egli si
immaginava, non della Turchia quale essa era effettivamente. Ma se qui
ricordiamo il libro di Loti non è per parlare della Turchia o della Francia,
ma per riflettere sul fatto che esso è stato tradotto in italiano solo nel 2000.
Questo spiega quanto a lungo è durata in Italia una visione nazionale della
guerra italo-turca di Libia.
La vicenda della traduzione italiana del libro di Loti farebbe pesare
che solo a distanza di quasi novant’anni, solo quando fra Italia e Libia le
relazioni sono migliorate (nonostante l’embargo imposto alla Giamhiriya
fra 1988 e 1999-2003), è stato possibile superare il vecchio nazionalismo.
Ma vi è proprio coincidenza fra i tempi della politica e i tempi della ricerca
storica? Che i primi influenzino i secondi potrebbe sembrare se solo dopo la grande decolonizzazione, e piuttosto curiosamente solo dopo che in
Libia si è affermato un regime fortemente nazionalistico e che ha fatto un
forte uso politico della storia, in Italia è stato possibile scrivere una nuova
storia della guerra. Più in particolare, è solo negli ultimi venticinque anni,
quando i rapporti italo-libici sono sostanzialmente migliorati, che gli studi
italiani si sono infittiti e rinnovati.
La relazione fra i tempi della politica e i tempi della scrittura storica
non è mai meccanica e diretta. Ma è certo che solo oggi l’Italia non guarda
19
Nicola Labanca
più con imbarazzo alle critiche di Loti.
Non mancano riflessioni generali sul percorso e sullo stato odierno della storiografia italiana sulla Libia2. Esse ci ricordano che, a schematizzare
molto, il secolo di studi storici italiani sulla guerra di Libia è trascorso
in cinquant’anni di immagini coloniali (1911-1961), venticinque anni di
demolizione e di decolonizzazione di quelle immagini (1961-1986), e altri
venticinque anni (gli ultimi, 1986-2011) di rinnovamento degli studi e di
parziale costruzione di nuove immagini. Di quest’ultimo venticinquennio
e in specifico degli studi sulla guerra di Libia manca invece un bilancio storiografico, in particolare a partire da quando – alla metà degli anni ottanta
– nuove storie generali del colonialismo e della presenza italiana in Libia
erano state scritte3. Per le ragioni sopra esposte, fra storia coloniale e storia
nazionale, fra storia d’Italia e storia internazionale, un bilancio pare quindi
opportuno anche perché permette di cogliere continuità e cambiamenti in
questa area degli studi storici italiani.
Nomi e date
Intanto, di cosa stiamo parlando? E per quale periodo? Non di rado le
definizioni e le cronologie trascinano con sè un’interpretazione.
Dall’altra parte, dalla parte libica, negli ultimi anni la definizione ha
oscillato fra ‘al-harb al-itali’, la guerra italiana, cioè contro gli italiani, e ‘aljihad’, la guerra di resistenza. La prima locuzione sembra più denotativa
o semplicemente descrittiva, la seconda più connotativa e valutativa. Altri
arabisti potranno e dovranno specificare meglio.
Da parte italiana, invece, si è oscillato a lungo fra ‘guerra italo-turca’,
‘impresa di Tripoli’, ‘campagna di Libia’ e appunto ‘guerra di Libia’. Sembrano sinonimi, e possiamo per semplicità utilizzarli come tali, ma racchiudono sfumature diverse.
La ‘guerra italo-turca’ rinvia in effetti allo stato di guerra fra Roma e
Costantinopoli, al momento legittima proprietaria delle due province africane della Tripolitania e della Cirenaica. Sembrerebbe diplomaticamente e
formalmente più adatta, per lo meno sino alla pace di Ouchy dell’ottobre
1912, se non fosse che finisce per ignorare che lo scontro per il controllo
della ‘Libia’ andò molto al di là del 1912 e soprattutto che, a parte qualche centinaio di ufficiali turchi, l’avversario italiano più consistente fu la
resistenza popolare libica. Per certi versi, relativamente al 1911-12, appare
20
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
anche più esatto visto che le ostilità non furono solo in Africa ma anche,
ad esempio, nel Dodecaneso negli Stretti. ‘Campagna di Libia’ era invece
un termine più militare, meno diplomatico, più esatto circa l’avversario da
piegare per controllare il territorio, una volta che le ostilità con la Turchia
erano cessate: il suo carattere militare era annidato nel fatto di non voler
parlare di una vera e propria guerra, ma appunto solo di una ‘campagna’,
di una serie di operazioni militarie più circoscritte, come si addiceva non
ad una guerra vera e propria ma ad una spedizione coloniale, ad una campagna appunto. (È da notare poi una qualche distinzione definitoria operò
anche fra militari e fra forze armate: al 1913 sia la marina sia l’esercito si
riferivano allo stesso conflitto nei termini di ‘guerra italo-turca’; già negli anni venti però emergevano i distinguo, con la marina che insisteva
sulla ‘guerra italo-turca’ mentre l’esercito parlava ormai ufficialmente di
‘campagna di Libia’: una distinzione che forse oggi sembra essere abbandonata4.) ‘Impresa di Tripoli’, il titolo ad esempio di un importante volume di Gioacchino Volpe, ebbe una fortuna minore. Aveva però un che di
eroico, come d’intrapresa difficile, e si ricollegava ad altre precedenti come
l’‘impresa di Massaua’, sinonimico dell’intera prima fase dell’espansione
coloniale in Eritrea, e al tempo poteva sembrare anche più precisa, perché
– nell’ignoranza generale degli affari africani – molti avrebbero considerato la Tripolitania il vero obiettivo della guerra, ritenendo (erroneamente,
come avrebbero dovuto ammettere) che Bengasi e la Cirenaica sarebbero
cadute da sé una volta preso appunto Tripoli.
Su tutte queste definizioni si affermò invece in Italia quella di ‘guerra
di Libia’. Si affermò presto anche presso gli oppositori (Come siamo andati
in Libia5, recitava un titolo importante in quegli anni) sia perché sembrava
richiamare il passato romano (con la sua Libya e i suoi Libyes) sia perché
indicava senza infingimenti qual era l’obiettivo italiano: non tanto battere
la Turchia, non solo prendere Tripoli, ma appunto perché alla Libia tutta si
voleva arrivare. È, quello di chiamare una battaglia o una guerra non con
il nome dell’avversario o del luogo dove essa sia stata effettivamente combattuta, un’antica abitudine nazionalistica (ad esempio, nella storia italiana
di quei decenni, per il 1895-1896 si affermò la dizione né di ‘guerra italoetiopica’ né di ‘battaglia di Abba Garima’ ma di ‘battaglia di Adua’, dal
nome della città santa etiopica Baratieri voleva arrivare ma mai arrivò – se
non addirittura esagerando ‘guerra d’Africa’) e spiega bene la fortuna della
denominazione. Certo, va adottata con consapevolezza, per evitare quel
21
Nicola Labanca
tanto di nazionalismo che le è legato.
Oltre al nome si dovrebbe questionare anche la cronologia. Il procedimento di decostruzione sarebbe analogo e collegato a quanto già detto per
la denominazione, ma imporrebbe più spazio. Basterà qui osservare che
le date 1911-12 vanno bene al massimo per la ‘guerra italo-turca’ e forse
per l’‘impresa di Tripoli’. Ma per la ‘campagna di Libia’ e ancor più per la
‘guerra di Libia’ si dovrebbe andare ben più avanti, sino al 1931.
Tutto ciò detto, useremo nelle pagine seguenti la definizione e la cronologia entrate nell’uso comune rispettivamente di ‘guerra di Libia’ e di
‘1911-12’ perché praticamente nessuno degli autori (a parte Salvatore Bono, su una cui proposta definitoria torneremo in chiusura) e dei testi esaminati in questa rassegna si sofferma in queste considerazioni preliminari.
Il che però segnala già la continuità e i limiti della produzione storiografica
recente.
Grandi narrazioni
Partiamo dal dato sopra accennato per cui, nel corso del secolo ormai
trascorso dal primo sbarco italiano in Libia, si sono succedute grossomodo
tre grandi narrazioni: e l’ultimo venticinquennio ha messo le basi per una
quarta.
La prima grande narrazione, ovviamente, fu quella coeva alla conquista, negli anni dieci. Già la prima occupazione del 1911-12 aveva infatti
stimolato ricostruzioni, quasi instant books, che la legittimavano. In quei
primissimi anni vennero forgiati i principali miti e codificate le principali
impostazioni poi ripetuti nei decenni successivi6.
La seconda grande narrazione fu quella più compiutamente coloniale, e
fascista. Negli anni venti si cominciò a raccogliere, ordinare e pubblicare la
documentazione relativa alla conquista7. Negli anni trenta, sino a quando
nel 1943 l’Italia mussoliniana perse la guerra e tutte le sue colonie, la storia
della conquista della Libia (e poi della sua riconquista negli anni 1921-31)
fu integrata nei manuali di storia coloniale nazionale. Fra le pubblicazioni
significative di questa fase coloniale potremmo ricordare i capitoli relativi
alla conquista della Libia nelle storie coloniali generali di Mondaini del
1928 o di Ciasca nel 1938-408. Ma la perdita delle colonie non comportò
immediatamente la fine della narrazione coloniale, visto che nelle università continuavano ad insegnare i docenti di storia coloniale formatisi sotto il
22
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
fascismo, o i loro allievi. Peraltro sino al 1960 l’Italia formalmente rimase
detentrice di un’amministrazione fiduciaria della Somalia. Con riferimento specifico alla Libia l’ultima riformulazione dei miti del fascismo fu il
volume di Gioacchino Volpe del 19439, mentre narrazioni d’impostazione
coloniale furono ancora la storia della colonizzazione italiana del Nordafrica di Enrico De Leone del 1955 e la serie dell’Opera dell’Italia in Africa
degli anni cinquanta-sessanta10.
Una terza grande narrazione fu quella del tempo della decolonizzazione, quando l’Italia era ormai una democrazia. Questa nuova narrazione si
affermò in Italia non senza resistenze e spesso furono necessari uomini e
storici coraggiosi, disposti ad infrangere miti accettati da molti, perché si
affermasse. L’Italia democratica non aveva colonie proprie, e nonostante
quindi che la Repubblica postfascista nascesse già decolonizzata, grosso
modo sino al 1960, cioè all’anno delle indipendenze e alla grande decolonizzazione internazionale, molti miti coloniali erano ancora circolanti.
Fu così che storie della guerra di Libia ormai lontane dalle impostazioni
più coloniali furono quelle di Francesco Malgeri del 1969, del giornalista
Paolo Maltese del 1970 e dell’ambasciatore Sergio Romano del 197711.
Più importante, perché organicamente inserito in una ricostruzione generale dell’opera degli Italiani in Africa, orientale e settentrionale, fu però il
volume di Angelo Del Boca Tripoli bel suol d’amore. Dall’Unità al 1922,
del 1986 (sarebbe stato seguito due anni più tardi da un altro volume, Dal
fascismo a Gheddafi)12. Ma per giungere a questo, era dovuto passare un
venticinquennio da quando, abbandonata la Somalia, la Repubblica era
stata istituzionalmente e compiutamente decolonizzata.
Elementi comuni
In tanto variare di contesti e di congiunture esterne (spesso condizionanti), dalla conquista al periodo coloniale all’età della decolonizzazione,
c’era qualcosa che accomunava gli studi storici?13
In primo luogo sta la convinzione che la guerra di Libia rappresenti, nella storia d’Italia, una data periodizzante. Lo è di certo nella storia
dell’espansione coloniale, visto che dopo anni di attenta preparazione diplomatica, l’Italia liberale superava le ritrosie e le paure che l’avevano caratterizzata e si sentiva pronta ad osare, lanciando la guerra nel mezzo del
Mediterraneo. Ma il 1911 veniva considerato anche una data periodizzan23
Nicola Labanca
te in molti altri contesti: dalla storia politica alla storia sindacale, da quella
culturale a quella economica. Gli esempi potrebbero essere molti14.
In secondo luogo, e in genere, indipendentemente dal variare del loro
orientamento, si potrebbe affermare che gli studi sulla guerra di Libia, e più
in generale sulla presenza italiana in Libia o addirittura sul colonialismo
italiano, erano stati studi prevalentemente interessati al livello politicodiplomatico-militare. I ministri, gli ambasciatori e i massimi comandanti
erano stati oggetto della narrazione. Alle classi lavoratrici e in genere al
popolo non andava una grande attenzione. Ancor meno studiati erano i
sudditi coloniali libici. La scelta delle fonti documentarie era influenzata
da questa impostazione: gli studiosi lavoravano negli archivi diplomatici e
politici, qualche volta in quelli militari, con un largo ricorso alla stampa
politica e agli atti parlamentari. Da tale impostazione non si discostarono
molti fra gli stessi pochi studi dell’età della decolonizzazione. Rispetto ad
essi, si differenziavano di nuovo i libri di Del Boca, già nel titolo dedicati
all’opera degli italiani (e dell’Italia) in Libia, che molto utilizzavano diari e
memorie di singoli coloni.
In terzo luogo erano studi che inquadravano fermamente la campagna
di Libia nella storia nazionale, nella storia d’Italia. Certo una guerra abbisogna di almeno due attori, e quella italo-turca ne ebbe almeno tre (gli
italiani, i turchi, i libici) per non dire degli attori internazionali (le grandi
potenze europee, le loro opinioni pubbliche). Ma in genere gli studi di
queste prime tre fasi erano quasi completamente attirati dalle mosse degli
attori italiani: ora per elogiarli, al tempo della conquista e del dominio
coloniale, ora per discuterli e criticarli anche aspramente, al tempo della
decolonizzazione. Le ragioni e le mosse degli attori quanto meno libici e
turchi rimanevano sullo sfondo delle ricostruzioni degli storici, ora perché
nazionalisticamente disinteressati, al tempo della conquista e del dominio
coloniale, ora perché (almeno) linguisticamente impreparati, al tempo della decolonizzazione. Alla lunga erano meno distanti di quanto si pensava.
In quarto luogo, infine, la guerra di Libia era vista astratta dal suo contesto europeo. Cosa avevano pensato le altre potenze del Vecchio continente, e le loro opinioni pubbliche, scivolava in secondo piano. (Era per questo che Pierre Loti poteva aspettare.) E quali erano state le conseguenze,
dirette o indirette, dell’azione italiana interessava poco. Ad esempio l’interesse storico verso le guerre balcaniche era assai limitato. Anche le connessioni fra guerra di Libia, indebolimento dell’Impero ottomano, stimolo
24
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
all’azione austriaca e quindi scatenamento della prima guerra mondiale
ricevevano scarsa attenzione nelle pubblicazioni italiane. In alcuni studi
dell’età della decolonizzazione tali temi erano presenti, ma ancora appena
accennati: la decolonizzazione degli studi aveva altre priorità.
In quinto luogo, non ultimo per importanza, gli studi italiani apparivano scarsamente interessati alle vicende degli attori locali, libici. Che la
reazione all’invasione italiana fosse stata differenziata nella società libica,
segmentata lungo linee claniche di qabile, era noto sia all’indomani della
conquista, sia al momento del dominio coloniale, sia soprattutto nell’età
della decolonizzazione, con un gradiente di attenzione dalla prima all’ultima. Ma nel complesso, ora per disinteresse ora per impreparazione linguistica, lo studio dei vari attori libici rimaneva assai scarso. In verità nell’età
della decolonizzazione, cioè dell’affermarsi di poteri antagonisti a quelli
coloniali e italiani, la sensibilità nei confronti delle popolazioni conquistate era massima da parte degli studiosi italiani. Ma di fatto finirono per
funzionare da disincentivo a guardare alle differenze fra gruppi locali sia
l’ideologia antimperialista occidentale sia la stessa ideologia nazionalista
affermatasi negli Stati di nuova indipendenza.
A voler trarre le conseguenze da questi minimi comun denominatori fra
studi fra loro peraltro molto diversi e sviluppati in contesti storici assai lontani, dalla conquista alla dominio alla decolonizzazione, si ha che la guerra
di Libia ha finito per essere vista alla stregua di un episodio della storia
principalmente italiana, importante ma ristretto nelle sue conseguenze internazionali, di fatto condannato a piccole narrazioni, poco sollecito della
storia dei colonizzati. Succedeva così in tutti i Paesi ex-colonie. Tutto ciò
pero, nello specifico, rendeva la storia della guerra del 1911-12 imparagonabile con quella storia delle due guerre mondiali ma anche con quella
della guerra d’aggressione all’Etiopia: la guerra del 1911-12 rimaneva una
piccola guerra coloniale, di cui – a differenza delle campagne italiane nel
Corno d’Africa dei decenni precedenti, da Massaua ad Adua – si sottolineava il raggiunto più vasto consenso. Di questa visione sarebbe stata per
qualche modo paradigmatica la produzione di Salvatore Bono, lo studioso
italiano che più di tutti ha portato attenzione a questo tema, dedicandovi
decine e decine di minuti, eruditi ed interessanti contributi, ma che non
avrebbe mai scritto (sino ad oggi) una vera storia della guerra.
La presenza di caratteri o impostazioni comuni fra studi dell’età coloniale e della decolonizzazione non significa ovviamente ritenere che le
25
Nicola Labanca
interpretazioni non fossero divergenti. Non solo il giudizio morale ma la
stessa lettura di singoli episodi differiva, anche radicalmente. Ciò non toglie che alcuni caratteri comuni persistevano.
Al tempo postcoloniale: ricerche senza sintesi
Cosa dire quindi dell’ultimo venticinquennio, che dalla metà degli
anni ottanta conduce sino ad oggi, un periodo che potremmo definire
postcoloniale? Gli studi di questo periodo si sono completamente allontanati dagli studi precedenti? Quanta discontinuità, o all’opposto quanta
continuità, v’è stata negli studi italiani della fase ormai postcoloniale delle relazioni italo-libiche rispetto agli studi precedenti e ai loro caratteri
comuni (nonostante la grande divergenza di giudizio) fra età coloniale e
decolonizzazione?
Grazie alla decolonizzazione della memoria possibile grazie alle pubblicazioni degli anni precedenti, da Malgeri a Del Boca, è stato possibile avviare nell’ultimo venticinquennio una gran quantità di ricerche. Aspetti prima
appena accennati sono ora meglio conosciuti. Per quanto concerne la guerra del 1911-12 molte aree del quadro prima lasciate in oscurità sono adesso
meglio illuminate. Molto del materiale per una nuova grande narrazione,
non più del tempo della conquista o del dominio coloniale o del tempo
della decolonizzazione, è pronto. Ne vedremo fra poco i caratteri salienti.
Anticipiamo semmai che tutte queste conoscenze non si sono ancora rapprese in una singola opera d’assieme compiutamente postcoloniale.
Perché è mancata ancora un’opera di sintesi? Prima di passare ad esaminare
nel dettaglio quali aspetti della guerra di Libia sono stati studiati da gli
storici italiani nell’ultimo venticinquennio, può essere utile cercare di rispondere a questa domanda.
Una risposta ovvia, ma banale, potrebbe essere che gli studiosi della
fase più compiutamente postcoloniale considerino ancora valide le storie
generali della fase precedente, che estensivamente abbiamo chiamato della
decolonizzazione. Poiché però, come vedremo, molte delle ricerche più
recenti hanno spinto a riconsiderare le acquisizioni della fase precedente,
la spiegazione non soddisfa del tutto.
Due spiegazioni appaiono, a nostro avviso, decisive: la separazione e la
scarsezza delle energie dedicatesi a questi temi.
A parte forse proprio questi ultimissimi anni, gli studi sull’espansione
26
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
coloniale italiana, e in particolare quelli sulla guerra di Libia hanno interessato studiosi provenienti da discipline diverse ma fra loro separate che
hanno raramente trovato punti di raccordo. Storici dell’espansione coloniale e storici dell’Africa, occidentalisti e orientalisti, esperti di turcologia
e d’islamistica, storici militari e storici della società o della cultura, soprattutto storici italiani e libici e turchi molto episodicamente hanno lavorato
assieme. Lontano ormai il collante di una comune fede coloniale, sentita
non più vincolante una comune impostazione di critica alla politica coloniale e di simpatia per gli oppositori anticoloniali tipica del periodo della
decolonizzazione, gli storici dell’età postcoloniale si sono trovati dispersi,
esposti all’afro-pessimismo, quando non separati tra loro al tempo stesso
dalla specializzazione delle disciplina e da un dilagante relativismo postmodernista.
Ma ancor prima di questa balcanizzazione delle competenze, la ragione
forse decisiva sta nel fatto che, pur incontrando un crescente interesse,
questi temi sono stati coltivati da un numero assai ristretto di studiosi. Né
la Repubblica si è mai seriamente impegnata nei loro confronti, nemmeno
in questa fase ormai postcoloniale, in un sostegno o in una sollecitazione
seri. In non pochi casi gli studi storici sono stati addirittura percepiti come scomodi da quegli stessi istituti e ministeri, da quello dell’Università a
quello degli Esteri, che pure avrebbero potuto e dovuto sostenerli. È difficile pensare che ciò non sia in qualche relazione con il fatto che nell’ultimo
venticinquennio il numero degli studiosi sia rimasto basso, che aumenti
l’internazionalizzazione degli studi, o più esattamente la concorrenza di
altri studiosi provenienti da altri Paesi, che il numero dei pubblicisti e dei
giornalisti che si occupano di questi temi sia ancora significativo rispetto a
quello degli studiosi accademici: tutto ciò ha fatto in modo che in questi
ultimi venticinque anni sulla guerra di Libia abbiamo avuto molti articoli
e pochi libri ma in ogni caso non un nuova storia generale complessiva.
Per tutto questo la quarta e più recente grande narrazione, quella postcoloniale, per quanto riguarda la Libia e la sua conquista italiana, rimane
insomma ancora in potenza.
Qualunque sia la ragione dell’assenza nell’ultimo venticinquennio di
una (o più) grandi opere sulla storia del colonialismo italiano in Libia
e in particolare della guerra che l’assicurò all’Italia, è ora il momento di
esaminare più nel dettaglio gli studi di quest’età postcoloniale. È possibile
delineare sei aree di ricerca.
27
Nicola Labanca
La storia diplomatica
Una prima area di ricerca ben coltivata in quest’ultimo quarto di secolo
è quella degli studi sulla politica estera italiana e sulle reazioni internazionali all’azione di Roma15.
Qualche pagina è stata scritta, o meglio riscritta, sull’interazione fra
guida politica e orientamento diplomatico, cioè fra Giolitti e San Giuliano16. Ma l’attenzione è andata sopratutto all’azione di altri attori della
politica internazionale, e della loro interazione con Roma. Si è esaminato
quindi il punto di vista del Belgio, della Russia e della Germania ecc.17.
Si tratta, com’è evidente, di osservatori interessanti; ma che non furono
propriamente centrali nello scontro diplomatico del tempo, e che non
furono completamente in opposizione all’azione italiana. Manca ancora
uno studio della politica francese e inglese, ambedue diversamente irritate dall’azione italiana verso Tripoli, e soprattutto manca uno studio (in
lingua italiana ma su documenti originali) sull’azione della Turchia. Sulla
posizione di Costantinopoli abbiamo ancora solo la visione che ne ebbero
gli addetti militari italiani18: lo studio rimane meritorio, visto soprattutto
che risale ormai ad alcuni decenni fa, ma non può sostituire l’esame delle
fonti originali turche.
Sulle conseguenze dell’azione italiana nei Balcani e alle proteste dell’opinione pubblica internazionale – sia a partire di organi d’informazione
generale sia nei suoi versanti più dichiaratamente pacifisti e antimilitaristi
– sono disponibili in Italia solo accenni o primissimi contributi.
Nel complesso, quindi, non stupisce che la lettura italiana corrente
dell’azione diplomatica di Roma nel 1911-12 non sia stata sostanzialmente modificata da questi studi settoriali su aspetti non centrali del conflitto.
La storia politica
Un’altra inevitabile area di ricerca è stata quella sulla politica italiana.
Nell’ultimo quarto di secolo non sono apparsi studi nuovi sulle maggiori
figure dei protagonisti della politica italiana del 1911-12. Ma un’attenzione nuova è stata portata ad alcuni gruppi politici.
Dei nazionalisti, in primo luogo, è stata esaminata la retorica e la propaganda, anche in alcune realtà apparentemente periferiche – la Sicilia –
ma centrali nella costruzione di un consenso alla guerra19.
28
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
Alcune ricerche sono state condotte sull’azione di gruppi politici d’opposizione. I repubblicani e i socialisti sono stati studiati nei loro cedimenti
alla campagna propagandistica dei liberali e dei nazionalisti, più che nella
loro protesta anticoloniale20.
Per quanto riguarda i cattolici, l’interesse degli storici si è allontanato
da quello di alcuni decenni fa. Allora si era visto nella penetrazione economica del Banco di Roma in Libia una delle ragioni del loro avvicinamento
ai liberali. Negli ultimi decenni, al tempo della guerra di civiltà, non stupisce che si sia invece sottolineato il punto della partecipazione dei cattolici
alla guerra di Giolitti in termini di ‘crociata’ antimusulmana21.
Tutti questi studi mirano a documentare quanto consenso suscitò in
Italia la guerra. (Qualche pagina è stata scritta sulle proteste degli antimilitaristi22, ma molto si deve scavare ancora attorno al dissenso.) Il consenso
del 1911-12 non fu un sentimento paragonabile a quanto avvenne in occasione della prima guerra mondiale o della guerra all’Etiopia: la minaccia
era diversa rispetto al 1914-15, e il sistema politico liberale non era totalitario come quello fascista del 1935-36. È certo però che non ci furono
manifestazioni popolari paragonabili al ‘Viva Menelik’ del 1895-96, anche
perché la classe dirigente era meno divisa.
Grazie ai nuovi studi comprendiamo insomma meglio la forza con cui
la classe dirigente liberale italiana affrontò il conflitto, almeno nei primi
mesi. Si è trattato di norma di studi di storia politica in senso stretto23:
solo in pochi casi si è andati a cercare se e, se sì, quali interessi economici stavano dietro la politica bellicista-colonialista del governo (l’elemento
dell’interesse economico è risultato evidente nei sostenitori della politica
navalista24). Pur entro tali limiti, l’immagine che emerge dagli studi è di
un’Italia liberale ampiamente disposta e orientata ad accogliere la carta
della guerra.
La storia religiosa
Fra gli elementi di forza di Giolitti, e di consenso alla sua politica di
prendere la Libia con la guerra, va annoverato l’atteggiamento della religione e in particolare della Chiesa cattolica. Il suo studio ha rappresentato
una terza area di ricerca.
Era già noto che l’appoggio cattolico ai liberali di Giolitti in occasione
della guerra configurò una differenza importante rispetto alle campagne
29
Nicola Labanca
coloniali degli anni novanta, quando Crispi aveva affrontato il conflitto
in Eritrea nell’indifferenza o addirittura nell’ostilità della Chiesa cattolica
(alla vigilia di Adua la «Civiltà cattolica», organo dei gesuiti, ebbe posizioni non meno dure di quelle dei socialisti). Nell’ultimo venticinquennio
sono stati condotti però vari studi che documentano meglio e rafforzano
quest’interpretazione.
Sono stati esaminati non solo l’atteggiamento di alcuni vescovi, di cui
era già conosciuto l’atteggiamento conciliante verso l’Italia liberale e favorevole alla guerra, ma anche personaggi e ambienti di minor rilievo gerarchico25, o organi della stampa cattolica periferica26.
È interessante osservare che, parallelamente, sono state studiate anche
comunità religiose quantitativamente meno rilevanti in Italia, come quella
evangelica o quella israelitica-sionista27. Anche in questi casi, è stato riscontrato un ampio favore verso la guerra.
Qual è l’interesse metodologico di questi studi rispetto a quelli già ricordati sulla classe politica liberale? Esso consiste nell’essere una sorta di
anteprima, di preparazione, ad una storia della società italiana durante la
guerra. Passando dalla storia della politica vaticana alla storia della religiosità diffusa, studiando non più solo l’atteggiamento del Papa, della Curia
romana e dei vescovi ma anche le idee circolanti nei giornali cattolici di
provincia o l’operato dei preti di campagna o di città e le loro omelie ci
si avvicina al sentimento delle classi popolari italiane del tempo. Anche
non facendo l’errore, in verità piuttosto frequente in questi studi, di confondere le idee del prete (o del pastore, o del rabbino) con quelle del suo
pubblico contadino o cittadino, è evidente che studi di questo tipo – come
gli altri, purtroppo drasticamente diminuiti in questi anni, sulle organizzazioni locali del movimento operaio e socialista – permettono di avvicinarsi
maggiormente ai sentimenti degli italiani del tempo.
La storia culturale
Una quarta area di ricerca, forse la più affollata, è stata quella dello
studio delle reazioni dell’opinione pubblica, soprattutto attraverso l’esame
dei suoi giornali e in generale della stampa28. Come nel caso dello studio
sui movimenti politici d’opposizione o sull’atteggiamento verso la guerra
da parte delle religioni, è evidente che anche qui lo scopo è allargare l’orizzonte dalle prime ricostruzioni di storia politica inevitabilmente centrate
30
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
sui governi, sui ministri e sul parlamento (e sui comandanti militari) verso
una più ampia storia sociale.
In quest’ultimo venticinquennio è stato quindi esaminato come alcuni
giornali avevano raccontato ai propri lettori la guerra di Libia, come avevano descritto i soldati italiani e come avevano rappresentato i loro nemici,
i turchi e i libici. I giornali dell’Italia delle ‘cento città’ sono stati visti, più
che come attori e commentatori della lotta politica, come forgiatori d’immagini29. Rispetto a studi precedenti, c’è stata meno storia politica e più
storia culturale.
L’indirizzo di ricerca è stato rafforzato da una nuova attenzione all’operato dei grandi intellettuali. Sono stati studiati poesie, romanzi, articoli
di giornale non solo di Giovanni Pascoli, a partire dal suo famoso discorso
sulla ‘Grande proletaria’, ma anche di altre figure di intellettuali, di rilievo
nazionale o provinciale. Il loro coinvolgimento e il loro consenso nella
guerra ne sono usciti documentati30.
A moderare un poco quello che altrimenti sembrerebbe un panorama classico di studi culturali, tutti attenti a decostruire testi, immagini e
miti, va osservato che alcuni studiosi meritoriamente si sono interessati
alle strutture profonde, istituzionali, del dibattito culturale e delle idee.
Non poco importante, ad esempio, ci è parso uno studio sulla censura che
l’Italia liberale attivò in occasione della guerra di Libia sui giornali e sulla
posta privata31. Il ricorso alla censura era già stato previsto nel Regno Unito
al tempo della guerra sudafricana (o angloboera), e sarebbe poi dilagato
in tutta Europa durante la prima guerra mondiale. E non è un caso che
lo studio di cui parliamo vede la censura del 1911-12 come una prova di
quella del 1914-18.
In realtà forse si potrebbe uscire da questa prospettiva teleologica, e
vedere la censura del 1911-12, sia pur parziale, come un fatto storico di
prima importanza in sé. La sua adozione fa infatti intuire che non tutto
il consenso di cui sin qui si è parlato – classe politica, ambienti religiosi,
stampa e intellettuali – era così libero, spontaneo e totale quanto allora si
diceva. Comunque sia rimane che la dimensione di un Paese non diviso ma
schierato per la guerra emerge anche dallo studio dell’opinione pubblica.
La storia militare
Ma come conoscere davvero l’opinione degli italiani del 1911-12? A
31
Nicola Labanca
quel tempo non esistevano ovviamente sondaggi di opinione, e anche i
risultati delle elezioni politiche non sono un buon metro, poiché sino alla
riforma elettorale del 1913 in Italia avevano il diritto di voto l’8 per cento
della popolazione (e solo la metà lo esercitava: gli aventi diritto sarebbero
passati al 23 per cento nel 1913 e al 27 nel 1919). Un’approssimazione,
per la prima volta sondata dagli studiosi in quest’ultimo venticinquennio,
è stata offerta piuttosto imprevedibilmente da ricerche di storia militare, la
quinta delle aree di ricerca32.
Trattandosi di una guerra, che al 1911-12 fossero interessati gli storici
militari appariva abbastanza scontato. Non sorprende allora che negli ultimi anni siano intervenuti sul tema (con volumi importanti) gli Uffici storici dell’esercito e della marina, i massimi rappresentanti della storia militare
ufficiale33. Si è trattato di libri meritori sulle scelte dei massimi comandanti
italiani della guerra, documentati sugli archivi degli stati maggiori.
Forse anche più interessante è stata una serie di pubblicazioni minori
dedicate a singole figure di ufficiali inferiori o anche solo soldati, basate
sulle lettere, sui diari o sulle memorie da questi scritti durante o dopo la
guerra. C’erano stati già importanti indicazioni della fertilità di ricerche in
tal senso34, ma è stato soprattutto negli ultimi anni che queste fonti sono
state di nuovo sollecitate e ricercate in particolare per gli anni 1911-1235 (e
per quelli immediatamente successivi36). D’altro canto l’impegno militare
dei governi di Giolitti era stato massiccio per l’epoca: tranne la guerra angloboera, un conflitto peraltro assai particolare, e tranne alcune fasi della
conquista francese dell’Algeria, solo l’Italia liberale aveva portato in Africa
un esercito di più di centomila soldati ‘bianchi’ per così tanto tempo. Tutto
ciò spiega perché anche nel caso degli studi su questa guerra si sia assistito
ad un passaggio di attenzione degli studiosi dai massimi comandanti ai
soldati e ai combattenti, con uno spostamento degli interessi dall’alto al
basso della gerarchia. L’interesse di queste pubblicazioni dedicate ad ufficiali inferiori o a soldati, e alle fonti – epistolari o memorialistiche – da
essi lasciate, sta nel permettere di cominciare a verificare se e quanto della propaganda diffusa a livello centrale da governi, giornali e intellettuali
davvero penetrava nelle classi lavoratrici, e fra i soldati di un esercito come
quello italiano basato sulla coscrizione obbligatoria. Così, nella ‘scrittura
popolare’ di questi attori di più basso livello della storia, troviamo indubbiamente l’eco della propaganda dei nazionalisti, della crociata cattolica
contro i mussulmani, e un certo razzismo. Leggiamo però anche, talvolta,
32
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
la compassione umana verso il popolo arabo e la critica di una guerra che
la moderna Italia liberale non riesce a vincere nonostante tutta la sua tecnologia contro un piccolo numero di ufficiali turchi, contro ristrette bande
di ‘ribelli’ armati e soprattutto contro una popolazione chiusa e diffidente,
quando non ostile come a Sciara Sciat.
Se la cifra della ricerca storica italiana di quest’ultimo quarto di secolo
sulla guerra di Libia rimane quindi la ricerca di una visione più ampia di
quella delle fasi precedenti, sia coloniale sia della decolonizzazione, con
una forte propensione ad una storia sociale e culturale e non solo politicoparlamentare-diplomatica della guerra, proprio la storia militare – una
nuova storia militare dal basso – ha finito per dare un aiuto importante e
insostituibile37.
La storia (intralciata) della repressione coloniale
Pur cercando una via per la storia sociale ampliando i propri orizzonti
ed operando in un’età postcoloniale, gli studi storici italiani sulla guerra di
Libia dell’ultimo venticinquennio hanno mantenuto purtroppo una caratteristica degli studi dell’età coloniale: il ridotto interesse concreto verso la
storia delle popolazioni libiche. In genere, rispetto ai decenni della conquista e del dominio, questi studi recenti non hanno più l’atteggiamento
sprezzante e razzista di una volta: anzi, guardano con comprensione alle
popolazioni che sentono ‘vittime’ dell’espansione e dell’occupazione italiana, liberale e fascista. Ma questo sentimento di vicinanza raramente si è
trasformato in uno studio diretto.
Le ragioni sono molte, specifiche e generali. Nello specifico, lo scarso
numero degli studiosi italiani dedicatisi alla storia dell’espansione coloniale e soprattutto la barriera linguistica sono le ragioni più importanti. In
generale, pochi sono gli storici italiani che si applicano ad una storia internazionale che richiede, oltre alle competenze linguistiche, risorse di cui
sempre meno pare disporre il sistema della ricerca in Italia. In particolare
soprattutto ha pesato lo scarso numero di studiosi di storia dell’Africa che
si sono applicati alla storia della Libia. Vi è anche una scarsa abitudine al
confronto internazionale fra studiosi italiani e libici: le eccezioni sono state
davvero poche.
Ma tutto ciò non va imputato solo agli accademici: forse una responsabilità ancora maggiore la portano lo Stato, il ministero degli Esteri, gli
33
Nicola Labanca
istituti deputati a organizzare gli studi orientalistici e africanistici in Italia
che non hanno mostrato alcun serio interesse concreto nell’incoraggiare e
sostenere con risorse proprie gruppi di studiosi che conducessero ricerche
nel senso sopra indicato. Dalla fine della Guerra fredda e in conseguenza
della percezione di essere di fronte ad uno scontro di civiltà (in particolare
dopo l’11 settembre 2001 e l’avvio statunitense di una ‘guerra al terrore’), tutti i Paesi occidentali più attenti hanno enormemente sviluppato
gli studi orientalistici e africanistici, sostenendo concretamente lo studio
delle lingue e la promozione di progetti di ricerca su questi temi, compresi
quelli a carattere storico. Da questa tendenza, che pure ha aspetti con ogni
evidenza interessati e ideologici, la Repubblica italiana sembra essersi tenuta lontano, in un quadro di generale decadenza degli studi accademici.
In questa prospettiva, si comprende bene perché molti studi sulla Libia
coloniale – e in particolare quelli condotti su fonti libiche riguardanti la
società libica – sono stati condotti da ricercatori di altre nazionalità o più
spesso sono stati trascurati. (Una bibliografia sulla Libia coloniale e quindi
anche sul 1911-12 che abbia tenuto conto delle pubblicazioni non solo
occidentali ma anche libiche è comunque stata pubblicata, senza alcun
sostegno ministeriale38.)
Un episodio, apparentemente in controtendenza, merita di essere ricordato. Pensiamo allo studio dei deportati libici del 1911-15, menzionato
già nel Comunicato congiunto italolibico del 1998 e poi re-inserito nel
Trattato di amicizia italo-libico del 30 agosto 2008. È però, come si vedrà,
un’eccezione solo parziale, che indica bene i limiti degli studi italiani sulla
Libia, e non solo sulla guerra del 1911-12.
Com’è noto, le truppe italiane sbarcate a Tripoli il 5 ottobre 1911, già
nelle giornate del 23-24 subivano a Sciara Sciatt un pesante scacco. La
reazione fu brutale, decisa anche a Roma da Giolitti, e portò, oltre ad un
numero imprecisato ma assai alto di fucilazioni sommarie, alla deportazione di alcune migliaia di tripolini verso le isole carcerarie e di confino
italiane. La deportazione coinvolse più di quattromila persone (si noti che
Tripoli aveva allora circa trentamila abitanti) di cui forse un quarto non
tornò. La vicenda non ebbe conseguenze tragiche paragonabili all’operato
dei campi di concentramento della Cirenaica del 1931-33, o alla repressione della resistenza anticoloniale fra 1921 e 1931. Ma colpisce perché
avvenne praticamente allo stesso momento della conquista, svelandone la
funzione colonizzatrice e assai poco civilizzatrice.
34
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
Tutto quanto sin qui detto era necessario per spiegare le basi della singolarità degli studi recenti sulla deportazione libica del 1911-15. Infatti,
essendo lo stato degli studi su questa vicenda stato menzionato nei documenti diplomatici del 1998 e del 2008, per evidente richiesta e interesse
della parte libica, non è stato possibile scansarlo, com’era avvenuto in età
coloniale e anche della decolonizzazione, se si eccettuano alcune pagine
del volume di Del Boca e qualche breve articolo successivo da parte di
altri studiosi39. Dopo il 1998, così, il ministero degli Esteri italiani ha lautamente cofinanziato la ricerca e la letteratura sul tema si è moltiplicata40.
Avrebbe potuto essere, sarebbe stato legittimo pensare, la migliore delle
occasioni per (far) studiare la società coloniale e le popolazioni libiche al
momento della guerra di Libia.
In realtà, appena avviato, lo studio è stato di fatto intralciato. Il coordinamento della parte italiana non è stato affidato ad un’università o ad un
comitato di studiosi universitari specialisti del tema bensì ad un Istituto,
controllato dal ministero, che si occupa in generale di studi orientalistici
e africanistici, l’Isiao (la parte libica aveva invece già designato un istituto
specializzato, il Libyan studies center). Non sempre i fondi italiani sono
andati a sostenere specificamente la ricerca sui deportati, tramutandosi in
gran parte in investimenti a fondo perduto a favore della parte libica e del
Lsc. Una parte, pur minoritaria, dei finanziamenti ha comunque portato
allo svolgimento di ricerche – assai controllate da parte italiana – e all’organizzazione di seminari congiunti italo-libici, ma ancora una volta assai
controllati e senza procedure aperte di ‘call for paper’. In una parola la
diplomazia italiana ha all’inizio subito l’interesse della parte libica, cercando poi in ogni modo di contenerlo. Ad esempio, sfruttando il legittimo interesse della parte libica di conoscere i luoghi della deportazione,
la diplomazia italiana supportata da alcuni storici è stata pervicacemente
contraria ad organizzare convegni importanti nella capitale, che avrebbero
potuto attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e pregiudicare
in senso sfavorevole a Roma la riapertura del capitolo italo-libico del contenzioso postcoloniale. I seminari italolibici si sono quindi svolti nelle isole
di confino, con gli studiosi confinati alla periferia non diversamente dai
deportati di un tempo, mentre gli atti risultanti da quei convegni sono stati
autoprodotti presso una tipografia e resi difficilmente circolanti, evitando
di affidarli ad una qualsiasi importante casa editrice di rilevanza nazionale.
Ciò detto, l’occasione offerta dallo studio della deportazione libica del
35
Nicola Labanca
1911-15 non può dirsi esser stata persa del tutto. Alcuni volumi di atti,
per quanto assai ineguali, e soprattutto un volume di documentazione rimangono. La vicenda quanto meno segnala che, quando la storia della
guerra di Libia esce dal solo perimetro italiano, si fa assai interessante e
importante.
Qualche studioso, isolatamente, ha poi studiato altri capitoli di repressione e sfruttamento41 (o, al converso, qualche istituzione coloniale più
civilizzatrice42) o la stessa resistenza anticoloniale dei libici43.
Ma certo molto di più sarebbe stato possibile fare.
150° e 100°
Se non stimolati o aiutati dall’esterno, non sembra che gli studi italiani
abbiano avuto molta propensione ad esaminare la parte libica della guerra
italo-turca. Il 2011 ha contribuito, ad oggi, solo parziamente ad emendare
la situazione sin qui descritta. La memoria italiana della guerra non è infatti imbarazzata solo a livello di storia coloniale44.
Per l’Italia il 2011 oltre che 100° anniversario della guerra è soprattutto
il 150° dell’unificazione del Paese. Quest’ultimo e più importante anniversario ha rappresentato un campo di battaglia dove si è combattuto piuttosto aspramente, in Italia. In esso si sono affrontati, assieme ai non pochi
indifferenti, sostanzialmente quattro tendenze. 1. i pochi risorgimentalisti
integrali, quelli per cui il valore dell’unificazione e della soluzione liberale
del Risorgimento italiano non è mai stato messo in discussione; 2. i (più
numerosi e più recenti) oppositori dell’Unità nazionale, che vogliono sostituirla con un sistema federale molto allentato, se non con la secessione.
Essi negli ultimi due decenni sono stati a lungo (e sono oggi) al governo
del Paese ed esprimono una critica agli ideali e ai processi di unificazione
nazionale che si incontra con altri movimenti e circoli nostalgici degli stati
regionali pre-unitari, dai residui filo-borbonici agli ultimi monarchici; 3.
quelli che potremmo chiamare i neo-patriottici anti-secessionisti, fortemente contrari con varie ragioni ai denigratori dell’Unità nazionale. A tal
fine essi talora – per una sia pur nobile e condivisibile causa – si astengono
dal formulare critiche all’assetto storico prodotto e all’esito concreto assunto dal processo di unificazione nazionale; e infine 4. i critici più aspri,
talora preconcetti, di tutta la storia nazionale, come quelli che non vedono differenze sostanziali nei pur diversi nazionalismi italiani, da Mazzini
36
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
a Mussolini ai più recenti presidenti della Repubblica. Lo scontro fra i
quattro diversi orientamenti è stato abbastanza aspro, se sino ad un mese
prima del 17 marzo 2011 (la data prescelta per le celebrazioni) il governo
ancora non aveva deciso se esso sarebbe stato un giorno di astensione dal
lavoro o meno.
Per tutti gli orientamenti però la memoria della guerra del 1911-12 è
stato motivo di imbarazzo: per i risorgimentalisti liberali, appare difficile
conciliare gli ideali di libertà di Mazzini e di Garibaldi con quelli della
guerra d’aggressione alla Turchia e di dominio razziale sulla Libia; per gli
oppositori dell’Unità nazionale è imbarazzante riconoscere che solo uno
Stato nazionale è (stato) in grado di scelte impegnative in politica estera,
come una guerra, e di contare politicamente a livello internazionale; per i
neopatriottici è forse imbarazzante dover ammettere che molti dei valori
passati dello Stato nazionale al tempo dell’età dell’imperialismo non possono essere oggi accettati (molti, non tutti: perché nell’anticolonialismo di
un tempo sta una delle radici dell’internazionalismo e del cosmopolitismo
di oggi); per i critici più estremi, perché non ne hanno colto la diversità
da altri conflitti, finendo per smarrirne il senso storico periodizzante. Per
tutte queste complesse ragioni, tutte italiane e molto politiche, nelle celebrazioni del 150° lo spazio dato alla memoria della guerra di Libia (in sé
difficile da ‘celebrare’ per il suo carico di morti) è sinora stato assai scarso.
Le recenti operazioni militari, che avrebbero dovuto essere di salvaguardia
delle popolazioni civili e che invece rischiano di ridursi ad un ennesimo
tentativo di cambiamento di regime politico attraverso l’iniziativa militare,
difficilmente possono aiutare una memoria disinteressata.
L’approssimarsi del centenario ha stimolato alcune raccolte di studi,
che qui solo menzioniamo perché in corso di stampa. La Fondazione di
studi Ugo La Malfa ha meritoriamente proposto un volume collettaneo sul
tema che, in piccolo, ripete le sei aree di interesse sin qui ricordate. Questa
rivista «I sentieri della ricerca», diretta da Angelo Del Boca, fa lo stesso. Un
convegno di storia militare è previsto per la fine del 2011. In nessun caso
però è prevista la collaborazione di studiosi libici e di studi sulla società
libica (un’eccezione parziale nella rivista di Del Boca).
Il disinteresse per gli aspetti e per le conseguenze internazionali della
guerra di Libia, insomma, continua.
Come giudicare gli studi recenti italiani? Quanto nuovi essi sono ri37
Nicola Labanca
spetto a quelli precedenti? Configurano una nuova interpretazione della
guerra di Libia?
In assoluto si tratta di una storia che non molto frequentata, né configuratosi come un luogo di particolare innovazione: più semplicemente,
esso ha riflesso l’evoluzione degli studi coloniali italiani in genere. Quanto
abbiamo potuto costatare nell’evoluzione negli ultimi anni degli studi sul
1911-12 ripete quindi i caratteri generali della storiografia italiana del periodo: la prevalenza della storia politica e diplomatica, una certa crescita
degli studi di storia culturale, il rinnovamento della storia militare, l’assai modesta apertura allo studio delle altre parti coinvolte (libica, e ancor
più turca e balcanica: eppure, ad esempio, era già note alla storiografia
la rilevanza degli appetiti balcanici dell’Italia in tutta la prima metà del
Novecento45). Da questa prospettiva si potrebbe dedurre che – pur nell’allargamento quantitativo delle conoscenze – la continuità potrebbe aver
prevalso sul cambiamento. Il fatto che manchi una nuova storia generale
potrebbe significare che le precedenti, quelle del tempo della decolonizzazione, stanno ancora in piedi e che non si avverte la necessità di sostituirle
ma al massimo di aggiornarle e completarle. Ed è indubbio che questa
conclusione non sia infondata.
Novità
D’altro canto essa non soddisfa del tutto. Gli ultimi venticinque anni
di studi hanno fatto emergere, talora esplicitamente ma più spesso implicitamente, alcuni elementi che tendono a modificare l’interpretazione
precedente. È giunto adesso il momento di esplicitarli ai loro diversi livelli.
A lungo si è guardato al consenso di cui indubbiamente la classe dirigente liberale godé al momento della guerra di Libia, almeno in alcuni
strati della società italiana, come ad una mobilitazione dall’alto, guidata
dal governo e ispirata dai nazionalisti. Gli studi più recenti sembrano invece comporre un quadro in cui molti dei soggetti in campo – giornali
provinciali, movimenti politici anche d’opposizione, gerarchie ecclesiastiche di base ecc. – sono già convinti o sono pronti ad essere facilmente
convinti dell’opportunità della guerra. In una parola gli studi recenti fanno
intravedere non una società riluttante a seguire il governo e l’avanguardia
marciante nazionalista, ma abbastanza diffusamente già colonialista. Alla
mobilitazione dall’alto si sarebbe affiancata quindi una automobilitazione
38
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
dal basso.
Inoltre, per molti anni, nella spiegazione storica dell’invasione della
Libia ha giocato un ruolo importante, sia pur senza essere prevalente, la
considerazione economica. Gli studi sulla penetrazione economica del
Banco di Roma ne erano il miglior esempio46. Gli studi più recenti invece
sembrano indirizzarsi sul livello più culturale della spiegazione. Più che l’economia, avrebbe potuto la cultura: l’esotismo diffuso, l’attitudine razzista
a ritenere la presenza militare turca un avversario da battere, il pregiudizio
di non considerare la popolazione libica un possibile attore politico autonomo.
Quanto questo attenga alla prospettiva degli storici più che alla realtà
degli eventi, alla storiografia più che alla storia, sarebbe oggetto di discussione: è però un dato di fatto che il termine imperialismo sembra scomparso dagli studi per far campo a quelli di orientalismo, razzismo o di
pregiudizio razziale.
Intanto, a prendere sul serio e a coordinare quanto emerge dai nuovi
studi, verrebbe quindi del tutto reimpostata la questione fondamentale sul
perché e come l’Italia andò in Libia.
Continuità
I segnali di cambiamento non dovrebbero quindi essere sottovalutati.
Ma la discontinuità non prevale dovunque. Il rinnovamento degli studi
italiani dell’età postcoloniale, rispetto a quelli della conquista, del dominio
e della decolonizzazione, è tutt’altro che totale. La continuità è ancora
forte.
Manca quasi del tutto una seria presa in considerazione della parte turca e delle conseguenze balcaniche della guerra italo-turca47. La prospettiva
è quindi ancora assai nazionale e provinciale.
Manca una seria considerazione delle reazioni della popolazione libica48. Uno studio serio che distingua fra le varie posizioni della società libica
è assente49. Lo scacco di Sciara Sciatt rimane ancora non ben spiegato negli
studi italiani, che peraltro si segnalano ancora per la non presa in conto
delle pubblicazioni libiche che – sia pur in un’ottica nazionalistica – con
questi temi si sono confrontati50. La stessa vicenda dei deportati del 191115 non è stata al fondo integrata nella narrazione italiana, rimanendo
un’eccezione. Manca una seria riflessione sulle differenze fra città e campa39
Nicola Labanca
gna, fra Tripolitania e Cirenaica. La prospettiva, da questo punto, sembra
rimanere davvero ancora quella coloniale51. Né gli studi italiani hanno fornito un contributo rilevante al dibattito scientifico forse più importante ai
fini della comprensione della storia libica, da quella pre-coloniale a quella
post-coloniale: il dibattito cioè sulla nascita (o meno) di un nazionalismo
moderno libico durante il periodo coloniale e poi nell’immediata decolonizzazione52.
Mentre sul fronte interno, italiano, della storia della guerra italo-turca
gli studi sono progrediti anche affacciando nuove possibili interpretazioni,
sul fronte esterno – turco, balcanico, libico – la continuità sembra prevalere.
Politica e storia
Abbiamo già elencato alcune delle ragioni di queste continuità: barriere
linguistiche, permanenze coloniali o quanto meno eurocentriche, nazionalismo (il ritardo nella traduzione di Loti…).
Potremmo aggiungere ora la resistenza a rinunciare del tutto alle rassicuranti difese del vecchio mito degli ‘italiani brava gente’53. La riluttanza
diffusa a ricordare (o, per gli studiosi, a studiare) gli aspetti più urticanti
della vicenda coloniale ha una lunga storia, per certi periodi è sembrata
rappresentare una sorta di carattere nazionale e in alcuni anni ha funzionato persino come ideologia ufficiale della Repubblica nei confronti del
passato coloniale. Per quanto tardivamente, proprio a partire dagli anni
ottanta-novanta v’erano stati però segnali per cui una parte importante del
Paese voleva sbarazzarsi di quest’ideologia e fare seriamente i conti con il
passato coloniale. Negli stessi anni, lo stesso era chiesto da alcuni governi di ex-colonie, nel quadro del movimento generale per una richiesta di
compensazioni che i Paesi di nuova indipendenza andavano esigendo dai
Paesi ex-colonizzatori. Da parte della Libia di Gheddafi, ad esempio, è
venuto facendosi un uso strumentale del passato, in cui ampie concessioni
economiche e politiche all’Italia dell’oggi si alternavano, quando faceva
comodo a Tripoli, a vibranti richieste di ammissione di responsabilità per
il passato, e di relative compensazioni.
A questo punto diventano più chiare le responsabilità extra-accademiche, e più precisamente politiche-istituzionali, nel non voler ricordare/studiare da parte italiana alcuni temi. Questo non era più tanto una questione
antropologica legata ad un presunto carattere nazionale degli italiani ma
40
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
una posizione politico-diplomatica, con concrete ricadute economiche,
nel contenzioso interstatuale Italia-Libia. Così inquadrata, è ora possibile
capire meglio ad esempio tutta la questione se ricordare in piccolo o in
grande la vicenda dei deportati del 1911-15: la resistenza ad ammettere
la rilevanza della questione, la decisione di decentrare i luoghi d’incontro
fra gli studiosi italiani e libici e la scelta di non pubblicare con grandi casi
editrici i risultati dei loro studi, mettendoli facilmente a disposizione dei
lettori ed aprendo un grande dibattito nell’opinione pubblica, sono state
altrettante scelte politico-diplomatiche, non solo culturali né tanto meno
antropologiche. Nel senso della continuità con il passato coloniale e della
riluttanza ad ammettere le responsabilità italiane non erano quindi solo il
carattere nazionale o gli studiosi ma soprattutto il ministero degli Esteri.
Merita di essere osservato che, di questo gioco politico-diplomatico, le
responsabilità non stanno solo dalla parte degli ex-colonizzatori, ma anche
da quella degli ex-colonizzati. L’assenza di uno studio critico della società
libica finisce infatti per agevolare non solo la ex-madrepatria, i cui funzionari degli Esteri possono sentirsi a maggior riparo dalle richieste di compensazioni, ma anche la ex-colonia. Un regime fortemente nazionalistico,
espressione di una società segmentata in qabile, è infatti meno insidiato
nella propria legittimità se nessuno questiona come e perché questa o quella qabila ha ottenuto storicamente una posizione di rilievo: protetto dietro
lo scudo ideologico delle responsabilità storiche dell’ex-colonizzatore esso non è costretto a riflettere pubblicamente né sui meccanismi storici di
collaborazione di una parte dei colonizzatori con i loro colonizzatori, né
sulle modalità storiche della lotta senza quartiere – tutta dentro la società colonizzata – per la conquista del potere anticoloniale e postcoloniale.
Tutto ciò è ben esemplificato dalla pressante richiesta libica di studiare la
deportazione del 1911-15, ma non – ad esempio – i campi di concentramento della Cirenaica del 1930-33 od anche la vicenda degli ascari libici,
che coinvolsero porzioni ben più ampie della società libica del tempo. In
una parola, la ricerca storica può essere scomoda per tutti quando è critica
e libera.
Che forti siano state le pressioni perché la ricerca storica si facesse strumento della politica e si riducesse, più o meno volontariamente, a strumento di un giuoco politico-internazionale, è evidente anche dalla lettura
dei due più importanti documenti diplomatici che hanno regolato le relazioni diplomatiche fra i due Paesi negli ultimi decenni, il Comunicato
41
Nicola Labanca
congiunto del 1998 e il Trattato di amicizia del 200854. Mentre il primo
conteneva ampie ammissioni circa le responsabilità storiche dell’Italia e
apriva la strada ad una sincera politica di compensazioni, il secondo di fatto intendeva chiudere frettolosamente questo capitolo, non parlava di facilitare la ricerca storica (se non, ancora una volta, sui deportati del 1911-15)
e, in un colpo solo, poteva lasciar pensare di mettere in sicurezza sia l’Italia
di Silvio Berlusconi, che si trovava a non essere messa in questione circa le
sue responsabilità storiche, sia la Libia di Muammar Gheddafi, al riparo da
liberi studi sul ruolo delle qabile nella resistenza anticoloniale. Questa politica di uso della storia diventava evidente nelle diverse ma reciprocamente
tollerate scelte di Berlusconi di non formulare ampie, sentite e circostanziate richieste di scusa al leader libico e al suo popolo, e dall’altra parte di
Gheddafi di visitare l’Italia con appuntata sul petto (come una medaglia) la
fotografia del leader militare della resistenza anticoloniale impiccato dagli
italiani nel 1931. Due scelte, se si pensa bene, ambedue estreme che dal
punto di vista della logica formale si direbbero opposte e incompatibili (o
non ci sono state colpe coloniali o ci sono state, o sono stati inferti oltraggi
ai diritti umani dei colonizzati o non ci sono stati) ma che invece marciavano assieme sul tappeto rosso del riconoscimento reciproco nello sfilamento
dei picchetti militari e che scorrevano liquide come il petrolio negli oleodotti della protezione dei reciproci interessi. Quello che era stato presentato come il più impegnativo, se non il primo, dei trattati internazionali
di ammissione da parte europea di colpe relative al passato coloniale, in
realtà funzionava – al livello culturale (che pure era il minore dei suoi scopi) – da reciproca copertura dei due leader davanti alle rispettive opinioni
pubbliche. Era, insomma, dal punto di vista storico-culturale, un trattato
insincero. La ricerca storica non poteva non risentire dell’atmosfera di cui
esso era espressione.
È anche per questa ragione, al fondo, che, come nel passato, gli studi
coloniali italiani sulla guerra di Libia non hanno ricercato a fondo (né sono stati incoraggiati a ricercare) attorno alle vicende della parte libica, per
non dire poi turca e balcanica. Gli interessi della diplomazia non hanno
facilitato la ricerca storica, né questa – salvo poche eccezioni – li ha sino in
fondo contraddetti.
42
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
La storia è in movimento
Non è detto che così debba essere per sempre.
Abbiamo già rilevato come una nuova generazione di giovani studiosi,
in diverse aree di ricerca, ha messo in discussione le precedenti interpretazioni, quella coloniale e quella della decolonizzazione. La stessa realtà
politico-diplomatica sta rapidamente trasformandosi, a seguito della ‘primavera araba’ del 2011 e purtroppo dell’intervento militare di una coalizione di volenterosi e della Nato. Se cambierà in meglio o in peggio, ad
oggi, non è dato sapere.
Per adesso può essere osservato che l’ultimo venticinquennio, quello
integralmente postcoloniale, ha dato luogo ad una certa quantità di studi sulla guerra del 1911-12 che tendono a mettere in discussione alcuni
assunti delle grandi narrazioni precedenti, quelle del periodo coloniale e
della decolonizzazione, pur non avendo ancora prodotto una grande narrazione nuova che possa sostituirle. Per molti aspetti però questi studi, anche
innovativi, rimangono ancora nel quadro degli studi precedenti. Qualche
anno fa, ottimisticamente, uno studioso che tanto aveva contribuito alla
ricerca attorno al 1911-12 aveva suggerito che gli storici italiani fossero
passati finalmente dalla guerra italo-turca alla guerra italo-libica55, come a
dire che si era passati da una prospettiva diplomatico-militare ancora fortemente coloniale ad una ricerca postcoloniale che tenesse conto anche delle
vittime della storia. A moderare un poco il suo entusiasmo costatiamo che
gli storici italiani ancora si limitano allo studio della parte italiana della
guerra: né la parte libica né la parte turca né quella balcanica sono ancora
entrate stabilmente nel loro orizzonte. Sarebbe ingeneroso scrivere che gli
storici italiani di oggi ripetono le mosse dei governi di Roma del 1911-12,
che sottovalutarono molto quanto avveniva sulle altre sponde del Mediterraneo. Ma è certo che persino i cautissimi processi postbipolari di riconciliazione italo-libica non hanno favorito l’ampliamento degli orizzonti e
degli interessi della ricerca storica italiana in quest’ultimo quarto di secolo.
Studiare la guerra di Libia, e in generale le relazioni italo-libiche, al
tempo del nazionalismo libico di Gheddafi e del contenzioso postcoloniale
ha creato nella diplomazia italiana e per certi versi anche fra gli storici
italiani imbarazzo e reticenze, oscillanti fra sentimento di colpa e spinta
alla rimozione. La simpatia anticoloniale e la reazione ad un vecchio nazionalismo non è riuscito ad andare di pari passo con il riconoscimento
43
Nicola Labanca
delle responsabilità nazionali e il superamento di antichi complessi. Ignoranza, disinteresse e interessi anche politici si sono mescolati. Non si è più
nel mezzo secolo coloniale delle relazioni italo-libiche (1911-1961), e si è
superato il venticinquennio della decolonizzazione (1961-1986), quando
gli studi erano davvero pochi. Nell’ultimo venticinquennio, ormai postcoloniale (1986-2011) un certo corpus di studi è disponibile, ma in esso
continuità e cambiamento si mescolano ancora, senza che il secondo abbia
ancora prevalso nettamente sulla prima.
Note al testo
1
Pierre Loti, L’agonia dell’impero turco. La guerra italo-turca e la guerra dei Balcani, prefazione
di Chetro De Carolis, Muzzio, Padova 2000.
Sul testo cfr. Osman Okyar, Une correspondance entre Pierre Loti et Fethi Okyar lors de la guerre
de Tripolitaine (1911-1912), in L’Empire Ottoman, la République de Turquie et la France, a cura
di Hamit Batu, Jean-Louis Bacqué-Grammont, Association pour le développement des études
turques – Institut français d’études anatoliennes d’Istanbul, Paris-Istanbul 1986; e Salvatore
Bono, Pierre Loti et la guerre italo-turque (1911-1912), in Les Méditerranées de Pierre Loti.
Colloque organisé à La Rochelle, a cura di Bruno Vercier, Alain Quella-Villéger, Gaby Scaon,
Jean-Pierre Melot, Aubéron, Bordeaux 2000, pp. 49-58.
2
A partire da S. Bono, Storiografia e fonti occidentali sulla Libia (1510-1911), «L’Erma» di
Bretschneider, Roma 1982 (Quaderni dell’Istituto italiano di cultura di Tripoli, nuova serie,
2); Assunta Trova, Appunti sulla storiografia dell’imperialismo in italia fino alla guerra libica,
in «Risorgimento: Rivista di Storia del Risorgimento e di Storia Contemporanea», a. XXXIII
(1981) n. 1, pp. 23-46; Nicola Labanca, Gli studi italiani sul colonialismo italiano in Libia,
in Un colonialismo, due sponde del Mediterraneo. Atti del seminario di studi storici italo-libici, a
cura di N. Labanca, Pierluigi Venuta, CRT, Pistoia 2000, pp. 15-28; Modern and contemporary
Libya. Sources and historiographies, a cura di Anna Baldinetti, Istituto italiano per l’Africa e
l’Oriente, Roma 2003; N. Labanca, Un ponte fra gli studi, in N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale, Olschki, Firenze 2004, pp.V–LIV; Federico Cresti, Il Maghreb
contemporaneo nella storiografia italiana dal 1985 a oggi, in Il mondo visto dall’Italia, a cura di
Agostino Giovagnoli, Giorgio Del Zanna, Guerini, Milano 2004; e N. Labanca, Fasi e tendenze negli studi italiani sulla Libia coloniale, in La Libia tra Mediterraneo e mondo islamico. Atti del
convegno di Catania, 1-2 dicembre 2000. Aggiornamenti e approfondimenti, a cura di Federico
Cresti, Giuffrè, Milano 2006, pp. 3-18.
Un’utile indicazione relativa alle fonti sta in Anna Baldinetti, R.L. De Palma, Le carte del
periodo coloniale nell’archivio storico di Tripoli. Notizie della missione del 27 maggio-6 giugno
2000, in «Africa», a. LVII (2002) n. 4, pp. 625-635.
3
Consideriamo un punto di svolta l’opera in due volumi di Angelo Del Boca Gli italiani in
Libia, Laterza, Roma-Bari 1986-88 (specificamente vol. I, Tripoli bel suol d’amore, e vol. II, Dal
fascismo a Gheddafi), che veniva dopo Id., Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari
1976-84, 4 voll.
44
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
4
Torneremo più avanti su questi testi. Ci riferiamo però sin d’ora a Comando del Corpo di
Stato Maggiore, Ufficio coloniale, L’azione dell’esercito italiano nella guerra italo-turca 19111912, Lab. tip. del Comando del Corpo di Stato Maggiore, Roma 1913; e La marina nella
guerra italo-turca (1911-12). Esposizione sommaria delle operazioni compiute durante la guerra,
Ministero della Marina, Roma 1912; Ministero della Marina, Ufficio storico di Stato Maggiore, Guerra italo-turca (1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, Hoepli, Milano 19181926: Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna
di Libia, Roma 1922-1927; Mariano Gabriele, La marina nella guerra italo-turca. Il potere
marittimo strumento militare e politico, 1911-1912, Ufficio storico della marina militare, Roma
1998; e Antonio Rosati, La guerra italo-turca, 1911-1912, SME-Ufficio storico, Roma 2000.
5
Come siamo andati in Libia, Libreria della Voce, Firenze 1914 (Gaetano Salvemini, Come
siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di Augusto Torre, Feltrinelli, Milano
1963).
6
A livello militare: Comando del Corpo di Stato Maggiore, Ufficio coloniale, L’azione dell’esercito italiano nella guerra italo-turca 1911-1912 cit.; e La marina nella guerra italo-turca (191112). Esposizione sommaria delle operazioni compiute durante la guerra cit.
A livello politico: Pro e contro la guerra di Tripoli. Discussioni nel campo rivoluzionario, Società
editrice partenopea, Napoli 1912; Come siamo andati in Libia cit.
7
Ad esempio Guerra italo-turca (1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, vol. I, Dalle
origini al decreto di sovranità su la Libia, Hoepli, Milano 1918 (Ministero della Marina. Pubblicazioni dell’Ufficio storico di Stato Maggiore: Roma, Tip. dello Stato Maggiore della Marina);
Ministero della Marina, Ufficio del capo di Stato Maggiore, Ufficio storico, Guerra italo-turca
(1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, vol., II, Dal decreto di sovranità sulla Libia alla
conclusione della pace, Stab. Poligr. Edit. Romano, Roma 1926; Ministero della Guerra, Stato
maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. I, Parte generale: operazioni
in Tripolitania dall’inizio della campagna alla occupazione di Punta Tagiura (ottobre-dicembre
1911), Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della Guerra, Roma 1922; Ministero
della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. II,
Operazioni in Tripolitania dal dicembre 1911 (dopo l’occupazione di Punta Tagiura) alla fine
dell’agosto 1912, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della Guerra, Roma 1923;
Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia,
vol. III, Le operazioni a Homs, al confine tunisino e a Misurata (periodo ottobre 1911-agosto
1912), Libreria dello Stato, Roma 1924; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio
esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. IV, Le operazioni in Cirenaica (periodo ottobre
1911-agosto 1912), Libreria dello Stato, Roma 1925; Ministero della Guerra, Stato maggiore
del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. V, Appendice, Provveditorato generale dello Stato, Libreria, Roma 1927.
Si veda anche Alberto Cavaciocchi, Libia ed Algeria, Tip. Schioppo, Torino 1924.
8
Gennaro Mondaini, Manuale di storia e legislazione coloniale del Regno d’Italia. Parte I. Storia
coloniale, Sampaolesi, Roma 1927; Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea.
Da Assab all’impero, Hoepli, Milano1938.
9
Gioacchino Volpe, L’impresa di Tripoli 1911-12, Edizioni Leonardo, Roma 1946.
Si veda prima Willy Kalbskopf, Die Auszenpolitik der Mittelmachte im Tripoliskrieg und
die letzte Dreibunderneuerung, 1911-1912. Eine Studie zur Bundnispolitik der europaischen
Groszmachte vor dem Weltkrieg. Inaugural-dissertation, K. Dores, Erlangen 1932; William C.
Askew, Europe and Italy’s acquisition of Libya 1911-1912, North Carolina, Duke University
press, Durham 1942.
10
Enrico De Leone, La colonizzazione dell’Africa del Nord, vol. II, La Libia, Cedam, Padova
1960.
45
Nicola Labanca
11
Il volume più importante rimane Francesco Malgeri, La guerra libica 1911-12, Edizioni
di storia e letteratura, Roma 1970. Si vedano anche Paolo Maltese, La terra promessa. La
guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911-1912, Sugar Stampa, Milano 1968; e Sergio
Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia , 1911-1912, SugarCo, Milano 1977 (poi ried.
TEA, Milano 2007). In quegli stessi anni Z. P. Jahimovic, Italo-tureckaja vojna 1911-1912
gg., Nauka, Moskva 1967 (202 pp., Moskovskij gosudarstvennyj pedagogiceskij institut im.
V. I. Lenina).
In Italia, poi, Massimo S. Ganci, La guerra di Libia (1911-1912), con 19 manifesti in facsimile e una scheda storica (Le fonti della storia, 14), La Nuova Italia, Firenze 1969; Giorgio
Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari, Udine 2009; e
Claudio Segre, Gli italiani in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano 1978.
12
A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976-84 e Gli italiani in
Libia cit.
Intanto in Francia Juliette Bessis, La Libia contemporanea (1986), Rubbettino, Soveria Mannelli 1991.
13
N. Labanca, Fasi e tendenze negli studi italiani sulla Libia coloniale cit.
14
Solo per qualche esempio Luigi Albertini, Dalla guerra di Libia alla Grande Guerra, Milano, Mondadori, 1968; Adolfo Pepe, Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia,
1905-1911, Laterza, Bari1972; Luigi Cortesi, Le origini del Partito Comunista Italiano. Il PSI
dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza, Roma 1973; Giovanni Amendola, La
crisi dello stato liberale. Scritti politici dalla guerra di Libia all’opposizione al fascismo, a cura di
Elio D’Auria, presentazione di Renzo De Felice, Newton Compton, Roma 1974; Maurizio
Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976; ma la
lista potrebbe continuare.
15
Il volume più importante è Timothy W. Childs, Italo-Turkish Diplomacy and the War over
Libya 1911-1912, E. J. Brill, Leiden 1990, su cui si veda la severa lettura di S. Bono, Un nuovo
libro poco nuovo sulla guerra italo-turca (1911-1912), in «Studi piacentini», a. XIV (1993) n.
2, pp. 239-247. Di recente Mahmoud-Hamdane Larfaoui, L’occupation italienne de la Libye.
Les preliminaires 1882-1911, L’Harmattan, Paris 2010 (su cui una scheda di Nicola Labanca in
«Il mestiere dello storico», a. 2011 n. 1).
Interessanti considerazioni in Enrico Serra, I diplomatici italiani, la guerra di Libia e l’imperialismo, in Italia e Inghilterra nell’età dell’imperialismo, a cura di Enrico Serra, Cristopher
Seton-Watson, Angeli, Milano 1990, pp. 146-164.
Sullo sfondo, il grande affresco (una prosecuzione del lavoro di Chabod?) di Daniel J. Grange, L’Italie et la Méditerranée (1896-1911). Les fondements d’une politique étrangère, École
Française de Rome, Roma 1994.
16
S. Bono, Sebastiano Zaccaria, medico a Tripoli, e un progetto casus belli per la guerra di Libia, in
«Storia contemporanea», a. 1985 n. 5/6, pp. 955-969; Gian Paolo Ferraioli, Giolitti e San
Giuliano di fronte alla questione della chiusura dell’impresa di Libia. Annessione o protettorato?, in
«Africa», a. LVI (2001), pp. 325-363; Id., Politica e diplomazia in Italia tra il XIX e XX secolo.
Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
17
Sull’Inghilterra: Barbara Gregori, La posizione inglese durante il conflitto italo-turco (191112). La campagna di stampa sul «Times», in «I sentieri della ricerca», a. 2008 n. 7/8, pp.17-40;
Saho Matsumoto-Best, British and Italian Imperial Rivalry in the Mediterranean, 1912-14:
The Case of Egypt, in «Diplomacy & Statecraft», a. XVIII (2007) n. 2, pp. 297-314.
Sulla Francia Jean-Claude Allain, Les débuts du conflit italo-turc: octobre 1911 - janvier 1912
(d’après les archives françaises), in « Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine », a. XVIII
(1971) n. 1, pp. 106-115 ; S. Bono, Archives du Ministère des affaires etrangères a Parigi. Documentazione sulla guerra libica, in Le fonti per la storia militare italiana in età moderna e con-
46
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
temporanea. Atti del 3° seminario, Roma, 16-17 dicembre 1988, Ministero per i beni culturali
e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma1993, pp. 183-199; Paolo Soave,
Fezzan: il deserto conteso (1842-1921), Giuffrè, Milano 2001; Id., Una regione «strategica»: il
Fezzan, in «Africa», a. LVII (2002) n. 1, pp. 55-85; e soprattutto André Martel, La Libye,
1835-1990. Essai de géopolitique historique, Presses universitaires de France, Paris 1991.
Sulla Germania Jens Petersen, La guerra italo-turca e i rapporti tra Italia e Germania nel
giudizio di Rudolf Borchardt, in «Studi piacentini», a. 2000 n. 27, pp. 71-92; W. David Wrigley, Germany and the Turco-Italian war, 1911-1912, in «International Journal of Middle
East Studies», a. XI (1980) n. 3, pp. 313-338; Peter Sebald, Italy’s Colonial Conquest of Libya
1911-12 in the Light of Eye-Wittness Reports, by the German Africa Expert Gottlob Adolf Krause,
in The Arab World and Asia between Development and Change. Dedicated to the XXXIst International Congress of Human Sciences in Africa and North Africa, a cura di Günther Barthel,
Lothar Rathmann, Akademie-Verlag, Berlin 1983, pp. 74-86; Günther Barthel, Der italienische Kolonialkrieg 1911/12 in Libyen und der nationale Widerstand der Volksmassen gegen die
Eroberer im Spiegel deutscher Konsular-und Presseberichte, in «Wissenschaftliche Zeitschrift der
Karl-Marx-Universität Leipzig. Gesellschaftswissenschaftliche Reihe», a. XXXVIII (1989) n.
6, pp. 620-633.
Sulla Russia Federica Onelli, La Russia e la guerra di Libia: 26 agosto-5 novembre 1911, in
«Africa», a. LV (2000) n. 3, pp. 385-397.
Su altri paesi minori S. Bono, Documentazione sulla Libia nell’archivio del ministero degli esteri
a Bruxelles (1850-1950), in «Africa», a. XXXVIII (1983) n. 3, pp. 415-422; Id., Les Pays-Bas
et la guerre de Libye (1911-1912), in «Al-Magallat al-tarihiyyat al-Majribiyyat: Revue d’histoire
maghrébine», a. 1995 n. 77-78, pp. 127-134; Michel Dumoulin, Quelques documents belges
sur la guerre italo-turque (1911-1912), in «Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXIII (1976)
n. 1, pp. 48-59; Daniela Fabrizio, Il protettorato religioso sui cattolici in Oriente: la questione
delle relazioni diplomatiche dirette tra Santa Sede e Impero ottomano (1901-1918), in «Nuova
rivista storica», a. 1988 n. 3.
Sull’Impero ottomano Marco Lenci, La campagna italiana nel Mar Rosso durante la guerra di
Libia e la rivolta antiturca di al-Idrisi nell’Asir, in «Storia contemporanea», a. 1985 n. 5/6, pp.
971-1000; Id., Eritrea e Yemen. Tensioni italo-turche nel mar Rosso (1855-1911), Franco Angeli,
Milano 1990; Ercument Kuran, L’invasion italienne de Tripoli d’apres le quotidien Tanin, organe semi-officiel du gouvernemnt ottoman (septembre 1911-octubre 1912), in «Revue d’Histoire
Maghrebine», a. XVII (1990) n. 59/60, pp. 101-105; Evdokia Olympitou, Transgressions des
frontieres maritimes. Le cas des ilots du Dodecanese, in « La Revue Historique »,a. V (2008), pp.
181-192.
Sull’Egitto: Anna Baldinetti, `Aziz `Ali al-Misri: un ufficiale egiziano al fronte libico (191113), in «Africa», a. XLVII (1992) n. 2, pp. 268-275; Ead., La Mezzaluna rossa d’Egitto e la
guerra italo-turca, in «Africa», a. XLVI (1991) n. 4, pp. 565-572; Ead., Orientalismo e colonialismo. La ricerca di consenso in Egitto per l’impresa di Libia, Istituto per l’Oriente, Roma 1997.
Una certa attenzione è andata al Dodecaneso: Rosita Orlandi, L’occupazione italiana di Rodi
e del Dodecaneso, in «Storia e Politica», a. XXI (1982) n. 1, pp. 1-30; Richard Bosworth, Britain and Italy’s acquisition of the Dodecanese, 1912-1915, in «Historical Journal», a. XIII (1970)
n. 4, pp. 683-705; P. J. Carabott, The temporary Italian occupation of the Dodecanese: a prelude
to permanency, in «Diplomacy & Statecraft», a. IV (1993) n. 2, pp. 285-312.
Due brevi interventi molto generali Sergio Romano, Il contesto internazionale della guerra
libica, in «Affari Esteri», a. IX (1977) n. 34, pp. 340-350; Id., La guerre de Libye: les italiens et
l’Afrique, in «L’Histoire», a. 1978 n. 2, pp. 42-49.
18
Antonello F.M. Biagini, La rivoluzione dei giovani turchi nel carteggio degli addetti militari
italiani, in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXI (1974), n. 4.
19
Raffaele Molinelli, Il nazionalismo italiano e l’impresa di Libia, in «Rassegna storica del
47
Nicola Labanca
risorgimento», a. LIII (1966) n. 2, pp. 285-318; Maurizio Scaglione, Appunti sulle origini
del movimento nazionalista in Sicilia. La rivista Tripoli italiana (1912), in «Rassegna storica del
risorgimento», a. LXX (1983) n. 3, pp. 301-320.
20
Per i repubblicani cfr. Gian Biagio Furiozzi, I repubblicani di Perugia e la guerra di Libia, in
«Umbria contemporanea», a. II (2004) n. 2, pp. 105-121.
Per i socialisti l’interesse è più lontano: a parte Luigi Scognamiglio, Nota sul contributo della
stampa italiana alla conoscenza della Confraternita Senussita: l’«Avanti!» (1911-1912), Luciano,
Napoli 1994, cfr. infatti Brunello Vigezzi, Giolitti, il Partito socialista, la guerra di Libia nelle
lettere di Filippo Turati a Anna Kuliscioff (1912), Quaderni di Mondo operaio, Roma 1973;
Id., Un problema di storia del socialismo: Filippo Turati tra la guerra di Libia e la prima guerra
mondiale, in «Rassegna storica toscana», a. XXI (1975) n. 1, pp. 63-90; Leonardo Saviano, Il
Partito socialista italiano e la guerra di Libia (1911-1912), in «Aevum», 1974. Un lavoro classico era stato George Haupt, L’Internazionale socialista e la conquista libica, in «Movimento
Operaio e Socialista», a. XIII (1967) n. 1, pp. 3-24.
21
Cesira Filesi, La guerra di Libia e la stampa d’ispirazione cristiana, in «Annali della facoltà di
Scienze politiche dell’Università di Cagliari», a. VIII (1981-1982).
22
La partenza rimane Romain H. Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa
di Tripoli, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1983 (Quaderni dell’Istituto Italiano di Cultura
di Tripoli, N. S., 3).
Ma cfr. ora Esperia Ghezzi Ganazzoli, Le agitazioni antimilitariste in Sicilia e i socialisti. Dalla guerra di Libia alla settimana rossa, prefazione di Romano Ugolini, Italo-latino-americana
palma, Palermo 1981; Ezio Bartalini, Eugenio Guarino, Tripoli terra incantata. Fatti e
misfatti della guerra di Libia (1911-1912), a cura di Tiziano Arrigoni, La Bancarella editrice,
Piombino 2007; Alberto Castelli, Between Patriotism and Pacifism. Ernesto Teodoro Moneta and the Italian conquest of Libya, in «History of European Ideas», a. XXXVI (2010) n. 3,
pp. 324-329; Peter Sebald, Die italienische Kolonialeroberung von Tripolis, gesehen mit den
Augen eines deutschen Antikolonialisten, Gottlob Adolf Krause (1850-1938), in Libyen im 20.
Jahrhundert: zwischen Fremdherrschaft und nationaler Selbstbestimmung, a cura di Sabine Frank,
Martina Kamp, Deutsches Orient-Institut, Hamburg 1995 (Mitteilungen, Deutsches OrientInstitut, 52), pp. 33-65; Laurie R. Cohen, Across a Feminist-Pacifist Divide. Baroness Bertha
von Suttner’s Tour of the United States in 1912, in «Homme: Zeitschrift für Feministische Geschichtswissenschaft», a. XX (2009) n. 2, pp. 85-104 (Bertha von Suttner, Jane Addams, Aletta
H. Jacobs, Rosika Schwimmer, Frida Perlen, Chrystal Macmillan).
23
Su un aspetto cfr. Angelo Iacovella, Il triangolo e la mezzaluna. I giovani turchi e la massoneria italiana, Istituto italiano di cultura di Istanbul, Istanbul 1997; Id., La Massoneria italiana
in Turchia: la loggia Italia risorta di Costantinopoli (1867/1923), in «Studi emigrazione», a.
XXXIII (1996) n. 123, pp. 393-416.
24
Giancarlo Monina, La propaganda navalista dalla Guerra in Libia al conflitto mondiale,
Unicopli, Milano 2007.
25
Giovanni Cavagnini, Il mito dell’eroe crociato: padre Reginaldo Giuliani «soldato di Cristo e
della Patria», in «I sentieri della ricerca», a. 2010 n. 11, e Id., Nazione e provvidenza : padre
Reginaldo Giuliani tra Fiume ed Etiopia (1919-36), in «Passato e presente», a. 2010 n. 81.
26
F. Sabbadin, La chiesa in Libia dal XVII secolo ai giorni nostri, pp. 140-152 in La Chiesa nell’Africa del Nord, a cura di H. Teissier, Ed. Paoline, Milano 1991; Id., I Frati Minori lombardi in
Libia. La missione di Tripoli 1908-1991, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1991; Daniela
Fabrizio, Politica e missione. Tripoli e Bengasi, Misurata e Derna (1904-1945), in «Nuova rivista
storica», a. LXXXVII (2004), n. 2, p. 425-504; La guerra di Libia vista da Don Dolci parroco di
Adrara; Cronaca di Adrara, 1912, Gruppo ricerca storica, Adrara san Martino 1999.
48
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
27
Ferruccio Jalla, Corrado Jalla, ministro di culto evangelico nella guerra italo-turca (19111912), in «Studi piacentini», a. XXI (1997) n. 1, pp. 191-231; Stefano Gagliano, Gli evangelici italiani di fronte alla guerra di Libia, in «Storia e problemi contemporanei», a. XIX (2006)
n. 42, pp. 11-35; Laura Brazzo, Angelo Sullam e il Sionismo in Italia tra la crisi di fine secolo e
la guerra di Libia, p. I, in «Nuova rivista storica», a. XC (2006) n. 3, pp. 703-762, e p. II, ivi,
a. XCI (2007) n. 2, pp. 361- 422.
28
Il testo più significativo è Tripoli bel suol d’amore. Testimonianze sulla guerra italo-libica, a cura
di S. Bono, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 2005.
29
Ottavio Barié, La «politica nazionale» del «Corriere della sera» dalla guerra di Libia alla grande
guerra, in «Risorgimento: Rivista di Storia del Risorgimento e di Storia Contemporanea», a.
XX (1968) n. 3, pp. 172-199; Marcella Pincherle, La preparazione dell’opinione pubblica
all’impresa di Libia, in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXVI (1969) n. 3, pp. 450-482;
Aristide Ricci, Stampa ed opinione pubblica alla vigilia della guerra di Libia, in Annuario Serao
1982, L.E.R., Napoli-Roma 1982; Marina Tesoro, Stampa e opinione pubblica in Italia al
tempo della guerra con l’impero ottomano, in «Il Politico: Rivista Italiana di Scienze Politiche»,
a. 1990, n. 4, pp. 713-732; Marina Tesoro, Stampa e opinione pubblica in Italia al tempo
della guerra con l’impero ottomano, in Italia-Turchia. Due punti di vista a confronto. Convegno
internazionale, Università di Pavia, 26-27 aprile 1990, Giuffré, Milano 1992 (212 p. e 1 fascicolo contenente 9 p. di testo non stampato nel volume per un disguido, Quaderni della rivista
Il politico, n. 35), pp. 81-89; Rosalia Franco, Colonialismo per ragazzi: la rappresentazione
dell’Africa ne «La domenica dei fanciulli» (1900-1920), in «Studi Storici», a. XXXV (1994)
n. 1, pp. 129-151; Fabio Fattore, I corrispondenti di guerra e l’impresa di Libia, in «Nuova
storia contemporanea», a. XIV (2010) n. 5, pp. 49-68; La grande illusione. Opinione pubblica e
mass media al tempo della guerra di Libia, a cura di Isabella Nardi, Sandro Gentili, Morlacchi,
Perugia 2009.
Interessante a dimostrazione dell’eco: Federica Bertagna, Muestras de nacionalismo entre los
italianos de argentina: «La patria degli italiani» y la guerra de Libia (1911-1912), in «Estudios
Migratorios Latinoamericanos», a. XXI (2007) n. 64, pp. 435-456.
30
Già Francesco Gabrieli, L’arabistica italiana e la Libia, in «Annali della Facoltà di Scienze
Politiche» dell’Università degli Studi di Cagliari, IX (1983), pp. 395-401; e Giulio Cianferotti, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli, Giuffrè, Milano 1984.
Ma ora cfr. Stefan Altekamp, Rückkehr nach Afrika. Italienische Kolonialarchäologie in Libyen
1911-1943, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 2000; La guerra lirica. Il dibattito dei letterati italiani
sull’impresa di Libia (1911-1912), a cura di Antonio Schiavulli, Pozzi, Ravenna 2009; Massimiliano Munzi, La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica in Libia dall’amministrazione alleata al regno di Idris, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2004.
31
Antonio Fiori, La censura durante la guerra di Libia, in «Clio», a. XXVI (1990) n. 3, pp.
483-511.
32
Una rilettura in N. Labanca, Una nuova Italia? La guerra di Libia, in Le «Tre Italie»: dalla presa
di Roma alla Settimana Rossa (1870-1914), a cura di Mario Isnenghi, Simon Levis Sullam, vol.
II di Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura
di Mario Isnenghi, Utet, Torino 2009, pp. 631-661.
Una recente ricostruzione generale, su materiale edito, è quella di Fabio Gramellini, Storia
della guerra italo-turca 1911/1912, Carta canta, Forlì 2010; mentre una rassegna fotografica sta
in Antonio Rosati, La guerra italo-turca, 1911-1912 cit.
33
Luigi Tuccari, I governi militari della Libia (1911-1920), Stato maggiore dell’esercito. Ufficio storico, Roma 1994; M. Gabriele, La marina nella guerra italo-turca. Il potere marittimo
strumento militare e politico, 1911-1912 cit.; e Ferdinando Pedriali, Libia 1911-1936. Dallo
sbarco a Tripoli al governatorato Balbo, Aeronautica Militare-Ufficio Storico, Roma 2008.
49
Nicola Labanca
Per alcuni approfondimenti cfr. Guido Valabrega, Il servizio trasporti e tappe nella guerra libica (1911-1912), in «Africa», a. XXXIX (1984) n. 3, pp. 435-452; e Marco Scardigli, Esercito
italiano e guerra di Libia nelle pagine della «Rivista militare» (1907-1916), in «Africa», a. XLIII
(1988), n. 1; Tullio Marcon, Augusta base passeggera nella guerra italo-turca, in «Bollettino
d’archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare», VI (1992), 1, pp. 235-253; Andrea
Ungari, The Italian Air Force from the Eve of the Libyan Conflict to the First World War, in «War
in History», a. XVII (2010) n. 4, pp. 403-434.
Non mancano i testi singolari: Militari dell’arma dei carabinieri decorati al valor militare nella
guerra italo-turca 1911-1912, a cura di Edoardo Simoni, [s.n.t.], Ravenna 1995; Id., Fiamme
d’argento in terra di Libia, 1911-1943. Albo d’onore dei reali carabinieri decorati al valor militare
(Argento, Bronzo, Croce di Guerra, Encomio Solenne), [s.l., s.n.t.], 1998; Bruno Ghigi, Le due
guerre dell’Italia in Libia: contro i turchi 1911-1926, 1940-43 contro gli inglesi in Egitto, presentazione di Giancarlo e Marco Renzi, Ghigi, Rimini 2010.
L’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito italiano, pare per intercessione di Ciro Paoletti, ha incaricato non uno studioso italiano, accademico o meno, ma un ufficiale statunitense
di scrivere To the fourth shore: Italy’s war for Libya (1911-1912), di prossima pubblicazione. Si
tratta del col. prof. Bruce C. Vandervort, del Virginia Military Institute, Vandervort è autore
fra l’altro di Wars of Imperial Conquest in Africa, 1830-1914 (1998) e Indian Wars of Mexico,
Canada and the United States, 1812-1900 (2006).
34
Francesco Malgeri, Spirito pubblico dei combattenti durante la guerra di Libia, in «Rassegna
di politica e storia», a. 1969, pp. 174-184; e S. Bono, Morire per questi deserti. Lettere di soldati
italiani dal fronte libico 1911-1912, Abramo, Catanzaro 1992.
35
Paride De Bella, Dalla guerra di Libia alla marcia su Roma, Quaderni di Ricerche, Roma
1972; Paride Sirocchi, Amore e guerra: memorie di un soldato automobilista nelle guerre di
Libia1911-13 e nella prima mondiale 1915-18, L. Battei, Parma 1976; Gian Luigi Bruzzone, Aspetti della guerra italo-turca (1911-12) nelle lettere del maggiore Sebastiano Mezzano, in
«Rassegna storica del risorgimento», a. LXXIX (1992) n. 4, pp. 483-502; Clemente Sbisà,
Viaggiatore di guerra. Africa 1912. Lettere ai familiari, a cura di Ugo Sbisà, Schena, Fasano
1994; S. Bono, Diario libico del ten. Mario Fiore (1911-1913), in «Storia contemporanea»,
a. XXVI (1995) n. 1, pp. 47-55; Alberto Angrisani, Immagini dalla guerra di Libia: album
africano, a cura di N. Labanca e Luigi Tomassini, con una nota biografica sull’autore delle fotografie di Francesco De Martino, Lacaita, Mandria 1997; Dalla Libia all’Isonzo. Diari e lettere
dei caduti di Calino e Cazzago. Ricerca scolastica Scuola media G. Bevilacqua, Cazzago S.M., a
cura di Gianpietro Belotti e Giovanni Santi, Fondazione civiltà bresciana, Brescia 1998; Fabrizio Anceschi, Guerra di Libia del 1911 e l’inedito diario del soldato reggiano Bruno Corgini,
in «Reggiostoria», a. 1998 n. 80, p. 16-26; Mauro Della Valle, La chiamata alle armi per la
guerra di Libia (1911-1912) dai ruoli matricolari del Distretto Militare di Frosinone, in Fonti
e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Messina, 1989), Roma
1996; Gioachino Mario Rigamonti, Comaschi in Libia e India 1911-1998, in «Broletto», a.
1997 n. 52, a. 1998 n. 53-56, a. 1999 n. 57 (contiene: Dalla Libia con onore. Lettere inedite di
Giusto Perretta; Dal diario libico di Giusto Perretta e di Argeo Belluschi; Continua l’odissea del
prigioniero Giusto Perretta; Il diario di prigionia in India del Tenente Belluschi); Lettere di soldati
veneti nella guerra di Libia: 1911-12, a cura di Ido Da Ros, Grafiche De Bastiani, Godega di S.
Urbano 2001; Felice Fossati, Diario di guerra: dalla Libia all’Isonzo 1913-1919, Nordpress,
Chiari (BS) 2003; Elio Lodolini, Foto della Libia 1913-1914, in «Bollettino dell’Archivio
dell’Ufficio Storico», a. III (2003), n. 5, p. 243-248; Antonio Ceccotti, In Libia e sul Carso.
Memorie di guerra di un mezzadro cascianese, introduzione e note di Francesco Biasci, nota
linguistica di Filippo Motta, Tagete, Pontedera 2004; Paolo Merla, Il generale De Chaurand
e la dignità della memoria 1910-1916. Il Novecento italiano in 6 anni di storia, Grafica & arte,
Bergamo 2009; Antonio Granelli, Quaderni di guerra. Memorie di un operaio-soldato 1902-
50
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
1919, a cura di A. Gandolfi, Unicopli, Milano 2010; Graziano Mamone, Orizzonti di un bersagliere ventimigliese alla guerra di Libia 1911-1912, in «Intemelion», a. 2010 n. 16, p. 41-56.
36
A. Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hadi. 1915, il colonnello Miani e il più grande disastro dell’Italia coloniale, Mondadori, Milano 2004; Scene di battaglia. Dal «Diario» di Edoardo
Lampis, sottotenente medico prigioniero in Libia, 1915-1916, a cura di Massimo Borgogni, in
«Contemporanea», a. IV (2001) n. 1, pp. 69-92.
37
N. Labanca, L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo (1911-1943), [nota
critica su mostra], in «Il mestiere di storico», a. 2010 n. 1, pp. 61-62.
38
N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale cit.
39
Difficile identificare chi per primo ha parlato della vicenda: oltre a tutte le torie generali della
guerra di Libia, un accenno è in Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, ried. Roma, Manifestolibri, 2005; ma forse si dovrebbe
risalire a Romain Rainero, al-Jawanib al-majhula `an al-muqawama `l-Libiyya: al-libiyyun almurahhalun ila Italya, Unknown aspects of the Libyan resistance: the Libyans transported to Italy,
in «Majallat al-Buhuth al-Tarikhiya», a. VII (1985) n.2, pp. 97-109.
Da allora cfr. Mario Missori, Una ricerca sui deportati libici nelle carte dell’Archivio centrale
dello Stato», in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Messina, 1989) cit., vol. I; Mario Genco, L’agonia dei deportati libici nella colonia penale di Ustica,
in «Studi piacentini», a. 1989 n. 1, pp. 89-113; Claudio Moffa, I deportati libici della guerra
1911-12, in «Rivista di storia contemporanea», a. XIX (1990) n. 1, pp. 32- 56; E. Calandra,
Prigionieri arabi a Ustica: un episodio della guerra italo-turca attraverso le fonti archivistiche, in
Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Messina, 1989)
cit., vol. II, pp. 1150-1168; Lino Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi. L’esercito italiano a
Tripoli, Datanews, Roma 1995.
Cerca di inquadrare l’episodio in un quadro più generale Simone Bernini, Documenti sulla
repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione (1911-1918), in Un nodo. Immagini e
documenti sulla repressione coloniale italiana in Libia, a cura di N. Labanca, Lacaita, Manduria
2002, pp. 117-202.
40
Il testo più importante è Gli esiliati libici nel periodo coloniale, 1911-1916. Raccolta documentaria, a cura di Salaheddin Hasan Sury, Giampaolo Malgeri, Istituto italiano per l’Africa e
l’Oriente, Roma 2005.
A distanza seguono gli atti dei seminari congiunti italo-libici: Primo Convegno su Gli esiliati
libici nel periodo coloniale. 28-29 ottobre 2000, Isole Tremiti, a cura di Francesco Sulpizi, Salaheddin Hasan Sury, IsIAO-Centro libico per gli studi storici, Roma-Tripoli 2002; Secondo
convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 3-4 novembre 2001, Isole Egadi, Favignana,
a cura di Francesco Sulpizi, Salaheddin Hasan Sury, IsIAO-Centro libico per gli studi storici,
Roma-Tripoli 2003; Terzo Convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 30-31 ottobre
2002, Isola di Ponza, a cura di Carla Ghezzi, Salaheddin Hasan Sury, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 2004 (stampa 2005).
41
Aveva aperto il campo di ricerca Giorgio Rochat, La repressione della resistenza araba in
Cirenaica nel 1930-31, in «Il movimento di liberazione in Italia», a. 1973 n. 110, poi confluito
come Id., La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981.
In seguito ha attirato attenzione una vicenda degli anni della Grande guerra: Piero Nicola Di
Girolamo, Dalla colonia alla fabbrica. La manodopera libica a Milano durante la prima guerra
mondiale, in «Studi piacentini», a. 1995 n. 1, pp. 115- 156; Marco Mozzati, La vicenda degli
operai libici militarizzati durante la Prima Guerra Mondiale: ipotesi per una ricerca, in «The
Journal of Libyan studies», a. II (2001) n. 1, pp. 80- 94; Francesca Di Pasquale, Libici per
la patria Italia. Esperienze di lavoro e di vita nelle lettere degli operai coloniali durante la prima
51
Nicola Labanca
guerra mondiale, in «Zapruder. StorieInMovimento», a. VII (2009), n. 18, p. 51-63.
Sulle questioni giurisprudenziali si veda Luciano Martone, «A rullo di tamburo o a suon di
tromba». Uno sguardo su alcune sentenze dei tribunali straordinari di guerra in Libia negli anni
1914-15, in «Studi piacentini», a. XXXIV (2003) n. 2, pp. 179-220; Id., Dominio coloniale
e proprietà fondiaria: la formazione del demanio italiano in Libia (1911-1923), in «Quaderni
fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», a. XXXIII-XXXIV (2004/05) n. 2,
pp. 985-1037.
Un tema interessante in Ercolana Turriani, La riconquista fascista della Cirenaica e i fuorusciti
libici in Egitto, in «Contemporanea», a. X (2007) n. 2, pp. 251-274.
42
Federico Cresti, La formation pour les musulmans de Libye a l’époque coloniale, ou les supposes
dangers de la modernité, in « Revue du Monde Musulman et de la Méditerrannée », a. 2003, n.
101/102, pp. 269-304 ; e soprattutto Francesca Di Pasquale, La Scuola di arti e mestieri di
Tripoli in epoca coloniale (1911-1938), in «Africa», a. LXII (2007) n. 3, pp. 399-428.
43
Qui il merito è davvero di S. Bono, Testimonianze sulla resistenza anticoloniale in Libia (19111912), in «Alifba», n. 8-9, gennaio-dicembre, pp. 9-24; Id., Solidarietà islamica per la resistenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in «Islàm. Storia e Civiltà», a. VII, pp. 53-61; Id.,
La resistenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in Secondo convegno su Gli esiliati libici nel
periodo coloniale. 3-4 novembre 2001, Isole Egadi, Favignana, cit.; Id., L’historiographie sur la
résistance anticoloniale en Libye (1911-1912), in Modern and Contemporary Libya: Sources and
Historiographies cit., pp. 17-36; S. Bono, Solidarietà islamica per la resistenza anticoloniale in
Libia (1911-1912), in Terzo Convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 30-31 ottobre
2002, Isola di Ponza, cit.
44
N. Labanca, The Embarrassment of Libya. History, Memory, and Politics in Contemporary Italy, in «California Italian Studies Journal», a. I (2010) n. 1, http://escholarship.org/uc/
item/9z63v86n .
45
Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo,
Einaudi, Torino 1974; James Burgwyn, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi
potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Feltrinelli, Milano 1979, e Id., L’impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia, 1941-1943, LEG, Gorizia 2006; Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943),
Bollati Boringhieri, Torino 2002; e soprattutto Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza.
Politica estera 1922-1939, con la collaborazione di N. Labanca e Teodoro Sala, La Nuova Italia,
Firenze 2000.
46
Ad esempio Alessandro D’Alessandro, Il Banco di Roma e la guerra di Libia, in «Storia e
Politica», a. VII (1968) n. 3, pp. 491-509. Poi solo Paolo Giannotti, La guerra di Libia e la
finanza pubblica (1911-12), in «Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura», LXV (1992),
pp. 9-32; Paolo Ferrari, La guerra italo-turca. Riflessi sull’economia italiana della spedizione
del 1911, in «Studi piacentini», a. XVI (1994) n. 2, pp. 159-174; Eleonora Belloni, Nazionalismo e cultura economica tra guerra di Libia e fascismo 1911-1922, Nuova immagine, Siena
2006; Massimiliano Munzi, Circolazione monetaria a Khoms (Tripolitania-Libia) al tempo
della guerra italo-turca, in «Quaderni di archeologia della Libya», a. XX (2009), p. 179-190.
47
Per la traduzione di un testo classico (Enver Pascha, Um Tripolis, die Ubertragung dieser
Berichte aus der Sprache des Originals besorgte Friedrich Perzynski, Bruckmann, München
1918) cfr. Enver Pascià, Diario della guerra libica, a cura di S. Bono, Cappelli, Bologna 1986;
su cui S. Bono, La participation d’Enver pacha à la guerre de Libye (1911-1912), in «Tarih
Bölümü»/«Tarih arastirmalari derisi», a. XV (1991) n. 26, pp. 261-267.
Per l’attenzione degli studiosi italiano all’Impero ottomano all’altezza della guerra di Libia cfr.
Angelo Tamborra, Mondo turco-balcanico e Italia nell’età giolittiana (1900-1914), in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXXIX (2002), p. 323-354; Marco Dogo, «Tenere insieme
52
La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani
l’impero». Declino ottomano e province di frontiera nei Balcani, in «Rivista storica italiana», a.
CLV (2003) n. 2, pp. 516-542; Antonello F. M. Biagini, Simeon Radev, le nazione balcaniche
e la guerra italo-turca (1911-1912), in «Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXIV (1977)
n. 2, pp. 203-214; Calogero Piazza, Testimonianze ottomane sulla guerra libica, in ItaliaTurchia. Due punti di vista a confronto. Convegno internazionale, Università di Pavia, 26-27
aprile 1990, Giuffré, Milano 1992 (212 p. e un fascicolo contenente 9 p. di testo non stampato
nel volume per un disguido, Quaderni della rivista Il politico, n. 35), pp. 205-209.
Più in generale cfr. Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo in Italia all’alba del
’900, a cura di Stefano Trinchese, Guerini, Milano 2005.
Ma tutto questo dovrebbe essere letto da una prospettiva storica molto più lunga: cfr. ad esempio Giovanni Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Il Mulino,
Bologna 2002.
Relativamente, maggiore attenzione è andata agli italiani in Turchia: cfr. ad esempio Gli italiani
di Istanbul. Figure, comunità e istituzioni dalle riforme alla Repubblica 1839-1923, a cura di
Attilio De Gasperis e Roberta Ferrazza, Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Fondazione
Giovanni Agnelli, Torino 2007; Livio Missir di Lusignano, Due secoli di relazioni italo-turche
attraverso le vicende di una famiglia di italiani di Smirne: i Missir di Lusignano, in «Storia contemporanea», a. 1992 n. 4, pp. 613-623; Id., Les anciennes familles italiennes de Turquie, Les
éditions Isis, Istanbul 2004.
48
Un’eccezione, basata sul fortunato ritrovamento di una fonte fuori dall’ordinario, è A. Del
Boca, A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007; ma cfr. anche Carlo
Greppi, Un’altra storia. Le Memorie di Mohamed Fekini, patriota libico, in «I sentieri della
ricerca», a. 2009 n. 9/10, pp. 207-271.
Cfr. anche La guerra italo-tripolina nelle «Memorie» di Suleiman al-Baruni, in «Studi piacentini,
a. 1992 n. 2, pp. 153-171.
49
Non ha proseguito quello che prometteva nel titolo Anna Baldinetti, Italian studies on
Tripolitania tribes (1911-1915), in «Maghreb Review», a. XXII (1997) n. 1/2, pp. 162-166.
50
Ma cfr. N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale cit.
51
Un’interessante fuoriuscita è quella proposta da Claudia Gazzini, «Saranno rispettati come
per il passato» la politica coloniale italiana e le fondazioni pie in Libia, in «Quaderni storici», a.
XLIV (2009) n. 3, pp. 653- 685; anche se il lavoro più organico in questo senso pare François
Dumasy, Ordonner et batir. Construction de l’espace urbain et ordre colonial a Tripoli pendant la
colonisation italienne, 1911-1940, thèse pour obtenir le grade de docteur de l’université d’Aix
Marseille I, sous la direction de Robert Ilbert, 2006 (da cui Id., Le fascisme est-il un «article d’exportation»? Idéologie et enjeux sociaux du parti national fasciste en Libye pendant la colonisation
italienne, in «Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine», a. LV (2008) n. 3, pp. 85-115).
52
A partire ovviamente da Lisa Anderson, The state and social transformation in Tunisia and
Libya, 1830-1980, Princeton Univ. Press, Princeton (NJ) 1986 ; e Ead., The Development of
Nationalist Sentiment in Libya, 1908-1922, in Rashid Khalidi, Lisa Anderson, Muhammad
Muslim, Reeva S. Simon, The Origins of Arab Nationalism, Columbia University Press, New
York 1991; da cui si discosta Ali Abdullatif Ahmida, The Making of Modern Libya. State Formation, Colonization, and Resistance, 1830-1932, State University of New York Press, Albany,
N. Y. 1994 (Boulder, Colo., netLibrary, Incorporated 1997).
Tra gli studiosi italiani cfr. Simone Bernini, Nazionalismo e collaborazionismo in Libia: i colloqui di Tripoli (novembre 1912), in «The Journal of Libyan Studies», a. I (2000) n. 2, pp. 54-67;
Id., Il risveglio politico della Libia (1908-1911), in «Studi piacentini», a. XXIX (2001) n. 1,
pp. 39-56; Id., Il risveglio politico della Libia, in «Studi piacentini», a. 2001 n. 29, pp. 39-56;
Id., Studi sulle origini del nazionalismo arabo in Libia, in «The Journal of Libyan Studies», a. II
53
Nicola Labanca
(2001) n. 1, pp. 95-107; e Anna Baldinetti, The origins of the Libyan nation. Colonial legacy,
exile and the emergence of a new nation-state, London; Routledge, New York 2010, in cui sono
rifluiti diversi precedenti lavori come Ead., The Libyan Refugees, Egyptian Nationalism and The
Shaping of the Idea of a Libyan Nation, in Individual, Ideologies and Society. Tracing the Mosaic of
Mediterranean History, a cura di K. Virtanen, in TAPRI Research Report, n. 89, Tampere 2001;
Ead., Note sul nazionalismo libico: l’attività dell’associazione ‘Umar al-Mukhtar, in «The Journal
of Libyan Studies», a. II (2001) n. 1, pp. 61-68; Ead., Libya’s Refugees, their Places of Exiles and
the Shaping of their National Idea, in Nation, Society and Culture in North Africa, a cura di J.
McDougall, in «The Journal of North African Studies», a. VIII (2003) n. 1, pp. 72-86.
53
A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005; Id., Faschismus und kolonialismus: der mythos von den «anständigen italienern», in «Jahrbuch zur Geschichte und Wirkung
des Holocaust», a. 2004, gennaio, pp. 193-202.
Alcune considerazioni sul tema in N. Labanca, Strade o stragi? Memorie e oblii coloniali della
Repubblica, in «Annali del dipartimento di storia» (Università degli studi di Roma – Tor Vergata. Facoltà di Lettere e filosofia), fasc. spec. Politiche della memoria, a cura di Anna Rossi-Doria
e Gianluca Fiocco, pp. 11-36.
54
Per il testo cfr. Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la repubblica italiana e
la grande Giamahiria araba libica popolare socialista, in «Rivista della cooperazione giuridica
internazionale», a. XI (2009) n. 33, pp. 169-174. (Per il precedente accordo cfr. Giuseppe
Vedovato, La ratifica dell’accordo italo-libico (1957). Un cinquantenario di grande rilievo, in
«Rivista di studi politici internazionali», a. LXXIV (2007) n. 4, pp. 561- 584.)
Alcune considerazioni critiche relative al profilo culturale del trattato del 2008 in N. Labanca,
Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare, in «Italia contemporanea», a. 2008, n. 251, pp. 227-250, poi Id., Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani.
Il generale e il particolare, in Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia,
a cura di Giovanni Contini, Filippo Focardi, Marta Petricioli, Viella, Roma 2010, pp. 127-162
(versione aggiornata).
55
Salvatore Bono, Dalla guerra italo-turca alla guerra italo-libica (1911-1912). Considerazioni
sulla storiografia, in Italia-Turchia. Due punti di vista a confronto. Atti del convegno all’Università
di Pavia, 26-27 aprile 1990, Giuffré, Milano 1992, pp. 195-209.
54
I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia
di Alberto Magnani
Enrico Corradini, a pochi mesi dall’inizio della guerra libica, proclamò
che la morale dell’uomo soldato aveva sconfitto la morale dell’uomo socialista1. Lo scrittore nazionalista, in effetti, coglieva una delle conseguenze
del conflitto: l’aggregazione di diverse correnti intellettuali intorno a una
comune piattaforma bellicista e la loro conquista di una posizione egemonica, grazie anche al sostegno di tutti i mezzi di comunicazione e propaganda allora disponibili2.
Nel quadro di tale operazione, che creò un armamentario ideologico
in gran parte ereditato dal fascismo, un ruolo non trascurabile fu svolto
dall’esaltazione dei primi voli di guerra. L’aeroplano – e, in particolare, il
bombardamento aereo – dimostrò di poter esercitare un forte impatto mediatico, di produrre, come nota Paolo Giovannetti, «entusiasmo e passioni
condivise dai più, da un pubblico ormai di massa»; e, dunque, di rivelarsi
«una vera macchina di consenso»3.
Per la prima volta al mondo
Il primo volo di guerra della storia avviene il 23 ottobre 1911. È un
volo di ricognizione: lo compie il capitano Carlo Piazza, quarant’anni, in
possesso da pochi mesi del brevetto da pilota. Piazza comanda la piccola
pattuglia di aeroplani aggregata al corpo di spedizione in Libia: nove apparecchi4 e undici piloti, dei quali cinque effettivi5 e sei che non hanno
ancora completato la preparazione per conseguire il brevetto. In pratica,
si tratta di quasi tutta la sezione aviazione del Battaglione specialisti autonomo del Genio6. Il suo trasferimento in Libia è avvenuto a metà ottobre,
non senza incertezze e perplessità da parte dei vertici militari.
Gli aeroplani – come, del resto, gli aerostati e i dirigibili in forza nello stesso Battaglione specialisti – hanno la funzione di osservare dall’alto
55
Alberto Magnani
i movimenti del nemico. Tuttavia, nel clima di nervosismo seguito alla
sorpresa di Sciara Sciat, il 1° novembre avviene il primo bombardamento
aereo della storia. Giulio Gavotti, un ingegnere di ventinove anni, che sta
compiendo il servizio militare come ufficiale di complemento, getta quattro granate da fanteria su alcuni accampamenti arabi. «Per la prima volta
al mondo un aeroplano da guerra ha attaccato il nemico», scrive Luigi
Barzini7.
Con quali risultati, non si sa: Gavotti è riuscito a seguire solo per qualche istante la caduta delle granate e ha intravisto una «fuga di gente». Né
si riusciranno a verificare gli effetti di un bombardamento aereo prima di
alcuni mesi, ma la fantasia si è messa in moto e vi sono giornali che attribuiscono a Gavotti descrizioni dell’impresa tanto dettagliate quanto – è il
caso di dirlo – campate in aria8.
Giornalisti e letterati si impadroniscono subito dell’impresa di Gavotti.
All’indomani di Sciara Sciat, quando la guerra si preannuncia più lunga
e più complessa del previsto, l’opinione pubblica ha bisogno di eroi. Gli
eroi del cielo sono quanto di meglio si possa immaginare. In quello stesso
mese di novembre, gli entusiasmi che circondano l’arma aerea portano
alla costituzione di una Flottiglia aviatori volontari, su iniziativa promossa,
a Torino, dal direttore del giornale «Stampa Sportiva» Gustavo Verona e
dall’Aeroclub Italia. Vi si arruolano alcuni civili in possesso del brevetto di
pilota, tra i quali l’ex corridore automobilistico Umberto Cagno. Il loro
comando è assunto dall’onorevole Carlo Montù, deputato della maggioranza liberale, che proviene dall’esercito, ma è ben noto e attivo negli ambienti sportivi, per il suo impegno in favore del cannottaggio9.
Tale intromissione della società civile nella guerra, in realtà, ai militari
non piace. Lo Stato Maggiore, incalzato dalla situazione, si affretta a completare la preparazione di nuovi piloti militari, in modo da poter fare a
meno dei volontari. Gli uomini della Flottiglia, intanto, si imbarcano per
la Libia e vi sbarcano il 25 novembre. In quei giorni, i due più famosi poeti
dell’epoca, D’Annunzio e Pascoli, uniscono la loro voce alla celebrazione
dei voli di guerra: rispettivamente, il 23 e il 26 novembre.
Aquile e avvoltoi
Che poeti e letterati siano suggestionati dall’invenzione dell’aeroplano
è del tutto naturale. Le imprese aviatorie che si succedono dal 1903 trova56
I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia
no puntuale riscontro nella produzione letteraria italiana: esaminandola, si
nota però come i primi voli si carichino subito di implicazioni e allegorie
che, in un modo o nell’altro, richiamano la guerra10. La morale dell’uomo
soldato cara a Corradini – in questo caso dell’uomo pilota militare – si
sta formando prima ancora delle missioni di Piazza o Gavotti. La morale
dell’uomo socialista è in grado di proporre un approccio diverso: Luigi
Montemartini, per esempio, deputato vicino a Turati e scienziato di formazione positivista, vede nell’aeroplano uno strumento di pace, in quanto,
attraverso il volo, i confini tra gli stati cesseranno di essere una barriera e
dovranno scomparire11. Ma sono interpretazioni isolate.
Fra il 23 ottobre e il 1° novembre 1911, le allegorie diventano realtà.
D’Annunzio, che è fra quanti hanno contribuito a caricare l’aereo di valenze distruttive, pubblica la Canzone della Diana, quinta delle sue Canzoni
delle gesta d’Oltremare, il 23 novembre, sul «Corriere della Sera»12. D’Annunzio ha iniziato a cantare la guerra ispirandosi alla vocazione navale
dell’Italia e rievocando le antiche repubbliche marinare. La Canzone della
Diana, invece, è un’iliade in cui trovano posto i protagonisti dei più recenti
bollettini di guerra, tra i quali i piloti: c’è il capitano Piazza «immune su
la grandine che spazza / l’Oasi atroce», c’è il capitano Riccardo Moizo, ma
c’è, soprattutto, «pallido avvoltoio», Giulio Gavotti: «anche la morte or ha
le sue sementi / di su l’ala tu scagli la tua bomba / alla sùbita strage; e par
che t’arda / il cuor vivo nel filo della romba».
Il 26 novembre è la volta di Giovanni Pascoli. Il poeta di passeri, pettirossi e assiuoli conclude il suo discorso di Barga con un richiamo agli
aerei («Guardate in alto: ci sono le aquile!»), assimilati al rapace più torvo e
aggressivo13, nonché simbolo del potere imperiale. A quanto pare, Pascoli
è stato colpito dai voli di guerra, tanto da alludervi anche in un verso della
poesia dedicata ai soldati che trascorrono il Natale al fronte. «A me risuona
sempre quel verso», testimonia la sorella Maria, «ch’egli ogni tanto ripeteva sfiorandolo appena con la voce, e dandogli una velocità come d’ale:
l’Italia! L’Italia che vola!». Un Pascoli contagiato dalla velocità tanto cara ai
futuristi? Forse il poeta avrebbe sviluppato tali motivi nel «trionfale inno
ch’egli meditava e che gli eroici combattenti attendevano sicuri da lui!».
Ma la malattia lo condurrà a morte pochi mesi dopo, per cui l’inno «non
verrà, l’ha portato via con sé, insieme a tante altre cose destinate alla sua
Italia diletta»14.
Dove non arriva Pascoli arriva però un altro letterato, che si colloca
57
Alberto Magnani
sulla sua stessa lunghezza d’onda: Giovanni Bertacchi. Poeta di formazione carducciana, influenzato dallo stile pascoliano, Bertacchi professa idee
prossime al socialismo umanitario, il che non gli impedirà di celebrare
il battesimo del fuoco dell’aviazione: «Italia è prima alla volante prova»,
canta e, echeggiando il verso pascoliano, «Italia è in alto». E prosegue: «La
storia è in alto: è il rombo dei motori/confuso alle mitraglie,/occhio delle
battaglie, aviatori!»15.
Né può mancare Filippo Tommaso Marinetti: secondo Laurence Goldstein16, il padre del futurismo è uno dei letterati che, a livello mondiale, più
hanno identificato l’aereo con la guerra. Nell’ottobre del 1911, Marinetti
è in Libia, in veste di giornalista, ma, con il ristagnare delle operazioni,
incomincia ad annoiarsi e riparte. Nelle settimane successive elabora ciò
che egli chiama «poema vissuto», pubblicandolo in dicembre, in francese,
sul giornale «Intransigeant»17. Il pubblico italiano dovrà attendere il 1912
per leggerne la traduzione in italiano18.
L’opera, composta in stile futurista, cioè in una «prosa nervosa e delirante»19, descrive, attraverso un susseguirsi di episodi, gli scontri presso
Tripoli, cui Marinetti ha assistito. La narrazione culmina con il volo del
capitano Piazza (Piazza volava cantando), «faccia ardita, affilata dal vento sul suo grande Blériot dominatore taglia brutalmente, con le due falci
lucenti delle sue ali orizzontali, i grandi raggi perpendicolari dell’aureola
solare». Di lì a poco, Marinetti pubblica il Manifesto tecnico della letteratura
futurista, basato sulle «parole in libertà», che immagina gli venga ispirato
dall’elica di un aereo. L’aeroplano è ormai un idolo dei futuristi, che gli
concederanno ampio spazio nelle loro opere20, «ove non mancava mai il
ticchettìo della mitragliatrice»21.
Intanto si cimentano anche verseggiatori più popolareschi, anche dialettali, capaci, cioè, di raggiungere un pubblico più vasto, quali il cantastorie Pietro Capanna, celebre nelle piazze e strade di Roma come er sor
Capanna, che dagli aerei prende spunto per doppi sensi sboccati; o come
Giulio Cesare Santini22. Quest’ultimo immagina un soldato turco terrorizzato dalle granate di Gavotti: «Lui sente er botto orribile che scrocchia /
pensa che l’arme sue so’ vecchie e ranche / – Italia granne! – strilla e s’inginocchia». Versi che rispecchiano un atteggiamento mentale tipico dell’Occidente industrializzato: la convinzione che, in un conflitto con uno Stato
tecnologicamente arretrato, la superiorità tecnologica basti, da sola, a chiudere la partita. Quando, invece, l’esperienza del XX secolo (e degli inizi del
58
I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia
XXI) dimostra che gli eserciti africani e asiatici combattono con i mezzi di
cui dispongono finché è loro possibile, e poi passano alla guerriglia.
Turchi e arabi, infatti, non s’inginocchiano terrorizzati. Sin dall’apparizione in cielo dei primi aerei, inventano tecniche di segnalazione per
avvisare del pericolo e sparano con i loro vecchi fucili, imparano a concentrare i tiri, costringono i piloti a mantenersi in quota. E a volte centrano
il bersaglio. Il 31 gennaio 1912, l’onorevole Montù è l’aviatore che, per la
prima volta al mondo, rimane ferito in un volo di guerra.
Date ali alla Patria
La realtà, del resto, è diversa dalla sua trasfigurazione letteraria23. Come
abbiamo detto, non vi sono prove che le granate di Gavotti abbiano provocato una «subita strage»; anzi, in seguito ci si renderà conto che, cadendo
nella sabbia, gli ordigni non sempre esplodono. La tecnologia dell’epoca
non è ancora in grado di fronteggiare le emergenze imposte dallo scenario
africano: i motori modello Gnome hanno problemi di raffreddamento; i
venti primaverili impediscono il decollo ad apparecchi, la cui struttura di
tela e legno è troppo leggera; in estate il caldo è eccessivo. Non mancano
poi gli incidenti, frequenti anche in tempo di pace. Qualche aereo cade
in mare: il sottotenente Piero Mancini è il primo pilota morto in guerra.
Riccardo Moizo, invece, compie un atterraggio di fortuna dietro le linee
turche: ed è il primo a cadere in mano al nemico.
L’aeronautica offre buona prova soprattutto nelle missioni di ricognizione e nel dirigere i tiri di artiglieria. Il suo peso sull’andamento delle
operazioni, comunque, è marginale. C’è da credere che, considerando i
dubbi che serpeggiano nello Stato Maggiore, se potessero attenersi solo ai
risultati strettamente militari, i vecchi generali savoiardi procederebbero
con cautela nel potenziamento dell’arma aerea.
Ma l’importanza dell’aeronautica deriva da altri fattori. Nel marzo
del 1912, quando i volontari civili sono appena rientrati, viene lanciata
la campagna Date ali alla Patria, per la quale si prodiga un pioniere del
volo, il cui nome sembra uscito dalle pagine di D’Annunzio: il barone
Leonino Da Zara. Si tratta di una sottoscrizione popolare per raccogliere
fondi da destinare al potenziamento dell’arma aerea. A un Comitato nazionale, presieduto dall’onorevole Luigi Facta, fanno capo sottocomitati
attivi nelle città grandi e piccole, che promuovono pubbliche conferenze,
59
Alberto Magnani
cui intervengono piloti reduci dal fronte, e altre iniziative di propaganda.
La stampa approva il progetto: questi impulsi che provengono dalla società, scrive il «Corriere», sono «impulsi preziosi, perché segnano al governo
la via da battere, lo incoraggiano ai sacrifici necessari e l’assicurano del
consentimento generale; preziosi anche perché circondano la nuova arma
aerea di una viva aureola di popolarità, le danno un prestigio e un contenuto morale straordinario, di cui essa più che ogni altra arma ha bisogno»24.
La sottoscrizione raccoglierà tre milioni e mezzo di lire.
In questo modo viene a formarsi un asse tra militari favorevoli allo
sviluppo della nuova arma, industriali del nascente settore aeronautico e
settori del mondo politico, che possono appoggiarsi all’ondata di consenso
riscosso presso l’opinione pubblica25 tale da prevalere sulle incertezze dello
Stato Maggiore. Nel luglio del 1912, la forza aerea è, rispetto a un anno
prima, decuplicata, contando ben 91 apparecchi, tra i quali cominciano a
comparire i primi di fabbricazione italiana26. E già si programma la costruzione di altri 150 apparecchi, con l’addestramento dei relativi piloti27(negli
anni successivi, il progetto verrà però ridimensionato).
La figura del pilota gode, ormai, di vasta popolarità e molti giovani, formatisi in questo clima, si orientano verso l’arma aerea. La Grande Guerra
vede l’affermazione di nuove figure di eroi, che dispongono di apparecchi
in grado di fornire prestazioni migliori e, soprattutto, di avversari ugualmente alati, con i quali misurarsi in duelli dal sapore cavalleresco. La fama
degli assi oscura rapidamente il ricordo degli aviatori di Libia – con l’eccezione, pare, almeno in ambiente aeronautico, di Giulio Gavotti28 –, su
tutti si impone però D’Annunzio, che, fattosi pilota, diventa protagonista
di imprese avventurose, innestando così la dimensione letteraria sulla realtà vissuta della guerra. A lui guarda una generazione di aviatori, animati da
«gusto per l’avventura guerresca per vivere fuori o ai margini della legge, in
nome di un individualismo e di un superomismo spesso solo orecchiato»29.
Figura emblematica in tal senso è quella di Guido Keller, famoso per
aver sorvolato il Parlamento e avervi lasciato cadere un vaso da notte. Attorno a Keller si crea una vera e propria leggenda, alimentata dai contemporanei, che gli attribuiscono le più bizzarre prodezze. Se, nel poema di
Marinetti, Piazza volava cantando, di Keller si dice che voli, a venti metri
d’altezza, declamando l’Ariosto30.
La mentalità che va diffondendosi negli ambienti aeronautici, e che ne
costituirà a lungo un tratto distintivo, propizia la convergenza con il mo60
I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia
vimento fascista. Da parte sua, quest’ultimo si rispecchia sin dalle origini
nella nuova arma, nella sua cultura, nelle possibilità di consenso che essa
garantisce31. Il volo che porta l’aeronautica italiana a diventare «l’arma più
espressiva della potenza fascista» inizia, dunque, nei cieli di Libia.
Note al testo
1
Enrico Corradini, La morale della guerra libica, «Rassegna Italiana», 10 gennaio 1912. Cfr. la
valutazione di Nino Valeri, Dalla «belle époque» al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 20:
«All’età giolittiana stava succedendo, anche nel campo politico, l’età dannunziana».
2
La grande illusione: opinione pubblica e mass-media al tempo della guerra di Libia, a cura di
Isabella Nardi e Sandro Gentili, Morlacchi, Perugia. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia.
Tripoli bel suol d’amore, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 144 ss.
3
Paolo Giovannetti, Il «militante sogno» dei primi voli. Aeroplani e letteratura 1905-1915, in
L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, a cura di Paolo Ferrari, Franco Angeli, Milano
2004, p. 160. A ottant’anni di distanza, la suggestione esercitata dalle immagini televisive di
Bagdad bombardata, diffuse dalla CNN durante la Guerra del Golfo, confermano l’impatto
emotivo dei bombardamenti aerei.
4
Tutti gli apparecchi erano di fabbricazione straniera: 2 Blériot XI, 3 Nieuport, 2 Farman e 2
Etrich Taube.
5
I cinque piloti effettivi erano i capitani Carlo Piazza e Riccardo Moizo, il tenente Leopoldo De
Rada, il sottotenente di vascello Ugo Rossi e il sottotenente di complemento Giulio Gavotti.
6
L’aeronautica militare non era ancora arma autonoma, né lo sarà prima del 1923. Il Battaglione
specialisti era stato istituito nel 1910 e derivava da una Brigata specialisti, costituita nel 1894,
le cui origini risalgono al 1884.
7
«Il Corriere della Sera», 2 novembre 1911.
8
«Il fragore degli scoppi e l’eco confusa di grida feroci giunsero fino a me […]. Ritornai altre tre
volte sull’oasi e lanciai un’altra granata che gittò maggiore scompiglio nel campo ottomano.
Vidi fuggire altre torme di soldati per ogni direzione, come impazziti fuggivano specialmente
verso la grande cava di pietre come a cercar rifugio dall’improvviso bombardamento celeste.
Gettai le altre due granate contro uno stormo di fuggiaschi. Anche gli armenti si sbandarono
dal recinto ove erano stati rinchiusi». Così La dinamite dal cielo sul campo turco, «Il Giornale
d’Italia», 2 novembre 1911.
9
Giovanni Depaoli, Aspetti della presenza militare nella vita torinese, in Torino città viva da capitale a metropoli 1880-1980, Centro studi piemontesi, Torino 1980, pp. 949-50. Giovannetti,
nel pezzo sopra citato Il «militante sogno» dei primi voli, a p. 151, nota i forti legami tra ambienti sportivi ed aviatorii, rilevando che «la congiunzione sport-guerra-aviazione, con la perfetta
complementarità e reversibilità dei termini in gioco, è un’acquisizione tipicamente futurista».
10
P. Giovannetti, Il «militante sogno» dei primi voli cit., p. 151.
11
Luigi Montemartini, I confini scellerati, «La Plebe», 6 giugno 1909.
61
Alberto Magnani
12
In precedenza, D’Annunzio aveva pubblicato le sue Canzoni l’8 e il 22 ottobre, il 2 e il 12
novembre.
13
Solo pochi mesi prima, nell’ode Chavez, pubblicata sul «Secolo XX», 1/gennaio 1911, Pascoli
aveva immaginato le aquile – aquile in questo caso molto più pascoliane, placide e perplesse
– assistere con stupore al volo sulle Alpi dell’aviatore Geo Chavez: in tale componimento, le
aquile e l’aereo appartenevano a mondi diversi.
14
Maria Pascoli, Prefazione a Giovanni Pascoli, Poesie varie, Zanichelli, Bologna 1912.
15
Giovanni Bertacchi, Aviatori, «Almanacco dello Sport», 1914.
16
Laurence Goldstein, The flying machine and modern literature, Indiana university press,
Bloomington 1986, p. 8.
17
L’opera uscì a puntate dal 25 al 31 dicembre 1911.
18
Traduzione eseguita, pare, da Decio Cinti e pubblicata a Milano dalle Edizioni di Poesia.
19
A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., p. 118.
20
Sull’argomento: Claudia Salaris, Aero…Futurismo e mito del volo, Le Parole Gelate, Roma
1985.
21
E[manuele] Farina, L’aeronautica e la letteratura, «Aeronautica», giugno 1930.
22
Su «Il Rugantino», novembre 1911.
23
Per una valutazione tecnica della prima esperienza di guerra dell’aviazione: Ferdinando Pedriali, L’aeronautica italiana nelle guerre coloniali. Libia 1911-1936. Dallo sbarco a Tripoli al
governatorato Balbo, Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare, Roma 2009.
24
La sottoscrizione nazionale per offrire aeroplani all’esercito, «Corriere della Sera», 6 aprile 1912.
25
Alessandro Massignani, La Grande Guerra: un bilancio complessivo, in L’aeronautica italiana
cit., p. 270.
26
Andrea Curami, La nascita dell’industria aeronautica, in L’aeronautica italiana cit., p. 26.
27
A. Massignani, La Grande Guerra cit., p. 270.
28
Giulio Gavotti, concluso il servizio di leva, continuò a lavorare come ingegnere negli ambienti
dell’aeronautica militare, nella quale rientrò dopo la sua costituzione ad arma autonoma. Si
imparentò con la famiglia del gerarca Cesare De Vecchi. La sua figura è stata recentemente
rievocata da una rivista aeronautica on line (aerostoria.blogspot.com), cui sono giunti messaggi
di piloti militari che testimonierebbero un perdurante culto del personaggio. Il 9 novembre
2009 un ex pilota di Tornado, per esempio, ha raccontato che in un hangar era da tempo affissa
una foto di Gavotti: «era una specie di icona sacra, ricordo che i piloti dopo aver terminato i
controlli pre-volo si avvicinavano con il guanto, sfioravano la foto e poi si accendeva».
29
Luigi Urettini, Guido Keller «aviatore di ventura», in L’aeronautica italiana cit., p. 183.
30
E che pratichi il naturismo aggirandosi nudo sul campo d’aviazione, che legga Nietzsche stando (sempre nudo) in cima a un albero, che appartenga a confraternite islamiche, eccetera.
Emarginato dall’aeronautica, Keller muore in povertà a trentacinque anni nel 1929: la sua
figura avrebbe ispirato il noto film di propaganda Luciano Serra pilota, del 1938.
31
Marco Di Giovanni, L’aviazione e i miti del fascismo, in L’aeronautica italiana cit., p. 207.
Giorgio Rochat, Italo Balbo aviatore e ministro dell’aeronautica 1926-1933, Bovolenta, Ferrara 1979, pp. 18 ss.
62
Gli ascari operanti in Libia
nei materiali dell’archivio dell’Ufficio Storico dello
Stato Maggiore dell’Esercito
di Marco Scardigli
Questo lavoro è il resoconto un’esplorazione eseguita alcuni anni fa
presso l’AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore
dell’Esercito) del materiale giacente riguardante gli ascari eritrei che combatterono in Libia per rilevare la possibilità e la praticabilità di utilizzare il
materiale sulle truppe coloniali per ricerche più complete e approfondite.
Soprattutto interessava l’aspetto di interdisciplinarietà (termine improprio,
ma non trovo di meglio) di questi militari: erano eritrei o comunque provenivano dall’Africa orientale, operavano in Libia combattendo contro i
libici, erano inquadrati dagli italiani e il materiale che ci hanno lasciato è
sostanzialmente in italiano. Rappresentano quindi una sorta di riassunto
del colonialismo italiano – e un riassunto particolarmente qualificato – e
per gli storici, un’occasione imperdibile di far interagire conoscenze, culture e tradizioni, lavorando su un unico soggetto.
Lo scopo dichiarato di questo lavoro è di invogliare qualche studente
o studioso a riprendere in mano tale materiale, approfondirlo e ricostruire
quindi la storia di tali truppe e, di conseguenza, le vicende belliche dell’Italia in Libia.
I diari di guerra
Il primo problema è stato individuare nella massa di documenti riguardanti gli ascari in Libia, quelli che permettevano in maggior misura
e con migliori probabilità di successo un lavoro interdisciplinare, come lo
abbiamo definito più sopra.
Ovviamente non potevano essere le produzioni della burocrazia militare italiana in cui l’africanità degli ascari si perde negli iter militari. Non
potevano essere nemmeno le carte strategiche, i manuali tattici, i criteri
operativi o le dottrine di impiego (sebbene tutto questo rivesta un certo in63
Marco Scardigli
teresse per il quadro d’insieme), in quanto ancora una volta spiccatamente
italiani per lingua, obbiettivi, cultura e finalità.
Ho invece individuato, come primo campo di ricerca, i diari storici dei
battaglioni – o diari storico-militari o diari di battaglione – come possibile
fonte utilizzabile per la nostra ricerca. Questi sono una sorta di riassunto
annuale delle operazioni eseguite da un reparto in cui in particolar modo
vengono segnalati spostamenti, assegnazioni alle operazioni, cambi di ufficiali e i combattimenti sostenuti.
I diari storici erano redatti da un ufficiale e, comunque, firmati e bollati dal comandante dell’unità: erano quindi documenti ufficiali sotto ogni
aspetto. Le informazioni contenute sono molto varie e dipendevano innanzitutto dalla volontà e dalla sensibilità del comandante e dell’ufficiale
estensore. Si va da documenti estremamente stringati, che non superano
le due pagine scritte in maniera evidentemente svogliata, ai veri e propri
volumi ricchi di informazioni e dettagli.
Ad esempio, il diario storico del I battaglione1 che copre il periodo 7
luglio-12 novembre 1912 riporta addirittura lo specchietto dei colpi sparati nei diversi combattimenti e, molto interessante, una tabella su quanti
fra gli ascari presenti in Libia avessero già combattuto sotto gli italiani. Si
scopre così che parecchi di essi avevano partecipato a scontri della prima
guerra d’Africa, Adua e Agordat compresi, e quindi avevano alle spalle
almeno 17 anni di servizio.
Lo stesso diario riporta le condizioni sanitarie degli ascari, così come
il diario dello stesso battaglione per il 19262, quello del III 8 febbraio-12
ottobre 19143; quello del X battaglione (giugno 1913-aprile 1914)4 che
contiene anche uno specchietto con le regioni di provenienza degli ascari5.
Stesse informazioni si ritrovano per lo stesso battaglione nel 19276, del
XVIII per lo stesso anno7, per il XIX del 19228 (qui sono riportati, fra
gli altri, 11 morti per tubercolosi), per il XX nel 1921 (si trovano ben 28
morti e 109 ricoverati per malattie su 823 uomini).
Ancora: in alcuni diari si trovano cartine o specchietti sia di movimenti,
sia di combattimenti; nel diario del VIII battaglione (5 dicembre1912-18
giugno1913) sono riportate giorno per giorno le condizioni meteorologiche (cielo, temperatura, pressione). In altri diari, all’opposto, vengono a
malapena riferite le basi di partenza, il luogo di qualche combattimento e
il nome degli ufficiali in servizio.
Ritorneremo più avanti a indagare in dettaglio sulla qualità dei conte64
Gli ascari operanti in Libia
nuti dei diari: per ora accontentiamoci di acquisire l’estrema diversificazione di questi contenuti.
Da notare che a partire dal 1914 (per quanto riguarda quello che io
ho rilevato, ma non ho trovato alcun documento che confermasse la data) la gran parte dei diari sembra seguire una traccia comune, come se ci
fosse una sorta di questionario precostituito con domande a cui l’ufficiale
estensore doveva rispondere. Questo sistema invece appare di sicuro dopo
il 1921 quando molti diari riportano 17 punti di cui l’estensore eventualmente sbarra quelli a cui non corrisponde una compilazione.
Fra queste voci da compilare e di cui però non abbiamo copia, ce n’erano sicuramente alcune sui luoghi di stanza del battaglione e dei distaccamenti, una sui combattimenti sostenuti, una sulle medaglie, menzioni o
encomi ricevuti, uno sugli avvicendamenti di ufficiali e una, infine, sulle
ispezioni ricevute. Questa strutturazione, che potrebbe rappresentare un
grosso aiuto per il nostro lavoro, in realtà è però di scarsa utilità perché
raramente seguita con puntiglio.
La copertura degli avvenimenti
Altro parametro interessante per comprendere l’eventuale utilità di
questi diari come basi per ulteriori lavori è la copertura temporale e geografica rispetto alla presenza italiana in Libia.
Abbiamo sintetizzato l’elenco dei diari nella Tabella 1, dove si possono
trovare, anno per anno, il numero del battaglione presente in Libia, la
qualità del diario (* - sintetico, ** - medio, *** - dettagliato) e il luogo di
principale stanza del battaglione.
Ovviamente sono informazioni parziali: vengono citati anche i diari
che coprono solo parti dell’anno, la valutazione sulla qualità del diario è
soggettiva, i luoghi solo indicativi, se si considera che alcuni battaglioni
arrivarono a percorrere 3.800 chilometri in dieci mesi9.
Tenendo presente queste considerazioni, la Tabella 1 ci mostra una discreta copertura temporale: solo gli anni 1917 e 1928 sono privi di diari.
Questo, sia ben chiaro, non vuole dire che non ci siano stati reparti di
ascari in Libia in quegli anni, così come non è detto che ci siano stati solo
i battaglioni citati nella tabella. Questa indica solamente i diari presenti
all’AUSSME e ancor più limitatamente, quelli presenti nelle due buste
(L8, 92 e L8, 93) destinate nell’inventario a questo tipo di documenti.
65
Marco Scardigli
Non possiamo escludere – anzi, dobbiamo tener presente come molto
probabile – che ci siano stati altri diari oggi andati perduti, oppure smarriti
in altre buste e non citati in inventario.
Ritornando alla tabella 1, si vede che sono ben coperti gli anni della
guerra italo-turca e subito successivi (1912, 1913, 1914) con 5, 6 e 4 diari
rispettivamente. Poi una presenza notevole si registra nell’epoca della riconquista a partire dal 1921 (6 diari). Nel 1922 se ne trovano 8, nel 1923
ancora 6. C’è quindi una pausa e poi le presenze subiscono un’impennata:
11 diari nel 1926 e 13 nel 1927 dopo di che il numero va scemando vistosamente.
Queste presenze corrispondono sostanzialmente alle fasi di massimo
impegno bellico italiano. Vale sicuramente per il periodo 1912-14 in cui
l’occupazione dell’interno libico, condotta al di fuori della guerra dichiarata, richiese un gran numero di presenze di ascari.
Meno coerente invece è il periodo 1921-31 dove le grandi presenze o le
assenze di diari di battaglione non corrispondono pienamente con l’impiego di questi reparti. In questo periodo però si registra la massima presenza
di diari storici per anno, negli anni 1926 e 1927.
Questo per quanto riguarda i diari in quanto tali, cioè basandosi solamente sull’esistenza del diario stesso.
Ho però detto che la qualità dei contenuti è sostanzialmente diversa da
diario a diario e documenti assolutamente sintetici (quelli segnati nella Tabella 1 con *) oppure appena appena dettagliati, ma confinati nel linguaggio e negli interessi della burocrazia (segnalati con **) sono parzialmente
utili per un ricercatore.
Così ho realizzato la Tabella 2, che riporta solo quei diari valutati in sede di esplorazione come molto dettagliati. Sono quei documenti più ricchi
di notizie, commenti e informazioni: veri e propri volumi sulle operazioni
degli ascari con molte informazioni anche sulla loro vita militare, sul loro
comportamento e su cosa facessero in Libia.
Si tratta di 24 diari suddivisibili in tre grandi fasi di operazioni: 9 riferiti al periodo 1912-16, 6 al periodo 1921-23 e 7 per gli anni 1926-27.
Riguardo a questa copertura, bisogna fare un ulteriore suddivisione,
tenendo conto la presenza di battaglioni storici e battaglioni di nuova formazione.
L’Eritrea aveva un gettito di battaglioni di ascari oscillante fra i 6 e gli
8 e questa variabilità era dovuta essenzialmente o alla situazione politica e
66
Gli ascari operanti in Libia
ai rischi di guerra della colonia orientale, o ai problemi di bilancio. Questi
battaglioni, numerati sostanzialmente da I a VIII, avevano ufficiali esperti
e militari indigeni di addestramento e tradizioni decennali. Gli altri battaglioni (numerati dal IX al XXVI) vennero assemblati appositamente per
essere inviati in Libia e venivano smantellati al ritorno in Eritrea. Questi
erano quindi inquadrati in maniera differente e soprattutto reclutavano
i loro ascari fra tutte le popolazioni dell’Africa Orientale, dalla Somalia
all’Etiopia.
La qualità delle informazioni
L’oggetto di questa ricerca era una esplorazione sui diari storico militari
dei battaglioni indigeni operanti in Libia e non c’era una parte di approfondimento dei contenuti che avrebbe ovviamente richiesto tempi di gran
lunga superiori a quelli previsti. Però, inventariando i diari, era ovvio che
qualche volta mi soffermassi a leggere i contenuti. Quella che segue non è
quindi una parte esaustiva, ma semplicemente una serie di impressioni e di
appunti disordinati e disorganici.
Di norma i diari dei battaglioni riportano questioni operazionali (presidi, distaccamenti, ricognizioni, combattimenti, scorte, lavori) e burocratiche (ufficiali presenti, cambi, ispezioni ecc.). I diari più sintetici riportano
questo tipo di informazioni limitandosi grossomodo a una paginetta. I
diari definiti medi si limitano a una risposta burocratica a questo tipo di
esigenza. I diari invece più ampi e dettagliati riportano invece – lo abbiamo già accennato – informazioni varie e spesso anche sorprendenti.
Ad esempio, il diario del III battaglione del 1914 contiene cartine dei
movimenti, delle strade percorse e dei combattimenti sostenuti. Un altro
riporta la provenienza degli ascari10, altri le condizioni sanitarie e le morti
per malattia11 e uno – già riferito – le condizioni meteorologiche. Il diario
del II battaglione del 1912 e altri contengono cartine e mappe anche di
notevole qualità.
Per quanto riguarda invece i contenuti che possono interessare maggiormente uno storico è ovvio che la parte del leone la fanno le informazioni operazionali e burocratiche. Però alcuni estensori dimostrano un’attenzione e una sensibilità che vanno ben oltre alla semplice soddisfazione
di un dovere.
Proviamo a vederne alcuni, cioè quelli che più hanno solleticato la mia
67
Marco Scardigli
curiosità. Ad esempio, nel diario del 1914 del III battaglione troviamo le
relazioni di parecchi combattimenti e degli spostamenti con la colonna
Latini. Ad esempio lo scontro riferito come Zavia Ommi Scikaneb (Del
Boca la cita come Umm esc-Schecàneb12) viene riportato come «distruzione piccolo campo beduini e fucilazione pochi beduini ivi trovati». Dopo
la distruzione di Gedabia viene riportata la raccomandazione passata alla
truppa di «non agire contro le tribù sottomesse e contro gli indigeni disarmati». Dopo una serie di nuove razzie, distruzioni e incendi, l’estensore
si sente in dovere di ripetere che alle truppe viene raccomandato che «si
rispettino donne, bambini, inermi». Si noti che il diario esistente del X
battaglione grossomodo per lo stesso periodo e che partecipa alle stesse
operazioni, è egualmente dettagliato, ma non porta nessun giudizio e nessuna misura delle azioni contro i civili: qui il nemico viene chiamato stranamente «regolare» e il resoconto viene «congelato» come una lunga serie
di combattimenti.
Nel diario del XIII battaglione riguardante il 1922 si arriva a una annotazione che, visti i tempi e il comandante delle operazioni, l’allora colonnello Graziani, è al limite dell’insubordinazione, soprattutto se si considera
che viene inserita in un documento ufficiale: «24 aprile – Marsa Dilo – Rastrelliamo le oasi incendiando case, capanne, raccolti, razziando bestiame e
passando per le armi tutti i validi alle armi. Molto sangue viene fatto versare nel compimento di sì duro dovere». Un altro spiraglio sulla realtà della
guerra in Libia ce lo offre il diario del XV battaglione per il 1927 quando
descrive la cattura di carovane di beduini e il comportamento feroce degli
ascari che agiscono spinti dal «miraggio della preda».
In conclusione, facendo riferimento agli appunti veloci presi durante lo
spoglio dei diari, le informazioni che se ne traggono sono sostanzialmente
di ordine burocratico e operazionale. Al fianco di queste si può realizzare
un mosaico di altre informazioni frammentarie che però potrebbero essere
utili a ricostruire una quotidianità del conflitto in Libia: le marce durissime torturate dalla sete e dalle insolazioni, le razzie contro le popolazioni
sospettate di appoggiare i cosiddetti ribelli oppure le controrazzie eseguite
per sorprendere i ribelli che depredavano le tribù sottomesse all’Italia.
Si possono trovare informazioni interessanti sulla vita da assediati, soprattutto nei diari che riguardano Derna e Misurata oppure sulla quotidianità di vita in territorio ostile, con il rosario delle missioni di scorta
alle colonne dei rifornimenti o alle «autopostali», di controllo e protezione
68
Gli ascari operanti in Libia
delle linee telegrafiche, dei lavori di miglioramento delle strade e dei pozzi
e di presidio e protezione delle greggi delle tribù sottomesse.
Comunque, per far comprendere pienamente le possibilità legate all’utilizzo dei diari di battaglione e anche i loro limiti, di seguito riportiamo la
trascrizione di uno di questi. Si tratta del diario già citato del XIII battaglione eritreo riguardante le operazioni in Tripolitania del 1922 comandato dal magg. Maletti13. È uno dei diari che ho classificato come dettagliato:
non è stato scelto però per qualche sua caratteristica peculiare, ma per considerazioni prettamente pratiche. Non ultimo il fatto che è uno dei pochi
dattilografati e quindi facilmente leggibile e fotocopiabile.
Comunque dovrebbe essere sufficiente per comprendere potenzialità
e limiti di questo tipo di fonti: dettaglio della quotidianità, ricostruzione
meticolosa, informazioni fresche e non elaborate, resa ottimale dell’ambiente e del «sapore» del periodo, ragionamenti, speranze, credenze del comandante. Per contro: soggettività, deformazione burocratica degli avvenimenti, tendenza all’elogio del battaglione e del suo comandante, parzialità.
Altre possibili risorse
Oltre all’esplorazione sui diari storico-militari dei battaglioni indigeni,
ho riservato una piccola parte della permanenza in archivio ad altre fonti
che potessero eventualmente essere paragonabili ed alternative ai diari.
Fra queste si possono segnalare le Relazioni mensili del Governo della
Tripolitania e del Governo della Cirenaica sulle Operazioni e sui servizi nelle
due Colonie14. Queste riguardano il periodo 1918-20 e trattano i problemi
politico-militari delle due colonie. Sono ricche di notizie e di riferimenti e
hanno collateralmente le raccolte dei carteggi col Ministero delle Colonie.
Più dettagliate e ricche sono invece le Relazioni trimestrali dei Comandi Truppe della Tripolitania o della Cirenaica15: riguardano le operazioni
condotte, l’amministrazione delle truppe e tutti i problemi socio-militari
delle colonie. A differenza dei diari, dalle relazioni trimestrali non si deduce la quotidianità delle operazioni in Libia, ma si ha un affresco generale
dei problemi delle campagne militari e anche parecchie informazioni sul
nemico combattuto.
Per completezza d’informazione ho richiesto e letto una di queste relazioni del comando delle Regio Corpo di Truppe Coloniali per la Tripolitania del primo trimestre del 192716. Vi si trova una parte sulla citazione
69
Marco Scardigli
per incapacità di due ufficiali italiani, il magg. Montalvo e il cap. D’Anna
per l’eccidio del 30 giugno 1926 alla Ridotta Siena (sul quale non abbiamo
trovato, con una prima rapida ricerca, nulla). Altro problema che vi si trova accennato è la scarsità di ufficiali che accettano di andare a combattere
in Libia.
Nella relazione del II trimestre17 si trova un elenco dei ribelli della zona
detta Mogarba e delle loro posizioni e i dati di tre razzie compiute contro
le popolazioni considerate ribelli e che portano ai seguenti risultati: col.
Teruzzi annuncia abbattimento di 500 cammelli; Ministero Colonie annuncia 4.000 cammelli e 4-500 ovini abbattuti; De Bono, infine annuncia
cattura di 20.000 ovini e di 3.000 cammelli e l’abbattimento di altri 5.000
cammelli, oltre alla requisizione di 500 fucili e 300 tende.
Nella tabella 3 ho riassunto i periodi coperti dalle relazioni: oltre ad
esse, però, nei raccoglitori ci sono abbondanti altri materiali, come le relazioni sulle situazioni politico-militari, i carteggi con il Ministero delle
Colonie, le raccolte dei dati statistici e i notiziari di informazione.
Il diario storico militare del XIII battaglione per il 192218
Gli avvenimenti descritti in questo diario si collocano nella fase della
colonia tripolitana subito successiva al momento in cui il governatore Volpi ordinò, il 26 gennaio 1922, la riconquista di Misurata, persa durante la
controffensiva araba negli anni della Grande Guerra. Questo ordine, preso
in maniera abbastanza improvvisa e senza (o con poche) consultazioni con
Roma, fece crollare il debole edificio di convivenza che resisteva dalla concessione degli Statuti e riaprì a tutti gli effetti la guerra con gli arabi e quella
fase che fu chiamata Riconquista della Libia.
In queste operazioni, che cominciano con la grave situazione in cui si
trovavano le truppe inviate a Misurata assediate dalle popolazioni arabe
che contrastavano questa rioccupazione, vede anche il nascere della stella
del col. Graziani, alla sua prima importante missione in terra africana.
Rappresentano anche l’esordio in Libia di un nuovo modo di condurre la
guerra, nato e sviluppato dalla pratica e dagli orrori della Grande Guerra.
In Italia la situazione politica invece era estremamente tesa: il fascismo
si stava dimostrando una forza difficilmente arginabile e in ottobre avverrà
la Marcia su Roma. Si noti che il governatore Volpi utilizzerà la riconquista di Misurata e le operazioni qui descritte come proprie benemerenze di
70
Gli ascari operanti in Libia
attivismo coloniale nei confronti del futuro duce.
Di questi fatti Del Boca parla in Gli italiani in Libia19 e ne parla anche
la biografia del generale Graziani20 quando definisce il periodo seguente
alla concessione degli Statuti «il periodo dell’avvilimento» e definisce invece le operazioni che partirono dal 1922 in questo modo: «[…] La parola
fu data alle armi. Santa parola sempre, quando si vuole imporre la propria
volontà ad un avversario recalcitrante, ma cento volte più santa quando si
tratta di politica indigena, e cioè svolta a contatto con mentalità barbare,
per cui il dominio della forza è il solo e vero argomento persuasivo».
Questo brevemente è il contesto storico degli avvenimenti raccontati
dal diario che segue: un buon lavoro imporrebbe che si approfondisse la
ricerca bibliografica e che si cercassero fonti sia da parte libica, sia cercando
fra le documentazioni dei battaglioni eritrei. Si potrebbe poi ricercare sul
campo la realtà attuale dei luoghi e degli avvenimenti minuziosamente
descritti nel diario. Inoltre, se consultiamo la Tabella 1, vediamo che ci
sono grossomodo altri sette diari relativi a questo anno, di cui (Tab. 2)
quattro di livello sufficientemente dettagliato, che potrebbero portare altre
informazioni da incrociare e che siano completamento di quelle contenute
nel presente documento.
19 febbr. Marsa Susa domenica
Il comando del XIII21 Eritreo riceve ordine alle 10 di tenersi pronto ad imbarcare
per ignota destinazione il 20, sulla nave S. Giusto, lasciando le salmerie in Marsa
Susa e imbarcando solo i muletti di proprietà degli Ufficiali.
In conseguenza ordino:
- che gli uomini impiegati in servizio fuori Corpo rientrino;
- che si formi, al comando del Ten. Sig. Corazza Orlando, un distaccamento eventuale al quale passeranno aggregati uomini e quadrupedi non in grado di seguire
il Battaglione
- che sia sospeso il congedamento22 dei militari che abbiano compiuto la ferma,
che rimanga alla sede solo un conducente per ogni due muli, e dispongo dei prelevamenti, la costituzione delle dotazioni ecc.
Tempo bello, brezza di N.O. mare mosso.
20 febbr. M. Susa lunedì
Alle 8 si inizia l’imbarco dei materiali e degli uomini sulla S. Giusto che ha calato
le ancore nella rada di Marsa Susa alle, ma alle 13 un fortunale improvviso fa perdere un’ancora alla nave, manda a picco due lance23 e per poco non ne sommerge
altre tre, cariche di ascari, colte di sorpresa dall’improvviso maltempo a circa un
miglio dalla costa.
71
Marco Scardigli
Assisto con terribile angoscia all’approdo di quelle tre lance che portano più di 150
uomini e riescono, dopo sforzi inauditi, a prender miracolosamente terra.
Operazioni imbarco sospese.
Tempo bello al mattino, tempestoso a mezzodì. Vento e pioggia24.
21 febbr. M. Susa martedì
Si riprende l’imbarco alle 7 coll’aiuto di un rimorchiatore giunto da Derna e lo si
compie alle 13.
Forza partente: Ufficiali 12, Sottufficiali 2, soldati 1, Graduati e ascari eritrei 602:
totale 617.
Quadrupedi da sella 14, fucili 605, mitragliatrici Fiat 2.
Alle 18 il S. Giusto leva le ancore superstiti e volge la prua verso occidente.
Cielo coperto, vento debole, mare mosso
22 febbr. mercoledì In navig.
Un radiotelegramma alle 18 nel Golfo delle Sirti reca il saluto e l’augurio del Sig.
Generale De Vita. Rispondo ringraziando l’amato generale.
Cielo coperto, brezza lieve.
23 febbr. giovedì Tripoli
Alle 7 il S. Giusto entra nel porto di Tripoli. Per la bassa marea non può attraccare.
Il XIII battaglione sbarca su maone25. Sono ad attenderlo schierati i battaglioni
VIII e XX Eritreo, la musica Presidiaria e molti Ufficiali. Si sfila in Azizia davanti
a S.E. il Governatore Conte VOLPI e al Sig. Generale TARANTO Comandante
delle Truppe. Molti battimani e molti evviva al Battaglione da parte della folla cui
è noto assai favorevolmente il XIII Eritreo. Il Battaglione accantona a Bu-Meliana,
nel campo del XVIII Eritreo che trovasi a Misurata.
Tempo bello. Temperatura elevata.
24 febbr. venerdì Tripoli
Il battaglione prende in consegna 45 muli italiani, 90 muletti abissini e cinque
carrette. Quadrupedi e materiali in cattive condizioni.
Vento violento.
25 febbr. sabato Tripoli
Separazione dei quadrupedi scabbiosi dai sani, ferratura dei muli italiani, medicazione di quelli fiaccati.
Vento impetuoso.
26 febbr. domenica Tripoli
Nulla. Tempo coperto, vento leggero.
27 febbr. lunedì Tripoli
72
Gli ascari operanti in Libia
Si completano i prelevamenti di corredo, armi, selle, bardature a salma, casse da
acqua, medicinali, ecc. e si fa istruzione nell’interno del campo.
Cielo sereno, vento caldo.
28 febbr. martedì Tripoli
Il battaglione lascia Bu-Meliana e si trasferisce a Fesclum nel campo lasciato libero
dall’VIII Eritreo imbarcatosi ieri sera per l’Eritrea.
Tempo bello.
1° marzo mercoledì Tripoli
Dalle 12 in poi il Battaglione deve tenersi pronto a muovere entro mezz’ora dall’ordine ricevuto. Sono chiamato al Comando Truppe e ricevuto dal Sig. Generale TARANTO26 che, in presenza del solo Capo di Stato Maggiore (Tenente Colonnello
NASI) mi espone la situazione.
«Qualche capo si è levato contro di noi pigliando a pretesto lo sbarco nostro a Misurata. Azizia è bloccata e nella ridotta v’è il X Eritreo; il Presidio di Raslahamar27
composto di due compagnie del XVII Eritreo, comandate dal Tenente Colonnello
Mariotti, è bloccato anch’esso. Interrotte le comunicazioni ferroviarie con Azizia e
Zavia. La prima, rifornita per via aerea può attendere, mentre Zavia rifornita per
via mare può non poter più attendere se i ribelli, come pare vogliano fare, taglieranno le comunicazioni fra l’approdo di Marsa Dila e Raslahamar. Se il nemico
attuerà questo piano, bisognerà tentare di liberare subito il Presidio di Raslahamar.
Si conta su di me, pratico del terreno e risoluto, per l’impresa che si svolgerà secondo il piano seguente: «una colonna composta del XIII e XX Eritrei, una batteria
mont. e due squadroni di cavalleria usciranno improvvisamente da Tripoli. Il XX
Eritreo e la batteria si fermeranno al Bivio Gheran, gli squadroni sosteranno alla
fermata ferroviaria Sajad a custodia del treno blindato che porterà il XIII Eritreo.
Il XIII giunto in treno da Tripoli alla fermata Sajad scenderà e punterà velocissimo
su Raslahamar (25 km da Sajad) raccoglierà quel Presidio e rapidamente si porterà
sotto la protezione del forte Sidi Bilal. Una nave da guerra, dal mare, appoggerà
in caso di bisogno il XIII Eritreo. Le informazioni sul nemico sono: 7-800 armati
nelle Oasi di Tina, Tuebia e Gargusa; 1.000-1.200 armati a Zavia».
Nulla ho da obbiettare; serbo il segreto, preparo minuziosamente il Battaglione
all’impresa. Il materiale è caricato sul treno e custodito da guardie che di 24 ore in
24 ore si danno il cambio. Ufficiali e truppa sono consegnati nel campo.
Tempo bello, ventoso.
2 marzo giovedì Tripoli
Nulla. Tempo piovigginoso.
3 marzo venerdì Tripoli
Esercitazione tattica, fuori porta Fonduk ben Gascir, col Battaglione al completo.
Tempo bello.
73
Marco Scardigli
4 marzo sabato Tripoli
Cessa l’ordine di restare consegnati nel campo. Tempo bello.
5 marzo domenica Tripoli
È pattuito un armistizio tra Governo locale28 e ribelli.
Cielo coperto.
6 marzo lunedì Tripoli
Ho finalmente ottenuto di poter sostituire i muli meno idonei con altri validi
dell’VIII Eritreo, che scelgo personalmente io stesso.
Tempo bello.
7 marzo martedì Tripoli
In seguito al completamento della salmeria il XIII ha:
116 quadrupedi prelevati dal XVIII Eritreo
19
”
” dal Deposito Quadrupedi
14”portati da Marsa Susa
149 quadrupedi in totale, dei quali 39 italiani.
Tempo bello.
8 marzo mercoledì Tripoli
Smobilitazione del treno blindato in seguito ad ordine del Comando Truppe.
Tempo bello, temperatura elevata.
9 marzo giovedì Tripoli
S.E. il Governatore si reca a Roma in forma ufficiale.
Cielo sereno, giornata assai calda.
10 marzo venerdì Tripoli
Celebrazione cinquantenario morte di Mazzini. Orario festivo.
Cielo sereno. Ghibli.
11 marzo sabato Tripoli
Il Battaglione è comandato a concorrere al servizio delle guardie del Presidio con
78 uomini al giorno.
Cielo sereno. Ghibli.
12 marzo domenica Tripoli
Nulla. Bel tempo.
13 marzo lunedì Tripoli
Nulla. Cielo sereno, brezza leggera.
74
Gli ascari operanti in Libia
14 marzo martedì Tripoli
Nulla. Cielo sereno, vento fresco.
15 marzo mercoledì Tripoli
Nulla. Cielo sereno, brezza.
16 marzo giovedì Tripoli
Il Comando Truppe con foglio 1396 R. S. ordina che il Battaglione a partire dalle
18 di domani sera si tenga pronto a muovere entro un’ora se di giorno, entro due
se di notte. Si riallestisce il treno blindato e si ristabiliscono i carichi e le guardie ai
medesimi come prima dell’armistizio. Sono invitato a conferire col Sig. Generale
TARANTO per domani alle 10.
Tempo coperto. Freddo.
17 marzo venerdì Tripoli
Sono ricevuto dal Sig. Generale assieme al Ten. Colonnello Belly, Comandante del
V libico. Egli espone il piano per la liberazione di Raslahamar, piano che differisce
da quello esposto il 1 corrente in questo: «Il XIII va in ferrovia fino a Sajad e ivi
sbarca; prosegue per Sajad fino a Greib col V libico che rimarrà in questa località
(oriente oasi El Maja). Il XIII con una batteria e tre o quattro squadroni punterà
su Raslahamar, libererà quel Presidio e ritornerà a Sajad. Il XX Eritreo rimarrà in
potenza al bivio Gheran ove sarà pure il Sig. Generale».
Esco dal colloquio raggiante e pieno di fede nel risultato dell’azione, fiero che al
battaglione sia sempre conservata la parte principale. Il colloquio è durato un’ora
e un quarto.
Tempo bello. Notte umida e fredda.
18 marzo sabato Tripoli
Scade l’armistizio.
Vengono dati i muletti a sella e le bardature ai Buluc-Basci29. Sono febbricitante
ma posso tuttavia lavorare con ardore.
Cielo sereno. Forte vento.
19 marzo domenica Tripoli
Delusione! Il Governo locale conchiude un nuovo armistizio da oggi sino al 10
aprile. Si torna a smobilitare il treno blindato.
Tempo bello.
20 marzo lunedì Tripoli
Si scaricano i materiali dal treno. I ribelli hanno catturato un alto funzionario
civile di Tripoli ch’era uscito a caccia nei pressi di Ain-Zara. Fucilate tra ribelli e
V libico.
Ghibli.
75
Marco Scardigli
21 marzo martedì Tripoli
Torna da Roma S.E. il Conte VOLPI accolto con grande entusiasmo dalla folla.
Mi reco a riceverlo assieme a tutti gli ufficiali superiori del Presidio. Egli ha una
cortese parola per tutti.
Cielo coperto. Ghibli violento.
22 marzo mercoledì Tripoli
È sbarcato il colonnello Cav. COUTURE Amedeo che formerà una colonna mobile.
Ghibli.
23 marzo giovedì Tripoli
Sbarca il I Eritreo proveniente da Massaua e sbarcano 500 complementi destinati
a rinforzare i Battaglioni Eritrei Misti. Dò30 i Tenenti Sig. Milanese e Salamone pel
provvisorio inquadramento di tali complementi.
Ghibli.
24 marzo venerdì Tripoli
Nulla. Cielo coperto, brezza.
25 marzo sabato Tripoli
Nulla. Cielo sereno, vento forte.
26 marzo domenica Tripoli
Si forma la colonna mobile al comando del Sig. Colonnello Cav. COUTURE. Ne
fanno parte il XIII e il I Eritrei, il VI libico, una batteria mont. Libica, tre squadroni Savari e i servizi relativi.
Cielo coperto, vento leggero.
27 marzo lunedì Tripoli
Nulla. Tempo bello.
28 marzo martedì Tripoli
Nulla. Tempo piovoso.
29 marzo mercoledì Tripoli
Proveniente da Misurata sbarca la 4ª compagnia del XVII Eritreo comandata dal
Capitano Sig. BARBARA e viene messa alle dipendenze disciplinari e tattiche del
XIII, quale sua 4ª Compagnia. Essa è composta di tre ufficiali e 217 militari eritrei.
Prende alloggio a Fesclum col XIII Eritreo.
Tempo bello. Caldo.
30 marzo giovedì Tripoli
Nulla. Cielo sereno.
76
Gli ascari operanti in Libia
31 marzo venerdì Tripoli
La 4ª Compagnia del XVII preleva dodici muletti abissini e venti muli italiani
presso il Deposito quadrupedi per costituirsi la propria salmeria.
Cielo sereno, giornata calda.
1° aprile sabato Tripoli
Nulla. Cielo sereno, giornata assai calda.
2 aprile domenica Tripoli
Con foglio 10 R. S. urgentissimo il Comando della Colonna Couture ordina che
il XIII si tenga pronto a muovere entro un’ora se di giorno e entro due se di notte.
Ufficiali e truppa sono consegnati nel campo. Si mobilita in fretta il treno per la
terza volta.
Cielo coperto, vento forte.
3 aprile lunedì Tripoli
Si smobilita il treno, si da libera uscita alla truppa e libertà agli Ufficiali essendo
stato revocato l’ordine di tenersi pronti ecc. di cui al citato foglio 10 R. S.
Tempo bello.
4 aprile martedì Tripoli
Nulla tempo bello.
5 aprile mercoledì Tripoli
Alle 19 un preavviso telefonico ordina di tenere pronto il Battaglione a partire per
Sidi Bilal al primo cenno. Il fonogramma 1862 del Comando Truppe conferma tale preavviso. Alle 22 tengo gran rapporto a Fesclum per dare le ultime disposizioni.
Tempo bello, caldo.
6 aprile giovedì Tripoli
Il Battaglione lascia il campo di Fesclum alle 6 del mattino forte di:
Ufficiali 15
Mil. Bianchi
3
Mil. Abissini
752
Totale770
Muletti da sella per Uff.
16
“ “ “ “truppa 49
Muletti abissini da basto
52
Muli italiani da basto
57
Totale
174
Ogni ascaro ha 200 cartucce con sé, 40 nei cofani. Tre litri d’acqua someggiato per
77
Marco Scardigli
uomo di truppa, 10 per ogni ufficiale; 2 giornate di viveri di riserva per uomini e
quadrupedi, larga dotazione di medicinali.
Il Battaglione giunge a Sidi Bilal nella mattinata e accampa sulla duna «Ascari» a
ponente del forte ma dentro la cinta dei reticolati.
Tempo caldo, foriero di ghibli.
7 aprile venerdì Sidi Bilal
Sistemazione del campo. Muli al pascolo.
Leggero ghibli.
8 aprile sabato Sidi Bilal
Giungono a Sidi Bilal il I Eritreo e il VI Libico, la Iª Batteria montagna Libica
(Chiarini) e il Comando della Colonna.
Cielo sereno, temperatura elevata.
9 aprile domenica Sidi Bilal
Ricognizione a Sud dell’Oasi di Sajad da parte del Battaglione che dispone un
servizio d’avamposti.
Leggero ghibli.
10 aprile lunedì Sidi Bilal
Nulla. Tempo bello.
11 aprile martedì Sidi Bilal
Tiro collettivo, riviste, organizzazione per la prossima avanzata.
Tempo bello.
12 aprile mercoledì Sidi Bilal
D’ordine del Sig. Colonnello COUTURE tengo una breve conferenza illustrando
il terreno sul quale si dovrà operare.
Ghibli impetuosissimo e soffocante.
13 aprile giovedì Sidi Bilal
Giunge il XX Eritreo.
Ghibli
14 aprile venerdì Sidi Bilal
Nulla. Cielo semicoperto, vento impetuoso.
15 aprile sabato Sidi Bilal
Ricevo a Tripoli l’ordine d’operazioni per la colonna COUTURE e parto in autocarro per Sidi Bilal alle 14. Uno squadrone di Zaptiè copre la marcia del veicolo.
Giungo a Sidi Bilal alle 21 dopo parecchie peripezie di viaggio. Impensieriti per il
78
Gli ascari operanti in Libia
ritardo, da Sidi Bilal mi viene mandato incontro un drappello di ascari montati su
muletto, comandato dal Tenente sig. CORBELLI del Battaglione.
Alle 22,30 il Comando Colonna dirama l’ordine d’operazione. Alle 23, a gran
rapporto, impartisco gli ordini e subito dopo li confermo per iscritto.
Tempo bello, fresco.
16 aprile Pasqua Zavia Q. 5131
Alle 2 del mattino il Battaglione s’apre un varco nel reticolato, esce dalla cinta del
forte Sidi Bilal e raggiunge il suo punto d’incolonnamento. Alle 3,15 ha inizio la
marcia. Il XIII è in retroguardia. Alle 5 si imbocca la stretta formata dalla carovaniera dell’Oasi di El Maja, e si odono le prime fucilate. Alle 6 il fuoco di fucileria
si fa violento; è la cavalleria e il XX Eritreo che si sono impegnati a Q. 50. I colpi
vengono anche su di noi e l’aria è piena di sibili. L’Aiutante Maggiore del XX
Eritreo viene a chiedere rinforzi ma il Sig. Colonnello COUTURE non aderisce e
accelera la marcia sfilando fra i reparti che si battono e la costa, verso Zavia.
La Iª Compagnia del XIII è inviata a occupare le QQ. 42 e 43. In vista dell’Oasi
di Geddaim anche la 4ª Compagnia del XIII Eritreo viene staccata dal Battaglione
(che la perde per sempre) e inviata a Marsa Dila. Alle 8 il comando del XIII colle
Compagnie 2ª e 3ª, la Sezione Mitragliatrici e le salmerie si dispone in fermata
protetta a S.W. dell’Oasi di Geddaim. In quella si ode la fucileria del I Eritreo
impegnato verso Zavia, e mi reco subito al Comando Colonna situato a Q. 48 per
ricevere ordini e sapere qual’è il compito (…).
- Il Sig. Colonnello COUTURE mi ordina di portarmi a Q. 51, occuparla,
svincolare il XX, ritirare la mia Iª Compagnia dalle QQ. 42 e 43, rafforzarmi
sulle posizioni di Q. 51. Mi dà una Sezione mont. (Tenente FADDA) a deformazione. Occupo alle 15 la Q. 51 e vi faccio rafforzare la posizione mentre
il XX Eritreo si raccoglie verso Geddaim. Rintuzzo coi pezzi da montagna la
petulanza di nuclei nemici apparsi nell’Oasi di Tuebla e a Q. 50. Quest’ultima,
verso le 17, è spazzata dal tiro della R. Nave «Campania» che vi ha scorto numerosi drappelli di cavalleria avversaria.
Cielo sereno, giornata afosa, notte assai fredda.
17 aprile lunedì QQ. 42-43
Durante la notte ricevo ordine del Comando Colonna di occupare Quota 51 sino
a prendere contatto con la Compagnia PALUMBO del 6° Libico situata sul mare
a Q. 33 e di portarmi col Comando di Battaglione a QQ. 42 e 43.
L’amplissima fronte non è tenibile con linea continua e quindi la faccio organizzare
a capisaldi.
Cielo sereno, giorno caldo e notte umida e fredda.
18 aprile martedì QQ. 42-43
Durante la notte fummo disturbati da nuclei di ribelli. La Iª Compagnia attaccata
vivacemente risponde con violenza. L’attacco si sposta e tenta il fronte della 2ª e
79
Marco Scardigli
poi della 3ª Compagnia ma senza successo. Il terreno insidiosissimo, la notte oscura, l’ampiezza della fronte, la destra un po’ in aria perché non ben saldata al XX
Eritreo (Compagnia del Capitano Sig. FEOLI del XX) mi cagionarono qualche
preoccupazione. Molti ordini non giunsero a destino32 perché i portaordini a piedi
e a cavallo, libici ed eritrei smarrirono spesso la via.
Assumo il comando del Settore Est che va da Q. 33 (sulla costa) a Q. 42-43 incluse. Ho alla mia dipendenza la 4ª Compagnia del VI Libico e la Iª Sezione della
Iª Batteria mont.
Dispongo di 20 Savari per il collegamento.
Faccio meglio rafforzare le posizioni e faccio riconoscere il terreno agli ufficiali tutti
del Settore Est. Perdite: 1 ferito grave all’addome.
Giornata calda e ventosa, notte fredda.
19 aprile mercoledì QQ. 42-43
Alle 21 si pronunzia un attacco contro un buluc della Iª Compagnia posto sulla
fascia d’osservazione, il quale riesce a sottrarsi all’accerchiamento e a portarsi sulla
linea di combattimento occupata dalla Compagnia. Un ascaro del buluc si sperde
e non rientra che all’alba. I tentativi nemici d’infiltrazione durano sino alle 2,30 sul
fronte del mio settore e del Settore Sud (Maggiore TAURINO).
Vento [illeggibile].
MANCA PAGINA 10 (giorni 21-24 aprile33)
25 aprile martedì Marsa Dila
Rastrellamento nell’Oasi di Zavia, incendio e distruzione dell’abitato. Il XIII Eritreo rinforzato dalla IV Compagnia del XVII Eritreo opera nel settore Est di Zavia.
Si ripetono gli atti repressivi e punitivi compiuti nell’oasi di Matreti e di Harscià.
Alle 14 il Battaglione rientra a Marsa Dila.
Cielo sereno, temperatura elevata, notte fredda.
26 aprile mercoledì Sidi Bilal
La Colonna COUTURE rientra a Sidi Bilal. Il battaglione è d’avanguardia a sud
della carovaniera litoranea. Nulla di notevole durante la marcia.
Dopo 11 giorni di dure fatiche, 11 notti freddissime passate all’addiaccio, Ufficiali
e truppa ritrovano a Sidi Bilal tende e coperte e possono ristorarsi con un po’ di
riposo.
Tempo bello, notte freddissima.
27 aprile giovedì Sidi Bilal
Passo in rivista il Battaglione. Un senso di depressione è negli Ufficiali che hanno
particolarmente sofferto il duro disagio delle precedenti giornate, privi di biancheria, spesso anche di viveri che il mare impediva di sbarcare a Marsa Dila. Anche gli
ascari hanno un po’ sofferto sia per le marce, sia pel mutare continuo di posizione
80
Gli ascari operanti in Libia
che li obbligava a riscavare trincee di continuo con mezzi limitatissimi e primitivi.
Parecchi muli sono fiaccati. La salmeria è composta in parte d’ascari d’altri Battaglioni passati al XIII quali conducenti, senza attitudine e con scarsa volontà.
Infliggo punizioni esemplari ai trascurati, esemplari premi in denaro ai premurosi
del quadrupede, ottenendo risultati ottimi.
Ghibli.
28 aprile venerdì Sidi Bilal
Preparativi per un’avanzata su Suani ben Adem34 che risulta occupato da ingenti
forze nemiche.
Cielo semicoperto, giornata afosa.
29 aprile sabato Suami ben Adem
Alle 3 il Battaglione si incolonna, alle 5 è a fermata Msciasta. Da questa località
«la colonna» avanza verso Suani ben Adem colla sinistra alla ferrovia nella seguente
formazione:
(esplorazione vicina di cavalleria) 3 squadroni Savari e un gruppo Spahis. Avanguardia 6° Libico – XIII e XX Eritrei la Batteria mont (Vignola) e le impedimenta
formano il grosso.
Alle 5,50 si hanno le prime fucilate e alle 7 si urta contro la resistenza principale
sulle dune mobili immediatamente a Sud di Suani ben Adem. Ricevo ordine di sostenere l’avanguardia sloggiando il nemico dalle dune. Ordino alla 2ª Compagnia
(capitano Sig. DAINESE) di [avanzare].
A ovest della ferrovia sulla quale nuclei nemici nascosti dietro grossi cespugli sparano su di noi e l’ordine viene eseguito con slancio e a fondo. Dopo mezz’ora dacché
la 2ª Compagnia si è impadronita del margine dunoso, vedendo che la resistenza
nemica non cede ancora, lancio in linea sulla sinistra della 2ª Compagnia la 3ª
(Capitano Sig. DE MARI)
All’apparire di questa compagnia la resistenza si affievolisce e il fuoco di fucileria
langue e pian piano cessa quasi del tutto. Il XX Eritreo appare in questa fase sulla
ferrovia alla nostra sinistra, mentre a destra non ci è dato di prendere collegamento
coi reparti del 6° Libico che a vista e per breve tempo, poiché quel Battaglione si
raccoglie più indietro.
Il ghibli è terribile, il tormento della sete e della sabbia turbinata dal vento mette a
dura prova la resistenza di tutti. È quasi impossibile tenere gli occhi aperti: abbiamo il vento in faccia e siamo senza occhiali (magazzini sprovvisti).
[…] Mando per istruzioni al Comando Colonna, ma i portaordini tornano senza
risposta. Alle 13 si ode un cannoneggiamento e fucileria verso sud-W a 3 o 4 km
da noi. Mando avviso al Comando Colonna COUTURE e chiedo permesso di
puntare in quella direzione, dovendosi trattare della Colonna GRAZIANI che
si è impegnata. Tardando la risposta mi reco io stesso con l’Aiutante Maggiore
in 2ª (Tenente Sig. Cantone) al Comando ove mi viene detto di restare sulle posizioni occupate, in attesa di ordini, e ne riporto l’impressione che, per oggi, l’a81
Marco Scardigli
zione debba considerarsi finita. Il signor Colonnello COUTURE mi avverte che
il Battaglione cessa di far parte della sua colonna per passare questa sera stessa al
Gruppo GRAZIANI. Alle 16 ricevo ordine di accampare a est della ferrovia. Alle
19 lo spostamento e l’accampamento del Battaglione è effettuato. Gli ascari che da
ben 17 ore sono in moto e i quadrupedi digiuni, sembra che possano finalmente
ristorarsi, ma non è così.
Un nuovo ordine chiama il Battaglione in altra località distante solo 3 km. Si toglie
il campo e ci si rimette in marcia sotto il tiro di pattuglie nemiche che obbligano
a precauzioni. Alle 22 il nuovo spostamento è compiuto. Affranti di stanchezza gli
ascari e gli Ufficiali si adagiano al suolo e si addormentano.
Io sono chiamato a rapporto dal Sig. Colonnello GRAZIANI che mi dà gli ordini
per la marcia del domani su Azizia. Alle 23 mi corico accanto al mio A.M. avvolto
nella coperta sottosella. Passano sul campo le pallottole dei disturbatori.
Ghibli.
30 aprile domenica Azizia Fonduk es Scerif Dlàm
All’una del mattino sono chiamato a rapporto nuovamente. All’1,30 sveglia pel
gruppo. Alle 2 partenza. Notte scurissima. Solo alle 3 l’incolonnamento è compiuto nel difficile terreno e la colonna marcia un po’ a caso perché neppure le guide
del luogo riconoscono la strada e si limitano a mantenere la direzione approssimativa sino all’alba. Colle prime luci la marcia si fa più spedita ma si leva un ghibli
così furioso, così caldo che tutti ne soffrono terribilmente. Incendiamo campi,
biche d’orzo e di frumento, grossi cespugli spinosi e in breve la pianura è coperta
d’una caligine di fumo che il vento infocato schiaccia contro il suolo.
Qualche raro colpo di fucile qua e là. Alle 11 arriviamo ad Azizia senz’incontrare
resistenza. Si rileva il 10° Eritreo. Si lascia in Azizia il I° Eritreo che lo sostituisce
e puntiamo su Fonduk es Scerif. Sono le 12,45; il caldo è insopportabile, il ghibli
violentissimo, la marcia penosa. A due ore da Azizia v’è uno scontro della nostra
cavalleria con 200 armati che obbliga la «Colonna» a sostare per circa tre quarti
d’ora. Si riprende la marcia ma il 10° Eritreo, non allenato e colpito da diversi casi
d’insolazione, deve rinunciare al servizio d’avanguardia. È scavalcato e sostituito
dal 13° Eritreo. Verso le 15,30 cade il ghibli. Una brezza fresca ristora le forze e gli
animi. Un aeroplano SVA ci raggiunge, getta un messaggio che segnala 500 armati
tra il Mogenin e Fonduk es Scerif. Il V e il XIII Eritrei si schierano in formazione
di combattimento e così avanzano, lasciando addietro il X Eritreo che non è più
in grado di seguire la nostra andatura. Qualche fucilata ci viene tirata, isolata, ma
si arriva a Fonduk es Scerif senza incontrare resistenza, senza trovare nessuno, rilevano i segni di un esodo recente e precipitoso in qualche località. Il sole tramonta.
Gli Spahis in ricognizione sono scambiati per ribelli dal X Eritreo e ne nasce uno
scambio di fucilate. I colpi lunghi vengono su di noi. Abbiamo un ascaro ferito e
un mulo ucciso. Si chiarisce l’equivoco e si prosegue la marcia velocemente. Alle
22 si arriva al luogo di sosta presso un pozzo. Da 21 ore il Battaglione è in moto e
non ha lasciato indietro né un uomo né un quadrupede.
82
Gli ascari operanti in Libia
Scene indescrivibili all’unico pozzo preso d’assalto dagli ascari e dai quadrupedi
assetati di due Battaglioni, in piena oscurità. Le salmerie sono abbeverate grazie
all’energia e alla calma del Tenente Sig. MINEO, a tarda ora.
Addiaccio. Ghibli d’inaudita violenza.
1° maggio martedì35 Dlàm
Il Gruppo GRAZIANI si rimette in marcia alle 5,30. Il Battaglione è d’avanguardia. Esso ha stupito tutti per l’ordine, il silenzio, la rapidità e la precisione con le
quali si è messo in riga dopo le due giornate del 29 e 30 Aprile, come se uscisse
allora dagli accampamenti di Tripoli. Alle 8,30 si arriva a Dlàm e al XIII viene
[riga illeggibile, NdA] Sull’imbrunire le vedette segnalano razzi invocanti soccorso
in direzione di Fonduk es Scerif ove deve trovarsi la Colonna COUTURE. Alle 24
il V Eritreo muove su Fonduk ben Gascir e il XIII invia la I Compagnia a guardia
del Comando Gruppo GRAZIANI e della 2ª Batteria mont. (Vignola)
Cielo sereno. Temperatura Elevata.
2 maggio martedì Dlàm
Nulla. Cielo sereno, temperatura elevata di giorno, fredda di notte.
3 maggio mercoledì Fonduk el Scerif
Alle 6 il Battaglione lascia Dlam e colla 2ª Batteria libica si porta a Fonduk es
Scerif passando per Fonduk ben Gascir. Giunge alla meta alle ore 10 e trova già sul
posto il X e il XIX Eritrei. Sosta colle misure di sicurezza, all’addiaccio, collegata
a destra col XIX Eritreo. Si predispone per un’avanzata su Sidi es Saiah ove è stata
respinta la colonna COUTURE il 1° corrente.
4 maggio giovedì Sidi es Saiah
Sveglia ore 2. Incolonnamento sulla carovaniera Funduk es Scerif – Bir Abaza. Partenza ore 3,30. Formazione di marcia: Gruppo sphais (Pescosolido) esplorazione
di cavalleria. XIX Eritreo, avanguardia. Batteria e impedimenta al centro fra i due
Battaglioni V a destra e XIII a sinistra della carovaniera direttrice di marcia. Tre
squadroni Savari di retroguardia.
In vista di Bir Abaza qualche fucilata; a Bir Abaza numerose fucilate; oltre questa
località ha inizio il combattimento grosso. Si passa il Uadi Mogenin sotto il fuoco nemico di fucileria e di artiglieria, e si continua a marciare in formazione di
combattimento verso Sidi es Saiah per oltre un’ora e mezza, col fuoco di fronte,
di fianco e alle spalle. Si sente l’avanguardia fortemente impegnata, si distinguono
i colpi delle mitragliatrici nemiche, e numerosi Shrapnels e granate cadono tra le
nostre file che avanzano celermente. L’aria è piena di sibili di pallottole e di proiettili d’artiglieria, il fuoco di fucileria si fà36 violento e l’azione prende l’aspetto di
vera e propria battaglia.
Verso le 8,30 siamo a 2000 metri da Sidi es Saiah. Si vede il marabutto e il villaggio di capanne, si distinguono nemici a piedi e a cavallo muoversi nella conca. Il
83
Marco Scardigli
Sig. Colonnello GRAZIANI mi chiama a sé, mi fa vedere il marabutto di Sidi es
Saiah e mi ordina d’attaccare la posizione subito dopo che la Batteria l’avrà battuta. Prego il Sig. Colonnello di lasciarmi attaccare la posizione all’istante senza
aspettare il tiro dell’artiglieria e, ottenuto il consenso, chiamo i Sigg. Comandanti
in sottordine, indico a ciascuno l’obiettivo da occupare e poi mi lancio a muletto
verso il marabutto, seguito
[manca nel testo]
quell’assalto impetuoso, scorgendo quell’ondata di gente nera che si precipita urlando giù per le dune, sparano pochi colpi e poi cercano scampo nella fuga. Sulle
dune prospicienti l’artiglieria e la fanteria nemica sospendono il fuoco e ripiegano
atterrite.
Frattanto le Compagnie raggiungono gli obiettivi che loro avevo assegnato e inseguono col fuoco il nemico fuggente.
A guardarmi il fianco destro avevo un plotone di cavalleria Savari (Tenente Sig.
ESCLAPON).
Poco dopo l’arrivo delle compagnie sul rispettivo obiettivo, Sidi es Saiah è in fiamme.
Il nemico ripiega verso S.E. Gli lancio alle spalle il plotone Savari del Tenente
Sig. ESCLAPON e chiedo io stesso d’inseguirlo, ma non mi è concesso dal Sig.
Comandante del Gruppo. Questi incontrandomi poche ore dopo presso il marabutto, mi viene incontro, mi getta le braccia al collo e mi bacia congratulandosi
pel modo come il Battaglione s’era lanciato all’assalto. Atto cordiale questo e scena
commovente, che per i miei Ufficiali e per mè37 sarà sempre uno dei più cari ricordi di guerra.
Giornata molto calda.
5 maggio venerdì Sidi es Saiah
Il pozzo di Sidi es Saiah è profondo una cinquantina di metri, l’estrazione dell’acqua è lunga e faticosa e il pozzo ben presto si esaurisce. Uomini e specialmente i
quadrupedi soffrono la sete. Il Comando Truppe autorizza il ritorno a Fonduk
es Scerif. La partenza fissata per le 23 non può effettuarsi essendo apparsi nuclei
nemici innanzi alle piccole guardie. Tutto il distruggibile è stato in Sidi es Saiah
distrutto.
Cielo sereno, giornata assai calda.
6 maggio sabato Suami beni Adem
Alle 4,30 la «Colonna» GRAZIANI lascia Sidi es Saiah e alle 8,30 arriva a Fonduk
es Scerif. Il XIII è di retroguardia. A Fonduk es Scerif si apprende che la Colonna
GRAZIANI va ad Azizia e perde il 13° Eritreo che passa al Gruppo PIZZARI e il
19° che passa al Gruppo BELLY.
Il Sig. Colonnello GRAZIANI rivolge parole di lode e di ringraziamento al Battaglione che si mette in marcia per Suani beni Adem dopo aver distribuito 30 ghirbe
d’acqua e la razione viveri agli ascari, e dopo aver ripreso le salmerie ordinarie che la
mattina del 4 maggio erano rimaste a Fonduk es Scerif col Tenente Sig. MAUCERI.
84
Gli ascari operanti in Libia
Tra Fonduk ben Gascir e Dlam il Btg. è raggiunto e sorpassato dall’automobile
del Sig. Generale TARANTO, comandante delle Truppe, che ha parole di lode per
l’ordine col quale il 13° marcia sotto quel sole cocente.
Grand’alt a Dlam e finalmente abbeverata abbondante ai quadrupedi che da quasi
tre giorni soffrono la sete. Il Battaglione arriva a Suani beni Adem verso le 16 e accampa presso la stazione ferroviaria. Do 24 ore di permesso per Tripoli al Capitano
Sig DAINESE e ai Tenenti Sigg. NANNI, SALAMONE, MINEO, MILANESE,
ANGELICO che partono col treno la sera stessa. Alle 18 ricevo ordine di raggiungere col Battaglione Sidi Bilal all’indomani.
Tempo bello, giornata assai calda.
7 maggio domenica, 15 per Sidi Bilal,
vi arrivo alle 11; e faccio ridare agli ascari le tende, rioccupando il posto tenuto in
precedenza. Il Tenente Aiutante Maggiore ha 24 ore di permesso per Tripoli.
Cielo coperto, vento fresco di ponente.
8 maggio lunedì Zavia
Il Battaglione si trasferisce a Zavia alle 14 e vi giunge alle 19 accampandosi a S.E.
della stazione ferroviaria.
Cielo coperto, vento di ponente.
9 maggio martedì, Zavia
Alle 6 il Battaglione che fa parte della Colonna PIZZARI esegue una spedizione
punitiva su Sorman. Operazione faticosa che il 13° compie in luogo del XX Eritreo
che non è in condizioni di poter operare; che dura sino alle 19 e si svolge in gran
parte sotto pioggia gelata e dirotta.
Bestiame razziato e consumato dagli ascari.
Vento impetuoso e gelido, pioggia ghiacciata.
10 maggio mercoledì Zavia
Sosta di riordinamento. Arrivano L.L.E.E. il Generale d’Esercito BADOGLIO e
il Governatore Conte VOLPI. La 2ª Compagnia è schierata alla stazione a rendere
gli onori all’arrivo e alla partenza che ha luogo alle 14. Concedo 24 ore di permesso
a Tripoli ai Tenenti Sigg. MINEO NANNI e CORBELLI.
Cielo sereno, giornata fresca e senza vento.
11 maggio giovedì Zavia
Ricevo 15 muli dal 17° Eritreo. Domani alle 7 si partirà per Suani ben Hamer
(Sud di Sorman).
Bella giornata, notte fredda.
12 maggio venerdì Bir Terrina
Al punto d’incolonnamento apprendo che devo avviarmi a Bir Terrina. Chiedo
85
Marco Scardigli
una guida ma non può essermi data. In questo paese privo di abitanti (son fuggiti tutti) con carte incomplete e senza punti di riferimento mi svio e arrivo alle
16,30 a Bir Uaara credendomi a Bir Terrina che è più a nord. Invio pattuglie a
cercare il collegamento e il Buluc-Basci Tesfaimariam della 3ª Compagnia lo trova
8 km circa più a nord. Il Battaglione si rimette in marcia e giunge Bir Terrina alle
22. Rientrano l capitano Sig. BOGLIETTI e i Tenenti Sigg. NANNI, MINEO e
CORBELLI. Alle 23 sono chiamato a rapporto dal Sig. Colonnello PIZZARI che
mi ordina di essere pronto a muovere l’indomani alle 3.
Giornata caldissima e serata foriera di ghibli.
13 maggio sabato Mdachem SW di El Maamura
Sveglia alle 2. Adunata alle 3. Partenza alle 3,30. Il Battaglione è di retroguardia.
Scarsa resistenza da parte nemica, si catturano e si passano per le armi alcuni arabi, si
razzia molto bestiame. Il bestiame che non può essere preso o non può seguire perché
stanco, viene abbattuto. Ghibli opprimente. I riparti giunti a Madachem in parte si
sbandano in cerca d’acqua. Solo il 13° Eritreo, mirabile esempio di disciplina, stà38
serrato al suo posto. Ordino che sia dato agli ascari un litro d’acqua preso dalle
casse di riserva. L’operazione delicata si compie dopo tante fatiche, dopo tanta sete
sofferta, sotto quel sole ardente, con un ordine e una precisione meritevoli di piena
incondizionata ammirazione.
A sera i quadrupedi possono essere abbeverati ad un pozzo lontano, con acqua
fangosa. Le fatiche e le privazioni hanno segnato il volto di tutti; i quadrupedi
denotano nell’incedere l’esaurirsi delle forze.
Gli ascari si satollano con le pecore razziate trasformando l’addiaccio in una vasta
rosticceria. Alle 20 ricevo l’ordine di movimento. Si inizierà la marcia domani alle 2.
Ghibli implacabile.
14 maggio domenica Bir Ghnem
Alle 24 il Gruppo è già tutto sveglio. Gli ascari assetati, arsi ancor più per l’abbondante pasto di carne della sera prima, sono impazienti di partire nella speranza
di trovare acqua più innanzi. Secondo gli ordini si fa alle 2 l’adunata, alle 2,30 si
raggiunge il punto d’incolonnamento ma solo alle 3,30 si può iniziare la marcia.
Nell’attesa molti muli stramazzano sotto il carico che non reggono più. A Bir el
Chsgeb si lascia la carovaniera e si piglia pei monti a nord della carovaniera Bir
Chsgeb - Bir Ghnem. Marcia faticosissima anche pel ghibli che nella sua terza
giornata è violentissimo.
Alle 10 il Sig. Colonnello PIZZARI mi cede il comando del Gruppo e mi ordina
di raggiungere Bir Sciammer. Dopo aver zigzagato dietro alla guida della Batteria
CHIARINI (un indigeno del sito) sino alle 13, si arriva a Bir Sciammer e lo si
trova asciutto! Impossibile continuare la marcia. Gli ascari cadono a decine colpiti
da insolazione e i muli stramazzano quasi tutti. Ordino l’alt e mando pattuglie
a Bir Ghnem per istruzioni sul sito da raggiungere. Le ricevo verso le 15 e solo
allora rimetto in marcia la «Colonna». Alle 16 il Battaglione raggiunge il sito as86
Gli ascari operanti in Libia
segnatogli. È assai stanco ma molto ordinato. Mi occupo col medico degli ascari
più gravemente colpiti da insolazione. Scene indescrivibili si svolgono intorno al
pozzo di Bir Ghnem già quasi esaurito, nel quale precipita un mulo assetato e nel
quale molti ascari si lasciano cadere. Con sforzi di sovrumana energia gli Ufficiali
riescono a ristabilire un ordine relativo nella presa dell’Acqua. Anche in questa
circostanza il 13° ha dato prova di ferrea disciplina e d’obbedienza assoluta ai suoi
Ufficiali. Non un uomo, non un mulo è rimasto indietro! Solo 7 casi d’insolazione
si debbono lamentare, e non gravissimi, grazie alla disciplina nella distribuzione
dell’acqua.
Al tramonto il Battaglione mette gli avamposti a due km dal pozzo, verso N. E.
Ghibli implacabile.
15 maggio lunedì Bir Ghnem
All’alba si ha qualche molestia da parte del nemico. Il Battaglione, seguito ad ordine del Sig. Colonnello PIZZARI arretra sino a 5-600 metri dal pozzo allo scopo
di restringere la fronte. Faccio disinterrare il pozzo Sciammer dal Ten. Sig. MAUCERI e questi con abnegazione e non senza pericolo riesce dopo ben 9 ore di ininterrotto lavoro ad abbeverare i quadrupedi del Battaglione. I ribelli dalle pendici
dei monti sparano su Bir Ghnem. La colonna GRAZIANI lascia Bir Ghnem alle
18 e si trasferisce ad Azizia.
Ghibli meno violento dei giorni precedenti.
16 maggio martedì Bir Ghnem
La partenza del Gruppo GRAZIANI ha migliorato la disponibilità d’acqua di Bir
Ghnem. Gli ascari tra lavori di trincea, avamposti, guardia al bestiame, fatiche per
attingere acqua, abbeverare i muli, cercare foraggi e legna percorrendo molta strada
non hanno modo di riposare.
Sono chiamato a rapporto. Si partirà alle 22 per Maamura. All’ora stabilita si fa
ammassamento nell’oscurità più profonda, ma il nemico sembra comprendere ciò
che avviene e spara su di noi che non rispondiamo. Si inizia la marcia. Il 13° è in
avanguardia.
Cielo sereno, giornata calda, notte quasi illune.
17 maggio mercoledì Bir Gammudi
Si marcia tutta la notte e buona parte del mattino. Verso le 9,30 si arriva in vista
di Maamura occupata dal V Eritreo. Dopo breve sosta il Battaglione deve marciare
un’altra ora e mezza per arrivare a Bir Gammudi che gli è stato assegnato per la
presa d’acqua. Il pozzo non si esaurisce, fortunatamente, e il 13° può finalmente
dissetarsi. Alle 16, chiamato a rapporto, ricevo l’ordine di movimento per domani
su Azizia.
Cielo sereno, giornata caldissima.
87
Marco Scardigli
Le giornate dal 18 maggio al 26 non contengono altre informazioni utili.
Il Battaglione giunge ad Azizia, poi in treno arriva a Tripoli dove viene
imbarcato sulla R. Nave Operosità. Sfilata il 18 davanti al Governatore
e colazione del Maggiore Maletti con le autorità tripoline il giorno dopo
(Volpi, Badoglio, Taranto, ecc.). Il 20 e il 21 maggio vengono trascorsi
preparandosi per l’imbarco che avviene il 21. Il 22 la nave parte: il 24 fa
scalo a Bengasi dove gli Ufficiali possono festeggiare la ricorrenza del 24
maggio (anniversario dell’inizio della Grande Guerra) con una cena e danze al Circolo Roma.
Il 25 il battaglione riparte e il 26 ritorna a Marsa Susa.
Note al testo
1
L8, 92, Diario Storico del I battaglione indigeno.
2
Ibidem.
3
L8, 92, Diario Storico del III battaglione indigeno.
4
L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno.
5
Ibidem. Le regioni/popolazioni di maggior provenienza sono Amhara (185 uomini), Tigrai
(48), Somalia (26) e Galla (22).
6
L8, 93, Diario Storico del X battaglione indigeno.
7
L8, 93, Diario Storico del XVIII battaglione indigeno.
8
L8, 93, Diario Storico del XIX battaglione indigeno.
9
L8, 92, Diario Storico del III battaglione indigeno, 8 febbraio-12 ottobre 1914.
10
L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno, giugno 1913-aprile 1914.
11
L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno, 1922. Citate due morti per broncopolmonite
durante il viaggio e 4 per febbre tifoidea in Libia. Ivi, Diario Storico del XVIII battaglione indigeno, 1927 vengono riportati 11 morti per malattia, nel diario storico del XIX (1922) vengono
riportati 28 morti per malattia di cui 11 per tubercolosi. Il XX battaglione nel 1921 ebbe 28
morti per malattia e 109 ricoveri su 823 uomini.
12
Angelo del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Laterza, RomaBari 1988, p. 237.
13
L8, 93. I riferimenti sono alla carta al 1:100.000 per la zona costiera e la carta al 400.000 per
quella interna.
14
Le Relazioni mensili presenti nell’archivio sono tutte inventariate in L8, 171.
15
Le Relazioni trimestrali si trovano sempre in L8 ai raccoglitori 172, 173, 174, 175.
16
L8, 174, Relazioni trimestrali del Regio Corpo Truppe Coloniali della Tripolitania (gennaio-dicembre 1927).
17
Ibidem.
88
Gli ascari operanti in Libia
18
L8, 93. Comando del XIII battaglione eritreo (misto).Stralcio riassuntivo del Diario Storico Militare delle operazioni di guerra in Tripolitania del 1922, Marsa Susa (Cirenaica), 31 dicembre
1922.
19
A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 402 ss.
20
Sandro Sandri, Il generale Rodolfo Graziani, Arti Grafiche Bertarelli, Milano-Roma 1935XIV, pp. 76 ss.
21
Così nel testo.
22
Così nel testo.
23
Così nel testo.
24
Ogni resoconto giornaliero finisce con la seguente dicitura: «IL MAGGIORE Fto P. Maletti»
che omettiamo in quanto assolutamente ripetitiva.
25
Galleggiante usato per il carico e lo scarico dei bastimenti nei porti.
26
I nomi dei personaggi più importanti vengono riportati tutti in maiuscolo per rispetto.
27
Nell’opera citata di Del Boca, a p.402, è scritto Ras Lamhar.
28
Si noti come il comandante del battaglione eritreo si senta diverso ed estraneo rispetto all’amministrazione coloniale tripolina.
29
Grado degli ascari: comandante di un plotone (buluc).
30
Così nel testo.
31
Indica «Quota 51».
32
Così nel testo.
33
Sono i giorni in cui, nel diario del battaglione si trova l’annotazione che abbiamo già riportato
nel testo: «24 aprile – Marsa Dila – Rastrelliamo le oasi incendiando case, capanne, raccolti,
razziando bestiame e passando per le armi tutti i validi alle armi. Molto sangue viene fatto
versare nel compimento di sì duro dovere».
34
In Ambrogio Bollati, (Enciclopedia dei nostri combattimenti coloniali fino al 2 ottobre 1935,
Einaudi, Torino 1936, pp. 217-218) il nome della località è riportato come Suani Beni Adem.
Vi si riferisce che questa era stata base dei turco-arabi fino al 1912, occupata dagli italiani il
16 novembre1912 e abbandonata nell’estate 1915. Nel 1917 ci fu un tentativo di riconquista
fallito da parte della colonna Cassinis. Le operazioni riportate qui di seguito, che porteranno
alla riconquista di questa località e di Fondugh Ben Gascir furono condotte dalle colonne Couture, Belly, Graziani, Pizarri e Gallina. Si trovano cenni nello stesso volume di Bollati a p. 176.
35
In realtà, lunedì.
36
Così nel testo.
37
Così nel testo.
38
Così nel testo
89
Marco Scardigli
Tabella 1 - Tabella cronologica e collocazione geografica
dei diari storico militari dei battaglioni
luogo di
luogo di
luogo di
luogo di
stanza batt. stanza batt. stanza batt. stanza batt.
anno
batt.
1912
I ***
Derna
1913
III***
Tripoli,
Orfella
1914
e
III *** Bengasi
interno
1915
IX***
1916 VIII***
III*** Tripoli > II***
IX
solo
allegati >
X
***
Tripoli IV** > Bengasi VIII** Derna >
Cirene
II
colonna ***+**
Tripoli IV** Bengasi
Latini >
IX
solo
allegati
X
***
Cirene
colonna
Latini
V
***
Brak
?
batt.
luogo
VIII
**
Derna
batt.
luogo
Derna,
Sidi
Bengasi, VIII*** Mesri,
Cirene
Tagiura >
Sidi
Mesri,
Tagiura
IX**
Bengasi
XI*
?
III
***
Tripoli,
Homs
?
XVI*
?
XVII*
XVIII* Misurata
XX
***
Tripoli
Marsa
Susa,
Tripoli
XV*
?
XVII* Misurata XVIII
*** Misurata
XIX
***
XX Tripoli +
Tagiura **+***
Zanzur
1917
1918
XI*
?>
1919
I*
Misurata
1920
I*
1921
XIV*
Colonna XV**
Azzoni
1922
XIV*
XIII***
1923
II*
1924
1925
VII*
VII*
1926
I**
1927
IX*
Beni
Agedabia,
XVIII
XVIII Ulid
XX Tagiura
+ XIX* Tarhuna ***
Tarhuma VIII** Misurata ** Misurata **+* Misurata
?>
?
Zliten,
Tripoli,
Siracusa, IV* Cirene XIV* Gebel > XVI
?
XVII** Tarhuna XVIII
***
** Misurata XIX* Gadames
Derna
?
X**
1928
1929 XVII***
1930 XIX*
Hon
Hom
XX*
XX*
Hon
Hon
1931
XVII*
Hon
XIX**
Jefren,
Geriat
1932
1933
XVII**
XVII*
Hon
Hon
XIX**
XIX*
Mida
Mizda
Bengasi XIV*
* = sintetico; ** medio; *** dettagliato
90
luogo
Gebel
XV
***
?
XVI*
?
XVII
rovinato XVIII
***
XXV Beni Ulid
> = il diario prosegue nell’anno successivo
+ = diari diversi per lo stesso anno
Tripoli,
Mizda
Gli ascari operanti in Libia
Tabella 2 - Tabella cronologica e collocazione geografica
dei diari maggiormente dettagliati
anno
batt.
luogo di
stanza
batt.
luogo di
stanza
batt.
luogo di
stanza
batt.
luogodi
stanza
1912
I ***
Derna
III***
Tripoli >
II***
Tripoli
1913
III***
Tripoli,
Orfella
X***
Cirene colonna Latini >
II***
Tripoli
1914
III ***
Bengasi e
interno
X***
Cirene colonna Latini
V***
Brak
1915
IX***
Derna, Bengasi, Cirene
VIII***
Sidi Mesri,
Tagiura >
1916
VIII***
Sidi Mesri,
Tagiura
III***
Tripoli, Homs
XVIII***
Misurata
XIX***
Tagiura
XX***
Zanzur
XXVI***
Tripoli
1917
1918
1919
1920
1921
XX***
Tripoli
1922
XIII***
Marsa Susa,
Tripoli
1923
XX***
Tagiura
1926
XVI***
?
XX***
Bir Gheddabia
XXI***
Bengasi
1927
XV***
?
XVIII***
Tripoli, Mizda
XX***
El Hesna ?
XVII***
Hon
1924
1925
1928
1929
> = il diario prosegue nell’anno successivo
91
Marco Scardigli
Tabella 3 - Tabella cronologica delle relazioni trimestrali del comando
RCTC
92
Anno
Tripolitania
Cirenaica
1921
gen/dic
apr/sett
1922
lug/dic
gen/sett
1923
apr/giu
1924
lug/dic
1925
gen/mar
1926
gen-mar-ott-dic
1927
gen/dic
apr/set
gen/mar
1928
gen/dic
1929
ott/dic
1930
gen/mar
Bestie, e umani.
Un documento per la storia dei campi di concentramento
in Cirenaica
di Nicola Labanca
La storia militare
La storia della rete di più di una dozzina di campi di concentramento,
fra grandi e piccoli, che il regime fascista decise di istituire in Cirenaica per
‘pacificarla’, dal 1930 al 1933 non è facile da scrivere. Il primo problema è
dato dai documenti, che scarseggiano o sono difficili da trovare. Il secondo
è dato dalla distrazione della storiografia, italiana e internazionale, che non
li cercano. Il terzo problema è dato dalla politica degli Stati, in primo luogo italiano, ma anche libico, che non incoraggia questi studi.
Le conseguenze di questo triplice ordine di problemi e difficoltà sono
anch’esse quanto meno a tre livelli. La comprensione di cosa fu il fascismo
in colonia, e cosa fu il colonialismo del fascismo rispetto al colonialismo
delle altre potenze europee del tempo1, ne esce amputata. La comprensione della storia della Libia risulta indebolita da una lacuna su un tema
così importante, soprattutto per la Cirenaica2. Il passaggio dai silenzi e dai
miti del tempo coloniale ad un’età compiutamente postcoloniale3 (e non
solo decolonizzata) è tardata, in Italia, in Libia, nel Mediterraneo. Questo
anche perché non mancano tendenze a far dimenticare o a ridimensionare
l’episodio.
Qualunque contributo documentario che aiuti a superare queste difficoltà e a dissipare le nebbie dell’incertezze che ancora avvolgono la vicenda, anche una sola busta, anche un solo fascicolo, persino anche una sola
carta dovrebbe essere considerata benvenuto.
I campi
Non stupisce quindi se molte nebbie ancora ostacolano una conoscenza
storica adeguata alla rilevanza dell’evento. Della vicenda dei campi di con93
Nicola Labanca
centramento in Cirenaica sappiamo ormai per certo alcune cose, ma molte
sono ancora incerte.
Nell’essenza, la vicenda è nota4. Lo spostamento coatto degli accampamenti della popolazione del Gebel cirenaico e la creazione di campi di
concentramento rappresentò un punto decisivo della politica di ‘riconquista’ armata della Libia lanciata dai governi liberali nel 1921, una volta che
si era abbandonata la politica di reciproco riconoscimento e di accettazione
varata nel 1917. La decisione di istituire i campi di concentramento era
stata presa congiuntamente – ai diversi gradi di responsabilità – da Benito
Mussolini, del ministro delle Colonie Emilio De Bono, del governatore
della Libia generale Pietro Badoglio e del vicegovernatore della Cirenaica
colonnello Rodolfo Graziani. Nei campi doveva essere internata i seminomadi della Cirenaica, accusati (a ragione) di sostenere la guerriglia anticoloniale guidata a distanza dall’emiro senusso Sayyid Ahmad al-Sharif ibn
Sayyid Muhammad al-Sharif al-Sanusi (e poi da Sidi Muhammad Idris
al-Mahdi al-Senussi, dal 1951 Idris I) e condotta sul campo dal suo luogotenente Omar al-Mukhtar. La popolazione fu obbligata a muoversi a
partire dal gennaio 1930 mentre i campi furono resi stabili nell’estate dello
stesso anno. Sottraendo l’‘acqua’ della popolazione al ‘pesce’ della resistenza, sarebbe stato più facile prendere quest’ultimo. In effetti così fu. Omar
al-Mukhtar fu preso e impiccato (non fucilato, con grande sdegno della
popolazione musulmana) nel settembre 1931. I campi non furono però
sciolti subito: gli italiani volevano essere sicuri che, dopo Omar, ogni altro
focolaio di rivolta fosse spento. Solo nel 1933, non senza dover vincere qualche resistenza nell’amministrazione coloniale favorevole a renderli
un’istituzione permanente, i campi furono sciolti. Dopo anni di detenzione la popolazione cirenaica non sempre poté tornare ad utilizzare i territori
che da secoli aveva abitato: nei migliori terreni si erano ormai insediati i
coloni italiani.
Attorno a quest’essenza, ormai accettata in tutte le storie della Libia e
non più negata o taciuta come nei vecchi manuali italiani di storia coloniale, troppe però sono ancora le nebbie. Le poche conoscenze documentate si
mescolano a punti non chiariti o ancora non sufficientemente documentati. Quanti furono gli internati? Quanti morirono nei (o a causa dei) campi?
Quanti tornarono ai propri luoghi di insediamento? A queste domande
non vi sono ancora risposte precise. Oltre a questi principali, permangono
anche questioni di contorno, sia pure importanti. Chi costruì i campi?
94
Bestie, e umani
Chi vi fece guardia? Come erano organizzati al loro interno. Per ognuna di
queste domande abbiamo risposte ancora da precisare. Sappiamo per certo, ad esempio, che la loro definizione di campi, accampamenti, campi di
concentramento fu interscambiabile per gli stessi organizzatori. Sappiamo
che l’organizzazione dei campi era fatta per linee etniche. Sappiamo che
l’esercito e i carabinieri ebbero un ruolo rilevante. Sappiamo che poche
altre potenze coloniali ebbero la forza di organizzare in quegli anni simili
politiche di resettlement, o politiche di popolazione: non a caso sin dall’inizio i campi in Cirenaica furono avversati a Londra e a Parigi, e con gran
forza dalla nascente opinione pubblica araba transnazionale, fra Africa e
Asia. Sappiamo che alcune decine di migliaia di cirenaici sparirono dalle rilevazioni dei censimenti coloniali: forse tre decine di migliaia si spostarono
(erano seminomadi) in Egitto, nel Ciad, in Algeria, in Tunisia; ma quanti
altri ‘sparirono’ nei e a causa dei campi? Sappiamo che lo spostamento
delle popolazioni verso i campi costituì in moti casi vere e proprie ‘marce
della morte’ e che, una volta internate, all’interno dei campi la mortalità fu
alta: ma quanti morirono?
Peraltro rispondere a queste domande permette di scegliere le parole
giuste per definire la vicenda. Al tempo si parlò di sterminio, a partire dagli
anni settanta-ottanta si è parlato di genocidio. Documentate risposte aiutano a scegliere le categorie giuste, a non sottovalutare la tragedia denunciata dalle fonti libiche, a capire qual è stata la ferita inferta dai quei campi
alla storia demografica, politica ed economica della Cirenaica.
Studi sui campi
Le risposte e le cifre mancano ovviamente perché le ricerche e le pubblicazioni sui campi di concentramento in Cirenaica sono troppo poco
numerose.
Rodolfo Graziani se n’era gloriato nei suoi libri, ma era stato avaro di
cifre5. I manuali di storia coloniale erano stati elusivi6. Più franco, ma sempre vago, era stato qualche funzionario coloniale, persino a regime fascista
caduto7. L’antropologo britannico Evans Pritchard vi aveva fatto cenno,
nel suo canto alla libertà dei beduini coartata dall’Italia e dal fascismo,
fornendo le prime cifre serie8. Nella storia ufficiale della colonizzazione
italiana edita dal ministero degli Affari esteri della repubblica, fra anni cinquanta e settanta, la questione dei campi di concentramento fu ignorata9,
95
Nicola Labanca
e singolarmente persino uno studioso serio come lo statunitense Claudio
G. Segrè, nel suo studio sulla colonizzazione del 1974, eluse il tema10. La
prima vera ricerca, e ad oggi ancora l’unica, è quindi stata quella di Giorgio
Rochat che, fra il 1973 e il 1979, ha studiato le carte Graziani11. A Rochat
si sono rifatti, in genere riconoscendo i debiti, sia Eric Salerno nel 197912,
che ha fatto in tempo ad intervistare qualche protagonista, sia Angelo Del
Boca nel 198613. Di tutte le ricostruzioni, quella più organica e diffusa
rimane ad oggi quella di Del Boca. In seguito una bella fonte è stata quella
usata da Ali Abdullatif Ahmida che, per descrivere le condizioni di vita nei
campi, ha fatto parlare la poesia popolare locale14. Di recente Federico Cresti ha ricostruito questo percorso, nel suo studio sulla presenza italiana in
Cirenaica a partire dalle carte dell’Ente per la colonizzazione della Cirenaica, non tace come Segrè ma non può apportare nuove cifre sul tema perché
l’Ecl arrivò dopo i campi di concentramento15. Purtroppo tutti questi studi
occidentali hanno fatto a meno di utilizzare, per ragioni linguistiche la cospicua raccolta di fonti orali accumulata a Tripoli dagli studiosi del Libyan
studies center, e parzialmente persino edita a stampa (in lingua araba: un
primo elenco è però disponibile anche in una bibliografia edita in Italia
dieci anni fa16).
In conclusione, il disinteresse di una parte dei cultori italiani verso i
meccanismi della repressione coloniale sta alla base del ritardo degli studi.
Ma una parte di responsabilità è stata anche nella scelta politica dello Stato
italiano che non ha mai seriamente incoraggiato questo genere di studi.
Eppure la politica dei campi provocò, direttamente e indirettamente, un
colpo non solo alla demografia della Cirenaica ma anche alla sua economia.
La rilevanza delle conseguenze economiche dei campi di concentramento è stata più volte accennata dagli studiosi, Questi, da Pritchard a
Rochat a Del Boca, hanno menzionato il crollo di quell’allevamento su cui
le popolazioni seminomadi dell’interno della Cirenaica basavano la propria vita. Purtroppo, la storiografia italiana sul colonialismo è stata in genere assai poco attenta alla storia economica dell’Oltremare: quindi anche
quest’aspetto è non è stato studiato come avrebbe meritato.
Quanto accadde al bestiame avrebbe potuto invece essere una spia indiretta di quanto nel frattempo stava avvenendo agli umani.
96
Bestie, e umani
Bestiame, e popolazioni
Il documento che qui si presenta, estratto dalle collezioni del Centro di
Documentazione inedita dell’Istituto agronomico dell’Oltremare di Firenze, un archivio della cui rilevanza già si è scritto17, ha quindi un’importanza
primaria, pur gettando luce sul problema da una prospettiva apparentemente laterale. Ovviamente, trattandosi di un solo foglio, non esaurisce
affatto il problema, ma ne conferma l’entità e ne segnala l’importanza. In
una parola, funziona da pro memoria e sollecita altri studi.
Le popolazioni internate nei campi di concentramento erano seminomadi e dedite all’allevamento del bestiame. Transumavano dal monte
(el-Jebel el-Akhdar) al piano (le oasi verso il mare). La quantità del bestiame era anche una misura indiretta della loro dimensione e della loro
ricchezza. Il potere coloniale lo sapeva da tempo, e cercava di censire con
un certa attenzione quel bestiame, anche a fini di prelievo fiscale. I servizi
agricoli in colonia ne stilavano periodicamente delle liste. Gli specialisti
dell’agricoltura coloniale, nella madrepatria, e fra questi i tecnici dell’Istituto Agricolo Coloniale Italiano (fondato nel 1904 a Firenze, poi Istituto
agricolo fascista, poi Istituto agronomico per l’Africa Italiana, infine – ma
solo dopo il 1953 – Istituto agronomico per l’Oltremare) tenevano d’occhio l’importante questione. Sulla rivista dell’istituto si era notato che – ad
esempio proprio a livello zootecnico – «tutto l’equilibrio […] è venuto a
mancare» 18, che dopo il 1933 «il patrimonio zootecnico va sempre più
aumentando»19 dal misero livello cui era caduto anche se «è ancora lontano
da quello massimo che può sopportare la colonia»20: insomma, l’intrecciarsi di operazioni militari per la riconquista, anni di siccità e campi di concentramento, la Cirenaica aveva assistito ad un eccezionale «deperimento
del patrimonio zootecnico»21.
Nel dopoguerra, quando fra 1947 e 1949 cercò di riottenere qualcuna
delle colonie fasciste, l’Italia di De Gasperi dovette controbattere le richieste libiche miranti all’indipendenza. In quel contesto, fra marzo ed aprile 1948 arrivò all’Istituto di Firenze, diretto allora dallo stesso Armando
Maugini che lo aveva guidato dal 1924, una richiesta. (Forse proveniva da
Roma, dal ministero dell’Africa italiana – un dicastero in via di smantellamento che supportava il governo per un impero che non c’era più – o forse
dalla Libia, da quello che rimaneva dell’Ente colonizzazione della Libia,
anch’esso un ente-stralcio ormai, visto che il dominio italiano era finito
97
Nicola Labanca
98
Bestie, e umani
ormai da un quinquennio). Si voleva sapere, evidentemente con lo sfondo
i libici che richiedevano l’indipendenza, che cosa avesse fatto di buono
l’Italia in Cirenaica. La pratica finì sulla scrivania di Enrico Bartolozzi,
un tecnico agrario di vaglia che si era occupato da tempo della questione.
Bartolozzi raccolse varie statistiche e scrisse a Roma.
Le statistiche messe assieme da Bartolozzi occupano, nel documento
originale, poco più di una pagina22. Ma sono preziose perché riflettono,
da una prospettiva apparentemente ‘tecnica’ e ‘neutra’, la ferita inferta dai
campi di concentramento. Il crollo del numero e della composizione de
bestiame cirenaica, estratto da Bartolozzi da più fonti, è indubitabile e
mette a mal partito – dalla prospettiva delle bestie prima ancora che da
quella degli umani – ogni tentativo di relativizzare la severità della vita nei
campi di concentramento in quella Cirenaica fra 1930 e 1933. I campi
non possono essere ridimensionati.
Le cifre di Bartolozzi dicono però anche qualcosa di più, che può avere
a che fare con il mito libico nazionalista col tempo creatosi attorno a quei
campi, visti come supremo oltraggio alla dignità umana dei colonizzati. Le
ricostruzioni libiche più critiche accusano unilateralmente il colonialismo
fascista di Graziani e Badoglio. Per la verità, i dati di Bartolozzi precisano
che un declino nel numero del bestiame allevato e commercializzato dai
seminomadi della Cirenaica era evidente non solo già da prima dei campi,
ma anche da prima della crisi del 1929, che com’è noto colpì duramente
le economie coloniali, e in particolari quelle mediterranee. Anche se la
crisi era precedente, con radici endogene o almeno legate all’andamento
del mercato internazionale coloniale, le cifre però rivelano che la ferita
inferta dai campi di concentramento fu netta e brutale. Da tecnico, Bartolozzi non si premura di celare questa realtà. Come non cela che i dati
di cui dispone non sono concordanti, frutto di una conoscenza coloniale
della realtà largamente meno precisa di quanto ogni potere ‘bianco’ voleva
affermare. I dati sono concentrici nell’indicare, per gli anni dei campi di
concentramento, una crisi radicale dell’allevamento da parte delle popola99
Nicola Labanca
zioni seminomadi della Cirenaica.
Infatti, se i campi non c’erano stati (come avrebbe voluto la politica del
segreto del regime fascista) come spiegare quel crollo? E, ugualmente, se
erano i campi esistiti ma erano stati finalizzati al benessere delle popolazioni da salvaguardare dall’asprezza della lotta alla ribellione, perché l’allevamento era crollato? Non era forse quel crollo una conferma che i campi c’erano stati e che le condizioni di vita in essi erano state pesantissime? I dati
della seconda metà degli anni trenta parlavano chiaro. (A fronte di questo
va segnalato che invece il personale dello stesso Istituto, chiamato a scrivere la storia ufficiale della colonizzazione negli anni sessanta dal ministero
degli Affari esteri, dal quale adesso dipendevano, avrebbe taciuto la realtà,
alludendovi sotto ellittiche affermazioni per le quali «vari anni […] [furono] turbati da eventi politici poco propizi all’esercizio dell’agricoltura»…).
La storia economica della Libia coloniale è ancora da scrivere. Ma i dati
raccolti nel 1948 dal personale di quello che era ancora l’Istituto agronomico per l’Africa italiana (di una Repubblica ormai senza colonie), non
parlano solo del bestiame. Essi documentano indirettamente quanto profonda era stata la ferita inferta dal colonialismo fascista e dai suoi campi di
concentramento.
Era stata una ferita inferta non soltanto al bestiame ma soprattutto alla
popolazione della Cirenaica e alla storia della Libia.
Note al testo
1
Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976-84, e Gli italiani
in Libia, ivi, 1986-88; e Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il
Mulino, Bologna 2002 (ried. 2007).
2
N. Labanca, Gli studi italiani sul colonialismo italiano in Libia, in Un colonialismo, due sponde
del Mediterraneo. Atti del seminario di studi storici italo-libici, a cura di N. Labanca, Pierluigi
Venuta, CRT, Pistoia 2000.
3
N. Labanca, Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare, in
Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia, a cura di Giovanni Contini,
Filippo Focardi, Marta Petricioli, Viella, Roma 2010.
100
Bestie, e umani
4
Giorgio Rochat, La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-31, in «Il movimento di liberazione in Italia», a. 1973 n. 110, poi Id., La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981
(ora in Id., Guerre italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, Pagus, Paese 1991).
5
Rodolfo Graziani, Cirenaica pacificata, Mondadori, Milano 1932. Su cui cfr. Alessandro
Cova, Graziani un generale per il regime: la prima biografia documentata di uno dei personaggi
piu violenti e controversi della nostra storia, che ha incarnato miti, ferocie e contraddizioni del
periodo fascista, Newton Compton, Roma 1987; Giuseppe Mayda, Graziani l’Africano. Da
Neghelli a Salò, La Nuova Italia, Firenze 1991; Romano Canosa, Graziani: il maresciallo d’Italia, dalla guerra d’Etiopia alla Repubblica di Salò, Mondadori, Milano 2004; N. Labanca,
Un generale del fascismo: Rodolfo Graziani, in Il Ventennio fascista. Dall’impresa di Fiume alla
Seconda guerra mondiale (1919-1940), a cura di Mario Isnenghi, Giulia Albanese, vol. IV, t. I,
di Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura di
Mario Isnenghi, Utet, Torino 2009, pp. 503-511.
6
Ministero degli affari esteri, Comitato per la documentazione delle attività italiane in Africa,
L’Italia in Africa. Serie economico-agraria, L’avvaloramento e la colonizzazione, t. I, Armando
Maugini, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico, MAE-OIA, Roma 1969.
7
Corrado Zoli, Espansione coloniale italiana (1922-1937), L’arnia, Roma 1949.
8
Edward E. Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica, Clarendon, Oxford 1949, trad. it.
Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale: i Senussi di Cirenaica, introduzione
di Vittorio Lanternari, Edizioni del Prisma, Catania 1979.
9
A. Maugini, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico, cit., e L’avvaloramento e la colonizzazione, t. III, P. Ballico e G. Palloni, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico della
Tripolitania e della Cirenaica, MAE-OIA, Roma 1971.
10
Claudio G. Segrè, Gli italiani in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano
1978.
11
G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31) cit.
12
Eric Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979, poi ried. come Id., Genocidio
in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, ried. Manifestolibri,
Roma 2005.
13
A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi cit. Cfr. anche Ercolana Turriani, La riconquista fascista della Cirenaica e i fuoriusciti libici in Egitto, in «Contemporanea», a.
X (2007) n.2, pp. 251-271.
14
Ali Abdullatif Ahmida, The Making of Modern Libya. State Formation, Colonization, and
Resistance, 1830-1932, State University of New York Press, Albany, N. Y. 1994 (poi Boulder,
Colo., netLibrary, Incorporated, 1997); e Id., Forgotten Voices: Power and Agency in Colonial
and Postcolonial Libya, Routledge, New York 2005.
15
Federico Cresti, Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana della Libia, Carocci,
Roma 2011 (ma cfr. già Id., Oasi di italianità. La Libia della colonizzazione agraria tra fascismo,
guerra e indipendenza, 1935-56, Società Editrice Internazionale, Torino 1996).
16
N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale, Olschki, Firenze 2004.
17
N. Labanca, An extraordinary field to plough. The unpublished documentation centre of the
Istituto agronomico per l’oltremare of Florence and its wealth, in «Journal of agriculture and environment for international development» (già «Rivista di agricoltura subtropicale e tropicale»),
vol. 101 (2007), n. 3-4, pp. 195-218. Riedito come Id., Uno straordinario campo da coltivare.
Il Centro di documentazione inedita dell’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e le sue
101
Nicola Labanca
ricchezze, in «I sentieri della ricerca», a. 2009 n. 9-10, pp. 113-132.
18
«L’agricoltura coloniale», a. XXXIII (1939), p. 639 (dicembre).
19
Ivi, a. XXVI (1934), p. 438 (giugno).
20
Ivi, a. XXVI (1934), p. 554 (agosto).
21
Ivi, a. XXIX (1935), p. 273 (marzo).
22
Istituto agronomico per l’Oltremare, Centro di documentazione inedita, fasc. 824, 1948, Enrico
Bartolozzi, Dati statistici sulla consistenza del bestiame e sua ripartizione in Cirenaica. 1 p. datt. a
lapis ‘Dati inviati al dott. Gioivia’ (?), 26 aprile 1948. Dott. Bartolozzi. Dati risalenti al 1911,
1925-35, 1934, 1937, 1940. Ringrazio il dr. Riccardo De Robertis per l’aiuto prestato: nonché, ovviamente, la Direzione dell’Istituto e la responsabile della Fototeca, Biblioteca e Centro
di documentazione inedita per la loro consueta disponibilità e simpatia.
102
Bestie, e umani
Appendice
Enrico Bartolozzi, Dati statistici sulla consistenza del bestiame e sua ripartizione in Cirenaica (1948)
bovini
cavalli
asini
muli
ovini
caprini
cammelli
1925
10.400
2.200
11.870
420
658.500
61.440
27.175
1925
10.400
2.200
11.870
420
658.500
61.440
27.175
1926
10.630
4.000
9.360
650
800.000
69.400
75.000
1927
11.500
3.750
10.070
390
615.000
49.000
63.000
1928
8.934
2.484
10.631
72
715.099
1929
9.850
2.330
8.600
165
485.000
36.000
39.550
1930
6.600
1.340
8.000
265
175.000
32.000
26.000
1931
4.800
1.100
1.800
395
85.000
7.000
17.400
1933
8.360
945
5.180
295
*
*
2.600
1934
9.493
199.000
60.000
8.900
1935
14.500
2.330
5.200
410.000
75.000
16.500
1940
25.000
1.000
5.500
500.000
300.000
9.000
480
suini
37.781
* = 125.000 fra ovini e caprini
1940 =
valutazione
Giuliani
1934,
ripartizione per
zone
Bengasi
3.001
82.543
12.377
1.675
Barce
2.563
27.910
3.413
291
460
Cirene
1.995
9.853
11.411
Derna
1.370
13.883
5.814
339
Tobruk
411
13.476
9.661
2.097
Agedabia
153
51.528
17.614
4.038
Totale
9.493
199.193
60.289
8.900
1937, aziende agrarie italiane
Prov.Bengasi
3.903
369
197
55
57.994
7.278
189
327
Prov.Derna
1.432
567
19
64
4.616
743
23
386
Totale
5.335
936
216
119
62.610
8.021
212
713
103
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e
istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
di Isabella Abbonizio
Introduzione
La vita sociale e culturale delle colonie è stata oggetto di particolare
attenzione da parte degli studiosi negli ultimi decenni. Indagini multidisciplinari nel campo della memorialistica, dell’etnografia, del cinema e
dell’architettura hanno aperto nuove prospettive di analisi sull’argomento,
fornendo spunti originali per una più approfondita comprensione del contesto coloniale, della relazione tra le colonie e la madrepatria e di quella dei
dominatori con la popolazione locale. La Libia, per la particolare posizione
rivestita nel progetto espansionista italiano, è stata al centro dell’interesse.
Ad oggi numerosi aspetti sono tornati alla luce ma altrettanti attendono
di essere studiati. Al fine di fornire un ulteriore tassello nella ricostruzione
della vicenda della colonia nordafricana, nel presente articolo sottoporremo ad analisi la politica culturale adottata in Libia con specifico riferimento all’ambito musicale e al periodo fascista. Attraverso un’analisi delle
principali istituzioni e attività musicali realizzate dagli italiani in Libia ci
prefiggiamo di porre in evidenza il ruolo della musica d’arte nel processo
di costruzione dell’identità nazionale all’estero, i termini in cui l’ideologia agisce sulle scelte programmatiche, le modalità attraverso le quali la
cultura musicale nazionale viene importata, coltivata, diffusa e recepita
nella colonia. Ci prefiggiamo inoltre di rilevare l’atteggiamento dei dominatori italiani nei confronti della cultura musicale araba – nella duplice
manifestazione tradizionale e d’arte – le modalità e i luoghi di diffusione
di quest’ultima, nonché l’influenza delle direttive politico amministrative
sulla politica culturale coloniale.
La cultura riveste un ruolo centrale per il funzionamento del sistema
epistemologico su cui si regge il colonialismo in età moderna. All’interno
del contesto coloniale essa è al contempo strumento di conquista, strategia
105
Isabella Abbonizio
di affermazione politica e mezzo di consolidamento del potere.
Nel caso italiano e con maggiore enfasi durante il periodo fascista, l’occupazione di territori extra-nazionali si fonda sulla pretesa superiorità culturale dei dominatori e sulla loro presunta capacità di guidare i dominati
verso il superamento dello stato di arretratezza. La cosiddetta ‘missione
civilizzatrice’ diviene infatti uno dei luoghi comuni del discorso coloniale
nazionale. Da un altro punto di vista, l’immaginaria estensione territoriale al di là del Mediterraneo enfatizzata dalla propaganda coloniale porta
con sé la necessità di ricreare un ambiente familiare per i coloni. Il fine
demografico del colonialismo italiano influisce considerevolmente nella
definizione del profilo delle città coloniali. Queste ultime, infatti, vengono
modellate nel tempo in maniera da assumere un’apparenza sempre più
conforme a quelle della madrepatria, importando numerosi elementi sia
della cultura materiale sia di quella spirituale. La colonia nordafricana,
per di più, è concepita quale vera e propria ‘vetrina’ del dominio italiano
in Africa: l’apposizione di inequivocabili segni distintivi di possesso e l’organizzazione di eventi culturali di prestigio diviene strategica per un’azione di propaganda diffusa a livello internazionale. In Libia quest’ultima si
coniuga anche con le esigenze di un’economia del turismo in espansione,
la quale ha avuto un ruolo non secondario nel progetto di sviluppo della colonia. Nel territorio mediterraneo, inoltre, la cultura, in questo caso
quella del dominato, diviene anche un utile strumento di mediazione con
la popolazione locale. Quando durante gli anni del governo di Italo Balbo
l’atteggiamento nei confronti degli indigeni muta verso una prospettiva assimilazionista e di collaborazione, numerose sono le iniziative di diffusione
e preservazione delle tradizioni libiche promosse dal governo coloniale1.
Sulla base di quanto delineato si evince che le principali direttive alla base della politica culturale coloniale in Libia ricalcano le linee-guida
dell’organizzazione economico-sociale del territorio dominato: colonialismo demografico, organizzazione del turismo e politica indigena.
Tra gli elementi culturali che gli italiani importano nei territori conquistati, all’arte e alla musica viene riservato uno spazio significativo. Le cronache coloniali delle capitali libiche abbondano di notizie che testimoniano
la presenza di una vita artistica vivace e dinamica. Teatri e sale da concerto
offrono occasioni di ritrovo per i residenti in colonia e luoghi di prestigio
da presentare a turisti e visitatori. Artisti e compagnie nazionali e stranieri
si alternano sul palco dei teatri principali offrendo spettacoli di opera, ope106
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
retta e di musica da camera in parallelo con analoghe istituzioni italiane.
Il processo di rimozione che ha seguito la caduta del fascismo e la perdita delle colonie nel dopoguerra ha impedito per lungo tempo un’analisi
oggettiva dell’argomento. La difficoltà nel reperimento delle fonti, inoltre,
ha con ogni probabilità allontanato ogni tentativo d’indagine sul tema. La
musicologia nazionale non si è addentrata nell’analisi della relazione tra
musica e colonialismo, limitandosi a rilevare soltanto segni evidenti del
coinvolgimento dell’ambiente musicale nazionale nel progetto coloniale2.
Recenti ricerche da parte dell’autrice riportano alla luce inedite testimonianze di una partecipazione diffusa al progetto coloniale nazionale anche
da parte dell’ambito musicale colto, su vari fronti, dalla propaganda, alla
partecipazione diretta alla vita artistica delle colonie, all’interesse etnografico nei confronti delle tradizioni locali3.
Come vedremo, la musica d’arte in colonia assume un ruolo di primo
piano nel processo di affermazione e promozione dell’identità nazionale. Il
teatro, sconosciuto nella sua forma occidentale alla cultura indigena nordafricana, diviene uno dei simboli culturali del dominio territoriale italiano. All’opera in musica viene riservato uno spazio privilegiato nel processo
di consolidamento del potere coloniale, quale massima espressione di una
cultura complessa ed evoluta, di una tradizione culturale che ha radici nel
passato, simbolo del primato italiano in ambito artistico. In contrasto, al
folklore musicale indigeno è rimandato il compito di rappresentare la cultura del dominato come involuta, statica, impietrita nel passato4.
Sin dalla primissima fase di espansione in Nordafrica nei primi anni del
XX secolo, manifestazioni artistiche di cultura italiana affiancano le operazioni di penetrazione pacifica attivate dagli istituti finanziari5. Secondo
le fonti, risalgono a questo periodo le prime rappresentazioni, in forma
ridotta, di opere italiane di repertorio. La costruzione dei primi edifici con
finalità artistiche risale all’inizio degli anni venti, quando i primi emigranti
trovano nei teatri un luogo di ritrovo e di svago. Progressivamente, con
lo sviluppo del sistema turistico e al fine di soddisfare le esigenze di un
pubblico maggiormente elitario attratto in colonia attraverso le crociere
internazionali, vedono la luce operazioni di restauro e di riconversione di
vecchi edifici e nuove costruzioni destinate all’intrattenimento.
Il ‘periodo d’oro’ della colonia dal punto di vista culturale e artistico
coincide con gli anni del Governo Balbo (1934-1940). Nel tentativo di
conferire prestigio alla Quarta Sponda, durante gli anni di guida del terri107
Isabella Abbonizio
torio nordafricano, il Maresciallo dell’aria persegue un vasto programma
di modernizzazione, sviluppo economico, controllo sociale e promozione
culturale mai realizzato prima. In particolare, Balbo si adopera per assegnare a Tripoli «i segni distintivi della capitale»6. In questo frangente la Libia
conosce numerosi e ambiziosi progetti anche dal punto di vista musicale.
Istituzioni artistico-musicali in Tripolitania e Cirenaica
Soffermandoci sui due principali centri economici e commerciali della
Libia, capoluoghi delle due regioni che si affacciano sul Mediterraneo, Tripolitania e Cirenaica, le istituzioni artistiche di maggior prestigio sono: a
Tripoli il Teatro Miramare e il Teatro Uaddan, a Bengasi il Teatro Berenice.
Per la costruzione di questi edifici il governo coloniale richiede le competenze dei maggiori architetti italiani del tempo, i quali realizzano strutture
all’avanguardia e in linea con le mutevoli concezioni architettoniche in
terra d’Oltremare. La storia delle istituzioni artistiche coloniali, ricostruita
attraverso una meticolosa indagine sui quotidiani e le riviste storiche, è
strettamente connessa alle dinamiche della politica estera del regime. Nel
corso di questa trattazione analizzeremo nello specifico la vicenda e l’attività di queste organizzazioni culturali all’interno del contesto coloniale,
rilevandone punti comuni e specificità.
Sulla base delle nostre analisi, sebbene nella peculiarità delle singole
istituzioni, si evincono alcuni tratti specifici che accomunano i teatri coloniali nazionali: se da un lato essi ricalcano le tendenze prevalenti delle
strutture italiane, dall’altro si distinguono per la presenza dell’elemento
esotico nella programmazione. I teatri coloniali, come quelli italiani, sono
spazi polifunzionali (chiamati politeama) attivi anche come sale cinematografiche; solitamente ospitano artisti e compagnie di bandiera provenienti
dalla madrepatria ma sovente richiedono la partecipazione di complessi
residenti nei territori limitrofi politicamente allineati con l’Italia.
In linea con le finalità prettamente turistiche dei teatri coloniali, i cartelloni prevedono un elemento di originalità rispetto alle istituzioni italiane: gli spettacoli di musica e danza araba, un momento di attrazione che
riscuote grande favore da parte del pubblico. Si tratta, tuttavia, di performance di colore locale in cui l’esperienza dell’esotico è comunque filtrata
attraverso l’arte e la cultura europee.
Bisognerà attendere la seconda metà degli anni trenta per trovare un’at108
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
tenzione inedita nei confronti del folclore arabo autentico, non mediato,
anche se prevalentemente strumentale al mantenimento dell’ordine sociale
e al contenimento della protesta dei libici. Come vedremo più avavnti, lo
spazio riservato alle tradizioni libiche, tuttavia, è sapientemente filtrato
attraverso le tecnologie più aggiornate importate dagli italiani in colonia,
nel caso specifico la radio, rafforzandone in tal modo la posizione di supremazia e predominio.
Cirenaica
Nella capitale della Cirenaica, Bengasi, il progetto per un grande teatro,
ideato a partire dal 1925, viene realizzato soltanto in seguito alla pacificazione militare della regione che giunge sette anni più tardi rispetto alla Tripolitania, all’inizio degli anni trenta7. La struttura artistica più importante
della città è il Teatro Berenice, dall’antico nome della città nordafricana,
ubicato in posizione centrale prominente, nella piazza del Re. Il teatro è in
grado di ospitare un pubblico di circa millequattrocento persone, presentandosi come il secondo teatro più grande della Libia, dopo il Miramare
di Tripoli. Costruito in stile novecentista all’inizio degli anni trenta da due
architetti esperti in materia di architettura teatrale, Marcello Piacentini e
Luigi Piccinato8, l’edificio adotta le più moderne conquiste della teoria
costruttiva nel campo dell’acustica e dell’organizzazione degli spazi9. Come
è testimoniato dalle cronache locali, il teatro ospita le tournée delle compagnie di opera, operetta e prosa italiane, solitamente di passaggio dopo le
rappresentazioni al Miramare. L’istituzione è gestita dalla Società teatrale
anonima per la gestione di spettacoli pubblici e delle sue propietà immobiliari, guidata dall’ebreo Halfalla Nahum, attivo da più di un decennio nella
vita culturale della città libica10. L’esiguità delle fonti su questo teatro non
ci permette una trattazione più approfondita.
Tripolitania
Nel territorio occidentale della Libia, con capitale Tripoli, le operazioni
di pacificazione seguite alla riconquista militare all’inizio degli anni venti si
concludono più velocemente rispetto alla Cirenaica. Anche per questa ragione, la città principale può vantare una vita culturale più intensa rispetto
alla zona costiera orientale. Tra il 1927 e il 1939, inoltre, un grande even109
Isabella Abbonizio
to commerciale con cadenza annuale richiama in colonia visitatori dalla
madrepatria e dall’estero: la Fiera di Tripoli. Intorno alla manifestazione,
momento di massima affluenza di stranieri nel dominio mediterraneo, si
modella il calendario turistico coloniale e con esso il cartellone dei teatri.
La Fiera si svolge tra aprile e maggio di ogni anno, contestualmente alla
quale la vita culturale tripolina conosce un particolare fervore con la realizzazione della stagione di punta dei massimi teatri. Con la salita di Italo
Balbo al governo della colonia (1934-1940), il turismo riceve un significativo investimento e la stagione turistica si estende per un periodo di otto
mesi (marzo-ottobre).
Il primo teatro coloniale tripolino, il Teatro Politeama o Politeama
Nazionale, risale, con ogni probabilità, alle fasi iniziali di dominazione
italiana. L’edificio è infatti ubicato nel quartiere arabo di Suk el Turk, dentro le mura della città vecchia (Al-Madina Al-Qadima), dove risiedono i
primi nuclei di italiani emigrati in colonia. L’esiguità di testimonianze su
questo teatro non ci permette una trattazione esauriente delle attività che
vi si svolgevano. Sappiamo soltanto che nel 1928 funziona come teatro
di operetta, rivista e di quei generi ibridi in voga al tempo11. Deve essere
stata proprio la particolare dislocazione di questo edificio a determinarne il
quasi totale abbandono dell’attività alla fine degli anni venti, sostituito dal
Real Teatro Miramare, un ampio edificio situato sul lungomare destinato
a divenire il massimo teatro coloniale nazionale, valido testimone di un
ventennio di dominazioni italiana in Libia. Tuttavia, il Politeama conosce
una nuova stagione di vitalità nella seconda metà degli anni trenta, quando il forte impulso dato all’organizzazione turistica dal Governo Balbo
determina il ripristino del vecchio teatro ed una temporanea riconversione
in Teatro Orientale, destinato agli spettacoli di compagnie nordafricane12.
In epoca imperialista, sotto il Governo Balbo e contestualmente allo
sviluppo del turismo, vede la luce il Teatro Uaddan, inserito in un nuovo
complesso polifunzionale con annesso casinò, elitario, esclusivo, riservato
alle alte gerarchie e ai turisti più facoltosi ed esigenti. All’Uaddan si esibiscono alcuni tra i migliori artisti italiani, i quali trovano la possibilità di
rendere servizio al potere esportando la propria arte nel territorio coloniale.
In linea con il tentativo di creare una colonia simbolo del potere espansionista nazionale, degne di rilievo sono le manifestazioni organizzate nei
siti archeologici restaurati, in particolare a Sabratha, sede di un magnifico
ed imponente teatro romano, «se non il più vasto certo il più sontuoso»13.
110
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
La presenza di testimonianze del passato imperiale sul suolo libico rappresenta per l’Italia un forte sostegno al progetto coloniale e il regime investe
copiose risorse nella valorizzazione di questi luoghi rendendoli fruibili a
fini turistici. Dal 1937 a Sabratha il regime sovvenziona gli spettacoli di teatro antico sul modello di quelli realizzati a Siracusa, coinvolgendo, come
accade nella madrepatria, nomi di rilievo nel panorama teatrale e musicale italiano14. Nel resto della regione della Tripolitania le attività artistiche
si limitano al livello amatoriale, prevalentemente con l’organizzazione di
compagnie filodrammatiche, attive anche nelle rappresentazioni di operette15. Numerosi sono gli altri luoghi d’incontro attivi principalmente con
funzione di cinematografo (svolta del resto, come abbiamo visto, da tutte
le istituzioni artistiche in colonia) i quali si moltiplicano nel corso degli
anni con un forte incremento dalla metà degli anni trenta16.
Tripoli e il Real Teatro Miramare
Durante il periodo espansionista italiano, Tripoli svolge un ruolo di
primo piano nella rappresentazione del potere coloniale nella «quarta
sponda». Città portuale ubicata in posizione strategica, prossima alle coste
italiane, Tripoli è sede di sbarchi commerciali e turistici; essa costituisce,
inoltre, un importante ponte di comunicazione dell’Italia col Nord Africa
ed un essenziale punto di controllo sul Mediterraneo.
Il Teatro Miramare, il più grande teatro coloniale italiano per capienza
di pubblico, rappresenta uno dei principali simboli della cultura italiana in Libia. Sede di stagioni d’opera e operetta, spettacoli di varietà, teatro di prosa e proiezioni cinematografiche, il teatro svolge un’importante
funzione per la legittimazione del potere coloniale nell’Oltremare. La sua
ubicazione lungo la passeggiata del Lungomare Volpi, accanto al Castello,
ben visibile dal porto, lo rende elemento di spicco nel panorama cittadino
osservato dal mare. Costruito successivamente al Politeama Nazionale, è in
realtà anch’esso concepito come un politeama: nel corso degli anni ospita anche spettacoli circensi, competizioni sportive, spettacoli di magia e
quant’altro potesse attirare i gusti del pubblico. È inoltre il primo ad aprirsi
agli spettacoli di musica e danza orientale, che hanno luogo nella struttura
dal 1932, rispondendo al gusto per l’esotico che attrae i turisti in colonia.
Nel corso degli anni il teatro ospita cerimonie ufficiali con la partecipazione di alti gerarchi del regime.
111
Isabella Abbonizio
L’edificio e la gestione
L’edificio del Teatro Miramare conosce tre diverse fasi di costruzione e
rifacimento (1921, 1928, 1938) che ricalcano da vicino la storia politicoeconomica della colonia e le mutevoli concezione architettoniche succedutesi. Nella seconda metà degli anni trenta, la gestione del Miramare
passa da privata a pubblica, rientrando nelle competenze dell’Etal, l’Ente
turistico alberghiero della Libia17.
1921: nasce il Teatro Miramare, «un luogo di ritrovo» per la città
Il primo nucleo dell’edificio risale all’inizio degli anni venti, durante la
guida del possedimento d’Oltremare da parte di Giuseppe Volpi (19211925). Promotore ed artefice della «Rinascita della Tripolitania», il Conte
di Misurata si impegna nella costruzione di un’immagine appropriata alla
manifestazione della presenza italiana e inaugura un iniziale progetto di
sviluppo del sistema turistico18. Il teatro è situato al nord dell’albergo Savoia, appartenente ai medesimi proprietari, Ditta Rodino e Salinos, attivi
nell’ambito dell’edilizia tripolina e, più tardi, anche nell’organizzazione
turistica della città19.
In questa fase, il Miramare «più che un teatro puro e semplice» è concepito più che altro come «un luogo di ritrovo»20.
1928: il primo rifacimento per «un vero teatro coloniale»
Con la raggiunta pacificazione della regione e l’incremento delle attività economiche sotto le direttive del nuovo governatore, il quadrumviro
Emilio De Bono (1925-1934), si fa sempre più urgente la necessità di
fornire l’«Africa romana» di un «vero teatro coloniale»:
[…] un teatro che sarà all’altezza dei più importanti spettacoli, che darà lustro e decoro
alla Capitale coloniale in questo periodo di rinnovazione edilizia, di effervescenza di
vita nuova di preparazione a nuovi slanci sulla base sempre più solida e più vasta della
sua valorizzazione agraria21.
Tale esigenza si concretizza nella costruzione ex-novo del Miramare,
dalle macerie del nucleo precedente, raso al suolo. L’operazione si rivela retoricamente funzionale alla celebrazione di una «nuova era» del processo di
112
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
Teatro Miramare, facciata esterna.
Fonte: «L’Italia coloniale», luglio 1928, p. 149.
colonizzazione. L’edificio, nella sua rinnovata fattura, sostituisce il vecchio
Politeama ed inaugura una nuova stagione della vita artistica della città22.
L’edificio è costruito e gestito dalla Società per alberghi, ristoranti e
teatri (Spart), diretta dal cav. Giuseppe Abela Salinos – probabilmente
lo stesso proprietario dell’albergo Savoia e del teatro, citato prima23. È la
stessa società ad occuparsi dell’organizzazione e realizzazione del cartellone
del teatro, comprese le stagioni liriche. Si tratta, con ogni probabilità, di
una prima esperienza di gestione delle strutture turistiche, più tardi estesa
e ufficializzata con la fondazione dell’Ente turistico alberghiero della Libia
(Etal) nel 1935, un’organizzazione sponsorizzata dalle autorità fasciste,
chiamata a guidare l’industria del turismo in Libia24.
Il Miramare si staglia nella passeggiata del Lungomare Volpi con una
gaia facciata in stile neo-moresco, intonandosi per sfarzo e luminosità ad
altre importanti costruzioni italiane a Tripoli di nuova realizzazione, come
la Banca d’Italia e il palazzo del Governatore25. A progettare e realizzare il
nuovo teatro coloniale, due professionisti residenti a Tripoli, Aldo Bruschi
e Angelo Piccardi. Le soluzioni architettoniche adottate rivelano la tendenza, in voga in quegli anni, a fondere il vernacolo locale con elementi
113
Isabella Abbonizio
stilistici nostrani in un’accezione di mediterraneità alquanto sfumata26. La
scelta di uno stile orientale consente, allo stesso tempo, di non «distaccarci
eccessivamente dalla bellezza esotica e viva dell’ambiente»27 e di garantire
alla colonia un aspetto caratteristico, affascinante per i turisti. Una soluzione in futuro criticata dagli architetti razionalisti che provvederanno ad
adattare l’estetica del teatro al rinnovamento del gusto.
La struttura del nuovo edificio presenta caratteristiche tali da farne uno
dei luoghi più prestigiosi della colonia. Gli interni mostrano una volontà
di ostentazione con lo sfoggio di elementi di lusso, luci, colori, ornamenti,
pitture e stucchi decorativi che contrastano violentemente con il contesto
esterno. Il palco è costituito da scene fisse ad opera di Antonio Rovescalli28, scenografo del Teatro alla Scala29. Complessivamente il Miramare è in
grado di ospitare un ampio pubblico di circa milleottocento spettatori30.
L’omaggio di De Bono alla città costiera porta indelebile il suo nome,
impresso sulla parte frontale dell’arco strutturale che sovrasta il palcoscenico, preceduto dall’anno di costruzione espresso secondo il calendario
fascista: «Anno VI Consule De Bono».
A rinforzare la già forte paternità italiana e l’orgoglio nazionalista per le
realizzazioni coloniali, è un’allegoria dipinta sul sipario, opera del pittore
catanese Alessandro Abate31, dal titolo L’Italia moderna nel suo sviluppo,
illuminata dalla visione di Roma Imperiale32. L’immagine si staglia orgogliosamente sullo sfondo di ogni celebrazione ufficiale ospitata dal teatro, con
la bandiera italiana e il simbolo reale ben visibili sul lato superiore.
Il Miramare è dotato di due ampi foyers e di un lussuoso bar in stile
arabo33. A partire dal 1932, con la valorizzazione dell’elemento di colore
locale quale mezzo di attrazione per i turisti, una delle sale accessorie in
stile orientale34, rinominata «salone moresco», ospita anche compagnie di
spettacoli orientali. Nei mesi estivi, la vasta terrazza sovrastante il teatro
rappresenta un ulteriore spazio di attività, dedicata all’intrattenimento
mondano35.
1938: secondo rifacimento, il rinnovamento razionalista
Dieci anni più tardi, in linea con le mutate concezioni stilistico-architettoniche, la sala principale del Teatro Miramare viene completamente
trasformata. Il mutamento del gusto si esprime con pesanti giudizi estetici
sulla precedente realizzazione:
114
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
1954, vol. 8, p. 1999.
73
Gustavo Gallo (Nardò 1904 - Firenze 1982).
74
«L’Avvenire di Tripoli», 14 marzo 1935.
75
Bruno Monticone - Ito Ruscigni et al., La cultura attorno al Casinò di Sanremo in Sanremo
cent’anni di casinò, De Ferrari Editore, Genova 2005, pp. 45-168.
76
B. McLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 71-77.
77
Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 19-20 maggio 1936. La direttiva, inopportuna sotto molteplici
punti di vista, scatena presto una diatriba con i gestori del Teatro Miramare Per gli stessi artisti,
lo spostamento in colonia sarebbe stato di gran lunga più conveniente prevedendo più manifestazioni nella stessa città. La scelta, tuttavia, garantisce al Teatro l’esclusiva per gli spettacoli e
assicura all’organizzazione un nutrito pubblico.
78
Corradina Mola, clavicembalista. Svolge atività concertistica in Italia e nelle pricipali capitali
europee.
79
Vito Carnevali (1888-1960), pianista e compositore. Si esibisce nei maggiori centri d’Europa
e dell’America del Nord.
80
Carlo Zecchi (Roma 1903 - Salisburgo 1984), pianista e direttore d’orchestra. Per maggiori
informazioni biografiche cfr. Daniele Lombardi, Carlo Zecchi. La linea della musica, Nardini,
Firenze 2005.
81
F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., pp. 26-31.
82
Corradina Mola chiude il programma dell’ultimo concerto all’Uaddan del 22 gennaio 1939
con due brani di «musica araba», dal titolo Marcia e Canzona. L’iniziativa è particolarmente
apprezzata dal pubblico e dall’organizzazione: all’artista viene infatti richiesta un’esecuzione
dei brani di musica orientale alla nuova radio coloniale. Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 22 gennaio
1939. Purtroppo non sono state trovate testimonianze a riguardo.
83
La compagine si esibisce presso il Palazzo del Governo, il Teatro della Casa Littoria, il Miramare e l’Uaddan, riservando per quest’ultimo un programma di musiche antiche italiane
(Paisiello, Cherubini), di grandi compositori del passato (Mozart, Wagner) e di Ravel. Cfr. I
concerti a Tripoli dell’Orchestra da camera del R. Conservatorio, «S. Pietro a Majella. Bollettino
del R. Conservatorio di Musica - Napoli», III, n. 3-4, giugno 1940, pp. 30-32.
84
A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 237-242.
85
«L’Avvenire di Tripoli» 4 febbraio 1938.
86
«L’Avvenire di Tripoli» 12 gennaio 1935.
Teatro Miramare. Il cartellone della prima stagione lirica
Fonte: «L’Avvenire di Tripoli», 1º aprile1928.
115
Isabella Abbonizio
Stasera, dopo svariati mesi di chiusura, si riapre il Teatro Miramare. Il pubblico, però,
avrà una sorpresa: troverà la sala completamente rinnovata. E diciamo rinnovata e
non restaurata o rimaneggiata, perché l’architetto Di Segni36, al quale si deve tutto il
progetto dei lavori eseguiti, ha completamente rifatto tutto il complesso del vecchio
ambiente, che, senza tema di smentite, era brutto ma brutto assai37.
L’impatto estetico viene notevolmente alleggerito, le tinte schiarite e i
disegni resi uniformi, secondo i criteri di gusto razionalista che guidano le
nuove architetture della madrepatria e dell’Impero38.
Sostituito ormai da quattro anni il governatore De Bono, prima da Pietro Badoglio, poi da Italo Balbo, viene cancellata, con l’eliminazione delle
decorazioni e il cambiamento dei colori, anche l’iscrizione a suo nome.
Le ragioni dell’ammodernamento non si limitano allo stile. Seguendo
l’esempio del nuovo Teatro di Bengasi il rifacimento punta ad un adeguamento alle nuove concezioni di architettura teatrale, finalizzate ad una migliore visibilità del palcoscenico da ogni ordine di posti, maggiore comodità e miglioramento dell’acustica39. Inoltre, la crescita della popolazione
e del movimento turistico40 e soprattutto la scelta di una programmazione
esclusivamente destinata a soddisfare i gusti del pubblico comportano un
necessario incremento del numero di posti, che raggiunge duemila unità41.
Tuttavia, per stare al passo con i tempi, il restauro del solo interno non
è sufficiente a soddisfare l’esigenza di un rinnovato gusto estetico e la stampa annuncia un’operazione ben più efficace:
[...] Quanto prima verrà dato principio ai lavori per il rifacimento anche della facciata
del nostro maggior teatro cittadino42.
Non abbiamo purtroppo notizie circa la realizzazione del progetto.
Com’è evidente, in un’epoca di totalitarismo autarchico gli elementi
di colore locale lasciano sempre più il posto a chiare manifestazioni di
identità nazionale moderna. Se il Miramare si trasforma, infatti, un nuovo
teatro per la capitale nasce e si afferma a metà anni trenta nel prestigioso
complesso turistico Uaddan.
In ogni caso, il Miramare rinnovato non vive a lungo e il processo di
damnatio memoriae della vicenda coloniale nazionale nel secondo dopoguerra contribuisce a cancellarne ogni traccia. Una violenta conflagrazione durante il terrible bombardamento aeronavale di Tripoli del 21 Aprile
1941 rade al suolo l’edificio e il forte legame con la dittatura ne nega ogni
diritto di memoria43.
116
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
La programmazione musicale
La stretta connessione dell’attività del Teatro Miramare con l’organizzazione turistica ci orienta nella comprensione delle scelte programmatiche
dell’istituzione tripolina. Spettacoli di opera, operetta e, dai primi anni
trenta, di musica e danza orientale rappresentano i cardini della programmazione, proposti in concomitanza con la massima affluenza del movimento turistico durante la Fiera di Tripoli. Durante il resto dell’anno, il
teatro funziona prevalentemente come cinematografo, con brevi stagioni
di operetta e varietà e saltuari incontri sportivi, attività che si intensificano nell’ultimo periodo di vita dell’istituzione. Gli alti costi delle stagioni
liriche, resi ancora più alti dal ristretto numero di orchestrali e cantanti
residenti in colonia e dalla scarsa affluenza di pubblico, non consentono
l’organizzazione regolare negli anni di spettacoli operistici nè la definizione
di una compagnia stabile. A calcare il palco del Miramare per le stagioni
liriche troviamo imprese italiane attive nella madrepatria o in residenza
presso i principali teatri dell’area mediterranea44, quali la compagnia del
Teatro Reale dell’Opera di Malta e quella del Teatro Reale del Cairo45.
Da quanto si evince dalle cronache, soltanto cinque sono le stagioni
liriche organizzate al Teatro Miramare a partire dal rifacimento del 192846.
Dopo due iniziali stagioni con cadenza annuale, gli spettacoli operistici
tornano sul palco del Teatro soltanto nel 1934, in concomitanza con la
salita di Italo Balbo alla direzione del governo coloniale. Da quell’anno le
attività liriche rientrano nelle competenze del Commissariato per il turismo libico47, coordinato dal neonato Istituto fascista di cultura presieduto
dallo stesso governatore48. Sono questi gli anni di più intensa attività della
colonia dal punto di vista culturale in linea con l’estensione della stagione
turistica dall’autunno alla primavera. Dopo l’ultima stagione del 1935,
l’opera lirica abbandona definitivamente il palcoscenico del teatro, rientrandovi esclusivamente attraverso le proiezioni cinematografiche e negli
intermezzi delle operette.
Il contesto specifico, il pubblico e le finalità alle quali la programmazione dell’istituzione tripolina è chiamata legittimano la scelta di un cartellone
improntato ad un repertorio di tradizione e quasi esclusivamente italiano.
117
Isabella Abbonizio
Le stagioni liriche
La stagione lirica inaugurale dell’elegante teatro coloniale di Tripoli,
concertata con la II edizione della Fiera e con la visita ufficiale della colonia
da parte di Vittorio Emanuele III e famiglia, ha luogo dal 7 aprile al 2 maggio del 1928. La compagnia proviene dalla madrepatria, sotto la direzione
artistica di Manlio Pasotto49 e musicale di Luigi Cantoni50. È composta da
giovani cantanti attivi nella scena lirica italiana, ma non presenta nomi di
particolare rilievo. Tra i più noti, il soprano Ottavia Giordano agli esordi
della sua carriera. La maggior parte di essi, compreso il direttore artistico,
risulta attiva negli stessi anni sulle scene del Regio di Parma (Irma Zappata,
Attilio Barbieri, Giuseppe Bentonelli, Alessio Kanscin, Enrico Percuoco) o
del Teatro Reinach o Paganini, della stessa città (Ottavia Giordano, Attilio
Barbieri)51. Il cartellone prevede sette opere, più una fuori programma; le
scelte ricalcano la politica dei teatri della madrepatria. Ad aprire la stagione
è un’opera di grandi proporzioni nello stile del grand-opéra italiano: La
Gioconda di Ponchielli. Buona parte del cartellone si mantiene tendenzialmente sullo stesso orientamento di gusto, sebbene la limitatezza dei mezzi,
coro e orchestra, non deve aver giocato a favore per la realizzazione di una
rappresentazione efficace dal punto di vista scenografico. Le note arie di
rinomati compositori italiani come Puccini, Verdi e Boito riportano turisti, alti ufficiali e coloni alla grandezza della tradizione nazionale52. Per la
visita dei Sovrani del Regno d’Italia in colonia, a coronamento del disegno
propagandistico imperialista, viene allestita l’Aida, inaugurata la sera del
18 aprile 192853.
Il forte valore simbolico e il legame che il capolavoro verdiano detiene
con i territori d’Oltremare e con i progetti imperialisti, ne motiva la riproposizione come titolo d’apertura per il cartellone dell’anno successivo,
realizzato proprio dalla compagnia del Teatro Reale del Cairo, con l’allestimento delle scene originali. Tra le prime parti troviamo questa volta interpreti di fama internazionale, tra cui il soprano Maria Zamboni54, attiva
alla Scala e nei pricipali teatri italiani55, e il tenore Aroldo Lindi, noto come
uno dei più rinomati e applauditi Radames di quegli anni56.
Nonostante la fama della compagnia e la cura negli allestimenti, dalle
cronache emergono le prime lamentele sulla scarsa affluenza del pubblico popolare alle rappresentazioni57. Il problema viene momentaneamente
risolto con l’adozione di una politica dei prezzi agevolati dei biglietti a
118
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
partire da metà stagione.
Nei quattro anni successivi, la stagione di punta al Miramare è dominata dall’operetta. Non ci sono note, attraverso le fonti, le ragioni reali di un
così lungo silenzio degli spettacoli lirici ma, oltre alle motivazioni legate al
bilancio, si può supporre che la situazione politica internazionale e interna
abbia influito sulle scelte dell’istituzione.
Durante questi anni di assenza dell’opera dal palcoscenico del Miramare, il teatro continua a mantere il ruolo di punto di riferimento per la
vita culturale tripolina. L’istituzione propone infatti una programmazione poliedrica ed eclettica, aperta alle più recenti innovazioni tecnologiche
nell’ambito dell’intrattenimento e al contempo attenta a soddisfare la esigenze dei turisti e il loro gusto per l’esotico. È al cinematografo del Miramare che il pubblico tripolino assiste al primo film «parlante», il 9 agosto
193058. Nel 1932, inoltre, viene inaugurato il «Salone moresco», una sala
accessoria destinata alle manifestazioni di musica e danza orientale, occasioni di intrattenimento dal sapore esotico già diffuse in altri luoghi della
città59.
Come abbiamo già anticipato, con l’insediamento del Maresciallo
dell’Aria nella capitale nordafricana, nel gennaio 1934, l’organizzazione
del turismo conosce un rinnovato impulso per lo sviluppo.
In occasione dell’VIII Fiera internazionale coloniale, infatti, la «Primavera Tripolina» torna ad «una delle [sue] più brillanti e fastose manifestazioni» con la stagione lirica60. Dopo cinque anni di silenzio, dunque,
l’opera riappare sul palco del Teatro Miramare, questa volta con la compagnia del Teatro Reale dell’Opera di Malta61. Reduce da una lunga serie
di rappresentazioni nel teatro di provenienza62, la compagnia, preceduta
da un’ottima fama, propone un programma già collaudato con un’unica
novità in cartellone, La Baronessa di Carini di Giuseppe Mulè, un lavoro
d’ispirazione verista di un compositore allineato col regime63. Il direttore
d’orchestra è Mario Cordone, attivo in Italia e a Parigi, nei massimi teatri64. Tra le parti principali della compagnia, figurano artisti di una certa
fama in quegli anni, come Attilia Archi, nota per aver interpretato il ruolo
principale nella Lucia di Lammermoor accanto a Beniamino Gigli al Petruzzelli di Bari65.
Nel dicembre 1934, con il prolungamento della stagione turistica e
l’incremento dell’offerta di eventi e manifestazioni in tutta la Libia il teatro
ospita per la prima volta una stagione d’opera invernale in concomitanza
119
Isabella Abbonizio
con le festività natalizie e del capodanno. Mentre l’acclamata troupe maltese torna nella primavera del 1935, per questa atipica stagione invernale,
organizzata per celebrare l’insediamento di Balbo alla guida della colonia,
la compagnia proviene dall’Italia. In scena undici titoli, quasi tutti senza
repliche. Nella duplice veste di direttore artistico e d’orchestra, Ernesto
Sebastiani66 si alterna sul podio con Gino Sottile ed Ermanno Eberspacher.
Tra le parti principali, il tenore Giovanni Malipiero67, applauditissimo nella sua rappresentazione al Miramare.
In occasione della ricorrenza del centenario belliniano, che cadeva nello
stesso anno, a riprova di una volontà di totale assimilazione del territorio coloniale alla madrepatria, la compagnia Sebastiani mette in scena la
Norma. Il regime conferisce alle manifestazioni celebrative un significato
particolare, al fine di rafforzare il «filo continuativo con la tradizione»68, a
sostegno di un prestigio culturale dalle solide radici nel passato. Un altro
lavoro del compositore siciliano, la Sonnambula, sarà allestito in primavera
dalla compagnia di Malta. Chiusa la stagione al Miramare, la compagine
italiana prosegue la tournée coloniale in Cirenaica, riproponendo lo stesso
cartellone nel nuovo e moderno Teatro Berenice di Bengasi69.
L’ultima «Grande Primavera tripolina» conosce una nuova fortunata
stagione lirica con il ritorno della compagnia maltese, che giunge questa
volta nella capitale coloniale dopo una brillante stagione al teatro Municipale di Tunisi70. La compagine è quasi completamente rinnovata, arricchendosi di nuovi talenti scaligeri, ma mantenendo alcune tra le migliori
prime parti già presenti nell’edizione precedente. In quest’ultima apparizione al Miramare, la compagnia di Malta realizza la migliore stagione
d’opera nella storia della colonia. Nel cast degli interpreti principali, non
soltanto nomi di prestigio, artisti già rinomati in Italia e in America tra
le due guerre ma anche giovani promesse del belcanto, destinate ad una
luminosa carriera sui palcoscenici del vecchio e del nuovo continente (tra
cui Licia Albanese71, Giulietta Simionato72 e Gustavo Gallo73). L’orchestra
è diretta da Mario Cordone al quale si alterna in questa edizione Riccardo
Santarelli, noto direttore dell’orchestra dell’Eiar, attivo anche alla Scala74.
Anche questa volta il cartellone, sempre fermo al repertorio tradizionale,
presenta una novità, già affermata nei teatri madrepatria, Il carillon magico
di Pick Mangiagalli.
L’anno successivo, nel 1936, mentre il Miramare inizia il suo declino
nella vita culturale della città, vede la luce a Tripoli un nuovo teatro, che
120
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
sottrae al precedente il primato: il Teatro Uaddan.
Il teatro Uaddan
Durante gli anni della campagna imperialista, la presenza italiana nei
territori coloniali si rafforza attraverso segni meno equivoci, per mezzo di
più esplicite manifestazioni della cultura dominante. Segnale evidente di
questo mutamento sono le nuove concezioni architettoniche teorizzate in
quegli anni da professionisti italiani incaricati dal governo coloniale. In
questo periodo le contaminazioni orientali lasciano il posto alle nascenti
correnti razionalista e novecentista e le città coloniali vengono progettate
ricalcando le idee estetiche delle città di nuova fondazione italiane. Tali
mutamenti non lasciano intatti neppure i luoghi deputati alla vita culturale, la cui funzione è strettamente legata all’economia del turismo in
Complesso Uaddan visto dal Lungomare. Il teatro è con molta probabilità l’elemento
architettonico indicato dalla freccia. Si ringrazia Brian McLaren per l’informazione.
Fonte: Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya: An ambivalent Modernism,
University of Washington Press, Seattle-London 2006, p. 195, Fig. 6.14.
121
Isabella Abbonizio
colonia. Come è stato rilevato precedentemente, a partire dalla metà degli
anni trenta, anche l’apparenza neo-moresca del teatro Miramare inizia ad
essere guardata con sospetto e, negli anni successivi, gli ornamenti e gli
elementi d’ispirazione orientale cedono alle più rigorose superfici lineari
razionaliste.
Nel frattempo, con lo sviluppo delle infrastrutture turistiche, vede la
luce un nuovo teatro all’interno del lussuoso complesso Uaddan, realizzato dal noto architetto Florestano di Fausto, in collaborazione con Stefano Gatti-Casazza. Il possente edificio, costruito tra il 1934 e il 1935, è
anch’esso ubicato sul lungomare Volpi, e presenta una struttura composita
con albergo, teatro, casinò, bagni romani. Il modello metropolitano è con
ogni probabilità quello ligure del Casinò di Sanremo - con il teatro e il
ristorante a fare da complemento alla casa da gioco - ai tempi polo di attrazione turistica anche per mezzo di prestigiose manifestazioni culturali, tra
cui il Premio Sanremo di letteratura e arte75. Il nuovo teatro tripolino, gestito dalla Società teatrale dell’Etal76, viene inaugurato il 3 maggio 1936,
pochi giorni prima della proclamazione dell’Impero. La nuova istituzione
è destinata ad un’élite nazionale e straniera e concepita come un luogo di
intrattenimento e di ritrovo mondano.
Come per il corrispettivo italiano, la capienza è piuttosto ridotta, di
circa cinquecento posti. La destinazione «di nicchia» è confermata anche
attraverso la programmazione, per la quale gli organizzatori chiedono l’esclusiva con veto di ripetizione degli spettacoli negli altri teatri cittadini77.
Il cartellone del teatro presenta i più rinomati interpreti e le più prestigiose
compagnie della madrepatria con una programmazione eterogenea che va
dal teatro di prosa, ai concerti di musica da camera, alle proiezioni cinematografiche, non di rado proposte in lingua originale.
Il teatro di prosa è una delle attività di maggiore richiamo di pubblico
con le celebri rappresentazioni delle compagnie di Paola Borboni, Ruggero
Ruggieri e Irma Gramatica. Anche l’operetta trova spazio nella programmazione del nuovo teatro, con spettacoli di artisti rigorosamente italiani.
Tra una stagione e l’altra, vengono programmati i concerti di musica da
camera che richiamano in colonia alcuni tra i più rappresentativi interpreti
o ensemble strumentali della madrepatria. A calcare il palco del Teatro Uaddan tra l’ottobre 1936 e l’aprile 1939 troviamo: Alfredo Casella con il suo
trio, Corradina Mola78, Nerio Brunelli, Vito Carnevali79, Carlo Zecchi80,
tutti attivi ambasciatori della musica italiana all’estero.
122
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
Il numero di concerti è limitato a un paio di audizioni per ogni interprete o ensemble, con una frequenza media di due volte l’anno. In alcuni
casi gli artisti eseguono lavori di recente composizione, o musiche di autori
italiani o stranieri, attinendosi in questo caso alle direttive della madrepatria81. Al di là di casi isolati, l’ambientazione coloniale non sembra ispirare
particolari scelte di programma82.
A causa delle difficoltà di consultazione delle fonti, non ci è noto quando il teatro Uaddan interrompe la sua attività artistica. L’ultimo concerto
documentato, del quale abbiamo notizia, è quello dell’orchestra da camera
del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, diretta da Adriano Lualdi, nel maggio 194083. La breve vita del Teatro Uaddan rappresenta un’ulteriore dimostrazione di un mancato consolidamento dell’organizzazione
di una vita culturale coloniale a causa del ristretto periodo di dominazione
italiana in Libia.
L’impostazione delle attività artistiche all’Uaddan, il suo profilo architettonico e il richiamo al modello sanremese rappresentano una valida
testimonianza della Tripoli imperiale negli anni di Balbo. Nel disegno di
Balbo, la città coloniale ambiva a divenire una capitale prestigiosa, meta di
un turismo d’élite, simbolo del dominio territoriale italiano.
Effetti culturali della politica indigena di Italo Balbo: Radio Tripoli
Al fine di fornire un quadro il più possibile completo della vita culturale della colonia, merita un rapido accenno anche un’inedita ed originale
iniziativa legata al tentativo di preservazione e assimilazione della cultura
libica promossa da Balbo durante gli anni del suo governo. In linea con
le nuove direttive di politica indigena adottate dal governatore ferrarese84,
nel dicembre 1938 vede la luce Radio Tripoli, un’emittente locale dell’Eiar, con trasmissioni quotidiane in lingua araba. Nel palinsesto giornaliero
della Radio spicca un programma di musica tradizionale nordafricana eseguita dal vivo. Nel corso delle prime settimane di vita, Radio Tripoli ospita
tre gruppi di strumentisti nordafricani guidati da musicisti riconosciuti
quali unici custodi delle tradizioni musicali indigene. Nel giro di qualche
mese, da questa iniziativa nasce «l’orchestra araba dell’Eiar», diretta da diretta da Ismail Gaber Mohammed Alì e composta con ogni probabilità da
una prevalenza di elementi tripolini85. L’iniziativa viene accolta con grande
favore di pubblico e in breve tempo la durata delle tramissioni si estende,
123
Isabella Abbonizio
la programmazione viene raddoppiata e, attraverso altoparlanti posizionati
in punti strategici di grande affluenza della capitale libica, le trasmissioni
raggiungono ampi margini di cittadinanza tripolina. Attraverso questo gesto Balbo riesce abilmente a guadagnarsi la stima della popolazione indigena dando prova degli aspetti positivi della dominazione italiana portatrice
della modernità in colonia. Con lo scoppio della guerra, com’è ovvio, le
trasmissioni di Radio Tripoli verranno dedicate al servizio di cronaca.
Conclusioni
L’organizzazione culturale ed artistica della Libia riflette, come abbiamo visto, la vicenda della dominazione italiana e ne ricalca le linee politiche. L’importazione di manifestazioni musicali di cifra nazionale contribuisce in maniera decisiva alla costruzione di un’immagine di predominio
culturale funzionale al conseguimento di un consenso diffuso. Il limitato
periodo della presenza italiana sul territorio libico e le difficili condizioni
di governo non hanno favorito la realizzazione di progetti culturali di lunga durata, in grado di inaugurare una vera e propria tradizione artistica
coloniale. La politica culturale della colonia, inoltre, non dedica alcuna
attenzione all’ambito educativo, non investe ad esempio sulla formazione
di musicisti da poter impiegare nei teatri e di conseguenza le attività artistiche rappresentano un capitolo di spesa che grava sul bilancio della colonia.
La cronaca lamenta ripetutamente la mancanza di un contesto formativo,
che avrebbe permesso, ad esempio, un contenimento delle spese per la
realizzazione degli spettacoli lirici86. Il regime piuttosto preferisce importare artisti dalla madrepatria al fine di testimoniare una volontà di totale
assimilazione del territorio coloniale, come dimostra anche la realizzazione
di manifestazioni celebrative in onore di autorevoli rappresentanti della
tradizione nazionale. Le preoccupazioni del governo si riversano di certo
su più urgenti questioni legate al dominio di un territorio straniero e ostile.
Uno dei problemi che il regime si trova ad affrontare è quello della relazione con una popolazione indigena che rivendica una propria identità e dei
diritti civili e politici, strenuamente difesi attraverso i capi locali. Dopo le
criminose azioni dei governatori precedenti, Balbo intraprende una linea
che è stata definita assimilazionista nei confronti dei libici. Come abbiamo visto, il folclore libico riceve un’attenzione non superficiale e anche le
tradizioni musicali indigene conoscono un’operazione di valorizzazione e
124
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
diffusione attraverso l’etere. Quale fenomeno di ampio raggio, il colonialismo è in grado dunque di coinvolgere ogni aspetto della società, compresa
la musica.
La presenza di fonti lacunose ha lasciato ancora aperti numerosi interrogativi, tuttavia è stato possibile ritrarre uno spaccato del territorio mediterraneo dal punto di vista culturale ad oggi sconosciuto che apre nuovi
orizzonti di indagine ad oggi inesplorati.
Note al testo
1
Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, vol. II, Laterza, Roma-Bari
1988, pp. 237-246.
2
Cfr. F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984.
3
Cfr. I. Abbonizio Musica e colonialismo nell’Italia fascista (1922-1943), tesi di dottorato di Storia, Scienze e Tecniche della Musica, Università di Roma Tor Vergata, a.a. 2009/2010, relatore
prof. R. Pozzi.
4
Steer in Claudio Segre, Italo Balbo: governatore generale e creatore della quarta sponda, «Storia
contemporanea», XVI, nn. 5-6, dicembre 1985, p. 1060.
5
Luigi Goglia - Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Bari 1981,
p. 40.
6
A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., p. 236.
7
Precedentemente sono attive due piccole, modeste sale, il Teatro Nazionale e il Teatro Risorgimento, edificate subito dopo l’occupazione della regione, di una capienza di sole trecento
persone. Cfr. Luigi Piccinato, Il teatro di Bengasi in Dante Maria Tuninetti, Cirenaica
d’oggi. Guida turistica illustrata della Cirenaica, Pinciana, Roma 1933, pp. 381.
8
A Marcello Piacentini si deve il rifacimento del Teatro Costanzi (1928) e del Teatro Argentina
di Roma.
9
L. Piccinato, Il teatro di Bengasi cit., pp. 381-386.
10
Ivi, p. 380. La Società Teatrale anonima per la gestione di spettacoli pubblici e delle sue propietà
immobiliari, è impegnata anche nell’amministrazione dell’attività del Cinema Teatro Nazionale, del Cinematografo Sala Italia e del Teatro Risorgimento. Cfr. «Illustrazione Coloniale»,
giugno 1932, p. 80.
11
«L’Avvenire di Tripoli», 9-23 marzo 1928.
12
«L’Avvenire di Tripoli», 21 aprile 1934
13
Pio Gardenghi, Il risorto teatro romano di Sabratha in «Libia», marzo 1937, p. 17.
14
Nel marzo 1937, per l’inaugurazione del teatro di Sabratha restaurato viene messo in scena
l’Edipo re di Sofocle con i cori composti da Andrea Gabrieli nel 1585 per il teatro Olimpico
di Vicenza, revisionati ed adattati da Ferdinando Liuzzi (1884-1940). Per l’anno successivo
125
Isabella Abbonizio
viene invece allestita l’Ifigenia in Tauride di Euripide con musiche di Giorgio Federico Ghedini
(1892-1965). Per approfondimenti si veda P. Gardenghi, La prima rappresentazione classica al
Teatro romano di Sabratha, «Libia», marzo 1937, pp. 40-42; Fernando Liuzzi, Dopo 350 anni
riecheggiano a Sabratha le mirabili melodie del grande musicista cinquecentesco Andrea Gabrieli,
«Libia», marzo 1937, pp. 19-21; «L’Avvenire di Tripoli», 27 maggio 1938.
15
Tra tutte, quella della provincia di Derna sembra riscuotere un certo successo, esibendosi anche
a Tripoli.
16
Tra questi, i principali sono il Supercinema Alhambra, di cui abbiamo notizia dalla fine degli
anni venti, il Cinema delle Palme, e quelli estivi, come il Cinema Lido e l’Arena di Sciara Sciat.
Diversi sono i circoli culturali, come il Circolo Italia, che ospita diverse occasioni performative.
Vi sono anche i vari caffè che organizzano spettacoli di musica, prevalentemente orchestrine
che eseguono motivi da arie d’opera e operetta e rifacimenti canzoni in voga nella madrepatria,
come il Caffè delle Poste e il Caffè Savoia; e quelli arabi come il Caffè di Suk el Muscir e il Caffè
Sahariano animati da musiche e danze orientali, diffusi nella seconda metà degli anni trenta.
17
Brian MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya: An ambivalent Modernism, University of Washington Press, Seattle-London 2006, p. 63.
18
Ivi, p. 49.
19
E. O. Fenzi, rubrica Corriere Tripolino «Tribuna coloniale», 23 aprile 1921, p. 3.
20
Ibidem.
21
C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» in «L’Avvenire di Tripoli», 5 aprile 1928.
22
Nicola Placido, Le opere pubbliche a Tripoli: un vero teatro coloniale in «Italia coloniale»,
luglio 1928, p. 149.
23
Ibidem.
24
B. MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., pp. 58-77.
25
Mia Fuller, Moderns Abroad. Architecture, Cities and Italian Imperialism, Routledge, London
2007, p. 154-155.
26
Ivi, p. 158.
27
N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit..
28
Antonio Rovescalli (1864 - 1936), illustre scenografo del Teatro alla Scala di Milano dal 1911
al 1936.
29
N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit..
30
C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit..
31
Alessandro Abate (Catania 1867 - 1953), pittore e decoratore.
32
C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit.
33
N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit.
34
Dalle descrizioni non è ben chiaro quale fosse, ma è possibile che sia il bar o uno dei due foyers.
35
C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit.
36
Umberto Di Segni (Tripoli, 1894 – Natania (Israele), 1958).
37
«L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.
38
Ibidem.
39
L. Piccinato, Il teatro di Bengasi cit., pp. 381-386.
126
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
40
Il numero annuo di turisti in Libia cresce da 28.000 nel 1933 a 44.000 nel 1938. Cfr. B. MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 239, nota 94.
41
«L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.
42
«L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.
43
Con il passaggio alla British Military Administration, il teatro viene ricostruito e risorge a
nuova vita con una fiorente attività artistica. La storia e le vicende dell’istituzione legate a questa nuova fase politica della Libia sono oggi oggetto di studio attraverso il progetto Cento anni
di Arti in Libia, promosso da diverse istituzioni culturali della capitale nordafricana, tra cui il
Libyan Study Centre di Tripoli. Ringraziamo Addullah Elpoussery, docente di Drammaturgia
teatrale presso l’Università di Tripoli e sostenitore del progetto e la figlia Rihma, per queste
informazioni.
44
Tali organizzazioni testimoniano la circolazione della musica e degli artisti italiani nei territori
del Mediterraneo soggetti all’influenza europea.
45
Ben nota è l’attività lirica italiana al Teatro Reale del Cairo, legata allo storico evento della
commissione e prima rappresentazione dell’Aida di Verdi nel 1871 per volere del Kedive Ismail
in occasione dell’apertura del Canale di Suez.
46
La fonte principale per la ricostruzione delle attività artistiche al Miramare è rappresentata dal
quotidiano locale «L’Avvenire di Tripoli», il cui primo numero risale al marzo 1928. Non sono
state trovate ulteriori fonti documentarie riguardanti il periodo precedente della vita del teatro.
47
Per una trattazione più approfondita delle organizzazioni turistiche governative si rimanda a B.
MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., pp. 58 ss.
48
«L’Avvenire di Tripoli», 8 marzo 1934.
49
Manlio Pasotto, è attivo nel 1931 alla direzione del Teatro Reinach di Parma.
50
Luigi Cantoni, direttore d’orchestra, è attivo al Teatro dell’Opera di Malta dall’inizio degli anni venti, trasferendosi sull’isola nel dopoguerra [Samut-Tagliaferro 1966, p. 6]. Nel 1946 dirige
Bohème e Lucia di Lammermoor al Teatro Regio di Parma nella Stagione Lirica Straordinaria di
Natale [http://www.lacasadellamusica.it/cronologia/index.htm].
51
Gaspare Nello Vetro, voce Gustavo Pesenti in Dizionario della musica e dei musicisti dei
territori del Ducato di Parma e Piacenza dalle origini al 1950, http://www.lacasadellamusica.it/
vetro/, (consultazione aprile 2009).
52
I nomi della maggior parte di questi compositori sono impressi nella toponomastica cittadina
[Bertarelli 1929, carta topografica di Tripoli].
53
La replica viene organizzata in occasione del viaggio a Tripoli dei rappresentanti della colonia
italiana di Tunisi per la Fiera Campionaria.
54
Maria Zamboni (Peschiera 1895 - Verona 1976).
55
John Barry Steane voce Maria Zamboni, in Grove Music Online, www.grovemusic.com,
(consultazione aprile 2009)
56
Aroldo Lindi (nato Harald Lindau, Tuna (Svezia) 1888 - 1944). Secondo la testimonianza di
Richard Lindau, il Lindi, nato Gustav Harald Lindau, ha vestito i panni dell’eroe verdiano ben
settecento volte fino al 1935. Nel 1929, dopo aver girato con successo i pricipali teatri d’Europa e d’America, è scritturato al Cairo dove viene premiato con il vestito originale indossato
da Radames nel I atto, confezionato per il battesimo dell’Aida. La sua tournée, dopo il Cairo,
tocca Alessandria, Tripoli, Zurigo e Barcellona [Lindau 2002].
57
«L’Avvenire di Tripoli», 17 e 19 aprile 1929.
127
Isabella Abbonizio
58
«L’Avvenire di Tripoli», 8 agosto 1930.
59
Tra i più prestigiosi, coordinati dall’Ente turistico della Tripolitania (ETT): il Caffè Arabo di
Zenghet Bey Bengasi, Teatro Orientale (ex-Politeama).
60
«L’Avvenire di Tripoli», 6 marzo 1934.
61
Per un approfondimento sulle relazioni culturali tra Malta e l’Italia si veda A. Mercieca, Attività culturali italiane in Malta (1931-1936), «Melita Historica», vol. 5, n. 1, 1968, pp. 61-66.
62
Il Teatro Reale dell’Opera di Malta, nel periodo tra le due guerre, promuove annualmente una
stagione lirica competitiva a livello europeo della durata di quattro mesi. Il Teatro diviene un
punto di attrazione per i turisti e realizza nutriti cartelloni che prevedono anche lavori di recente composizione, eseguiti sotto la direzione degli stessi compositori. Per maggiori notizie si
veda A. Miceli Farrugia, Behind the curtains of an impresario in The Theater in Malta, a cura
di C. Xuereb, Fondazzjoni Patrimonju Malti Valletta, Malta 1997, pp. 81-85.
63
Giuseppe Mulè (Termini Imerese, Palermo 1885 - Roma 1951) fu segretario nazionale del
Sindacato fascista musicisti, deputato al Parlamento dal 1929, membro del Consiglio nazionale
delle Corporazioni e presidente della IV sezione del Consiglio superiore per le antichità e belle
arti (Ministero dell’educazione nazionale).
64
Mario Cordone ha diretto nei principali teatri italiani e europei. Nel 1932 ha diretto L’Alba di
Don Giovanni di Franco Casavola al Festival Internazionale di musica di Venezia. Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 14 marzo 1935.
65
«L’Avvenire di Tripoli», 6, 9 e 21 marzo 1934.
66
Sul direttore Ernesto Sebastiani si sono riscontrati soltanto dati sporadici. Sappiamo che è
stato attivo a Tunisi in qualità di docente di pianoforte. Cfr. S. Ben Abderrazak Med, Musica e comunità italiana a Tunisi, trad. it a cura di Laurence Van Goethem, 2009 in http://
funduqactes.skynetblogs.be/post/5813102/ben-abderrazak-med-saifallah-musique-et-commu
(consultazione maggio 2009).
67
Giovanni Malipiero (Padova 1906 - 1970). Debutta a Cremona nel ruolo del Duca nel Rigoletto e nel 1937 si esibisce per la prima volta alla Scala; nel dopoguerra partecipa allo spettacolo
d’inaugurazione dell’istituzione milanese sotto la bacchetta di Toscanini. Cfr. J. B. Steane, voce Giovanni Malipiero, Grove Music Online, www.grovemusic.com, (consultazione aprile 2009)
68
F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., p. 24.
69
«L’Azione coloniale», 10 gennaio 1935 e «L’Avvenire di Tripoli», 3 e 18 gennaio 1935.
70
«L’Avvenire di Tripoli», 9 marzo 1935.
71
Licia Albanese (Bari 1913), soprano, debutta a Milano nel 1934. Apprezzata in Italia soprattuto quale interprete delle eroine pucciniane, tra tutte Madama Butterfly, prosegue la carriera in
America, esibendosi regolarmente al Royal Opera House di New York. Nel 1995 viene premiata con la National Medal of Honor for the Arts dal Presidente Clinton e nel 2000 riceve il prestigioso Handel Medallion dalla Città di New York [http://www.liciaalbanesepuccinifnd.org/].
72
Giulietta Simionato (Forlì 1910 - Roma 2010), mezzo-soprano, rinomata per le sue numerose
interpretazioni alla Scala e al Maggio Fiorentino fin dalla metà degli anni trenta. Ha cantanto
al fianco di Maria Callas e di altri rinomati interpreti vocali, in Europa, America e Giappone.
Cfr. R. Celletti, voce Giulietta Simionato, Enciclopedia dello Spettacolo, Le Maschere, Firenze
1954, vol. 8, p. 1999.
73
Gustavo Gallo (Nardò 1904 - Firenze 1982).
74
«L’Avvenire di Tripoli», 14 marzo 1935.
128
Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia
75
Bruno Monticone - Ito Ruscigni et al., La cultura attorno al Casinò di Sanremo in Sanremo
cent’anni di casinò, De Ferrari Editore, Genova 2005, pp. 45-168.
76
B. McLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 71-77.
77
Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 19-20 maggio 1936. La direttiva, inopportuna sotto molteplici
punti di vista, scatena presto una diatriba con i gestori del Teatro Miramare Per gli stessi artisti,
lo spostamento in colonia sarebbe stato di gran lunga più conveniente prevedendo più manifestazioni nella stessa città. La scelta, tuttavia, garantisce al Teatro l’esclusiva per gli spettacoli e
assicura all’organizzazione un nutrito pubblico.
78
Corradina Mola, clavicembalista. Svolge atività concertistica in Italia e nelle pricipali capitali
europee.
79
Vito Carnevali (1888-1960), pianista e compositore. Si esibisce nei maggiori centri d’Europa
e dell’America del Nord.
80
Carlo Zecchi (Roma 1903 - Salisburgo 1984), pianista e direttore d’orchestra. Per maggiori
informazioni biografiche cfr. Daniele Lombardi, Carlo Zecchi. La linea della musica, Nardini,
Firenze 2005.
81
F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., pp. 26-31.
82
Corradina Mola chiude il programma dell’ultimo concerto all’Uaddan del 22 gennaio 1939
con due brani di «musica araba», dal titolo Marcia e Canzona. L’iniziativa è particolarmente
apprezzata dal pubblico e dall’organizzazione: all’artista viene infatti richiesta un’esecuzione
dei brani di musica orientale alla nuova radio coloniale. Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 22 gennaio
1939. Purtroppo non sono state trovate testimonianze a riguardo.
83
La compagine si esibisce presso il Palazzo del Governo, il Teatro della Casa Littoria, il Miramare e l’Uaddan, riservando per quest’ultimo un programma di musiche antiche italiane
(Paisiello, Cherubini), di grandi compositori del passato (Mozart, Wagner) e di Ravel. Cfr. I
concerti a Tripoli dell’Orchestra da camera del R. Conservatorio, «S. Pietro a Majella. Bollettino
del R. Conservatorio di Musica - Napoli», III, n. 3-4, giugno 1940, pp. 30-32.
84
A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 237-242.
85
«L’Avvenire di Tripoli», 4 febbraio 1938.
86
«L’Avvenire di Tripoli», 12 gennaio 1935.
129
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della
riconquista*
di Matteo Aguzzi
Introduzione
Sebbene siano numerosi gli studi sulla stampa durante il fascismo,
pochissime sono le pagine dedicate dalla storiografia ai giornali del Pnf1
pubblicati in colonia. Eppure quella all’Oltremare fu un’esperienza fondamentale per la stampa di partito perché fu chiamata a surrogare la stampa
nazionale, misurandosi con coloro che vissero in prima persona l’avventura coloniale: uomini e donne che si scontrarono quotidianamente con
le opportunità reali e i limiti dell’impero fascista. Alla frontiera coloniale,
la stampa targata Pnf fu chiamata a fare da cerniera tra gli italiani e il regime, tentando di innestare sull’esperienza dei metropolitani on the spot
le emozioni vicarie prodotte dalla «fabbrica del consenso», in un difficile
equilibrio tra funzione informativa ed esigenze propagandistiche.
L’assenza di attenzione storiografica va ricondotta a due cause: lo stato
di conservazione di questa fonte, gravato da pesanti lacune; un doppio
pregiudizio diffuso tra gli studiosi: nel contesto generale di una stampa
fascista per anni ritenuta, a priori, non degna d’indagine – poiché priva di
quel requisito di oggettività tradizionalmente attribuito al «quarto potere»2
– quella edita in colonia ha pagato (paga?) lo scotto di un’ulteriore patente
di inattendibilità derivante dal carattere posticcio dell’imperialismo fascista. Come dire, cartastraccia in un impero di cartapesta.
Nei classici sulla storia della stampa nel periodo fascista ci si limita
all’elenco delle testate quotidiane fondate dal regime nelle colonie3. Invece, delle altre pubblicazioni periodiche edite nell’oltremare italiano manca
un censimento completo. Insomma, la storia dei giornali in colonia deve
ancora essere scritta. Lo studio cerca di andare in questa direzione, aggiungendo all’edificio della conoscenza storiografica un mattone riguardante il
caso della Cirenaica.
131
Matteo Aguzzi
Le pagine che seguono si occupano del quotidiano di Bengasi tra il
1926 e il 1933, ovvero gli anni della «riconquista» della colonia4.
Nel 1911-1912, con l’invasione della Tripolitania (regione occidentale
della Libia) e della Cirenaica (regione orientale), l’Italia si era assicurata
il controllo della linea costiera libica. L’occupazione militare fu portata
avanti fino all’estate del 1914, regredendo poi rapidamente e ricacciando
gli italiani sulla costa. Solo con il fascismo al potere la situazione si sarebbe modificata in modo sostanziale. La forte resistenza locale e le esigenze
poste dalla guerra europea richiesero il varo di una nuova politica: l’Italia
liberale stipulò accordi con le cabile tripoline e con la Senussia, organizzazione religiosa-politico-militare radicata in Cirenaica. Il 1° giugno 1919 fu
promulgato lo statuto libico, primo di una serie di patti volti alla cogestione della colonia e contenenti ampie concessioni. Sorsero così istituzioni
e rappresentanze dotate di una relativa autonomia – quale per esempio il
parlamento della Cirenaica (1921-23) – e al gran senusso Mohamed Idris
venne riconosciuto il titolo di al-Amir al-Sanusi. Sottoscritti dai notabili
della Cirenaica, i patti furono rigettati dai capi locali della Tripolitania,
dove invece fu proclamata la rivolta. Il superamento della fase di impasse
iniziò nel 1922, quando il ministro delle colonie Giovanni Amendola dette avvio alla cosiddetta riconquista della Libia. Vennero allora annullati gli
accordi sottoscritti precedentemente con le autorità libiche e si procedette
all’ampliamento e al consolidamento dell’occupazione in Tripolitania. Poi,
con il fascismo al governo, sarebbe arrivata anche la rottura definitiva dei
rapporti con la Senussia e la ripresa della operazioni militari in Cirenaica.
Ci vollero però dieci anni affinché l’Italia fascista potesse proclamare la
rioccupazione integrale della colonia (gennaio 1932).
In questa cornice storica si dipanano le vicende del quotidiano italiano stampato a Bengasi. Il giornale inizia le pubblicazioni nel 1920 con il
titolo «La verità. Corriere della Cirenaica» – poi ridotto a «Corriere della
Cirenaica» a partire dal 21 giugno 1921 (a. 2, n. 147) – e continua ad
uscire con regolarità per tutti gli anni trenta, subendo però vari passaggi di
proprietà e notevoli trasformazioni sul piano editoriale, tecnico e giornalistico. All’interno di questa parabola ventennale la nostra analisi si focalizza sull’avvicendamento tra il «Corriere della Cirenaica» e il foglio fascista
«Cirenaica Nuova» (fondato il 2 dicembre 1926), e sulla trasformazione
di quest’ultimo in «La Cirenaica: organo della federazione fascista» (10
ottobre 1929).
132
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
Nella bibliografia scientifica sull’Italia in Libia i primi, limitati, riferimenti a questa fonte edita si trovano nel volume collettaneo su Omar
Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia e in quelli di storia coloniale
generale di Angelo Del Boca5. Dopo un silenzio lungo anni, alcune ricerche su aspetti specifici del colonialismo fascista nella «quarta sponda» sono
tornati a menzionare il giornale di Bengasi, non senza inesattezze6. Deludenti le poche righe riservate al quotidiano cirenaico da Monica Venturini
in un volume fresco di stampa che tenta una mappatura della scrittura
coloniale e postcoloniale italiana7.
In un recente seminario di studi italo-libici Nicola Labanca ha parlato della stampa edita in colonia come di una «nuova fonte» in grado di
dettagliare la vicenda dell’espansione coloniale italiana, anche per quanto
riguarda i suoi capitoli più tragici8. È quello a cui punta il seguente saggio,
dove tracceremo la genealogia e lo sviluppo giornalistico del quotidiano di
Bengasi, intersecando la sua storia con quella della federazione fascista della Cirenaica, e fornendo qualche assaggio del modo in cui la fonte descrisse
la riconquista e la macchina della repressione italiana.
Dal «Corriere della Cirenaica» a «Cirenaica Nuova»
Dopo la marcia su Roma i fascisti bengasini impiegarono quattro anni
per dare vita ad un giornale tutto loro. Si creò qualcosa di nuovo, riutilizzando, all’occorrenza, uomini e mezzi della vecchia colonia. La questione
del giornale pubblicato a Bengasi, dunque, permette di articolare il discorso sulla discontinuità del colonialismo italiano nel passaggio fra Italia
liberale e fascismo9.
Il primo quotidiano della colonia «La verità: corriere della Cirenaica»
era stato fondato nel 1920 su iniziativa del funzionario coloniale Gian
Luigi Olmi10. Siamo nella fase della «politica degli Statuti», preludio alla
creazione del Parlamento cirenaico (aprile 1921). Olmi, pur essendo stato
eletto deputato al parlamento locale, è tra coloro che si oppongono a questo avanzato esperimento istituzionale di indirect rule11. Spalleggiato da fascisti facinorosi, ostacola il lavoro delle istituzioni e, dalle pagine dell’unico
giornale di Bengasi, attacca la politica di pace verso la Senussia12. Il «Corriere della Cirenaica» prese avvio, quindi, per mano di un funzionario che
incarnava perfettamente «la riottosità della macchina coloniale alla politica
degli Statuti»13. Oltre che al disturbo della politica coloniale amendoliana,
133
Matteo Aguzzi
gli sforzi di Olmi si orientano verso la modernizzazione della stampa locale: a lui infatti veniva riconosciuto il merito di aver portato in Cirenaica la
linotype in dotazione al quotidiano di Bengasi14.
Il mutare del contesto politico – sia in Libia che in Italia – ebbe pesanti
ricadute sulla vicenda del giornale bengasino. «Sabotata da parte italiana e
rifiutata da parte araba», la strategia degli accordi naufraga e la palla torna
ai militari: gli ultimi governi liberali rilanciano lo strumento della repressione militare contro la resistenza libica15. Il primo governo Mussolini eredita così un programma di riconquista che viene portato avanti in modo
ancora più ampio e determinato, prima in Tripolitania (ottobre 1922 - dicembre 1923) poi in Cirenaica. Qui però la resistenza libica è tenace: ancora alla metà del 1926 la Senussia domina, quasi incontrastata, sul Gebel.
Il fascismo ha bisogno di successi militari significativi e ideologicamente
connotati, per questo motivo, rimosso Mombelli, il governo della colonia
viene affidato al generale Attilio Teruzzi (22 novembre 1926). Quelli sono
anche i mesi delle «leggi fascistissime» e del passaggio definitivo al regime
dittatoriale. È questo il contesto nel quale avviene la chiusura del «Corriere
della Cirenaica». I metropolitani presenti in Cirenaica – anche se pochi
(diecimila, militari esclusi) – sono comunque italiani il cui consenso al
regime va organizzato attraverso lo strumento principe: la stampa. I collegamenti con l’Italia però sono scarsi e i giornali nazionali giungono a
Bengasi con il contagocce: una volta alla settimana con il postale, quando
va bene. Ragioni politiche e di prestigio impongono quindi la creazione di
un quotidiano locale che esalti l’impronta fascista della politica coloniale
mussoliniana, e che, al tempo stesso, sia gestito da uomini di «sicura fede».
In una parola, alla Cirenaica di Teruzzi serve un giornale fascista, e non
semplicemente fascistizzato.
La soluzione più ovvia sarebbe stata lasciare che la federazione provinciale dei fasci fondasse un nuovo giornale oppure che rilevasse la testata
locale per farne il proprio organo ufficiale16. A quel tempo, però, una federazione dei fasci della Cirenaica ancora non esiste; lì, come nelle altre
colonie italiane, i fasci locali rientrano ancora nella «fattispecie» dei fasci
italiani all’estero17. A Bengasi allora si tenta un’altra strada: la proprietà
del nuovo foglio rimane nella cerchia imprenditoriale mentre gli uomini
del partito occupano i posti di responsabilità nella redazione18. Così, il 2
dicembre 1926, si giunge all’uscita di «Cirenaica Nuova». La redazione
afferma subito il taglio netto con il passato:
134
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
Il Consiglio d’Amministrazione comunica che non ha nulla in comune con la «Società
Editoriale Cirenaica» né col «Corriere della Cirenaica»19.
Una rottura ribadita anche nell’editoriale inaugurale firmato da Guido
Battaglini, delegato del Pnf per il fascio di Bengasi, a cui è stata affidata la
direzione del giornale20:
Perché il quotidiano […] si è chiamato «Cirenaica Nuova»? Nuova perché giornalisticamente ha un substrato morale e materiale che nulla ha a che fare con il passato;
un gruppo finanziario nuovo, una volontà […], un metodo […] tutto nuovo […]. A
«Cirenaica Nuova» risponde un nuova era per la Cirenaica, quella che inizia oggi […]
con il Governatore fascista on. ATTILIO TERUZZI.21.
Che cos’è dunque «Cirenaica Nuova»? La risposta ce la fornisce il medesimo articolo:
Non è un organo del Partito Fascista […]. Sarà uno di quei giornali che pur non essendo rivolto esclusivamente ai fascisti, è, o pretenderà di credersi fascista. Naturalmente
esso avrà degli articoli e non degli ordini, ma intenderà ugualmente, per via diversa, a
fare del Fascismo22.
L’insistenza con cui si afferma l’avvento del nuovo forse rivela l’ansia
di nascondere più di un collegamento con il vecchio: del resto i mezzi tipografici sono quelli del «Corriere della Cirenaica» e non è da escludere
che i finanziatori fossero uomini d’affari con alle spalle un passato coloniale consolidato. Insomma è difficile credere che, al momento della sua
fondazione, «Cirenaica Nuova» potesse prescindere completamente dalla
precedente esperienza editoriale di Olmi e dai capitali installati a Bengasi
già nella fase degli Statuti23. Inoltre, a pochi mesi dalla fondazione – lo
vedremo meglio più avanti – il regime gestirà un avvicendamento alla direzione del foglio andando addirittura a pescare nel bel mondo delle classi
superiori di inizio secolo.
Un quadro tanto sintetico sulle origini del foglio fascista cirenaico non
consente giudizi netti sul rapporto di continuità/discontinuità fra il colonialismo liberale e quello fascista nell’ambito della stampa edita in colonia:
tuttavia – pur facendo la tara all’enfasi retorica di Battaglini sulla «novità»
del suo giornale e pur tenendo conto della progressività dei cambiamenti
– il vero inizio dell’era fascista in Cirenaica segnò una rottura profonda
anche nel settore dell’informazione bengasina.
135
Matteo Aguzzi
Da «Cirenaica Nuova» a «La Cirenaica»
Il nuovo giornale fascista muove i primi passi in un clima di ostilità diffusa. La linea editoriale di Battaglini, infatti, non sembra ottenere consensi
né presso il governo né presso i lettori. Il direttore vuole dare a «Cirenaica
Nuova» una chiara «impronta locale» in grado di restituire la «fisionomia
propria di questa Colonia e non costringerla a fare della politica generale
forzata per riempire le sue colonne»24. Inoltre vuole fare del giornale uno
spazio di discussione, ovviamente all’interno di quel «sistema chiuso» della
stampa teorizzato da Bottai proprio in quei mesi25. Insomma, «Cirenaica
Nuova» vuole essere un giornale fascista che parli soprattutto della colonia (anche in termini «critici») e non un giornale coloniale che parli genericamente della rivoluzione fascista. Obbiettivi raggiungibili – afferma
Battaglini – solo tramite l’attiva «collaborazione» degli organi statali e dei
metropolitani26. Ma la collaborazione non arriva27. Anzi, non sono pochi
coloro che sperano in una rapida chiusura del giornale, o almeno questo è
quanto afferma il direttore:
Si dice che «Cirenaica Nuova» non avrà vita neppure un mese. Sappiamo che questo
è il desiderio di molti, ed è naturale. A questi signori molto puliti o sporchi, amici o
nemici, facciamo sapere che il Direttore di «Cirenaica Nuova» ha la «coccia» dura, […]
e perciò consigliamo loro di non cullarsi vanamente in siffatta speranza28.
Perché tutta questa ostilità? Le risposte vanno cercate nella forma del
foglio bengasino e nella personalità di Battaglini. Innanzitutto il giornale
appare scombinato, la suddivisione interna degli argomenti non è stabile,
le rubriche sono irregolari. La grafica antiquata accentua la modestia dei
contenuti: «Cirenaica Nuova» è un quotidiano per una qualifica di periodicità e non di merito. Difficilmente, con simili caratteristiche, si poteva
pensare di scalzare i giornali nazionali nei gusti del pubblico29. L’uso «personalistico» del giornale e la tendenza di Battaglini alla polemica completano il quadro. Non passa giorno senza che il giornale incensi l’attività del
delegato del Pnf – oscurando così la figura di Teruzzi – o senza un attacco a
qualche settore della società metropolitana (le «personalità» indifferenti al
contesto coloniale; i commercianti «ingordi»; le associazioni locali irrigidite su posizioni di «apoliticità», ovvero a-fasciste)30. Non mancano infine le
polemiche, interne al fascio, contro chi scredita l’«autorità del Delegato del
136
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
Partito con maligne insinuazioni, nell’ambiente fascista e non-fascista»31.
Insomma, la linea editoriale di Battaglini ripropone lo «spirito squadristico» che contraddistingue l’ideologia dei fasci all’estero targati Bastianini32.
Ma proprio alla fine del 1926 i tempi stanno cambiando. Nel contesto
del «partito-chiesa» di Augusto Turati le parole d’ordine diventano centralizzazione del Pnf e disciplinamento della stampa di partito33. Il carattere
avventuristico del foglio, il protagonismo di Battaglini, la sua tendenza ad
alimentare il «beghismo» locale, la riproposizione ormai anacronistica di
pose squadristiche, erano tutti elementi che mal si addicevano al nuovo clima politico e al modello di stampa «disciplinata» auspicato dal duce34. Da
qui, forse, la decisione dei vertici del regime di rimuovere Battaglini dalla
carica di direttore (mar. 1927). Mossa che coincide con la riorganizzazione
del fascio di Bengasi secondo «le nuove norme emanate dalla Direzione del
Partito»: la carica di delegato del Pnf passa nelle mani di Teruzzi35.
Ad appena tre mesi dalla fondazione, dunque, il giornale è oggetto di
un rilancio. Alla carica di direttore viene nominato Tom Antongini, già
segretario personale di D’Annunzio36. Vengono subito apportate alcune
migliorie a «Cirenaica Nuova»: introduzione di qualche foto, una più precisa suddivisione degli argomenti e delle rubriche, maggiore spazio per
le notizie sportive. La struttura sembra ricalcare quella de «Il Tevere», di
cui Antongini è stato collaboratore e redattore fin dalla fondazione37. Del
quotidiano di Interlandi, però, si copiano, più che il piglio polemico e le
idee, le rubriche dedicate alla letteratura e alla vita mondana38. Una riorganizzazione dei contenuti interpretabile alla luce del dato biografico riguardante Antongini. Il nuovo direttore, pur avendo aderito al fascismo39,
risente del suo passato da «filibustiere» dannunziano. Nel 1927 Antongini
ha già cinquant’anni e metà della sua esistenza l’ha passata accanto al Vate,
partecipando a quel vivere inimitabile fatto di esperienze letterarie e legionarie, frequentazioni intellettuali e altolocate, atteggiamenti eccentrici ed
estetizzanti, attenzione per la femminilità e la seduzione. Da chi ha vissuto
tutto questo, e a questo, forse, è legato prima ancora che all’Idea fascista,
non ci si può attendere il fervore politico di un Interlandi appunto, di un
Mario Carli o di un qualsiasi altro giovane direttore «di nuovo tipo»�. Certo, quando il regime chiama, Antongini risponde in maniera formalmente
ineccepibile, come dimostra lo zelo con cui la testata sostiene la campagna
per il prestito del Littorio. Ma i segni distintivi della direzione di Antongini sono altri: trasognati articoli sull’aria «spensierata», da riservato «circolo
137
Matteo Aguzzi
coloniale» che si respira a Bengasi41; ricerca di prestigio culturale e attenzione dedicata al pubblico femminile. Il tentativo di alzare il livello culturale della testata finisce infatti per riverberarsi soprattutto sulle lettrici. È
a loro che si chiede di centellinare la prosa d’arte di cui il giornale viene
infarcito. Oltre alla rubrica aperiodica Varietà femminili, all’interno della
settimanale Pagina della Domenica si trova ora uno spazio fisso dedicato a
La moda. Una volta al mese poi, la seconda pagina accoglie un racconto
breve che ha sempre per protagonista una giovane ragazza italiana42. E ancora: spazio alla riflessione sul ruolo della donna fascista43.
Se, alla fine del 1927, «Cirenaica Nuova» mostra una struttura più dinamica e contenuti meno modesti lo deve anche ad una redazione meglio
organizzata, dove, accanto al direttore, troviamo: il redattore-capo Carlo
Ferrario, originario di Introbio (LC)44; Giuseppe Muttoni, classe 1889,
valsassinese come Ferrario, maestro elementare, ricopre contemporaneamente i ruoli di vice redattore-capo, critico teatrale e artistico, addetto alla
pubblicità; Nicolò Mura, milanese, giornalista e scrittore, si occupa delle
novelle e delle rubriche indirizzate al gentil sesso, in quanto «è maestro dello stuzzicar la curiosità femminile»; Enrico Azzopardi, «redattore in seconda e croniqueur»; infine Carlo Santi, «robusto figlio delle ubertose pianure
lombarde», è l’addetto allo sport45. L’elemento che salta subito agli occhi
è la prevalenza di milanesi/lombardi all’interno della redazione. Caratteristica che riflette i forti legami tra il fascio di Bengasi e il fascismo lombardo. Al vertice della delegazione cirenaica del Pnf troviamo infatti Teruzzi
(milanese)46, il console della Milizia nonché vice-delegato Pietro Arcari
(cremonese) e il segretario amministrativo Antonio Zamboni (milanese)47.
Proprio a quest’ultimo, promosso commissario federale, viene affidata la
guida della federazione, istituita ufficialmente nel febbraio 192848.
Nel frattempo si è consumato un nuovo avvicendamento alla direzione
del quotidiano. Il 6 gennaio Antongini lascia il giornale e due mesi dopo (il
4 marzo) parte da Bengasi49. A sostituirlo viene chiamato Carlo Ferrario,
ma è una soluzione temporanea, in attesa del nuovo direttore. La scelta
del regime cade su Sandro Sandri, il quale prende il timone di «Cirenaica
Nuova» il 29 marzo 1928. Nato a Codroipo (UD) il 16 dicembre 1895,
combattente, ferito e decorato al valore, dopo la guerra Sandri era stato
squadrista e collaboratore dei primissimi fogli fascisti. «Durante il periodo
quartarellista – scrive la redazione – è stato redattore de “L’Impero”», frase
equivalente ad un attestato di provata fede e ferrea disciplina 50. Nel 1926
138
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
Turati lo chiama a dirigere «Il Corriere di Catania», organo del fascio dal
192751. Quando sbarca a Bengasi, Sandri è un giornalista di successo giovane, bello, audace, che gode di entrature nel partito, e che, in Africa, cerca
la sua piena realizzazione52.
L’arrivo del nuovo direttore coincide con alcuni aggiustamenti nella
proprietà del giornale. Il 1° aprile 1928, «cessa la gestione della Società
Anonima “Cirenaica Nuova” in liquidazione, e la stessa viene assunta dalla
Società Anonima Editrice “Cirenaica Nuova” di recente costituzione». Il
quotidiano non specifica chi siano i proprietari, ma rimane il fatto che – se
prendiamo per buono il comunicato redazionale – la testata continua ad
essere in mano ad una società di capitali caratterizzata da una tale frammentazione del pacchetto sociale da risultare di fatto anonima, ovvero non
riconducibile ad una proprietà unica e stabile. La Federazione dei fasci
della Cirenaica, il cui Ufficio stampa viene affidato proprio a Sandri53, ha
aumentato e razionalizzato l’azione del Pnf sulla testata, ma «Cirenaica
Nuova» non è ancora un organo del fascio e la sua gestione amministrativa
non sembra ancora dipendere in toto dal partito.
Sandri annuncia alcuni miglioramenti editoriali54, ma in sostanza la
struttura e l’aspetto di «Cirenaica Nuova» rimangono quelli della gestione Antongini. Le trasformazioni riguardano semmai la presentazione delle
notizie e i temi su cui si focalizza il giornale. Innanzitutto «smobilitazione»
della cronaca nera, presentata come un non-tema55 – sotto i precedenti
direttori, invece, la cronaca giudiziaria aveva un suo spazio regolare, dal
quale emergeva un’immagine della colonia tutt’altro che idealizzata56. Anche a Bengasi dunque si iniziano ad applicare le direttive di Mussolini
volte a censurare sulla stampa quotidiana i cosiddetti fatti della vita57. Il
cambiamento più importante si registra però nel modo in cui il quotidiano
racconta la guerra di riconquista. Fino ad allora il quotidiano si era affidato
ai bollettini ufficiali del governo o ai dispacci dell’agenzia Stefani, a cui la
redazione aveva aggiunto, di volta in volta, dei corsivi di commento, dai
quali peraltro era già emerso il carattere violento e truce delle operazioni
militari e della guerriglia ribelle. Il giornale però non aveva un proprio inviato «al fronte», qualcuno capace di generare nei lettori una mobilitazione
psicologica e morale contro le ragioni della resistenza senussita e a sostegno
della «politica di potenza» del regime. Sandri viene a colmare questa lacuna
con le sue corrispondenze dal Gebel, articoli in cui giornalismo di guerra
e giornalismo di viaggio sfumano l’uno nell’altro, restituendo – sia pur in
139
Matteo Aguzzi
modo sottodimensionato rispetto alla realtà della vicenda, ma comunque
ai limiti della buona coscienza e della censura dell’epoca – la concretezza
della riconquista: uomini che danno la caccia ad altri uomini, una guerra
orribile e vittime di tutti i tipi58.
Sempre nel contesto della racconto della riconquista, Sandri ci rivela una notizia fin’ora sconosciuta che, se confermata da altre fonti, risulterebbe sorprendente nella sua eccezionalità: la partecipazione attiva alle
operazioni militari da parte di Giuliana Civinini (1899-1928), giovane
giornalista alle prime armi, figlia di Guelfo Civinini (1873-1954), scrittore e nota firma del giornalismo italiano. La rivelazione avviene secondo
la modalità, tipica del giornalismo di regime, della «cronaca dilazionata e
postuma»�, quando ormai sono trascorsi alcuni mesi dai fatti. L’occasione
la fornisce l’arrivo a Bengasi della notizia della morte di Giuliana, avvenuta
il 14 luglio 1928. Sandri scrive allora un articolo in memoriam, pensato
anche come gesto di condoglianza per il collega e amico Guelfo, in cui
– oltre a lasciar intendere che Giuliana si è suicidata a causa, diremmo
oggi, di uno stato depressivo – presenta la singolare figura di questa donna, neanche trentenne, che aveva ostinatamente scelto la vita dell’inviata
di guerra – forse anche preda della fascinazione per la figura del soldato
coloniale. Sandri l’aveva conosciuta quando era una bambina e «le ombre
della tristezza, opache e pesanti, non ingombravano ancora il suo spirito»:
Per me Giuliana è rimasta fanciulla; e – quando la rivedo col pensiero – ecco che mi
appare avvolta in un irreale alone di poesia, poiché il tormento che la uccise è quello
stesso che travaglia tutta la mia generazione eroica, che attraverso la guerra, il Fiumanesimo e il Fascismo ha scoperto in se stessa luci soprannaturali e sproporzionate alla
vita che gli uomini devono vivere nella esasperante monotonia di ogni giorno. Oggi
che non è più […] di Lei non ci rimane che il ricordo della sua irrequietudine convulsa […], Giuliana sognò di poter integrare tutte le esuberanze tormentose dell’animo
umano vivendo la vita del pericolo […], dell’eroismo. […] La rivolta di spiriti che è in
atto attraverso quest’inizio di secolo risente straordinariamente di questi stati d’animo
rivoluzionari che sono esplosi dalla guerra e dalla rivoluzione creando singolari tipi di
uomini. Ma noi […] che cosa vediamo oggi in questa creatura che aveva nella sua anima, nel suo cervello, nel suo cuore i nostri sogni e la nostra passione e che era donna?
Io l’ho compreso or non è molto, dove Giuliana aveva vissuto e combattuto come un
uomo al fianco degli ascari del 13° Battaglione Eritreo. Lassù nel vasto silenzio delle
vallate cupe si è maturata in Lei, certamente, la silenziosa tragedia. La guerra Italo
Austriaca aveva già sconvolto la sua anima; essere donna e dover assistere da lontano
all’epica bellezza dei combattimenti, mentre si sarebbe sentita capace di vivere nelle
140
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
trincee la vita del fante, deve aver costruito per Lei una sofferenza tormentosa. Rassegnarsi era morire. Seguendo suo padre durante le note spedizioni africane il fascino
strano di questa terra solatia aveva certamente acuito il suo tormento. A poco a poco il
concetto di una vita normale le era sfuggito allontanandosi dal suo spirito60.
Ad ogni ritorno in Italia – prosegue Sandri – il trantran della vita
quotidiana assumeva sempre di più la fisionomia di un gabbia asfissiante.
Giuliana «voleva la liberazione» rappresentata «dall’irreale vita che col suo
cervello si era costruita»61:
Qui [in Cirenaica], vivendo fra i soldati sotto la tenda, marciando con loro attraverso
l’Altipiano del Gebel o sulle sabbie della Sirtica si era sentita felice. In combattimento
aveva meravigliato i più audaci con il sublime sprezzo del pericolo e gli eritrei del 13°
Battaglione gli avevano dato i galloni da caporale sul campo. Ma poi? Era donna e, non
avendo potuto essere madre, era rimasta bimba dall’anima generosa ed eroica. Il Gebel
Cirenaico rappresentò per Giuliana Civinini l’Ascensione per quella luce che oggi la
illumina […], io penso al suo silenzioso dolore il giorno in cui abbandonò per sempre
questa terra d’Africa62.
Quando Sandri non scrive della riconquista, si occupa delle vicende
relative alla locale federazione del Pnf. Tra la fine del 1928 e l’inizio del
1929 l’attenzione si concentra sull’opera di «integrale epurazione delle fila
dei Fasci della Cirenaica di quegli elementi inidonei, e di dubbia fede che
erano riusciti ad avere una tessera»63. L’impressione però è che «la lenta
selezione» di coloro che in Cirenaica, «non hanno mai meritato il Fascismo» si basi, più che sull’esame dell’attività politica e morale delle singole
camicie nere, sulla regolarità con cui esse pagano la quota d’iscrizione al
Pnf64. Un’operazione che comunque ci fornisce dati abbastanza precisi sul
numero dei tesserati alla fine del 1929. A quella data – esclusi i 1.550 militi
della II Legione libica – i metropolitani iscritti al Pnf nel Fascio di Bengasi
sono 58165.
Le strigliate ai tesserati si tradussero – stando al giornale – in una loro partecipazione più convinta all’apparato ritualistico del regime, alle
commemorazioni, insomma le liturgie collettive del fascismo66. Il disciplinamento degli iscritti e l’istituzionalizzazione, anche a Bengasi, dei riti della rivoluzione, rappresentano sicuramente la parte più ‘spettacolare’
dell’azione di Zamboni, ma il consolidamento del fascismo bengasino, e
soprattutto del suo nucleo dirigente milanese, passa anche per vie meno
141
Matteo Aguzzi
roboanti. Promosso segretario federare alla partenza di Teruzzi (12 gennaio 1929), nel giugno Zamboni assume la carica di direttore della locale Cassa di Risparmio, mettendo così le mani sul principale rubinetto
del credito bengasino67. Sempre nel senso di un rafforzamento del gruppo
‘meneghino’ va poi letto l’arrivo in colonia di Mario Carità (luglio 1929).
Zamboni, che lo vuole «al suo fianco alla Segreteria Federale, [gli] ha affidato le sorti dell’Opera Nazionale Balilla in Cirenaica»68. Mentre Carità
scende in colonia, il segretario federale compie il percorso inverso e si reca
in Italia per una serie di incontri al vertice69, prima a Roma per colloqui
con Turati e il duce, poi a Milano dove l’agenda degli appuntamenti registra: riunione con il federale Luigi Franco Cottini70; ricevimento presso il
gruppo rionale fascista ‘Oberdan’ di Corso Buenos Aires; partecipazione ai
lavori della Commissione della Colonia Libica di Tocra, in cui si discute
l’ampliamento dell’opera di valorizzazione dei terreni dati in concessione
dal governo di Bengasi71; infine visita ad Arnaldo Mussolini. Le notizie che
rimbalzano tra Milano e Bengasi contribuiscono a delineare un intreccio
(intrigo?) politico-finanziario che lega la federazione milanese a quella cirenaica e questa alla Colonia Libica di Tocra, diretta da Alfredo Banfi. Se
i particolari della vicenda sono incerti, non lo è il quadro generale: con
Teruzzi governatore la società agricola milanese ottiene i terreni a prezzi
di favore, poi, con i soldi del governo e della Cassa di risparmio, li dissoda
e vi costruisce le infrastrutture essenziali (strade, pozzi, magazzini ecc.),
incrementandone così il valore e, insieme a quello, il prezzo delle proprie
azioni72. Intanto Banfi scala le posizioni del direttorio federale di Bengasi
(arriva alla carica di vice-segretario)73 e viene chiamato a gestire la trasformazione del giornale in organo ufficiale della federazione dei fasci della
Cirenaica: «Cirenaica Nuova» cambia titolo in «La Cirenaica» (10 ottobre
1929). Il passaggio avviene in concomitanza alla partenza di Sandri per
la Tripolitania, dove seguirà – in veste di ‘inviato aviatore’ de «Il Regime
Fascista» – la conquista del Fezzan ad opera del generale Rodolfo Graziani.
Sandri promette di tornare una volta conclusasi la campagna militare, ma
nel frattempo la direzione ad interim passa proprio a Banfi, il quale è anche
presidente della «Cooperativa Tipografica Fascista» proprietaria del giornale. Quanti siano in totale i soci, chi siano e quale sia, tra di loro, l’effettiva
distribuzione delle quote del capitale sociale la redazione non lo rivela.
L’impressione, però, è che il ruolo della «Cooperativa Tipografica Fascista»
non fosse meramente formale. Tra la federazione e il giornale esisteva sì un
142
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
legame molto stretto, come dimostra l’accumulo di cariche di Banfi, ma
permaneva ancora – sia pur lieve – un certo grado di separazione74.
La trasformazione del quotidiano in organo del Pnf sanciva definitivamente alcuni cambiamenti editoriali iniziati già nel dicembre 1928, quando «Cirenaica Nuova» era diventata un foglio d’ordini75. A partire poi dal
luglio del 1929, circa ogni due settimane, compare La Pagina del Balilla e
dell’Avanguardista. La redazione vorrebbe farne un vero e proprio inserto,
ma non è possibile poiché «mancano i mezzi finanziari»76. Rimanendo invariato il numero delle pagine (quattro), l’aumento dello spazio dedicato
alla nazionalizzazione delle masse bengasine implica che altri contenuti
vengano sacrificati: a subire i tagli maggiori sono gli articoli di intrattenimento e di costume. L’arrivo di Banfi alla direzione segna l’aumento dello
spazio concesso alla colonizzazione agraria: le Note utili per i coloni, già
introdotte da Sandri, vengono trasformate nella rubrica intitolata La colonizzazione e la produzione della Cirenaica77. Con il passare delle settimane
però il discorso generico sull’agricoltura coloniale «capitalistica» (sovvenzionata dal regime)78 si trasforma nel discorso specifico sull’opera della Colonia Libica di Tocra79, palesando il chiaro conflitto di interessi di Banfi, il
quale, pur in modo più sottile di Battaglini, finisce per riproporre un uso
privatistico del quotidiano. Che ci sia l’intenzione di rafforzare uno spazio
di potere personale, magari ai danni di Sandri? L’ipotesi forse non è troppo
peregrina se, a quanto detto sul rapporto Zamboni-Banfi, aggiungiamo ciò
che scrive – a dieci anni di distanza dai fatti – il giornalista Mario Bassi:
Quando Sandri era tornato dalla campagna di guerra della Fasania [Fezzan], tra febbraio e marzo, appunto, di quel ’30, aveva trovato mutamenti nel suo giornale operati
a sua insaputa, e non ch’egli potesse accettarli: la sua autorità di direttore scavallata, il
suo stesso posto insidiato e compromesso80.
Il 15 aprile 1930 si esaurisce l’interim di Banfi e Sandri rientra alla guida del quotidiano. Sulle pagine del giornale, ça va sans dire, tutto accade
come se niente fosse, ma probabilmente l’avvicendamento tra i due non fu
così naturale come si vuole far credere.
«La Cirenaica» al tempo dei campi di concentramento
Il 13 marzo 1930 era arrivato a Bengasi il nuovo vice-governatore, il
generale Rodolfo Graziani: stava maturando una nuova svolta nella fede143
Matteo Aguzzi
razione cirenaica. Il 18 aprile 1930 Zamboni viene rimosso dalla carica di
segretario federale81. È l’inizio della fine per il nucleo dirigente milanese
all’interno della federazione, che viene smantellato nel giro di qualche mese. Insieme a Zamboni rientra definitivamente in Italia anche Mario Carità82. Più lenta è invece l’estromissione di Banfi: a fine giugno cede la carica
di vice-segretario a Sandri, ma rimane a capo della cooperativa che detiene
la proprietà del giornale. La spinta definitiva a quella che sembra una posizione ormai traballante arriva con il commissariamento della federazione
(24 luglio 1930), affidato all’«avvocato farinacciano» Dante Maria Tuninetti83. Il 24 settembre la Cooperativa Tipografica Fascista viene sciolta e
la gestione finanziaria de «La Cirenaica» passa al segretario amministrativo
della federazione, Arnaldo Sbressa Agneni: il Pnf si accolla integralmente
la proprietà del giornale84. L’allontanamento dei capi milanesi del fascismo cirenaico è compiuto. Forse incise l’arrivo di Graziani, forse a Roma
non gradivano che i gerarchi locali si impegnassero più nella cura dei loro
«affari» personali che nell’assorbimento della comunità metropolitana nelle organizzazioni del partito. Probabilmente fattori periferici e nazionali
si combinarono rendendo evidente la difficoltà di Turati a reperire validi
gruppi dirigenti locali85.
A novembre Tuninetti procede alla nomina dei nuovi funzionari di partito attraverso un’operazione che somma i tratti dell’epurazione a quelli
del rinnovamento86. Ricomposto il direttorio federale, riorganizzati i fasci
esterni, anche in Cirenaica il Pnf sceglie, con più decisione, di «andare al
popolo»87: nuovo impulso alle organizzazioni di partito88, creazione dei
fasci femminili, riunione di tutte le attività filantropiche e di assistenza
sotto la sezione locale dell’Ente Opere Assistenziali89. La riapertura delle
iscrizioni al Pnf (ottobre 1932) rese evidente che in Cirenaica, al pari del
resto d’Italia, «si imboccò risolutamente la strada del partito di massa»90.
Il lavoro di riorganizzazione e potenziamento della federazione cirenaica e di tutte le organizzazioni fiancheggiatrici va di pari passo con l’opera
di modernizzazione del quotidiano locale. Sandri continuerà a ricoprire la
carica di direttore responsabile, ma sarà Tuninetti, nei successivi tre anni, a
occuparsi de facto dell’evoluzione tecnica, editoriale e giornalistica de «La
Cirenaica»91. Il commissario federale non è soddisfatto, la trova «povera di
contenuto, tecnicamente non molto felice, sotto molti aspetti imperfetta
e incompleta e ricca di dolorose lacune»92. I punti su cui intervenire sono:
rinnovamento della veste tipografica, dell’impaginazione e della struttura
144
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
complessiva; incremento del notiziario; maggiore attenzione alle questioni commerciali; ulteriore sviluppo della trattazione sportiva; ampliamento
dello spazio dedicato ai problemi di interessere regionale, cioè relativi alle
varie località della colonia. Il tutto senza trascurare la bella prosa degli
elzeviristi.
Non tutto sarà effettivamente realizzato, per esempio la copertura giornalistica dei centri minori rimarrà sporadica e limitata alla cronaca delle
liturgie di regime, ma nel complesso la modernizzazione è evidente e immediata. Il 3 maggio 1931 la redazione parla già di Promesse mantenute:
il testo degli articoli è passato dal corpo dieci al corpo otto; il servizio
telegrafico con Roma e il collegamento con le agenzie di stampa sono stati
migliorati; c’è stato il passaggio definitivo da quattro a sei pagine una volta
alla settimana; sul foglio aggiuntivo si alternano – con cadenza quindicinale – le due pagine dedicate alle organizzazioni giovanili fasciste, quella del
dopolavoro e, infine, quella di ‘intrattenimento’, contenente novelle, diari
di viaggio e notizie cinematografiche. A novembre i numeri settimanali a
sei pagine diventano due, ciò consente di dedicare, una volta alla settimana, un’intera pagina alle notizie sportive italiane e bengasine93.
Questo per quanto riguarda la forma. E i contenuti? Tra i molti temi
trattati nel periodo 1930-1933 ci soffermiamo su quelli che maggiormente
premevano al regime: la stretta decisiva sui ribelli e i campi di concentramento della Sirtica e del sud-bengasino94.
La «politica di rigore» di Graziani ha fatto sprofondare la colonia in
un clima truce che si riflette nel modo in cui il giornale racconta la fase
finale della riconquista. A mo’ di esempio scegliamo un brano dove si esalta
la spietatezza della macchina repressiva italiana impegnata ad alimentare
la frenesia sanguinaria fra la popolazione autoctona. A parlare è Sandro
Sandri:
Alcuni giorni or sono a quelli che stavano a Tocra, si presentò dinanzi agli occhi un
singolare spettacolo: un gruppo di indigeni scendeva dal Gebel verso la piana e il
mare e, in testa a tutti, uno recava un palo nel quale era infissa, ancora sanguinante,
una testa umana. Il gruppo attraversò l’abitato di Tocra e si disperse tra le tende degli
accampamenti dei nomadi; la testa ghignante, che aveva servito da trofeo macabro ai
beduini fu gettata agli sciacalli. Questo l’episodio, brevemente. Ed esso non è il solo,
non è isolato; anche altrove ne sono avvenuti di consimili; altre teste furono mozzate, e
infilzate ancora calde su una picca, orride, truci, sanguinolente, furono portate in processione fra le tende, prima, e lasciate esposte poi al ludibrio della gente, ormai stanca
145
Matteo Aguzzi
della ribellione che così si difende dai razziatori del suo bestiame, e così risponde al
continuo prepotere dei dissidenti. Le nostre Autorità di Governo assistono e aiutano
queste iniziative dei sottomessi e poiché l’indigeno che si rende colpevole di connivenza coi ribelli viene denunciato e punito con la morte, così a chi porta la testa di un
ribelle, e il suo fucile, viene corrisposto un premio in denaro contante95.
Un voyerismo crudele e macabro, quello di Sandri, che osserva con
compiacimento lo stato di disgregazione raggiunto dalla società libica. Gli
uomini di Omar al-Mukhtar però continuano a resistere strenuamente. Si
procede allora alla deportazione dell’intera popolazione libica del Gebel
che viene internata nei campi di concentramento costruiti lungo la costa.
L’operazione, che interessa circa centomila beduini seminomadi, si risolve
nello sterminio di alcune decine di migliaia di libici e nel dissesto demografico ed ecologico di un’intera regione96. Data l’enormità della vicenda,
si levano rapide le proteste prima della stampa araba poi quelle dell’opinione pubblica occidentale. In Italia però quasi non se ne parla, il regime
ha deciso che la riconquista non è un tema di propaganda nazionale97. Al
massimo si può trovare qualche giornalista che, dopo avere visitato i campi, sintetizza il tutto mascherandolo dietro una metafora medica, con la
«spietata diagnosi di Graziani» sui ribelli e l’operazione «d’alta chirurgia»
coloniale messa in atto per sconfiggerli98. Il discorso cambia se scendiamo
dal livello della stampa nazionale a quello della stampa locale. Gli italiani
che vivono in Cirenaica sanno dei campi di concentramento perché – lo
dice pubblicamente Graziani – «sono vicini e tutti possono recarsi a vederli: è uno spettacolo di triste, pietoso abbrutimento»99. Il giornale locale
non può ignorare la situazione, pena la totale perdita di credibilità. «La
Cirenaica» si mobilita dunque per rispondere colpo su colpo alle accuse
di atrocità che giungono dall’estero e per giustificare i lager. Tra il maggio
del 1930 e il dicembre 1933 possiamo contare circa 40 articoli in cui è
presente almeno un riferimento ai campi di concentramento e/o allo spostamento coatto della popolazione beduina (quasi uno al mese di media).
Scegliamo un passo dove Tuninetti combina la replica alle critiche provenienti dagli ambienti coloniali francesi ad un’immagine dei campi come
strumento tattico necessario a separare i ribelli in armi dalle popolazioni
civili che li sostengono materialmente e moralmente:
Ora un certo B. D. […] su la «Dèpêche Coloniale» invoca l’intervento della Società delle Nazioni in favore dei poveri beduini oppressi dalla crudele politica pratica146
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
ta dall’Italia in Cirenaica […]. Ma dove l’umanità salta fuori – quella teorica, ben
s’intende […] – è la dove si dice che il provvedimento attuato è contrario al diritto
delle genti, è odioso e riprovevole e viene messo in parallelo con gli ultimi campi di
concentramento dell’ultima guerra europea, a quelli creati dalla Spagna all’epoca della
ribellione di Cuba e a quelli stabiliti dagli inglesi nel corso della guerra anglo-boera
[…]. Beata ingenuità […]. Stabiliamo anzitutto che i concentrati durante la guerra
erano uomini, bianchi, civili, abituati ad un determinato tenore di vita, abitanti in
una casa, soggetti a leggi morali e a leggi giuridiche. Nel caso nostro si tratta invece
di beduini, predoni per istinto, nomadi per abitudine, anarchici per temperamento,
senza casa né legge, neppure sottoposti alle disposizioni ed alle autorità sciaraitiche che
sono poi le più primordiali e patriarcali […]. Un certo numero di popolazioni, abitando le regioni battute dai ribelli, vengono a subire direttamente od indirettamente, le
conseguenze negative e dannose della ribellione stessa, o restando vittime delle razzie
e delle depredazioni, o pagando di persona solidalmente […] le spese penali derivanti
dalle condizioni anormali della loro vita, condizioni realizzabili anche soltanto per la
coesistenza, peggio ancora per la connivenza, di sottomessi e ribelli nello stesso territorio. Allontanandoli, quindi, si serve la causa dell’umanità molto più e molto meglio
che non lasciandoli dove si trovano100.
Catturato e giustiziato Omar al-Mukhtar (settembre 1931), sconfitta
la resistenza (gennaio 1932), ci si aspetterebbe uno smantellamento dei
campi, che invece restano per timore di una recrudescenza della ribellione
anti-italiana101. Non potendo più ricorrere alla scusa delle esigenze militari,
«La Cirenaica» risponde al coro di proteste internazionali prima tirando
in ballo i progetti di ingegneria sociale del fascismo, tesi a fare dei nomadi
una schiera di coloni sedentari; poi – quando i vertici stessi del regime
ammettono a mezza bocca il bluff del «beduino della montagna che si è trasformato in un agricoltore»102 – si torna ad una lettura delle deportazioni
improntata alla Realpolitik: i nomadi, «nemici e distruttori dell’agricoltura», sono stati sgombrati dal Gebel per far spazio a «migliaia e migliaia di
braccia italiche» (sono nell’aria i progetti fascisti di colonizzazione demografica della Libia)103. L’immagine del «laboratorio sociale» non scompare
dal giornale, viene solo trasferita dai lager ai «campi ragazzi», dove i giovani
orfani – soprattutto figli dei caduti al servizio di Omar al-Mukhtar – vengono preparati per la futura leva nei battaglioni libici104.
Con la «normalizzazione etnica» della colonia cambia anche il volto
de «La Cirenaica». All’inizio del 1932, il processo di modernizzazione del
giornale rallenta. Se nel 1931 Tuninetti ha puntato sull’incremento e l’arricchimento delle pagine, a partire dall’anno successivo si assiste invece a
147
Matteo Aguzzi
un progressivo svuotamento del quotidiano sul piano dei contenuti. Molti
argomenti vengono dirottati sui nuovi periodici fondati e diretti dal federale. L’approfondimento delle questioni coloniali, gli articoli di taglio storico sulla Cirenaica e l’intrattenimento letterario diventano l’asse portante
del quindicinale «La Cirenaica Illustrata» (a. 1, n. 1 marzo 1932)105. Nel
gennaio del 1933 scompare dal quotidiano l’inserto sportivo, sostituito dal
settimanale «Cirenaica Sportiva»106. A luglio è la volta delle notizie economiche, trasferite su «Cirenaica economica», bollettino ufficiale della camera di commercio, industria e agricoltura di Bengasi. L’«esternalizzazione»
dei contenuti più dinamici e caratteristici verso le nuove riviste arricchisce il panorama editoriale di Bengasi, ma impoverisce «La Cirenaica», in
cui emergono i segni dell’incipiente omologazione al grigiore delle tante
«Vedette fasciste» italiane107. Intanto è cambiato anche il direttore: partito
Sandri (marzo 1933) arriva Carlo Milanese108. Ma le decisioni che contano continua a prenderle Tuninetti. Appare infatti abbastanza chiara la
scelta del federale di puntare sulle riviste per penetrare nei gusti del lettori
bengasini. Del resto – come afferma Tuninetti – non è più «La Cirenaica»,
bensì «La Cirenaica Illustrata» a possedere un «carattere squisitamente coloniale sotto l’aspetto etnico, culturale, economico»109. E se il quotidiano
tira avanti «tra sforzi e difficoltà non lievi», la rivista invece «va sempre più
affermandosi tra la popolazione metropolitana della colonia»110. Bandite le
polemiche, bandite le immagini, ridotta all’osso la cronaca nera, scomparse – con la conclusione della riconquista – le poche notizie emozionanti o
delicate: non è difficile credere che il quotidiano faticasse a suscitare l’interesse del grosso pubblico.
Se il processo di appiattimento editoriale del giornale non deve stupire
più di tanto, date le coeve richieste di Mussolini ai gerarchi per un disciplinamento dello stampa e un suo ulteriore accentramento direttivo111, la
stessa cosa non si può dire dell’incapacità della testata a realizzare quel salto
tecnico che le permettesse una copertura giornalistica capillare delle varie
località della Cirenaica, sia in termini di corrispondenti sia di distribuzione. Nonostante l’apertura delle vie di comunicazione interne, conseguente
alla fine dello stato di ribellione, il giornale giunge con regolarità solo nelle
località toccate dalla ferrovia (Barce e Soluch)112.
Siamo alla fine del 1933, una stagione si chiude (quella della conquista
militare) e se ne apre una nuova, legata al nome di Balbo e al tentativo di
messa in valore della colonia. Anche nel settore della stampa bengasina ini148
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
ziò una nuova fase?113 Chi furono i protagonisti? Con quale progressione il
quotidiano passò dal «regno della noia» al «tempo del delirio»114? E ancora,
quale ruolo svolsero le iniziative editoriali lanciate da Tuninetti tra il 1932
e il 1933? Sono solo alcuni degli interrogativi che lo studio della stampa
pubblicata in Libia negli anni di Balbo è chiamato a sciogliere, contestualizzandoli nel quadro più generale del problema storiografico riguardante
la modernizzazione della colonia dopo il 1933.
Prime conclusioni
In questa sede ci siamo limitati ad un quadro sintetico della storia e delle caratteristiche del quotidiano italiano stampato a Bengasi tra il 1926 e il
1933. Serviranno molti altri approfondimenti e confronti. Anche in sede
di conclusioni ci soffermeremo solo su alcuni punti, miranti a sottolineare,
su più livelli storiografici, le potenzialità della stampa edita in colonia.
1. La stampa italiana nel Ventennio. La storia dei giornali pubblicati
nelle colonie consente innanzitutto di precisare e articolare il discorso sul
processo di fascistizzazione della stampa italiana e su quello di centralizzazione della stampa di partito.
2. La politica coloniale del regime fascista. La strada per colmare la lacuna
sulle fonti edite riguardanti la «riconquista» della Libia passa proprio dai
quotidiani locali, che non poterono far a meno di dedicare all’argomento
la necessaria attenzione. Si può così sottolineare il carattere militare del colonialismo fascista (nonché il carattere fascista di quella guerra coloniale),
mantenendo al tempo stesso una prospettiva internazionale, globale dell’evento, che – già presente nei protagonisti dell’epoca, come dimostrano le
reazioni del giornale alle critiche provenienti dalla stampa straniera – non
può essere ignorata a favore di una lettura delle operazioni militari solo
come episodio locale, di storia italiana e libica.
3. Il fascismo in colonia. Lo studio del giornale di Bengasi conferma che
la storia della Cirenaica fascista è la storia del fascismo negli anni venti e
trenta, e fornisce numerose informazioni – spesso di propaganda, ma non
trascurabili – sul progetto di trasformazione totalitaria dell’oltremare italiano: di cui è possibile individuare le fasi progressive, con la vicenda dei
fasci libici quale «laboratorio» di un tentativo di assalto del Pnf alla società
coloniale; tentativo poi radicalizzatosi nell’Impero.
4. L’internamento coloniale italiano. In questo ambito – ormai supe149
Matteo Aguzzi
rata la fase del disvelamento di verità storiche taciute e della critica alle
amnesie autoassolutorie degli italiani ‘brava gente’ – la vera sfida è rappresentata dall’analisi delle modalità attraverso cui la politica concentrazionaria coloniale italiana contribuì a sedimentare prassi, modelli discorsivi
e comportamenti nel campo del controllo sociale all’interno di un regime
tendenzialmente totalitario, quale fu quello fascista. In tale ottica il quotidiano di Bengasi presenta una duplice utilità: in primo luogo affronta una
pagina coloniale che a livello di discorso pubblico nazionale fu oscurata
dal fascismo, mostrando quindi che non ci fu un silenzio assoluto intorno
all’internamento coloniale italiano in Libia; in secondo luogo dalle pagine
del giornale emerge un discorso propagandistico moderno, che si dimostra
altamente produttivo in quanto riarticola continuamente la narrazione sui
campi di concentramento della Cirenaica, giustificandoli non più (o meglio non solo) attraverso immagini tradizionali (il campo come prigione
dei nemici) bensì associando i lager all’idea di un progetto – tanto violento
quanto radicale – di profonda trasformazione sociale e culturale dei sudditi
coloniali libici.
5. Microstoria. Tutto questo senza dimenticare l’utilità della nostra fonte in una prospettiva di storia locale, tesa a far emergere le figure di sfondo
nel grande affresco della riconquista fascista della Libia. Parafrasando un
celebre romanzo possiamo dire che al centro dell’affresco troviamo Mussolini, Badoglio, Graziani, i colonnelli e i gerarchi fascisti. Ai margini, le
figure meno visibili, che fanno capolino dietro il palco delle autorità, ma
che in realtà reggono l’intera geometria del quadro, lo riempiono, e in
modo discreto, quasi invisibile, consentono a quelle autorità di occuparne
il centro. È con tale immagine in mente che bisogna procedere allo spoglio
minuzioso dei giornali pubblicati in colonia, per recuperare alla storia i
dettagli riguardanti le vicende di individui rimasti finora nell’ombra, come
nel caso di Giuliana Civinini.
I documenti d’archivio e la memorialistica rimangono le fonti principali per la ricostruzione del colonialismo italiano durante il fascismo, ma
nessuno studio potrà dirsi completo se non terrà in debito conto la stampa
edita in colonia.
150
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
Note al testo
* Il presente saggio è un primo prodotto della mia tesi di Laurea Magistrale in Documentazione e
ricerca storica, intitolata «Vivere e morire in colonia. Politica e società nelle pagine del quotidiano
italiano di Bengasi (1927-1933)», relatore Nicola Labanca, Università degli studi di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2009-2010.
1
Si intendono i quotidiani e le altre pubblicazioni periodiche appartenenti a ras, pubblicisti
fascisti o messe in piedi dalle federazioni provinciali del Pnf: insomma la stampa di partito, da
distinguersi dalla stampa di regime. Per una ricognizione bibliografica rimandiamo a Mauro
Forno, La stampa del Ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2005, p. X, n. 6; Id., Aspetti dell’esperienza totalitaria fascista. Limiti e contraddizioni nella gestione del «Quarto potere», in «Studi storici», n. 3, XLVII (2006), pp. 781-782,
nn. 1-2.
2
Mario Isnenghi, L’Italia del fascio, Giunti, Firenze1996, pp. 138-139.
3
Ci riferiamo allo studio di Paolo Murialdi [La stampa quotidiana del regime fascista, in La
stampa italiana nell’età fascista, a cura di Nicola Tranfaglia, Paolo Murialdi, Massimo Legnani,
Laterza, Roma-Bari 1980; poi in La stampa del regime fascista, Laterza, Roma-Bari 1986] e ai
saggi di M. Isnenghi pubblicati tra il 1979 e il 1987, ora raccolti in L’Italia del fascio cit.
4
I lavori fondamentali sulla Libia italiana sono: Enzo Santarelli et al., Omar Al-Mukhtar e
la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981; Angelo Del Boca, Gli italiani in
Libia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986-1988; Le guerre coloniali del fascismo, a cura di A. Del
Boca, Laterza, Roma-Bari 1991; Nicola Labanca, Oltremare, il Mulino, Bologna 2002; per
la Cirenaica nello specifico si veda anche Edward Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica,
Claredon Press, Oxford 1949 [trad. it. Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale. I Senussi di Cirenaica, Edizioni del Prisma, Catania1979]; per una bibliografia recente
sulla Libia rimando a N. Labanca - Pierluigi Venuta, Bibliografia della Libia coloniale. 19112000, Olschki, Firenze 2004.
5
Vedi supra.
6
Prendiamo Federico Cresti, Il professore e il generale. La polemica tra Carlo Alfonso Nallino e
Rodolfo Graziani sulla Senussia e su altre questioni libiche, in «Studi storici», n. 4, XLV (2004),
p. 1127: qui Cresti fa riferimento ad una lettera pubblicata sul giornale bengasino il 14 novembre 1930, e afferma che è tratta da «La Cirenaica Nuova», storpiando il titolo della testata.
Il secondo caso riguarda Luigi Goglia, Sulle organizzazione fasciste indigene nelle colonie africane d’Italia, in Fascismo e franchismo. Relazioni, immagini, rappresentazioni, a cura di G. De
Febo - R. Moro Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 173-212. Affrontando la questione
dell’esclusione della gioventù libica dall’Onb, Goglia cita il seguente articolo de «La Cirenaica»
Il Fascio Giovanile di combattimento curerà l’educazione fisica dei giovani libici, 12 marzo 1931.
Mussolini bocciò sia l’iniziativa che l’articolo e impose al giornale il silenzio su questo argomento. Diktat che – secondo Goglia – sarebbe stato tempestivamente recepito dal quotidiano.
In realtà il foglio bengasino ritornò sulla questione in altre due occasioni: L’Assemblea del Fascio
Giovanile di Combattimento, «La Cirenaica», 9 aprile 1931; Ali Nuruddin el Anesi, I giovani
libici, «La Cirenaica», 28 maggio 1931.
7
M. Venturini, Controcànone. Per una cartografia della scrittura coloniale e postcoloniale italiana,
Roma, Aracne, 2010. A p. 19 si parla di Sandro Sandri «direttore de “La Cirenaica” – rivista
che nasce a Bengasi nel 1929 e di cui Sandri sarà direttore fino al 1° aprile del 1933 [corsivo nostro]»: sbagliando sia la qualifica del giornale che il riferimento cronologico ad quem. Il volume
nasce nel contesto del Progetto di Ricerca Prin, Colonialismo italiano: letteratura e giornalismo,
finalizzato a reperire, catalogare e inquadrare gli scritti giornalistici e i libri dedicati alle vicende
151
Matteo Aguzzi
della politica coloniale italiana dal 1870 fino alla fase postcoloniale (www.italiacoloniale.it). È
paradossale che in sede di selezione delle fonti non sia stato scelto nemmeno uno dei quotidiani
o dei periodici italiani editi in colonia.
8
N. Labanca, New Sources on Fascist Colonial Camps in Cyrenaica 1930-1933, paper inedito
presentato al workshop «Colonial Camps in the History of Concentration Camps», Siena,
20-21 ottobre 2008.
9
N. Labanca, Politica e amministrazione coloniali dal 1922 al 1934, in E. Collotti Fascismo e
politica di potenza. Politica estera 1922-1939, (con la collaborazione di N. Labanca e Teodoro
Sala, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 94-102.
10
Nato a Bobbio (PC) nel 1888, già corrispondente dalla Libia nel 1911 per il «Secolo» di Milano, nell’agosto del 1918 lo troviamo a Derna come tenente dell’esercito. Sandro Sandri,
La morte di Gian Luigi Olmi, «La Cirenaica», 25 settembre 1930; A. Del Boca, Gli italiani in
Libia, I, cit., p. 412.
11
«Fu deputato al Parlamento Cirenaico, al quale non credeva, e nel quale tenne alto il nome
dell’Italia dominatrice tra quella policromia di indigeni in barracano ai quali, per una singolare
ironia, era allora concesso niente meno che legiferare». S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi
cit.
12
Di Olmi sappiamo che collaborò «con una serie di giornali fascisti in Italia». A. Del Boca, Gli
italiani in Libia, I, cit., p. 439.
13
N. Labanca, Oltremare cit. p. 140.
14
S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi cit.
15
N. Labanca, Politica e amministrazione coloniali dal 1922 al 1934 cit., p. 121.
16
P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 24; M. Forno, La stampa del Ventennio cit., p. 35.
17
E. Collotti, Fascismo e politica di potenza cit., p. 145. La vicenda dei fasci coloniali trova un
primo inquadramento in N. Labanca, I Fasci nelle colonie italiane, in Il fascismo e gli emigrati,
a cura di E. Franzina-M.Sanfilippo, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 85-100.
18
«[…] il giornale tardava ad uscire per ragioni varie»: Guido Battaglini, Cirenaica Nuova, in
«Cirenaica Nuova», 2 dicembre 1926. Il foglio viene fondato dalla «Società Anonima Cirenaica
Nuova» (150 mila lire di capitale). Gino Pacchiani, presidente del fascio di Bengasi, è a capo
del consiglio di amministrazione. Tra i consiglieri figurano i nomi di alcuni imprenditori locali
con interessi nell’industria edile, nel commercio e nell’editoria: Andrea Fontana, Giuseppe
Martelli, Gaetano Iannacci, Arturo Pavone. Comunicato, «Cirenaica Nuova», 2 dicembre 1926.
19
Comunicato cit.
20
Di lui sappiamo solo che era di origini abruzzesi, «tratto della Majella». Spigolature, «Cirenaica
Nuova»,17 dicembre 1926. Nel 1935 troviamo un ten. col. Guido Battaglini in Eritrea impegnato nelle operazioni preparatorie all’invasione dell’Etiopia (Guido Battaglini, Con S. E. De
Bono nel turbinio di una preparazione, A. Airoldi, 1938).
21
G. Battaglini, Cirenaica Nuova cit.
22
Ibid.
23
Alla morte di Olmi (settembre 1930) si menzionerà «il primo giornale della Colonia, quel
battagliero “Corriere della Cirenaica” che tutti ricordano», definendo il suo direttore «degno
esponente di quel giornalismo italiano da cui erano emersi Luigi Federzoni, Corrado Zoli, Luigi Barzini e Guelfo Civinini». S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi cit. Uno degli azionisti
di «Cirenaica Nuova», Andrea Fontana, era l’industriale edile locale più importante e aveva
152
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
fondato la sua ditta di costruzioni nel 1919. L’impresa Ing. A. Fontana e C. solennizza il decennale della sua costituzione, «Cirenaica Nuova», 15 giugno 1929.
24
Collaborazione, «Cirenaica Nuova», 10 dicembre1926.
25
«Alletterò, alimenterò la critica onesta, costruttiva, viva, feconda ma […] non la cosiddetta
critica sterile, negatoria, distruttrice. Ed in questo ordine di cose “Cirenaica Nuova” diventerà
ortodosso per eccellenza più fascista dei giornali fascisti e farà si che il Fascismo eserciti la critica
sul suo stesso corpo nei momenti più tempestosi, anzi soprattutto in questi». G. Battaglini,
Cirenaica Nuova cit. Sulla posizione di Bottai in merito al ruolo della stampa nel regime, P.
Murialdi, La stampa del regime cit., p. 33.
26
Collaborazione cit.
27
«Non abbiamo altro da fare che chiedere nuovamente agli organi statali, parastatali al privato,
a tutti insomma, di collaborare con noi»: [Comunicato redazionale], «Cirenaica Nuova», 18
dicembre 1926.
28
Spigolature cit. Pochi giorni dopo la redazione denuncia un presunto tentativo di sabotaggio ai
danni della linotype, operato da ignoti. Ci si dice pronti «a tirar fuori le buone maniere e i vecchi attrezzi», con evidente richiamo al manganello e all’olio di ricino. Sabotaggio?, «Cirenaica
Nuova», 21 dicembre 1926.
29
Quanti fossero i lettori è difficile dirlo con certezza. Da calcoli approssimativi, basati sul dato
degli abbonati, otteniamo circa 500 copie al giorno vendute, corrispondenti a quella fascia
di pubblico rappresentata dai fascisti e da altri «obbligati locali». I nostri abbonati, «Cirenaica
Nuova», 4 dicembre 1926; I nostri abbonati, «Cirenaica Nuova», 5 dicembre 1926; I nostri
abbonati, «Cirenaica Nuova», 8 dicembre 1926. Per un confronto con la tiratura e le caratteristiche delle testate fasciste di provincia, M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., pp. 266-268.
30
Motivi. Quali e quante associazioni esistono a Bengasi, «Cirenaica Nuova», 7 dicembre 1926;
Commissione annonaria, «Cirenaica Nuova», 10 dicembre 1926; G. Battaglini, In giro per la
Colonia, «Cirenaica Nuova», 30 gennaio 1927.
31
La vicenda si conclude con l’espulsione di quattro fascisti dal partito. Provvedimenti disciplinari, «Cirenaica Nuova», 11 gennaio 1927.
32
E. Collotti, Fascismo e politica di potenza cit., pp. 144, 149. Altre ricerche diranno se è esatta
l’impressione di un Battaglini intento a costruirsi uno spazio, se non proprio di potere locale,
quantomeno di «autonoma visibilità politica», secondo modalità simili a quelle del rassismo
metropolitano. S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000,
pp. 263-272.
33
S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 3, 242-252; P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 24-31.
34
P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 61.
35
La ricostruzione del Direttorio del Fascio di Bengasi, «Cirenaica Nuova», 3 febbraio 1927. Battaglini viene pro forma promosso direttore del Laboratorio Chimico, e nella sostanza rimosso,
scomparendo dalla scena politica locale. Lascerà la colonia dopo pochi mesi. I risultati delle
ispezioni alle farmacie, «Cirenaica Nuova», 7 agosto 1927; La partenza del Dottor Battaglini,
«Cirenaica Nuova», 3 settembre 1927.
36
Nato a Premeno (VB) nel 1877 da una famiglia di ricchi imprenditori tessili, milanese di
adozione, avvocato, giornalista, campione nazionale di tennis, scrittore. Durante il periodo
da factotum del Vate (1902-1922) Antongini frequenta l’alta società della Belle Époque e gioca
all’editore. Volontario di guerra dal luglio del 1916, poi legionario di Fiume, approda a Bengasi
in una fase di raffreddamento del suo sodalizio con D’Annunzio (1922-1927). Recentemente,
le frammentarie informazioni su Antongini sono state raccolte in un volume a carattere divul-
153
Matteo Aguzzi
gativo: F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri. Tom Antongini e il Lago Maggiore, Compagnia della
Rocca, Oleggio Castello (NO) 2007. Va rilevata un’elusività di fondo sul periodo trascorso da
Antongini in Cirenaica, nonché sul suo passato fascista. Lui stesso, tracciando il proprio curriculum vitae ne I codicilli di mio zio Gustavo (Mondadori, 1954), si limita a dire che fu «alto
funzionario coloniale per due anni».
37
F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., p. 17.
38
P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 29.
39
All’epoca è Seniore della MVSN e fa parte, in qualità di giudice, del Tribunale speciale della
Cirenaica (istituito nel 1926 sul modello nazionale del Tribunale speciale per la difesa dello stato). La prima udienza del Tribunale Speciale in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 5 ottobre 1927.
L’essere stato ingranaggio della principale macchina repressiva costruita dal regime fascista è
un dato taciuto dallo stesso Antongini, che già sul finire degli anni cinquanta ridimensionava
il suo passato in camicia nera, autorappresentandosi come uomo mai interessatosi alla politica,
e che aveva rigettato il fascismo al momento della dichiarazione di guerra alla Francia (quindi
erano state accettabili l’aggressione all’Etiopia, le leggi razziali e la guerra di Spagna?). Cfr. F.
Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., pp. 46-47.
40
M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 270.
41
L’inaugurazione dei Campi di Tennis dell’ex «Circolo Sportivo», «Cirenaica Nuova», 20 settembre
1927; Domeniche bengasine, «Cirenaica Nuova», 25 settembre 1927; La via dei baci, «Cirenaica
Nuova», 9 ottobre 1927; Il Carnevale a Bengasi, in «Cirenaica Nuova», 21 febbraio 1928.
42
Malombra, «Cirenaica Nuova», 5 giugno 1927; Femmina dagli occhi verdi, «Cirenaica Nuova»,
3 luglio 1927; Il delitto di Bianca, «Cirenaica Nuova», 18 settembre 1927; Lucietta, «Cirenaica
Nuova», 13 novembre 1927.
43
Wanda Bruschi, La donna fascista, «Cirenaica Nuova», 6 aprile 1927; Ead., Il problema femminile, «Cirenaica Nuova», 24 agosto 1927. Su Wanda Bruschi, giornalista de «La Gazzetta di
Puglia» e alta dirigente dei fasci femminili, Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista,
Marsilio, Venezia 1997 [1992], pp. 262, 269, 344, 352; Perry R. Wilson, Peasant Women and
Politics in Fascist Italy. The Massaie Rurali section of the PNF, Routledge, London 2002, p. 201.
44
Nato il 6 settembre 1903, impiegato, iscritto ai Fasci dal 30 aprile 1921, squadrista, prende
parte alla marcia su Roma. Nell’ottobre 1928 lascia Bengasi per ricoprire «importanti incarichi» alla federazione di Como, di cui sarà capo tra il 31 marzo 1940 e il 22 settembre 1941.
La Colonia Alpina Balilla della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 5 luglio 1928; Il collega Carlo
Ferrario lascia la Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 21 ottobre 1928; Mario Missori, Gerarchi e
statuti del P.N.F. Gran Consiglio, Direttorio nazionale, federazioni provinciali: quadri e biografie,
Bonacci, Roma 1986, p. 206.
45
La redazione si presenta come «un gruppetto di stanze, comunicanti fra loro, arredate modestamente – alcuni tavoli ricoperti di tappeti blu e verdi, poche sedie, due o tre scaffali, le pareti
tappezzate di carte geografiche e di golose immagini di gole d’oro, dive dello schermo, divette
del charleston, principesse straniere (colli di cigno, spalle ignude […], bocche rosse come lo
spasimo) – […] in ognuna di queste stanze ci sono, naturalmente, i ferri del mestiere». Giuseppe Muttoni, Il covo di via Zaura, «Cirenaica Nuova», 4 dicembre 1927; Annuario della
stampa italiana ed europea (1927-28), a cura del Sindacato Nazionale Fascista Dei Giornalisti
Milano, 1928.
46
Evidenti i contatti di Teruzzi con l’area lecchese: Il vibrante discorso di S. E. Teruzzi a Lecco in
occasione della Giornata Coloniale, «Cirenaica Nuova», 9 giugno 1928; Le entusiastiche accoglienze della Valsassina a S. E. Teruzzi, «Cirenaica Nuova», 25 settembre 1928.
47
Atti della Delegazione del P.N.F. in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 11 ottobre 1927. Tra febbraio
154
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
e marzo del 1928 scendono a Bengasi anche i fascisti milanesi della colonia agricola di Tocra. Il
gruppo è guidato da «autentici “squadristi” delle vecchie, sante, sanguinose battaglie milanesi»,
come Gianni Brambillaschi (volontario di guerra, ex ardito e legionario fiumano) e Alfredo
Banfi (ex combattente, fascista dal 1919, membro fondatore del fascio di Milano). Fascisti
Milanesi a Bengasi, «Cirenaica Nuova», 17 marzo 1928.
48
Nato a Milano il 3 settembre 1892, ex combattente volontario, iscritto ai Fasci l’8 aprile 1921,
«[…] “camicia nera” della più aspra vigilia, […] il Comm. Zamboni è Consigliere dell’Istituto
di Credito delle Cooperative di Milano e vice Presidente di un’importante Società Milanese
e fu Amministratore delegato di diverse società Industriali e Commerciali della Lombardia.
Già consigliere dell’Unione Cooperativa di Milano fu il fondatore, o meglio, il creatore e
l’animatore del movimento cooperativo Fascista, al fianco dell’On. Postiglione e del Comm.
Civelli, movimento che diresse sino al 1926». S.S., Il nuovo Presidente alla Cassa di Risparmio,
«Cirenaica Nuova», 2 giugno 1929; M. Missori, Gerarchi e statuti del P. N. F. cit., p. 290.
49
«È stato dal Duce scelto come direttore della ‘Patria degli Italiani’, il più grande quotidiano
in lingua italiana del Sud America». La partenza del Comm. Antongini, «Cirenaica Nuova», 4
marzo 1928. Il 21 luglio è di nuovo in Italia, per l’esattezza al Vittoriale. Il rapporto con D’Annunzio è stato ricucito, e il vecchio amico – intercedendo presso Mussolini – lo aiuta a trovare
una sistemazione all’Istituto Internazionale di cinematografia educativa, fondato a Roma il 5
novembre 1928. F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., pp. 28-29.
50
Cfr. Il nuovo direttore di «Cirenaica Nuova», «Cirenaica Nuova», 29 marzo 1928; M. Isnenghi,
L’Italia del fascio cit., p. 275; P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 28-29.
51
Cfr. Il nuovo direttore di «Cirenaica Nuova» cit.; P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 43.
52
Così lo ricorda nelle sue memorie la figlia, Anita Sandri. N. Labanca, Posti al sole. Diari e
memorie di vita e di lavoro delle colonie d’Africa, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto
(TN) 2001, p. 235. Altre notizie biografiche, ma inserite in un contesto apologetico in Mario
Bassi, Vivere pericolosamente. Sandro Sandri: uomo e gesta, Garzanti, Milano 1940.
53
Federazione dei Fasci della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 7 giugno 1928.
54
[Comunicato redazionale], «Cirenaica Nuova», 1 aprile 1928.
55
S. Sandri, Motivi di cronaca, «Cirenaica Nuova», 8 settembre 1928.
56
Due esempi: 1) L’arresto di un libico per possesso e vendita di sostanza stupefacente (hashish).
2) L’abbandono, sulla spiaggia di Bengasi, di «un feto di sesso maschile di razza europeo in stato
di putrefazione», caso rubricato alla voce «infanticidio» ad opera di ignoti. Vendeva stupefacente,
«Cirenaica Nuova», 31 dic. 1926; Infanticidio, «Cirenaica Nuova», 9 ottobre 1927.
57
Sulla cronaca nera come «chiodo fisso» delle disposizioni del duce alla stampa, P. Murialdi,
La stampa del regime cit., pp. 53-57, 104-109; Philip. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 86-88; M. Forno, La stampa del
Ventennio cit., p. 125-128.
58
Riportiamo un brano relativo al periodo luglio-agosto 1928. La scena descritta è successiva
all’assalto notturno compiuto dai mugiahidin ai danni di una ridotta dove Sandri stava pernottando: «L’alba sorgente illuminò i cadaveri dei ribelli uccisi a pochi passi dalle feritoie del
ridotto, dentro la cerchia dei reticolati divelti. Lo scrivente fotografò i cinque cadaveri insanguinati, e un sesto ribelle moribondo fu trovato impigliato nei reticolati e spirò dopo qualche
ora. Morì mentre lo si interrogava. Ricorderò a lungo quel moribondo insanguinato da una
vasta ferita all’addome che si contorceva negli spasimi dell’agonia mentre miriadi di mosche gli
sciamavano attorno nel sole». S. Sandri, Le operazioni contro i ribelli fra Sira e Maraua, «Cirenaica Nuova», 21 agosto 1928. Sul «trattamento dei nemici morti» nel contesto delle guerre
coloniali del Novecento si veda Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte
155
Matteo Aguzzi
nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 83-100.
59
M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1954, il Mulino, Bologna
2005 [1989], p. 198.
60
S. Sandri, In memoria di Giuliana Civinini, «Cirenaica Nuova», 7 agosto 1928.
61
Ibid.
62
Ibid. Finora sapevamo soltanto che Giuliana Civinini, «anch’essa giornalista in Africa, morì
tragicamente ancor giovane» e che le fu intitolato un premio letterario per le migliori opere
in prosa o in versi di argomento coloniale. http://www.finearts-blog.com/guelfo_civinini/biografia.html; N. Labanca, Oltremare cit., p. 245. Giuliana era scesa in Cirenaica nel maggio
1927 insieme al padre, inviato della «Tribuna» e del «Giornale di Genova». Guelfo Civinini,
I nostri ascari alla caccia dei predoni del Cuf, «Cirenaica Nuova», 18 maggio 1927. Il termine a
quo del suo rientro in Italia è collocabile tra maggio e giugno del 1928. Sandri pur conoscendo
le modalità del suicidio, realizzato con il ricorso ad un fucile militare, mantiene un velato
riserbo su questo punto e chiude il suo articolo con un’istantanea di Giuliana, colta un attimo
prima dell’estremo gesto: «[…] poi quando sapemmo tutto [i dettagli della notizia], vedemmo
le sue mani brancolare sul suo moschetto del Gebel. Forse lo avrà baciato prima di morire». S.
Sandri, In memoria cit.
63
I provvedimenti del Consiglio di Disciplina, «Cirenaica Nuova», 9 dicembre 1928.
64
S., Il tesseramento del 1929, «Cirenaica Nuova», 22 gennaio 1929; Tutti i fascisti morosi espulsi
dal Partito, «Cirenaica Nuova», 27 febbraio 1929.
65
A questi vanno aggiunti i 185 iscritti nei fasci esterni. In totale quindi i metropolitani residenti
in Cirenaica tesserati al Pnf erano 784. Gli Elenchi di coloro che hanno l’onore di appartenere al
P. N. F. in: «Cirenaica Nuova», 5 giugno 1929, 7 giugno 1929, 12 giugno 1929, 14 giugno
1929, 19 giugno 1929, 6 luglio 1929, 3 agosto 1929; «Cirenaica Nuova», 30 ottobre 1929.
66
Bengasi Fascista ha celebrato con manifestazioni vibranti il Natale di Roma, «Cirenaica Nuova»,
23 aprile 1929.
67
Antonio Zamboni, «Cirenaica Nuova», 12 gennaio 1929; Atti della Federazione, «Cirenaica
Nuova»,15 gennaio 1929; S.S., Il nuovo Presidente alla Cassa di Risparmio cit.
68
S., Mario Carità, «Cirenaica Nuova», 16 luglio 1929.
69
Il Segretario Federale parte per Roma, «Cirenaica Nuova», 22 giugno 1929; Il Segretario Federale
di Bengasi dal Capo del Governo, «Cirenaica Nuova», 7 luglio 1929; Il Comm. Antonio Zamboni
ha portato ai camerati di Milano il saluto della Camicie Nere della Cirenaica, «Cirenaica Nuova»,
11 luglio 1929.
70
La federazione milanese era appena uscita dal commissariamento gestito da Achille Starace, spartiacque tra gli «affarismi» del federale Giampaoli e i richiami allo squadrismo del suo
successore Cottini. Ivano Granata, Il Partito nazionale fascista a Milano tra «dissidentismo» e
«normalizzazione» (1923-1933), in Il fascismo in Lombardia, a cura di Maria Luisa Betri, Alberto De Bernardi, Ivano Granata, Nanda Torcellan, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 11-50.
71
La Società Anonima «Colonia Libica di Tocra» era stata fondata nel febbraio 1928 con un
investimento iniziale di 75 mila lire e aveva come presidente onorario Arnaldo Mussolini.
«Il Governo della Cirenaica – si legge sul giornale – concede in sfruttamento agli agricoltori
metropolitani, […] vaste plaghe di terreno, quasi gratuitamente, alla condizione che siano
valorizzate entro un dato periodo che il Governo fissa volta per volta». In questo caso il terreno
è esteso 1.500 ettari. Il governo locale aiuta la società agricola milanese concedendo rimborsi,
compresi tra il 30 e il 70 per cento, sulle spese per i lavori edili. Il giornale prevede che i terreni
della Colonia Libica di Tocra (partendo da un valore pari a zero) arriveranno rapidamente a va-
156
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
lere da 18 a 20 mila franchi l’ettaro. Nel luglio 1929 il capitale della società è già salito a 3 milioni di lire. La colonia agricola del Fascio milanese a Tocra, «Cirenaica Nuova», 21 luglio 1929.
72
Con Zamboni a capo della Cassa di Risparmio il credito agricolo segna un + 220% rispetto al
1928 (da lire 386.428 a lire 1.237.625). S.S., L’attività della Cassa di Risparmio della Cirenaica,
«Cirenaica Nuova», 23 settembre 1930.
73
Atti della Federazione, «Cirenaica Nuova», 15 gennaio 1929; B., Antonio Zamboni riconfermato
Segretario Federale per la Cirenaica, «Cirenaica Nuova»,15 gennaio 1930.
74
Banfi detiene azioni per un valore di 100 lire, mentre il prof. Mario Maglioni (docente presso
le locali scuole medie superiori e membro del direttorio federale) è l’amministratore delegato.
Presentazione. La Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 10 ottobre 1929; D. M. Tuninetti, Nella
famiglia del giornale, «Cirenaica Nuova», 24 settembre 1930; Id., Atti della Federazione Fascista,
«Cirenaica Nuova», 24 settembre 1930.
75
Tutte le comunicazioni riportate nella rubrica Atti della Federazione Fascista – scrive la redazione – «debbono essere considerate come fatte direttamente agli interessati». I provvedimenti del
Consiglio di Disciplina, «Cirenaica Nuova», 9 dicembre 1928.
76
La Pagina del Balilla e dell’Avanguardista, «Cirenaica Nuova», 26 luglio 1929.
77
Si veda «Cirenaica Nuova», 12 ottobre 1929.
78
N. Labanca, Oltremare cit., p. 321.
79
Bissi, La Colonia Libica del Fascio Milanese premiata nel VI Concorso della vittoria del Grano,
«Cirenaica Nuova», 23 ottobre 1929; La Colonia Libica del Fascio Milanese dopo 16 mesi di
attività, «Cirenaica Nuova», 22 marzo 1930.
80
Mario Bassi, Vivere pericolosamente cit., p. 132.
81
S. E. Graziani assume la Segreteria Federale dei Fasci della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 19
aprile 1930.
82
Ibid.
83
Tuninetti rimase al vertice della federazione di Bengasi fino al 31 gennaio 1937. Cfr. S., S.E.
Graziani ha insediato il Commissario Straordinario della Federazione Comm. Dante M. Tuninetti,
«Cirenaica Nuova», 25 luglio 1930; M. Missori, Gerarchi e statuti del P.N.F. cit., pp. 148-151,
284; S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 204, 306.
84
L’operazione si è resa necessaria – scrive Tuninetti – «al fine di stabilire sul quotidiano locale
un diretto controllo disciplinare, politico ed amministrativo, sistemandone la parte tecnica e
conferendogli un assetto stabile». Banfi, una volta ricevuta la liquidazione per la sua quota di
azioni, scomparve dalla scena politica di Bengasi. D. M. Tuninetti, Nella famiglia del giornale
cit.; Id., Atti della Federazione Fascista cit.
85
S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 308-309.
86
Segnaliamo il dato della «burocratizzazione» della federazione, i cui funzionari crebbero da 26
(gennaio 1930) a 38. D. M. Tuninetti, Atti della Federazione Fascista, «Cirenaica Nuova», 20
novembre 1930.
87
V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro,
Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 60-67.
88
Gli inscritti all’Onb in Cirenaica passano da 860 (1° gennaio 1931) a 2.032 (27 gennaio
1932). Il magnifico incremento dell’attività svolta nell’anno IX dall’O.N.B. in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 2 settembre 1931; L’Opera Nazionale Balilla in Cirenaica, «Cirenaica Nuova»,
27 gennaio 1932.
157
Matteo Aguzzi
89
Atti della Federazione Fascista. In via di costituzione il Fascio Femminile, «Cirenaica Nuova», 24
ottobre 1930; Le funzioni filantropiche devolute all’Ente Opere Assistenziali, «Cirenaica Nuova»,
26 novembre 1931.
90
Gianpasquale Santomassimo, Iscrizione al partito in Dizionario del Fascismo I. A-K, a cura di
V. De Grazia e Sergio Luzzatto, Einaudi, Torino 2003 [2002], p. 680. Il numero dei tesserati
salì dell’87 per cento nel giro di soli sei mesi: nel Fascio di Bengasi si passò dai 907 iscritti
dell’ottobre 1932 ai 1.700 di fine 1933. Federazione dei Fasci di Combattimento della Cirenaica,
«Cirenaica Nuova», 8 novembre 1932; Il rapporto annuale dei fascisti al Teatro Berenice, «Cirenaica Nuova», 5 dicembre 1933.
91
Rispetto al 1926 gli abbonamenti privati sono quasi raddoppiati (da 40 a 75), mentre quelli
della macrocategoria nella quale possiamo comprendere gli esercizi commerciali, gli enti pubblici, le associazioni, gli istituti e gli uffici della pubblica amministrazione – cioè quei luoghi in
cui il giornale inviava più di una copia – sono quasi triplicati (da 10 a 25). In mancanza di dati
precisi sulla vendita al minuto (edicole e altri spacci) possiamo solo ipotizzare che all’inizio del
1930 la tiratura giornaliera fosse di 8/900 copie. Primo elenco degli abbonati al nostro giornale,
«Cirenaica Nuova», 30 gennaio 1930; Secondo elenco degli abbonati al nostro giornale, «Cirenaica Nuova», 6 febbraio 1930.
92
Dante Maria Tuninetti, Colloquio coi lettori, «Cirenaica Nuova», 17 ottobre 1930.
93
Il quotidiano avvia anche un Concorso pronostici a premi basato sui risultati del campionato di
calcio di serie A. L’impressione è che si provi a scimmiottare la «Gazzetta del Popolo», giornale
torinese la cui «esperienza avrebbe condizionato la spinta al rinnovamento di molti altri giornali fascisti». M. Forno, La stampa del Ventennio cit., p. 132.
94
Sui campi di concentramento in Libia si vedano i seguenti lavori: Eric Salerno, Genocidio in
Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931), SugarCo, Milano 1979; Gustavo Ottolenghi, Gli italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, SugarCo,
Milano 1997; N. Labanca, L’internamento coloniale italiano, in I campi di concentramento in
Italia. Dall’internamento alla deportazione, 1940-1945, a cura di Costantino Di Sante, Franco
Angeli, Milano 2001.
95
S., Nemico preso, nemico morto, «Cirenaica Nuova», 17 maggio 1930.
96
La cifra dei civili libici morti per le condizioni create dalla repressione italiana e dalla deportazione nei lager oscilla intorno a quarantamila individui. G. Rochat, La repressione della
resistenza in Cirenaica, in E. Santarelli et al., Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della
Libia cit., p. 158-159; A. Del Boca, Gli italiani in Libia, II, cit., p. 189; N. Labanca, Oltremare cit. p. 175.
97
G. Rochat, Le guerre coloniali in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, Pagus, Paese
(TV) 1991, p. 14.
98
Os. Felici, La «Colonia nuova», «Cirenaica Nuova», 26 giugno 1932 (ripreso dal «Giornale
d’Italia»).
99
Rodolfo Graziani, Istituto Fascista di Cultura. La conferenza di S. E. il Vicegovernatore sulla
situazione attuale della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 26 novembre 1930.
100
D. M. Tuninetti, Campo di Concentramento e S. D. N., «Cirenaica Nuova», 5 febbraio 1931.
101
La liberazione di altri 129 confinati politici, «Cirenaica Nuova», 24 luglio 1932.
Cfr. L’agonia della ribellione cirenaica, «Cirenaica Nuova»,16 dicembre 1931; Rodolfo Graziani, Il nomadismo, «Cirenaica Nuova», 10 luglio 1932.
102
103
Rodolfo Graziani, Il nomadismo cit. Sul ricorso del pensiero totalitario a sillogismi che si
158
Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista
dimostrano a vicenda per creare «sistemi immaginari» altamente coerenti, in grado di «addomesticare» la realtà a scopo propagandistico, si veda Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza,
Roma-Bari 2001, p. 88.
P. Sparano, Il campo di concentramento dei fanciulli indigeni a Sidi Hamed el Magrun, «Cirenaica Nuova», 22 giugno 1933.
104
105
La rivista «Cirenaica Illustrata», «Cirenaica Nuova», 10 marzo 1932.
106
«La Cirenaica», «Cirenaica Nuova», 29 dicembre 1932.
107
M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 281.
Tuninetti lo presenta come una camicia nera che gli fu a fianco nel periodo delle «lotte per
l’affermazione dell’idea fascista in Piemonte». S.Sandri, Commiato, «Cirenaica Nuova», 16
marzo 1933; D.M. Tuninetti, [senza titolo], «Cirenaica Nuova», 17 maggio 1933.
108
109
Il rapporto annuale dei fascisti al Teatro Berenice cit.
110
Ibid.
111
P. Murialdi, La stampa del ventennio cit., p. 108.
«C’è una difficoltà che noi tutti conosciamo: far giungere quotidianamente il giornale dappertutto»: Le nostre corrispondenze dai centri della Colonia, «Cirenaica Nuova», 18 giugno 1933.
112
Nel 1935 «La Cirenaica» cambia nome in «Scolte d’Affrica: quotidiano fascista di Libia orientale».
113
P. Spriano, L’informazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia. I documenti, vol. V, a cura di
Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, Einaudi, Torino1973, p. 1853; P. Murialdi, La stampa
del regime cit., pp. 56-57, 109-111.
114
159
«L’Avvenire di Tripoli»
e la risposta alla crisi del 1929
di Gabriele Bassi
Origini e storia del giornale1
«L’Avvenire di Tripoli» nasce il 7 marzo 1928 in conseguenza alla volontà di dotare la capitale della maggiore colonia italiana di un organo di
informazione e di comunicazione per la cittadinanza metropolitana che
risiede in Tripolitania2. L’essere l’unico quotidiano distribuito in colonia3
rappresenta assai spesso motivo di vanto per lo stesso foglio, in molteplici
occasioni al suo interno si tiene a precisare l’unicità della pubblicazione.
Stampata presso la Tipografia Arti e Mestieri, la testata ha sede inizialmente presso la Casa del Fascio e, dal luglio 1930, al primo piano dell’immobile della Società Anonima Fondiaria, all’interno della Galleria De Bono.
Fondato dalla Società editrice fascista della Tripolitania (Seft), è sin dalle
origini l’organo ufficiale della Federazione fascista della colonia. La società
anonima possiede nel 1928 un capitale di 100mila lire, suddivise in azioni
delle quali i tre quarti sono possedute dalla Federazione stessa. La rimanente quarta parte appartiene a privati iscritti al Partito fascista. Nel maggio
1929 la Federazione riscatta anche il quarto di azioni in precedenza di
proprietà degli azionisti privati, diventando pertanto unica proprietaria
della testata: «per l’ottima amministrazione che il giornale ha avuto è stato
possibile rimborsare ai volenterosi sottoscrittori di azioni il capitale versato»4. Tuttavia l’acquisto di azioni da parte di privati si rileva essere stato a
carattere sostanzialmente formale, in quanto avevano a suo tempo rinunciato alle loro quote di utili a favore della Federazione Fascista, «in modo
che essi per primi avevano concorso al consolidamento della situazione
patrimoniale del giornale con sacrificio delle loro spettanze».
A distanza di circa un anno, nel luglio 1930, il consiglio di amministrazione della Seft reputerà che non abbia significato la permanenza di
una gestione «che non rappresenta [più] l’entità patrimoniale e morale del
161
Gabriele Bassi
giornale». I precedenti membri, riunitisi in assemblea, deliberano quindi
di essere dimissionari affinché venga nominato quale nuovo consiglio amministrativo il direttorio federale e quale presidente il segretario federale.
In questa situazione il solo azionista del giornale è la Federazione Fascista e, in sua
rappresentanza, il Segretario Federale. Logicamente ne deriva che se l’unico ad avere
potere direttivo, sia nell’indirizzo amministrativo che in quello politico, è il Segretario
Federale, il Direttorio Federale, il quale è immediato collaboratore del Segretario Politico ed esecutore ed interprete delle sue decisioni, costituisce, per il giornale federale,
il Consiglio di Amministrazione.
Poiché anche in precedenza il quotidiano era controllato completamente dalla Federazione, dal momento della trasformazione non si nota
alcun cambiamento nella composizione degli articoli e nei loro contenuti.
«L’Avvenire di Tripoli» spiega però come in base alla nuova forma gestionale si verifichi una maggiore chiarezza di rapporti tra la Federazione ed
il giornale e si elimini ogni, sia pur lieve, separazione. Un unico aspetto
sembra emergere in conseguenza dell’insediamento del nuovo consiglio.
Le direttive imposte dal regime vengono diffuse dal quotidiano con toni
più severi ed imperativi: «ciò gioverà anche in confronto a coloro che dimenticano che il giornale è del Partito»5.
In città il giornale viene venduto presso l’Agenzia Filacchioni, all’edicola di fronte al Castello ed attigua alla farmacia municipale, presso la
tabaccheria di Sciaria el Machina e attraverso venditori ambulanti, oltre
che naturalmente alla sede della redazione. Non si accenna mai alla presenza di altre forme di distribuzione al di fuori dell’ambito cittadino, ad
eccezione della spedizione regolare a Bengasi, dove viene venduto presso la
cartoleria Fadlum. Il quotidiano non fornisce informazioni circa la tiratura
ed il numero di cittadini che abitualmente acquistano e leggono il giornale. Ci si considera comunque piuttosto soddisfatti delle vendite sebbene
un loro incremento costituisca una finalità che la redazione si propone
costantemente. In alcune occasioni quest’ultima interviene direttamente
indirizzando un appello ai lettori affinché non si passino le copie tra loro
ma che ognuno di essi ne acquisti una propria. Oltre alla diffusione attraverso strilloni e luoghi fissi di vendita si registrano anche degli abbonati.
Negli ultimi mesi di ogni anno si insiste molto sull’opportunità da parte
dei lettori abituali di contrarre l’abbonamento con il quotidiano.
«Della Tripolitania l’Avvenire di Tripoli intende essere – si dice nella
162
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
testata stessa – lo specchio fedele attraverso la documentazione costante
dei progressi della Colonia sotto tutti i punti di vista; politico, economico, agricolo, turistico»6. Il quotidiano cerca di farsi carico di illustrare
ogni evento di rilievo della vita cittadina e coloniale, occupandosi della
trattazione di una gamma di argomenti ritenuta la più ampia possibile.
Oltre all’informazione dei residenti a Tripoli e negli altri centri tripolitani,
il quotidiano esprime in più occasioni la propria intenzione di proporsi come testimonianza dell’azione fascista svolta in colonia anche al di fuori di
essa, in primo luogo in Italia. «Nelle sue pagine – si scrive sul giornale – è il
quadro quotidiano dello sviluppo della Tripolitania, sviluppo progressivo e
incessante. Per questo motivo «L’Avvenire di Tripoli» sarà presto ancor più
conosciuto e letto in Italia e nei paesi stranieri7.
Ciò è reso possibile solo parzialmente in quanto ciò che viene pubblicato da «L’Avvenire di Tripoli» non conosce una sufficiente diffusione nella
madrepatria. Attraverso le sue pagine il giornale esprime implicitamente
un’insoddisfazione per questa presunta mancanza di eco nella penisola che
mortificherebbe la sua aspirazione di essere un organo di informazione
della colonia e non soltanto per la colonia. Poiché in Italia il quotidiano è
venduto in due sole edicole a Roma8 e a Catania9, le uniche occasioni in
cui notizie e considerazioni dei suoi giornalisti ottengono la considerazione del pubblico della madrepatria sono offerte dalla citazione da parte della
stampa italiana di brani tratti dal foglio tripolino. Quando ciò avviene se
ne dà notizia con toni di soddisfazione e di orgoglio. La redazione è infatti
convinta che il proprio giornale, «pur senza avere la pretesa di competere
con le grandi aziende di stampa quotidiana, [possa] sicuramente reggere il
confronto con la migliore stampa di provincia del Regno».
In quanto proprietà ed organo di informazione della Federazione fascista, «L’Avvenire di Tripoli» non può che dimostrare caratteri di perfetta
adesione alle volontà e agli indirizzi imposti dal Partito:
L’Avvenire di Tripoli è un giornale schiettamente fascista; ed è, forse, sia detto senza
retorica e senza esagerazioni, uno fra i più tipici giornali del fascismo. La ragione è
evidente: l’Avvenire di Tripoli è il quotidiano più importante della più grande e della
più importante delle colonie italiane, della colonia anche più vicina all’Italia.
Ogni iniziativa del governo coloniale o del locale Pnf viene proposta
dal giornale con parole di forte retorica ed aggettivi finalizzati all’esalta163
Gabriele Bassi
zione della positività e dell’opportunità del provvedimento. In alcuni casi,
spesso inerenti decisioni interferenti con la vita degli indigeni, si mettono
in atto elaborazioni atte a trasformare ogni iniziativa in una magnanima
provvidenza del governo coloniale. Nella maggior parte delle occasioni la
correttezza e la benevolenza del governatore è descritta come talmente evidente e comprensibile a tutti che non si renderebbero necessarie ulteriori
delucidazioni da parte del giornale.
«L’Avvenire di Tripoli», oltre alle funzioni di informare e di illustrare la
politica coloniale del fascismo, si propone infatti, quale foglio di partito,
anche quella dell’amplificazione e dell’esaltazione dell’operato del Regime,
sia in colonia che nella madrepatria: «il giornale è e deve essere, nella volontà precisa del Duce, una bandiera e uno squillo di battaglia, espressione
di vita del fascismo»10. Già nel gennaio 1929 il quotidiano dimostra la sua
totale adesione alle direttive fasciste inerenti la stampa, concordando con
la necessità di un controllo da parte del governo sugli articoli che i giornali
intendono pubblicare.
Il Governo rammenta ai Sigg. Corrispondenti e collaboratori di periodici del Regno,
che tutti gli scritti di carattere politico o militare vanno sottoposti, prima della spedizione, al «visto» del Gabinetto di S.E. il Governatore e tutti gli articoli di propaganda
e scritti tecnici vanno presentati, per il nulla osta, all’Ufficio Studi e Propaganda.
Attraverso riferimenti ad alcuni episodi di scorrettezza o incoerenza
da parte di giornalisti che non si curano delle norme imposte loro circa
l’invio delle corrispondenze, «L’Avvenire di Tripoli» commenta il provvedimento ritenendolo di indubbia necessità. «Il richiamo del Governo è più
che opportuno – cerca di precisare -. Sarebbe ora, veramente, che i sordi
volontari venissero messi a posto, una buona volta e per sempre, con un
provvedimento ad hoc. […] Un po’ di serietà non guasterebbe. Sarebbe
tempo!». Si cerca di accreditare l’immagine secondo cui il provvedimento
non abbia niente a che fare con pretese di censura o restrizioni della libertà
giornalistica: «dunque, funzione di controllo, per esclusivo amore di esattezza, vuole essere quella del Governo, non di limitazione. I corrispondenti
possono scrivere quanto vogliono e come vogliono, purché si attengano
alla verità, e lascino da parte la fantasia».
È soprattutto l’invenzione di particolari più o meno rilevanti che si
sostiene deteriori la qualità delle notizie rendendole poco affidabili o ad164
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
dirittura viziate da gravi imprecisioni. Il quotidiano riporta un esempio
calzante di quanto nella madrepatria si descrivano talvolta episodi coloniali
completamente distorti:
[La fantasia] non può partorire se non gagliofferie tipo quelle esilarantissime ammannite al mondo, in questi giorni, da un giornale di Trieste che, in un’occasionale corrispondenza tripolina, asseriva che è stata costruita da Tripoli a Gadames una stupenda…Autostrada, la quale pur servendo a scopi…strategici (?!!) consentiva un rapido e
abbondante fluire di primizie da Gadames alla costa, tra cui uva succulenta nel mese
di luglio!11
«L’Avvenire di Tripoli», oltre ad aderire completamente al provvedimento del governo fascista, sostiene di ravvedervi anche un’opportunità
per ottenere maggiore chiarezza all’interno dell’informazione coloniale.
Per incrementare le proprie vendite il giornale non si limita alle sole
esortazioni nei confronti dei lettori ed alla propaganda ma dichiara di impegnarsi per offrire loro un servizio sempre migliore. Dal 1929 assume una
impostazione tipografica ritenuta moderna e all’avanguardia per le tecniche tipografiche e di impaginazione utilizzate. «I caratteri di testo da noi
usati – si specifica sul quotidiano – sono quelli stessi che adoperano i più
importanti quotidiani del mondo, dagli americani, ai francesi ai tedeschi
e da poco li utilizzano anche pochi giornali italiani»12. Per mantenersi al
passo con i tempi e fornire un aspetto grafico piacevole e pratico, la Federazione elargisce i fondi necessari all’acquisto di macchinari di ultima
generazione per la stampa e l’impaginazione del proprio quotidiano. Nel
1929, ad un solo anno dalla nascita, il giornale possiede già una forma del
tutto rinnovata: «un moderno reparto di zincografia è stato acquistato in
Italia ed è pronto per essere utilizzato» precisa la redazione. «La stampa
sarà migliorata mediante una rotativa a nastro, sistema del quale si servono
i grandi quotidiani, che ne migliorerà la veste grafica»13. Alla base dell’acquisto della rotativa si descrive vi sia la volontà di non stancare la vista del
lettore ed al tempo stesso conferire al foglio caratteristiche di eleganza e
distinzione.
Dal 1932 si dà impulso ai servizi telegrafici e radiotelegrafici che quotidianamente provengono da Roma, che recano al giornale dalle «notizie
della giornata e i commenti della grande stampa agli atti più notevoli del
Governo»14. Parallelamente all’intensificazione delle comunicazioni con
l’Italia si sostiene di avere numerosi nuovi corrispondenti nelle maggiori
165
Gabriele Bassi
città africane: Il Cairo, Alessandria, Tunisi, Algeri, Casablanca e Città del
Capo. Si pone inoltre in funzione una fitta rete di contatti con località
costiere e dell’interno della Tripolitania. Corrispondenti della testata si registrano presso Zuara, Sabratha, Zavia, Homs, Misurata, Sirte e Gadames.
In tal modo l’Avvenire di Tripoli, validamente sorretto dalle gerarchie del governo e
del partito, ha potuto e può essere l’eco dell’operosità silenziosa dei coloni e degli ufficiali e dei soldati che nelle località più lontane custodiscono e avvalorano il territorio
tenendo alto il simbolo della patria fascista15.
Il giornale non rimane tuttavia un organo di sola influenza e di propaganda delle direttive fasciste. Una serie molto ampia di informazioni,
resoconti, annunci economici e rubriche di vario tipo lo rendono anche
uno strumento di pratica ed effettiva utilità per lo storico dei nostri giorni.
La struttura e i contenuti
La pubblicazione si compone normalmente di quattro pagine. Le edizioni domenicali, per le rubriche più numerose che vi sono contenute, ne
richiedono due ulteriori. La prima è generalmente dedicata a notizie nazionali ed internazionali con argomenti inerenti la politica e la celebrazione
di anniversari e ricorrenze fasciste. Raramente vi ottengono spazio notizie
di cronaca italiana, vi appaiono soltanto quando ritenute di particolare
gravità o di notevole risonanza. Frequentemente un articolo del direttore
o di uno dei suoi più stretti collaboratori completa la normale composizione della prima pagina del giornale. Avvenimenti riguardanti Tripoli o
la colonia vi trovano posto solo se ritenuti di grande eco o di eccezionale
importanza. Essi si collocano altrimenti in seconda pagina, raccolti nella
sezione Cronaca di Tripoli e, dal 1931, Cronaca di vita tripolina. È questo lo
spazio dal quale il cittadino può apprendere, oltre ai principali accadimenti
della giornata, informazioni pratiche utili per la vita in città. Vi compare,
ad esempio, una selezionata serie di annunci economici che il quotidiano
pubblica dietro relativo pagamento. Alcune ditte metropolitane che si appoggiano ad agenti di commercio locali, sono solite pubblicare le proprie
pubblicità in questa sezione, con la finalità di ampliare il loro mercato tra
la popolazione italiana tripolina, attraverso la frapposizione degli annunci
alle notizie di cronaca cittadina. I comunicati degli enti e delle organiz166
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
zazioni di Tripoli trovano ancora spazio in questa sezione del giornale16.
Complessivamente emerge un quadro della vita associativa di Tripoli piuttosto nitido, dal quale si apprende la vivace presenza di attività militari, ricreative, ed informative. La costante pubblicazione e l’attenzione dedicata
dal quotidiano ad annunci ed aggiornamenti di questo tipo sembra indicare un cospicuo numero di aderenze, nella popolazione metropolitana, ad
organizzazioni ed associazioni di diversa natura.
La terza pagina de «L’Avvenire di Tripoli» è solitamente dedicata ad articoli di argomenti occasionali e a rubriche fisse che completano il quadro
delle attività tripoline, sia commerciali e professionali che ricreative e di intrattenimento. I movimenti del porto sono descritti attraverso dati molto
precisi che registrano gli arrivi e le partenze di piroscafi sia per il trasporto
di passeggeri che per quello di merci di tutti i generi. I nominativi delle
personalità di spicco che giungono a Tripoli, così come di quelle che lasciano la città, vengono puntualmente annotati. Si riportano invece il numero e la nazionalità per tutti gli altri passeggeri che transitano dallo scalo
marittimo tripolino. Di ciascuna nave si riportano il nome, la destinazione
o la provenienza, il numero dei passeggeri o l’entità e la qualità del carico
trasportato. Frequentemente si aggiungono gli scali fatti precedentemente
l’arrivo a Tripoli o quelli previsti in futuro per i piroscafi in partenza. Dalla
rubrica emerge un notevole movimento sia di passeggeri che di merci dal
porto tripolitano. Collegamenti regolari si hanno con i principali porti
italiani, soprattutto del Tirreno e della Sicilia (Genova, Livorno, Napoli,
Catania, Siracusa, Palermo, Messina), ma anche con Malta ed altre città
della colonia (Misurata, Sirte, Bengasi). Oltre alle rotte nazionali si aggiungono le tratte per scali stranieri sia europei che africani: il Tolemaide offre
il servizio Tunisi-Tripoli per passeggeri, altri piroscafi si alternano nei collegamenti con Sfax, Gerba e Spalato. Bastimenti per il trasporto di merci
di numerose nazionalità prelevano e scaricano i propri materiali nel porto
tripolino provenienti da Amburgo, Marsiglia, Malta, Port Said. Trasporti
non regolari sono effettuati anche da navi provenienti da Shangai e dal
Giappone, che effettuano solitamente scali in Egitto prima di giungere a
Tripoli. Dal 1931, probabilmente in conseguenza alla politica di promozione turistica avviata nella colonia, la rubrica presta maggiore attenzione
al movimento dei visitatori, mettendone in evidenza la progressiva crescita.
Nella descrizione di arrivi e partenze si sottolineano i numeri e le provenienze di stranieri e di italiani che hanno soggiornato in Tripolitania per
167
Gabriele Bassi
motivi turistici. Nella seconda e nella terza pagina del giornale trovano
poi posto numerose altre tipologie di informazioni di pubblico interesse
o curiosità, tipiche di un foglio di provincia. Si dà notizia di matrimoni
di personaggi noti della colonia, principalmente metropolitani ma anche
israeliti e notabili indigeni. Famiglie dei defunti ringraziano per tramite del
quotidiano chi ha preso parte alla cerimonia funebre. Ampie descrizioni
sono dedicate agli spettacoli teatrali ed alle proiezioni cinematografiche. Il
Real Teatro Miramare, il Politeama, il Cinema Alhambra pubblicizzano i
loro programmi accompagnando i titoli con riassunti delle trame. Le comunicazioni circa i futuri spettacoli fatte con largo anticipo suggeriscono
la volontà di creare a Tripoli una fremente attesa per l’arrivo di pellicole o
attori prestigiosi. L’elenco dei concerti viene abitualmente pubblicato dal
Gran Caffè Miramare, che offre repertori per lo più di musica classica,
occasionalmente anche di altri generi musicali. Ma il fulcro del divertimento e dello svago metropolitano di alto livello è certamente il lussuoso
Grand Hotel che si riserva sempre un notevole spazio sul giornale per la
pubblicazione dei propri programmi di intrattenimento pomeridiani e serali. Spesso si citano la signorilità e la serietà dell’ambiente, tanto da far
comprendere come esso si ponga al centro della vita mondana tripolina.
L’ingresso non è aperto al pubblico, gli inviti si debbono richiedere presso
la direzione ed alle personalità di spicco di Tripoli vengono recapitati a
domicilio. Il Grand Hotel ospita complessi musicali di grande fama, organizza tè pomeridiani, indice gare di ballo con cotillon al sabato, grandi
feste durante il carnevale e cene di gala per le festività. Tutta una serie di
periodici trattenimenti che «nei giorni di festa permettono di occupare nel
miglior modo desiderabile le ore libere dalle ordinarie occupazioni»17.
Ancora per mezzo del foglio, la Federazione fascista elenca la manodopera disponibile presso l’ufficio di collocamento della Federazione stessa,
indicando quali siano i requisiti necessari per essere idonei alla professione
cui si è interessati.
Come ogni foglio locale che si rispetti, «L’Avvenire di Tripoli» informa
poi i propri lettori sui turni rispettati dalle farmacie della città, indicando
gli orari di apertura e l’esatta ubicazione di ogni esercizio. Le estrazioni del
Regio Lotto vengono puntualmente riportate sul giornale, così come i dati
relativi al bestiame macellato presso gli appositi stabilimenti cittadini ed il
listino dei prezzi calmierati, costantemente aggiornato e corretto.
Nella sezione Ultime notizie e informazioni sono frequentemente con168
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
tenuti brevi resoconti di avvenimenti esteri, sia politici che di cronaca, e
talvolta ragguagli a notizie riportate in passato. All’interno di questo spazio, oltre al bollettino meteorologico, si trovano molteplici sottosezioni
che mettono al corrente sui principali avvenimenti del giorno precedente:
contravvenzioni, arresti, incidenti, oggetti smarriti e rinvenuti18, andamento dei titoli di stato e dei cambi, orari ferroviari e autotramviari. Ma anche
manifesti funebri, tasse di bollo sui titoli esteri, valori del mercato del pesce, ecc. Per quanto riguarda gli arresti, incidenti e le contravvenzioni si
specificano, oltre al nome, il luogo di provenienza dell’individuo e se questo sia metropolitano, musulmano o israelita. Difficilmente tuttavia si riscontrano casi nei quali sia coinvolto un cittadino italiano, la maggioranza
delle circostanze vede protagonisti indigeni e, a seguire, gli ebrei. Nella descrizione degli episodi che hanno sancito la contravvenzione ai responsabili
indigeni si usano toni talvolta derisori, talaltra più seccati e severi. Ciò che
si avverte attraverso la lettura delle numerosissime tipologie di infrazione19,
è la convinzione che sia stata la scarsa intelligenza dell’indigeno ad averlo
fatto scoprire dalla sorveglianza. Inoltre si dimostra soddisfazione quando
si multano individui che si ostinano a non rispettare le leggi vigenti proseguendo ad agire illegalmente e secondo le proprie abitudini.
Parti della terza e della quarta pagina sono dedicate poi alla pubblicità.
Numerose ditte italiane o internazionali forniscono l’indirizzo delle loro
sedi in Tripoli ed i nominativi dei loro rappresentanti ed agenti. Molte
sono anche le inserzioni di negozi privati e compagnie di servizi, dal cui
lungo elenco si può apprendere la vasta tipologia merceologica offerta nella
città. Alcune ditte e società commerciali20 offrono poi servizi di importazione di varie categorie di prodotti. Compaiono sulle pagine del quotidiano tripolino annunci pubblicitari di pasticcerie, gioiellerie, librerie,
agenzie d’affari, salumerie, parrucchieri, gelaterie, caffè, ristoranti ecc. I
medici tripolini riuniscono l’offerta delle loro prestazioni in una lista di
annunci separata che testimonia la presenza a Tripoli di specialisti italiani
di molteplici competenze21.
Lo sport infine risulta essere ampliamente trattato da «L’Avvenire di
Tripoli» che dedica a tutte le attività sportive cittadine uno spazio sempre
maggiore. Piccoli trafiletti riportano anche le notizie ritenute di particolare rilievo provenienti dalla madrepatria. Tuttavia è lo sport coloniale che
sembra suscitare maggiore interesse nei lettori del quotidiano, a giudicare
dalla dovizia di particolari e dall’estensione degli articoli sempre crescente.
169
Gabriele Bassi
Dapprima collocati in terza pagina assieme a notizie di altri generi, gli
avvenimenti sportivi ottengono, dal 1932, una propria ampia sezione in
quarta pagina, denominata Corriere sportivo. Il calcio risulta essere lo sport
più apprezzato, benché non vi sia una squadra rappresentante della città.
A scontrarsi a Tripoli sono le numerose associazioni ed organizzazioni del
Regime, prime fra tutte quelle dopolavoristiche e militari. Di frequente
giungono in città squadre calcistiche italiane od europee. Queste, durante
un soggiorno solitamente breve in Tripolitania, hanno modo di sfidare alcune delle squadre locali. La realizzazione dello Stadio del Littorio apporta
un significativo impulso alla pratica del calcio, come anche di molteplici altri sport. Annualmente si svolge il campionato tripolino, disputato
principalmente da squadre di militari. «L’Avvenire di Tripoli» lo segue con
attenzione e riporta spesso comunicati da parte della sezione sportiva della
Federazione Fascista. Questa infatti deve più volte ammonire comportamenti troppo accesi dei tifosi che in alcuni episodi si sono rivolti contro
gli arbitri provocando la sospensione degli incontri. Ciò dimostra un’attiva
partecipazione da parte del pubblico tripolino, non solo in prima persona,
ma come spettatore, ai maggiori eventi calcistici che hanno luogo nella
capitale tripolitana.
Aggiornamenti e descrizioni di numerosi altri sport testimoniano tuttavia un interesse più ampio e generale. I tornei tennistici sono preannunciati con largo anticipo, «L’Avvenire di Tripoli» parla della trepidante attesa
della città per i campioni nazionali ed internazionali che giungono in colonia. Oltre alle competizioni agonistiche, il tennis risulta essere praticato
anche da tripolini semplici appassionati, seppur non in misura paragonabile al calcio o al ciclismo. La scherma conosce alcuni sviluppi nei primi
anni Trenta attraverso l’istituzione di alcuni corsi di insegnamento, molti
dei quali rivolti ai dopolavoristi ed ai Balilla. Si svolgono tornei regionali
che richiamano l’attenzione dei praticanti ma anche di tanti spettatori. Il
podismo ed il ciclismo offrono, oltre alla pratica di un’attività fisica ritenuta tra le più benefiche, la possibilità di conoscere i dintorni di Tripoli
e gli aspetti naturalistici dell’oasi circostante. Numerose sono le corse ed i
giri ciclistici organizzati dalla sezione sportiva della Federazione fascista. I
partecipanti, nelle opinioni del giornale, crescono costantemente e dimostrano grande soddisfazione per gli esiti positivi raggiunti dalle iniziative
sportive di questo genere. All’ippodromo si organizzano corse di cavalli che, seppur non vedano tripolini al galoppo, richiamano sicuramente
170
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
la presenza sulle tribune di molti appassionati. Il quotidiano parla poi di
una «ripresa pugilistica» sul finire del 1929, alludendo ad un precedente
sviluppo della boxe e ad una recente perdita di entusiasmo. Con il 1930,
attraverso l’istituzione di alcuni corsi e la programmazione di incontri,
il pugilato sembra aumentare l’attrazione nei propri confronti da parte
di giovani tripolini, sebbene non raggiunga i numeri di altri sport sia fra
i praticanti che fra gli spettatori. «L’Avvenire di Tripoli» illustra come il
nuoto rappresenti un’attività piacevole ed interessante per gran parte della
popolazione cittadina, sebbene molti lo praticano per il solo piacere di farsi
un bagno nelle giornate estive. Al livello competitivo si organizzano periodiche gare individuali, la più attesa e stravagante delle quali è la «traversata
del porto» che si svolge ogni agosto nella rada tripolina. Vi prende parte,
oltre a metropolitani, una rappresentanza indigena descritta puntualmente
come cospicua ed entusiasta.
Alla domenica, come si è anticipato, il quotidiano pubblica un’edizione più ampia, composta da sei pagine. Oltre alle consuete rubriche e
suddivisone delle notizie, vi trovano spazio alcune particolari sezioni. La
maggiore attenzione è dedicata all’andamento agricolo della colonia, analizzato attraverso articoli tematici sulle pratiche colturali più diffuse. La
Pagina Agricola comprende notizie circa l’importazione e l’esportazione
di prodotti ortofrutticoli, sui fertilizzanti impiegati, si forniscono consigli
sui periodi di semina e di raccolta nonché sulla protezione delle colture
dai parassiti e dagli agenti atmosferici. Saltuariamente anche nozioni di
allevamento compaiono sul giornale, con particolari circa l’alimentazione
e la riproduzione degli animali. Si pubblicano suggerimenti per la cura e
la prevenzione di malattie del bestiame, riportando poi i valori della produzione di latte, formaggi, carne, lana ecc. Parallelamente all’incremento
conferito alla politica di colonizzazione intrapresa dal governo coloniale,
dal 1931 nella sezione Pagina Agricola si introducono con sempre maggiore frequenza argomentazioni ritenute utili per i nuovi coloni. Intitolato
adesso Pagina Agricola e della Colonizzazione, lo spazio dedicato al fenomeno da «L’Avvenire di Tripoli» ha inoltre la finalità di esporre a tutta la
colonia ed al di fuori di essa, il processo che il governo sta promuovendo
per una sempre più rapida ed intensa colonizzazione.
La domenica vede il giornale tripolino riportare il Vangelo del giorno,
pubblicato senza alcun commento all’interno della Rubrica Religiosa. Nella Vita Allegra si propongono delle barzellette e battute umoristiche, ma
171
Gabriele Bassi
dal 1930 si decide tuttavia di sospenderne la pubblicazione. Dall’ottobre
dello stesso anno tutte le notizie riguardanti l’attività dell’Ond coloniale
vengono riunite nella Rassegna del Dopolavoro, che compare all’interno del
quotidiano ogni prima domenica di ogni mese. Al regolare aggiornamento
sugli eventi che hanno visto o vedranno protagonisti i dopolavoristi tripolini, si aggiunge una propaganda sempre crescente per l’adesione all’Opera
da parte dei lavoratori non ancora iscritti.
Il 1932 apporta alcune ulteriori trasformazioni alla composizione del
giornale, che riunisce ancora in nuove sezioni argomenti che in precedenza
non avevano collocazione fissa. Si è già accennato alla nascita del Corriere
sportivo, al quale si viene ad aggiungere la rubrica Gli Spettacoli, che accorpa tutti gli annunci inerenti i concerti, le proiezioni cinematografiche e la
rappresentazioni teatrali. Nelle Notizie Economiche e Commerciali vengono
inserite le liste dei prezzi di mercato, dei beni calmierati, i tassi di cambio,
i valori dei titoli, il volume delle merci che transitano dal porto di Tripoli
ecc. I prezzi all’ingrosso hanno invece una propria sottosezione all’interno
della quale vengono riportate tutte le relative tariffe.
Le rubriche, gli approfondimenti, le cronache e i dati commerciali costantemente pubblicati dal foglio tripolino consentono di ricostruire i tratti fondamentali della vita metropolitana in colonia. Come per le attività
associative, per le iniziative del regime e per gli aspetti legati alla quotidianità, è quindi possibile risalire anche ai principali provvedimenti intrapresi
in risposta alla crisi economica dei primi anni trenta.
«L’Avvenire di Tripoli» per la ricostruzione della vita in colonia:
l’esempio delle opere assistenziali come risposta alla crisi del 1929
Dall’attenzione che «L’Avvenire di Tripoli» dedica al complesso delle attività assistenziali nella prima metà degli anni trenta, si deduce la cospicua
presenza di popolazione con difficoltà economiche nella stessa Tripoli ed al
di fuori di essa. Il tipo di emigrazione che dall’Italia si sposta sulla quarta
sponda trascina con sé la povertà che già affliggeva coloro che decidono
di cercare fortuna in Africa. Ciò è inoltre conseguenza di scarse occasioni
di impiego incontrate dagli italiani una volta giunti in colonia. Si verifica
pertanto il versare di una vasta parte della popolazione metropolitana tripolitana in condizioni di più o meno grave indigenza, tale comunque da
rendere necessaria una forte coordinazione e promozione di tutte le attività
172
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
collegate alla beneficenza e al sussidio dei bisognosi.
Soprattutto il quinquennio 1929-33 è di particolare difficoltà, per le
forti ripercussioni della crisi economica anche in Tripolitania. Il governo coloniale è costretto ad intraprendere allora misure per combattere la
povertà diffusa conducendo in prima persona le opere assistenziali e coordinando tutte le attività che di consueto già si svolgevano a Tripoli. Provvedimenti speciali si affiancano a pratiche consolidate nella ricerca di un
sussidio che si vuole sia più cospicuo possibile.
In colonia le opere assistenziali seguono parzialmente le modalità che
si riscontrano nella madrepatria, un esempio su tutti la presenza dell’Ente
pro Opere Assistenziali, nonché si svolgono attività di iniziativa del governo locale o di istituti ed organizzazioni che, sia pure sotto la supervisione
governativa, godono di parziale autonomia. All’interno di questa organizzazione «L’Avvenire di Tripoli» si pone come mezzo di propaganda e di
divulgazione per le iniziative intraprese dagli enti e dalle società preposte
alla beneficenza e all’assistenza. Sulle sue pagine trovano ampio spazio gli
appelli dell’Ente pro Opere Assistenziali, così come i moniti del Pnf indirizzati alla popolazione benestante, costantemente invitata ad elargire i
propri oboli in favore dei meno abbienti.
Il maggiore organismo intento a promuovere tutte le attività del genere
in colonia è l’Ente pro opere assistenziali, presieduto dal console Melchiori, ritenuto da «L’Avvenire di Tripoli» una delle migliori forme di sostegno
ai bisognosi mai realizzate in tutto il mondo.
Nessun Paese, nessun Regime si è attrezzato come l’Italia Fascista per la lotta contro la
miseria, e per l’assistenza ai diseredati, ai sofferenti, ai tapini, organizzando la fraternità sociale su così vasta scala e con tanta volontarietà di prestazioni ed esaltazione di
solidarietà nazionale22.
Melchiori interpreta fedelmente le direttive del regime conferendo
all’assistenza che egli in prima persona coordina e promuove, un aspetto
di missione da compiere ad ogni costo. Provvedere all’organizzazione e alla
distribuzione della beneficenza non è considerato soltanto un gesto materiale finalizzato a consegnare al povero ciò di cui abbisogna. Il compito
dell’Ente sarebbe anche quello di diffondere la nuova ideologia assistenziale e far comprendere a chi ne viene beneficiato i valori sostenuti dal fascismo. Ecco quindi come Melchiori si fa portavoce della finalità dell’Eoa che
egli stesso è chiamato a dirigere.
173
Gabriele Bassi
Personalmente […] io sono persuaso che la vera beneficenza non consista nel dare
sussidi in denaro, cioè nel fare la cosiddetta elemosina, ma nell’ispirare all’uomo delle
classi inferiori il rispetto di se stesso, il sentimento della dignità umana; consiste nell’ispirargli, e più che con le parole, coll’esempio, all’amor del lavoro, il culto del vero,
il gusto del bello, l’abito del risparmio, cose tutte che lo innalzeranno moralmente e
materialmente e lo renderanno indipendente e fiero23.
Il compito che ci si prefigge assieme all’adempimento delle più immediate necessità dei poveri è quindi più ampio, si intende intervenire non
solo materialmente ma anche moralmente al fine di sollevare spiritualmente la popolazione che vive in condizioni di difficoltà. Ma nei casi più gravi
di indigenza risulta assai difficoltoso pretendere che le persone si impegnino nella comprensione dell’ideologia che il fascismo intende diffondere.
L’Ente, grazie ai contributi ottenuti dal governo coloniale, dal partito
e dalla popolazione intende dunque agire su più livelli, instaurando quasi
una scala delle priorità nell’assistenza che offre. Ai fabbisogni alimentari,
primari, seguono le cure mediche, l’abbigliamento ecc. Si rende quindi
necessario conferire grande eco alle iniziative promosse. «L’Avvenire di
Tripoli» è sempre molto attento a calibrare l’importanza dell’intervento
compatto della cittadinanza e l’illustrare come sia il governo, per tramite
dell’Eoa, a coordinare e gestire le opere assistenziali.
La propaganda di cui l’Ente Opere Assistenziali gode anche sul giornale
di Tripoli è finalizzata ad incrementare il numero di coloro che partecipano
al suo sostegno. Se ne descrivono costantemente le attività ed i risultati
conseguiti dando così vita ad uno stimolo sempre attivo tra i cittadini.
Grazie ai frequenti aggiornamenti che «L’Avvenire di Tripoli» si impegna
a pubblicare, in città non vi sarebbe nessuno che non sia al corrente del
significato «incommensurabilmente provvidenziale»24 dell’Eoa.
Nel maggio 1929 si crea in colonia la Società Generale per la Pubblica
Beneficenza, nel tentativo di dar vita ad un organismo che procede alle
funzioni di coordinamento e promozione cui si è accennato. «L’Avvenire
di Tripoli» considera la nuova istituzione come la più adatta per presiedere
alle varie iniziative già presenti in città e per la distribuzione dei proventi dalle donazioni del governo coloniale e del municipio di Tripoli. Gli
istituti di beneficenza che già esistono a questa data proseguono la loro
attività autonomamente ma vengono sottoposti alle direttive della Società.
Il provvedimento adempie alle aspettative del regime per quanto concerne l’organizzazione dell’assistenza in ambito coloniale, addivenendo ad un
174
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
unico organo centrale che impartisce una linea ben precisa da seguire nello
svolgimento delle attività benefiche. L’Ente opere assistenziali non perde
per questo i suoi poteri di coordinamento e di organizzazione, rientrando
la Società per la pubblica beneficenza sotto il suo controllo. Con l’istituzione del 1929 scompare a Tripoli la Società italiana di beneficenza, che vi
aveva operato sino a questa data. La sua soppressione «appare giustificata
considerando che essa, per le pochissime rendite di cui disponeva, riusciva
ormai insufficientemente a provvedere agli aumentati bisogni della beneficenza coloniale»25.
Successivamente all’istituzione della Società generale rimangono indipendenti e completamente autonomi nella loro attività la sezione coloniale della Croce rossa italiana e la Società tripolina di mutuo soccorso.
Quest’ultima, presente in città sin dal 1920, oltre a promuovere iniziative
assistenziali tra i propri soci, occorrerebbe a cementare tra loro vincoli di
fratellanza e cameratismo. Si fa saltuariamente carico dell’organizzazione
di feste danzanti in occasione di lotterie di beneficenza, i cui proventi vengono poi ridistribuiti tra i membri con maggiori difficoltà economiche. La
Società tripolina ha sede presso una sala interna al Castello, la sua funzione
sembra essere particolarmente apprezzata in città, nonostante le iniziative
di cui si fa promotrice non siano tra le più pubblicizzate e spesso si svolgano senza particolare eco. «In silenzio, con pazienza e con fede,- si legge sul
foglio tripolino - persegue gli scopi di mutualità che si prefigge e che, con
poca spesa mensile, mette in condizioni i meno abbienti di fruire di larghi
benefici e aiuti26.
Sebbene la Croce rossa sia generalmente considerata nota per l’attività
svolta in ambito bellico, a Tripoli si ritiene la sezione coloniale uno dei
più moderni ed efficienti organismi assistenziali. Nonostante si incontrino
alcuni riferimenti alle potenzialità della Cri in caso di eventuali mobilitazioni di guerra, le attenzioni de «L’Avvenire di Tripoli» si concentrano
sull’attività che essa svolge quotidianamente in colonia in molteplici campi
dell’assistenza. Poiché il giornale rileva come anche a Tripoli l’azione svolta
dalla Cri in ambito assistenziale sia poco nota, si intraprende un’intensa
propaganda per descrivere al pubblico le numerose iniziative di cui l’istituzione si fa carico. Oltre agli interventi di pronto soccorso e alla preparazione degli infermieri, il quotidiano tripolino illustra come la Croce rossa
si impegni in colonia nella lotta contro la malaria, la tubercolosi, nella protezione dell’infanzia e nell’assistenza ai lavoratori. Attraverso cartelli mura175
Gabriele Bassi
ri, cartoline e filmati svolge un’attiva propaganda igienico-sanitaria per le
popolazioni indigene nell’intento di combattere le abitudini che possono
comportare la diffusione di malattie. Per la prevenzione della tubercolosi
agisce in collaborazione con altri enti assistenziali cercando di scoprire in
tempo l’insorgere della malattie negli individui e provvedere in seguito
alle cure necessarie. Nel campo dell’assistenza all’infanzia la Cri si addossa le spese di fornitura di preventori per lattanti e divezzi nati da madri
tubercolose, di dispensari antitracomatosi, organizza colonie temporanee
estive al mare e in montagna, scuole all’aperto, offre la sorveglianza medica
scolastica.
Per lungo tempo le attività di coordinamento dell’assistenza da parte
dell’Ente opere assistenziali e della Società pubblica di beneficenza parzialmente di sovrappongono e ciò porta ad alcune difficoltà di organizzazione
nella distribuzione delle competenze. Sfogliando «L’Avvenire di Tripoli» è
possibile individuare il disagio: la testata si trova in più occasioni a trattare
alcuni provvedimenti attribuendoli una volta all’uno, una volta all’altro
organismo. Soltanto verso la fine del 1932 si fa chiarezza sull’argomento
attraverso un intervento di Badoglio che definisce nuovamente i compiti
delle due istituzioni. Il Governatore decide di accentrare nell’Ente pro opere assistenziali tutte le forme di assistenza cittadina, lasciando di competenza della Società generale della pubblica beneficenza la sola gestione degli istituti di carità a carattere permanente. «L’Avvenire di Tripoli» sostiene
che con la nuova suddivisione delle mansioni si elimini «qualunque caso
di duplicazione di provvedimenti che il sistema precedente poteva originare»27. Alla dichiarazione non corrisponde tuttavia una migliore chiarezza
nell’attribuzione delle varie iniziative sulle pagine del giornale.
Nel 1928 nasce in Italia la manifestazione nazionale della Befana fascista, una particolare interpretazione del regime della tradizione popolare
celebrata il 6 gennaio. Il fascismo si appropria di tale tradizione trasformandola ed inserendola nel contesto delle opere assistenziali. La trasposizione interessa la precedente usanza attribuita alla befana di non far consegnare doni ai bambini «cattivi», dietro la quale in realtà si sarebbe celata
l’impossibilità dei genitori di acquistare doni a causa della loro indigenza.
«Chi non ha mai visto – si chiede il giornale - le lacrime del fanciullo che
non era stato cattivo, che aveva dormito tutta la notte e che pure era stato
deluso nelle sue speranze, tradito nel suo diritto?»28. La povertà quindi
avrebbe impedito che tutti i fanciulli godessero in ugual misura del passag176
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
gio della «vecchia, curva, bitorzoluta e rattoppata, dispensatrice di doni ai
bambini»29. Sostituendosi alla figura grottesca della precedente tradizione,
il fascismo si pone come più razionale e giusto nella distribuzione dei doni, liquidando le vecchie abitudini e facendo della giornata del 6 gennaio
una manifestazione di carattere nazionale per l’assistenza all’infanzia. La
befana, da figura di anziana e brutta vecchietta, passa ad assumere l’aspetto
simile ad una fata, dalle caratteristiche più vivaci e rassicuranti. Come ad
indicare un’analogia con la trasformazione politica che l’avvento del fascismo ha provocato.
Questa vecchina è stanca, | va mandata in pensione! Disse il fascismo. | Chiamate la
Befana fascista a sostituirla. | Questa venne, e […] disse: «Tutti Balilla | e Piccole Italiane son d’Italia i fanciulli | e tutti abbiano il dono di vesti e trastulli»30.
Dell’Epifania si intende però conservare la tradizione religiosa, ovvero
l’arrivo dei re magi in visita a Gesù, e la rappresentazione dell’episodio
attraverso la consuetudine dell’allestimento del presepe. Questa distinzione tra le tradizioni popolari, legate appunto alla Befana, e quella religiosa
dell’Epifania viene attentamente illustrata da «L’Avvenire di Tripoli». Ciò
che subisce una radicale trasformazione è il solo rito popolare dell’offrire
doni all’interno di una calza il giorno 6 di gennaio.
Dalle pagine del foglio tripolino risulta che la prima celebrazione del
nuovo rituale compaia in colonia nel 1932. Sin dal dicembre dell’anno
precedente se ne dà larga comunicazione e se ne spiegano le finalità. A conferma di ciò è da notarsi che è proprio nel dicembre 1931 che ci si sofferma
a definirne il significato con articoli e digressioni sulla tradizione popolare,
sintomo della precedente mancanza dell’usanza oltremare. Durante le cerimonie i bambini danno spesso saggio delle loro abilità ginniche, propongono recite, si eseguono proiezioni cinematografiche ed intervengono personalità illustri civili e militari. Durante la giornata del 6 gennaio a Tripoli
e in tutte le località anche minori della colonia si procede alla consegna dei
pacchi-dono ai bambini inseriti nella lista dei bisognosi. Si tratta per lo più
di capi di abbigliamento e di alimentari nonché di oggettistica collegata
alla figura di Mussolini e del fascismo.
«L’Avvenire di Tripoli» si fa portavoce, nei giorni precedenti la celebrazione, della richiesta di aiuti alla popolazione da parte dell’Ente opere
assistenziali, non in grado, da solo, di fronteggiare l’intero importo delle
177
Gabriele Bassi
spese affrontate per la realizzazione della Befana fascista. «Tutti devono
contribuire validamente con offerte in denaro o con merce e commestibili.
Tutti devono non rimanere sordi alle necessità dei disoccupati che soffrono
con le loro creature le più strenue privazioni» ammonisce la testata tripolina31. Le cronache dei giorni successivi cercano invece di dare risalto alla
riuscita della giornata attribuendo i meriti alla nuova ideologia assistenziale fascista. Ciò che maggiormente si intende sottolineare, oltre ai benefici
direttamente ottenuti dai bambini, è la finalità più alta della celebrazione:
«l’intimità del dono, dell’ambiente in cui viene offerto, avvicina il popolo,
che è un grande fanciullo, all’Uomo di genio che ha saputo comprenderlo
e che lo ama veramente: quindi lo avvicina al regime, quindi all’intera
Nazione»32. Il quotidiano di Tripoli offre la possibilità di seguire attentamente le fasi dell’introduzione della nuova manifestazione in colonia.
L’intera manifestazione della Befana fascista sembra assumere un aspetto
che va al di là di quello più evidentemente benefico. Funge da mezzo propagandistico del regime e ne celebra la magnanimità e la premurosità con
cui esso assisterebbe tutti i cittadini. Il fascismo inoltre si propone come
un elemento di coesione dell’intero popolo italiano. Frequentemente poi
si raffigura Mussolini come il «padre generoso» che distribuisce per mano
della nuova befana i doni per l’infanzia, considerato quale «supremo evocatore delle elargizioni, premuroso e attento alla sorte del popolo»33. L’Ente
opere assistenziali fungerebbe in colonia quasi come un prolungamento
della mano generosa del duce intervenendo, con la manifestazione della
Befana fascista, in aiuto dell’infanzia, soprattutto in un periodo che, in
conseguenza della crisi del 1929, è sentito di grande difficoltà.
Nei primissimi giorni del 1932 si svolge presso il palazzo governatoriale
una riunione alla quale prendono parte oltre duecento signore di Tripoli
e dintorni. Si costituisce il nuovo comitato femminile di beneficenza che
raggiunge quest’anno un numero molto maggiore di adesioni. I compiti
che esso si fa carico di portare a termine, nel tentativo di opporsi alle conseguenze della crisi economica generale, sono più difficili ed impegnativi:
«il perdurare della crisi mondiale rende più numerosa la schiera di coloro
che dall’opera delle donne del comitato trarranno sollievo dalle loro miserie»34. A guida delle attività che ci si prefiggono per il 1932 si pone la
marchesa Badoglio, il cui impegno sarebbe di stimolo per tutte le aderenti
al comitato. È suo l’esempio dato all’intera cittadinanza dell’offerta di capi
di abbigliamento manufatti per i bambini bisognosi della città. «L’Avvenire
178
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
di Tripoli» conferisce molta importanza al gesto della Badoglio, utilizzando
la notizia come strumento di forte propaganda rivolta a tutte le donne di
Tripoli. Si intende cioè rendere consuetudine la confezione di indumenti,
da parte delle appartenenti al comitato, ma anche al di fuori di esso, per
essere poi distribuiti presso la Casa del Fascio a tutti i bambini che ne dimostrino la necessità.
Il giornale si spinge persino a consigliare i periodi ed i momenti della
giornata in cui tale pratica potrebbe essere svolta senza recare intralci alla
normale conduzione delle attività quotidiane. Le donne di Tripoli disporrebbero del tempo necessario alla realizzazione di qualche indumento, e si
cerca di far sentire loro la confezione dei vestiti come un dovere.
Il tempo non fa difetto: basta occuparsene e volere. I lunghi pomeriggi di questo scorcio d’inverno, quelli dell’imminente primavera, tanto favorevoli alle sieste nei giardini
e sulle terrazze, possono offrire innumerevoli occasioni per lavorare a sollievo dei poveri, senza alcuna rinunzia alle visite, ai conversari e alle care compagnie35.
Il 1933 è l’anno in cui la crisi economica apporta i maggiori disagi in
Tripolitania.
La fecondità è forse il solo, il più grande privilegio che l’Italia ha sulle altre nazioni;
guai se gli stenti, le privazioni, la miseria materiale e morale ridurranno o faranno
scomparire questo nostro indiscutibile privilegio datoci dalla sanità della Razza!
L’appello di Melchiori viene amplificato da «L’Avvenire di Tripoli» che
in più occasioni ribadisce la necessità di una partecipazione veramente
grande per far fronte alle difficoltà, ritenute ancora maggiori, che si prospettano per il 1933. Si sostiene che nella penisola la popolazione abbia reagito compattamente alla crisi ottenendo un grandissimo contributo per la
beneficenza. Il giornale invita dunque la cittadinanza tripolina, non senza
i consueti accenni alle caratteristiche della razza, a seguire l’esempio della
madrepatria e a partecipare largamente alle attività previste per il nuovo
anno. Tanto più che la città avrebbe già dato prova in passate occasioni
della sua particolare generosità. «Tripoli – si afferma sul giornale – ha una
tradizione benefica che quest’anno non vorrà certo smentire. L’esempio
mirabile di tutta Italia che generosamente viene incontro ai bisognosi sarà,
ne siamo sicuri, largamente seguito in colonia da ogni ceto perché la nobile
tradizione nostra, che fa parte della virtù della nostra razza, sia altamente
179
Gabriele Bassi
mantenuta». Dal susseguirsi di appelli e di inviti alla popolazione sembra
che il 1933 porti a Tripoli un incremento della povertà. Per una parte consistente della popolazione la situazione sarebbe veramente difficile. Tutti
coloro che si classificano in stato di indigenza si trovano inoltre realmente in difficoltà, non vi sarebbero più dei parassiti come in precedenza. Si
fanno frequenti considerazioni circa l’involontarietà e l’incolpevolezza di
queste persone di trovarsi in una simile posizione.
Le iniziative che avranno svolgimento a decorrere dal 1933 si dimostrano più numerose e più attentamente organizzate, al fine di fronteggiare al
meglio le ripercussioni della crisi economica che si avvertono con sempre
maggiore intensità in colonia. Tutte le istituzioni con propositi assistenziali
e di beneficenza collaborano sotto il coordinamento dell’Eoa per compilare un calendario ricco di eventi e di manifestazioni. «L’Avvenire di Tripoli»
invita ripetutamente i tripolini a partecipare alle lotterie indette dall’ Eoa,
ritenendo che la sua iniziativa debba «essere confortata con l’appoggio generoso di tutti i cittadini e questa lotteria [sia] un’occasione, per chi può,
di fare del bene, di dimostrare ancora una volta che la fraterna assistenza
del popolo nostro non è venuta né verrà mai meno»36. Si stabilisce poi che
i doni per la pesca di beneficenza debbano essere ottenuti attraverso la
cessione da parte dei cittadini. A tal uopo si divide Tripoli in dieci diverse
zone in modo che ogni gruppo addetto al prelevamento dei doni abbia una
propria area di competenza. Si evita così che «più signore passino per lo
stesso negozio a chiedere dei doni»37.
In collaborazione con «L’Avvenire di Tripoli» l’Ente opere assistenziali
indice infine una sottoscrizione fra enti privati in favore dell’Eoa stesso.
Nell’arco di vari periodi dell’anno si prevedono inoltre vari tè di beneficenza. Numerosi impiegati della città rinnovano la donazione dell’equivalente in denaro di un’ora di lavoro mensile. È interessante notare come il
giornale tripolino rilevi che una significativa parte della cittadinanza più
agiata non contribuisca ancora alla beneficenza e la inviti a provvedere al
più presto ad intervenire: «Noi attendiamo l’offerta di quella parte della
cittadinanza che può dare di più. Ci sono tanti nomi che siamo in attesa
di registrare; sappiamo che li vedremo certamente nella nota benefica; ma
preferiremmo leggerli tutti insieme». Ritorna inoltre il confronto con la
madrepatria: «la colonia deve dimostrare che il dovere assistenziale è sentito con la stessa sensibilità che in Italia. Noi attendiamo quindi che lo
slancio filantropico di Tripoli si manifesti pienamente senza titubanze»38.
180
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
Il comitato femminile di beneficenza, puntualmente ricostituito ogni
anno, contribuisce con un intenso programma a dare impulso alle manifestazioni di beneficenza. Le donne che lo compongono sono invitate
dalla Federazione Fascista a proseguire nella confezione di indumenti per
bambini, mettendo per gli anni successivi, quest’anno a loro disposizione i
locali del castello e le attrezzature necessarie39.
Con rinnovata solennità si celebra ogni giugno la giornata della Croce rossa. Nel 1933 il Governatore Badoglio indirizza all’istituzione i suoi
complimenti personali avendo constatato l’efficace impegno profuso
in ambito assistenziale e benefico. Nel giorno dedicato alla Croce Rossa
«L’Avvenire di Tripoli» pubblica un numero speciale che viene venduto
al pubblico al prezzo maggiorato di mezza lira ed i cui proventi vengono
devoluti all’istituzione. Nonostante il costo più che raddoppiato, la testata
ha una tiratura eccezionale e dichiara di aver contribuito sensibilmente
con la sua offerta alle entrate della Cri. In piazza delle Poste si allestiscono
stands dove si pongono in vendita oggetti di propaganda consistenti in
scatolette per la medicazione, «crocette Angelo Custode», distintivi per i
soci, saponi disinfettanti, ventagli celluloide, «crocette con cuore, guidoni
Croce Rossa, medagliette del Duce»40. Il poeta Siciliani espone inoltre le
sue due pubblicazioni Al Re e Canto per le madri offrendo il ricavato alla
Cri. In tutta la città si affiggono manifesti di propaganda della giornata
firmati da Melchiori:
Non passi questa giornata senza che ognuno di voi piccolo o grande, possa dire: «Ho
concorso anch’io oggi a dare alla più grande, alla più vasta delle associazioni benefiche d’Italia». Fatevi soci, comprate qualche oggettino! Vi benedicono anticipatamente
quelli che saranno, domani, i vostri beneficiati41.
«L’Avvenire di Tripoli» nota che la straordinaria affluenza di pubblico sia
dovuta, oltre che alla generosità della cittadinanza, all’intensa propaganda
che è stata rivolta loro. Oltre ai manifesti dal Comitato centrale italiano, si
affiggono nella città anche modelli stampati dal Comitato locale e rivolti
agli arabi. Grande rilievo viene infatti conferito sul foglio tripolino anche
alle notizie riguardanti provvedimenti in favore della popolazione indigena. Nel campo assistenziale, risale ancora al 1933 il formarsi a Tripoli di
un Ente assistenziale per fanciulli musulmani, un provvedimento ritenuto
di notevole rilevanza nella politica indigena di Badoglio. L’eco conferita
181
Gabriele Bassi
all’istituzione del nuovo ente dimostra il significato propagandistico che
viene attribuito all’evento, di cui «L’Avvenire di Tripoli» si fa attento divulgatore. Posto sotto la gestione della Federazione fascista della Tripolitania,
l’ente ha lo scopo di provvedere all’assistenza igienica e morale dei fanciulli
di religione islamica di età non inferiore ai sei e non superiore ai sedici
anni. È presieduto dal segretario federale e diretto da un consiglio formato
dal direttore degli Affari Civili e Politici del governo della colonia, da un
membro del direttorio federale e dal consigliere delegato. L’amministrazione è tenuta dal segretario federale amministrativo. L’affidare la gestione del
nuovo ente a figure di questo genere è un elemento significativo nella comprensione di quanta importanza assuma in colonia l’assistenza morale degli
indigeni e, soprattutto, dei giovanissimi. Se Badoglio attende che all’adulto
«cada la benda dagli occhi», un’attenta e studiata educazione dei giovani
musulmani occorrerebbe per far sì che essi crescano nella convinzione della
benevolenza del governo italiano nei loro confronti. Si intende raggiungere gli scopi di assistenza igienica attraverso le colonie marine, le cure
mediche, l’educazione fisica, lo sport, gli esercizi militari mentre gli scopi
di assistenza morale attraverso gare e concorsi di lingua italiana, cori, insegnamento dei principi fascisti, disciplina militare. I propositi di Badoglio
di avviare un’educazione ai principi fascisti della gioventù indigena sono
tuttavia limitati, in questa occasione, dal regolamento dell’istituzione stessa. Esso prevede infatti che l’ammissione dei ragazzi alle cure assistenziali
dell’Ente per fanciulli musulmani avvenga esclusivamente dietro richiesta
dei genitori. Ciò significa che l’iscritto all’Ente è stato già indirizzato verso
un’educazione se non ancora fascista, comunque non apertamente ostile al
governo dell’Italia.
Il quinquennio 1929-33 ha conosciuto a Tripoli, parallelamente alla
crescita delle difficoltà economiche, un incremento delle attività finalizzate a contrastarle. Gli introiti ottenuti dalle istituzioni benefiche cittadine
sono maggiori rispetto agli anni precedenti ma tuttavia ancora ritenuti
insufficienti rispetto alle necessità42. La campagna propagandistica per l’assistenza invernale 1933-34 inizia sin dal settembre e con rinnovata insistenza. Per affrontare la stagione, il cui inizio è fissato per il 19 ottobre si
intraprendono nuove misure per combattere le difficoltà della popolazione
meno abbiente. Nell’approssimarsi del nuovo anno si ripropongono a Tripoli gli appelli rivolti alla cittadinanza per una partecipazione compatta
a sostegno delle istituzioni assistenziali per far fronte alle difficoltà che si
182
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
presenteranno. Contribuire al loro sforzo assume l’aspetto di un dovere
imposto dal fascismo.
Bisogna che quest’anno le possibilità benefiche siano superiori all’anno passato. Le
cifre statistiche pur mirabili ed egregie degli esercizi trascorsi devono essere superate,
perché chi ha, deve dare la sensazione precisa che ascolta la voce del cuore e i dettami
del Fascismo specialmente in materia di assistenza: quei dettami che il DUCE ha sintetizzati nella frase: «Andare verso il popolo»43.
Conclusioni
Con il contributo dell’immagine offerta dall’unico quotidiano cittadino, «L’Avvenire di Tripoli», è senz’altro possibile ricostruire alcuni aspetti
della vita nella città e nella colonia, distinguendo al contempo gli elementi
reali da quelli edulcorati dalla propaganda e dalla retorica fasciste che intervengono per conferire alla Tripolitania una fisionomia confacente alle
necessità e alle volontà del regime.
Dall’analisi delle iniziative intraprese sulla «quarta sponda» si distinguono alcune diverse categorie di attività. Si ripropongono cioè in alcuni
ambiti le caratteristiche della vita civile e militare organizzata del regno,
con una trasposizione oltremare delle strutture e degli enti fascisti pressoché senza alcuna variazione. In altri settori invece Tripoli diviene un
laboratorio per esperimenti di vario genere. Dall’agricoltura al turismo,
dalla Fiera campionaria al Gran Premio automobilistico, il regime cerca
di migliorarsi e di perfezionare l’efficacia propagandistica, celebrativa ed
economica delle iniziative lanciate in Tripolitania. Manifestazioni come la
campionaria dimostrano la duttilità di cui il fascismo necessita per ottenere
mezzi sempre aggiornati, e quindi adeguati, alle proprie esigenze, spesso
mutevoli.
Gettando uno sguardo su alcuni aspetti della politica condotta dal governo della colonia si nota dunque un procedimento per tentativi, una
trasformazione costante degli strumenti a propria disposizione sia per ottenere una loro maggiore efficienza, sia per adeguarli alle sempre rinnovate
aspirazioni.
Al procedimento per tentativi o alla costante trasformazione nelle modalità di svolgimento che si sono riscontrati in questi campi di azione del
fascismo, si contrappone una vita civile rigidamente organizzata. Qui non
vi è spazio per esperimenti di nessun genere, le direttive giungono da Ro183
Gabriele Bassi
ma e seguono i modelli e le strutture già adottate ed affermate in Italia.
Balilla, opere assistenziali, la Milizia, il Pnf presentano a Tripoli caratteristiche del tutto simili a quelle del regno, sebbene talvolta si impongano
piccoli accorgimenti per rendere il loro compito perfettamente aderente
alle volontà del regime anche sulla «quarta sponda». La vita civile fascista a
Tripoli appare quindi strettamente controllata, essa procede sotto l’attenta
sorveglianza del Pnf locale, sempre accorto ad intervenire laddove lo ritenga necessario. Nel periodo analizzato la Federazione fascista ammonisce
i tesserati che non portano la spilla del fascio o chi pratica affitti a prezzi
troppo alti, così come insiste affinché chi può aiuti le persone meno abbienti. Un’interferenza cioè su molteplici contesti della vita quotidiana che
accomunano Tripoli alle altre città italiane durante il periodo del fascismo.
«L’Avvenire di Tripoli» concorre infine a dimostrare, lo si è visto, come
la componente metropolitana della città versi per una sua cospicua parte in
condizioni di indigenza. I luoghi di provenienza nel regno e le scarse possibilità di guadagno offerte dalla «quarta sponda» fanno sì che coloro che
si avventurano oltremare non vi trovino quelle opportunità di successo e
quelle caratteristiche positive che la propaganda fascista ha invece descritto
e sostenuto.
Una capillare organizzazione delle opere assistenziali, riunite sotto
la competenza dell’apposito Ente, nonché una costante insistenza sulla
necessità della beneficenza attestano l’ingombrante presenza del disagio
economico a Tripoli. Le proporzioni delle iniziative che si intraprendono
in soccorso delle persone bisognose rivelano inoltre come la popolazione
coinvolta dalle difficoltà sia molto numerosa. Il Pnf si impegna a far sì
che i più facoltosi offrano ciò che possono per alleviare i problemi dei disagiati, che si fanno sempre maggiori in concomitanza con il ripercuotersi
della crisi economica del 1929 anche in Tripolitania. La Federazione fascista non si limita a delle esortazioni, si vede persino costretta ad avanzare,
sia pur indirette, minacce. Ai provvedimenti governativi quali la gestione
dell’Ente pro opere assistenziali, la Befana fascista ecc, si aggiungono gli
ausili della Croce rossa, della Società di mutuo soccorso, dei comitati femminili. Un’organizzazione massiccia che attesta quindi le dimensioni del
fenomeno.
Alcuni cambiamenti intervenuti nei primi anni trenta sulle abitudini
collegate alla balneazione mette ulteriormente in luce le difficili condizioni
in cui versa una larga fascia di italiani a Tripoli. La chiusura di alcuni sta184
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
bilimenti gratuiti o con tariffe molto basse e la contemporanea apertura di
un Lido moderno e costoso suscita le lamentele e le proteste di tutti coloro
che non si possono permettere la frequenza di una struttura con i prezzi e
le caratteristiche dei più sviluppati centri balneari italiani. Sul quotidiano
cittadino si denuncia come oltre ai molti agi dei quali gode una minoranza
metropolitana, si siano adesso tolti ai meno abbienti anche il sole ed il
mare.
Il giornale della Federazione fascista presenta un’immagine della città e
della colonia sempre positiva ed entusiasta, esso si impegna ad illustrare un
progresso costante e consistente ottenuto per mezzo del governo coloniale
e più generalmente del regime. La Tripoli che il fascismo ha pubblicizzato e
trasportato nella madrepatria, tanto da farne nell’immaginario comune un
idillio italiano nell’Africa mediterranea, ospitale, fascinosa, quasi fiabesca,
assume forme molto diverse agli occhi di coloro che decidono di intraprendere una nuova vita sulla «quarta sponda».
Le continue evoluzioni che «L’Avvenire di Tripoli» conosce dalla sua nascita sino alla sua estinzione, sia grafiche che, soprattutto, di composizione
e di contenuti, rivelano la volontà di adeguarsi con sempre maggiore impegno, alle esigenze e alle abitudini della cittadinanza metropolitana. Essendo ritenuto il quotidiano un efficacissimo strumento di propaganda e di
indottrinamento da parte della Federazione fascista, esso avverte l’esigenza
di essere costantemente modificato affinché svolga la propria funzione nel
miglior modo possibile. Ecco quindi che alle ampie trattazioni politiche ed
economiche intrise di profonda retorica ed esplicita propaganda del regime, si affiancano pagine di cronaca e di informazioni utili, volte a completare il foglio tripolino ed a renderlo, oltre che fonte di informazione, quale
principalmente esso stesso si considera, un dinamico strumento al tempo
stesso utile e di intrattenimento.
Nonostante le caratteristiche marcatamente fasciste del giornale, e
quindi ad un’interpretazione soggettiva e filtrata degli avvenimenti, «L’Avvenire di Tripoli» riesce comunque a fornire un interessante spaccato della
vita quotidiana nella città e nella colonia sottoposte al governo del regime
fascista.
185
Gabriele Bassi
Note al testo
1
L’articolo è una rielaborazione della tesi discussa in Siena il 12 giugno 2006 presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia per il corso di laurea specialistica in Documentazione e Ricerca storica:
Vivere in Colonia. Dalle pagine de «L’Avvenire di Tripoli» (1929-1933), relatore prof. Nicola
Labanca, controrelatore prof. Tommaso Detti.
Gli studi sulla Libia coloniale, sia nella sua fase liberale che in quella fascista, sono oggi molteplici. La colonia mediterranea non fu la prima conquista italiana e non fu l’ultima nel quadro della costruzione dell’impero su cui Roma impostò la propria politica estera. La «quarta
sponda» fu però il luogo dove le istituzioni conobbero maggiore sviluppo e dove, sia pur in
numero molto inferiore a quanto si fosse progettato, andarono ad insediarsi più italiani, dando
vita alla più sviluppata società coloniale. L’osservazione delle opere riguardanti la colonia nei
suoi aspetti generali non può prescindere dagli studi di Angelo Del Boca. La vastità delle fonti
utilizzate e la ricchezza di particolari legati alle vicende italiane sulla «quarta sponda» rendono
i suoi lavori fondamentali per un inquadramento del contesto storico, sociale e culturale del
colonialismo in Libia, come per l’intero panorama dell’impero italiano. In Oltremare. Storia
dell’espansione coloniale italiana, Labanca ripercorre le vicende del colonialismo in tutte le sue
fasi, abbracciando più strettamente anche aspetti legati alla nascita e allo sviluppo della società
coloniale italiana. Alcune fasi della valorizzazione della Libia si trovano efficacemente illustrate
nelle biografie dei governatori che si alternarono sulla «quarta sponda». Quelle di maggior
valore, per i riferimenti ad aspetti rurali della colonia, appartengono a Badoglio (Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio. Maresciallo d’Italia, Mondadori, Milano 2002; Silvio
Bertoldi, Badoglio, Rizzoli, Milano 1993 ) e a Balbo (G. Rochat, Italo Balbo, Utet, Torino
2003; Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Mondadori, Milano 2001; Claudio G. Segrè,
Italo Balbo, una vita fascista, Il Mulino, Bologna 2000). Complessivamente, la storiografia sulla
Libia sembra privilegiare aspetti principalmente militari e politici, con alcuni significativi studi
anche sulla colonizzazione demografica intensiva, trascurando ancora molti aspetti legati alla
vita quotidiana in colonia.
2
Al momento della prima pubblicazione del quotidiano, sotto la direzione di Giovanni Battista
Costa, fanno parte della redazione Piero Costa, Germano Giuliani, Alfredo Maccioni e Giuseppe Buffa. Corrispondente da Roma è Fausto Boninsegni. Nel luglio dello stesso 1928 Buffa
lascia il giornale e lo sostituisce Francesco Maria Rossi che rimarrà alla redazione sino all’ottobre successivo. A sua volta egli cede quindi il posto a Giacomo Zaverio Ornato.
Costa rimane alla direzione del foglio tripolino sino a tutto il novembre 1930, dopodichè
cede la propria posizione al dottor Ugo Marchetti. Nella stessa circostanza viene sostituito
anche il corrispondente da Roma, adesso impersonato da Pio Gardenghi. Tra i collaboratori
si registrano sostituzioni e alternanze nella loro presenza alla redazione della testata. Alla fine
del 1929 entra a far parte dell’organico Fernando Gori, che vi rimarrà sino al maggio 1931.
Nell’agosto del 1930 viene assunto Guglielmo Maria Riviello e nel mese di ottobre successivo
lascia Tripoli Alfredo Maccioni, uno dei protagonisti della nascita del giornale. Si prestano
inoltre occasionalmente attraverso la stesura di articoli o con corrispondenze numerosi altri
giornalisti. Tra questi: Raffaele Di Lauro, Francesco Corò, Mario Scaparro, Nicola Placido, Lino Bassura, E.G. Parvis, Egidio Costa, E.F. Tencajoli, Dante Serra, G.Leone, Amilcare Fantoli
ed il professor Tucci.
3
Al 1928 «L’Avvenire di Tripoli» si trova ad essere l’unica pubblicazione quotidiana della Tripolitania, essendo cessata la stampa dei due fogli precedenti: «La Nuova Italia» e il «Corriere di
Tripoli». «La Nuova Italia» iniziava le pubblicazioni il 26 agosto del 1912 e le protraeva per 14
anni, sino al n° 270 del 17 novembre 1926. Dal 1921 al gennaio del 1925 veniva poi diffuso
il «Corriere di Tripoli», poi confluito in «La Nuova Italia» e quindi estinto. Il 1 ottobre 1941 si
riprenderà poi una breve pubblicazione dello stesso «Corriere di Tripoli», sino al 30 novembre
186
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
del 1942.
4
Un’importante seduta del Consiglio di Amministrazione del giornale, in «L’Avvenire di Tripoli»,
19 luglio 1930.
5
Ibidem.
6
Breve storia dell’Avvenire di Tripoli nell’«Annuario della Stampa Italiana», in «L’Avvenire di Tripoli», 5 dicembre 1931.
7
L’Avvenire di Tripoli nel 1932, in «L’Avvenire di Tripoli», 30 settembre 1931.
8
Edicola Orsi, in piazza San Silvestro.
9
Edicola giornalistica Chiavaro, in via Etnea.
10
L’Avvenire di Tripoli nel 1932 cit.
11
Opportuno richiamo, in «L’Avvenire di Tripoli», 17 gennaio 1929.
12
Un anno, in «L’Avvenire di Tripoli», 7 marzo 1929.
13
Ibidem.
14
L’Avvenire di Tripoli nel 1932 cit.
15
Ibidem.
16
Indicazioni, aggiornamenti ed appuntamenti appaiono con regolarità per tenere al corrente i
propri iscritti sulle attività e gli eventi collegati a ciascuna associazione. In questo contesto si
notano più frequentemente le comunicazioni dell’Avanguardia Giovanile e dell’O.N.B., del
Dopolavoro, del Pnf, del Guf, del Circolo Italia e dell’Unione Militare, del Circolo Ballo
Dahra, dell’Unuci, ma anche del Consorzio agrario corporativo fascista della Tripolitania,
della Società anonima editrice fascista di Tripoli, dell’Automobile club di Tripoli, del Club
motociclistico. Inoltre pubblicano informazioni di interesse per i propri appartenenti l’Associazione nazionale mutilati ed invalidi di guerra, i Finanzieri in congedo, i Carabinieri in
congedo, la Società tripolina di mutuo soccorso, l’Associazione nazionale volontari di guerra
e quella combattenti e Nastro azzurro. Il fiduciario locale dell’Associazione bersaglieri utilizza
il quotidiano per dare notizia delle riunioni tra i membri, così come anche la Società anonima
Tonnara convoca le adunanze degli azionisti, analogamente all’Unione tripolina per l’industria
e il commercio dello Sparto. Mettono infine al corrente i propri iscritti delle attività svolte la
Società cacciatori di Tripoli, la Federazione nazionale Arditi d’Italia e la Società italiana bonifiche agrarie (Siba).
17
La definizione appare come formula conclusiva di molti annunci pubblicati su «L’Avvenire di
Tripoli» da parte della direzione del Grand Hotel, soprattutto in occasione di appuntamenti di
gala e di veglioni nel periodo del carnevale.
18
Gli oggetti di cui più frequentemente si denuncia lo smarrimento o si annuncia il ritrovamento
sono portafogli, orologi, biciclette, mantelle, spille ed altri gioielli in oro, chiavi e portamonete.
19
Sino alla metà del 1932 i nominativi di coloro che incorrono in sanzioni sono riportati sul
giornale quotidianamente, accompagnati dalla provenienza e dall’infrazione commessa. Un
lunghissimo elenco delle motivazioni per le quali la Pubblica Sicurezza o le guardie municipali
impongono contravvenzioni rileva la presenza di regolamenti molto severi sui comportamenti
da mantenere nella vita quotidiana a Tripoli. Il rispetto delle normative si rende particolarmente difficile nell’elemento indigeno, la cui frequenza di infrazioni dimostra come i modelli imposti dall’Italia si scontrino molto spesso con le locali consuetudini. Alcune fra le più
diffuse infrazioni sono così descritte: ubriachezza, violenza, resistenza, orinare sulla pubblica
via, esercitare il lustrascarpe in luoghi non previsti, espurgare pozzi neri in orari non previsti,
187
Gabriele Bassi
circolare in vetture con fari spenti, lasciare vagare il cane sulla pubblica via senza guinzaglio e
museruola, macellare clandestinamente, non apporre il cartellino del prezzo sulla verdura in
vendita, circolare su biciclette sprovviste di fanale e/o campanello, circolare con automobili
a corsa eccessiva o con lo scappamento libero o ancora sprovvista di specchietto di visuale
retrospettiva, stazionare con la vettura in luoghi non prescritti, vendere pane a forme anziché
a peso, vendere beni a prezzi superiori da quelli stabiliti dal calmiere, lanciare sassi, pascolare
capre in zone cimiteriali, eseguire lavori in muratura senza licenza od oltre a quelli di cui si è
inoltrata la richiesta, depositare immondizie o acqua sporca sulla pubblica via, anticipare gli
orari di apertura delle botteghe, esercitare il mestiere di vetturino pubblico senza il prescritto
certificato di iscrizione, esercitare vendite ambulanti senza il permesso, circolare con carri con
peso superiore al previsto, maltrattare i cavalli, non attenersi al segnale di fermo, condurre
carri a due ruote trainati da cavalli stando seduti anziché condurli a piedi, giocare a pallone
sulle spiagge, non completare i lavori di rifinitura di un’abitazione e darla in locazione non
in condizioni di abitabilità, servirsi di ceste per il trasporto di carne bovina anziché i carri di
prescrizione, accattonaggio, ecc.
20
La ditta Joseph Lanzon, rappresentante e depositaria di molti prodotti di importazione italiana, commercia generi alimentari, tinture istantanee per capelli, estratti di carne aromatizzati,
farine lattee, polveri per acque minerali da tavola ecc. La Società commerciale Gnocchi e Campolongo si occupa dell’importazione di liquori, acque minerali, prodotti dolciari, ricostituenti
ecc.
21
Tra gli annunci più ricorrenti si registrano quelli del dottor Mazzolani, diplomato del corso
di perfezionamento all’Istituto Benito Mussolini di Roma, che si occupa di malattie interne e
dell’apparto respiratorio nonché di tubercolosi. Il gabinetto medico del professor Casoni offre
la cura di malattie toraciche e addominali, veneree e sifilitiche. Lo stesso Casoni diverrà medico
primario in patologia medica dell’Ospedale coloniale di Tripoli non appena istituito. Blenorragia e sifilide sono malattie di competenza del dottor Carmelo dell’Aria che in Sciaria Mizran
appronta anche cure ostetriche e ginecologiche. Gibelli svolge la propria professione di dentista
in via del Fascio, egli è specialista per le malattie dei denti e della bocca, offre visite gratuite e
provvede all’impianto di denti e dentiere in oro. Ancora, il dottor Serra è specialista dermatologo, oltre alle malattie della pelle egli si occupa di capelli, disturbi ghiandolari e venerei. Stessa
specializzazione possiede il Cavalier Zaccaria che presso l’omonima farmacia esegue analisi del
sangue oltre a consultazioni su prostatiti, blenorragia e malattie veneree. In Zenghet el Amri
il medico chirurgo Giuseppe di Salvo svolge operazioni ostetriche. Il gabinetto di radiologia
medica e terapia fisica in corso Vittorio Emanuele offre ai pazienti tripolini tutte le cure ritenute più all’avanguardia con impianti per i raggi X e «raggi ultravioletti luminosi e calorifici».
22
E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 24 ottobre 1933.
23
Ente Opere Assistenziali. Beneficenza, in «L’Avvenire di Tripoli», 19 novembre 1932.
24
E.O.A. cit.
25
La nuova Società generale per la Pubblica Beneficenza in Colonia, in «L’Avvenire di Tripoli», 4
maggio 1929.
26
L’attività della Società Tripolina di Mutuo Soccorso, in «L’Avvenire di Tripoli», 21 dicembre
1932.
27
L’Ente Opere Assistenziali per la prossima campagna benefica, in «L’Avvenire di Tripoli», 17
novembre 1932.
28
Il significato della «Befana Fascista», in «L’Avvenire di Tripoli», 16 dicembre 1931.
29
Dal lemma Befana fascista, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto, Dizionario del fascismo,
Einaudi, Torino 2002, pp. 152-154.
188
«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929
30
Ibidem.
31
Il significato della «Befana Fascista» cit.
32
Ibidem.
33
Dal lemma Befana fascista, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto, Dizionario del fascismo
cit.
34
La riunione del Comitato femminile di beneficenza al Palazzo Governatoriale, in «L’Avvenire di
Tripoli», 5 gennaio 1932.
35
Ibidem.
36
Appello benefico, in «L’Avvenire di Tripoli», 20 novembre 1932.
37
L’Ente Opere Assistenziali per la prossima campagna benefica cit.
38
Le sottoscrizioni pro E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 26 novembre 1932.
39
Le attrezzature sono in realtà di proprietà di privati, ottenute in comodato attraverso appelli
della Federazione fascista.
40
Le sottoscrizioni pro E.O.A. cit.
41
Ibidem.
42
A titolo di esempio, l’Ente opere assistenziali elargisce nel corso dell’anno 1933 140.000 lire
per sussidi in genere, 50.000 per viveri e indumenti, 79.340 lire vengono spese per l’organizzazione della Befana fascista. Ancora 70.000 per varie iniziative benefiche e 9.000 per il
pagamento delle rette per i sanatori e per gli spostamenti dei tubercolotici. Complessivamente
circa 340.360 lire che si impiegano per il sollevamento di 1.925 indigenti e 2.230 bambini in
occasione della Befana.
43
E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 24 ottobre 1933.
189
La Libye avant le renouveau actuel
di Anwar Fekini
Le «printemps arabe» de 2011, qui commença par les événements de
Tunisie pour s’étendre à l’Egypte puis à la Libye, en entraînant la chute
spectaculaire de plusieurs régimes, a renouvelé le regard porté par les occidentaux sur les sociétés arabes.
Il a aussi rafraîchi la question de la démocratisation dans les pays arabes,
maintes fois traitée depuis qu’à la fin du XXe siècle, avec le crépuscule des
dictatures du sud de l’Europe puis l’écroulement des «démocraties populaires» d’Europe de l’Est, la plupart des pays européens se sont convertis
aux vertus de la démocratie représentative.
Plusieurs auteurs ont abordé cette problématique dans laquelle la période coloniale, vécue par presque tous les pays arabes (hormis la péninsule
arabique et le Maroc), constitua à la fois, pour les populations arabes et
leurs élites, un premier contact avec la démocratie pratiquée dans certains
pays européens mais aussi la constatation de ses limites1.
Or l’histoire de la Libye au XXe siècle constitue presque un cas d’école
d’instauration rapide et tardive d’un système colonial, puis de constitution
laborieuse d’un État et de rendez-vous manqué avec la démocratie, avant le
renouveau actuel. Cependant nous souhaiterions montrer dans cet article
que ce renouveau ne se fonde pas sur rien.
Nous nous arrêterons dans cet article plus particulièrement sur la brève
mais notable période de la République tripolitaine de 1918, première tentative de cette sorte en pays arabe, durant laquelle un projet de constitution démocratique fut esquissé2. Si elle ne porta pas ses fruits, du fait des
hésitations italiennes et des rivalités libyennes, cette tentative n’en constitue pas moins, près d’un siècle plus tard, un précédent remarquable, digne
d’être rappelé.
Nous souhaiterions donc proposer ici un rappel de cet épisode historique plutôt méconnu à travers la figure de l’homme politique libyen,
191
Anwar Fekini
Mohammed Fekini (1858-1950), dont la carrière s’étendit depuis la tutelle
ottomane, en traversant les diverses étapes de la phase coloniale jusqu’à
l’exil durant la seconde guerre mondiale, et enfin la création de l’État libyen indépendant.
Car outre sa riche carrière personnelle, deux de ses fils ont pu incarner
deux moments décisifs de la vie politique libyenne: le premier, Hassan,
aurait pu, s’il n’était mort au combat dans la fleur de l’âge, représenter un
type rare de synthèse des cultures libyennes et italiennes; le second, Mohiyeddine, participa en tant que premier ministre du royaume de Libye,
à l’élaboration et à la mise en œuvre d’une politique progressiste dans les
années 1960.
De l’Empire ottoman à la République tripolitaine
Né à Tardiyya, en Tripolitaine (la région occidentale de l’actuelle Libye), alors province ottomane depuis 1551, Mohammed Fekini était au
début du XXe siècle un notable, haut fonctionnaire de l’administration
ottomane, qâimaqâm de Fassato puis moutassarif du Djebel. Si la province
dans laquelle était né Mohammed Fekini semblait quelque peu isolée dans
le vaste Empire ottoman, elle allait en ce début de siècle connaître des
turbulences qui la mirent au centre de l’attention des dirigeants d’Istanbul
et d’un État européen. En 1908, son frère cadet, Ahmad Fadel (18751965), participa à l’expérience parlementaire lancée par le gouvernement
des «Jeunes Turcs», parmi les 60 députés arabes sur les 288 membres de ce
parlement.
Cependant cette expérience parlementaire ottomane, qui réunit des
représentants d’Europe, d’Asie et d’Afrique, s’acheva, le 26 août 1912,
dans une crise, à laquelle d’ailleurs l’intervention militaire italienne ne fut
pas étrangère. Quel qu’ait été le destin de cette institution, elle demeure
un précédent non négligeable car «les ottomans dotèrent les provinces qui
leur étaient soumises d’institutions administratives, et celles-ci, en dépit
de leurs lacunes et de leurs imperfections, avaient un certain caractère de
modernité»3.
Cependant cette ultime tentative de rénovation politique ottomane se
fit sous le regard avide des puissances européennes, dont l’Italie qui entendait se tailler une place au soleil en Afrique, surtout depuis que la France
était présente en Tunisie. Le 29 septembre 1911, la guerre italo-turque
192
La Libye avant avant le renouveau actuel
était déclarée. Le 4 octobre, d’importantes troupes italiennes débarquaient
en Tripolitaine et le 5 novembre, l’Italie annonçait l’annexion de la Tripolitaine et de la Cyrénaïque (la région orientale de Libye), qui devint effective
le 25 février 1912.
La résistance ottomane s’organisa sous le commandement d’Ismaïl
Enver4, envoyé en Tripolitaine pour y diriger les opérations militaires, qui
conclut une alliance avec la confrérie des Sénoussis, basée en Cyrénaïque,
et qui était alors la principale confrérie religieuse du pays. La chambre
ottomane fut dissoute en janvier 1912, et la guerre italo-turque s’acheva
le 18 octobre de la même année par le traité d’Ouchy, lequel céda à l’Italie
les provinces de Tripolitaine et de Cyrénaïque, bien que seule la première
fût réellement sous le contrôle de l’armée italienne. En effet, les italiens
connurent de nombreuses déconvenues avant de prendre définitivement le
contrôle du territoire libyen à la fin des années 1920. En outre, l’annexion
italienne ne fut reconnue officiellement par la Turquie qu’avec le traité de
Lausanne, en 1923.
Dans un premier temps, Mohammed Fekini adopta une attitude réaliste (et plus conciliante que celle de son rival berbère, Soulayman al-Barouni) quant à l’occupation italienne, ne réclamant qu’un protectorat semblable à ceux accordés à la Tunisie et à l’Égypte. Il fut nommé gouverneur
du Djebel par le gouverneur italien de Tripolitaine mais se refusa à participer à des expéditions punitives contre ses voisins.
Cependant avec le déclenchement de la première guerre mondiale (et
le retour des turcs en Libye), éclata la grande révolte à laquelle il participa
avec les autres chefs libyens, mais dont l’instigation revenait surtout à la
confrérie sénoussie soutenue par les ottomans. De 1914 à 1918, les italiens
eurent à faire face à cette révolte, en essuyant quelques défaites militaires
cuisantes comme celle de Qasr Bu Hadi, le 29 avril 1915, tout en s’engageant dans la première guerre mondiale à partir de mai 1915 aux côtés des
Alliés. Durant l’été 1915, la «révolte arabe» provoqua le repli des troupes
italiennes sur la capitale, les Italiens se retrouvant ainsi à leur point de départ de 1911. À l’automne 1915, une attaque visa la garnison britannique
de Salloum, à la frontière avec l’Égypte.
En 1917, un premier accord fut signé à Acroma, le 17 avril, qui établissait une sorte d’armistice entre les italiens et les forces de Mohammed
Idriss Sénoussi, chef de la confrérie, sans renoncer à la prétention italienne
à la souveraineté sur la Cyrénaïque. Néanmoins cet accord, dû aux bons
193
Anwar Fekini
offices des britanniques soucieux de pacifier la frontière égyptienne, ramena la paix dans la région orientale.
En 1918, la guerre s’achevait à peine en Europe que des chefs libyens
de Tripolitaine se réunirent à al-Qassabat, où, le 15 novembre, fut lue cette
proclamation: «La nation tripolitaine a décidé de proclamer son indépendance et la République avec l’accord des oulémas, des notables et des chefs
militaires représentant toutes les régions du pays […]. La nation tripolitaine se considère comme détentrice de son indépendance, acquise grâce à
la lutte de ses fils durant les sept années passées»5. Cette proclamation fut
accompagnée de courriers envoyés, le 16 novembre, aux gouvernements
italien, français et britannique ainsi qu’au président américain Wilson,
lequel avait dès le 8 janvier 1918 fait son fameux discours au Congrès
insistant sur le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes et la limitation
de la souveraineté ottomane aux seules régions turques. La lettre au président du conseil italien appelait «le gouvernement italien à reconnaître le
gouvernement républicain tripolitain, et à faire en sorte que ce dernier ne
soit contraint de poursuivre la guerre pour réaliser ses espoirs légitimes».
Il est important de noter le caractère laïque de cette République, énoncé par le député tripolitain Farhat Bey à un journaliste français: «Guerre
sainte! N’employez pas ce mot… Vous nous rendriez suspects en France.
Nous sommes des patriotes pieds nus et en haillons, comme vos soldats de
la Révolution et non des fanatiques religieux. Si le gouvernement turc nous
abandonne, nous proclamerons qu’il a perdu tout droit sur notre pays, et
nous formerons la République de Tripolitaine»6.
La première réaction italienne consista à envoyer en Libye des renforts
militaires, disponibles grâce à la fin de la guerre en Europe, puis le ministre
des colonies Colosimo et le gouverneur de Tripolitaine Garioni autorisèrent le général Tarditi à entamer des pourparlers, en mars 1919. Ils aboutirent à un projet de statut qui fut ensuite promulgué le 1er juin. «En vertu
de cet acte, les habitants de la Tripolitaine sont élevés à la dignité morale
et politique de citoyens jouissant des mêmes droits que ceux concédés ici
aux citoyens italiens, et ils sont appelés à concourir au gouvernement de
la chose publique et à l’administration du territoire sous la forme la plus
étendue et concrète, dans un régime de liberté et de progrès civil, qui est
pour eux le gage d’un avenir serein».
Les 41 articles comprenaient notamment:
1. La reconnaissance d’une «citoyenneté italienne de Tripolitaine».
194
La Libye avant avant le renouveau actuel
2. La substitution d’un service militaire obligatoire par un service volontaire.
3. L’institution d’un parlement local.
4. La reconnaissance de la langue arabe à égalité avec la langue italienne.
5. La reconnaissance des libertés de presse et de réunion.
Cette Loi fondamentale était «remarquablement libérale, en accordant de larges pouvoirs aux dirigeants locaux, et allait bien au-delà des
concessions faites à des groupes nationalistes dans les pays voisins»7. Cette
attitude libérale était aussi motivée par les difficultés économiques du
royaume d’Italie, sorti exsangue de la première guerre mondiale. Restait
à l’appliquer dans un pays qui avait aussi son poids de féodalisme et de
rivalités régionales, outre des dissensions entre arabes et berbères.
Du fait de son apport à la rédaction du statut, Mohammed Fekini fut
désigné pour faire partie du Conseil de gouvernement. Sa position sur
cette Loi est exprimée sans ambigüité dans un courrier adressé au ministre
des colonies en date du 30 septembre 1920: «Personne ne veut plus que
moi son application immédiate, car depuis que je suis arrivé dans cette
région je n’ai cessé de la préparer, en faisant des propositions indispensables
au gouvernement central, et j’ai reçu par télégraphe une réponse approbative dans l’ensemble»8.
Ce tournant, qui permit aux italiens de rapatrier une bonne partie de
leurs troupes, se concrétisa par la nomination pour la première fois d’un
civil comme gouverneur de Tripolitaine.
En septembre 1919, la République devint le Comité central de réforme
dont furent membres Ramadan Shtiwi, Ahmad Mrayyed, Abd al-Nabi
Belkheyr et Soulayman al-Barouni. En outre faisait office de conseiller Abd
al-Rahman Azzam, un égyptien venu en Libye dans le sillage du prince
ottoman Othman Fouad9 et dont le couronnement de la carrière politique devait être, après la seconde guerre mondiale, le secrétariat général
de la Ligue arabe10. Pour garantir les droits à peine acquis, les membres du
Comité rédigèrent pour leur part un «pacte conventionnel»:
1. Respect et protection absolue des règles de la Loi fondamentale et
maintien d’une paix générale pour éviter toute effusion de sang musulman.
2. Arrestation immédiate de quiconque violerait la Loi fondamentale.
3. L’accord unanime était nécessaire pour prendre des décisions concernant les affaires générales.
4. Tous les signataires du Pacte conventionnel étaient égaux entre eux.
195
Anwar Fekini
Les décisions étaient prises à la majorité.
5. Tout changement ne serait légal que s’il aurait rencontré un consensus général.
De la République tripolitaine au royaume de Libye
Si certains italiens étaient réservés face à cette Loi, notamment ceux qui
allaient ensuite appliquer la politique fasciste en Libye, ce fut un libyen
qui s’y opposa le premier, Ramadan Sthiwi11. Ce chef de la région centrale
de Misrata, de laquelle les italiens s’étaient retirés, prétendait que la région
des Orfella était de son seul ressort, une requête rejetée par les membres du
Conseil qui souhaitaient maintenir la division administrative ottomane.
L’obstination de Shtiwi, fondée sur sa rivalité avec la famille Muntasir et
Abd al-Nabi Belkheyr qui lui reprochait ses positions hostiles aux Sénoussis, poussa les autres chefs à former une coalition, ce qui menaça de disloquer la région. Comme le souligne Lisa Anderson, «la rareté des ressources
et l’attrait des notables pour les postes administratifs, avec leurs pouvoirs
de lever des impôts, exacerbèrent les luttes intestines entre les chefs de la
République»12.
Le 23 mai 1920, Ramadan écrivait au ministre des colonies, Ruini: «Je
suis disposé à m’employer avec toute mon autorité à assurer l’ordre et à
faire appliquer le Statut, à condition d’obtenir de nouvelles bases de nature
à empêcher la politique séparatiste et celle des intérêts personnels»13. Le 24
août 1920, il décida de rompre le siège imposé à Misrata par Abd al-Nabi
Belkheyr et lança une expédition sur la région des Orfella, où il perdit la
vie.
Une fois Ramadan Shtiwi disparu, restait Khalifa ben Askar, un chef
berbère qui lui attaqua en septembre 1920 les villages arabes du Djebel.
Cette attaque était la poursuite d’une rivalité qui avait produit une première crise en 1916, lorsque les Berbères avaient dû quitter leur région
pour ne s’y réinstaller que trois ans plus tard.
Chef de cette région sensible de Tripolitaine, Mohammed Fekini fut
au cœur de cet épisode troublé. Depuis 1912, il s’opposait vivement à
Soulayman al-Barouni qui entendait s’y tailler un émirat ainsi qu’à Khalifa
ben Askar. Cette rivalité prit un tour personnel lorsque son fils aîné Hassan, trouva la mort dans une expédition, le 12 septembre 1920, qui visait
à contenir les abus de Khalifa ben Askar. Sa mort survenait moins d’un
196
La Libye avant avant le renouveau actuel
mois après celle de Ramadan Shtiwi, mais à la différence de celle de ce dernier, la personnalité de Hassan Fekini représentait un possible renouveau
parmi les dirigeants tripolitains, de par ses attaches familiales et régionales
comme par sa connaissance approfondie de l’Italie, où il avait étudié et
s’était encore rendu en juin 1920. Il avait même su y susciter l’intérêt et
gagner l’estime du sociologue et sénateur du royaume, Gaetano Mosca.
Toutefois Mohamed Fekini ne laissa pas prévaloir cet aspect personnel
face à la mort de son fils aîné, et selon le témoignage de Raffaelle Rapex,
il quitta son poste de conseiller du gouvernement pour protester contre la
collusion de ce dernier avec Khalifa Ben Askar. En outre, le gouvernement
italien ignorant sa demande d’envoi d’une expédition punitive contre Khalifa Ben Askar, Mohammed Fekini quitta Tripoli avec ses hommes pour
venger la mort de son fils14.
Il est vrai que les italiens étaient alors plus soucieux de contrer le danger venu de Cyrénaïque et, en octobre 1920, de nouvelles négociations
furent engagées qui aboutirent à l’accord d’al-Rajma, visant à reconnaître
le pouvoir des Sénoussis sur la province en échange d’une application de
la Loi fondamentale. Le parlement de Cyrénaïque se rassembla cinq fois
jusqu’à sa dissolution en 1923, mais il se limitait à des chefs tribaux, qui ne
représentaient ni les villes ni les italiens.
En Tripolitaine, les élections n’eurent jamais lieu, et les querelles entre
chefs arabes et berbères s’intensifièrent. Pour sortir de l’impasse, les dirigeants tripolitains se réunirent eux à Gharyan en novembre 1920. Les relations entre arabes et berbères s’étant détériorées, le chef berbère Soulayman
al-Barouni refusa d’y assister. Les délégués de cette conférence établirent
une commission pour engager des négociations directement avec Rome.
Ses délégués devaient y formuler deux requêtes principales: la révision du
Statut concédé en 1919, et toujours pas appliqué, et la constitution d’un
gouvernement autonome de Tripolitaine, sous protectorat italien. Or cette
commission ne fut reçue qu’en avril 1921 par le ministre des colonies,
Luigi Rossi, les italiens exigeant la libération préalable de prisonniers italiens; la rencontre n’aboutit à aucun résultat tangible15.
En octobre 1921, les opérations menées par Mohammed Fekini contre
les chefs berbères de Rehibat reprirent, puis il occupa Jado, Fassato, Cabao et Nalout, ce qui provoqua l’exode de 15.000 berbères qui trouvèrent
refuge dans les zones côtières occupées par les italiens. Encore une fois le
témoignage de Raffaelle Rapex est précieux: «Il apparut au gouverneur
197
Anwar Fekini
Volpi, dès les premiers jours de son gouvernorat, qu’il fallait se rapprocher
de Mohammed Fekini qui, de son côté, ne se lassait de répéter que sa lutte
n’était dirigée que contre les chefs berbères qui l’avaient offensé et contre
Soulayman al-Barouni qui les encourageaient, mais que ses sentiments
de sujétion envers le gouvernement restaient inchangés16. Le gouverneur
Volpi entra alors en contact avec Mohammed Fekini puis, le 22 décembre
1921, lui donna raison en éloignant définitivement de Tripolitaine Soulayman al-Barouni désigné comme fauteur de troubles.
Le second événement capital de cette période fut la convocation, à la
mi-janvier 1922, à Syrte, à mi-chemin de la Tripolitaine et de la Cyrénaïque, d’un congrès qui se conclut par une décision à caractère historique: les deux régions, ex-vilayets ottomans, n’auraient plus désormais
qu’un seul chef, le Mohammed Idriss Sénoussi. En outre, un pacte d’unité
nationale fut conclu qui posait les bases d’un État, doté d’un parlement17.
Cependant cet accord équivalait à un faire-part de décès de la République
tripolitaine.
Entre-temps, après une année d’instabilité qui vit se succéder pas moins
de quatre ministres des colonies, Giuseppe Volpi, gouverneur de Tripolitaine depuis juillet 1921, suite à quelques mois d’observation et d’attente,
vit dans cet accord un défi à l’autorité italienne, laquelle avait, en vertu des
accords d’al-Rajma, accordé un certain degré d’autonomie à la Cyrénaïque
et voyait ses intérêts de plus en plus menacés.
Dans un tel contexte, Volpi chercha à obtenir la neutralité de Mohammed Fekini, auquel il écrivait en août 1921: «Si aujourd’hui nous jouissons
de la sécurité et de la prospérité, c’est grâce à vous. C’est la raison pour
laquelle je compte sur votre aide pour rétablir un état de sûreté permanente
selon les lois et exigences de la justice […]. Nous devons travailler résolument et sincèrement à appliquer dès que possible la Loi fondamentale»18.
De nouvelles rencontres eurent lieu à Fondouq al-sharif qui n’aboutirent à rien. Cependant, le ministre des colonies Amendola affirmait ne pas
vouloir renier le statut de 1919, en ajoutant: «Aucun ordre ne sera possible
en Libye tant qu’y règneront les rivalités entre chefs, rivalités desquelles,
peut-être, à quelques moments, selon une vision erronée des choses, on a
pu croire tirer des avantages qui nous seraient utiles». Mais selon l’historien
Angelo Del Boca, ce discours arrivait «après trois ans d’atermoiements, de
promesses non tenues et d’intrigues; le message venait trop tard parce que
les demandes des Tripolitains n’étaient plus les mêmes»19.
198
La Libye avant avant le renouveau actuel
Selon Raffaele Rapex, membre du cabinet de Volpi, l’intention de
ce dernier était de «mettre en œuvre des dispositions législatives devant
conduire à la convocation immédiate du Parlement et de cette représentation légale qui pourrait légitimement parler au nom de la population
tripolitaine»20. Plusieurs mesures significatives s’ensuivirent comme l’abolition du tribunal pour indigènes, l’institution d’un tribunal supérieur
autonome de la charia, une amnistie pour délits politiques. Cependant le
gouverneur voyait dans le Comité central de réforme un État dans l’État
et interpréta étroitement les requêtes faites par les chefs tripolitains lors
de la visite du prince héritier italien, Umberto. Un d’eux affirma notamment: «Les Arabes de Tripolitaine, Votre Altesse, sont profondément blessés par la considération dans laquelle les tiennent les colonialistes lesquels
les considèrent comme une quantité négligeable»21.
Ne voyant, pour préserver ses intérêts, d’autre voie que la restauration
de la domination effective de l’Italie, Volpi décréta le débarquement de
troupes à Misrata, le 26 janvier 1922. En avril, la trêve achevée, la République tripolitaine avait échoué à réunir les deux provinces qui restaient
désunies par une méfiance réciproque. En octobre de la même année, le
fascisme parvint au pouvoir à Rome, ouvrant une nouvelle page de la politique italienne en Libye. En décembre, Mohammed Idriss Sénoussi partit
en exil en Égypte, où il demeura jusqu’en 1943.
Cette période fasciste de la colonisation de la Libye fut marquée par
des succès militaires qui permirent aux italiens d’avoir conquis la totalité
du territoire en 1924, en ayant recours à des méthodes radicales comme
l’usage de gaz contre les combattants adverses et l’incarcération de populations en camps de concentration. Le commandant en chef Rodolfo Graziani et le général Pietro Badoglio devaient ensuite appliquer les mêmes
méthodes en Ethiopie.
Mohammed Fekini fut également un des acteurs de cette période de
défaite pour les résistants libyens: il lutta contre les italiens dans le Djebel
de 1922 à 1924 puis s’étant réfugié dans le Fezzan, (la région méridionale
de la Libye, la plus inaccessible), il fut contraint de traverser la frontière
algéro-libyenne en février 1930 pour trouver ensuite refuge, avec sa famille
et plusieurs centaines de combattants, en Tunisie en 1931.
C’est donc Gabès, au sud de la Tunisie sous protectorat français, qu’il
suivit les événements dont son pays et le monde furent le théâtre: la déclaration de guerre italienne puis l’affrontement entre les troupes italo-al199
Anwar Fekini
lemandes et anglaises et enfin la victoire de ces dernières qui permit la
libération de la Libye du joug italien.
En juin 1940, alors que le rêve colonial italien semblait réalisé (70.000
colons italiens vivaient en Tripolitaine, dont la moitié à Tripoli, et 40.000
en Cyrénaïque), l’engagement italien auprès de l’Allemagne changea la
donne. Dès l’automne 1942, après la bataille d’El-Alamein, l’avantage
revenait aux forces britanniques qui pénétraient en territoire libyen tandis
que les Forces françaises libres, après avoir mis en échec l’avancée allemande à Bir-Hakeim, en mai-juin 1942, progressaient en Afrique équatoriale, aux portes du Fezzan. Un an plus tard, le pays était sous administration britannique en Tripolitaine et Cyrénaïque (et cela devait durer jusqu’à
1947) et sous administration française dans le Fezzan (et cela devait durer
jusqu’à 1951).
Pendant ce temps, la tâche de réunir les deux régions principales sous
la houlette des Sénoussis s’accomplit, avec l’arrivée d’une nouvelle génération d’hommes politiques. Dans cette période délicate, les tripolitains qui
avaient gardé le souvenir de leur république, se montrèrent plus ouverts
que leurs pairs de Cyrénaïque. En 1947, la Tripolitaine avait une demidouzaine de partis tous favorables à l’indépendance du pays, à l’union des
trois provinces et à l’adhésion à la Ligue arabe22. Le principal sujet de discorde était le rôle de la famille Sénoussi.
Ces questions s’ajoutaient à celle des intérêts des puissances victorieuses,
ce qui fit qu’une commission quadripartite vint en Libye, avant de confier
la question à l’Assemblée générale des Nations-Unies, le 15 septembre
1948. Le plan Bevin-Sforza qui proposait un protectorat de 10 ans de la
France sur le Fezzan, de l’Italie sur la Tripolitaine et de la Grande-Bretagne
sur la Cyrénaïque provoqua des manifestations populaires et resserra les
rangs des hommes politiques libyens. À la réunion suivante de l’Assemblée
générale des Nations-Unies, la Grande-Bretagne avait décidé d’octroyer
unilatéralement l’indépendance à la Cyrénaïque sous la direction de Mohammed Idriss Sénoussi. En créant ce précédent et plaçant ce dernier dans
cette position avantageuse, la Grande-Bretagne préservait ses intérêts dans
la région. En février 1950, la France créa un gouvernement transitoire au
Fezzan, et le 29 novembre 1949, une résolution sur l’indépendance de la
Libye (à partir du 1er janvier 1952) fut adoptée.
Dans le contexte de la guerre froide, une des considérations de la
Grande-Bretagne et des États-Unis fut qu’en tant qu’État indépendant, la
200
La Libye avant avant le renouveau actuel
Libye pouvait accueillir des bases militaires étrangères. Ce sont donc des
considérations de politique internationale qui présidèrent à la création du
Royaume uni de Libye, qui devint donc un État par le fait colonial puis par
un concours de circonstances internationales, plus que par une tradition et
une évolution locales.
Du point de vue idéologique et culturel, le premier contact qu’avaient
eu les libyens avec l’État moderne occidental durant la première partie
du XXe siècle avait été particulièrement brutal. L’Italie, en quête de prestige parmi les nations européennes, avait surtout conquis les régions ottomanes pour y trouver un exutoire à sa surpopulation, excluant les libyens
de l’administration de leur colonie23. Le résultat fut que la bourgeoisie
locale était presque inexistante, et que les allégeances familiales, locales ou
tribales reprirent le dessus sur le sentiment de citoyenneté.
Le Sénat du pays consistait en 24 membres, 8 pour chaque province,
dont la moitié était nommée par le roi. Un député était élu à la chambre
des représentants pour 20.000 habitants. Le gouvernement était responsable devant le roi, qui pouvait le renvoyer, et devant le Parlement, qui
pouvait le démettre par un vote de défiance.
En fait, le Parlement ne pouvait contrôler le gouvernement qui contrôlait les élections. Le pouvoir émanait du roi ou du dîwân royal (constitué en
grande partie de chefs de Cyrénaïque). Tous les gouvernements renvoyés le
furent pour cause de litiges entre la cour et le gouvernement. À la suite des
premières élections parlementaires, tous les partis politiques furent interdits, ce qui contribua au désintérêt des électeurs. Ce fut d’ailleurs, jusqu’à
ce jour, l’unique expérience d’élections avec des partis en Libye.
Un projet républicain vit le jour en 1955, promu par le premier ministre Ben Halim pour résoudre le problème posé par la structure fédérale
du royaume et pour échapper aux intrigues de la famille Sénoussi. Il prévoyait l’abolition du fédéralisme et la transformation de la monarchie en
république, avec le roi Idriss comme président pour un mandat unique de
10 ans. Si le fédéralisme fut bien aboli en avril 1963, le projet républicain
fut abandonné, ce qui montre que l’intention était bien de réorganiser le
royaume pour s’adapter à la rente pétrolière, et non de changer de régime24.
C’est en exil à Gabès que Mohammed Fekini s’était éteint à l’âge de
92 ans en 1950, mais un autre des ses fils reprit le flambeau, Mohiyeddine
qui fut à la tête du gouvernement du 19 mars 1963 au 22 janvier 1964.
Après des études à la Sorbonne, il avait intégré le corps diplomatique où il
201
Anwar Fekini
représentait la nouvelle génération de technocrates éduqués en Occident.
Il s’illustra par des mesures économiques et sociales ainsi qu’en concédant
aux femmes le droit de vote aux élections générales. C’est peut-être son
ambitieux programme de réformes qui provoqua sa chute, accélérée par
des troubles consécutifs au deuxième sommet de la Ligue arabe au Caire,
le 13 janvier 1964.
C’est en assistant à ce sommet qu’il apprit la mort, à Benghazi, le 14
janvier, de deux lycéens abattus par la police alors qu’ils manifestaient leur
soutien à la cause palestinienne. Il dépêcha une enquête qui visa le général Mahmoud Bouqwitine, par ailleurs connu pour sa corruption, mais
le palais refusa de le limoger, ce qui entraîna, le 22 janvier, la démission
circonstanciée du gouvernement Fekini, que le roi accepta.
Le manque de légitimité du régime monarchique ne put que souffrir
de telles palinodies comme de l’incapacité du roi à mettre un terme à la
corruption, laquelle n’avait fait que croître avec l’afflux d’argent provoqué
par l’exploitation pétrolière à partir de 1960. Le 1er septembre 1969, le
coup d’État du capitaine Kadhafi acheva un régime fragile et discrédité.
Des voix s’étaient pourtant élevées pour avertir le roi du danger. Ainsi en
mai 1969, le frère de Mohiyeddine Fekini, Ali Noureddine ex-ambassadeur, avait adressé une supplique au roi l’enjoignant de mettre un terme à
la corruption25.
Avec la prise du pouvoir du capitaine Kadhafi commence une des périodes les plus troublées, et des plus originales, de l’histoire libyenne. En
1973, ce militaire instaura un régime dictatorial qui se voulait unique en
ce qu’il prétendait être une démocratie directe, ce qui fut théorisé dans Le
livre vert à partir de 1975, puis consacré dans l’appellation de «Jamahiriyya», ou «État des masses» en 1977.
Les relations extérieures de la Libye passèrent par plusieurs phases,
d’abord nationaliste arabe avec plusieurs projets d’union, dont un avec
l’Egypte voisine, qui avortèrent, puis une phase de tensions avec l’Occident et de soutien actif à plusieurs formes de terrorisme, cette période
culmina avec le bombardement américain de Tripoli en 1986. Pour le
reste, le régime développa une politique de coopération avec de nombreux
pays africains.
Enfin le rapprochement avec l’Occident, après l’opération américaine
en Irak, se manifesta dans une phase de désarmement, en échange d’un
retour au sein des instances internationales, accompagné d’une ouverture
202
La Libye avant avant le renouveau actuel
économique26.
En 2009, le régime libyen fêta ses 40 années, avant qu’une vague de
soulèvements populaires démocratiques en Afrique du Nord ne l’ébranle,
après les régimes tunisiens et égyptiens. Cette contestation inattendue
prouva, pour le moins, la volonté des sociétés en question de prendre en
main leur destin contre des régimes affaiblis et dépourvus de légitimité.
Il est frappant de constater que les libyens qui avaient rejeté l’assaut et
l’intrusion italiens en 1911 se sont révoltés contre le régime de Kadhafi un
siècle après, à la faveur de ce «printemps arabe» de 2011. Si les précédents
démocratiques de la Libye sont plus rares que ceux de ses deux voisins, et
si l’issue du mouvement de contestation y reste inconnue, il n’en reste pas
moins que le République tripolitaine de 1918 constitue non seulement un
exemple digne d’être rappelé et étudié, mais une étape indispensable à la
compréhension du dernier siècle dans ce pays.
Note al testo
1
Démocraties sans démocrates, sous la direction de Ghassan Salamé, Fayard, Paris 1994.
2
Dirk Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge 2006.
3
Histoire de l’Empire ottoman, sous la direction de Robert Mantran, Fayard, Paris 1989, p. 420.
4
Futur ministre de la Guerre ottoman, plus connu sous son titre d’Enver Pacha.
5
Angelo Del Boca, Naissance de la nation libyenne, Milelli, Villepreux 2008, p.97.
6
Cité par Philip Hendrick Stoddard, The Ottoman Government and the Arabs, 1911 to
1918,A Study of the Teskilat Mahsusa, Princeton 1963, p.3.
7
D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit., p. 28.
8
Archives Anwar Fekini: Mohamed Fekini, Mémoires, annexe n. 42.
9
Futur roi d’Égypte en 1922.
10
Anna Baldinetti, Italian Colonial rule and the Muslim Elites in Libya: A relationship of Antagonism and Collaboration » in Guardians of faith in Modern Times: ulama in the Middle East, sous
la direction de Meir Hatima, Brill, Leiden and Boston 2009.
11
Ou Suwayhli. Voir à ce propos, Lisa Anderson, Ramadan al-Suwayhli, Hero of the Libyan
resistance in Edmund Burke III, Struggle and Survival in the Modern Middle East, I.B. Tauris,
London & New York 1993, pp.114-128.
203
Anwar Fekini
12
Ibidem, p. 125.
13
MAE, Archives historiques du ministère de l’Afrique italienne, Libye, télégramme du 23 mai
1920.
14
R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana in Tripolitania, Chihli Press, Tientsin 1937,
p. 104.
15
A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., pp. 136-137.
16
R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana cit., pp. 122-123.
17
A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., pp. 151-152..
18
Archives Anwar Fekini, annexe n. 76.
19
A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., p. 161.
20
R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana cit., p. 103.
21
A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., p.144.
22
D. Vandewalle, A History of Modern Libya, Dirk Vandewalle, idem, p. 38.
23
Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milan 1978, p. 140.
24
D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit., p. 63.
25
Archives Anwar Fekini: Ali Noureddine Fekini, Le châtiment.
26
D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit.
204
I Buddenbrook d’Oltremare
di Nicolò Tambone
Quando arriviamo in albergo sono esausto. Lenzuola dal colore incerto mi
persuadono a sdraiarmi sopra il letto senza perder tempo a togliermi i vestiti.
La notte è fredda, mi avvolgo in una coperta e mi addormento all’istante; cado
in un sonno profondo e senza sogni.
Riemergo alle prime ore del mattino a un suono reso distorto dagli altoparlanti: una nenia, la voce del muezzin che invita alla preghiera. Il sonno
abbandona la zavorra un poco alla volta, senza cedere del tutto alla coscienza.
Resto per un certo tempo come sospeso, senza memoria del luogo in cui mi trovo, del viaggio che mi ha condotto fin qui e dei motivi che mi hanno portato
a intraprenderlo.
Filtra attraverso le tende un po’ di luce dai lampioni sulla strada. I vetri
alle finestre tremano per effetto di quel vento ostinato di cui finora ho soltanto
sentito parlare, il Ghibli, soffia dal deserto portando granelli finissimi di sabbia. Il tintinnare dei vetri si sovrappone al canto del muezzin. Resto immobile
e ascolto. Non voglio muovermi finché non farà giorno. Aspetto l’indomani, la
luce; le cose che – ora ricordo – sono venuto a cercare.
La coscienza si fa strada. È una notte di aprile 2009, mi trovo nell’unico
albergo di El Merg, altipiano del Gebel, Libia orientale, fuori da qualsiasi
itinerario turistico. Settant’anni prima, in questa città, moriva mio nonno.
Forse l’indomani riuscirò a localizzare la sua tomba, e dipanare il mistero
per il quale lui e i suoi fratelli si avventurarono qui in cerca di fortuna, in un
tempo ormai remoto, poco meno di un secolo fa.
Forse viene da qui un certo mio interesse per i fatti del passato, l’ambizione
di volerli capire. A chi mi chiedeva cosa andassi a fare in Libia, rispondevo che
si trattava di una gita turistica, e in parte era vero. A Tripoli vagavo spensierato per il souk. Ma a Sabratha ero già insofferente e non vedevo l’ora di partire
per la Cirenaica, arrivare a El Merg, mentre fantasticavo sulle assonanze e
sulla suggestione dei nomi: El Merg come El Dorado. Le illusioni umane sono
205
Nicolò Tambone
in fondo sempre le stesse.
El Merg-El Dorado, certo. Ma credo che, nella decisione dei Monaco di
stabilirsi in colonia, agissero anche altri, e più forti, motivi. La fortuna era
compiacente con loro, da almeno un paio di generazioni. Non era il caso di
cercarla altrove. Credo dunque ci fosse dell’altro. Desiderio di fuga e di autonomia, la ricerca di un futuro diverso, l’ambizione a migliorare ogni aspetto della
propria vita, non solo il profilo economico. Ma queste ragioni, se pure ci sono
state, restano per me oscure. E mi accorgo di sapere molto poco sul conto dei
vecchi Monaco, delle loro vicende, del loro modo di pensare e stare al mondo.
Remoti e misteriosi, di loro so le poche cose che ho sentito raccontare da
quelli che li hanno conosciuti. Racconti decantati da troppo tempo, a volte
reticenti, filtrati da abbellimenti e infioriture. So di loro grazie alle fotografie,
alle carte. E le carte, poche: quelle conservate per scopi del tutto prosaici, documentare proprietà e certificare esistenze in vita. Molto dicono, ma altrettanto
lasciano in ombra, dell’aspetto che a me più interessa, quello umano, emerge
poco. Sulla scorta della lezione di Jaques Le Goff, non resta comunque che
dipanare l’avventura libica dei Monaco seguendo la labile traccia delle carte.
Innanzitutto le origini. I nomi e la condizione sociale di Michelangelo
Monaco e Teresa Bolmida compaiono nell’elogio funebre del figlio Giacomo,
arciprete a Mombarcaro (Cuneo), nato nel 1823 e morto nel 1881. Contadini, insediati, all’inizio del XIX secolo, a Camerana, al tempo provincia di
Mondovì, oggi provincia di Cuneo. L’area è quella appenninica al confine tra
Piemonte e Liguria; valle Bormida; alta Langa. Regione storicamente poverissima e arretrata, rimasta tale fino a tempi recenti. Crocevia di comunicazione
verso il mare, via del sale già in epoca romana; porta d’ingresso della prima
campagna napoleonica in Italia. Ed è possibile, anche se mancano i documenti
a provarlo, che il vecchio Michelangelo fosse uno dei tanti reduci della Grande
Armée, con il Piemonte annesso all’Impero francese e soggetto alla coscrizione
obbligatoria.
La coppia aveva altri due figli: Nicola, del quale non si hanno notizie,
tranne una labile memoria sulla sua partecipazione a una delle guerre di indipendenza, e Carlo, nato nel 1814. Dal testamento olografo di Carlo, redatto
nel 1866, si deduce una condizione, per l’epoca, di discreto benessere. È registrata la somma di duemila lire, dote della moglie Elisabetta Rabellino, una
casa e un po’ di terreno.
Carlo è il patriarca di una famiglia numerosa, come lo erano le famiglie
rurali del tempo: quattro maschi e altrettante femmine. Ha un buon mestiere,
206
I Buddenbrook oltremare
è mugnaio. Sul finire dell’Ottocento, conduce, come locatario, il mulino di
proprietà di Fortunato Gambera, possidente del luogo. I rapporti con il Gambera tuttavia non sono buoni e un contenzioso sulla manutenzione del mulino
finirà in tribunale. Una causa che verrà dibattuta per anni in tutti i gradi, a
partire dal 1880, prima nel tribunale di Monesiglio, poi a Mondovì, per finire
in Cassazione a Torino, nel 1890, con la sconfitta definitiva del Gambera.
Sconfitta che sembra segnare un nuovo corso, con il declino dei Gambera e
l’ascesa dei Monaco.
A dispetto del testamento vergato nel 1866, il vecchio mugnaio vive ancora
nel 1901, quando si decide (non sappiamo quali argomenti lo convincono) a
presentarsi davanti al notaio per una donazione a favore degli otto figli. Viene
spartita la cospicua somma di ventottomila lire, la casa adiacente il mulino, e
numerosi terreni. Liberatosi dei beni materiali e delle conseguenti preoccupazioni, il mugnaio passerà a miglior vita soltanto nel 1909, quasi centenario.
I figli maggiori di Carlo, Michele e Luigi, escono di scena. Nulla si sa del
loro destino. Molto probabilmente emigrano, forse in Francia, o negli Stati
Uniti. Angelo e Giuseppe, invece, continuano a vivere a Camerana, coltivando la terra del padre. Angelo è anche un campione di pallone elastico, sport
caratteristico giocato a squadre nelle piazze della Liguria e del basso Piemonte.
Giuseppe è il nuovo patriarca, anche se ha «solo» tre figli, non molti per l’epoca. Si parla ovviamente dei sopravvissuti, la mortalità infantile essendo a quel
tempo un fatto normale.
Perfettamente a suo agio nel suo nuovo ruolo, Giuseppe sembra voler appropriarsi dello status del quale godevano fino a poco prima i Gambera, memore
di una lotta durissima che sarebbe inopportuno definire «di classe», ma piuttosto di avvicendamento delle élite. Il clima è quello del Piemonte ottocentesco e
rurale, profondamente vincolato a usanze e tradizioni che nemmeno ci si immagina di mettere in dubbio: venerazione assoluta per la monarchia sabauda,
una religiosità quasi sanfedista che porta il mugnaio Carlo a legare pel riposo
di sua anima messe lette da Requiem duecento. L’ambizione di Giuseppe
la possiamo dedurre dalla posa ieratica che assume nelle fotografie, dai baffi a
manubrio, lo sguardo fiero che lascia trapelare una certa durezza rivolta a se
stesso a agli altri. Dalla nuova casa che costruisce nel 1913: un grande edificio
la cui bellezza austera è appena addolcita da una decorazione a trompe l’oeil
sulla facciata. La nuova costruzione sembra sancire l’avvenuta rivalsa nei confronti dei Gambera, come a sfidare, in dimensioni e architettura, il palazzotto
dei rivali che sorge a breve distanza, allineato anch’esso alla strada per Savona.
207
Nicolò Tambone
Negli anni della prima guerra mondiale, Giuseppe è assessore comunale di
Camerana. I figli, Carlo, classe 1895, e Luigi, 1898, sono al fronte. Scarsa
la documentazione di quel periodo, limitata a poche foto. Luigi in trincea,
probabilmente in Francia, mentre Carlo, sottufficiale dei Carabinieri, dopo
un probabile periodo sul fronte italiano, viene destinato, nel 1917, alla Libia.
La colonia nordafricana, strappata all’impero ottomano nel 1912, è tutt’altro
che sotto controllo. Imperversa la guerriglia e lo sforzo bellico sul fronte della
Grande Guerra costringe il governo a centellinare il rafforzamento del contingente dislocato in Libia. Purtroppo non è dato sapere molto di più riguardo a
questo periodo, del quale si è persa ogni memoria, e anche la documentazione
epistolare presenta un vuoto di diversi anni. Ma è proprio il momento in cui
Carlo, come ex-militare, ottiene in concessione dal governo una superficie agricola di cento ettari nella piana di Barce, in Cirenaica. Barce, il nome latino di
El Merg, già insediamento greco e poi romano.
Sulla fascinazione di Carlo per la quarta sponda, si può solo far congetture.
Ma è lecito assumere il punto di vista del mondo rurale agli inizi del XX secolo;
e credere che, più della retorica nazionalista, abbia agito il senso pratico, il fiuto per la «terra buona» e la possibilità di ottenere gratuitamente grandi estensioni di terreno. Bisogna considerare che le Langhe, e ancor più l’Alta Langa
e la Valle Bormida, sono da sempre caratterizzate dalla frammentazione degli
appezzamenti di terra, spesso situati in posizioni collinari impervie, che limitano le possibilità di coltivazione e irrigazione. L’agricoltura, qui, muove
un’economia di mera sussistenza, o poco più. Nessuna meraviglia, quindi, se
agli occhi di un giovane degli anni dieci del secolo scorso, la fertile piana di
Barce, con i suoi prati a perdita d’occhio, appare come una meravigliosa terra
promessa. Soprattutto se si aggiunge l’opportunità di affrancarsi dall’egida del
patriarca e dei suoi diktat, ai quali non sfugge nessuno di coloro che ne condividono il tetto.
Resta il fatto che nel 1926 Carlo e Luigi Monaco sono insediati in Cirenaica, insieme alla sorella Elisabetta, classe 1904. Ne abbiamo testimonianza da
una lettera, vergata in fretta sul foglio strappato da un quaderno, nella quale
Luigi trasmette notizie ai genitori.
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I Buddenbrook oltremare
Merg 6 agosto 1926
Caro Padre
Mi scuserai se scrivo di rado non è che mi trascuri a non occuparmi, è
perché ho sempre poco tempo da perdere. Quando arrivo a casa tra mangiare e altre cose debbo sempre sbrigarmi per la partenza. Poi, capirai,
una macchina che viaggia di continuo ha sempre bisogno di qualche cosa:
lubrificazione, qualche cosetta per tenerla in ordine da non perdere tempo
per strada.
Dico sempre scriverò domani; domani passa e passa mesi. [...]
Non sappiamo a quale macchina si riferisca Luigi. Probabilmente un mezzo agricolo, un trattore, o forse un furgone per il trasporto merci. È certo che
i mezzi agricoli importati dall’Europa e costruiti per lavorare in altri climi,
richiedono una manutenzione straordinaria, legata alle alte temperature di
esercizio, alla tecnologia ancora arretrata dei lubrificanti dell’epoca.
Segue un passo oscuro, dove viene fatto riferimento ad argomenti discussi
in corrispondenze precedenti, andate perdute. E vengono per la prima volta
elencati gli appezzamenti di terra a disposizione:
[…] abbiamo circa 30 ettari vicino al paese proprio attaccato al campo
aviazione e 100 più giù lontano; terreno senza un sasso, piano […] come
dal campo Gambera alle case Frati, tutto così.
I terreni, dunque. E a darne idea della bontà, il paragone con il campo
Gambera, al paese; il ricorrere dell’antica rivalità, la rivalsa, ora tramutata in
inseguimento di benessere e prestigio. Segue un passo dal quale emerge la volontà di convincere il genitore che l’impresa coloniale è redditizia, si parla di cifre
da inviare a casa e il progetto di un allevamento. Progetto per la realizzazione
del quale si cerca il consenso e forse anche un appoggio economico. Poi ancora
rassicurazioni sul buono stato di salute.
[...] io devo ritirare 23 mila lire ma le amministrazioni sono rimaste senza
soldi, è anche per quello che dobbiamo ritardare a mandarti […] ma con
questo giro deve essere sicuro il pagamento. Mi rincresce farti aspettare
Soldi guadagnati da me solo con la macchina che vale un 40 mila lire.
Questi solo maggio, giugno, luglio […] vedi che lavorando con volontà
si guadagna […] perché [l’idea] sarebbe di fare una bella stalla con una
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Nicolò Tambone
tettoia da mettere il foraggio o tener bestiame, che il mantenimento qua
costa poco, è quasi tutto pascolo. Questo sta già bene ma se non c’è chi
li accudisce allora [invece] di guadagnare si perde [...]. La salute non mi
manca, la forza neanche. Questo è il capo principale. Vorrei dirti molte
cose ma mi aspettano.
La chiusa è interessante. Si palesa in modo più esplicito la richiesta di consenso e appoggio finanziario (l’unione fa la forza). E una considerazione sul
tasso di cambio del dollaro.
L’ultimo periodo, benché sintatticamente sconnesso, è profetico. Di lì a
qualche anno la crisi economica del 1929 sconvolgerà, oltre agli Stati Uniti,
anche l’Europa e l’Italia.
[…] la penso di fare per unirsi, che l’unione fa la forza. Hai visto che prezzo il dollaro per le ordinazioni all’estero: 37,29. Povera Italia che miseria
verrà vale più un bue nella stalla un tempo che il portafoglio pieno.
Io lascio con salutarvi
Vostro figlio Luigi
Le ultime righe della lettera sono vergate in una grafia diversa. A scriverle è
Elisabetta, all’epoca ventiduenne. Molto interessanti perché danno l’idea della
condizione femminile nella società del tempo, dell’ingerenza genitoriale nella
vita e negli affari sentimentali dei figli, anche se già adulti. Si parla di un certo
Nino, riguardo al quale «è cosa di andar piano»; l’agghiacciante remissività
contenuta nella frase: «I genitori indovinano sempre tutto».
Si fa cenno a un momento di sconforto per il fratello Carlo, probabilmente
in seguito a un malanno passeggero.
Le lettere le abbiamo ricevute tutte. In quanto al colonnello, Luigi, avendolo visto di combinazione, non può sapere il suo indirizzo.
Avete ragione che riguardo a Nino è cosa di andar piano. I genitori indovinano sempre tutto. È stato un momento di sconforto proprio per Carlin,
altrimenti qua sto molto bene, mi manca niente e lavoro poco. Tutti mi
rispettano. Dunque lascio a voi decidere ma se non gli avete parlato potete
anche sospendere.
Saluto, Bettina
210
I Buddenbrook oltremare
Qualche mese dopo, un’altra lettera di Elisabetta dalla quale si desumono
nuovi dati interessanti.
Merg 9 dicembre 1926
Cara mamma
Ho ricevuto il pacco, ti ringrazio molto di aver preso il disturbo di pagare Linda.
Spero che già avrete ricevuto la lettera di Luigi, e pure io vi ripeto di non
pensare male che noi stiamo bene.
Come pure Carlin ha fatto una cura e s’è rimesso molto bene. Al mattino
si alza presto, davvero ha fatto un cambiamento che mai mi avrei creduto.
E ciò per me è una consolazione.
Quei soldi che ricevette [...] in municipio non siamo noi ma è la ditta
Epifani. Avrete pure ricevuto i 14.000 mila per pagare i nostri uomini, abbiamo ritardato perché il governo non pagava e secondariamente abbiamo
ancora comperato per 22.000 di terreno perché quella che concedeva il
governo non piaceva ai miei fratelli. 5000 mila li avevamo già dati a Linet
e Carlo quando son partiti. Dunque [...] son 40000 mila, tutti soldi guadagnati questa primavera, alla fine di settembre dovremo incassare un 28.000
mila circa e dovete contare che pure già l’annata è stata poco buona. Spero
che pure voi state bene, guardate di affittare come disse Luigi che oramai
avete lavorato abbastanza. Saluti dai vostri figli Elisabetta. Ti auguriamo
un buon onomastico e giorni felici.
Ancora resoconti e ancora cifre, per l’epoca significative. Ma quello che
più merita la nostra attenzione è l’attitudine a reinvestire parte dei guadagni nell’acquisto di nuova terra perché «quella che concedeva il governo non
piaceva ai miei fratelli». Attitudine che, come vedremo più avanti, si rivelerà
disastrosa. Emerge un aspetto fondamentale del colonialismo italiano, lo sforzo
del governo per rendere produttive le colonie, l’erogazione di contributi pubblici che gravano sulle finanze esauste di un paese in difficoltà, da poco entrato
nel ventennio fascista. Spese che si sommeranno a quelle militari, occorrenti ad
alimentare le campagne per il pieno controllo del territorio.
Stranamente, nessun accenno viene fatto a questioni di sicurezza. Eppure
nella zona, specie sui monti del Gebel, imperversano le bande dei ribelli capeggiate da Omar Al Mukhtar. La guerriglia terrà sotto scacco l’esercito italiano
ancora per alcuni anni, fino a quando, nel 1931, la brutale repressione guidata dal generale Rodolfo Graziani non vi porrà fine, con l’arresto e la pubblica
211
Nicolò Tambone
impiccagione di Al Mukthar. Le operazioni militari della «riconquista» prosciugheranno fiumi di denaro pubblico. Verranno compiuti crimini infamanti
che graveranno sulla coscienza collettiva degli italiani, e per questo a lungo
negati o minimizzati.
Nessuna traccia di tutto ciò nelle lettere dei primi anni. Nella corrispondenza privata, gli arabi come non esistessero. Senz’altro una rimozione, più
o meno cosciente. Perché nei racconti orali, si tramandano le memorie dei
patiboli che compaiono sulla piazza di Barce, dai quali pendono i cadaveri dei
ribelli impiccati. Anche nelle fotografie, gli arabi sono comparse, appaiono per
caso, intenti nel lavoro o radunati in capannelli, addossati ai muri, distanti e
sfuocati sullo sfondo. Oppure sono in posa, ma in qualità di elemento esotico,
di «mirabilia» kitsch.
Ricorrono, nelle lettere, riferimenti non precisati alla malattia e al recupero
della salute, come il sintomo di un male più grande e di natura indefinita.
E le ambizioni, il denaro, la rivalità con i Gambera, l’ombra dell’autorità
patriarcale. Infinite assonanze con I Buddenbrook di Thomas Mann, come a
confermarne la sostanziale verità del romanzo.
Ma atteniamoci ai fatti. Nei primi anni trenta Carlo sposa Felicita Montaldo, originaria di Santo Stefano Belbo (CN) e costruisce a Barce una graziosa
La villa dei Monaco a Barce in una recente foto
212
I Buddenbrook oltremare
villa – ancora oggi esistente –, dotata di allacciamento elettrico e stanza da
bagno, comfort molto elevati per l’epoca, dei quali erano ancora prive moltissime abitazioni italiane. Nel 1934, Luigi vince le titubanze di una ventenne di
Monesiglio, Giuseppina Albesano, e i due si sposano. Merita soffermarsi sulla
lettera nella quale Luigi le propone il matrimonio.
[…] Sono libero fino al quindici di giugno, forse interrompo per venirti a
sposare. Non dirmi di prolungare Giuseppina, prendi questa decisione con
il cuore in pace, se mi vuoi bene, come io ne voglio a te, e questo verrà se
non oggi poi […]
Atroce, ai nostri giorni, la frase «questo [l’amore n.d.A.] verrà se non oggi
poi». Ma comune, nella mentalità di allora, nel considerare la donna come un
essere incapace di autonomia, al quale necessita sempre la guida di qualcuno:
genitore, marito o fratello; un tutore che decide per lei cosa è bene e cosa non lo è.
Dalla stessa lettera deduciamo che Giuseppina è tutt’altro che entusiasta di
compiere un passo così irrevocabile. Prende tempo con la scusa di completare il
corredo di nozze, una sorta di Penelope del XX secolo.
[…] Con la speranza che la prendi presto [la decisione n.d.A.] e che non
ci sia più quel benedetto lenzuolo in mezzo o qualche foderetta o qualche
fazzolettino, mi fai un semplice telegramma Monaco Barce. – Sta bene –
oppure: – non è possibile – ti chiedo riporta per telegramma così mi passo
otto giorni di più in Italia e si fa le cose con più comodo […].
Schietto e pragmatico, Luigi prega di non perdere tempo con le lettere d’amore. Si attende una risposta per telegramma, lascia uno spiraglio alla possibilità di un diniego della ragazza, ma per semplice forma, dando quasi per
scontato che il matrimonio si farà e con più comodo. L’amore, quindi, può
attendere: verrà col tempo. Non può attendere, invece, la terra. E dunque la
lettera non tralascia il capitolo affari.
[…] facciamo una società […] tu ti metti subito dietro l’azienda. [...] formata la società in tre e ordinato le macchine, scelto il terreno e ottenuto
dal Governo la bellezza di molti ettari che spero di arrivarci a seminarlo se
le macchine non ritardano oltre il 18 giugno, come d’accordo con la casa
costruttrice […].
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Nicolò Tambone
Poche righe che quasi inteneriscono per l’ottimismo e l’entusiasmo nel progetto nuovo. Si parla di una società da fondare. È il punto nel quale le strade
dei fratelli Monaco, dal punto di vista lavorativo, si separano. Pur restando
buoni i rapporti familiari, prevale l’ambizione di autonomia di Luigi, che il
matrimonio con Giuseppina rende effettiva.
Gli anni dal 1934 al 1939 trascorrono sereni, e oseremmo dire felici, stando alle fotografie che di quel periodo ci sono pervenute. Istantanee che mostrano
attività come la mietitura e la trebbiatura, inquadrano mezzi agricoli di tutto
rispetto come un Caterpillar modello Twenty Two, una mietitrice trainata da
un cingolato e l’immancabile trebbiatrice Orsi. Non mancano i momenti di
svago: foto di gruppo sui monti del Gebel, in riva al mare a Tolmetta, sui prati
immensi della piana di Barce. Una posa frequente nelle fotografie dei coloni,
li ritrae tra le altissime e pesanti spighe del grano maturo, a documentarne
l’eccezionale qualità e abbondanza. Un simbolo di ricchezza e prosperità, immagini per ironia della sorte molto simili a quelle coeve del realismo socialista,
della propaganda sovietica.
Anni durante i quali non si quietano le ambizioni dei Monaco e la loro
fame di nuova terra, che ottengono sia in concessione dal governo, sia acquistandola dagli arabi. Una scrittura privata del 20 febbraio 1937 documenta
che Mohammed Aga e i fratelli Rascid e Abdulaziz Ben Hussein El Turchi,
ricevono un acconto di ottocentottanta lire per un terreno da loro venduto.
Sempre nel 1937, il sette settembre, Luigi acquista da Scerif ben Salah El
Turchi, commerciante e possidente, un terreno sito nel territorio di Barce, contrada Medina, località Seil El Got, Pozzo Romano, per la cifra di diciottomila
lire. Il 22 ottobre 1938, con atto pubblico stipulato dalla Regia Prefettura
di Bengasi, Ufficio Affari Economici e Finanziari, Luigi Monaco ottiene dal
Governo della Libia la consegna provvisoria del lotto di terreno demaniale n.
5 della estensione circa di ettari 58 del nuovo piano di lottizzazione della zona
di colonizzazione di Barce, a condizione che lo stesso Luigi sottoscriva un atto
di sottomissione col quale si impegni a firmare il disciplinare di concessione.
Merita qui, a titolo di una breve divagazione, riportare le condizioni imposte dal governo ai concessionari, in quanto molto dicono, sia sulla politica
coloniale, sia riguardo i criteri agronomici predisposti dalle autorità:
a) Il lotto di terreno demaniale n. 5 della superficie circa di ettari 58 facente parte del nuovo piano di lottizzazione delle zone di colonizzazione
della piana di Barce gli viene assegnato dal Governo Generale della Libia
214
I Buddenbrook oltremare
a titolo provvisorio;
b) le opere di valorizzazione agraria che verranno eseguite nel lotto non
potranno essere ammesse ai contributi dello Stato prima dell’approvazione
del disciplinare di concessione;
c) la metà della superficie del lotto dovrà essere valorizzata con culture arboree, obbligo questo che, in sede di approvazione del piano di colonizzazione da parte del Ministero dell’Africa Italiana, potrà essere ridotto al 25%;
d) sul lotto dovranno essere eseguite culture erbacee avvicendate;
e) nel lotto dovrà essere immessa una famiglia colonica italiana;
f ) dovrà essere osservata ogni altra prescrizione in materia dei sesti e delle
culture.
L’intraprendenza di Luigi Monaco non si ferma qui. Un’altra scrittura
privata, il mese successivo, indica che:
In data 12 novembre 1938, alla presenza dei testi Kalifa ben Otmen Buragà della cabila Iorsh ailet Busciahma, nella qualità di tutore e procuratore
sciaraitico del minore Mohamed ben Mohamed El Mehascihasc, [...] e di
Muftah ben Abdulhamid El Mehascihasc negli interessi propri e della
madre Zainab ben Hiteita di cui la Procura del Tribunale Sciaraitico di
Bengasi in data 29 gennaio 1931, i quali dichiarano di voler cedere al
signor Monaco Luigi di Giuseppe il terreno seminativo situato ad Ovest
e Nord di Sidi Gibrin per la durata di sei anni a decorrere dalla suindicata
data per il canone complessivo di Lire Cinquemila pagati anticipatamente,
che i locatari dichiarano aver ricevuto [...].
Firmano per esteso Muftah ben Abdulhamid e Luigi Monaco, gli altri siglano con l’impronta digitale. Sei anni a decorrere dal novembre 1938, il canone saldato in anticipo. Un pessimo affare, come vedremo. Anche perché l’investimento non si esaurisce con l’acquisizione o locazione dei terreni: occorre
un ulteriore impiego di risorse per l’indispensabile bonifica e per l’avviamento
della produzione.
Siamo dunque alla fine del 1938 e la parabola dei Monaco è al suo culmine, con la gioia della nascita, nel settembre di quell’anno, della piccola Marisa,
figlia di Luigi e Giuseppina.
È un momento storico estremamente infelice, con la recrudescenza del fascismo, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali. E forse, la distanza
215
Nicolò Tambone
che li divide dall’Europa, dà ai coloni l’illusione di trovarsi al riparo dagli
oscuri eventi che si stanno preparando. Ricordava un anziano ex-collaboratore
dei Monaco, durante una conversazione di molti anni fa, che questi erano
piuttosto tiepidi nei confronti del regime fascista, affermando che né Luigi,
né Carlo avevano la tessera del partito. Testimonianza sulla quale – almeno
per quanto riguarda Luigi – è lecito esprimere qualche riserva, se si tiene conto dell’«atto di sottomissione» menzionato nel documento dell’Ufficio Affari
Economici e Finanziari. Atto di sottomissione che deduciamo non limitato al
disciplinare di concessione, ma che doveva estendersi per forza di cose al regime,
ed essere dimostrabile previa esibizione della tessera all’atto della domanda.
Ma abbandoniamo le congetture e torniamo ai fatti, che all’esordire del
1939, volgono irreversibili in tragedia, preconizzano il dramma terribile che
sta per abbattersi sull’Europa e sul mondo, travolgerà senza risparmio le province d’Oltremare.
Il dramma dei Monaco ha inizio con una banale febbre, i cui brividi costringono a letto l’infaticabile Luigi, appena rientrato da un viaggio di lavoro
a Bengasi. Sulle prime sembra un malanno da poco, ma la tosse implacabile
e il catarro rugginoso che ne deriva, impongono l’urgente consultazione del
medico. La diagnosi è di broncopolmonite.
Sono gli anni in cui Fleming sperimenta la penicillina, sulla quale il mondo scientifico non ha ancora espresso un verdetto unanime e che, comunque,
presenta difficoltà nella produzione su scala industriale. Nessun farmaco antibiotico è dunque disponibile. A quel tempo si può contare solo sulla blanda
azione batteriostatica dei sulfamidici, che, seppure di recente scoperta, sono
scarsamente adatti a combattere infezioni importanti.Nel volgere di pochi
giorni Luigi si aggrava e muore. Avrebbe compiuto quarantuno anni il mese
successivo. Testimone della triste vicenda, il ventenne Emilio Albesano, fratello
di Giuseppina, che ne fornisce un dettagliato resoconto epistolare.
Benina li 18/1-39-XVII
Mamma, Vittorio e Piero carissimi,
La vostra mi fece molto piacere, per le buone notizie che mi ha recato.
Mentre voi festeggiavate l’arrivo della mamma, qui a Barce perdevamo il
caro Luigi, come già saprete. Infatti il giorno dopo la partenza della mamma, verso sera, si è messo a letto con la febbre, ma il dottore non ci trovò
nulla di grave soltanto il mattino seguente disse che era colpito da broncopolmonite. Il giorno dell’ Epifania andai a Barce a trovarlo, e ci stetti
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I Buddenbrook oltremare
vicino fino che si spense, la domenica sera 8 c.m. Il povero Luigi, benché
grave mi volle sempre vicino al letto, mi raccontò minutamente del suo
viaggio a Bengasi, poi dei primi brividi di freddo ed i primi giorni della
malattia. Durante questi terribili giorni, ci fu sempre la casa piena di amici
e conoscenti, che venivano a far visita a Luigi e si prestavano di assisterlo
e vegliarlo. Per tutti i sei giorni della malattia c’è sempre stato Carlo e Felicita con noi e non ci siamo più spogliati, per poterlo curare ed assistere.
Le cure non mancarono; venne il Prof. Prosdocimo e Frinti di Bengasi,
oltre il dott. di Barce, e fu sempre assistito da un infermiere dell’ospedale.
Purtroppo a nulla valse; dopo aver giocato alle carte tutta la domenica,
tranquillo e alquanto sollevato; alla sera si spense, sereno e calmo come
era vissuto. Io che non avevo mai visto nessuno a morire, il veder lui non
mi fece né spavento né impressione, tanto fu invidiabile la sua morte. La
sepoltura poi fu un vero trionfo, tale era commovente e suggestiva. A Barce
mai avevano visto tanta gente e sì bella sepoltura. Infatti c’erano quindici
corone, offerte tutte dagli operai di Luigi, da amici e da conoscenti suoi
c’erano cinque sacerdoti, tutte le autorità civili e militari, una moltitudine
di gente grandiosa molti venuti anche da Bengasi. Ai lati delle vie poi, c’era
un’interminabile fila di arabi, (circa due o tre mila) che, al passaggio della
bara salutavano romanamente, con le lacrime agli occhi. Basti questa breve
descrizione a darvi un’idea della grande popolarità e del grande affetto che
godeva presso tutte le categorie di cittadini, dalla più alta alle più infime.
Il nostro dolore è grande altre ogni misura, non ci sono parole per esprimerlo. In quanto a Giuseppina, specialmente nei primi giorni era come
fuori di sé, ma le assidue cure da parte mia e dei veramente buoni cognati,
sono riuscite a qualcosa. Infatti ora ha soltanto uno sfogo di pianto ogni
tanto, e si cerca di distrarla, benché anche noi si abbia il cuore che sanguina. Io sono stato a Barce per dodici giorni ed ogni tanto faccio una scappata a vedere Giuseppina che si trova in casa di Felicita, la quale si prodiga in
ogni modo per farla mangiare e tenerla un po’ sollevata. La piccola Marisa
sta assai bene, e benché si allatti con latte artificiale, perché quello della
mamma non basti, per ora, è grassa e vispa come prima.
Benché la disgrazia sia grande, ed il dolore pari, occorre farsi coraggio,
pensando che il povero Luigi sta certamente meglio di prima poiché se
realmente c’è un premio al di là questo non può essere che suo, tale fu
santa la sua morte, soddisfatto dei conforti religiosi. Egli sarà certamente
col caro papà nostro, ed insieme ci proteggeranno.
217
Nicolò Tambone
Carlo Monaco
e Felicita Montaldo
218
I Buddenbrook oltremare
Luigi Monaco
e Giuseppina Albesano
Luigi Monaco, Barce 1939
219
Nicolò Tambone
La mietitrice
Mietitura, anni trenta, Cirenaica
220
I Buddenbrook oltremare
Sui prati della Cirenaica
221
Nicolò Tambone
Casa Ressia a Barce
Nei campi di grano, Cirenaica. Carlo Monaco, terzo da destra
222
I Buddenbrook oltremare
Trebbiatura notturna, Barce, anni trenta
Barce, visita di Vittorio Emanuele III
223
Nicolò Tambone
Scampagnata sul Gebel
Il monumento ai caduti sul Gebel
224
I Buddenbrook oltremare
Sul Gebel. L’uomo col cappello bianco, accanto alla donna felliniana è probabilmente
Umberto Bertaiola, podestà di Barce e presidente del consorzio agrario. Accanto, Carlo Monaco e la moglie Felicita
225
Nicolò Tambone
Stazione ferroviaria di Barce
226
I Buddenbrook oltremare
Foto di gruppo a Barce
Giuseppina Albesano e la piccola Marisa Monaco, Barce, 1940 circa
227
Nicolò Tambone
Giuseppina Albesano e bimba araba. Barce, anni trenta
228
I Buddenbrook oltremare
In Cirenaica, anni trenta
Funerali di Luigi Monaco, Barce, gennaio 1939
229
Nicolò Tambone
Pensandovi sempre bene vi saluta ed abbraccia il vostro aff.mo
Emilio
Un frate francescano scrive agli anziani genitori di Luigi, in Piemonte,
una lettera nel tentativo di consolarli. La missiva è interessante perché il frate,
nell’introduzione, si presenta fornendo alcune notizie di sé. Padre Francesco
Rovere sarà negli anni a venire un interlocutore fondamentale e, per molto
tempo, l’unica fonte di notizie dalla quarta sponda.
La lettera è dattiloscritta su carta intestata al Vicariato Apostolico della
Cirenaica di Bengasi.
Bengasi 14 gennaio 1939 XVII
Gentilissimi Signori Monaco
Con l’animo ancora oppresso ed addolorato per la perdita del mio carissimo amico Luigi, non trovo parole per presentarmi a voi, colpiti da sì
grande sciagura. Quanto era buono e benvoluto il carissimo scomparso!
La sua perdita fu un cordoglio generale ed un lutto cittadino.
Forse il vostro Luigi vi avrà parlato di me. Sono un Frate Francescano, nativo in quel di Pieve di Teco, e da otto anni missionario in Cirenaica. Sono
stato per due anni parroco a Barce, dal Dicembre 1932 al Giugno 1934, ed
ho conosciuto i vostri due figli Carlo ed il compianto Luigi. Frequentavo
e frequento tuttora molto la loro casa, anzi, due anni fa, per un periodo di
tre mesi, sono stato ospite di Carlo, e ci facemmo buona compagnia.
Ciò per giustificare questo mio povero scritto.
Grande ed incommensurabile è il vostro dolore e rimpianto, e la mia prima parola è quella della rassegnazione. La volontà di Dio ha voluto così:
voi dovete, per quanto lo comporta il vostro immenso dolore, inchinarvi
a questa volontà divina, che tutto governa, regge ed ordina secondo una
legge superiore. Il vostro dolore è condiviso da tanti buoni amici e persone
care che aveva l’amato Luigi. Questo vi sia di conforto, perché non siete
soli a piangere, ma altre anime delicate e sensibili si uniscono a voi nella
preghiera del suffragio cristiano per il defunto; ed in quella al Signore,
affinchè voglia concedere forza di resistenza ed ispirare coraggio e rassegnazione a quelli che sono rimasti nel lutto e nel pianto, e sono certo, che il
buon Luigi di lassù guiderà i passi incerti e veglierà sopra la piccola Marisa
e sulla sua inconsolabile e desolata Giuseppina.
230
I Buddenbrook oltremare
Piangete pure tutte le vostre lacrime, esse sono sante, come santi sono tutti
i genitori che allevano ed educano persone rette come Carlo e Luigi, ma
nelle vostre lacrime vi sia di conforto il pensiero, che Luigi ha fatto una
morte da santo, serena e tranquilla e si è spento senza soffrire.
Egli due giorni prima di lasciarci ha ricevuto il S.Viatico, con grande devozione ed ammirazione di tutti.
Durante la sua brevissima malattia non fu mai abbandonato un minuto. I
famigliari gli erano sempre attorno per soddisfare ogni suo desiderio, anche
minimo; i suoi amici lo hanno vegliato giorno e notte; il Parroco si recava
spesso a trovarlo ed a portarci la sua parola di conforto e di sollievo; la Suora
infermiera non lo abbandonava mai un minuto sia di giorno che di notte.
Fu fatto tutto il possibile per strapparlo al fiero morbo, che ne aveva minato la forte e robusta esistenza. Vennero anche celebri medici e professori da
Bengasi, si tenne un consulto, ma tutto fu inutile. Il Signore voleva provare
la Famiglia Monaco e l’ha provata troppo duramente …, ma Egli sapeva
che voi siete buoni, ed anche il povero Luigi era buono; e sappiamo, che i
buoni sulla terra devono soffrire più di tutti, che questo mondo non è per
quelli che sono santi, il loro posto è in Paradiso, dove, sono certo, si trova
ora il vostro amato e pianto Luigi.
Appena saputa la triste notizia, ho chiesto il permesso al mio Vescovo di recarmi a Barce, e vi giunsi il mattino dei funerali, che riuscirono un trionfo
della bontà e della gentilezza del povero Luigi. Vi partecipò la città intiera
con alla testa tutte le Autorità cittadine. Vi era il Vicecommissario prefettizio, il Podestà, il Segretario del Fascio, e poi una folla immensa di uomini,
venuti dai centri vicini ed alcuni anche da Bengasi.
I suoi dipendenti e quelli di Carlo vollero avere per se l’onore di recarlo a
spalle fino al cimitero. Vi erano le Suore con le bambine e cinque sacerdoti,
compreso il sottoscritto. Una quindicina di corone dei famigliari e degli
amici e dei dipendenti stavano ad attestare col loro omaggio floreale, l’amore da cui era circondato il povero e mai troppo pianto Luigi.
Durante tutto il percorso del corteo, le botteghe ed i negozi della città erano chiusi, e più di duemila arabi facevano ala e salutavano romanamente il
loro Signor Luigi, che tanto bene aveva operato in mezzo ad essi. In Chiesa
poi vi fu la Messa Cantata in terzo in forma solenne e molti piangevano.
Nel vostro dolore vi sia un po’ di conforto e di sollievo il sapere che Luigi
morì da santo, assistito fino all’ultimo dal Parroco, dalle Suore, dai famigliari, dagli amici: ed il suo non fu un funerale, ma un trionfo della bontà,
231
Nicolò Tambone
della gentilezza, e della cortesia del povero estinto, e la dimostrazione di
affetto fu tale, che la città di Barce non ne vide mai nessuna uguale.
Questo ho voluto farvi sapere per dimostrarvi come amavo il vostro figliuolo e come lo amarono e lo amano ancora centinaia e centinaia di nazionali
e di indigeni, che lo hanno conosciuto, e che ne hanno esperimentato la
bontà e la delicatezza d’animo e di coscienza.
Appena saputa la notizia della sua dipartita, ho subito celebrato una S. Messa
per lui, e continuerò ancora a pregare per l’anima sua benedetta, benché sia
certo che non ne abbia bisogno, tanto ha fatto una morte santa e invidiabile. Nel giorno dell’ottavario, celebrerò di nuovo una Messa per lui, perché
mi è impossibile recarmi a Barce, dove sarà celebrato un solenne funerale.
Vogliatemi scusare, se in questo momento, non trovo parole adatte ad ispirare nel vostro cuore quella rassegnazione necessaria: ma so che siete buoni
cristiani, e perciò vi invito ad elevare il vostro pensiero ed il vostro sguardo
al cielo, e lassù in seno a Dio, veder il vostro Luigi, già in possesso di quella
felicità, che è riservata ai giusti ed ai buoni come lui.
Piangete pure, ma ricordatevi di pregare il vostro Luigi, affinché vi dia
quel conforto e quella rassegnazione necessaria per portare senza lamenti e
recriminazioni questa tremenda croce, questa prova grande, che il Signore
ha voluto mandarvi: pregatelo il vostro Luigi, perché lassù dall’alto vegli
amoroso e paterno sopra la sua desolata Giuseppina e sulla piccola Marisa,
che tanto e tanto bisogno avevano ancora di lui; che dia ad esse la forza
necessaria per sopportare questa tremenda sciagura, e conceda ancora ad
esse quella rassegnazione cristiana, che ci rende meno pesanti e tristi i lutti
ed i pianti di questa valle di lacrime.
Vi resta ancora Carlo; cercate di profondere in lui quella parte di affetto
che vi univa al povero Luigi, e sono certo, che sarete pronti ad esaudire
qualsiasi desiderio che vi mostrerà: egli è tanto buono e prudente, che
merita tutta la vostra fiducia e benevolenza.
Vogliate nuovamente gradire le mie più sincere e sentite espressioni di condoglianza, unitamente alla assicurazione delle mie continue preghiere per
l’indimenticabile Luigi.
Dev.mo nel Signore
P. Francesco Rovere
È probabile che la lettera di Padre Francesco, così come quella di Emilio
Albesano, nel tentativo di consolare, si spinga un po’ oltre il vero e conten232
I Buddenbrook oltremare
ga qualche esagerazione riguardo la partecipazione alle esequie. Specialmente
convince poco la grande commozione degli arabi che, come possiamo vedere
nelle foto, restano al margine del corteo funebre, radunati in capannelli a
ridosso dei muri, come spettatori sfiorati appena da un evento che riguarda i
«Taliani». E a guardare bene, dopo aver ingrandito l’immagine molte volte,
nessuno è colto con il braccio teso.
A proposito di saluti romani, è degno di nota un episodio piuttosto oscuro,
sul quale ormai è impossibile far luce, essendo scomparsi i testimoni diretti e
nessun documento ne riporta traccia. Al punto che è impossibile persino stabilirne la collocazione cronologica. Tuttavia si tratta di un fatto avvenuto senza
dubbio, e che ha segnato nel morale la famiglia Monaco almeno quanto la
prematura scomparsa di Luigi. A un dato momento, Carlo Monaco viene arrestato e incarcerato per motivi politici, molto probabilmente per una delazione
seguita a qualche esternazione imprudente riguardo Mussolini o l’operato del
governo. Un avvenimento che ricorda a distanza di molti anni la figlia Maria,
all’epoca bambina, e confermato da altri famigliari.
Anche se ha solo ventiquattro anni, Giuseppina Albesano dimostra il carattere e l’energia necessari ad occuparsi da sola dell’azienda del marito. Per qualche tempo la vita segue il solco degli anni precedenti, finché l’entrata in guerra
dell’Italia non porta nuove ansie. Ansie che crescono, in Libia, dopo la morte,
il 28 giugno 1940, del governatore Italo Balbo, vittima di un clamoroso errore,
il friend fire della contraerea italiana nella baia di Tobruk.
Successore di Balbo è il generale Graziani, il quale assume il comando
dell’armata italiana e riceve da Mussolini il mandato di attaccare gli inglesi
e avanzare in Egitto. La situazione tecnico-logistica dell’esercito è disastrosa.
Per sopperire alle carenze di mezzi, il generale Graziani impone requisizioni
di veicoli e macchine alle imprese insediate in Cirenaica. Vengono smontati
gli acquedotti messi in opera da poco tempo; requisiti i preziosi Caterpillar.
In sostanza viene disfatto il lavoro di anni proprio nel momento in cui se ne
iniziavano a intravedere i frutti.
Poche lettere rimangono di quel periodo; compaiono i timbri della censura. Le
comunicazioni si diradano mentre le cose volgono al peggio. Graziani non è riuscito
ad avanzare che pochi chilometri oltre il confine. Nel gennaio del 1941 le truppe
britanniche, guidate dal generale Wavell, sferrano una controffensiva memorabile che porterà alla rapida e completa distruzione dell’intera armata italiana.
Sebbene gli eventi precipitano così rapidamente da non lasciare il tempo di
predisporre l’evacuazione dei civili, Giuseppina Albesano e Felicita Montaldo,
233
Nicolò Tambone
con le rispettive figlie, riescono a mettersi in salvo a Tripoli e, da qui, tornare in
Italia. Carlo Monaco, invece, rifiuta di abbandonare l’azienda, che rappresenta la sua vita, tutto quanto aveva costruito durante anni di impegno e lavoro.
Il 5 febbraio 1941, la 6ª divisione australiana entra in Barce. Negli stessi
giorni viene occupata Bengasi. Per ironia della sorte, gli australiani, vale a dire
il boomerang dell’aggressione proditoria voluta da Mussolini. Come truppe di
occupazione infieriscono con inaudita violenza, saccheggiano, distruggono e
violentano. È la rivalsa per i mesi trascorsi nel deserto. Le abitazioni di Luigi e
Carlo vengono saccheggiate, gli infissi asportati per ricavarne legna da ardere.
Le macchine superstiti, risparmiate dalle requisizioni di Graziani, vengono
requisite o danneggiate dagli inglesi.
Le armate britanniche, sottoposte a loro volta all’usura della guerra nel
deserto, non sono in condizione di mantenere a lungo le posizioni conquistate.
Nell’aprile del 1941 ripiegano di fronte all’avanzata di Rommel, ma, prima
di ritirarsi, distruggono tutto quanto fanno in tempo a distruggere. Rommel
entra a Bengasi, accolto dalla folla in festa e acclamato come liberatore. Scene
che si ripeteranno identiche qualche anno dopo, con gli americani vincitori in
Italia: applausi; donne che offrono fiori e fiaschi di vino.
Anche questa sarà un’illusione destinata a durare poco. L’impatto con la
guerra ha gravemente compromesso le infrastrutture e le attività produttive
della Cirenaica. I danni non verranno più riparati: il rapido altalenarsi degli eventi bellici non ne darà il tempo. Seguirà a breve una nuova invasione
britannica, poi ancora una controffensiva tedesca e, infine, dopo la decisiva
battaglia di El-Alamein, il ripiegamento definitivo dell’Asse e la fine, di fatto,
della colonizzazione italiana in Libia.
Nel settembre 1941, l’insostenibilità della situazione appare già chiara a
Carlo Monaco, che scrive alla sorella in Italia, fornendo indicazioni per l’acquisto di terreni nel paese nativo, «perché io non rimarrò fisso in colonia e così
rimango a casa e ho un’occupazione a casa nostra [...]». Si tenta, per quanto
possibile, di portare avanti le attività agricole, ma senza esito positivo.
Rendono conto della situazione drammatica due lettere, indirizzate da un
tale Giuseppe Riccò a Giuseppina Albesano, datate rispettivamente 11 ottobre
1942 e 20 novembre 1942, quindi a ridosso dell’ultima battaglia di El-Alamein.
Barce li 11/10/42 XX
Gent. Ma Signora Albesano
Ho ricevuto la vostra lettera, ed ora mi sto interessando riguardo alla semi234
I Buddenbrook oltremare
na nella speranza di potere fare qualche cosa.
In quanto al signor Bonati non è ancora deciso a darmi una sicurezza definitiva se ce lo lascerà seminare. Comunque avrei piacere che ci scriveste
anche voi per vedere se si convince e si decide – e per il lavoro credo anch’io
che con una buona erpicatura sia sufficiente. Per quello di […] vuole che ci
si faccia 15 ettari di aratura come era stato stabilito l’anno scorso. – questo
veramente è un po’ un problema perché il vostro Internazionale [trattore
n.d.A.] è impossibile ora ripararlo e tanto più del Fabbro insiste con i suoi
pezzi, anzi li ho già smontati. L’unico che potrei sperare di poterceli arare
sarebbe con il trattore di Furio che anzi ce ne ho già parlato anche per il
terreno del canali (questo ci tenete a seminarlo? Però mi dovete dare una
risposta telegrafica per guadagnare tempo se volete seminarlo).
In quanto all’azienda qui a Barce non c’è proprio nulla da fare perché ora
è tutta recintata e occupata dall’aviazione e soltanto per entrare ci vuole
tanto di permesso.
In quanto a me non vi do nessuna sicurezza matematica di trattenermi
qui per molto tempo però la semina la finirò senz’altro di questo ho già
avvertito anche vostro cognato [Carlo Monaco n.d.A.] perché a essere sincero comincio averne abbastanza della colonia e poi purtroppo ci ho a casa
l’inconveniente che vi dissi nella mia precedente.
Ad ogni modo se questo proprio dovesse essere prima di partire vi sistemo
tutte le cose in vostro riguardo.
Vogliate perdonare dalla fretta il mio mal scritto e nel contempo gradire i
miei più distinti saluti.
Con tanti bacioni a Marisa
Dev.mo Riccò
La missiva porta i timbri della censura, alla quale stranamente sfugge la
frase «comincio [ad] averne abbastanza della colonia», che da sola vale più di
un trattato.
L’illusione di procedere comunque con i lavori agricoli, si scontra dunque
con la dura realtà alla quale ancora si stenta a credere. Non sappiamo se,
quell’autunno del 1942, Giuseppe Riccò sia riuscito a portare a termine la
semina. Di certo, l’estate successiva, il frumento non l’avrebbe mietuto, né il
Riccò, né nessun altro italiano.
Un dattiloscritto su carta intestata dell’intendenza della V Squadra Aerea,
datato 19 novembre 1942, in risposta a una richiesta di chiarimenti sull’oc235
Nicolò Tambone
cupazione degli immobili, conferma che gli immobili e un grosso appezzamento della ditta Monaco sono stati occupati per l’ampliamento dell’aeroporto
di Barce. La seconda lettera di Giuseppe Riccò è scritta a Tripoli, il disastro è
ormai compiuto.
Gent.ma Signora Albesano,
Purtroppo in questi giorni ho dovuto lasciare Barce, la vostra roba l’avevo
lasciata da vostro cognato [Carlo Monaco n.d.A.], ma poi è venuto l’ordine dello sgombro totale di tutti i nazionali e così pure vostro cognato è dovuto venire via, e ora mi hanno detto che si trova a […] perciò fra qualche
giorno sarà a Tripoli anche lui e così saprò come ha fatto, e chi ha messo a
casa sua, ma purtroppo sarà rimasto tutto in mano a qualche arabo.
Negli ultimi giorni che ero a Barce sono riuscito ad affittare il terreno di
Sidi Gibrin per lire 6000. Forse potevo prendere anche di più ma c’era il
fatto che ci stavano facendo la ferrovia che passa proprio in mezzo al terreno e così molto terreno non si poteva seminare.
Ieri qui da Tripoli vi ho fatto una rimessa telegrafica alla Banca d’Italia di
Cuneo di lire 10000 diecimila per il rimanente per ora ho creduto opportuno tenerlo sospeso perché spero di venire in Italia se mi riesce, e così
potremo regolare i conti con più facilità, oppure se voi avete piacere di
regolare tutto ora ditemi quallo che mi devo tenere di compenso mio.
Per ora nullaltro, soltanto qui a Tripoli con un po’ di malinconia ma sempre nella speranza che tutto vada bene.
Molti distinti saluti
e bacioni a Marisa
Dev.mo
Giuseppe Riccò.
La malinconia di Giuseppe Riccò evacuato a Tripoli, è l’ultimo segnale di
vita che perviene dalla Libia da questo punto in poi. Si apre un lungo vuoto di
documentazione e, sulle vicende di Carlo Monaco fino al suo rientro in Italia,
nel 1946, nulla sappiamo, tranne il nudo fatto del suo internamento in un
campo di prigionia britannico.
Quando ritorna in patria è prostrato psicologicamente dalle vicissitudini
e dagli anni di lavoro andati in fumo, forse malato. Come molti altri reduci,
non riesce a ricostruire la propria identità, a recuperare il suo ruolo nel contesto
sociale. Muore per un arresto cardiaco nel 1947, a cinquantadue anni.
In quell’epoca pochi italiani vivono a Tripoli, pochissimi in Cirenaica. Tra
236
I Buddenbrook oltremare
questi, i frati francescani e, tra loro, padre Francesco, il quale traccia in poche
righe la situazione della Barce post-bellica.
Bengasi 28 Ottobre 1947
Gent.ma Signora
Mi sono recato una seconda volta a Barce. Ho visitato la sua casa, che si
trova in mano di un arabo, di cui non mi ricordo il nome. La casa è in
buono stato. Mancano finestre e porte, ma l’arabo che la abita è riuscito
a racimolarne qualcuna ed ora si presenta alla meno peggio. Il terreno
intorno alla casa non è seminato, ma l’arabo spera di seminarne alquanto.
Sono andato a fare una visita al povero Luigi: la tomba è ben conservata
e pulita, ed ho raccomandato al custode arabo di mantenerla bene, promettendogli qualche piastra. La casa della Sig.a Felicita è pure abitata e in
buono stato, così pure quella della Sig.ra Ressia. Le fattorie ben coltivate
e mantenute sono quelle di Sleaia, Sidi Rahuma, Cerasola, Cremonini e
Luciani; le altre lasciano molto a desiderare.
Barce è quasi intatta, invece Bengasi è quasi distrutta totalmente e non si
fa nessuna riparazione. Si prevede che quest’anno sarà una buona annata,
perché ha già cominciato a piovere. Si è molto arato verso Maddalena, ma
verso Tolmetta poco o nulla.
Io per ora sono al solito posto in Bengasi. La salute è ottima. Sto studiando
l’arabo e l’inglese. Lei come sta? E la piccola Marisa? Il vecchio Monaco?
Sua Mamma, fratelli e cognate? I suoi mezzadri?
Mi saluterà tanto tanto tutti, che ricordo sempre con piacere, e non si dimentichi
il buon Don Ciocca e Sorella, la sig.a Sindachessa e famiglia di Monesiglio …..
Cordiali saluti e rispettosi ossequi
dev.mo nel Signore
P. Francesco Rovere o.f.m.
P. Francesco Rovere-Cattedrale- Bengasi- Cirenaica.
L’avventura coloniale italiana è definitivamente conclusa. E tuttavia, con
ostinata dedizione, le vedove di Carlo e Luigi, e il patriarca Giuseppe, decrepito e incredulo, tentano il possibile per liquidare quanto, teoricamente, risulta
ancora di loro proprietà. Si scontrano con l’intransigenza della BMA, British
Military Administration, l’ente del protettorato britannico che ora amministra
i beni coloniali dell’avversario sconfitto.
È una lettera interessante per l’insolita durezza con la quale si esprime il
237
Nicolò Tambone
Barce nel 2009
238
I Buddenbrook oltremare
frate, forse esasperato dall’insistenza dei suoi corrispondenti, i quali faticano ad
accettare la realtà dei fatti.
15 febbraio 1950
Egregio sig. Monaco,
Ho ricevuto lettere delle sue due nuore, in cui mi chiedevano informazioni
sulle loro proprietà qui in Barce, e mi permetto di sottoporre alla sua considerazione, le sue risposte: così avrà un quadro preciso della consistenza
dei beni dei due suoi figlioli in Barce.
1° richiesto sul valore attuale dei beni e delle proprietà: mi rispose che
attualmente non hanno nessun valore; e non vi è speranza che ne abbiano
in avvenire; perché non vi è nessun europeo e neppure vi è speranza che
ne vengano. Inoltre trasferendosi i beni nemici dal governo inglese a quello cirenaico, tutte le concessioni verranno incamerate dal nuovo governo,
senza rifondere i danni.
2° in particolare: le proprietà intestate a Lei Monaco Giuseppe, sono ora
requisite dal governo inglese e non paga nessun affitto.
Quelle intestate a Monaco Carlo, sono state già tutte prese e consegnate alla
Cabila Salatna, che le ha adibite a pascolo. Tutta la zona a sinistra della strada che va da Barce a Maddalena è stata consegnata fin dal gennaio 1944 alla
suddetta Cabila, e tutte le concessioni di suo figlio Carlo, che si trovavano
appunto in quella zona, sono andate necessariamente perdute per sempre.
Quelle intestate a Monaco Marisa: la casa è affittata a un arabo che paga
l’affitto, ma delle terre non si può prendere niente.
Questa è la situazione generale e miserevole, dopo tanti soldi, sacrifici e spese fatte dai suoi poveri due figliuoli qui in Cirenaica. Le cose forse sarebbero
diverse se essi avessero sistemato le loro concessioni ad albereti fruttiferi e
vigneti, così come fecero Cerasola, Cremonini, Luciani, Aprile, ecc; le quali concessioni sono ora ricercate dai ricchi Senussi, che vogliono renderle
simili alle grandi tenute che hanno i ricchi in Egitto. Credo che la concessione di Cerasola, sia stata già comprata da uno della famiglia dei Senussi.
Sono certo che questa lettera le recherà non poco dispiacere; ma voglia scusare la mia sincerità. A ciò sono stato spinto anche dal suo intimo desiderio
di conoscere appieno la verità sui beni già posseduti dai due suoi scomparsi
figliuoli. Su questi beni cirenaici, le sue Nuore non possono fare più nessun assegnamento di ricavarne soldi. Consegnando il governo inglese tutto
alla Senussia, questa incamererà ogni cosa e chi ne ha avuto, ne ha avuto.
239
Nicolò Tambone
Questa è l’amara e triste verità che noi qui vediamo ogni giorno, cui fa
riscontro l’illusione di tanti italiani che sperano ancora... ma sarà presto un
tragico risveglio per essi.
Rinnovandole nuovamente le mie scuse, voglia avere la bontà di salutarmi
tanto sua nuora Giuseppina, la piccola Marisa, il Parroco e le famiglie
Albesano e Ressia. Augurandole una buona salute, spero nell’estate di un
altr’anno di passarmi alcuni giorni in sua compagnia.
Suo dev.mo nel Signore
P. Francesco Rovere
Chi ne ha avuto, ne ha avuto. E questa, stilata dal frate, rimane la sintesi
più efficace sulla fine del colonialismo in Libia.
Nel viaggio dell’aprile 2009 ritrovo i luoghi, rimasti quasi identici a settant’anni prima perché, in seguito a un terremoto, nel 1963, la città di El
Merg è stata ricostruita a qualche chilometro dall’insediamento italiano. Qui
restano le rovine degli edifici coloniali, sospesi nel tempo, come rappresi nell’epoca che li aveva prodotti, uno scenario di abbandono post-atomico. Fantasmi
di architetture razionaliste e l’insegna superstite «Albergo Moderno» a svettare
ironica in cima a un fabbricato fatiscente dalle finestre murate.
Del vecchio cimitero italiano non rimane quasi nulla. Luigi Monaco riposa qui, in una tomba ormai senza nome.
Quel che resta dell’Albergo Moderno a Barce
240
Il tesoro archeologico della Libia
di Francesca Gandolfo
Il cosiddetto tesoro archeologico della Libia ruota attorno a un fitto
carteggio intercorso tra la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’Africa Italiana, il Ministero della Guerra, il Ministero della
Pubblica Istruzione, il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero del Tesoro
e il Quartier Generale della Commissione Alleata – sezione Archeologia –,
risalente agli anni compresi tra il 1944 e il 1955. Ministri, alti funzionari
dello Stato, comandanti militari, diplomatici, semplici impiegati e studiosi
si scambiarono lettere ufficiali e riservate sulla condotta da seguire in merito a una questione molto scottante: i materiali archeologici da restituire
alla Libia.
Il carteggio è custodito nei fondi dell’Archivio Storico del MAE: in uno
in particolare, denominato Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa
Italiana, dentro al pacco n. 20, 1944-55. In esso si trova una cartellina
di colore beige, un po’ malmessa, scurita dalla polvere, dal tempo e dalle
numerose traversie subite a causa dei terribili eventi legati all’ultima guerra
mondiale. È uguale a migliaia di altre edite ancor oggi dal Poligrafico dello
Stato per i vari ministeri italiani, ha come intestazione Ministero dell’Africa Italiana e reca una data, apposta a penna sul lato destro, 1955. Al centro,
ben in evidenza e in grassetto, è riportata la parola Oggetto e subito sotto
vi è incollata una targhetta bianca con su stampigliato: Ministero dell’Africa
Italiana. Ufficio Studi. Ricognizione del Tesoro Archeologico della Libia.
Il 31 dicembre 1945 venne stilato a Roma, nella sede del Ministero
dell’Africa Italiana, un documento ad opera della Commissione incaricata
di procedere alla ricognizione delle cassette contenenti il tesoro archeologico della Libia. Si trattava più precisamente della Relazione sulla ricognizione
del Tesoro della Libia contenuto in due cassette recuperate al Nord1. La guerra
era finita il 25 aprile e, appena tre mesi dopo, un Decreto Ministeriale del
20 luglio 19452 del Ministero dell’Africa Italiana, firmato da Ferruccio
241
Francesca Gandolfo
Parri3, istituiva la commissione che se ne sarebbe occupata.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri
Primo Ministro segretario di Stato
Ministro ad interim per l’Africa Italiana
Ritenuto che dopo gli avvenimenti politico militari dell’8 settembre 1943, venne trasferito al nord un imprecisato quantitativo di monete antiche di pertinenza del Governo generale della Libia, temporaneamente depositato presso il Museo dell’Africa
Italiana;
Ritenuto che tale materiale è stato recuperato e trasportato nuovamente a Roma;
Ritenuta la necessità di procedere alla ricognizione del materiale in questione;
Considerata l’opportunità di affidare tale compito ad una speciale Commissione;
Visto il Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827;
Visto l’art. 63 del R.D. 8 maggio 1924 n. 843;
Visto l’art. 1 del D.L.L. 5 aprile 1945 n. 167;
DECRETA
Art. 1. – Per la ricognizione del materiale indicato nelle premesse del presente provvedimento è nominata una speciale Commissione composta come segue:
MORENO PROF. DOTT. MARTINO MARIO, segretario generale di governo di
II classe, presidente;
VITALE DOTT. MASSIMO ADOLFO, direttore di governo di II classe, membro;
SCAGLIONE DOTT. FRANCESCO ATTILIO, consigliere di governo di I classe,
membro;
GUILLET SIG. AMEDEO, membro;
Il dott. Scaglione Francesco Attilio ha le funzioni di segretario.
Art. 2. – Ai suddetti non compete alcun emolumento, dovendo il loro lavoro essere
svolto nelle normali ore d’ufficio.
Il conflitto si era concluso ma non i problemi di una nazione che doveva fare i conti con una sconfitta subita, a seguito di una guerra provocata,
e con la ricostruzione. Tra i problemi politici più incalzanti, seguiti alle
devastazioni belliche, vi era quello della restituzione alle ex colonie degli
oggetti archeologici, etnografici e paleontologici pervenuti in Italia come
bottino di guerra.
L’inizio delle ricerche
Come si era giunti e perché alla relazione finale della Commissione
che indagava sul tesoro archeologico della Libia? Sei mesi prima del 31
242
Il tesoro archeologico della Libia
dicembre, una succinta comunicazione ufficiale in inglese era arrivata dal
Quartier Generale della Commissione Alleata a S.E. il Ministro dell’Africa
Italiana, l’oggetto era per l’appunto il materiale archeologico della Tripolitania. La data sul documento risulta parzialmente illeggibile, il giorno
infatti è coperto da una macchia scura e si legge soltanto il mese «June»
e l’anno «1945». La data del 15 giugno 1945 e il numero di protocollo,
4547, si leggono invece distintamente sul timbro apposto dal Gabinetto
del Ministero dell’Africa Italiana al quale era destinata. Nell’originale in
lingua inglese compare su di un lato la stampigliatura Ufficio Studi, seguita
da un numero di protocollo 800750, senza alcuna data4.
Dalla lettura del testo si apprende dell’apertura e dell’ispezione di sei
casse contenenti materiale archeologico ed etnografico, al cospetto dei rappresentanti del Ministero della Pubblica Istruzione e della Sottocommissione ai Monumenti e alle Belle Arti della Commissione Alleata. Due,
in particolare, includevano materiale «in prestito» (on loan) proveniente
dalla Tripolitania. Erano le due casse del tesoro libico, per le quali verrà
nominato, di lì a poco, un apposito comitato col compito di verificarne il
contenuto. Nella lettera la Commissione Alleata chiedeva inoltre l’invio di
due copie dell’inventario degli oggetti rinvenuti per informarne, attraverso
l’Amministrazione Militare Britannica della Tripolitania, il Soprintendente alle Antichità e il Direttore del Museo Libico di Storia Naturale che
avevano richiesto informazioni su questo materiale. La lettera è firmata per
il Commissario Capo, un certo G.R. UpJhon, Brig, da G. B. Benhan Cart.
1. Six boxes containing archaeological and ethnographical material, which had been
hidden for safekeeping, were recently opened and inspected in the presence of representatives of the Ministry of Public Instruction and of the Monuments and Fine Arts
Subcommission of the Allied Commission. Two of the six boxes contained material on
loan from TRIPOLITANIA.
2.It would be appreciated if two copies of the inventory, as checked, could be forwarded to the Allied Commission, One of these will be forwarded to the British Military Administration of Tripolitania for the information of the Soprintendente alle
Antichità and of the Director of the Museo Libico di Storia Naturale, both of whom
have made enquiries about this material5.
Nella traduzione italiana6, la locuzione «in prestito» (on loan), riferita
alle due casse del tesoro scompare. Oltre a questa misteriosa omissione,
ciò che s’impone con evidenza sono tre annotazioni: una a matita «Tesoro
243
Francesca Gandolfo
Libico» e, subito sotto, in colore rosso: «Presi accordi verbalmente con
l’Ufficio Alleato. Atti», siglato M. L’altra è scritta con penna stilografica
nera e una grafia incerta: «N.B. Il Direttore del Museo [Coloniale, n.d.A.]
mi ha comunicato di avere dato copia dell’inventario direttamente all’interessato», la firma è apposta per esteso: Mininni7. Infine vi è una terza nota,
in alto al centro, «Atti», sottolineata in rosso, e, come la precedente, siglata
M. A quanto pare si tratta di una traduzione alquanto sofferta.
Nel frattempo il Quartier Generale della Commissione Alleata aveva
inviato al Ministro dell’Africa Italiana un’altra lettera che riguardava questa
volta materiale archeologico proveniente dalla Cirenaica e da Tripoli. La
data di questo secondo dispaccio è dubbia, potrebbe infatti trattarsi del 10
oppure del 1° giugno 19458. Entrambe le lettere hanno il mese e l’anno
scritti a macchina e sono chiaramente leggibili. L’indicazione del giorno,
però, è stata scritta a mano e risulta o illeggibile - come nella prima delle
due missive, dove una chiazza presumibilmente di inchiostro compare proprio sul giorno e lo rende indecifrabile - oppure di dubbia interpretazione,
come nel secondo documento, dove lo zero, essendo scritto con un carattere molto più piccolo del normale, potrebbe in realtà essere il simbolo grafico dell’ordinale, al punto che il dubbio se si tratti del 10 o del 1° giugno
1945 permane anche dopo un attento esame.
Comparando i numeri di protocollo9 apposti su entrambe le lettere
dall’Ufficio Studi, si desume che quest’ultima sia stata scritta successivamente e, cosa più importante, nella prospettiva della ricostruzione di
quanto è accaduto ai preziosi reperti archeologici, sia la lettera destinata a
rompere ufficialmente il silenzio sulle due famose casse contenenti il tesoro
archeologico della Libia. Non costituisce di per sé l’inizio di una consapevole ricerca di verità storica ed è solo in parte ispirata al principio del rispetto delle eredità culturali di ciascun paese, tuttavia sottolinea l’esigenza
di un ordine politico post bellico, che è garanzia minima di giustizia nei
confronti di chi ha patito invasioni e persecuzioni. Se da un lato essa rende
manifesta la brutalità della guerra nei confronti dei vinti, dall’altro mostra
la cruda e salda evidenza dei documenti.
1. In december 1942 two crates, containing important archaeological material from
CIRENAICA and TRIPOLI and destinated for the Mostra d’Oltremare, were sent to
ROME and stored in the Museo Coloniale. In may 1944 they were taken to the North
by Comm. Achille RAGNI, who was attached to the Republican Fascist Governement
and was then living in CREMONA (see attached report by Comm. Micacchi).
244
Il tesoro archeologico della Libia
2. Would you please advise this Headquarters of any further information you may
posses regarding this matter10.
Vi si legge che le due casse erano destinate alla Mostra d’Oltremare di
Napoli e che poi furono spedite a Roma e custodite nel Museo Coloniale
che, dopo varie peripezie, era stato trasferito a via Ulisse Aldrovandi, 16
A, in un palazzo del Governatorato al Giardino Zoologico11. È singolare,
o forse non lo è affatto, che, dopo la proclamazione dell’Impero nel 1936,
il museo cambiò nome e assunse quello di Museo dell’Africa Italiana12, ma
nel carteggio riguardante il tesoro della Libia continuerà a essere chiamato
col vecchio nome. A creare confusione in una situazione già di per sé complicata c’è dunque il riferimento alla Mostra d’Oltremare. Dai documenti
in nostro possesso, l’arrivo in Italia dei preziosi da Tripoli non risulta essere
antecedente al 6 gennaio 1943. Non si capisce quindi il nesso con la Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli, la cui prima esposizione
si ebbe nel 1937 e l’ultima nel maggio del 1940, chiusa in fretta e furia a
seguito dello scoppio della guerra. Inoltre, nei documenti italiani di quel
periodo, si fa distinzione tra ciò che viene chiamato il Tesoro archeologico
della Libia, racchiuso nelle due casse che giunsero con una nave-ospedale
da Tripoli a Napoli e infine alla stazione Termini di Roma13, e quello che
viene definito «Materiale archeologico, bibliografico, etnografico e paleontologico proveniente dai Musei della Libia», quest’ultimo effettivamente
esposto alla Mostra d’Oltremare14.
Alcuni oggetti di pregio come monili, monete e argenterie vennero
esposti alla Triennale e poi trasportati a Roma da Guglielmo Narducci,
delegato del Governo della Libia per la mostra Triennale delle Terre d’Oltremare. Questo è quanto riferisce, in una lettera del 16 novembre 1944,
l’allora direttore del Museo Coloniale Umberto Giglio, al Capo dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana, in risposta a quanto richiesto
dal maggiore John Bryan Ward-Perkins, della Sottocommissione ai Monumenti e Belle Arti15. Il maggiore Perkins era un archeologo che prestava
a
servizio in un’unità d’artiglieria dell’8 Armata insieme a un altro archeologo, il tenente colonnello Mortimer Wheeler.
Da una loro iniziativa prende avvio l’adozione di misure per la protezione delle
antichità della Tripolitania, incluso l’impiego del personale della Soprintendenza. La
struttura italiana, sotto la direzione provvisoria di Pesce, viene posta alle dipendenze
di un archeologo inglese, ufficiale addetto alle antichità in seno alla British Military
245
Francesca Gandolfo
Administration […]. Il primo a ricoprire l’incarico di archeologo supervisore è proprio
Ward-Perkins (gennaio 1943-agosto 1944), nominato acting adviser in Archaeology
con il beneplacito di Wheeler16.
L’arrivo del tesoro alla stazione Termini di Roma
Un altro elemento che non quadra nel confronto con i dati, riguarda
l’arrivo del materiale al Museo Coloniale. Stando a quanto si legge nel
comunicato della Commissione Alleata, le due casse, dopo essere transitate
dalla stazione Termini, furono direttamente trasferite al Museo Coloniale.
In realtà al museo vi giunsero soltanto dopo l’8 settembre del 1943. Infatti,
il 6 gennaio 1943 il tesoro arrivò alla Stazione Termini, al posto di polizia
dell’Africa Italiana. Il giorno successivo, il 7 gennaio, una «[…] apposita
Commissione incaricata dal Ministero dell’Africa Italiana>>, guidata dal
prof. Rodolfo Micacchi, capo Dell’ispettorato per le Scuole e l’Archeologia
del Ministero dell’Africa Italiana, lo prese in consegna e redasse un verbale,
numero di protocollo 3600663. Poi consegnò il tutto all’economato del
M. A. I. che lo assegnò alla Direzione Generale del Personale la quale, a sua
volta, lo destinò all’Ufficio Affari Generali, a capo del quale era il comm.
Achille Ragni che già aveva in affidamento altri oggetti di valore del ministero. Tutto questo lo troviamo scritto nel Report by prof. Micacchi, Head
of the Inspectorate for Schools and Antiquities in Italian Africa, on two
crates of material sent for safe-custody from Libya, allegato alla lettera del
Quartier Generale della Commissione Alleata del 10 Giugno 1945.
In questa lettera17, che il Quartier Generale della Commissione Alleata
aveva inviato al ministro dell’Africa Italiana, leggiamo che Ragni, dopo
aver aderito al governo repubblicano fascista, portò, nel maggio del 1944,
il tesoro archeologico al Nord. E fin qui le dichiarazioni combaciano. Nella
stessa lettera, però, si asseriva che, non appena giunto a Roma da Tripoli,
il tesoro era stato trasportato al Museo Coloniale e lì custodito. Invece
sappiamo che le cose non andarono in questo modo proprio dall’attached
report by Comm. Micacchi18 che accompagnava il dispaccio del comando
alleato. Benché bastasse leggere quanto era a portata di pagina, in quanto
scritto nel rapporto che gli stessi Alleati avevano accluso, la notizia tuttavia
si perse nel nulla, destinata a essere soffocata dal ritmo incessante degli
eventi, dalla baraonda e dallo smarrimento seguiti alla fine del conflitto,
ma forse, più banalmente, anche da una scarsa padronanza della lingua
246
Il tesoro archeologico della Libia
italiana. In ogni caso, le cassette giunsero al Museo Coloniale in un giorno
imprecisato della fine del 1943 e vi rimasero fino al maggio 1944:
[ … ] in custodia all’Ufficio Mostre ed Esposizioni [ … ], che in effetti le custodì con
ogni cura, ed in secondo tempo, per preservarle da eventuali prelevamenti da parte
delle autorità tedesche, provvide a murarle nei locali del Museo stesso, insieme ad altro
materiale prezioso19.
Il loro prelievo dal museo costò ad Achille Ragni un’accusa per appropriazione indebita rivoltagli dal capo dell’Ispettorato per le Scuole e
l’Archeologia del suo stesso ministero. Era evidente che un profondo conflitto interno dilaniava ormai il dicastero dell’Africa Italiana, se due alti
funzionari del medesimo ministero, coinvolti nell’affair libico, entravano
pesantemente in rotta di collisione. I fatti si erano svolti più o meno così.
I due dispacci del Comando Alleato si erano susseguiti a ritmo incalzante
e in entrambi il tono generale era segnato dalla preoccupazione e dalla
confusione, tanto è vero che inizialmente si parlava di sei casse di materiale
archeologico ed etnografico provenienti dalla Tripolitania che «erano state nascoste per custodia», precisando che due delle sei casse contenevano
materiale on loan. Poi, nel secondo documento, si citavano soltanto due
casse di importante materiale archeologico provenienti questa volta dalla
Cirenaica e da Tripoli. Un vero guazzabuglio!
Nel rapporto del capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia del
Ministero dell’Africa Italiana20, da cui abbiamo tratto una parte delle notizie sugli spostamenti in Italia del tesoro archeologico della Libia, vi si trova
descritto, per sommi capi, il repertorio di oggetti da cui era composto.
[…] il Governo Generale della Libia inviava al Dott. Rodolfo Micacchi, nella sua
qualità di Capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia nel Ministero per l’Africa
Italiana, due cassette di tipo militare contenenti il tesoro archeologico della Libia, fino
allora in consegna alla Cassa di Risparmio della Libia, e precisamente:
1. le monete della collezione Meliu (in inventario 35 d’oro, 924 d’argento e 1658 di
bronzo, oltre ad alcune centinaia di buste contenenti monete della collezione stessa,
non meglio specificate;
2. monete della Cirenaica ( e cioè 46 d’oro, 117 d’argento e 281 di bronzo, oltre a
1541 monete d’argento dell’età di Domiziano, Nerva e Traiano);
3. monete della Tripolitania (307 d’oro, 207 d’argento e 593 di bronzo);
4. gli oggetti rinvenuti nella stipe votiva dell’Artemision di Cirene (in bronzo, osso,
oro, argento);
247
Francesca Gandolfo
5. bronzetti, gioielli, gemme incise, monili d’oro, idoletti d’oro (da Uaddan) etc.
È Micacchi a informarci, alla fine della relazione, che, all’epoca dei
fatti, aveva sporto denuncia alla Sezione Archeologia della Commissione Alleata e al Sottosegretariato di Stato per gli Italiani all’Estero contro
il comm. Achille Ragni, capo di quell’Ufficio per gli Affari Generali del
Ministero dell’Africa Italiana che aveva preso in consegna il tesoro, poco
più di un anno prima, proprio dalle sue mani e che, dopo l’8 settembre
1943, lo aveva dovuto cedere al «Commissario del tempo S.E. Cerulli»21
che lo aveva trasferito al Museo Coloniale. Ma soffermiamoci a leggere le
parole con cui lo stesso Micacchi ci racconta delle traversie subite dalle due
cassette dopo l’armistizio:
[…] Dopo l’8 settembre 1943, le due cassette, che erano rimaste presso il predetto
economato, vennero, a cura del Commissario del tempo, S.E. Cerulli, trasportate al
Museo Coloniale e chiuse in un nascondiglio efficacemente protetto.
Successivamente, il capo del predetto Ufficio per gli Affari Generali, Comm. Achille
Ragni, il quale aveva aderito al Governo repubblicano fascista e si era trasferito a Cremona, richiese al Direttore del Museo Coloniale, comm. U. Giglio, le due cassette per
portarle seco nel Nord. Una prima volta il comm. Giglio riuscì a frustrare la richiesta
del Ragni; ma questi non si diede per vinto e, nel maggio 1944, tornato a Roma,
rinnovò la richiesta e, a vincere l’opposizione del Direttore del Museo, presentò un
ordine scritto del Comm. Alfredo Siniscalchi il quale, in quel momento, era a capo
degli Uffici del Ministero dell’Africa Italiana rimasti a Roma.
In seguito alla presentazione di tale ordine, il Direttore del Museo consegnò le due
cassette che dal Ragni vennero asportate dal Ministero,e, si ritiene, portate a Cremona.
Del fatto il dott. Micacchi ha sporto denuncia al Sottosegretario di Stato per gli italiani
all’estero dal quale attualmente dipende l’Amministrazione coloniale22.
Dopo l’8 settembre
Cosa era dunque successo quel fatidico 8 settembre 1943 che ricorre
così di frequente nei carteggi che stiamo esaminando? Al di là del fatto
che per alcuni costituisca una tragedia e per altri l’inizio della liberazione, l’8 settembre rappresenta oggettivamente un terminus post quem. La
firma dell’armistizio di Cassibile, se da un lato sanciva la resa dell’Italia
agli anglo-americani e la fine della guerra ufficiale, dall’altro rappresentava
l’inizio della guerra civile tra chi, fra gli italiani, rimaneva fedele al regime
e chi vi si opponeva, resistendo o semplicemente prendendo le distanze.
248
Il tesoro archeologico della Libia
In ogni caso, il post quem si presentava traumatico per l’intera popolazione
italiana. E se si conviene sul fatto che esso tracciò un solco significativo tra
«un prima» e «un dopo», trascinandosi dietro una congerie di avvenimenti
piccoli e grandi, di sentimenti di paura, di umiliazione, di rabbia, di volontà di riscossa e di sfida, allora non si può negare che anche il braccio di
ferro avvenuto nelle stanze del Museo Coloniale, tra il direttore Umberto
Giglio e Achille Ragni, tornato per la seconda volta a reclamare il tesoro archeologico, vada, in senso lato, ricollegato a tale circostanza e alle capillari
conseguenze che ne scaturirono.
Era il maggio 1944 e questa volta Ragni aveva portato con sé un ordine
scritto del capo degli uffici del MAI rimasti a Roma, comm. Siniscalchi.
Ordine a cui il direttore del Museo Coloniale non poté o non si sentì di
opporsi e che fece scattare la denuncia di Micacchi. Anche Siniscalchi, a
sua volta, aveva agito «per ordine della Sede Nord del Ministero dell’Africa
Italiana»23. Il senso di questa contesa, tutta interna al Ministero dell’Africa
Italiana, – poiché il Museo Coloniale dipendeva dall’Ufficio Studi di quel
dicastero, così come l’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia e l’Ufficio
per gli Affari Generali – risiedeva anch’essa nel grande cambiamento politico e culturale che stava investendo in quei drammatici momenti l’intera
società italiana. Cambiamento sancito da un armistizio che metteva, nero
su bianco, le contraddizioni del Paese e il prezzo da pagare per i suoi errori, stabilendo che da quella data in poi l’Italia si sarebbe dovuta muovere
nell’ambito di una legalità internazionale cui erano affidate le sue sorti
future.
L’irruzione sulla scena internazionale del Tesoro archeologico della Libia
e del materiale paleontologico ed etnografico proveniente dai suoi musei
fu di tale evento uno dei frutti acerbi, che arrivò a maturazione con il
Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947. Entrambi si configurarono come
‘fattori rivelanti’ il cambiamento radicale che era in atto nella società italiana. Il passaggio da una fase dittatoriale a una democratica si mostrava
dunque attraverso il concomitante intervento di vari elementi. Alcuni di
questi, come il tesoro archeologico e i reperti paleontologici ed etnografici,
venivano, in tale contesto, ad assumere un significato specifico, in quanto
soggetti/oggetti rivelatori dei meccanismi sottesi alla costruzione ideologica del passato. Un passato non valido di per sé, ma strumento ideologico
di un dato sistema politico-sociale, i cui effetti si proiettavano oltre quel
sistema, immergendosi in quel particolare frangente della storia d’Italia
249
Francesca Gandolfo
nel quale l’«intreccio di circostanze tecniche, umane e morali che avevano
accompagnato la sconfitta» sembrava avesse improvvisamente interrotto
e poi rimesso in moto un tormentato processo di nazionalizzazione. Un
processo cominciato nel 1861, entrato in crisi nel Ventennio, ma la cui
crisi continuava a persistere e colpiva al cuore lo Stato nazionale24. Scrive
Galli della Loggia25:
Nella radicalizzazione della crisi della nazione in «morte della patria» confluiscono
dunque due ordini di fenomeni: da un lato la crisi/scomparsa dello Stato in conseguenza delle particolari modalità politico-militari della sconfitta bellica, dall’altro lato
– e proprio per effetto di tali modalità – la sensazione diffusa in moltissimi abitanti
della penisola che la sconfitta, in realtà, è stata causa e insieme prodotto e manifestazione, di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico-politica
(secondo l’espressione che Renzo De Felice è stato uno dei pochi ad adoperare) degli
italiani.
È proprio questa debolezza etico-politica degli italiani, a introdurci in
un altro aspetto della vicenda, giocato appunto sulle umane debolezze dei
protagonisti della nostra storia e a farci ritenere che la denuncia sporta
dal capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia potesse costituire
l’occasione per lasciarsi alle spalle un ministero, il MAI, divenuto incandescente, perché troppo coinvolto con l’ancien régime, e passare a uno meno
schierato, come quello della Pubblica Istruzione. Il drammatico processo
di transizione in atto, orientato alla conquista di una forma democratica
di società civile, aveva fatto sì che nel novembre 1943 si formasse il cosiddetto «governo dei sottosegretari», che riproduceva la struttura ministeriale
precedente, suddivisa tra la Repubblica Sociale Italiana al Nord e il governo del Sud (Brindisi, Bari, Lecce, Salerno).
Nel Sud, la ricostituzione dell’Amministrazione coloniale, prima affidata al vecchio
generale Melchiade Gabba e poi allo stesso Badoglio, procede lentissimamente. Quasi
inesistente a Bari e a Salerno, riprende una certa consistenza solo quando il governo
legale, nel settembre 1944, può tornare a Roma. Ma il palazzo della Consulta è stato
letteralmente saccheggiato dai vandali istigati da Barracu [Angelo Maria Barracu era
sottosegretario alla presidenza del Consiglio n.d.A.], per cui si deve lamentare non
soltanto la scomparsa di gran parte della documentazione del ministero, ma anche la
perdita totale degli atti personali, così che la stessa assistenza finanziaria alle famiglie
dei prigionieri e degli internati viene interrotta per mesi26.
250
Il tesoro archeologico della Libia
In un’Italia di fatto divisa in due, tante erano già state le defezioni e
i passaggi da un ufficio all’altro, da un ministero all’altro, da una scrivania all’altra27. Una vera e propria diaspora si era abbattuta sui funzionari
pubblici. Ci fu chi dovette andare a lavorare a Brindisi o a Lecce, per conto del Ministero dell’Interno, chi, avendo aderito alla Repubblica Sociale
Italiana, fu dirottato nelle varie città del nord Italia alle dipendenze del
Ministero dell’Africa Italiana o della Presidenza del Consiglio28. Tra coloro
che si erano diretti a Nord ve ne erano parecchi che erano stati costretti a
trasferirvisi «con lusinghe e minacce». Pochi, e per lo più imboscati, furono
coloro che rimasero negli uffici di collegamento a Roma. Alcuni di essi
riuscirono a essere dispensati dagli incarichi, anche rilevanti, fino ad allora
svolti, usando stratagemmi a dir poco infantili. Uno di questi ‘fortunati’ fu
proprio quel Mario Martino Moreno che nel luglio del 1945 ritroveremo
a capo della commissione per la ricognizione del tesoro della Libia. All’epoca dei fatti di cui si sta parlando, Moreno accusò una «grave stanchezza
mentale», tanto da non potersi muovere da Roma. Figura di spicco del Ministero dell’Africa Italiana, riuscì a mantenersi ai vertici di questo dicastero
fino al 1951. Leggiamo in Del Boca:
Il ministero dell’Africa Italiana cessa pressoché di esistere con l’8 settembre. Trasferito
al nord e decentrato in varie località, il MAI segue la sorte dell’effimera Repubblica
Sociale, rivela una completa inefficienza anche per la diserzione di buona parte del
personale e non fa neppure in tempo a far pervenire al pubblico il prodotto della sua
scarsa attività, cioè una serie di pubblicazioni di propaganda coloniale. [ … ] Ma se è
facile, per Barracu recuperare oggetti e documenti, molto più arduo per lui si presenta
il compito di far affluire al nord il personale per ricostituire il MAI. Alle sue minacce di
esonerarlo se non si presenterà a Salò, il segretario generale di colonia Mario Martino
Moreno risponde che è malato, afflitto da una grave “stanchezza mentale”, e lo prega
di sollevarlo dall’incarico29.
Risultava pertanto comprensibile che alcuni funzionari della pubblica
amministrazione, come l’ex ispettore capo Rodolfo Micacchi, fossero in
quella particolare fase storica indotti a una scelta di campo anche dalle
circostanze. Scelta resa tanto più necessaria dal fatto che si trattava di difendere un patrimonio archeologico in reale pericolo, che sarebbe dovuto
e potuto divenire oggetto di scambio ma non certamente ostaggio, come
accadde invece, di una parte o dell’altra. Uno dei punti nodali era questo:
riuscire ad affermare, nella situazione data, un principio di legalità, attra251
Francesca Gandolfo
verso la difesa degli artefatti e dei manufatti di entrambe le parti in causa,
colonizzatori e colonizzati, e venire così incontro alle richieste sempre più
pressanti della Commissione Alleata, salvaguardando la propria eredità
culturale e la propria dignità di uomini.
In questi pezzi di Italia distrutti fin nelle loro fondamenta, i comportamenti trasformistici di coloro che erano stati difensori del regime fascista
e da questo si erano distaccati dopo l’armistizio o se ne stavano allontanando perché non vedevano più un futuro nell’ideologia selvaggia che lo
aveva ispirato e che aveva distrutto sia la patria che gli affetti, emergevano
talora come una disperata difesa, non soltanto come un provvidenziale
quanto vile cambiamento di casacca. Non si può pretendere fedeltà assoluta nei confronti di qualcosa che non c’è più. Nello stato di malattia
addotto da Moreno o nella denuncia di Micacchi si percepisce una storia a
misura d’uomo nella quale, insieme alle umane cedevolezze, traspare forse
la ricerca di una legalità che desse nuovamente il senso dello Stato e delle
istituzioni. Chi se la sentirebbe oggi di schierarsi apertamente a favore di
un regime autoritario che perde la guerra e nega le libertà fondamentali?
D’altra parte, però, è legittimo domandarsi quanto fosse improbabile che
proprio costoro potessero rappresentare quel futuro democratico ed eticamente forte che serviva all’Italia sconfitta. E forse la risposta sta in quella
«paurosa debolezza etico-politica» che sembra ancora affliggerla quando,
lungo il suo tormentato e complesso cammino, prevalgono sentimenti di
statico e nostalgico patriottismo, o viceversa, prendono il sopravvento impulsi di negazione dell’italianità.
Il trasferimento del tesoro a Cremona nel maggio del 1944 e il suo
rientro a Roma nell’inverno successivo.
Il Ministero della Pubblica Istruzione aveva da poco ripreso la sua denominazione originaria, e precisamente dal 30 maggio 1944, col governo
Bonomi II – succeduto all’esecutivo Badoglio II – ma sulle lettere che in
quel periodo si susseguivano numerose tra i due ministeri e il Quartier
Generale della Commissione Alleata, ancora campeggiava, quantunque
barrato da una linea nera, il nome Ministero dell’Educazione Nazionale,
voluto da Mussolini nel 1929.
E mentre Micacchi sporgeva denuncia, Ragni portava le due cassette a
Cremona, ove subito si costituì una commissione per la ricognizione del
252
Il tesoro archeologico della Libia
loro contenuto. Almeno tre furono i verbali redatti: del 31 maggio, del 1°
e del 2 giugno30. Ciò viene confermato dall’unico verbale dei tre, il n. 2,
ritrovato insieme a tutti gli altri documenti inerenti il tesoro nella cartella
dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana. A liberazione compiuta, gli esiti di tale denuncia costrinsero il MAI – responsabile istituzionale
della sorte dei reperti d’oro e d’argento del Museo Coloniale e di altri oggetti archeologici provenienti dalla Libia – a intervenire attivamente per il
loro recupero inviando alcuni suoi delegati a Cremona.
[…] Viva era la preoccupazione del Ministero per la sorte che potevano avere subito i
preziosi contenuti nelle cassette e costante l’intendimento di recuperare ogni cosa. Subito dopo la liberazione del Nord, incaricati di questo Ministero poterono - attraverso
indagini non facili per i continui spostamenti che gli uffici di Cremona avevano subito
per l’avanzare degli eserciti alleati – rinvenire finalmente le due cassette che erano state
ritrovate da certo Sig. Nino FRASCHINI il quale, con vivo senso di responsabilità e
con encomiabile onestà e precisione, le aveva custodite, sottraendole alle affannose
ricerche che, allo scopo di impossessarsene, facevano reparti e gruppi repubblichini
ed altri 31.
La figura di Nino Fraschini, un illustre signor nessuno, salito per un
breve spazio di tempo alla ribalta delle cronache per aver salvato il tesoro
dalle grinfie di «repubblichini e altri», è un significativo esempio di come,
allora come adesso, fosse importante credere in qualcosa che si riteneva
giusto e che corrispondeva alle proprie necessità ideali, soprattutto in momenti di manifesta crisi di efficienza degli apparati tecnico-amministrativi
dello Stato. Chissà come e chissà in quali circostanze Fraschini si era imbattuto nelle famose cassette e, dopo averne compreso il valore, se ne era
preso cura, a proprio rischio e pericolo. Sappiamo che a Brenta di Cittiglio
compilò dei verbali talmente perfetti che vi comparivano oggetti che non
erano stati registrati in precedenti verbali. Come si legge nella relazione
della commissione, egli venne elogiato per l’onestà, l’alto senso di responsabilità e il coraggio dimostrati in quel pericoloso frangente.
Ritengo doveroso mettere in particolare rilievo che la custodia delle cassette spontaneamente assunta dal Sig. FRASCHINI in Val di Brenta, ha molto probabilmente
salvato da rapina il tesoro archeologico della Libia, e che la scrupolosa esattezza dello
stesso FRASCHINI nella compilazione dei verbali è indice del suo senso di specchiata
onestà e di responsabilità, per cui gli va rivolto vivo plauso32.
253
Francesca Gandolfo
Alla luce degli sviluppi che la situazione politica internazionale e nazionale impose, dapprima con l’armistizio e poi con la liberazione del Nord
nell’aprile 1945, si comprende perché si fosse resa necessaria la creazione
di una commissione ministeriale che indagasse sui reperti provenienti dalla
Libia. I governi in carica, per svariati anni, furono infatti sottoposti alle
stringenti richieste degli alleati che spingevano per la restituzione degli
oggetti d’arte e d’antichità alle ex colonie italiane. Nominare una apposita
commissione che si occupasse di ciò che era ritenuto patrimonio dello
Stato italiano diventava anche una condizione sufficiente a garantire un
contesto senza ambiguità in rapporto a quell’ingarbugliato succedersi di
avvenimenti che aveva fatto sì che i preziosi reperti partissero dalla Libia
nel dicembre del 1942, approdassero a Roma nel gennaio del 1943 e ripartissero per l’Italia del Nord nel maggio del 1944, e infine ricomparissero
a Roma, presumibilmente nell’inverno di quello stesso anno, nella loro
genuina integrità, stando a quanto affermano i documenti esaminati33.
Le tensioni fra il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero
dell’Africa Italiana
Le richieste degli Alleati erano chiare ed erano rimaste inalterate nel
tempo, come si capisce da una lettera del 10 gennaio 1947 che il ministro
della Pubblica Istruzione Guido Gonella inviò all’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana, al Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei
Ministri e al Ministero degli Affari Esteri. Il contenuto del documento
riguarda ancora e sempre la restituzione del materiale archeologico, etnografico e paleontologico proveniente dai musei della Libia. Nella lettera,
che reca l’intestazione Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Divisione
III, il ministro in persona perora la causa della restituzione degli oggetti archeologici ed etnografici, segno evidente che la questione, lungi dall’essere
stata risolta, permaneva all’ordine del giorno nelle trattative internazionali.
La commissione Alleata ha nuovamente fatto sapere che la restituzione alle Gallerie ed
ai Musei Italiani del patrimonio artistico, asportato dai tedeschi in Germania durante
la guerra, è subordinata alla restituzione da parte dell’Italia di quanto per qualsiasi
ragione o motivo è stato portato qua dalle colonie o da altri paesi.
Si fa presente che le opere italiane, che sono attualmente in Germania riunite al Central Collecting di Monaco, rappresentano un complesso considerevole per numero
e, soprattutto, per l’altissimo valore artistico. La loro restituzione all’Italia è stata ora
254
Il tesoro archeologico della Libia
sospesa e viene subordinata alla restituzione da parte nostra del materiale archeologico, bibliografico, etnografico e paleontologico proveniente dalla Tripolitania e dalla
Cirenaica.
Questo Ministero non desidera assumersi la responsabilità di far negare all’Italia, già
duramente provata dalla guerra nel suo patrimonio artistico, alcuni fra i più notevoli
capolavori dei suoi Musei e Gallerie: di conseguenza il materiale archeologico e bibliografico della Tripolitania e Cirenaica è stato concentrato a Napoli preparato per la spedizione che avverrà a giorni. Invece gli oggetti etnografici e paleontologici depositati
presso il Museo Coloniale e l’Istituto di Paleontologia dell’Università di Roma, sono
stati rifiutati da codesto ministero [il MAI, n.d.A.] .
Si deve quindi insistere di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti e
rapidamente preparati per la consegna alle autorità alleate le quali hanno già predisposto il mezzo di trasporto che da Napoli dovrà fra breve partire per la Libia34.
L‘importanza che assumeva la riconsegna dei patrimoni dei rispettivi
paesi belligeranti, non era altro che uno dei modi in cui si misuravano i
nuovi rapporti di forza geopolitici che, con la sconfitta delle nazioni che
avevano aderito all’Asse, stavano prendendo forma nell’Europa del dopoguerra. Il Trattato di Pace di Parigi sarà firmato il 10 febbraio 1947, appena
un mese dopo l’invio di questa lettera. La relazione tra il quadro internazionale delineato dal trattato e questa lettera è evidente. Non ci sono alternative, dovette aver pensato il ministro della pubblica istruzione mentre si
accingeva a scrivere agli altri esponenti di governo: «Si deve quindi insistere
di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti».
Quello che fino a pochi anni prima sarebbe stato semplicemente impensabile, la sconfitta dell’Italia e della Germania, era accaduto, e ora bisognava prenderne atto e agire di conseguenza. Gonella sapeva che si sarebbe
scontrato con chi, nel governo, aveva una visione opposta alla sua e allora
ricorre a un linguaggio radicale, inequivocabile, lontano da ogni equilibrismo dialettico, specificando le competenze e le azioni che i vari dicasteri
devono compiere, nel tentativo estremo di mettere i suoi «avversari» politici di fronte alle proprie responsabilità, sia nei confronti del Paese, sia nei
confronti delle nazioni vincitrici. Il suo ministero – afferma – non si assume «la responsabilità di far negare all’Italia, già duramente provata dalla
guerra nel suo patrimonio artistico, alcuni fra i più notevoli capolavori dei
suoi Musei e Gallerie», essendo la loro riconsegna subordinata all’obbligo
di restituzione da parte dell’Italia di ciò che «è stato portato qua dalle colonie o da altri paesi».
In questo passaggio la lettera di Gonella squarciava definitivamente il
255
Francesca Gandolfo
velo sulla effettiva drammaticità della congiuntura storica e politica che il
Paese stava attraversando e sulle tensioni all’interno della compagine governativa. Tensioni che sfoceranno in due opposte decisioni. Infatti i reperti
archeologici e il materiale bibliografico, su cui ha giurisdizione il Ministero
della Pubblica Istruzione, verranno trasferiti «presso la Soprintendenza alle
Antichità di Napoli per la spedizione con mezzi di trasporto alleati»35 alla
volta della Libia. Mentre gli oggetti etnografici depositati nel Museo Coloniale (quindi anche il tesoro archeologico, che non viene espressamente
citato, ma che sappiamo essere al museo) e quelli paleontologici, custoditi
nell’istituto di Paleontologia dell’Università, non si muoveranno da Roma
per ordine del capo del governo e ministro ad interim dell’Africa Italiana,
Alcide De Gasperi, d’accordo con l’allora ministro degli esteri Pietro Nenni.
Le riunioni e gli incontri ad alto livello che si avranno su questo spinoso argomento, la formazione di commissioni e sottocommissioni non
faranno altro che rendere manifesta l’assenza di una strategia condivisa. Al
linguaggio crudo e pragmatico di Gonella se ne opporrà uno sfuggente,
scritto in un ‘politichese’ raffinato ma ciò nondimeno concepito più per
confondere che per chiarire le reali intenzioni di chi se ne faceva portavoce. Un linguaggio di fatto ostile ad accettare le condizioni imposte dagli
alleati, anche a rischio della perdita del nostro patrimonio, nel quale si
percepiva l’onta del vinto, pronto a dare battaglia in una guerra già persa.
La lettura della missiva del 4 settembre 1946, firmata dal sottosegretario di stato, Paolo Cappa, addetto al Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sottolineava proprio come l’open diplomacy dell’esecutivo
fosse in realtà una scelta pro domo sua, declinata su regole di diritto internazionale che non stavano al passo con la nuova fase economico-politica
innescatasi con la fine del colonialismo imperiale e avviatasi verso un processo di emancipazione dei popoli ex colonizzati.
[…] il Ministero dell’Africa Italiana, sollecitato ad adottare i provvedimenti per la restituzione ai luoghi di provenienza del materiale dei Musei della Tripolitania e della Cirenaica a suo tempo trasferito in Italia per l’allestimento della Mostra delle Terre d’Oltremare, ha fatto presente di non ritenere opportuno, d’accordo col Ministero degli
Esteri, di procedere per ora alla suddetta restituzione. Infatti, nell’attuale situazione, le
raccolte in parola, che presentano grande interesse scientifico, oltre che notevole valore, potrebbero, per eventi imprevedibili, essere soggette a manomissioni o a distruzioni
che comprometterebbero l’integrità delle preziose collezioni, che sono state assicurate,
grazie agli sforzi dell’Amministrazione italiana, al patrimonio culturale comune36.
256
Il tesoro archeologico della Libia
Eppure, solo due mesi prima l’atteggiamento del Governo era stato
completamente diverso.
La questione della restituzione del materiale della Libia [scrive il Sottosegretario di
Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Giustino Arpesani, n.d.A.] interessa
vivamente l’Amministrazione della P.I., poiché è strettamente connessa con l’esito delle trattative in corso con gli Alleati per la restituzione alle Gallerie e ai Musei italiani
del patrimonio artistico asportato dai tedeschi in Germania durante la guerra, la cui
importanza non può essere messa a confronto con quella degli oggetti dei musei libici.
Si richiama pertanto l’attenzione di codesto Dicastero [Ministero dell’Africa Italiana,
n.d.A.] sulla urgente necessità di provvedere alla consegna del materiale richiesto, superando ogni eventuale difficoltà37.
In un primo momento, infatti, l’esecutivo ingiungeva al MAI «di provvedere alla consegna», in una fase successiva si defilava. Si assiste a un ribaltamento dei rapporti di forza. Tuttavia, il complice assenso del governo
rafforzò le tesi del Ministero dell’Africa Italiana e fece sì che i materiali
provenienti dai musei libici non venissero alla fine restituiti. Quali erano
queste tesi? Una prima argomentazione poggiava sulla nozione di «eventi
imprevedibili», i quali avrebbero potuto mettere in serio pericolo l’integrità di beni di «grande interesse scientifico, oltre che notevole valore», poi
si passava a invocare il diritto internazionale, introducendo la categoria
giuridica di sovranità nazionale.
D’altro canto non è da presumere che la richiesta restituzione, la quale, a quanto
comunicato da codesto Ministero, è in stretta relazione col recupero del patrimonio
artistico italiano asportato dai tedeschi in Germania, trovi fondamento nel criterio
generale in base al quale gli oggetti di valore artistico appartenenti a un determinato
Stato ed a questo illegalmente sottratti con la forza, vanno ad esso riconsegnati, in
quanto, nel caso in esame, le raccolte libiche sono state costituite mediante ricerche,
studi e scavi effettuati in territorio posto sotto la sovranità italiana, senza che pertanto
venisse mai leso l’interesse di alcun altro soggetto di diritto internazionale38.
La sovranità nazionale e le politiche coloniali
Il tema della sovranità presenta in effetti una sua specificità giuridica
e storica. Sul piano giuridico «con la dichiarazione unilaterale italiana di
sovranità sulla Libia, i beni archeologici passarono direttamente sotto la
giurisdizione del Ministero delle Colonie»39. Il Regio Decreto del 24 settembre 1914 n. 1271 mette ordine nella sequela dei regi decreti che furono
257
Francesca Gandolfo
emanati – sulla scia di una continuità normativa nazionale e sulla base di
quella che era stata la legislazione ottomana – a partire dalla conquista
della seconda colonia italiana, per impulso del generale Carlo Caneva40.
L’articolo 1 del R.D. n. 1271/1914 recita:
Le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico ed archeologico, esistenti nel
territorio della Tripolitania e della Cirenaica, siano esse già in luce o si rinvengano
mediante scavi o fortuitamente, appartengono in proprietà allo Stato.
All’articolo 9 invece si stabilisce che:
L’autorizzazione di eseguire scavi può essere concessa dal Governatore soltanto ad Istituti e Corpi scientifici nazionali con le norme che saranno fissate dal Governo e sotto
la vigilanza del personale preposto ai servizi archeologici.
Il provvedimento si chiude con l’articolo 13:
Il Ministro delle colonie ha facoltà di provvedere con i suoi decreti, alla organizzazione
dei servizi archeologici della Tripolitania e della Cirenaica e del personale che vi sarà
addetto, nonché di emanare le norme occorrenti per l’esecuzione del presente decreto.
Ordiniamo, ecc. 41
Sul piano storico la faccenda si complica e non può non sorprendere il
fatto che le preziose collezioni di oggetti libici potessero, allo stesso tempo,
essere definite «patrimonio culturale comune» ed essere sottoposte alla «sovranità italiana» e non alla legittima sovranità dello Stato di provenienza,
ora che l’Italia aveva perso le sue colonie. E non è da dire che è l’oggi a farci
parlare così, lo spirito dei tempi e dicerie di questo genere, perché lo spirito dei tempi dell’epoca si accordava perfettamente con quanto sosteneva
il ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella, che era l’opposto di
quanto sosteneva Alcide De Gasperi. La riflessione da fare è su come funziona il mondo, oggi come allora, sulla problematicità e sulla conflittualità
derivante da ragionamenti di carattere assiomatico.
Ripensare i meccanismi di funzionamento delle politiche coloniali degli stati europei alla luce della corrispondenza epistolare fra una istituzione
e l’altra, permette di interrogarsi sulla «formazione delle strategie discorsive» e sulla loro differenziazione. Ma soprattutto consente di scoprire «tutta una gerarchia di relazioni» cui corrisponde una gerarchia di concetti e
258
Il tesoro archeologico della Libia
di regole che sono il prodotto di meccanismi di relazioni gerarchicamente strutturati42. Ne discende che, a proposito del concetto di sovranità,
quest’ultimo diventi a poco a poco una prerogativa degli stati europei e
non di quelli extraeuropei, in virtù dell’estensione di un diritto che dal
Seicento in poi si propaga fino al Novecento inoltrato e che vede le nazioni
europee, che in quel periodo si stavano costituendo, uniche depositarie del
diritto alla sovranità nazionale. E ciò è in contrasto con il diritto di ogni
popolo, europeo e non, a rivendicare la propria eredità culturale, la quale
non è fatta soltanto di beni materiali, più o meno preziosi o più o meno
scientificamente rilevanti, ma è costituita da quelle possibilità, offerte a
ciascun popolo, di essere in rapporto con la storia, elaborando forme e modi propri e sviluppandoli in un sistema politico-sociale di potere/sapere43.
In nome del potere/sapere, infatti, si sviluppò nel XIX secolo una forma di «etnocentrismo epistemologico», i cui detriti permarranno anche in
tempi molto recenti, a giudicare ad esempio dalle argomentazioni espresse
nella lettera appena citata della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In
quest’ultima non vi è nessuna novità rispetto alla rappresentazione, anche se molto sfumata, che dei popoli «primitivi» si aveva nel Seicento,
nel Settecento e nell’Ottocento. Come sottolinea il filosofo Mudimbe44,
«la novità risiede nel fatto che il discorso sui “selvaggi” è […] un discorso
in cui un potere politico esplicito presume di avere l’autorità di un sapere
scientifico, e viceversa».
Ma i discorsi politici non sono tutti uguali, come si è avuto modo di
notare, e si sviluppano in modi complessi e contraddittori, entro paradigmi politici e scientifici spesso opposti, anche se nel contesto di una comune esperienza post-coloniale. E così, se da un lato, De Gasperi e Nenni,
attraverso una pratica discorsiva agita sotto forma di scelta politica, opponevano un netto rifiuto alla restituzione degli oggetti d’arte e d’archeologia
alla Libia, dall’altro Gonella ne affermava una opposta a cui corrisponde
un agire politicamente corretto, che prefigurava valori e diritti che per noi
oggi sono assolutamente normali.
Si deve quindi insistere di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti e
rapidamente preparati per la consegna alle autorità alleate le quali hanno già predisposto il mezzo di trasporto che da Napoli dovrà fra breve partire per la Libia.
Nell’interesse della reintegrazione del patrimonio artistico italiano, si prega vivamente
di aderire alle ripetute premure degli Alleati affinché non venga ulteriormente compromesso il ritorno dei preziosissimi capolavori italiani riuniti a Monaco45.
259
Francesca Gandolfo
Incertezze e ambiguità della politica culturale del Ministero dell’Africa Italiana.
Nonostante gli sforzi del ministro della Pubblica Istruzione il materiale
archeologico e paleontologico della Libia non fu imbarcato sul piroscafo
“Campidoglio”. Lo apprendiamo da una lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, firmata dal sottosegretario Paolo Cappa,
indirizzata al Ministero dell’Africa Italiana (Direzione Generale Affari Politici), al Ministero Affari Esteri (Direzione Generale Affari Politici – Ufficio I) e, per conoscenza, al Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione
Generale Antichità e Belle Arti), che reca la data del 12 maggio 194746. In
questa nota si legge che la Pubblica Istruzione attribuisce la responsabilità
del mancato imbarco dei reperti al Presidente del Consiglio.
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha replicato al foglio di questa Presidenza […],
dichiarando di essere in possesso di elementi dai quali risulta incontrovertibilmente
che il dott. Gaetano Chapron del Ministero dell’Africa Italiana ordinò, per asserita
disposizione del Presidente del Consiglio dei Ministri, la sospensione dell’imbarco
del materiale paleontologico ed archeologico della Libia già in via di caricamento sul
piroscafo “Campidoglio”.
La suddetta Amministrazione ha declinato ogni responsabilità per l’eventuale pregiudizio che tale episodio può derivare alla auspicata sollecita definizione della questione
relativa alla restituzione del complesso d’opere d’arte italiane rinvenute a Monaco.
Si prega pertanto il Ministero dell’Africa Italiana di voler fornire i necessari chiarimenti sull’azione svolta dal suddetto dott. Chapron.
Con l’occasione si prega altresì il Ministero dell’Africa Italiana di voler far conoscere
l’esito dei passi compiuti, nella sua competenza e d’intesa con le Amministrazioni interessate, presso le autorità alleate per la soluzione concreta della surriferita questione,
di cui non può ovviamente sfuggire l’importanza connessa alla tutela del patrimonio
artistico nazionale.
A questa lettera del Gabinetto, che chiede chiarimenti al ministro
dell’Africa Italiana, replica Giuseppe Lupis, sottosegretario agli Esteri47,
con un comunicato48 scritto su carta non intestata – qui di seguito riportato integralmente – diretto alla Presidenza del Consiglio e, per conoscenza,
alla Direzione Generale Affari Politici degli esteri, ma non al Ministero
della Pubblica Istruzione.
Il Dott. Gaetano Chapron, invitato da questo Ministero, ha rilasciato la dichiarazione
260
Il tesoro archeologico della Libia
che si unisce, dalla quale risulta, oltre che chiarito il probabile equivoco, come e perchè
il Dott. Chapron si sia opposto all’imbarco di materiale archeologico e bibliografico,
che il Ministero della Pubblica Istruzione aveva invece ordinato sul piroscafo «Campidoglio» in partenza per Tripoli.
È bene avvertire che il Dott. Chapron ha così agito perché queste erano le istruzioni
che questo Ministero gli aveva specificamente nella sua competenza impartito.
Il fatto che il materiale in parola fosse in temporanea consegna al Ministero della
Pubblica Istruzione non variava minimamente la questione di principio sollevata da
questo Ministero, appoggiato da quello degli Esteri sul rinvio in Libia del noto materiale archeologico.
L’accostamento che si vuol fare delle due questioni, è cioè della subordinata restituzione delle opere d’arte asportate dai tedeschi alla restituzione alla Libia del materiale
in parola, non regge e, d’altra parte come ha testualmente osservato il Ministero degli
Affari Esteri, «non sembra che le autorità alleate abbiano subordinato in maniera ufficiale ed esplicita la restituzione del materiale che si trova a Monaco all’effettivo ritorno
in Libia del materiale archeologico e paleontologico e si dubita che, in mancanza di
argomenti che giustifichino tale subordinazione, esse intendano farlo».
Nessun pregiudizio pertanto – si ritiene – può derivare dal mancato imbarco del noto
materiale, e – d’altra parte – il temuto inconveniente non si prospetterebbe neppure
se il Ministero della Pubblica Istruzione, che pur conosceva il pensiero in materia di
questo Ministero e di quello degli Esteri, avesse tenuta sospesa la questione o almeno
avesse tempestivamente avvertito questo Ministero, prima di adottare delle misure
che, per le divergenze cui hanno dato luogo, hanno messo in maggiore risalto l’intera
questione.
Circa un anno prima, il 12 agosto 1946, nell’intricata frammentazione
delle competenze e nella diversità delle posizioni tra i due ministeri, della Pubblica Istruzione e dell’Africa Italiana, proprio Lupis aveva inviato,
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e per conoscenza al Ministero
degli Esteri, un comunicato, anch’esso rigorosamente su carta semplice,
nel quale conveniva, in linea di massima, «sulla opportunità di restituire
ai luoghi di provenienza il materiale archeologico trasferito in Italia dalla
Libia negli anni 1940 e 1942»49. Anche se tale evenienza non si presentava
subito esperibile - asseriva nell’agosto del 1946 il ministro dell’Africa Italiana tramite il suo portavoce - tuttavia le richieste degli alleati, riguardo
al tesoro archeologico della Libia e ad altri reperti provenienti dai musei
libici, erano da considerarsi legittime.
Un anno dopo la posizione del MAI si radicalizzerà, ma in direzione
opposta e, quando la questione tornerà prepotentemente alla ribalta, farà
appello alla sovranità italiana, al pericolo di manomissioni o distruzioni
261
Francesca Gandolfo
per eventi imprevedibili, al diritto di studiare ciò che si è scavato con i soldi
e il lavoro degli italiani – come nel caso dei reperti fossili di Sahabi – per
non procedere alla resa delle collezioni. Il MAI affermerà inoltre che «l’accostamento che si vuol fare delle due questioni, è cioè della subordinata
restituzione delle opere d’arte asportate dai tedeschi alla restituzione alla
Libia del materiale in parola, non regge». La logica conseguenza fu che il
materiale non venne imbarcato.
In ordine ai resti paleontologici che sarebbero dovuti essere imbarcati
per Tripoli insieme a quelli archeologici, etnografici e bibliografici, venne
allegata una dichiarazione dell’archeologo Carlo Petrocchi a una nota urgente inviata dal MAI alla Presidenza del Consiglio il 27 agosto 1946:
[…] per quanto riguarda il materiale paleontologico proveniente dagli Scavi della Libia, si rimette l’unita dichiarazione del Prof. Petrocchi, autore degli scavi eseguiti in
Sahabi e scopritore di numerosi reperti fossili, al quale le autorità anglo-americane
hanno rivolto invito a restituire il materiale su cui egli sta attualmente compiendo
importantissimi studi.
Tale materiale riveste valore esclusivamente per la esperienza personale ed i dati di cui
è in possesso lo studioso e, restituito ai luoghi di origine senza che lo studio di cui è
oggetto venga compiuto, perderebbe completamente ogni valore50.
La dichiarazione del prof. Petrocchi, responsabile degli scavi nel giacimento fossile di Sahabi51, situato nelle sabbie mioceniche della Cirenaica
meridionale, è la seguente:
A chiarimento del colloquio avuto circa il materiale paleontologico di Sahabi attualmente conservato parte nel Museo Paleontologico della Università di Roma e parte
nel Museo Coloniale, mi permetto di aggiungere che detto materiale fu dallo scrivente
portato in Italia per ragioni di studio.
È noto che nel campo scientifico lo scopritore ha il diritto di studio sul materiale reperto e, nel caso particolare dei resti fossili di Sahabi, l’unica persona che sia in possesso
dei dati stratigrafici ed ecologici indispensabili alla determinazione dei fossili stessi è
lo scrivente il quale dal 1934 al 1939 condusse le campagne di scavo che portarono al
rinvenimento dei fossili stessi. Infatti il Giornale di scavo e la documentazione fotografica sono in suo possesso.
La pubblicazione, edita a cura di codesto Ufficio Studi, di un primo gruppo dei fossili
di Sahabi sarà seguita da un secondo volume che è in preparazione e che ritengo di
condurre a termine entro il 1947.
Pertanto la richiesta di trasferimento a Tripoli di detto materiale non può per il momento essere accolta in quanto viene a ledere un diritto dello scrivente e ad annullare
262
Il tesoro archeologico della Libia
l’importanza del materiale stesso, il quale non studiato perderebbe qualsiasi valore
scientifico52.
Non fu edito un secondo volume sul mastodonte, risalente a tre milioni
di anni fa, ritrovato da Petrocchi nel 1935 sulle sponde di un fiume ormai
scomparso che scorreva parallelo al Nilo e si gettava nel Golfo della Sirte.
Il «focolare europeo» e lo scontro di civiltà
Comunque si voglia interpretare questa vicenda, i fatti qui narrati, ricostruiti attraverso testimonianze scritte, suggeriscono di percorrere la strada
che stiamo seguendo, intercalando diverse storie in diversi momenti, tutte
documentate tra il 1942 e il 1955, anche se alcune di esse cominciano molto tempo prima e altre s’interrompono prima di tale termine e altre ancora
muoiono sul nascere. Storie destinate a rappresentare un paese, che talvolta
si dispiegano in parallelo e talaltra si muovono in diverse direzioni senza
un apparente senso, ma tutte in qualche modo intrecciate. Gli echi delle
quali risuonano come un gong, tra l’incessante fare e disfare della politica,
della cultura e della vita stessa. Politica, cultura, vita, temi grandi e universali che implicano vincoli di appartenenza ad una medesima comunità
nazionale e assegnano o tolgono valore alle cose, sulla base di paradigmi
ideologici e di comportamenti che ieri parlavano di civiltà universali e oggi
di «scontro di civiltà». Categoria utile soltanto a chi ha interesse che lo
scontro ci sia. Sottolinea Ricoeur53:
Il fatto che la civiltà universale abbia proceduto per molto tempo dal focolare europeo,
ha mantenuto l’illusione che la cultura europea fosse, di fatto e di diritto, una cultura
universale. L’anticipo preso sulle altre civiltà sembrava fornire la verifica sperimentale
di questo postulato; ma, ancor di più, l’incontro con altre tradizioni culturali era esso
stesso il frutto di questo anticipo e, più in generale, il frutto della stessa scienza occidentale. Non è forse l’Europa ad aver inventato, nella loro forma scientifica diretta, la
storia, la geografia, l’etnografia e la sociologia?
Applicando il ragionamento di Ricoeur a quello che è stato definito
il Tesoro archeologico della Libia, scopriamo che anch’esso è un prodotto
‘confezionato’, più che originato, dal «focolare europeo». E poiché l’Italia
è Europa, esso è dunque, di fatto e di diritto, italiano e universale. Nella
lettera della Presidenza del Consiglio si dichiara infatti che la sua compo263
Francesca Gandolfo
sizione e la sua integrità è stata garantita «grazie agli sforzi dell’Amministrazione italiana» che lo ha in questo modo assicurato «al patrimonio culturale comune», che altro non è che la «cultura universale» di cui parlava
Ricoeur. E così il cerchio si chiude su se stesso, consentendo all’Amministrazione italiana di rivendicare un diritto di primogenitura anche laddove
la tradizione culturale si riveli essere diversa. Un diritto espresso in nome
di un postulato antico, ma ancora tutto da dimostrare – la cultura europea
è cultura universale – asserito come verità universale da un potere politico che si attribuisce l’autorità scientifica per esercitare questo diritto nelle
forme e nei modi che ritiene più opportuni, in barba alle richieste degli
Alleati, dei legittimi possessori e dei colleghi di governo che la pensano in
un altro modo.
La determinazione con la quale la commissione, istituita subito dopo
la Liberazione, procedette alla verifica dell’integrità del tesoro archeologico
della Libia, era figlia di questa sedimentazione storico-politica e, oltre a
rappresentare un atto dovuto, diventava un elemento strategico nei riguardi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Pertanto, alle richieste di aggiornamenti da parte della Sezione Archeologia della Commissione Alleata, così rispondeva la Commissione ministeriale italiana:
[ … ] avendo la Commissione Alleata chiesto che si procedesse alla ricognizione del
materiale, il Ministero le dava notizia che la ricognizione era già in corso ed esprimeva
il proprio gradimento all’intervento di un suo rappresentante alle sedute.
Fu incaricato il Capitano Maxse, che intervenne alle sedute dalla quinta in poi, sostituito qualche volta dalla Sig.ra BONAIUTI dell’Ufficio stesso.
Alla terza seduta della Commissione, tenuta il 26 luglio 1945, intervenne il prof. DE
RINALDIS dell’Ispettorato Scuole ed Archeologia, che recò il rapporto originale della
Soprintendenza Monumenti e Scavi della Libia di cui è cenno al principio di questa
relazione, insieme con il citato verbale di ritiro delle cassette dalla Stazione Termini di
Roma54.
Tre esponenti del Ministero dell’Africa Italiana e un maggiore del Regio
Esercito Italiano formavano il comitato. Mario Martino Moreno55, che
nel settembre del 1943 aveva dichiarato al sottosegretario alla Presidenza
del Consiglio Barracu di non poter seguire il MAI al Nord perché afflitto
da «una grave forma di stanchezza mentale», presiedeva la commissione
e allora ricopriva la carica di segretario generale di governo di 2ª classe
nonché capo di gabinetto del ministero. Massimo Adolfo Vitale, direttore
264
Il tesoro archeologico della Libia
di governo di 1ª classe, era stato chiamato a farvi parte in qualità di nuovo
direttore del Museo Coloniale, al posto di Umberto Giglio; Attilio Scaglione, consigliere di governo di 1ª classe, vi fu cooptato come segretario
in quanto assegnato all’Ufficio Studi; mentre il maggiore Amedeo Guillet,
uomo raffinato e brillante, famoso per le sue imprese di guerra tanto da
essere soprannominato «Comandante Diavolo», fungeva da garante della
sicurezza militare.
Il gruppo di esperti si riunì per dodici volte, dal 21 luglio al 18 settembre 1945, redigendo, di volta in volta, un verbale degli oggetti esaminati.
E, infine, scrisse un rapporto di tre pagine cui allegò una relazione in copia
della R. Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia, del 19 dicembre 1942, protocollo n. 3945 e ben diciotto verbali: «verbale n. 360066
dell’8 gennaio 1943, dell’Ispettorato Scuole e Archeologia; verbali originali
relativi alla ricognizione effettuata nei giorni 31 maggio, 1° e 2 giugno
1944 [a Cremona, n.d.A.]; due verbali originali, privi di data, compilati, 1
per cassetta dal Sig. FRASCHINI; dodici verbali in originale della Commissione Ministeriale per la ricognizione»56.
Gennaro Pesce soprintendente reggente ai Monumenti e Scavi della
Libia dal novembre 1942 al novembre 1945
La commissione, nel riferire che Gennaro Pesce, soprintendente reggente ai Monumenti e Scavi della Libia, obbedendo agli ordini del governatore generale Ettore Bastico, «provvedeva […] a sistemare in due cassette
il “Tesoro Archeologico della Libia” per spedirlo nel Regno all’Ispettorato
per le Scuole e l’Archeologia presso il Ministero dell’Africa Italiana, ove
avrebbe potuto essere meglio custodito»57, concluse la sua ricognizione
constatando che «nulla di prezioso è risultato mancante»58. In verità, nessuna disposizione era stata impartita al reggente, né dal soprintendente
Giacomo Caputo, né tantomeno dal governatore Bastico, come ci dice lui
stesso nel rapporto che spedirà da Tripoli il 19 dicembre 1942 e, successivamente, nel saggio che pubblicherà nel 195359. Incrociando i dati dei
verbali con l’esame de visu dei materiali, la Commissione stabilì inoltre che
«i verbali compilati a Val di Brenta [da Nino Fraschini, n.d.A.] segnano –
anzi – oggetti non elencati a Cremona»60.
Dopo l’8 settembre, furono trasferiti nella Repubblica Sociale Italiana,
oltre a gran parte degli uffici del MAI, migliaia di documenti dell’Archivio
265
Francesca Gandolfo
Storico e del Servizio Cartografico. I documenti vennero caricati su treni
in partenza per Cremona, Pallanza, Intra, Verbania, Laveno, Brenta di Cittiglio e patirono vicissitudini di ogni tipo61. Sull’onda di questa repentina e
caotica fuga dalla capitale, come noto, partirono per l’Italia settentrionale,
nel maggio del 1944, anche i preziosi oggetti archeologici provenienti dalla
Tripolitania e dalla Cirenaica.
Un dedalo di verbali accompagna l’odissea dei reperti archeologici e,
in verità, essi sono ad oggi l’unica prova testimoniale della loro esistenza e
consistenza. Facciamo qualche passo indietro e torniamo al primo verbale,
in ordine di tempo, al modello originale da cui sono discesi tutti gli altri.
Si tratta del resoconto, stilato da Gennaro Pesce che, nel dicembre 1942,
si trovò a rivestire la carica di soprintendente reggente al posto del titolare,
Giacomo Caputo, il quale ricopriva tale incarico dal 193662. Questi, partito per l’Italia, vi resterà fino alla fine della guerra, ma sarà ufficialmente
ancora a capo della Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia.
Come tale viene invitato a tornare al suo posto dagli amministratori inglesi. Giunto
a Tripoli nel novembre 1945 con una nave-ospedale, il soprintendente riprende la
direzione dalle mani di Pesce, rimasto sino a quel momento a capo del personale italiano nell’ambito della BMA. […] Caputo rimane alla direzione della Soprintendenza
della Tripolitania fino al giugno 1951, quando passa le consegne e l’onere dell’eredità
archeologica italiana a Ernesto Vergara Caffarelli. L’anno successivo è nominato alla
direzione della Soprintendenza dell’Etruria con sede a Firenze63.
Il resoconto di Pesce è senz’altro l’esposizione più importante dal punto
di vista dei contenuti scientifici e della cronaca di ciò che accadde in Libia
a quel pezzo di patrimonio archeologico in quei tremendi giorni dell’inverno del 1942. Non soltanto perché a comporla fu un archeologo di provata
esperienza64 – era subentrato tre anni prima a Enrico Paribeni all’Ispettorato di Bengasi, ma aveva alle spalle anni di lavoro sul campo in Italia e
all’estero – mentre i successivi compilatori furono dei solerti burocrati, ma
soprattutto perché si sente che il racconto di Pesce è una registrazione in
diretta. Le sue parole suonano come immagini che illuminano il buio di
quegli ultimi giorni di presenza italiana in Libia e ci restituiscono, al di là
dell’ufficialità burocratica della scrittura, sprazzi di emozioni e di visioni
«da vita vera». Esordirà così all’inizio del suo rapporto: «Premesso che al
momento dell’aggravarsi della situazione militare in Libia il prof. Giacomo Caputo, titolare di questa Soprintendenza, si imbarcava per recarsi in
266
Il tesoro archeologico della Libia
missione nel Regno, lasciando al sottoscritto […] la reggenza, […] tuttavia
etc. etc. etc.». E nella relazione tra parole e immagini si gioca in effetti una
questione significativa, la questione della mediazione tra i fatti e la verità,
anche se sappiamo essere la verità un meccanismo polimorfo. In un testo
pubblicato molti anni dopo, nel 1953, negli «Annali delle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari»65, Gennaro Pesce
dirà:
Poiché io fui non solamente un testimone oculare, ma anche un attore di quelle vicende, voglio raccontarvi cosa veramente accadde nei musei cirenaici. È una specie di
cronaca, che intraprendo a narrare, col solo aiuto della mia memoria, non avendo più
documenti presso di me, ed è del tutto inedita. La narro allo scopo di far sapere non
solamente ch’è salvo, nel suo complesso, il patrimonio di valori culturali, creato in
quella terra dalle fatiche di una generazione d’italiani, ma che è salvo per opera di altri
italiani, generali da una parte, oscuri operai dall’altra, nella cui coscienza fu sempre
presente, fino all’ultimo, il senso del dovere e della responsabilità.
I fatti raccontati dall’ex ispettore ai monumenti e scavi della Libia
orientale risultano talmente impressionanti, in quanto colmi di ricordi
freschi, di gesti normali, necessari e imprescindibili – allorquando la quotidianità era soffocata dagli accidenti bellici – e quindi ancor più carichi di
passione e di dedizione per la propria professione di archeologo militante,
da non lasciarci indifferenti. Anche quando dichiarava nel suo rapporto
che non aveva ricevuto «alcuna preventiva istruzione in merito alla difesa
del patrimonio archeologico della Libia» e ciò nonostante si sentiva spinto
ad agire subito, «di propria iniziativa». Nelle tre pagine di premessa agli
allegati, nei quali elencò giudiziosamente il contenuto delle due cassette,
nelle pieghe di un linguaggio assertivo e burocratico, egli lascia trasparire
una sotterranea partecipazione umana e un moto di sottile collera sembra
affiorare laddove, per tre volte, ricorda le incombenze piovutegli addosso
in seguito alla partenza del titolare, prof. Giacomo Caputo. Si capisce che
sono la paura e la preoccupazione insieme a generare quella larvata collera,
che altro non è che la naturale reazione di un uomo lasciato drammaticamente solo a fronteggiare una situazione più grande di lui.
Le sue parole vibrano, e netta si avverte la sensazione che, se ci sono due
qualità in cui non difetta, queste sono il coraggio e il senso di responsabilità. Dirà infatti, riferendosi al materiale prezioso della Tripolitania, «che
– sebbene non di mia specifica spettanza essendone personalmente con267
Francesca Gandolfo
segnatario il titolare prof. Caputo – pur tuttavia mi incombeva il dovere
di provvedervi»66. Incaricato della salvaguardia del tesoro della Cirenaica,
Pesce aveva già portato al sicuro, nell’Ufficio Scavi di Leptis Magna, le
oreficerie, le monete della collezione Meliu e varie altre suppellettili preziose provenienti dai cantieri di scavo e di restauro a lui affidati: Cirene,
Tolemaide e Tocra.
Il 6 gennaio 1941, giorno della befana, egli si trovava in casa a Bengasi,
a festeggiare il battesimo dell’ultimo nato, quando fu raggiunto da un carabiniere che gli comunicò di recarsi immediatamente al Governatorato di
Cirene. Il colonnello Granata gli annunciò che era in atto il ripiegamento
dei reparti italiani e che il maresciallo Graziani gli ordinava di imballare
e trasferire verso occidente statue, stele, cippi, basi, busti, teste, bronzi,
terracotte, vasi, monete, gemme, sarcofagi.
Chi non abbia mai visto Cirene e crede che essa consistesse tutta in ciò, che n’è pubblicato nelle opere d’archeologia e nelle riviste divulgative, si sbaglierebbe. Oltre ai
quattro complessi architettonici monumentali (Piazzale d’Apollo, Agorà, Tempio di
Zeus e Necropoli), esistevan due grandi musei – l’epigrafico e l’archeologico – costituiti in due stabili distinti, ciascuno dei quali conteneva centinaia di monumenti:
[…]. Ma non basta: una collezione di statue di grande formato era nel salone Anceschi delle Terme del Piazzale d’Apollo; statue colossali eran nella Casa Parise; statue
votive, funerarie, onorarie e decorative erano state lasciate in situ, per l’immensa zona
monumentale, altre statue e sarcofagi colossali nel vasto magazzino archeologico. In
quest’ultimo, poi, migliaia di oggetti minuti di terracotta, di vetro, di bronzo e via
dicendo erano allineati in bell’ordine, con i relativi cartellini, sopra scaffali di legno in
giro alle pareti. Tutto questo immenso patrimonio doveva essere imballato e caricato
sugli autocarri in brevissimo tempo. C’era di che sudar freddo al solo pensarci, ma
c’era poco da pensare, bisognava agire, risolvere subito i problemi tecnici, via via che si
presentavano, superare ad ogni costo ogni difficoltà. […] e fu estratta dal muro d’una
delle sale la grande cassaforte contenente i preziosi67.
Nella sua travagliata missione di salvataggio archeologico, egli incontrerà difficoltà a non finire, piccole e grandi, come quella appena descritta,
che affronterà con ineludibile razionalità, date le circostanze. Impedimenti
di tipo burocratico si alterneranno a ostacoli pratici, ora a Cirene, ora a
Bengasi o a Tripoli. A causa del secondo ripiegamento delle truppe italiane, verranno perse a Bengasi le chiavi dei due cofanetti contenenti monili,
argenterie e monete e Pesce si troverà costretto a forzarli.
268
Il tesoro archeologico della Libia
Data la circostanza che, come già da me fatto presente al Governo, le
chiavi dei due forzieri erano andate disperse a Bengasi in occasione del
secondo ripiegamento, trattavasi o di spedire i forzieri così come erano o
di aprirli forzandoli in qualsiasi modo, prelevarvi il contenuto e sistemarlo
diversamente allo scopo di ridurre più che possibile peso e volume; partito
quest’ultimo cui il Governo ritenne più opportuno attenersi. L’operazione
del forzare gli scrigni non essendo stata possibile eseguirla nell’Ufficio Scavi di Leptis Magna per varie difficoltà fra cui la mancanza di un meccanico,
mi fu necessario trasferire detti colli a Tripoli, collocarli temporaneamente nel laboratorio fotografico del Castello avendo cura di domandare con
lettera 3816 del 20/XI/42 al Governo che si provvedesse ad un servizio di
sorveglianza da parte dei RRCC e di adottare le necessarie precauzioni per
preservarli da eventuali bombardamenti68.
L’incubo della guerra in Tripolitania e in Cirenaica: una cronaca in
diretta
Per capire meglio lo svolgimento degli avvenimenti dobbiamo rifarci
al quadro bellico, seguendo un ordine cronologico che risale al novembre
del 1942, quando gli anglo-americani sbarcarono sulle coste del Marocco e
dell’Algeria. Le truppe italo-tedesche, insediate in Tunisia, cercarono invano di ostacolarne l’avanzata ma furono costrette a ritirarsi nell’entroterra,
inseguite dalla 8ª Armata britannica. La Libia a quel punto fu abbandonata dall’armata corazzata italo-tedesca e dalla 5ª Armata italiana. È facile
immaginare quali tragiche conseguenze si abbatterono sulla popolazione
civile nell’antica colonia italiana. Ci racconta Del Boca che «la regione più
devastata dalla guerra è comunque la Cirenaica, che in tre anni subisce due
offensive italo-tedesche e tre controffensive britanniche»69. È dai ricordi
dei sopravvissuti che riusciamo a cogliere con nettezza l’orrore della guerra:
Quando arrivò l’ordine di sgombrare era mezzogiorno ed avevamo appena versata la
pastasciutta nei piatti. Ma non ci fu il tempo per mangiare. Buttammo le nostre valige
sugli autocarri e la colonna imboccò la Balbia con destinazione Tripoli. Il viaggio durò
quattro giorni e fu un viaggio d’ inferno. Ogni tanto gli aerei inglesi sorvolavano la
nostra autocolonna per mitragliarla o bombardarla. Noi allora ci buttavamo giù dai
camion e correvamo lontano dalla strada gettandoci per terra. Se qualcuno rimaneva
ucciso, lo seppellivamo con due palate di sabbia. Poi si riprendeva il viaggio. Quando
arrivammo a Castel Benito, l’aeroporto di Tripoli, ci imbarcarono su alcuni Junker
269
Francesca Gandolfo
tedeschi, che ci trasferirono a Castelvetrano, in Sicilia. Con l’Africa avevamo chiuso,
ma ora per noi cominciava una nuova odissea70.
Di lì a poco anche in Tripolitania la vita diventerà un incubo, soprattutto per i nostri coloni, ma non solo. In questa sorta di eredità testamentaria che sono le pagine che Gennaro Pesce ci ha lasciato, vi sono descritti
episodi di vita quotidiana, meritevoli di essere citati, non soltanto per via
di quella intensità narrativa che è propria di chi li ha vissuti, ma perché
marcano uno stile di pensiero e di comportamento difficilmente ripetibili.
Stile che contrasta con la devastazione e la miseria morale, civile e culturale
che la guerra trascina diabolicamente con sé e che insorge, a dispetto di
tutta questa barbarie, in quanto frutto delle «fatiche di una generazione
d’italiani». Fatiche che non sono state buttate via ma che, in un momento
così drammatico, vengono riprese – dice Pesce – da «altri italiani», fra cui
lui, perché in esse vi è quel potere salvifico capace di proteggere e trasmettere ai posteri un «patrimonio di valori culturali» ed etici. Nel 1953, dieci
anni dopo i fatti che stiamo narrando, affiderà a queste parole la conclusione del suo testo:
Nel turbine d’una guerra, in mezzo a un’umanità abbrutita dalla libidine del distruggere, è impresa difficile difendere i valori della cultura. Promotrice di questa difesa fu
in Libia l’Armata italiana la quale, pur nel tragico sconvolgimento della sconfitta, si
preoccupò di questi ideali interessi. L’Amministrazione militare britannica, colà subentrata all’Italia, ed oggi lo Stato autonomo della Libia hanno continuato e continuano l’opera nostra, in omaggio a quella «religione dell’antichità», che è sentita da
ogni popolo civile71.
Il passato, dunque, viene alla luce come eredità complessa: fatta di cose
antiche, miti, superstizioni, tradizioni, abitudini, costumi, «fatiche», riferimento «vivo» e perciò stesso ricco di pathos e di coscienza che si trasforma
in un presente agito. Non bisogna dimenticare che la mente umana contiene ragione e irrazionalità e tutte e due godono di ottima salute. Il che
significa che il passato ospita significati antitetici ed è per questo che la
storia dell’uomo è costellata di misteri e ambiguità che stimolano l’inconscio desiderio di svelarli. Se non avessimo avuto la possibilità di accedere
alle due cronache, una in diretta (1942) e l’altra in differita (1953), che l’ex
ispettore ci ha lasciato in eredità, in qualità di «testimone oculare» e di «attore di quelle vicende», noi oggi non avremmo avuto la possibilità di aprire
270
Il tesoro archeologico della Libia
il nostro orizzonte di senso nella prospettiva di una interpretazione allargata e pluralistica su ciò che successe ai beni archeologici nei mesi cruciali
della disfatta italiana in Libia. Non avremmo avuto una spiegazione basata
su fatti concreti e su una serie di interessanti circostanze secondarie. Non
avremmo altresì avuto alcun riscontro significativo in merito a quanto dichiarato in un libretto del Ministero della Cultura Popolare dal titolo Che
cosa hanno fatto gli inglesi in Cirenaica72, edito nel luglio 1941, sull’entità
delle distruzioni belliche operate da inglesi e australiani nei musei di Cirene. Senza negare il fatto che gli inglesi erano animati da intenti punitivi
nei confronti degli italiani, tuttavia è opportuno ricordare a tale proposito
quanto scrive il «testimone oculare» di allora:
Questo volumetto, oggi del tutto dimenticato [siamo ormai nel 1953; n.d.A.], contiene una documentazione per mezzo di fotografie, fac-simili di lettere, racconti di
testimoni e via dicendo, circa il modo come la truppa mercenaria al soldo degl’inglesi,
occupanti la Cirenaica nell’invernata del 1941, si comportò nei confronti delle persone e delle cose del territorio occupato. Fra le pagine 40 e 41 del testo è una serie
di figure, tre delle quali riproducono vedute fotografiche di interni devastati, dove si
vedono statue in piedi e numerosi piccoli oggetti sparsi sul pavimento e più o meno
in frantumi. Tali figure sono illustrate da didascalie: Devastazioni di capolavori romani
nel Museo di Cirene: il museo devastato – Così com’è stato ridotto il museo di Cirene. Una
quarta figura riproduce una parete dello stesso museo con scritte di soldati australiani.
Nessun accenno, però, si fa nel testo a questa devastazione. Inoltre un film di propaganda, proiettato nelle sale cinematografiche d’Italia, mostrò vedute di sale dei musei
di Cirene piene di piedistalli privi di statue. Queste visioni ingenerarono nel pubblico
l’idea che il patrimonio archeologico della Cirenaica era stato dagl’inglesi in parte distrutto e in parte asportato come preda di guerra. I fatti, in realtà, erano andati molto
diversamente, ma le Autorità competenti si guardarono bene dal dire la verità, perché
impedite da un’elementare regola di politica, che vuole il nemico dipinto quanto più
nero possibile73.
Il testo monografico Che cosa hanno fatto gli inglesi in Cirenaica, uscì
anche sugli «Annali dell’Africa Italiana» con un titolo meno ad effetto –
Gli inglesi in Cirenaica 74 – ma il contenuto è lo stesso descritto da Pesce.
Vi si trovano infatti fotografie con sotto scritto: Devastazioni inglesi nel monumento dei caduti di Derna, il segno dei barbari – come si presentano i musei
classici della Cirenaica dopo l’evacuazione degli inglesi. 1. Bengasi. Incendi
provocati dal nemico in fuga. 2. Dinanzi al bel palazzo delle suore d’Ivrea e
via discorrendo. Così come vi si trovano riprodotti documenti, proclami e
271
Francesca Gandolfo
testimonianze che denunciano le malefatte della «perfida Albione», come
l’esposto fatto da un certo Bertaiola Umberto il 9 maggio 1941 su carta
intestata della R. Prefettura di Bengasi – Questura di Polizia dell’AFRICA
ITALIANA – Ufficio Speciale di Istruzione di Polizia di Barce, la cui didascalia è: Un singolare documento sulle ruberie degli inglesi in Cirenaica75.
[…] poco dopo l’occupazione inglese della Cirenaica, l’aiutante maggiore del Generale
Wilson, dopo essersi informato presso il direttore del consorzio agrario, dott. Rozzi, se
l’Ente avesse disponibilità di danaro, chiese al Rozzi la somma di lire 50.000 senza specificare a quale titolo la somma stessa dovesse essere versata. […] [ dopo varie resistenze
da parte italiana, n.d.A.] mi recai presso la cassa del consorzio che aprii unitamente al
dott. Rozzi prelevandone la somma di lire 50.000 che inviai al comando inglese […].
Circa una decina di giorni dopo verso il tramonto […] il dott. Rozzi e il dott. Piscopo
segretario del consorzio rientrando nella abitazione del primo ove era stata collocata
la cassa trovarono […] un sacco parzialmente riempito di oggetti vari di proprietà del
Rozzi. Pochi istanti dopo la porta d’ingresso si apriva e ne entravano due individui
armati di pistola, entrambi in uniforme inglese, […] i quali imposero loro di alzare le
mani costringendoli ad aprire la cassa forte […]. I due si impadronirono di una parte
del denaro circa lire 100.000 (centomila) e di altri documenti vari, allontanandosi poi.
Vero o falso quanto dichiarato, lascia perplessi il fatto che si faccia una
rapina con tanto di firma, l’uniforme inglese, e che l’aiutante maggiore del
generale Wilson non abbia un nome e un cognome. Non sarebbe stata la
prima volta che la propaganda politica fascista fabbricava un prodotto che
soddisfaceva in pieno le aspettative del suo pubblico per raggiungere il preciso scopo di dipingere il nemico «quanto più nero possibile». Scrive Munzi:
[…] Sebbene la maggior parte della statuaria e degli oggetti di valore fosse stata trasferita d’urgenza in previsione dell’occupazione inglese, erano rimaste sul posto alcune
statue insieme a numerosi oggetti minori: sono questi i materiali di Cirene rovinati
o trafugati, mentre più grave è la devastazione del Museo di Tolemaide, ma l’esagerazione propagandistica dell’Agenzia Stefani è contraddetta dai racconti di Pesce e dal
resoconto steso da Caputo dopo la sua visita nella Cirenaica riconquistata dall’Asse:
alla fine si contano cinque teste in marmo sparite, due o tre statue danneggiate e un
largo numero di oggetti minori o fragili andati distrutti o dispersi.
[…] A conclusione delle ostilità la responsabilità delle devastazioni di Cirene e Tolemaide, comunque imbarazzanti per gli Alleati, sarebbe stata attribuita concordemente
dalle due parti ad alcuni facinorosi elementi delle comunità locali, che avrebbero approfittato dell’interregno di diversi giorni occorso tra il ripiegamento italiano e il pieno
controllo inglese76.
272
Il tesoro archeologico della Libia
Tra le traversie affrontate da Pesce durante quelle che definirà «le squallide giornate che videro l’agonia di Tripoli italiana» vi fu il recupero nella
filiale tripolina della Banca d’Italia del tesoro della Tripolitania.
Per quanto riguarda il tesoro della Tripolitania […] detto tesoro trovavasi depositato
presso la Banca d’Italia di Tripoli, nella cassetta di sicurezza n. 14 intestata personalmente al prof. Caputo, che ne aveva le chiavi e la relativa tessera (lasciate da lui in consegna al delegato contabile di questa S. Intendenza Santuccio Salvatore). Nello stesso
periodo in cui si svolgeva la pratica in oggetto tra questa S. Intendenza ed il superiore
Governo della Libia, perveniva a questa S. Intendenza una cartolina della Segreteria
della Banca d’Italia, che invitava il prof. Caputo a recarsi alla Banca per cose che lo
riguardavano. Recatomi io invece di lui, che era già partito appresi dal segretario Trani
l’ordine ( pubblicato con apposito Bando-Allegato n. 2 – a firma del Governatore Generale della Libia ed affisso nei locali della medesima Banca) che tutti i valori depositati
nelle cassette di sicurezza della Banca dovevano essere ritirati dagli interessati. Munito
quindi di regolare autorizzazione dal Governo, addì 26/XI/ c.a. alla presenza del cavalier Turba, del Santuccio e dello Sciortino, ritirai dalla Banca d’Italia il contenuto
della cassetta n. 14 consistente principalmente in n. 2 pacchi quadrangolari di diversa
grandezza avvolti in carta bianca di imballaggio sigillati e muniti di etichetta (recante il
nome di Giacomo Caputo, Turba Luigi, Tedeschi Cesare, Santuccio Salvatore). Oltre
ai due suddetti pacchi fu trovato uno scatolino avvolto con spago che riconobbi per
averlo io stesso consegnato alla S. Intendenza e contenente oggetti scoperti negli ultimi
scavi di Tolemaide77.
La ricognizione prima della partenza per l’Italia
Nella relazione sulla ricognizione del tesoro della Libia stilata a Roma
dalla commissione presieduta da Moreno, si accennava molto sinteticamente agli oggetti che lo componevano: «[…] nella cassetta n. 1 furono
collocati il tesoro già conservato nella cassaforte del Museo di Cirene, le
monete della collezione Meliu, alcuni preziosi di Tolemaide, etc…. nella
cassetta n. 2 furono messi: il tesoro della Tripolitania, oggetti da Tolemaide, Barce, Bengasi, Cirene e il tesoro dello Artemision di Cirene»78. Si rinviava, infatti, ai dodici verbali compilati durante le sedute tenutesi dal 21
luglio al 18 settembre 1945 e al più accurato rapporto redatto a Tripoli.
Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia79, così si intitola la relazione ufficiale che il Soprintendente
reggente ai Monumenti e Scavi di Libia inviò il 19 dicembre 1942 alla
Direzione Affari Civili e, per conoscenza, alla Direzione del Personale del
273
Francesca Gandolfo
Governo della Libia e all’Ispettorato Generale Scuole e Archeologia del
MAI. Ben tredici pagine dattiloscritte, dense di notizie di prima mano su
chi, cosa, quando, come e perché, comprensive dei rispettivi allegati, si trovano conservate nel Fondo dell’ex Ufficio Studi del Ministero dell’Africa
Italiana80. Il dossier comprende un minuzioso «elenco degli oggetti facenti
parte del tesoro archeologico della Libia contenuti in n. 2 cassette di legno
tipo militare, che furono spedite nella capitale per essere recapitate all’Ispettore Generale per le Scuole e l’Archeologia presso il Ministero dell’AI»,
cui si aggiunge l’inventario di artefatti provenienti da un altro tesoro, quello dell’Artemision di Cirene81.
Premesso che al momento dell’aggravarsi della situazione militare in Libia, il Prof.
Giacomo CAPUTO, titolare di questa Soprintendenza, si imbarcava per recarsi in
missione nel Regno, lasciando al sottoscritto Ispettore delle antichità della L. O. (Libia
Orientale, n.d.A.) dott. Gennaro Pesce la reggenza di questa Soprintendenza, nella
sua nuova qualifica di Reggente di questa Soprintendenza. Pur non avendo ricevuto
alcuna preventiva istruzione in merito alla difesa del patrimonio archeologico della
Libia nelle presenti contingenze dal suddetto titolare Prof. Caputo, tuttavia di propria
iniziativa, prospettava (con lettera n. 3781 del 16/XI/42 indirizzata alla Direzione AA.
CC. e del Personale) al Governo della Libia la necessità, di trasferire nel Regno tutto il
complesso di minuti oggetti preziosi costituenti il tesoro archeologico della Cirenaica
e della Tripolitania.
Pertanto, previ accordi verbali col Direttore Capo del Personale Conte della Croce,
il sottoscritto si recò personalmente addì 20/XI/42 con un camioncino del Governo
a Leptis Magna, dove rilevò n. 4 colli già depositati presso quell’Ufficio Scavi. Detti
colli erano:
n. 1) - cassaforte del Museo di Cirene contenente preziosi vari di quel medesimo Museo; n. 2) - cassette ferrate già dell’Ufficio Scavi di Tocre contenenti monete e preziosi
vari di Bengasi e di Tolemaide e di altre località della Cirenaica; n. 3) - cassetta in legno
sigillata contenente 14 oreficerie dello Artemision di Cirene; n. 4) – cassetta in legno
sigillata contenente monete della collezione Meliu e varie altre suppellettili preziose.
Questo è l’incipit del rapporto ufficiale82 che l’ex ispettore inviò a Roma. Con puntigliosità certosina egli raccontò, giorno dopo giorno, quel
che accadde prima di passare allo spoglio del materiale archeologico. Storie
di ordinaria amministrazione che in quel frangente risultavano straordinarie – dal falegname arabo di Tripoli che costruì le gloriose due cassette che
arrivarono alla stazione Termini, all’ufficiale dei carabinieri, di cui non si
conosce il nome, che le scortò lungo tutto il viaggio da Tripoli a Roma – e
che in parte abbiamo già raccontato.
274
Il tesoro archeologico della Libia
Gennaro Pesce riuscirà a mettere in salvo e a far arrivare nel Regno,
il 6 gennaio 1943, circa settemila reperti d’oro, d’argento e di bronzo, il
cui peso complessivo si aggirava sui cento chilogrammi, contenuti in due
cassette «in legno compensato e abete che misurano ciascuna in lungh. m.
0.80 largh. m. 0.345 altezza m. 0.28 e pesano la prima (n. 1) kg. 63 circa
la seconda (n. 2) kg. 42 circa»83. Per portare a termine tutta l’operazione
egli coordinerà una squadra di cinque persone così composta: Luigi Turba,
geometra, Flaminio (detto Nino) De Liberali, fotografo, Sante Gaudino,
tecnico giornaliero, Santuccio Salvatore, delegato contabile della Soprintendenza, Vincenzo Sciortino, tecnico. Tutti firmatari con lui del verbale
e degli elenchi degli oggetti facenti parte del tesoro della Cirenaica, del
tesoro della Tripolitania e del tesoro dell’ Artemision di Cirene.
A dargli man forte vi furono l’inserviente libico Gibrin, che trasportò
i due pacchi sigillati contenenti il tesoro della Tripolitania dalla succursale
della Banca d’Italia di Tripoli alla soprintendenza, il ragioniere Portoso che
ospitò nella sua stanza per alcuni giorni il tesoro, Eugenio De Liberali,
capo meccanico dell’officina meccanoidraulica Malagoli che «addì 27/XI
aprì le cassette del Museo di Cirene [di cui si erano perse le chiavi a Bengasi, n.d.A.] schiodandone il fondo alla presenza del sottoscritto [Gennaro
Pesce, n.d.A.], del tecnico […] Sciortino Vincenzo nei locali del nostro
laboratorio fotografico»84. Poi, lo stesso giorno, insieme a Turba, Sciortino
e gli altri testimoni85, Pesce trasferì i monili, le monete, le medaglie, i basamari, i dischetti, le statuette, le testine, vari oggetti fittili e altri manufatti
di piccole dimensioni nella nuova cassetta di legno che contrassegnò con il
n. 1. L’indomani essi procedettero all’apertura di un’altra cassaforte sigillata, la « n. IV del vecchio elenco», il cui contenuto fu spostato nella cassetta
n. 1. Il 1° dicembre, ad essere sistemato nella seconda cassetta di tipo militare fu il tesoro dell’Artemision di Cirene, il «n. III del vecchio elenco».
Il 2 dicembre il gruppo si dovette trasferire nell’officina meccanoidraulica
di Malagoli a Tripoli, in via Vittorio Veneto, per aprire un altro «scrigno
ferrato (n. II del vecchio elenco)», il cui contenuto, una volta ritornati
al laboratorio fotografico nel Castello della vecchia cittadella tripolina, fu
riversato anch’esso nella cassetta n. 2.
Dopo il tesoro della Cirenaica, venne la volta di quello della Tripolitania che, come sappiamo, si trovava in una cassetta di sicurezza della filiale
della Banca d’Italia di Tripoli, e che l’ex ispettore riuscì a far trasportare
in Soprintendenza dall’«inserviente libico Gibrin» e a chiudere a chiave
275
Francesca Gandolfo
nella stanza del ragionier Portoso. Ma fu nell’ufficio tecnico del Castello
– alias laboratorio fotografico – che avvennero le operazioni più delicate:
l’apertura, il controllo e la risistemazione del prezioso contenuto nel nuovo cofanetto di legno, il n. 2. Con qualche variante, si ripeteva lo stesso
inevitabile iter burocratico adottato per il tesoro di Cirene. Attori e scene
erano sempre gli stessi.
Vi furono dei piccoli colpi di scena. Uno di questi si verificò quando,
il 1° dicembre 1942, nell’ufficio tecnico del Castello i presenti si accinsero
ad aprire i pacchi. Immediatamente si accorsero, e non senza una certa
apprensione, che uno dei due presentava una lacerazione nella carta di
imballaggio ai due angoli inferiori. A causa di questa rottura (subito annotata e l’involucro accuratamente sistemato, come prova, nella cassetta
insieme agli ori e agli argenti) era caduta a terra una moneta d’oro araba,
presumibilmente appartenente alla serie di monete arabe ritrovate in fondo
al pacco. Il rinvenimento fu fatto il giorno prima dell’apertura ufficiale dei
plichi, il 31 novembre 1942.
Pesce ci tiene a sottolineare un particolare che ai non addetti ai lavori
sembrerebbe irrilevante, ma che per un archeologo è un dettaglio importante, in quanto il dettaglio ha senso se è riferito a un contesto. Ed è da
questo piccolo e apparentemente insignificante particolare che capiamo
quanto sia stata decisiva la sua figura professionale anche sul piano scientifico oltre che su quello logistico, laddove una corretta registrazione del dato
è espressione di una metodologia scientifica altrettanto corretta. La moneta
araba caduta a terra non fu rimessa con le altre, non potendosi dimostrare
al momento, ma solo ipotizzare, la sua appartenenza al gruppo di monete
arabe presenti nel pacco stracciato. Venne così segnalato l’anomalo rinvenimento e la moneta fu custodita in una bustina a parte dentro la «busta n.
24 dell’elenco relativo al materiale della cassa n.1». Una regola generale in
archeologia vuole che, se per una serie di deduzioni o induzioni, qualcosa
può essere e quindi probabilmente è e, ciononostante, non si può provare,
deve permanere il dubbio fino a prova contraria documentata.
C’è da aggiungere che la situazione era di per se stessa estremamente
delicata e rischiosa. Pesce era consapevole che la sua nuova investitura lo
esponeva a critiche e a pesanti responsabilità, qualora l’esito dell’operazione non fosse stato positivo. Volente o nolente, era lui in quel momento responsabile della salvezza di una considerevole parte del patrimonio
archeologico della Libia. Il tesoro della Libia era di fatto nelle sue mani
276
Il tesoro archeologico della Libia
ed egli avrebbe dovuto preventivamente scongiurare lo scatenarsi di ogni
possibile «caccia al tesoro» da parte di chiunque, non soltanto del nemico.
Occorreva agire in fretta, bene e con assoluta trasparenza.
E non sarà, parafrasando Munzi, l’ultimo soprintendente italiano, insieme al suo collaboratore l’ispettore Gennaro Pesce «rimasto sempre sul
posto», a salvare, nei momenti più difficili della guerra, «i beni archeologici
della Libia dalle distruzioni e devastazioni belliche»86. Sarà piuttosto il contrario. Il facente funzioni di soprintendente Gennaro Pesce, nominalmente
insieme al suo superiore, ma di fatto solo, salverà l’eredità archeologica
italiana in Libia. L’immagine dell’archeologo italiano tratteggiata da Raimondo Zucca87 in una nota biografica, risponde in pieno a quanto affiora
dalla lettura delle fonti d’archivio relative al tesoro della Libia.
Gennaro Pesce, in virtù del ritorno in Italia del soprintendente Caputo, fu investito
della responsabilità archeologica dell’intera Libia, proprio mentre la guerra infuriava
sulla «quarta sponda». In quel drammaticissimo frangente Pesce, con un’abnegazione
totale, conscio del valore universale dei beni culturali affidati alla sua tutela, salvò un
patrimonio inestimabile dalle devastazioni che la sorda guerra comportava.
Dopo il definitivo arrivo delle armate inglesi, lo spirito dell’archeologo fu capace di
superare le logiche nazionalistiche per collaborare con il neo costituito Department of
Antiquities della Libia, retto da uno dei più grandi archeologi inglesi del Novecento,
il Ward Perkins, scavando a Sabratha il tempio di Iside e studiando la decorazione
pittorica e musiva delle piccole terme di Leptis Magna.
Il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai88 riconobbe a
Gennaro Pesce il merito di aver impedito la distruzione dei beni archeologici e del materiale grafico e fotografico della Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia e propose di insignirlo della medaglia d’argento
come benemerito delle arti89. Un riconoscimento giusto perché quanto
accadde non fu, come si è visto, l’effetto di una concatenazione di cause
impersonali, ma fu il frutto del lavoro di pochi uomini che, ben guidati,
seppero dare dignità alla scienza e a se stessi. Un lavoro «oscuro» ai più, ma
tanto più nobile perché fuori da ogni retorica e strumentalizzazione politica. Pesce decise, infatti, in completa solitudine, di prospettare «al Governo
della Libia la necessità di trasferire nel Regno tutto il complesso di minuti
oggetti preziosi costituenti il tesoro archeologico della Cirenaica e della
Tripolitania» e se ne assunse i rischi90.
Non c’era bisogno di una fervida immaginazione per capire che il va277
Francesca Gandolfo
lore commerciale dei settemila reperti archeologici che andavano sotto il
nome de Il Tesoro archeologico della Libia, la maggior parte dei quali d’oro
e d’argento, era incalcolabile, così come lo era quello storico-culturale. E
neppure ci voleva un genio per immaginare quali interessi si potessero accendere intorno a un tesoro che viaggiava nel bel mezzo di una guerra e
quali pericoli e problemi pratici questo potesse comportare. L’avventuroso
episodio di cui Pesce si rese protagonista per proteggere la collezione Meliu
e la raccolta di monete greche e romane, trovate per caso durante i lavori
per l’edificazione del palazzo dell’I.N.A. in via Roma a Bengasi, ne è un
emblematico esempio.
Nel 1939 il governo italiano aveva acquistato la collezione numismatica
Meliu. Una raccolta di grande importanza perché comprendeva «le serie
complete delle antiche monete della Cirenaica, tutte quelle dei Lagidi, numerose monete romane repubblicane ed imperiali, bizantine, rinascimentali». Centinaia di esemplari d’oro, d’argento e di bronzo che si trovavano
depositati in uno stipo-medagliere nell’ufficio dell’ispettore insieme a un
«tesoretto di monete d’argento greche e romane, trovato due anni prima
durante uno scavo fortuito in Bengasi»91. L’ispettore non aveva fatto in
tempo a spedire il medagliere con gli automezzi civili della Prefettura che,
nel frattempo, si erano resi disponibili. La situazione intanto peggiorava di
giorno in giorno92:
Una sera – la città era paurosamente circondata da incendi, provocati dalle incursioni
aeree precorrenti l’arrivo del nemico – mi recai nel mio ufficio insieme col più fidato dei miei dipendenti (il fotografo Demech), traemmo le monete e ne riempimmo
dei sacchetti, che portammo a casa mia, dove li chiudemmo in fondo ad una cassa contenente libri. Durante i primi giorni dell’occupazione tutto andò liscio. Ma il
mio cuore cominciò a pulsar più forte, quando la truppa australiana e neozelandese
si diede al saccheggio metodico della città. Era tanto metodico quel saccheggio, da
potersi prevedere con forte approssimazione il giorno in cui sarebbe toccato a questo
o a quell’altro stabile, […]. Nel caso – possibilissimo – che i saccheggiatori avessero
scoperto e portato via le monete, io mi sarei trovato in questa terribile alternativa:
se li avessi denunciati, avrei dovuto implicitamente confessare di avere occultato dei
beni statali all’Autorità occupante, col rischio di finire in campo di concentramento;
se avessi taciuto, avrei dovuto poi fare i conti col Governo italiano, in quanto avevo
commesso un’illegalità […] mi venne un’idea. La popolazione di Bengasi si difendeva
dai saccheggiatori murando le porte esterne delle case e delle botteghe. Io feci qualcosa
di simile […], feci accatastare le casse con i libri e con le monete, più il meglio delle
mie masserizie nell’ultima stanza di casa, feci murare la porta di questa stanza dai miei
278
Il tesoro archeologico della Libia
fidi operai di Tolemaide, […], feci addossare una credenza all’esterno della parte murata […], misi il resto della casa in disordine per simulare un saccheggio già avvenuto
e mi trasferii con la mia famiglia in un grande rifugio pubblico al centro della città.
Il trucco riuscì felicemente: australiani entrati in casa la cedettero già visitata da loro
camerati, si limitarono a svuotare una bottiglia di liquore (l’avevo lasciata apposta per
loro!), si presero una valigia di biancheria, dimenticata dalla nostra domestica […] e
se ne andarono, grazie alla Divina Provvidenza, senz’essersi accorti della porta murata.
Le monete eran salve.
Il tesoro si trasferisce nel Regno
È risaputo che l’interesse e l’ingordigia da sempre suscitati dai tanti
«tesori» scoperti da archeologi, esploratori, avventurieri, proprietari di
fondi, sia che si tratti di oggetti fatti con metalli nobili, sia che si tratti di
città sepolte, monumenti, fondazioni o altro, sono sempre stati straordinariamente forti per l’impatto emotivo da essi provocato e per la valenza
simbolica loro attribuita, oltre che per il valore intrinseco. Il tempo ha poi
fatto il resto. La maestria degli artigiani greci ed etruschi nell’arte orafa
continua a essere celebrata, ieri come oggi, e le antiche tecniche orafe (sbalzo, filigrana, «granulazione») continuano a essere ammirate e in alcuni casi
riprodotte, come fecero nell’Ottocento, magistralmente insuperati, orafi
del calibro dei fratelli Castellani, commercianti, antiquari, archeologi e
amanti delle antichità93. «Gli oggetti di metallo prezioso – si sa –, scrive
Pesce, destano la cupidigia e perciò son più d’ogni altra cosa esposti al pericolo di finire in mani diverse da quelle del legittimo proprietario»94. Un
irresistibile desiderio al quale si sono abbandonati anche illustri archeologi
quali Heinrich Schliemann, «scopritore delle città dell’epoca del bronzo
di Troia e Micene» e Henry Layard di Austen, che scavò i resti della città
assira di Nimrud, i quali commisero delle vere e proprie ruberie:
Schliemann impacchettò il «Tesoro di Priamo» e lo fece uscire di nascosto dalla Turchia nel 1873, mentre Layard donò sculture assire a sua cugina Lady Charlotte Guest
per la sua casa di campagna in Inghilterra. Nel 1869, quando Layard sposò la figlia di
sua cugina, Enid Guest, le donò una parure di gioielli archeologici composta da autentici sigilli cilindrici e a stampo della Mesopotamia, che comprendeva un bracciale con
il «sigillo di Esarhaddon», trovato da Layard a Nimrud95.
Se il valore commerciale dei gioielli riprodotti dai Castellani è oggi
elevatissimo, figuriamoci quello rappresentato dagli autentici gioielli ar279
Francesca Gandolfo
cheologici che componevano il tesoro della Libia e di cui purtroppo si sono
perse le tracce. Dal rapporto di Pesce si apprende che:
Terminato questo faticoso e indispensabile lavoro di sistemazione ed elencazione degli
oggetti, si è proceduto al temporaneo prelevamento di alcuni oggetti inediti dei recenti
scavi di Cirene e di Tolemaide, che sono stati consegnati al fotografo De Liberali per
fotografarli. Durante questo periodo le chiavi dei lucchetti delle due cassette in questione sono state da me affidate al Cav. Turba, che ha provveduto a rimettere al loro
posto i detti oggetti dopo le fotografie, incassa[re] il tutto, chiudere e ferrare le casse e
restituirmi le chiavi96.
Come d’abitudine, i manufatti archeologici venivano fotografati oltre
che inventariati e catalogati e dunque forse, da qualche parte, potrebbero
ancora esistere delle fotografie. Oltretutto, non trattandosi di materiale ordinario, vasellame da cucina per intenderci, ma di artefatti preziosi - pezzi
unici, dal momento che non esisteva ancora l’oreficeria in serie - veniva
loro attribuita una grande importanza e quindi con maggiore solerzia si
procedeva ad attente investigazioni scientifiche. Quasi certamente dovevano esserci, almeno per una parte di essi, annotazioni sui giornali di scavo,
schizzi, schede tecniche e probabilmente studi già pubblicati o in corso. Il
tutto bruscamente interrotto dalla guerra. È lo stesso Pesce a dircelo indirettamente quando afferma che:
Gli elenchi che seguono sono necessariamente sommari, non essendo stato possibile
procedere ad un dettagliato inventario descrittivo, a causa dell’urgenza massima richiesta dal servizio, che è stato eseguito negli intervalli fra le violente incursioni aeree
subite dalla città di Tripoli nei giorni tra fine di novembre e i primi di dicembre c.a.97.
Se ci fosse stato più tempo e meno raid aerei, con relativi sganciamenti
di bombe, Pesce avrebbe potuto redigere un elenco più corposo che, come
intuiamo dalle sue stesse parole, quando parla della impossibilità di procedere a «un dettagliato inventario descrittivo», era in grado di fornire. E
questo surplus di dati avrebbe consentito una diagnosi culturale delle raccolte in esame, qualitativamente e quantitativamente interessante, con la
possibilità di stabilire collegamenti trasversali fra gruppi o singoli reperti e
relativi contesti di scavo. Si è invece costretti a rinunciarvi, ma si potrà non
rinunciare in futuro a formulare ipotesi esplicative, insite nel ragionamento diagnostico, alla luce delle fonti attualmente disponibili e di ulteriori
280
Il tesoro archeologico della Libia
indagini mirate. Tuttavia, è lo stesso studioso a dichiararlo, vi sono degli
appunti, conservati nell’archivio di famiglia, concernenti lo studio del «tesoretto di monete d’argento greche e romane» rinvenuto fortuitamente in
via Roma a Bengasi, di cui Pesce pubblica alcuni dati preliminari98. Studi
appena iniziati e mai potuti terminare, prima a causa della guerra e poi
perché non ebbe più a disposizione i materiali.
I reperti alla fine vennero sistemati, singolarmente o a gruppi, per ridurne l’ingombro in vista del lungo viaggio via mare e via terra che avrebbero dovuto affrontare, «in sacchetti di carta oleata o in busta» che, nell’inventario, vennero chiamati «plichi». Ogni plico venne numerato in ordine
progressivo da 1 a 236. I plichi in questione contenevano il materiale facente parte del tesoro della Cirenaica, del tesoro della Tripolitania e quello
pervenuto da «località varie della Cirenaica». Per il Tesoro dello Artemision
di Cirene, si preferì lasciare la vecchia numerazione fatta a Leptis Magna,
nel gennaio 1942, che va da 1 a 1999.
Il 5 dicembre 1943 il reggente la Soprintendenza ai Monumenti e Scavi
della Libia comunicò al Governo generale italiano che le casse erano pronte per partire. Il 7 dicembre Pesce contattò il Capo del Personale Conte
della Croce per concordare le modalità della spedizione100. Il resto della
storia è noto. Dopo le rocambolesche vicende di cui fu oggetto il tesoro
della Libia e i suoi protagonisti, qui e di là dal Mediterraneo, siamo ritornati fatalmente al punto di partenza, come in un gioco dell’oca. Il tesoro,
nel maggio del 1944, fu trasferito al Nord, ma, presumibilmente, tornò a
Roma già a dicembre dello stesso anno e risulta essere stato depositato nel
Museo Coloniale, nella stanza deposito dei valori postali, dove si trovava
«una preziosissima collezione di francobolli e molte monete d’argento»101.
La sicurezza della stanza fu affidata a cinque carabinieri che si alternavano
nelle ventiquattro ore: da una a due unità di giorno, da due a tre unità di
notte102.
Che fine ha fatto il tesoro archeologico della Libia?
Si apprende dalle fonti d’archivio che nel luglio 1944 era già in corso
un’inchiesta dell’Autorità di Polizia Italiana sui materiali dell’Amministrazione Coloniale e sugli oggetti archeologici di pregio del Museo Coloniale103. A seguito delle indagini, si erano avute perquisizioni nelle abitazioni
di alcuni funzionari dell’amministrazione coloniale. Una di queste fu quel281
Francesca Gandolfo
la del comm. Angelo Piccioli, capo dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana. In tale circostanza il primo direttore del Museo Coloniale,
Umberto Giglio, aveva dichiarato
[…] tutti i materiali di pregio intrinseco (oltreché scientifico) di pertinenza del Museo
sono stati, a tempo opportuno, da me occultati e sepolti nei locali stessi del Museo
in modo tale da sfuggire con quasi assoluta certezza ad ogni ricerca dei nazi-fascisti,
dimodoché il tesoro, costituito da ori, argenti, monili, avori è integralmente salvo104.
Il tesoro di cui parla Giglio è con tutta evidenza un insieme di preziosi
reperti provenienti da tutte le ex colonie italiane e non soltanto dalla Libia. Infatti si citano, oltre alle sei casse «contenenti tutta la suppellettile
di argenteria del Governatore della Libia», avori e monili vari, sei corone
negussite «di rame dorato», che il maresciallo Graziani fece portare in Italia
da Addis Abeba 105. Poi Giglio fa un po’ di confusione e afferma che le «due
casse contenenti il cosiddetto “tesoro numismatico della Libia”» – che, verosimilmente, altro non era che il repertorio di ori e argenti comprendenti
le monete della collezione Meliu, le antiche monete della Cirenaica, dei
Lagidi e via discorrendo, di cui parla Gennaro Pesce nei resoconti dalla
Libia – furono trasportate da Guglielmo Narducci, delegato dal Governo
della Libia per la Mostra Triennale, da Napoli a Roma.
Questo è un punto cruciale della vicenda del tesoro archeologico
libico, in quanto Narducci non poteva portare a Roma ciò che non era in
suo possesso. Alla luce dei dati disponibili e della loro elaborazione, infatti,
non risulta che il tesoro sia partito da Tripoli prima della fine del dicembre
1942. Seguendo il filo degli avvenimenti così come ci vengono narrati
nella relazione del Soprintendente Reggente – nella quale sappiamo essere
minuziosamente descritte tutte le fasi preparatorie relative alla raccolta e
all’assemblaggio degli oggetti archeologici della Tripolitania e della Cirenaica – e nei documenti a essa collegati, le date non coincidono. La Mostra
Triennale delle Terre d’Oltremare venne chiusa nel maggio 1940, quando
ancora in Libia si conduceva una vita normale e la complessa operazione di
safekeeping, che Gennaro Pesce metterà in piedi a partire da quel fatidico 6
gennaio 1941, era ancora lontana dall’essere concepita.
Nonostante le incertezze per l’avvenire, la comunità italiana di Libia è all’avanguardia
nelle statistiche demografiche. Nel primo semestre del 1940 la natalità è del 28,4 per
mille, ossia il doppio del quoziente registrato in tutte le altre circoscrizioni del regno.
282
Il tesoro archeologico della Libia
Nei primi otto mesi del 1940 i nati vivi sono infatti 2310, i matrimoni celebrati 650.
[…] Per molti coloni che vivono lontano da Tripoli, nella Gefara o sul Gebel, e che
della guerra hanno soltanto le notizie che comunica la radio, la vita continua quasi
regolarmente, scandita dalle stagioni, dalle semine e dai raccolti106.
Poi vi fu un’accelerazione delle sorti della guerra che porteranno in
breve tempo le truppe alleate alla conquista della Cirenaica, dove Pesce
viveva con la famiglia. Quando il colonnello Granata bussò all’uscio della
sua casa di Bengasi, il giorno della Befana, informandolo della decisione
del generale Graziani di trasferire in territorio tripolino i monumenti e gli
oggetti archeologici più significativi dell’antica Cirene, la situazione era
già disperata. Appena un mese dopo, gli australiani entreranno a Bengasi.
Pesce racconta di aver sudato freddo all’idea di dover «svuotare» Cirene
dalle colossali statue che ornavano i suoi complessi architettonici e dalle
migliaia di manufatti stivati nei suoi due musei. Ma non ci pensò su due
volte e fece imballare e caricare tutto il possibile su automezzi militari. Fu
in quel drammatico frangente che procedette alla delicata operazione di
estrazione, dal muro di una delle sale del museo archeologico, della «grande cassaforte contenente i preziosi»107.
Se l’operazione Cirene avvenne nel gennaio del 1941 nei modi e nei
tempi narrati, come è possibile che lo stesso materiale prezioso fosse esposto alla Mostra Triennale chiusa allo scoppio della guerra? E se qualche
reperto fosse effettivamente transitato dalla Triennale, come è possibile che
Gennaro Pesce, così attento e scrupoloso, abbia omesso di parlarcene? E
tuttavia non è nemmeno pensabile che alla vigilia di una guerra si lascino
viaggiare per mare o per terra oggetti di così alto valore culturale e materiale. Evidentemente, all’epoca dell’esposizione di Napoli, il tesoro della
Cirenaica e quello della Tripolitania, che sappiamo essere stato prelevato
dalla succursale della Banca d’Italia di Tripoli il 26 novembre 1941, con
tanto di testimoni e autorizzazione governativa, erano entrambi in Libia.
Non sarebbe potuto essere altrimenti, visti gli esiti. E cioè, dapprima,
l’arrivo «in blocco» del tesoro archeologico da Tripoli a Roma e, in seguito, dopo alterne vicende, il suo «occultamento» e la sua «sepoltura» nei
locali del Museo Coloniale. Le parole sono di Umberto Giglio, scritte nel
rapporto che il 4 agosto 1944 inviò al Capo di Gabinetto del MAI108, a
seguito di un’inchiesta avviata dall’Autorità di Polizia Italiana, e di cui si è
riportato un breve stralcio a inizio paragrafo.
Il 15 gennaio 1945 è Massimo Adolfo Vitale, incaricato delle funzioni
283
Francesca Gandolfo
di direttore del Museo Coloniale, a riferire circa «alcuni preziosi in carico»
all’istituto:
Preciso che tali preziosi stessi sono regolarmente in carico, ed opportunamente custoditi, in attesa della generale sistemazione dei monili ed oggetti d’oro e d’argento109.
Fino a tutto il 1947, la spinosa faccenda del tesoro della Libia andò
avanti in un’ansiosa ricerca di legittimità e di sicurezza. Ad un certo punto,
però, il tesoro esce di scena, in modo inaspettato. E’ pur vero che prima
di questa ricostruzione c’era un «buco nero», di questo tesoro non se ne
conosceva più né l’esistenza né la consistenza. Ora perlomeno si sa che è
esistito, di quanti e di quali pezzi era composto e dove, una volta giunto
in Italia, fu custodito, almeno fino al 1947, stando alle carte. I documenti
esaminati, quelli, per intenderci, conservati nel Fondo ex Ufficio Studi del
Ministero dell’Africa Italiana, Pacco n. 20, 1944-55, tranne che per una
esigua parte, sono mischiati, non seguono un ordine cronologico. Soltanto
alcuni di essi sono in connessione tematica, pertanto è difficile incastrarli
l’uno con l’altro, ma soprattutto si ha chiara la percezione che non siano
completi. E così, spulciandoli uno ad uno e poi incrociandoli, ci si rende
conto delle assenze, di ciò che manca o resta incompiuto, di interlocutori
assenti. Ci si rende inoltre conto che gestire questo tipo di «assenze» è
insidioso, perché si perdono i riferimenti. Allo stesso tempo, questo proliferare di omissis aiuta, in una certa misura, a individuare la direzione verso
la quale orientare nuove indagini.
Non è irragionevole pensare che sussista qualche relazione tra la mancanza di documenti sul tesoro a partire dal 1948 e la sua successiva uscita
di scena. Il fatto stesso che 100 chilogrammi d’oro e d’argento siano stati
seppelliti nell’oblio e il tesoro non sia più stato nominato in quel carteggio,
non è esso stesso indicativo di una strada che si stava imboccando per poi
dimenticare e far dimenticare? È abbastanza inverosimile che tutto questo
sia accaduto per caso e non invece per seguire un «programma iniziale», il
quale forse non prevedeva esattamente questo epilogo, ma che poi, per circostanze a noi ignote, fu in seguito modificato. È altrettanto poco credibile
che di tutti questi reperti, circa settemila, non sia rimasta alcuna traccia da
nessuna parte. Il cosiddetto Tesoro archeologico della Libia non può essere
scomparso nel nulla e il mistero che ora lo circonda altro non è che l’assenza di notizie certe su di esso.
284
Il tesoro archeologico della Libia
Note al testo
1
Ministero degli Affari Esteri, Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana (d’ora in avanti
MAE, ASMAI), Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
2
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Decreto Ministeriale del 20 luglio 1945.
3
Ferruccio Parri fu presidente del Consiglio dei Ministri e ministro ad interim per l’Africa Italiana dal 21 giugno all’8 dicembre 1945.
4
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S4/10, lettera del giugno 1945.
5
Ibidem. In una nota a fondo pagina, si legge: «Al dr. Cepollaro traduzione integrale oggi stesso
19/7».
6
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S4/10, lettera del 12 giugno 1945.
7
Mattia Mininni era il capo dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana.
8
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S4/10, lettera del 10 o 1° giugno 1945.
9
La lettera di cui si sta parlando reca il prot. n. 800919 apposto il 30 luglio 1945 dall’Ufficio
Studi; la precedente lettera recava il numero 800750.
10
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, 10 o 1° giugno 1945. Anche questa seconda lettera della Commissione Alleata è
firmata, per il commissario capo G.R. UpJhon, Brig, da G. B. Benhan Cart.
11
Dipinti, Sculture e Grafica delle collezioni del Museo Africano. Catalogo Generale, a cura di Mariastella Margozzi, Isiao, Roma 2005, pp.17-18. Il Museo Coloniale chiuse i battenti nel 1971
«per riordinamento».
12
R.D. 25 novembre 1940, n. 1970 Nuovo Regolamento per il Museo dell’Africa Italiana.
13
Cfr. Gennaro Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia. (Come fu salvato il
patrimonio archeologico della Cirenaica). «Annali delle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari», estratto dal v. XXI, parte I, 1953, pp.14-15; MAE, ASMAI,
Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto
sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, redatto dal reggente
la Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia Gennaro Pesce, prot. n. 3945, del 19
dicembre 1942.
14
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera della Presidenza del Consiglio dei Ministri al Gabinetto del Ministero
dell’Africa Italiana del 12 luglio 1945.
15
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/12, lettera del 16 novembre 1944.
16
Massimiliano Munzi, La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica in Libia dall’amministrazione alleata al regno di Idri, ,«L’Erma» di Bretschneider, Roma 2004, p.16.
17
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, 10 o 1° giugno 1945.
285
Francesca Gandolfo
18
Dal Report by prof. Micacchi, allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione
Alleata, n. protocollo 800919 dell’Ufficio Studi, 10 o 1° giugno 1945 apprendiamo che: «[…]
Le due cassette giunsero a Roma la sera del 6 gennaio 1943, scortate da un Maresciallo dei
RR.CC. e vennero consegnate al dott. Micacchi, a cura del quale, la mattina seguente, vennero depositate presso l’Economato del Ministero dell’Africa Italiana, affinché la Direzione
Generale del Personale (Ufficio Affari Generali) provvedesse alla loro custodia insieme con gli
altri oggetti di valore del Ministero. Della consegna fu redatto regolare verbale». Cfr. inoltre
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945 nella quale si legge: «[…]Così recuperate le cassette
venivano finalmente trasportate a Roma e custodite in armadio metallico presso il Gabinetto
del Ministro dell’Africa Italiana, e successivamente consegnate, previa ricognizione esterna da
parte della Commissione di cui sotto, al Direttore del Museo dell’Africa Italiana dott. Massimo
Adolfo Vitale, per la definitiva custodia nei locali del Museo stesso».
19
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
20
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, Report by Prof. Micacchi, allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione Alleata datata 10 o 1° giugno 1945.
21
Enrico Cerulli (Napoli 1898 - Roma 1988, orientalista, fu direttore generale al Ministero
dell’Africa Italiana (1936), poi vicegovernatore generale dell’AOI (1937); dal 1950 al 1954
ambasciatore a Teheran. Sia in Iran e sia nel corso di viaggi ed esplorazioni nella Somalia, nel
Harar e nell’Etiopia occidentale, acquistò un’importante raccolta di manoscritti, poi donata
alla Biblioteca Vaticana. Nel 1943 ricopriva la carica di commissario per il Ministero dell’Africa
Italiana a Roma. Cfr. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata
al Capo di Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana.; MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, Report by Prof. Micacchi.
22
Report by Prof. Micacchi allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione Alleata,
n. protocollo 800919 dell’Ufficio Studi , 10 o 1° giugno 1945.
23
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
24
Sul tema della crisi dello Stato nazionale, sull’8 settembre e sulle implicazioni che la fine della
II Guerra Mondiale ebbe sull’idea di nazione e sul concetto di patria, cfr. Ernesto Galli
della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e
Repubblica. Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 3-50.
25
Ibidem, p.5.
26
Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, IV, Laterza, RomaBari 1984, p. 8.
27
A proposito di scrivanie ministeriali, la scrivania sulla quale siedono i ministri della cultura che
si sono succeduti dal 1974 a oggi era nel salone del Gran Consiglio fascista.
28
Cfr. Vincenzo Pellegrini - Anna Bertinelli, Per la storia dell’Amministrazione coloniale
italiana. Giuffré editore, Milano 1994, pp. 25-26.
29
A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, IV, cit., p.7.
30
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
31
Ibidem.
286
Il tesoro archeologico della Libia
32
Ibidem.
33
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/11, comunicato dell’Ufficio Studi Mostre ed Esposizioni inviato all’Ufficio Studi –
Sede del Ministero dell’Africa Italiana del 12 dicembre 1944, prot. n. 772233; fasc. 119, S4/12
comunicato del 15 gennaio 1945, prot. n. 525018.
34
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera del 10 gennaio 1947.
35
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera del 12 luglio 1946 a firma del Sottosegretario di Stato alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri Giustino Arpesani, il quale ricoprì tale carica insieme a Giorgio
Amendola.
36
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sottosegretario di Stato Paolo Cappa del 4 settembre 1946.
37
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sottosegretario di Stato Giustino Arpesani del 12 luglio 1946.
38
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sottosegretario di Stato Paolo Cappa del 4 settembre 1946.
39
M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, «L’Erma» di
Bretschneider, Roma 2001, p. 35.
40
Il Decreto Ministeriale del 31 gennaio 1922 n. 20 rese attuativo il Regio Decreto del 24 settembre 1914. Ibidem, pp. 36-37.
41
L. Parpagliola, Codice delle Antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti, regolamenti, circolari relativi alla conservazione delle cose d’interesse storico-artistico e alla difesa delle bellezze
naturali, I, La libreria dello Stato, Roma (II ed.) 1932, pp. 435-437, R. Decreto 24 settembre
1914, n. 1271, cui segue Regolamento per la esecuzione del R. Decreto 24 settembre 1914, N.
1271, che approva l’ordinamento archeologico della Libia, alle pp. 438-454. In Codice delle
antichità e degli oggetti d’arte. Parte Settima. Tutela archeologica ed artistica nelle colonie.
Consta di tredici articoli molto stringenti rispetto alla tutela dei beni culturali, in linea con le
disposizioni vigenti in Italia in virtù della Legge n. 364 del 20 giugno 1909.
42
Michel Foucault in L’Archeologia del sapere (1969), cap. VII, pp. 94-101 mette in evidenza
proprio le conseguenze derivanti da enunciazioni che rivelano concetti e strategie operanti
nella realtà quotidiana attraverso un sistema di formazione composto da elementi eterogenei
in relazione fra di loro. «Per sistema di formazione – dice Foucault a p. 98 – si deve dunque
intendere un complesso fascio di relazioni che funzionano come regola: esso prescrive ciò che
si è dovuto mettere in rapporto, in una pratica discorsiva, perché essa si riferisca a questo e a
quell’oggetto, perché essa faccia intervenire questa e quella enunciazione, perché essa utilizzi
questo o quel concetto, perché essa organizzi questa e quella strategia».
43
Ibidem. Si vedano in particolare le pagine che vanno da 218 a 231, nelle quali l’autore esplora
le condizioni di possibilità in cui si articola la conoscenza e le mette in relazione non più con
una storia globale ma con una storia generale piena di scarti e fratture, e che dunque non è
vista come un continuum di «successioni temporali». Egli cerca di rintracciare una coscienza
storica (flusso di coscienza) attraverso i discorsi scritti e pronunciati. Questi ultimi sono dei
sistemi che agiscono con efficacia operativa sulle idee e le istituzioni, mostrando in questo
modo il loro radicamento nella società che li ha generati. Nel caso in questione, la lettera
287
Francesca Gandolfo
del sottosegretario di stato diventa la pratica discorsiva attraverso la quale, a un certo punto,
l’enunciato si trasforma in evento o, comunque, crea condizioni sufficienti e necessarie a far sì
che diventi tale all’interno di una determinata situazione storica, come conseguenza di rapporti
di potere/sapere e non soltanto come esito di una genesi storico-politica. L’archeologia viene
chiamata in causa proprio perché si rifà al contenuto del discorso in quanto tale, lo assume così
com’è, nella sua specificità e nella sua naturalità, con le sue relazioni sincroniche e diacroniche,
le sue contraddizioni, le differenze e le discontinuità. Alle pagine 222 e 223 Foucault scrive:
«L’archeologia parla, molto più volentieri che la storia, delle idee, di tagli, di faglie, di aperture,
di forme completamente nuove di positività e di improvvise ridistribuzioni. […] procede in
senso inverso: cerca piuttosto di districare tutti quei fili che la pazienza degli storici aveva teso;
moltiplica le differenze, mescola le linee di comunicazione e si sforza di rendere più difficili i
passaggi; non cerca di mostrare che l’analisi fisiocratica della produzione preparava quella di
Ricardo; non considera pertinente alle proprie analisi affermare che Coeurdoux aveva preparato Bopp». Il compito dell’archeologia è quello di analizzare «il grado e la forma di permeabilità
di un discorso: dà il principio della sua articolazione su una catena di avvenimenti successivi;
definisce gli operatori mediante i quali gli avvenimenti si trascrivono negli enunciati», ovvero
l’archeologia mostra in quali condizioni di possibilità un discorso può attivare delle regole
che riorganizzino un campo di sapere specifico, – nella correlazione, ad esempio, tra discorso
politico e colonialismo – «e in che cosa consista precisamente (quali confini, quale forma,
quale codice, quale legge di possibilità abbia)». Essa inoltre permette di individuare «il livello
dell’innesto evenemenziale», Michel Foucault, L’Archeologia del sapere. Una metodologia per
la storia della cultura. Bur, Milano 2009 (ed. or. 1969),p. 220. A proposito del ruolo dell’etnologia, invece, Mudimbe scrive, parafrasando Foucault: «Una certa posizione costituitasi nella
storia della ratio occidentale fonda il rapporto di quest’ultima con tutte le altre società […].
L’etnologia non assume le proprie dimensioni che nella sovranità storica del pensiero europeo
e del rapporto che lo contrappone a tutte le altre culture non meno che a se stesso», Valentin
Y. Mudimbe. L’invenzione dell’Africa, Meltemi, Roma 2007, p.41.
44
Ibidem.
45
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, 10 gennaio 1947.
46
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, 12 maggio 1947.
47
Giuseppe Lupis insieme a Eugenio Reale fu sottosegretario del MAE durante il governo De
Gasperi III, in carica dal 2 febbraio al 31 maggio 1947. Alcide De Gasperi aveva l’interim del
MAI, Gonella era ministro della Pubblica Istruzione. Non si capisce come mai a rispondere di
una questione così delicata riguardante il Ministero dell’Africa Italiana, e per di più su di un
foglio in carta semplice, sia il sottosegretario agli esteri e non quello dell’Africa Italiana.
48
La data della lettera è 12 maggio 1947, il protocollo di arrivo all’Ufficio Studi è il n. 215874
del 28 maggio 1947; MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa
Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10.
49
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10. Nota del 12 agosto 1946, prot. n. 501016.
50
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10. La nota è firmata per il ministro da F. D’Alessandri, n. prot. 501410 del 27 agosto
1946.
51
Carlo Petrocchi, Il giacimento fossilifero di Sahabi, Collezione scientifica e documentaria a
cura del Ministero dell’Africa Italiana, Airoldi editore, Verbania 1943, pp. 1-170.
288
Il tesoro archeologico della Libia
52
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10. La lettera è del prof. Carlo Petrocchi e fu allegata alla nota del 27 agosto 1946.
53
In V. Y. Mudimbe. L’invenzione dell’Africa cit., p. 45.
54
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
55
Mario Martino Moreno era stato vicegovernatore dei Galla e Sidama in Etiopia dal 1936 al
1938. Rientrato in Italia, venne nominato direttore generale degli Affari Politici del Ministero
dell’Africa Italiana, carica che ricoprì dal 1938 al 1951. Oltre alla sua carriera diplomatica
svolse anche un’intensa attività scientifica come orientalista. Specializzato in filologia camitosemitica, insegnò all’Università di Roma, di Beirut e di Napoli.
56
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
57
Ibidem.
58
Ibidem.
59
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp. 2-16; MAE, ASMAI, Africa
IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero A.I., pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il
trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli, 19 dicembre 1942, firmato,
per il soprintendente, dall’ispettore G. Pesce e da: Luigi Turba, Flaminio De Liberali, Sante
Gaudino, Santuccio Salvatore, Sciortino Vincenzo.
60
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/10, Relazione del 31 dicembre 1945.
61
«[ …] Durante questo trasporto un carro ferroviario contenente 8000 fascicoli dell’archivio del
personale sarebbe stato agganciato erroneamente ad un treno diretto in Germania causando la
perdita di quel materiale». V. Pellegrini - A. Bertinelli, Per la storia dell’Amministrazione
coloniale italiana cit., pp. 100-101. A questo riguardo Cerreti precisa che tali materiali dell’Ufficio Studi, dopo essere arrivati in Germania, furono rinvenuti successivamente in una stazione
boema ma il loro recupero non fu possibile. «[…] Da Cremona, nel maggio 1944 l’ufficio
[Studi, n.d.A.] si trasferì a Pallanza, di qui a Ghiffa, poi a Intra, dove giunse, sempre con tutto il
materiale, ai primi di luglio. Divenuta poco sicura la vicina Val d’Ossola, si decise di trasportare
l’Ufficio a Laveno, sulla sponda opposta del Lago Maggiore: durante il trasbordo, nella notte
del 31 agosto, parte del carico cadde in acqua senza che si potesse ripescarlo. Da Laveno, infine,
il tutto fu trasferito a Brenta di Cittiglio, dove venne preso in consegna dal CNL il 26 aprile
1945». Claudio Cerreti, La raccolta cartografica dell’Istituto Italo-Africano. Presentazione del
fondo e guida alla consultazione. «Collana di Studi africani», 11, Isiao, Roma 1987, pp. 9-10.
62
«Dopo la morte del Guidi, il dott. Giacomo Caputo assunse, […], la direzione della Soprintendenza unificata della Tripolitania e della Cirenaica, con sede a Tripoli, lasciando al prof. Raffaele Rinaldis la continuazione degli scavi e dei restauri di Tolemaide». Matteo Balice, Libia.
Gli scavi italiani. 1922-1937: restauro ricostruzione o propaganda?, «L’Erma» di Bretschneider,
Roma 2010, p. 78.
63
M. Munzi, La decolonizzazione del passato cit., p.18. Per le notizie biografiche su Giacomo
Caputo si veda M. Munzi, L’epica del ritorno cit., pp. 50-51.
64
La sua brillante carriera l’archeologo napoletano l’aveva iniziata conseguendo nel 1929 una
borsa di studio della Regia Scuola Archeologica Italiana di Atene. Il 10 dicembre dello stesso
anno cominciò a lavorare presso la Soprintendenza alle Antichità delle province di Napoli,
Avellino e Benevento retta da Amedeo Maiuri come salariato temporaneo e con mansioni di
Ispettore alle Antichità. Da lì fu trasferito in Piemonte e poi di nuovo a Napoli dove collaborò
289
Francesca Gandolfo
con Giacomo Caputo all’allestimento della Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare (1937).
Il 24 febbraio 1939 Pesce si trasferisce in Libia e diventa responsabile di due cantieri di scavo
permanenti, Cirene e Tolemaide, a cui si aggiunse «per sua volontà» il cantiere di Tocra, l’antica
Teuchira, che condurrà con l’assistente Giuseppe Raganato e con l’ingegnere P. Pedone. Pesce
riportò alla luce anche un colossale tempio dorico di età arcaica (VI-V sec. a.C.) situato nella
collina orientale di Cirene. A Tolemaide si dedicò particolarmente allo scavo e al restauro del
Palazzo delle Colonne, della basilica paleocristiana e del mausoleo ellenistico. Cfr. Nota biografica in G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di Raimondo Zucca, Ilisso, Nuoro 2000 (I ed. 1961),
pp. 28-31; M. Munzi, La decolonizzazione del passato cit., pp. 18-22, 27, 46; M. Balice, Libia.
Gli scavi italiani. 1922-1937 cit., p.83.
65
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit. pp. 3-4.
66
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
67
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit.., pp. 5-6.
68
Ibidem, pp. 5-6.
69
A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. II, Laterza, Roma-Bari 1988,
pp.312 ss.
70
Ibidem, p. 316; da una testimonianza di Antonina Lo Certo raccolta dall’autore.
71
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p.16.
72
Si vedano A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi cit., pp. 313-314; M.
Munzi, L’epica del ritorno cit., pp. 119-120; Id., La decolonizzazione del passato cit., pp. 15-16.
73
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p.3.
74
Sugli «Annali dell’Africa Italiana», anno IV, vol. II, del 1941, pp. 371-401, fu pubblicato un
articolo intitolato Gli inglesi in Cirenaica, che recava la seguente premessa fatta dal comitato
di redazione: «Siamo lieti di offrire ai nostri lettori la documentazione integrale raccolta dal
Ministero dell’Africa Italiana e della Cultura Popolare sul comportamento degli inglesi durante
la loro breve occupazione della Cirenaica . Tale documentazione è stata raccolta in speciale
monografia dal Ministero della Cultura Popolare».
75
Ibidem. Le pagine con le fotografie o le riproduzioni di documenti non hanno la numerazione.
76
M. Munzi, L’epica del ritorno cit., p. 119. Cfr. G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima
guerra in Libia cit., pp.7-8.
77
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
78
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Relazione del 31 dicembre 1945.
79
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
80
Nell’Archivio storico-diplomatico del MAE è conservata una copia, mentre l’originale fu restituito dalla commissione incaricata all’Ispettorato Scuole e Archeologia.
81
Nella relazione di Pesce si legge: «Gli oggetti pertinenti a questo tesoro sono conservati in
scatolette di cartone da lastre fotografiche, ciascuna avvolta in carta da imballaggio ed ogni
290
Il tesoro archeologico della Libia
pacco legato con lo spago. Altri gruppi di oggetti sono conservati in buste di carta oleata. La
numerazione di questa serie di pacchi e sacchetti va da 1 a 19 (rimanendo quale fu stabilito
nella sistemazione di detti oggetti fatta a Leptis Magna nel gennaio 1942) cfr. verbale di verifica
di un sacco proveniente da Cirene: R. Ufficio Scavi di Leptis Magna prot. 32 del 21/1/1942».
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
82
Ibidem.
83
Ibidem.
84
Ibidem.
85
Il fotografo Nino De Liberali e il tecnico giornaliero Santo Gaudino. Ibidem.
86
« […] Caputo verrà richiamato dalla British Military Administration, che lo confermerà al suo
posto, sebbene alle dipendenze degli Antiquities Officiers giunti al seguito dell’Ottava Armata». M. Munzi, L’epica del ritorno cit., p.51.
87
G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di R. Zucca, cit., pp. 30-31.
88
Il ministro Giuseppe Bottai predispose un accurato piano di difesa e protezione antiaerea dei
monumenti, degli edifici storici e delle più importanti opere artistiche presenti sul territorio
nazionale fin dal 1940.
89
G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di R. Zucca, cit., p.31.
90
La lettera con la quale il soprintendente ad interim chiedeva di trasferire in Italia le preziose
raccolte è del 16/XI/1942, prot. n. 3781. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi
Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel
Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
91
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p. 9.
92
Ibidem, pp. 10-11.
93
Stefanie Walzer, La famiglia Castellani da Fortunato Pio ad Alfredo, in I Castellani e l’oreficeria archeologica italiana, a cura di Anna Maria Moretti Sgubini e Francesca Boitani, «L’Erma»
di Bretschneider, Roma 2005(ed. or. 2004), pp. 21-66.
94
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p. 10.
95
Elizabeth Simpson, «Una perfetta imitazione del lavoro antico». Gioielleria antica e adattamenti castellani, ivi, p. 181.
96
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
97
Ibidem.
98
Cfr. G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp. 9-10, nota 1.
99
Ibidem. In particolare vi si legge: «Cfr. verbale di verifica di un sacco proveniente da Cirene: R.
Ufficio Scavi di Leptis Magna prot. 32 del 21/1/1942».
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.
100
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/11, comunicato dell’Ufficio Studi Mostre ed Esposizioni inviato all’Ufficio Studi –
101
291
Francesca Gandolfo
Sede del Ministero dell’Africa Italiana. del 12 dicembre 1944, prot. n. 772233. Cfr. inoltre
Relazione del 31 dicembre 1945. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero
dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119.
102
Ibidem.
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata al Capo di Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana.
103
104
Ibidem.
105
Ibidem.
106
A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. II, cit, p.312.
107
G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp.5-6.
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata al Capo di Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana.
108
MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.
119, S 4/12, lettera del 15 gennaio 1945, indirizzata al Ministero dell’Africa Italiana, Ufficio
Studi.
109
292
Le visite di Gheddafi in Italia
di Giampaolo Calchi Novati
La volontà di dimenticare che ha offuscato il nostro colonialismo è
stata interrotta dall’accettazione a pieno titolo nel campo politico della
destra di matrice fascista o neo-fascista. Era prevedibile una fiammata del
revanscismo, almeno virtuale, da parte di una forza politica che ha impersonato i valori del patriottismo aggressivo e della grandezza «imperiale» della nazione. L’Italia non si è mai del tutto rassegnata alla «perdita»
delle colonie, prima in guerra e poi nella battaglia diplomatica all’Onu.
Per i nostalgici poteva essere l’occasione buona. In parte è stato così, con
un’indubbia ripresa d’interesse per i temi coloniali, ma i fatti non sono andati tutti e coerentemente nella direzione che ci si poteva aspettare. Nello
stentato dibattito politico-culturale sul colonialismo italiano, del resto, i
partiti di centro-destra e di centro-sinistra non hanno prodotto argomenti
di spiccata brillantezza e gli accenti usati non sono veramente distinguibili
gli uni dagli altri. È stato un governo di centro-destra, comunque, a portare a termine l’operazione di restituzione all’Etiopia della stele di Axum e
a chiudere la lunga disputa con la Libia sui risarcimenti morali e materiali
dei misfatti del colonialismo italiano.
È nel contesto di questa specie di «ritorno di colonia» che la Libia si
è confermata un tabù difficile da gestire. Anche le reazioni che hanno accompagnato la crisi terminale del regime di Gheddafi hanno suscitato una
partecipazione a livello sia emotivo che politico non paragonabile a ciò che
è avvenuto in Italia a suo tempo per le crisi in Somalia o in Etiopia, senza
risparmiarci nessuno degli stereotipi che costituiscono l’ossatura del pensiero coloniale. L’unanimità a destra e a sinistra, in gara a chi era più duro
con il «dittatore», non era priva di equivoci, come sempre quando si tratta
di ex-colonie e delle vicende del Sud in generale. Malgrado il compianto
per le vittime, le preoccupazioni, anche in Italia, riguardavano anzitutto i
riverberi esterni: la minaccia del fondamentalismo, le emigrazioni di mas293
Giampaolo Calchi Novati
sa, le forniture energetiche.
Il momento della verità nel rapporto fra l’Italia e la sua ex-colonia
è scoccato con la tanto attesa e temuta prima visita ufficiale in Italia di
Muammar Gheddafi, realizzata finalmente nel giugno 2009. Per certi
aspetti, quarant’anni dopo la visita in Italia dell’imperatore Haile Selassie,
fu l’epilogo della storia coloniale dell’Italia. L’Italia – il governo, i partiti,
l’opinione pubblica – è stata costretta a fare i conti con il passato. L’incontro dell’Italia con Gheddafi non passò inosservato. I media si impossessarono dell’avvenimento fin da quando il colonnello discese la scaletta
dell’aereo con una delle sue divise rutilanti e una fotografia di Omar elMukhtar che gli pendeva sul petto come un trofeo negativo o un memento.
Molti italiani non sapevano niente dell’«eroe» che la Guida della rivoluzione libica (Gheddafi avendo formalmente rinunciato a tutti i titoli di
carattere istituzionale nella Jamahiriya da lui stessa proclamata Stato delle
masse anziché delle rappresentanze) voleva mettere sotto gli occhi degli excolonizzatori. Per censura o ritegno è stata impedita di fatto la circolazione
nei cinema italiani o alla televisione del film Il Leone del deserto che ricostruisce l’epopea di Mukhtar. Un motivo di più per alimentare i malintesi
che caratterizzarono tutta la visita. La tenda piantata fra il verde della Villa
Doria Pamphili sul Gianicolo, la guardia del corpo femminile, le passeggiate e le assenze furono lette solo come folclore e soprattutto eccitarono
risentimenti che si può far risalire a una fine del colonialismo mal digerita. Si sfiorò l’incidente diplomatico allorché Gianfranco Fini, stanco di
aspettare un leader in perenne ritardo sul calendario degli impegni, decise
di considerare annullato l’invito a visitare il parlamento e incontrarsi con
un gruppo di invitati in una delle sale di Montecitorio: nell’applauso liberatorio con cui il pubblico presente salutò l’annuncio del presidente della
Camera era facile cogliere la frustrazione per quell’omaggio, pur mancato,
a un antico suddito e la rivincita di un popolo civilizzato nei confronti di
un uomo venuto dal deserto (e quindi dal vuoto). Quando Gheddafi lasciò
l’Italia si diffuse nel paese un’aria di sollievo come se anziché un parco di
limousines bianche fossero partiti i cammelli.
Tre lezioni derivarono da quella visita, non si sa quanto percepite ed
esattamente valutate dall’uomo della strada, dalla stampa e dal nostro discorso politico-culturale. Anzitutto, si dovette prendere atto che l’Italia ha
alle spalle una storia coloniale e che il colonialismo fa parte della nostra
identità. Secondo, la Libia pesa nel ricordo e nell’immaginario degli ita294
Le visite di Gheddafi in Italia
liani più dell’Africa orientale, che gli storici, a torto apparentemente, si
erano abituati a reputare il fulcro della nostra politica coloniale per durata,
dimensioni, impegno e perché l’Impero di Mussolini è stato edificato nel
Corno e non nel Nord Africa. Una colonia atipica, non primogenita come
l’Eritrea, non prediletta come la Somalia, non avversata e rispettata come
l’Etiopia, era tuttavia la più importante per gli affari e per certi nervi ancora
scoperti. Terzo, la nostra memoria del colonialismo non può ridursi a uno
dei tanti atti dovuti come avviene quando mettiamo in scena nei giorni canonici la politica della memoria. Il colonialismo italiano non ha generato
una memoria condivisa bensì memorie diverse, opposte e antagonistiche:
anche nel nostro Stato democratico, post-coloniale e post-fascista, il colonialismo come politica dei poteri e come vissuto della gente comune è un
«buco nero» su cui è meglio non indagare troppo. Il responso più sorprendente fu accertare che nella partita del dare e avere, fra memoria e oblio, un
po’ tutti gli italiani sono convinti di avere più diritti (o pretese) che doveri.
Per l’Italia, la Libia è stata la «quarta sponda». Il colonialismo italiano
si è spinto verso i lidi remoti dell’Africa orientale solo per consolarsi dei
sogni svaniti nel Mediterraneo. Al fine di convincere un’opinione pubblica inquieta e distratta, Pasquale Stanislao Mancini nel lontano 1885 fece
passare l’aforisma che «il Mar Rosso è la chiave del Mediterraneo». I colpi
a vuoto in Egitto e in Tunisia e tanto più la disfatta di Adua obbligarono
l’Italia, con la Sinistra storica al governo, a ripiegare sull’Eritrea e la Somalia, ma la Libia era rimasta la meta più ambita, anche più dell’Etiopia, la
«mela proibita», divenuta col tempo un’icona dell’anti-fascismo e dell’antiimperialismo. Nel secondo Congresso sull’emigrazione italiana organizzato nel 1911 dall’Istituto coloniale italiano (Ici) fu approvata una mozione
che chiedeva a chiare lettere di agire in Tripolitania. Toccherà a Giolitti e
poi soprattutto al fascismo colmare quella lacuna. A colonialismo finito,
la Libia continuò a essere speciale. La Libia era più vicina delle colonie nel
Corno. In Libia si erano stanziate decine di migliaia di coloni. La Libia era
appartenuta all’impero di Roma e completava a sud il perimetro del Mare
Nostrum.
La sindrome del dominio che si è sviluppata fra Italia e Libia nell’ultimo secolo ha falsato ogni ipotesi di «buon vicinato». Come ha scritto Aimé
Césaire, il colonialismo è il modo peggiore di mettere in contatto i popoli
fra di loro. La Libia è il solo ex-possedimento italiano che abbia ritenuto di
esigere scuse e indennizzi. Lo aveva già fatto il vecchio re Idris, con le sue
295
Giampaolo Calchi Novati
flebili forze, e Gheddafi è tornato alla carica con ben altra durezza. Non
c’erano le condizioni perché la difesa dei diritti se non dei privilegi degli
ex-coloni seguisse procedure rispettose della sovranità altrui e dell’altrui
suscettibilità rendendo impossibile o un’integrazione alla pari nelle istituzioni e nell’economia della Libia indipendente o un distacco concordato
e indolore. Un primo accordo firmato nel 1956 cercò di rispondere ad
alcune delle rivendicazioni dei libici e di stabilire un modus vivendi in vista
di una futura collaborazione. Mentre i pastori-contadini della Cirenaica
che ripresero possesso delle loro terre, in mancanza di capitali e della tecnologia adatta tornarono ben presto a un livello di arretratezza e povertà,
gli ex-coloni rimasti in Libia si trasformarono in piccoli possidenti. Non
appena Gheddafi, salito al potere il 1° settembre 1969 deponendo il troppo arrendevole Idris, riprese in mano l’agenda della «liberazione», i coloni
furono – con le basi militari di Inghilterra e Stati Uniti – gli inevitabili
capri espiatori della svolta radicale. Si può solo rimpiangere quella storia
diversa del Mediterraneo che poteva esserci e non c’è stata se i traumi legati
al colonialismo non avessero determinato il «grande esodo» dei francesi
dall’Algeria e il «piccolo esodo» degli italiani dalla Libia.
Il caso degli italiani che hanno dovuto lasciare la Libia per le misure
punitive emanate da Gheddafi in occasione del primo anniversario della
rivoluzione è parte del circolo vizioso che ha fomentato incomprensioni
e ritorsioni. L’evento in sé è stato raccontato male e con molti non-detti.
L’esodo degli ex-coloni dalla Libia non è assurto a questione nazionale. Gli
italiani venuti via dalle colonie per effetto del secondo conflitto mondiale,
dalla Cirenaica negli anni di guerra ma anche quelli partiti dal Corno con
le «navi bianche», erano dei profughi o, come dissero alcuni, «africani d’Italia». In Africa erano rimaste le terre, le proprietà e le illusioni. In Italia
nessuno li voleva. Il «mal d’Africa» non è solo nostalgia, comprende la
difficoltà di abbandonare una condizione di favore o più semplicemente
i luoghi della propria giovinezza ma anche, sullo sfondo, più o meno elaborati, i miti di potenza che l’Impero sembrava assicurare al nostro paese.
Una lobby a più facce si prese cura finché possibile degli ex-coloni a costo
di confondere le loro rimostranze come individui che avevano perso tutto
o quasi con i debiti contratti per aver beneficiato di un sistema fatto di
abusi e usurpazioni. Ci si può rivolgere allo Stato per esserne protetti e
dichiararsi estranei alle responsabilità di quello stesso Stato?
Gheddafi credeva fermamente che un invito ufficiale a visitare Roma
296
Le visite di Gheddafi in Italia
da leader di uno Stato sovrano sarebbe stato il degno coronamento dei
suoi sforzi per riscattare la Libia da quella vergogna involontaria che ingenera negli ex-colonizzati un’esperienza coloniale. La fierezza della Libia
è un’immagine di marca a cui Gheddafi non ha mai rinunciato, tanto più
perché la Libia non aveva ovviamente la storia dell’Etiopia. La creazione
di una nazione al posto del coacervo di tribù che era stata la Libia come
somma tardiva delle due province ottomane chiamate Cirenaica e Tripolitania giustificava, nella mente del leader della rivoluzione, l’autoritarismo
e la privazione di ogni libertà effettiva. L’obiettivo potrebbe essere fallito
a giudicare da una «fine di regno» che ha risvegliato divisioni date per
superate. Durante la guerra fredda, Gheddafi volle osservare le distanze da
Est e Ovest con la sua «terza» teoria universale: un po’ socialismo e un po’
mercato, un po’ Corano e un po’ Rousseau. L’anti-colonialismo è rimasto
però un punto fisso e l’Italia è stata continuamente tartassata. La Libia non
ha cessato di apparire sghemba anche rispetto alle linee di tensione del xxi
secolo. Dopo aver messo da parte l’avventurismo degli anni ottanta e novanta, non si è fatta ingabbiare in nessuna casella – di politica o di civiltà
(l’islam) – sfuggendo così alle semplificazioni dell’Asse del Male e alla war
on terror lanciata da Bush e ripresa a suo modo da Obama.
La richiesta di un programma di aiuti che Gheddafi ha posto come
condizione per la normalizzazione dei rapporti con Roma e gli italiani aveva il senso di una «riparazione» davanti alla storia e trascendeva la venalità
dei singoli atti. La Libia ha preteso che le sofferenze e le violenze del colonialismo venissero sancite sul piano bilaterale visto che l’ordine mondiale
è refrattario a farlo in nome dei diritti universali dei popoli, che valgono
per il Nord ma non altrettanto per i popoli del Sud, e spesso solo per vie
traverse e strumentalmente, tanto più se al potere ci sono governi «illiberali». Nessuno se non l’Italia poteva assolvere questo debito. Gheddafi ha
sollevato con insistenza la questione dei deportati libici in Italia e il recupero dei documenti in cui è custodita una pagina della storia della Libia
nonché degli oggetti d’arte sottratti al suo paesaggio archeologico come
fossero res nullius. Italia e Libia stipularono nel luglio 1998 un accordo – il
contraente da parte italiana era Lamberto Dini, ministro degli Esteri del
primo governo Prodi – che avrebbe dovuto aprire una fase nuova nelle
loro relazioni. Fra le altre disposizioni figurava un progetto congiunto di
ricerca storica attraverso l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao) e
il Centro di studi libici di Tripoli sui libici condannati al confino e portati
297
Giampaolo Calchi Novati
alle Tremiti, a Ponza, a Ustica. A dimostrare quanto il tema fosse scabroso
venne impiegata una perifrasi intrisa di ipocrisia: non deportati, ma «allontanati coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale».
Nell’agosto del 2008 ci fu un salto di qualità con la firma a Bengasi, in
un clima persin troppo enfatico, di un accordo di amicizia e cooperazione fra Italia e Libia. L’accordo prevede rapporti a tutto campo con molti
vantaggi per le imprese italiane in Libia. L’Italia riconosce le responsabilità
del colonialismo e si impegna a versare una somma di 5 miliardi di dollari
per realizzare alcune opere infrastrutturali non meglio precisate, fra cui
doveva esserci un’autostrada da est a ovest lungo la costa. L’accordo divenne la pietra dello scandalo su cui paradossalmente si consumò la rottura.
In esso non mancavano effettivamente lati oscuri soprattutto in tema di
immigrazione dalla Libia verso l’Italia. Come noto, l’immigrazione dalla
Libia che l’accordo si proponeva di arginare non coinvolge cittadini libici
ma per lo più africani originari del Corno o della fascia sahelo-sudanese
che attraversano il territorio libico o sostano più o meno a lungo in Libia
prima di imbarcarsi alla volta dell’Italia e dell’Europa. Le responsabilità di
quel pactum sceleris non era tutta e solo di Gheddafi, come si è cercato di
far credere: gli italiani (non solo Berlusconi) sapevano in quali condizioni
sarebbero avvenuti i respingimenti dai porti della Sicilia o in mare e le condizioni del trattamento dei profughi sull’altra sponda nei campi di raccolta
o di prigionia nel deserto.
Chiusa la parentesi d’origine coloniale, l’invito a Gheddafi non poté
più essere rinviato. Per suo conto, Gheddafi non abbandonò neppure dopo
la firma dell’accordo con l’Italia la tecnica della doccia scozzese. L’essenziale per lui era dare comunque l’impressione di non perdere l’iniziativa agli
occhi di chi lo conosceva come irriducibile avversario del colonialismo italiano. Rotto il ghiaccio nel 2009, Gheddafi è sbarcato in Italia altre tre volte in poco più di un anno. Anche tenendo conto che due dei quattro viaggi
rientravano in un contesto multilaterale (prima il G8 allargato dell’Aquila,
poi il vertice della Fao a Roma), restano comunque più di quanto contemplino i parametri di una diplomazia ordinaria. Soprattutto nell’ultima
visita, che era intesa a celebrare il secondo anniversario dell’accordo di
Bengasi, fecero scalpore i toni di festa e intimità, che diventeranno altrettanti capi d’accusa per il governo e personalmente per Berlusconi quando
le manifestazioni popolari di protesta a Tobruk e Bengasi, dando sfogo alla
gioia di chi aveva voglia di libertà, e poi la lotta armata in tutta la Libia
298
Le visite di Gheddafi in Italia
hanno squarciato definitivamente il velo sui metodi brutali del regime.
Con tutta evidenza, Italia e Libia avevano avviato un rapporto speciale. Dopo tanti anni di contrapposizione e rancori, la vicenda coloniale
che lega indissolubilmente Libia e Italia si era trasformata in un anello
di congiunzione. Gheddafi era grato al nostro governo e specialmente a
Berlusconi per un trattato che ha cancellato gli strascichi dell’occupazione
italiana e delle vendette libiche. La politica estera dell’Italia – e l’attenzione che a essa prestano i media e il discorso politico – ha il vizio di essere
episodica e di scadere di continuo nell’esotismo senza sforzarsi di capire e
far capire i processi reali. La dimestichezza stabilitasi con Gheddafi aveva
malgrado tutto un senso perché la Libia occupa un posto d’eccellenza nel
nostro passato e nel nostro presente. Un po’ tutti hanno esagerato nel dare
troppa evidenza alle relazioni di tipo personale rispetto alle poste concrete
a livello di Stati di cui ci si deve occupare per ragioni oggettive. Si prescinde qui da eventuali affari privati del presidente del Consiglio italiano in
quanto imprenditore, oggetto di insinuazioni anche da parte dei funzionari dell’ambasciata americana a Roma senza che siano state fornite peraltro,
a quanto risulta ufficialmente, prove risolutive. La visita dell’agosto 2010
per celebrare con Berlusconi e il popolo italiano l’anniversario del trattato di Bengasi fu oggetto di mugugni più insistiti rispetto all’anno prima,
frutto forse di sensibilità di segno diverso. A parte la solita insofferenza per
l’esibizionismo del leader libico, l’opposizione, dimenticando le convergenze che si erano manifestate sulla Libia fra i due schieramenti di centrodestra e centro-sinistra, prese a rimproverare a Berlusconi di essere troppo
prono verso un leader non propriamente democratico. Anche i detrattori
più accaniti di Gheddafi, della prima o dell’ultimissima ora, non diceva
però di voler interrompere i rapporti con la Libia. Pretendere di comprare
petrolio e lucrare sui profitti dell’eni e delle imprese di costruzione, o di
cooperare per contrastare gli sbarchi dei clandestini, ignorando o sprezzando il colonnello come un paria, sarebbe stato offensivo non tanto per
Gheddafi, abituato a ripagare gli sgarbi con la stessa moneta, quanto per la
Libia come nazione, ridotta a semplice spazio da cui attingere beni per la
nostra economia e la nostra sicurezza.
Il lato debole e insoddisfacente dell’intesa è stato se mai quello di aver
speculato su una soluzione del contenzioso, quale che fosse, invece di collocarsi – entrambe le parti – in una prospettiva chiaramente post-coloniale
che guardasse avanti e non indietro. È come se il fardello dell’uomo bianco
299
Giampaolo Calchi Novati
non sia mai stato veramente scaricato. La Libia si presta a funzioni ausiliarie in cambio di trasferimenti di tecnologia; l’Italia sfrutta i vantaggi della
posizione dominante. Le cadute di stile del «contorno» tradiscono debolezza e impreparazione, sono conseguenze non cause.
Per molti anni, Gheddafi ha tenuto testa alle ipoteche del sistema bipolare cercando di sottrarsi alle servitù che condannano la Periferia all’inferiorità. Il colonnello non poteva certo ambire al Centro ma con i mezzi alla
sua portata imitava le maniere con cui le grandi potenze sono solite perseguire i loro obiettivi decidendo in proprio la quantità di violenza che è
lecita e funzionale. Quando la guerra fredda è finita, è caduto anche perché
non c’erano più i contrappesi di una volta. Nelle intenzioni di Gheddafi, il
bersaglio grosso doveva essere l’«imperialismo» a cui Idris aveva appaltato
il territorio della Libia, così ricercato ieri come oggi per la sua centralità nel
Mediterraneo fra Europa, Africa e Medio Oriente, concedendo basi aeree
e di terra a Gran Bretagna e Stati Uniti per il contenimento dell’Urss, la
difesa di Israele e forse il petrolio (nel 1951, anno dell’indipendenza della
Libia, ancora di là da venire). L’Italia aveva un ruolo secondario. Gheddafi riservò i suoi strali più acuminati alle installazioni militari americane
e inglesi, anche per togliere ogni sospetto sul doppio gioco della Libia
nella contesa arabo-israeliana, ma per coerenza non poteva ignorare l’imperialismo – minore ma più diretto – dell’Italia con le ultime presenze sul
terreno e soprattutto con il ricordo di una sottomissione costellata di veri
e propri crimini. Senza il sacrificio dei coloni italiani, Gheddafi non si
sarebbe sentito abbastanza diverso da Idris, che è stato sia il capo politico
della resistenza della Senussia, guidata sul campo con le armi da Omar
el-Mukhtar, sia il vertice del regime contro cui nel 1969 fu organizzato
il colpo di Stato degli «ufficiali liberi». Allo stesso modo, senza il petrolio
e le commesse non ci sarebbe stato il «pentimento» per le colpe dell’era
coloniale che Berlusconi alla fine ha pronunciato a mezza voce, incapace
di coinvolgere l’Italia in una presa di coscienza collettiva. La famosa strada
da 5 miliardi di dollari giova anche alle imprese italiane ma la Libia ha
ragione di attendersi ricadute benefiche in termini di impieghi, diffusione
di iniziativa, proliferazione di centri di sviluppo fuori delle grandi città. Il
successo o il flop dipende da come l’Italia concepirà e realizzerà quell’opera,
se mai i lavori saranno effettivamente incominciati e soprattutto portati a
compimento. Se lo spirito è quello delle «cattedrali del deserto» di una stagione della cooperazione che si pensava finita, la Libia rischia di ritrovarsi
300
Le visite di Gheddafi in Italia
ai tempi della prima Balbia con in più l’umiliante bilancio – per l’Italia
come per la Libia – del dossier emigrazione.
L’approccio di Gheddafi alla globalizzazione è stato sempre sull’orlo
della provocazione ma non privo di un suo realismo. Pativa lo strapotere
americano, ma non voleva mettere a repentaglio i risultati acquisiti. Attraverso l’Italia ha regolarizzato la sua posizione in Europa e nel mondo.
Il regime ha cercato in tutti i modi una base più solida chiedendo, come
troppo spesso avviene ai paesi della Periferia, una legittimazione o addirittura un riconoscimento all’esterno a costo di perdere di vista le incrinature
o i crolli che stavano precipitando la situazione all’interno. Riconciliandosi
con vicini e lontani, Gheddafi voleva compiacere le propensioni di quella
parte dell’opinione pubblica libica che era stanca di impennate, trasgressioni e stravaganze e aspirava a godersi le condizioni di relativo benessere
concesse dal petrolio. La leva principale di cui si servì Gheddafi dopo che
venne riammesso in società è la stessa che brandiva quando era un antagonista: la ricchezza petrolifera in un paese con pochi milioni di abitanti
e larghi margini di surplus. I vantaggi di un’economia di rendita – con
una leadership che prende tutto e distribuisce quanto basta – sono anche
i suoi limiti. Nel Duemila la Libia non può accontentarsi di vivere e prosperare sugli alti prezzi del greggio e barcamenarsi fra finta partecipazione
del popolo, autoritarismo ferreo e clientelismo ondivago: deve preparare il
dopo-petrolio, diversificare l’economia, trovare lavoro per le leve giovanili
in vertiginoso aumento, dare una rappresentanza politica ai ceti emergenti.
La Libia non ha mai avuto la compattezza e la tradizione statale di Tunisia ed Egitto, per non parlare del Marocco e della stessa Algeria. Anche
per questo la guerra civile ha minacciato seriamente l’esistenza stessa della
Libia facendo balenare lo spettro della «somalizzazione». L’ampiezza della
crisi del regime era più grave del previsto, anche a prescindere dal dente
avvelenato delle petrolcrazie del Golfo e dalle interferenze delle potenze
occidentali a cui l’Italia ha finito per accodarsi rompendo con il vecchio
alleato e amico.
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notizie sugli autori di questo numero
Isabella Abbonizio - Chitarrista classica a livello professionale e dottore di ricerca in Storia delle Scienze e Tecniche della Musica presso l’Università di Roma
Tor Vergata. attualmente è Visiting Scholar presso il Center for European and
Mediterranean Studies della New York University. I suoi interessi di ricerca si incentrano sulla storia della musica del primo novecento, sulla relazione tra musica
e politica in Italia tra le due guerre e in particolare sulla relazione tra musica e
colonialismo italiano.
Matteo Aguzzi - Dal 2010 dottore magistrale in Documentazione e ricerca storica, titolo conseguito presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena,
sempre a Siena si era precedentemente laureato in Storia, tradizione e innovazione.
Gabriele Bassi - Dal 2002 ha orientato gli studi universitari, condotti presso le
università di Siena e San Marino, sul colonialismo italiano in Libia, conducendo
ricerche sul materiale a stampa disponibile presso la Biblioteca Nazionale Centrale
e l’Istituto Agronomico per l’Oltremare di Firenze. Dal 2004 si è inserito in un
gruppo di studiosi legati al medesimo tema stabilendo contatti con il Lybian Studies Centre di Tripoli.
Giampaolo Calchi Novati - Ricercatore all’Istituto per gli Studi di politica internazionale di Milano, al Center of African Studies di Boston e dell’UCLA di
Los Angeles, è stato direttore dell’IPALMO a Roma. Attualmente titolare all’Università di Pavia della cattedra di Storia e istituzioni dei paesi afro-asiatici presso la
Facoltà di Scienze Politiche, direttore del Dipartimento di studi politici e sociali e
responsabile della laurea specialistica in Studi afro-asiatici. Tra le ultime pubblicazioni citiamo L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma
2011.
Angelo Del Boca - Da quarant’anni si occupa di storia del colonialismo e dei
problemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi libri recenti: Gheddafi. Una sfida dal deserto,
Laterza, 2010; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La disfatta di Gars bu Hàdi,
Mondadori, 2004; Italiani, brava gente? Neri Pozza, 2005. Per i tipi della Baldini
Castoldi Dalai A un passo dalla forca, con il quale ricostruisce la vicenda di uno
303
dei protagonisti della resistenza libica all’occupazione italiana, Mohamed Fekini.
Anwar Fekini - Libico, laureato alla Sorbona esercita la professione di avvocato
fra San Diego in California, dove risiede, Parigi, Londra e Tripoli. È il nipote di
Hadj Mohamed Khalifa Fekini, capo della cabila dei Tarabulsi e Rogebani, per
vent’anni oppositore alla dominazione degli italiani sulla Libia.
Francesca Gandolfo - Archeologa, lavora presso la Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali. Ha condotto indagini archeologiche ed etnoarcheologiche in
Italia, nel Vicino e Medio Oriente e negli Emirati Arabi Uniti per conto, oltre che
del Ministero, dell’Università La Sapienza di Roma, dell’Università Cattolica di
Milano, del CNRS di Parigi, della Maison de l’Orient Mediterranéen, Université
Lyon 2. In passato professore a contratto all’Università degli Studi di Firenze, è
autrice di varie pubblicazioni tra le quali Realtà e mito nei costumi tradizionali e
popolari del Piemonte e della Valle d’Aosta, Priuli & Verlucca, Ivrea 1997.
Nicola Labanca - Docente di Storia contemporanea all’Università di Siena, presiede il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari e siede nel
comitato direttivo del Forum per i problemi della pace e della guerra di Firenze.
Tra i suoi volumi In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993; Caporetto. Storia di
una disfatta, Giunti-Castermann, Firenze 1998 e Oltremare. Storia dell’espansione
coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002.
Alberto Magnani - Laureato in Storia contemporanea all’Università di Pavia,
collabora con enti e istituti storici in Italia e in Spagna ad attività di ricerca sulle
vicende del Novecento.
Marco Scardigli - Novarese, ha insegnato a contratto all’università di Pavia Storia del colonialismo italiano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il braccio indigeno.
Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea (1885-1911), Franco Angeli,
Milano 1996; Lo scrittoio del generale. La romanzesca epopea risorgimentale del generale Govone, UTET, Torino 2006; Le grandi battaglie del Risorgimento, Rizzoli,
Milano 2011.
Nicolò Tambone - È nato nel 1968 ad Alba, dove vive e lavora. Tra l’altro ha
pubblicato il romanzo Taliani (Albatros, 2011).
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ISSN 1826-7920
13
I SENTIERI DELLA RICERCA
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I
SENTIERI
DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
Del Boca
Labanca
Magnani
Scardigli
Abbonizio
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Bassi
Fekini
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settembre 2011
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