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Number 4/09 edicinatalia Le cellule staminali quale potenziale strategia terapeutica nelle malattie infiammatorie croniche R. CICCOCIOPPO, G.R. CORAZZA Clinica Medica I, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Università di Pavia, Pavia L’impiego delle cellule staminali adulte a scopo terapeutico rappresenta un recente traguardo della medicina. Grazie alle loro notevoli capacità proliferative e differenziative, tali cellule sono diventate le protagoniste di una nuova era scientifica, offrendo la possibilità non solo di riparare e rigenerare un tessuto senza incorrere nei rischi di reazioni avverse, ma anche di superare le resistenze politiche e morali riguardo l’impiego di cellule staminali di derivazione embrionale. Infatti, tra i vari tessuti impiegati per la loro estrazione, il midollo osseo emopoietico e il cordone ombelicale appaiono le fonti più accessibili e sicure. Quest’area di ricerca traslazionale è in continua espansione in quanto di giorno in giorno cresce il numero delle malattie in cui le tradizionali terapie farmacologiche e perfino le più nuove terapie biologiche non sono in grado di fornire un adeguato controllo. Tra queste, le malattie infiammatorie croniche stanno diventando un importante campo di applicazione. D’altro canto, nonostante i notevoli progressi compiuti nella gestione medica e sociale di tali pazienti, la loro qualità di vita è scadente, non solo a causa delle recidive legate alla malattia di base, ma soprattutto per la necessità di assumere farmaci in modo continuativo con tutti gli effetti collaterali legati a una terapia cronica. L’utilizzo delle cellule staminali di derivazione midollare nella pratica clinica è stato introdotto in campo ematologico decenni orsono, ancor prima che si conoscessero tutte le loro proprietà biologiche, genetiche e funzionali. Nel midollo osseo sono presenti almeno due tipi di cellule staminali, uno rappresentato dalle cellule emopoietiche, che esprimono sulla superficie cellulare la molecola CD34 e che danno origine a tutte le linee cellulari presenti nel sangue circolante, e un secondo tipo non-emopoietico e meno caratterizzato che sembra svolgere funzioni di supporto contribuendo a creare un microambiente favorevole all’emopoiesi stessa. Queste ultime cellule sono state variamente denominate e oggi vengono più correttamente indicate con il termine di cellule stromali mesenchimali (MSC). Inoltre, recenti studi compiuti sia in vitro che in vivo su modelli animali di malattie infiammatorie croniche, nonchè iniziali esperienze sull’uomo, hanno dimostrato che le cellule staminali di derivazione midollare svolgono un ruolo importante non solo in senso riparativo/rigenerativo, ma soprattutto immuno-modulatorio. Nel corso degli ultimi anni si sono accumulate in letteratura crescenti e univoche evidenze relative alla capacità del trapianto di cellule staminali emopoietiche, sia autologo che allogenico, di indurre una duratura remissione di patologie infiammatorie croniche in pazienti sottoposti a tale trattamento per una concomitante patologia onco-ematologica [1]. In particolare, sono numerosi i casi descritti di pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali, quali la malattia di Crohn (MC) e la rettocolite ulcerosa (RCU), o sistemiche, quali il lupus eritematoso e l’artrite reumatoi- de, che si sono giovati di tale strategia terapeutica anche se intrapresa per altro motivo. Sulla scorta di tali aneddotiche osservazioni e delle approfondite conoscenze sulla patogenesi di tali condizioni, negli USA è stato condotto uno studio pilota multicentrico in cui 12 pazienti con MC refrattaria sono stati sottoposti a trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche previa immunoablazione [2]. Tale procedura terapeutica ha indotto in tutti i casi la remissione della malattia e in tutti, tranne uno, la persistenza della stessa dopo un periodo medio di osservazione di 18 mesi. Più ampia è la casistica riguardante i pazienti affetti da malattie autoimmuni, quali il diabete mellito tipo I, la sclerosi sistemica progressiva, la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide refrattari alle terapie convenzionali, per i quali è già possibile porre l’indicazione al trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche [3]. È chiaro che per queste patologie (Tabella 1), in cui il paziente non è in pericolo di vita, la scelta del trapianto da effettuare come strategia terapeutica alternativa alla terapia farmacologica e biologica cade su quello autologo, in quanto gravato da una mortalità inferiore allo 0,1% se eseguito presso Centri con comprovata esperienza; inoltre, il recente impiego di un regime di condizionamento non più immunoablativo ha praticamente azzerato il rischio di mortalità. Presso il nostro Centro, abbiamo potuto individuare e seguire cinque pazienti affetti da MC, di cui 4 sottoposti a trapianto allogenico e uno a trapianto autologo per concomitanti patologie onco-ematologiche. In tutti è stata osservata una duratura remissione non solo cli- nica, ma anche istologica della patologia intestinale con possibilità di sospendere la terapia precedentemente assunta per la MC. Nonostante l’accumularsi delle esperienze cliniche in tal senso, ad oggi non è ancora noto se sia l’immunoablazione totale che precede la procedura del trapianto stesso e/o il resetting del sistema immunitario conseguente al trapianto il meccanismo responsabile dell’induzione e della persistenza della remissione di tali patologie infiammatorie croniche. Nostri studi immunologici ancora in corso sembrano propendere per entrambe le ipotesi, in quanto abbiamo rilevato una critica riduzione delle cellule e delle molecole responsabili dell’infiammazione accompagnata a un parallelo aumento di quelle responsabili della tolleranza immunologica. Inoltre, diversi studi suggeriscono che un contributo importante alla rigenerazione dell’epitelio intestinale sia dato anche dalle cellule staminali di derivazione midollare, ponendo quindi le basi per la comprensione dei meccanismi di riparazione delle lesioni mucosali in queste condizioni [4]. Comunque, anche se tali preliminari risultati sono incoraggianti, le indicazioni rimangono sempre estremamente limitate a quei pazienti con forme refrattarie e che possono tollerare una procedura terapeutica così invasiva. A tal proposito menzioniamo la recente indicazione a far ricorso a tale tipo di strategia terapeutica nella malattia celiaca refrattaria. Anche le indicazioni al trapianto allogenico sono state attualmente ampliate a patologie non onco-ematologiche includendo, oltre ai difetti dell’eritropoiesi su base ereditaria coma la Thalassemia major, a malattie metaboliche e citopenie autoimmuni, Tabella 1. Nuove indicazioni al trapianto di cellule staminali emopoietiche e di cellule stromali mesenchimali nella pratica clinica Trapianto di Cellule Staminali Emopoietiche Trattamento con Cellule Stromali Mesenchimali Malattie intestinali - Malattia di Crohn refrattaria - Malattia celiaca refrattaria - IPEX - Malattia di Behçet Malattie intestinali - Malattia di Crohn - GvHD acuta Malattie del tessuto connettivo - Sclerosi sistemica - Lupus eritematoso sistemico - Polimiosite/dermatomiosite - Sjögren Malattie del fegato - Cirrosi Artriti - Artrite reumatoide - Artrite giovanile · Artrite giovanile sistemica · Altre artriti giovanili · Artite giovanile poliarticolare · Artrite psoriasica Malattie osteoarticolari - Osteogenesi imperfetta - Artrite reumatoide - Artrite giovanile Vasculiti - Wegener - Takayasu - Poliarterite nodosa microscopica - Poliarterite nodosa classica - Sindrome di Churg-Strauss Malattie cerebrali - Ischemia cerebrovascolare - Malattia di Parkinson - Malattia di Alzheimer Malattie neurologiche - Sclerosi multipla - Myasthenia gravis Malattie cardiovascolari - Infarto del miocardio - Cardiopatia ischemica cronica - Malattia di Buerger alcune patologie rare intestinali come la sindrome da immunodeficit, poliendocrinopatie, enteropatia autoimmune X-linked (conosciuta come IPEX) e alcuni gravi casi di malattia di Behçet. L’impiego delle MSC nella pratica clinica ha seguito un percorso completamente diverso da quello delle cellule staminali emopoietiche, in quanto il loro primo impiego è stato nell’ambito della medicina riparativa grazie non solo alle loro esuberanti proprietà proliferative e differenziative, quanto soprattutto alla capacità di migrare verso i tessuti lesi, sede di infiammazione (Tabella 1). Come già accennato, tali cellule sono state identificate nel midollo osseo in quanto non esprimenti i marcatori della linea staminale emopoietica (CD34), per poi essere ritrovate in molti altri tessuti, quali il tessuto adiposo, il tessuto muscolare, la placenta, il cordone ombelicale, il periostio, i follicoli del capillizio, il fegato, il polmone e la milza, suggerendo una loro ampia distribuzione nell’organismo. Si è visto che, in base a specifiche condizioni di coltura, le MSC hanno la potenzialità di dare origine a un’ampia varietà di linee cellulari non solo di derivazione mesenchimale quali adipociti, condroblasti, osteoblasti e fibroblasti mediante un semplice processo di differenziazione, ma anche a miociti, cardiomiociti, precursori neurali, epatociti e cellule endoteliali attraverso un processo di transdifferenziazione. Da queste premesse risulta facilmente intuibile l’enorme spazio per un loro impiego clinico nelle più disparate patologie d’organo e sistemiche che hanno travalicato i confini della semplice terapia riparativa in ambito ortopedico, estetico, implantologico, per arrivare alla cardiologia soprattutto per le forme ischemiche, e alla neurologia per le malattie a prevalente impronta degenerativa come il Parkinson e l’Alzheimer. Aspetto non trascurabile per un loro potenziale ampio utilizzo nella pratica clinica è rappresentato dal fatto che tali cellule possono essere facilmente isolate dal sangue midollare in quanto aderiscono alla piastra utilizzata per la loro coltura e sono capaci di un’importante espansione numerica. Inoltre, contrariamente a quelle di derivazione da tessuto adiposo, le MSC da midollo mostrano stabilità genetica anche dopo molti passaggi in vitro, a garanzia dell’assenza di una loro possibile degenerazione neoplastica [5], e possono essere crioconservate senza perdita delle loro caratteristiche morfologiche e funzionali. Studi successivi hanno messo in evidenza le straordinarie capacità immuno-modulanti e immuno-soppressive delle MSC che le hanno rese candidabili anche alla terapia di malattie infiammatorie croniche [6]. Un ulteriore vantaggio è rappresentato dal fatto che il loro trapianto, sia autologo che allogenico, non necessariamente richiede una preventiva fase di immunoablazione, evitando così al paziente sia i gravi rischi infettivi che i lunghi tempi di degenza connessi con tale procedura. I primi studi clinici in cui le MSC sono state utilizzate non solo a scopo riparativo, ma più propriamente curativo, sono stati condotti su pazienti affetti da osteogenesi imperfetta [7]. A questi hanno fatto seguito esperienze basate sulle loro proprietà immuno-modulanti e immuno-soppressive, tra cui i lusinghieri risultati ottenuti nella cura della malattia da reazione di trapianto contro l’ospite (Graft versus Host Disease, GvHD) acuta, a localizzazione intestinale e refrattaria alle attuali terapie in uso [8], nonchè nell’eliminazione del rischio di mancato attecchimento delle cellule staminali emopoietiche in caso di trapianto aploidentico grazie a una loro contemporanea infusione [9]. Parallelamente, sono stati condotti studi sperimentali su modelli animali di malattie infiammatorie croniche come l’enteropatia autoimmune, in cui l’infusione per via sistemica di MSC è risultata efficace nel determinare la regressione delle lesioni intestinali grazie alla loro capacità di operare una reinduzione della tolleranza immunologica, localizzandosi a livello dei linfonodi mesenterici [10]. Ulteriore evidenza favorevole viene da un modello animale di epatite fulminante, in cui l’infusione per via generale di molecole prodotte dalle MSC ha determinato non solo la regressione delle lesioni a livello degli epatociti e dei dotti biliari, ma anche un’efficace rigenerazione del fegato. Infine, del tutto recentemente è stato pubblicato uno studio condotto su un modello animale di colite sperimentale in cui l’infusione locale di una sospensione di MSC ha determinato la guarigione delle ulcere coloniche [11]. A tal proposito occorre menzionare uno studio condotto negli USA in cui pazienti affetti da MC in fase di attività moderata o severa e che non avevano risposto a precedenti trattamenti con farmaci immunosoppressori, sono stati trattati mediante infusione endovenosa di MSC provenienti da midollo di donatori sani [12]. In tutti i casi è stata osservata l’induzione della remissione con un critico miglioramento delle condizioni generali a distanza di 28 giorni dall’infusione. Dopo la GvHD, pertanto, la MC è la seconda patologia infiammatoria cronica intestinale, in cui tale terapia cellulare potrà trovare indicazione. Recentemente, sono stati anche pubblicati i risultati di uno studio clinico condotto su pazienti affetti da MC fistolizzante e sottoposti a infusioni locali di MSC autologhe ottenute da tessuto adiposo, che ha dimostrato il conseguimento della chiusura delle fistole nel 75% dei casi in assenza di effetti avversi [13]. Ulteriore campo di applicazione terapeutica delle MSC, come per le staminali emopoietiche, è la reumatologia in cui, indipendentemente dalla patologia di base, nessuna terapia farmacologia o biologica è attualmente in grado di revertire il danno articolare quando già instaurato, con inesorabile progressione verso la distruzione del tessuto e l’insufficienza funzionale. A tal proposito, il connubio tra le capacità riparative e rigenerative delle MSC con quelle immuno-modulanti e immuno-soppressive ne fanno un agente altamente indicato nella terapia di tale tipo di patologia umana. Infine, è degli ultimi mesi la proposta di sviluppare dei target terapeutici che riescano a indirizzarsi verso le MSC residenti e specifiche per ogni tipologia di tessuto al fine di stimolarle a rigenerare in loco e riparare le aree lese. In conclusione, questo campo della ricerca è un tipico esempio di medicina traslazionale in cui il passaggio dal laboratorio alla pratica clinica è diretto e immediato. Tali innovativi approcci di terapia cellulare sembrano promettenti non solo nell’ottica di migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti, ma anche di modificare la storia naturale delle malattie infiammatorie croniche [14]. Occorre però tener presente che tali procedure terapeutiche necessitano di un’alta tecnologia e di un’elevata integrazione tra esperti di diverse discipline e, pertanto, possono essere espletate solo in Centri altamente specializzati e referenziati e solo dopo un’attenta selezione dei pazienti candidati. Bibliografia 1. Marmont AM (2004) Stem cell transplantation for autoimmune disorders. Coincidental autoimmune disease in patients transplanted for conventional indications. Best Pract Res Clin Haematol 17:223-232 2. Oyama YU, Craig RM, Traynor AE et al (2005) Autologous hematopoietic stem cell transplantation in patients with refractory Crohn’s disease. Gastroenterology 128:552-563 3. 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La tosse è un meccanismo di difesa deputato a favorire l’eliminazione di corpi estranei penetrati accidentalmente nelle vie aeree e la rimozione di secrezioni mucose prodotte in eccesso. La tosse cronica e persistente ha grande importanza clinica e rappresenta uno dei motivi più comuni per il quale si richiede l’intervento del medico. Per l’elevata prevalenza e per le procedure diagnostiche e terapeutiche che talora richiede, la tosse costituisce un costo notevole per il sistema sanitario. Stime relative al mercato italiano testimoniano la vendita annua di circa 35 milioni di confezioni di farmaci da banco per il trattamento della tosse e sintomi a essa correlati. Il motivo per cui i pazienti con tosse si rivolgono frequentemente al medico (Tabella 1) e investono rilevanti quantità di denaro in farmaci è da ricercare nel fatto che questo sintomo ha frequentemente un impatto negativo sulla qualità della vita e può talvolta causare importanti complicazioni (Tabella 2). La tosse è certamente il sintomo più comune in corso di malattie respiratorie, ma può anche rappresentare uno dei sintomi, se non il principale, in corso di patologie non respi- Tabella 1. Motivi principali per i quali il paziente con tosse cronica richiede l’intervento del medico Motivo Percezione di qualcosa che non va Esaurimento Preoccupazione Insonnia Modificazioni secondarie delle abitudini di vita (*) Dolore muscolo-scheletrico Abbassamento della voce Eccessiva sudorazione Incontinenza urinaria Vertigini Paura di gravi malattie (cancro) Mal di testa Paura di gravi malattie (AIDS, TBC) Conati di vomito Vomito Nausea Anoressia Crisi sincopali Frequenza (%) 98 57 55 45 45 44 43 42 39 38 33 32 28 21 18 16 15 05 (*) Le modificazioni delle abitudini di vita includono impossibilità di parlare a lungo, di frequentare chiese o teatri, di cantare; tendenza a evitare contatti sociali per paura d’incontinenza urinaria e/o fecale Tabella 2. Principali complicazioni della tosse Cardiovascolari Ipotensione Perdita di coscienza Rottura di vene congiuntivali, nasali, anali Aritmie Neurologiche Sincope Mal di testa Embolia gassosa cerebrale Compressione cervicale acuta Ictus da rottura dei vasi cerebrali Convulsioni Gastro-intestinali Episodi di reflusso gastro-esofageo Rottura splenica Ernia inguinale Genito-urinarie Incontinenza Estrusione della vescica in uretra Muscolo-scheletriche Lesioni dei muscoli della parete addominale Fratture costali Aumento asintomatico della creatinfosfochinasi Respiratorie Enfisema interstiziale Pneumomediastino Trauma laringeo Trauma (rottura) dei bronchi Miscellanea Porpora e petecchie Peggioramento della qualità della vita Rottura di suture chirurgiche ratorie [1]. Per esempio, la tosse può costituire il sintomo d’esordio o l’unico della malattia da reflusso gastro-esofageo. Assai più raramente, la tosse rappresenta un disturbo di tipo comportamentale e come tale riveste interesse neurologico e psichiatrico. Fisiopatologia della tosse La tosse può essere un atto volontario, ma nella maggior parte dei casi è una manovra riflessa evocata principalmente da stimoli irritativi applicati sulla laringe o sull’albero tracheo-bronchiale. Essa comporta l’attivazione di molti muscoli, tutti a prevalente funzione respiratoria, che agiscono sulla parete toraco-addominale o sulle prime vie aeree [1, 2]. L’atto del tossire si realizza in tre fasi successive: una prima fase inspiratoria, in cui il soggetto inala un volume d’aria normalmente ben superiore al volume corrente; una seconda fase, detta “compressiva”, in cui la glottide si chiude mentre i muscoli espiratori della parete toracica e addominale si contraggono intensamente; infine, una fase espulsiva, allorché la glottide si apre consentendo l’espulsione ad alta velocità dell’aria precedentemente inalata e determinando la produzione di un caratteristico suono [3]. Tosse acuta, subacuta e cronica Il carattere acuto o cronico della tosse è definito in base a criteri temporali del tutto arbitrari ma largamente condivisi. Si usa pertanto distinguere la tosse acuta, quando il sintomo dura meno di quattro settimane, la tosse subacuta, quando la durata è compresa tra le quattro e le otto settimane, e la tosse cronica quando persiste da oltre otto settimane [1]. Le cause più frequenti di tosse acuta e subacuta sono le infezioni a carico dell’apparato respiratorio, sia di tipo batterico che virale: il raffreddore comune, la sinusite e rinite acuta, le riacutizzazioni di patologie respiratorie pre-esistenti quali la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la pertosse [1]. Fra le cause frequenti di tosse acuta di origine non infettiva ricordiamo la rinite allergica e l’inalazione di sostanze irritanti [1]. La diagnosi differenziale tra queste forme spesso è possibile attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo, in quanto hanno una presentazione clinica abbastanza caratteristica. La terapia della tosse acuta e subacuta può avvalersi di farmaci sintomatici [4]. La tosse cronica o persistente è più problematica dal punto di vista diagnostico poiché riconosce molteplici cause talvolta concomitanti. È ormai ampiamente accertato che, in un individuo non fumatore, che non faccia uso di farmaci ACE inibitori (notoriamente capaci d’indurre tosse in chi li assume) e con radiografia del torace normale, le principali cause di tosse cronica sono le sindromi asmatiche, le patologie rinosinusali, spesso caratterizzate clinicamente da rinorrea posteriore (o gocciolamento retronasale di muco), e il reflusso gastroesofageo [1]. Esistono altre condizioni patologiche che presentano un’elevata prevalenza nella popolazione generale e che sono accompagnate da tosse cronica. In questi casi, tuttavia, sono presenti lesioni identificabili con la radiografia del torace e raramente il paziente con queste affezioni si rivolge al medico per il sintomo tosse di per sé, poiché l’attenzione è maggiormente rivolta ad altri sintomi o manifestazioni cliniche. Tali malattie comprendono la bronchite cronica, il carcinoma polmonare, le bronchiectasie e la fibrosi polmonare idiopatica. La tosse psicogena [5] è una diagnosi che viene posta quando non si identificano altre cause plausibili che possano spiegare il sintomo. Questo tipo di tosse è descritto con maggior frequenza nei bambini e negli adolescenti. Nei successivi paragrafi esamineremo le cause di tosse cronica di più frequente osservazione in pazienti non fumatori, che non fanno uso di farmaci inibitori dell’enzima di conversione e con radiografia del torace normale: le sindromi asmatiche, le patologie rino-sinusali e la malattia da reflusso gastro-esofageo. Sindromi asmatiche Con questo termine si raggruppano una serie di forme morbose accomunate dalla presenza di flogosi eosinofila delle vie aeree e che possono tuttavia manifestarsi in forme clinicamente assai diverse: l’asma bronchiale propriamente detto, l’asma “variante tosse” e la bronchite eosinofila. L’asma bronchiale è una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree che si manifesta con difficoltà respiratoria, specie sotto sforzo, respiro sibilante, senso di oppressione toracica e tosse secca e stizzosa. È caratterizzata da iperreattività bronchiale e ostruzione al flusso aereo reversibile. La terapia dell’asma e della tosse che l’accompagna consiste in genere nella somministrazione di corticosteroidi e broncodilatatori per via inalatoria. L’asma variante tosse è una sindrome asmatica che si manifesta con tosse persistente come unico sintomo, in presenza di iperreattività bronchiale. Le crisi broncospastiche sono assenti. La terapia è identica a quella dell’asma classico. Talora la tosse è produttiva, con piccole quantità di escreato, generalmente verde per la presenza di eosinofili. Sebbene l’asma variante tosse migliori con la terapia inalatoria, una minoranza di pazienti risponde solo al trattamento con steroidi per via sistemica o ai farmaci antagonisti dei leucotrieni. Il termine bronchite eosinofila è riservato alle sindromi asmatiche caratterizzate da tosse persistente in pazienti che non mostrano broncocostrizione né iperreattività bronchiale. Per la diagnosi definitiva in genere è necessario documentare la presenza di flogosi eosinofila per mezzo della citologia dell’escreato o del lavaggio bronchiale. I pazienti di norma rispondono positivamente al trattamento con corticosteroidi per via inalatoria o sistemica. Patologie rino-sinusali Tali patologie si possono presentare con rinorrea anteriore e posteriore, quest’ultima intesa come sgocciolamento retro nasale di muco soprattutto durante decubito supino. Le patologie rino-sinusali che possono indurre tosse cronica includono tutte le forme di sinusite e di rinite (allergica, vasomotoria, infettiva, da agenti irritanti); di particolare rilievo è la rinite in corso di reflusso gastroesofageo (vedi sotto), che può verificarsi qualora il reflusso di contenuto gastrico si estenda in direzione prossimale fino ad interessare le vie aeree superiori. Reflusso gastro-esogageo Per reflusso gastroesofageo (RGE) si intende il flusso retrogrado di contenuto gastrico in esofago. Entro certi limiti, il RGE è un fenomeno fisiologico; quando tuttavia gli episodi di reflusso sono eccessivamente frequenti o provocano danni alla mucosa esofagea o si accompagnano a sintomi, si parla di malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE). I pazienti affetti da MRGE possono quasi sempre essere identificati per mezzo della storia clinica perché riferiscono sintomi tipici, quali pirosi e dolore retrosternale e fenomeni di rigurgito. Talvolta i sintomi del reflusso possono interessare organi extra-esofagei e generare una sintomatologia atipica, come nel caso dei pazienti che riferiscono come unico sintomo di reflusso la tosse cro- nica. La genesi della tosse in pazienti con RGE è ancora oggetto di discussione. La somministrazione di farmaci inibitori della pompa protonica rappresenta la scelta terapeutica più logica in pazienti con tosse cronica da reflusso; in associazione è talvolta opportuno somministrare procinetici come la metoclopramide e il domperidone e i comuni antiacidi. Tosse da farmaci inibitori dell’enzima di conversione (ACE) La tosse da ACE inibitori colpisce circa il 15% dei pazienti in trattamento con tali agenti. Si può manifestare all’inizio del trattamento, anche per dosaggi bassi, ovvero dopo anni di terapia apparentemente ben tollerata. La tosse da ACE inibitori sembra essere causata dall’accumulo di bradichinina, agente broncospastico e tussigeno, il cui catabolismo è parzialmente inibito dai farmaci in questione. Il ruolo del Centro per lo Studio e la Diagnosi della Tosse La tosse cronica ha una prevalenza elevata e impegna notevoli risorse economiche e sanitarie. La diagnosi e il trattamento della tosse cronica spesso richiedono la consulenza di personale specializzato quale quello che opera presso il Centro per lo Studio e la Diagnosi della Tosse (Centro Tosse) afferente al Dipartimento di Medicina Interna dell’Università degli Studi di Firenze. Le visite sono prenotabili al 055-413183 specificando “visita per tosse”. L’attività clinica svolta presso il Centro Tosse si rivolge esclusivamente a soggetti con tosse cronica e consiste sostanzialmente in visite ambulatoriali in occasione delle quali al paziente vengono poste delle domande molto semplici con lo scopo di caratterizzare in maniera precisa la tosse stessa e di valutare l’eventuale presenza di sintomi di accompagnamento. Tale colloquio, in aggiunta a un accurato esame clinico, permette quasi sempre di delineare un quadro preciso delle cause della tosse e, di conseguenza, indirizza verso alcuni utili approfondimenti diagnostici e possibili trattamenti efficaci. Le visite specialistiche presso il Centro per lo Studio e la Diagnosi della Tosse di Firenze sono prenotabili al 055-413183, specificando “visita per tosse”. Bibliografia 1. Widdicombe J, Fontana G (2006) Cough: what’s in a name? Eur Respir J 28:10-15 2. Morice AH, Fontana GA, Belvisi MG et al (2007) Guidelines on the assessment of cough. European Respiratory Society (ERS). 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Emergenza e Accettazione ASL 4 Prato, Prato; 3Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica, Università degli Studi di Firenze, Firenze Per il Sistema di FarmacoVigilanza della Regione Toscana, Area Vasta Centro, (www.farmacovigilanza.toscana.it) Inquadramento del problema I trial clinici condotti negli ultimi decenni hanno costantemente dimostrato l’efficacia del warfarin per la prevenzione primaria e secondaria del tromboembolismo arterioso e venoso [1]. Nonostante il diffuso utilizzo, questo farmaco presenta numerose difficoltà di applicazione terapeutica, che determinano un potenziale rischio di induzione di eventi emorragici. L’anticoagulazione con warfarin necessita, infatti, di un costante follow-up clinico a causa della ristretta finestra terapeutica, dell’ampia variabilità del rapporto dose-risposta e delle numerose interazioni farmacologiche e alimentari [2]. Tuttavia, è ben noto che caratteristiche del paziente in trattamento con warfarin come l’età, la presenza di stati patologici concomitanti e la terapia con altri farmaci sono solo parzialmente responsabili di questa variabilità [1-6]. Dal momento che tali elementi sono stati oggetto di un precedente articolo, qui esamineremo alcuni degli aspetti di farmacogenetica che condizionano la risposta farmacologica e tossicologica alla terapia anticoagulante orale con warfarin. Aspetti di farmaco genetica Le notevoli differenze nella dose terapeutica del warfarin che si verificano nei pazienti possono essere dovute a variabilità nella clearance del farmaco, oltre che a modificazioni nella sua capacità di limitare l’attività procoagulante nei diversi individui. Il warfarin viene infatti metabolizzato tramite passaggi complessi mediati dal sistema epatico del citocromo P450 (CYP450) [1]. Eventuali variazioni interindividuali della funzionalità enzimatica di isoforme del CYP450 possono influenzare la clearance del warfarin, portando a un aumento o a una diminuzione delle concentrazioni del farmaco e quindi a una risposta variabile alla terapia. Un altro possibile meccanismo alla base della variabilità dose-risposta è riconducibile a differenze di attività dell’enzima vitamina K epossido reduttasi (VKOR), deputato alla ricostituzione della vitamina K nella sua forma attiva: la vitamina KH2. La vitamina KH2 è necessaria per la gammacarbossilazione dei fattori della coagulazione II, VII, IX e X. Il trattamento con warfarin interferisce nel ricircolo della vitamina K, impedendo la carbossilazione di questi fattori e determinando quindi una ridotta attività procoagulante. Nella ricerca di un substrato genetico per tale variabilità, sono stati identificati alcuni importanti polimorfismi dei geni che codificano per questi due sistemi enzimatici. Polimorfismi del sistema epatico del CYP450 Il warfarin viene assunto in forma di miscela racemica dei due enantiomeri R- e S[1]. L’S-warfarin ha un effetto di inibizione della VKOR dalle 3 alle 5 volte superiore all’isomero destrogiro [5]. L’S-warfarin è metabolizzato dall’isoforma 2C9 del CYP450. Il prodotto di questa reazione è il 7-idrossiwarfarin, un metabolita inattivo. Le isoforme CYP1A2, CYP2C19 e CYP3A4 degradano invece l’R-warfarin per metabolismo ossidativo. Sulla base del profilo farmacocinetico del warfarin, il CYP2C9 rappresentava un bersaglio intuitivo per gli studi genetici iniziali. Fra i circa 12 diversi alleli del CYP2C9 finora descritti, ne sono stati identificati 3 che presentano differenti velocità di metabolismo del warfarin [7]. L’allele wild-type è stato identificato come CYP2C9*1, mentre i due alleli varianti sono stati contrassegnati come CYP2C9*2 e CYP2C9*3. Si stima che il 30% degli individui di origine europea possieda uno o più alleli varianti (*2 o *3). La frequenza allelica di CYP2C9*2 è stimata intorno allo 0,1 e quella di CYP2C9*3 intorno allo 0,08. L’allele wild-type predomina nelle popolazioni afroamericane e asiatiche con una frequenza del 95% [7]. Tabella 1. Distribuzione nella popolazione dei principali polimorfismi del complesso vitamina K epossido reduttasi. Da [4] Posizione 1173 3730 Polimorfismo CC 36,8% GG 45,5% CT 46,9% GA 39,5% TT 16,3% AA 15,0% Polimorfismi del complesso vitamina K epossido reduttasi Per mezzo di alcuni studi di genomica, condotti anche in campioni italiani di soggetti sottoposti a terapia anticoagulante orale, è stato possibile identificare dei polimorfismi del gene relativo al complesso enzimatico vitamina K epossido reduttasi 1 (VKORC1). In particolare, sono stati identificati due polimorfismi genetici: una sostituzione C>T in posizione 1173 e G>A in posizione 3730. La distribuzione di questi polimorfismi nella popolazione italiana è riportata in Tabella 1. Tali polimorfismi possiedono una notevole rilevanza clinica, dal momento che i pazienti con il genotipo 1173CC necessitano di una dose giornaliera media di warfarin più elevata rispetto agli individui con il genotipo CT o TT; anche il genotipo 3730AA richiede una dose di warfarin maggiore rispetto a GG. Conclusioni La rilevanza delle varianti geniche nella risposta terapeutica alle dosi convenzionali di warfarin non può in alcun modo essere sottovalutata; in quest’ottica nel 2007, anche la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato una modifica alla scheda informativa del farmaco introducendo il concetto che il profilo genico del paziente rappresenta una importante caratteristica condizionante le dosi terapeutiche [8]. Recentemente, studiando prima 4043 pazienti e validando poi il dato su una coorte di 1009 soggetti, è stato sviluppato un algoritmo per la predizione del dosaggio di warfarin iniziale individuale che tiene conto anche dei dati farmacogenetici [9]. Sebbene una recente analisi condotta con la metodologia genome-wide abbia concluso che non c’è da aspettarsi l’individuazione di altri significativi polimorfismi genici condizionanti la risposta a questo farmaco [10], le varianti finora individuate non spiegano completamente il fenomeno. In base, infatti, ai dati riportati anche nella scheda tecnica del warfarin, circa il 30% della variabilità può essere attribuita al solo gene VKORC1, valore che raggiunge il 40% per la combinazione con CYP2C9. Se si aggiungono a questi due genotipi altri fattori quali età, altezza, peso, indicazioni terapeutiche e farmaci interagenti, si arriva a spiegare il 55% della variabilità nella risposta. In conclusione, sebbene la ricerca genomica abbia permesso un grande salto di qualità nella comprensione del profilo farmaco-tossicologico del warfarin, sono necessari ulteriori studi in questo settore perché il quadro sia veramente completo. Bibliografia 1. 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Blood 112:1022-1027 “Chi si innamora di pratica senza scienza è come il nocchiero che entra in Naviglio senza timone o bussola: che dove vada nessuna ha certezza” (Leonardo da Vinci) Buone pratiche e rischio trombo embolico Introduzione I pazienti ricoverati nei Reparti di Medicina Interna spesso sono anziani, affetti da più di una patologia e sono diversi da quelli arruolati nei trial clinici dai quali derivano le evidenze su cui si dovrebbe basare la terapia. Proprio per la loro complessità, spesso sono soggetti a rischio se non viene instaurata un’adeguata profilassi, ma lo sono altresì se questa azione non tiene conto delle possibili interferenze con altre terapie e dei molteplici operatori sanitari (medici di medicina generale, medici specialisti, infermieri) con cui, una volta dimessi, dovranno interfacciarsi in ragione della loro polipatologia. La profilassi del tromboembolismo venoso nei pazienti ricoverati in Medicina e la profilassi del cardioembolismo nei pazienti con fibrillazione atriale sono due situazioni che bene spiegano quanto esposto. Il loro elevato impatto epidemiologico in ambito clinico e la possibilità di ridurre i rischi connessi hanno mosso il Gruppo Toscano di Gestione del rischio Clinico (GRC), con la collaborazione di esperti del settore, a definire delle modalità di azione intese come “buone pratiche“ per minimizzare in modo preventivo i rischi individuati. Profilassi del tromboembolismo venoso (TEV) in Medicina Interna Da molto tempo è noto che il TEV, nelle sue forme di trombosi venosa profonda (TVP) e di embolia polmonare (EP), è una complicazione frequente nei pazienti ricoverati in Ortopedia e in Chirurgia, mentre è più recente la consapevolezza che il rischio è elevato anche per determinati soggetti ricoverarti in Medicina. Il rischio elevato di TEV è frequente in Medicina Interna Nel 2000 un gruppo di ricercatori di Boston riportava una rilevazione effettuata nel loro Ospedale, il Brigham and Women’s Hospital: su 384 casi di TEV, il 44% si era verificato in Medicina, il 16% in Chirurgia e il 9% in Ortopedia [1]. Gli stessi Autori alcuni anni dopo riferivano come su 5451 casi di TVP diagnosticati in 183 Ospedali degli USA, il 71% si era verificato in pazienti che non facevano alcuna profilassi e di questi il 59% era ricoverato in Reparti Medici e il 41% in reparti Chirurgici [2]. Da questi dati emergeva che il TEV è frequente in ambito medico e che la profilassi era maggiormente effettuata nei Reparti Chirurgici, soprattutto in Ortopedia. Il rischio individuale di sviluppare TEV può essere calcolato in quanto deriva dalla somma dei fattori predisponenti e dei fattori di esposizione rappresentati dalla condizione morbosa che ha determinato il ricovero. Assegnando un valore numerico a ciascun fattore di predisposizione e di esposizione (2 se aumentano il rischio (R) fra 2 e 9 volte e 1 se R <2) si ottiene un punteggio che identifica i soggetti ad alto e basso rischio [3]. Da una ricerca effettuata nel 2008 dalla FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti) in 29 Reparti di Medicina Interna della Toscana su 1648 ricoverati di età media 78 anni è emerso che il 68% era ad alto rischio e il 40% aveva 3 o piu fattori di rischio di sviluppare TEV. Dato il numero dei ricoverati in Medicina, l’impatto epidemiologico del TEV è elevato, verosimilmente maggiore che per le discipline chirurgiche, e il peso prognostico è rilevante se si pensa che l’EP ha ancora, con la miglior terapia, una mortalità dell’8-10%. La prevenzione è possibile: una nuova buona pratica Tre grandi trial, condotti fra il 1998 e il 2003, hanno dimostrato che la profilassi con eparine a basso peso molecolare e con il pentasaccaride fondaparinux determina riduzioni del rischio relativo di TEV da un minimo del 47% a un massimo del 63% [4-6]. Da quanto esposto risulta l’importanza di sviluppare la cultura della prevenzione, la necessità di identificare fra i pazienti ricoverati in Medicina quelli a rischio di sviluppare TEV e l’efficacia della profilassi adeguatamente effettuata. Il GRC ha coordinato la realizzazione di una scheda che deve essere parte integrante della cartella clinica da compilare all’ammissione del paziente in Medicina per identificare, tramite un sistema a punti, i soggetti nei quali è appropriato instaurare la profilassi. Nella scheda sono anche indicate le possibili opzioni farmacologiche e i dosaggi appropriati oltre alle misure non farmacologiche nei casi di elevato rischio emorragico. che in questa fascia di popolazione è elevata la frequenza di comorbilità. Anche i dati di incidenza corretti per l’età dimostrano che questa aritmia è in aumento: esattamente del 12,6% dal 1980 al 2000 e le previsioni sono di un costante ulteriore incremento nei prossimi anni [8]. Efficacia e rischi legati alla prevenzione Numerosi trial hanno dimostrato negli anni precedenti che il rischio cardioembolico determinato dalla FA può essere ridotto con l’uso di anticoagulanti orali che agiscono interferendo con l’azione della vitamina K nella sintesi di alcune proteine della coagulazione. Una metanalisi effettuata nel 1999 su 6 grandi trial ha dimostrato come l’uso di uno di questi farmaci, il warfarin , determini una riduzione del rischio relativo di ictus del 62% [9]. Questi dati di efficacia sono però legati a un dosaggio adeguato che mantenga la misura di azione (definita da INR - International Normalized Ratio) in un ambito molto ristretto (fra 2 e 3). Per valori inferiori di INR si riduce l’azione protettiva e per valori superiori aumenta il rischio emorragico. A differenza degli altri farmaci, non esiste una dose fissa ma il dosaggio ottimale dipende dalle caratteristiche individuali e dall’interazione con alimenti e farmaci. I pazienti appartenenti alla fascia di età più avanzata sono a più alto rischio di emorragie maggiori, verosimilmente in ragione della maggior difficoltà a dosare il farmaco e a causa delle possibili interferenze con le altre terapie effettuate per le comorbiltà associate. In uno studio effettuato al Massachusetts General Hospital di Boston le emorragie maggiori a 1 anno di terapia con warfarin [10] erano lo 0,04% nei soggetti con età <80 anni, ma salivano allo 0,1% in quelli con età >80 anni. Inoltre, lo stesso studio dimostrava che nei primi mesi il rischio di abbandonare la terapia anticoagulante era di circa 3 volte maggiore per i pazienti più anziani. Una buona pratica “sperimentata”: il farmamemo L’indicazione e l’efficacia della terapia anticoagulante sono conoscenze consolidate al pari di quelle che sono, in base alle linee guida, le controindicazioni. I maggiori limiti di applicazioni sono legati alla sicurezza di impiego che nei pazienti affetti da molteplici patologie, seguiti da vari medici, in terapia con altri farmaci può indurre all’abbandono e quindi all’inefficacia oppure può determinare effetti collaterali gravi. Per smantellare il doppio rischio, di non assunzione e di effetti tossici, è stato progettato e sperimentato in alcune ASL della Toscana il sistema “farmamemo” le cui caratteristiche sono state estesamente descritte in questa stessa rubrica. In sintesi, la sua applicazione prevede che il paziente venga educato a gestire la terapia anticoagulante e che l’interfaccia con il laboratorio di analisi e con i vari medici avvenga per iscritto tramite un booklet su cui sono ripetute le conoscenze necessarie a un’applicazione della terapia efficace e sicura. L’esperienza maturata rende oggi auspicabile che anche in altri ambiti clinici la preventiva individuazione dei rischi porti alla definizione di procedure che ne riducano, per quanto possibile, le conseguenze negative. G. Pettinà Direttore, UOC Medicina Interna Ospedale di Pistoia Clinical Risk Manager ASL 3 Pistoia Bibliografia 1. Goldhaber SZ, Dunn K, MacDougall RC (2000) New onset of venous thromboembolism among hospitalized patients at Brigham and Women’s Hospital is caused more often by prophylaxis failure than by withholding treatment. Chest 118:1680-1684 2. 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Ann Intern Med 131:492-501 Ischemic Attack) il rischio aumenta al 7% [7]. 10. Hylek EM, Evans-Molina C, Shea C et al (2007) Major hemorrhage and tolerability of warAltro motivo di attenzione è il peso epidemiologico della FA. La sua incidenza farin in the first year of therapy among elderly patients with atrial fibrillation. Circulation aumenta con l’età e fra 70-80 anni è di 10-20/1000persone/anno. Da notare 115:2689-2696 IMPRESSUM Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 4 Num. 4 Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano Stampa: Grafiche Porpora, Segrate (MI) – Copyright © SIMI, Società Italiana di Medicina Interna