Coinvolti nelle storie: la narrazione nelle scienze sociali

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Coinvolti nelle storie: la narrazione nelle scienze sociali
Funes. Atelier di Ricerca sulla Narrazione e l'Immaginario
Coinvolti nelle storie:
la narrazione nelle
scienze sociali
Sintesi degli interventi
Indice
Epistemologie e metodologie narrative
Storie di vita nella prospettiva antropologica. Il ruolo degli interlocutori etnografici in una ricerca
longitudinale sulla trasformazione industriale. di Fulvia D’Aloisio............................................................. 1
Oltre l’opacità? Poteri, osservatori osservati, narrazioni, opachi silenzi… di Ottavia Salvador................... 4
Trame e percorsi tra tempo e identità. Le aspirazione dei giovani in una ricerca narrativa. di Guido Fraia
ed Elisabetta Risi .................................................................................................................................... 7
Mappare biografie di genere: una proposta metodologica. di Emanuela Spanò ...................................... 13
Narrazioni post-seriali
Spoiler! la narrazione trans-mediale e i suoi effetti collaterali. di Emiliano Chirchiano............................. 31
Da serial fiction a serial killer: la narrazione del processo fuori dai tribunali. di Chiara Di Martino ........... 36
Lynn M. Randolph e Donna J. Haraway: la parabola del cyborg tra arte e filosofia. di Linda De Feo ......... 48
Lo spostamento del conflitto nella post-fiction seriale. di Achille Pisanti................................................. 50
Grammatiche del sé
Narrare l’immortalità. di Alessandra Santoro ......................................................................................... 51
Narrare il corpo
Svelate. Marocco {f. pl.}: femminile plurale. Svelare storie per decostruire stereotipi. di Sara Borrillo .... 56
Sua santità il corpo. Narrazione e branding nel martirio del San Sebastiano di Ozmo. di Giovanni Bove... 64
Corpo, emozioni, linguaggio: le storie possibili della malattia. di Silvia Potì ............................................ 75
Storia di storie, narrare il mondo
Narrare, narrarsi l’esilio. di Elena Trapanese .......................................................................................... 82
Discontinuità narrative e temporali nel don Chisciotte. di Paola Gorla ................................................... 90
Religione e Umanità in Comte. di Davide De Sanctis............................................................................... 92
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Epistemologie e metodologie narrative
Storie di vita nella prospettiva antropologica. Il ruolo degli interlocutori etnografici
in una ricerca longitudinale sulla trasformazione industriale. di Fulvia D’Aloisio
I brani riportati di seguito sono ricavati dal raccontoche scaturisce da due interviste, effettuateda chi scrive,
a Cristina Cordisco, operaia al montaggio della Fiat di Melfi: la primaraccolta tra ottobre 1999 e giugno 2000
nella prima fase di ricerca sul campo (1999-2002), cui è seguita una seconda fase di ricerca longitudinale,
dal 2011 al 2013, e con essa una seconda intervista. Il primo brano si riferisce all’ingresso di Cristina, nel
1994, nella nuova fabbrica integrata Fiat-Sata,appena partita a Melfi, e dunque all’approccio con il suo posto di lavoro sulla linea di montaggio. L’apertura dell’azienda includeva circa 7000 dipendenti dell’area del
vulture-melfese, senza nessuna esperienza di lavoro in una grande fabbrica né in un’industria pesante: si
trattava di giovani tutti al di sotto dei 32 anni, per lo più in possesso di diploma di istruzione superiore, per
il 18% donne, con alle spalle esperienze temporanee e diversificate di lavoro precario e/o a nero. La seconda intervista è stata svolta invece nell’aprile del 2012, ripercorre il passato più recente e la fase di crisi aziendale, iniziata nell’autunno del 2011 con la riduzione della produzione e il ricorso alla cassa integrazione,
mentre l’azienda si avviava a realizzare il suo nuovo assetto globale, attraverso la fusione con Chrysler
(completata nel febbraio del 2014).
“Prima di tutto ci ho avuto un impatto proprio con la macchina, con la scocca: io ero abituata a lavorare con
la gente, cioè in ospedale, parlavo, che ne so... aiutavo l'anziano a salire e a scendere dal lettino, l'aiutavo a
fare gli esami, e mi sono ritrovata con la scocca di fronte... Ho avuto proprio un impatto brutto, una cosa
fredda, dico e che devo fare vicino a questa scocca, non avevo proprio idea di che dovevo fare io vicino alla
scocca: dico, e che devo fare, il meccanico? Io sì, ero andata a lavorare in questa fabbrica di automobili, ma
mica mi ero resa conto che poi, in fondo in fondo, avrei fatto il meccanico o il carrozziere, perché alla fine
quello fai! E insomma piano piano mi sono dovuta abituare a lavorare con questa scocca, e l'impatto è stato
brutto.
(…)E poi, niente, dopo quindici giorni che lavoravo in fabbrica sono stata ricoverata in ospedale perché non
sono stata bene. Secondo me è stato uno shock psicofisico, ho avuto un impatto troppo brutto con la fabbrica, con le persone, non lo so, tutto mi immaginavo fuorché che la fabbrica fosse così... così cruda, così... ti
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violentava continuamente, anche la postazione, cioè tu devi stare lì sette ore e un quarto, tolte le due pause
non ti devi più muovere. Cioè devi stare ferma nello stesso posto a fare sempre le stesse operazioni. E sì, il
primo mese le facevi però più andavo avanti e più mi rendevo conto dell'assurdità: ma come, io, se devo andare in bagno non ci posso andare, deve venire un'altra persona a darmi il cambio, se no non mi posso muovere. Mi sentivo proprio violentata nel mio io, nella mia libertà, non ero nessuno, ero un numero, ero una
che faceva quell'operazione e la macchina non poteva andare avanti senza quell'operazione; io ero solo una
funzione, un'operazione, per me era assurdo, io ero annullata, non contavo niente, ero un numero e basta,
io facevo quell'operazione e basta. Ma porca miseria, io pensavo che nella mia vita dovevo difendere la mia
libertà soltanto da mio padre, e invece mi accorgo che la mia libertà qui non esiste proprio!”Cristina C., Melfi 1999 (D’Aloisio 2014: 128 e segg.)
“Con la cassa integrazione lavoriamo tre giorni. Quindi loro dicono che per il fatto che lavoriamo tre giorni,
insomma, non so se nelle altre interviste già te le hanno dette queste cose, non vorrei ripetere… Dice che per
il fatto che noi facciamo tre giorni, siccome non c’è assenteismo, la gente è tutta in fabbrica, cioè non c’è chi
fa la malattia, chi si prende un giorno, insomma non c’è assenteismo in fabbrica. Per cui loro su questa base
ti alzano la linea al massimo, e quindi ti fanno fare la produzione di prima, magari, quando si lavorava sempre, quando per ogni turno ne facevi 220, quelle erano le macchine che facevi... (…) E loro dicevano che comunque in base al fatto che non c’è assenteismo, che magari ti migliorano ergonomicamente la postazione,
però questo lo dicono loro… la loro è una teoria, mentre invece la pratica tu la senti, sulla tua pelle, la pratica è dura.
(…)E’ un momento particolare perché si sente che vogliono un po’ sfoltire, cioè troppa gente, che vogliono
mandare un po’ di gente a casa, tutta questa vicenda di Marchionne, insomma tutto l’andazzo generale che
si sente in TV, e quindi comunque la gente è molto spaventata. Perché c’è gente giù che ci ha i mutui, è molto spaventata, c’è gente che sta zitta e basta, cioè lavora, dice Cristina, ormai qua è così, parli e che fai, che
fai? Parli e il giorno dopo ti mandano in prestito, o ti spostano, ormai, qua chiami il sindacato e non concludi
niente, chiami quello e non concludi… cioè, stai proprio alla mercé… c’è proprio un’atmosfera… ti senti proprio il fiato sul collo: cioè, tu oltre al lavoro fisico, ti senti proprio continuamente sotto pressione, oltre al lavoro fisico, vai a lavorare proprio con quella poca voglia di andare a lavorare, ma non perché non hai voglia
di fare una giornata di lavoro e guadagnare, e guadagnarti quello che ti sei guadagnato, ma perché ci mettono sopra pure la pressione psicologica, questa cosa che ti senti come una cappa addosso, non vai a lavorare tranquilla, serena. Cioè, solo che pensi che devi andare a lavorare, devi respirare quell’aria… io dico
quell’aria da caserma, militare, proprio.” Cristina C., Melfi 2012 (D’Aloisio 2014: 156 e segg.)
Si tratta di momenti diversi della vicenda e dello sviluppo della fabbrica, con differenti ripercussioni locali,
in cui si intravede un differente significato del lavoro, momenti che si declinano nell’esperienza di Cristina e
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sono rielaborati nel suo racconto, sollecitato da chi scrive entro la cornice di un incontro etnografico denso
di significati e di risvolti antropologici (narrato in Vita di fabbrica:D’Aloisio 2014).
L’intervento intende brevemente tracciare la prospettiva epistemologica di utilizzo delle fonti orali, il ruolo
degli interlocutori, nel quadro della più ampia metodologia del fieldworketnografico, la natura dialogica
della ricerca e delle testimonianze raccolte, a partire dal dibattito post-modernista che ha profondamente
ripensato il carattere oggettivante e olistico dell’uso delle fonti orali in antropologia; si accenna al problema
della rappresentazione nella scrittura e dell’interpretazione; da ultimo, nella prospettiva tracciata da Ernesto de Martino, il racconto viene ricondotto a quella “tematizzazione del proprio e dell’alieno” che fa
dell’incontro etnografico il punto dipartenza e lo snodo centrale della costruzione di una conoscenza di tipo
antropologico.
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Oltre l’opacità?
Poteri, osservatori osservati, narrazioni, opachi silenzi… di Ottavia Salvador
Data una prospettiva di ricerca riflessiva (nel senso esplorato, per esempio, dal sociologo A. Melucci), le suggestioni a seguire, scritte
in forma di appunti ancora incompiuti, rimandano ai diversi confini opachi che si incontrano nel ricercare, nel
narrare e ri-narrare.
Gli appunti e le domande intersecano una ricerca che esplora il tratto di in-evidenza delle morti di persone emigrate-immigrate avvenute in contesti migratori; è la mia ricerca di dottorato, in corso, dal titolo ‘Non vanno di là con i fiori.
Le morti in-evidenti nella migrazione’. Un’esplorazione di taglio sociologico che si propone, nel contesto italiano, di studiare, sul
campo, come si configura il trattamento sociale (evidente/non-evidente) di quelle morti, ricercando i processi di
significazione che la ‘morte’ come fatto sociale veicola. Sino a tentare di ‘comprendere’ quei corpi nominati che si trasformano in
corpi anonimi, quei corpi che comunicano in corpi silenziosi che ‘sono comunicati’ da altri, dal discorso pubblico,
dallo stato. ‘Comprendere’ e ‘comunicare’ forse pensando a Pasolini quando scriveva: «La morte non è nel non poter
comunicare, ma nel non poter più essere compresi».
Il punto di partenza non può che essere l’evidenziazione delle dimensioni di potere che attraversano il campo di ricerca e il
perché la ricerca sia centrata sulle narrazioni anche quando (e proprio perché) queste diventano narrazioni impossibili cioè
narrazioni di chi non-esiste (e non solo perché è morto).
Il potere e l’opacità. Un potere suadente abita nelle parole e nei corpi in relazione: è visibile/invisibile. Ciò
che è visibile non è per forza visibile; cioè che è in-evidente è spesso reso tale. Cioè che è visibile può essere
utilizzato dal potere per opacizzare, inter-cambiare la dimensione di visibilità.
L’immagine del corpo morto di un emigrato-immigrato, per esempio, nel ritaglio di un giornale, nella sequenza di una video-ripresa, nelle parole di qualcuno, rende apparentemente iper-visibilizzato il tema della
‘morte nella migrazione’ che viene però, spesso, trasformato in una piattaforma politica strumentale a ipervisibilizzare altre immagini che evocano figure e mondi oscuri, ora di attualità: gli ‘scafisti’, i trafficanti, una
determinata area geografica (la Libia). Ma quelle morti, parafrasando Aimé Césaire, spirano nel bianco stagno di un altro silenzio in-evidente. Che cosa narra quel silenzio?
L’opacità e il potere si interrogano anche nella pratica di ricerca posta di fronte all’indesiderabile: la perforazione dell’opacità degli altri come violenza. «L’opacità di un linguaggio che non si apre al primo istante è
senza dubbio l’informazione più importante e più rara», scriveva Sayad ne «La doppia assenza». Il silenzio,
la resistenza, l’esitazione, il confine di opacità delle narrazioni, il rischio del voyeurismo: dimensioni da mettere a tema.
Ma l’opacità e il potere si interrogano anche nella differenza di potere esercitata sulla definizione
dell’alterità.
Édouard Glissant rivendicò in «Poetica del diverso» il «diritto all’opacità» come segno «più evidente» della
«non barbarie», denunciando provocatoriamente i gesti di potere sull’altro-da-sé reso nudo, pornograficamente, nella posizione di «essere compreso» e ridotto a «modello» della propria «stessa trasparenza».
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Si fissa una misura della profondità dell’ascolto che è anche profondità dello sguardo e tentativo di sovvertimento dei rapporti di potere (tra osservatori osservati e osservati osservatori) o rivelazione dei rapporti di
potere (tra narratori e narrati)? Una sfida, comunque.
Osservatori osservati. Ambedue si trovano nello spazio-tempo (complesso) di un campo mutevole.
Nell’atto di vedere, sentire sono custodi consapevoli/non-consapevoli anche di ciò che non vedono, non
sentono; di ciò che si perde di qualsiasi gesto interattivo, di qualsiasi campo di forze.
Tutti e due hanno di fronte un velo di oscurità: è la loro stessa presenza nel campo in movimento che crea
opacità, ma opaca è anche la loro relazione. Anche loro sono in movimento, in quanto soggetti-in-azione.
E allora: dove/quando fermare lo sguardo? Come registrare il pieno e il vuoto, il movimento e l’arresto, il
visibile e l’invisibile: per me, per te, per noi, per loro nel gesto riflessivo che rovescia continuamente gli
specchi? Che cosa accade? Che cosa tiene in movimento il campo? Quali eventi e processi significativi, singolari, evidenti, non-evidenti? Qual è la dimensione di non-liminalità che lo attraversa (il fuori implicato, incarnato nell’azione che si svolge dentro il campo). Ma anche: quali spiazzamenti? Quali nessi imprevisti?
Quali risonanze? Quali energie sottili? Quali meraviglie? Quali suoni, odori, profumi, colori? E: quali parole?
La riflessività (auto-osservazione) è un tentativo di ‘stabilizzazione’ del movimento di un ‘campo’ per vedere, sentire di più (l’espressione ‘stabilizzazione’ è utilizzata con questo stesso significato da A. Melucci, quasi intesa come il gesto di scattare un’istantanea).
Che cosa determina la legittimità di questa stabilizzazione auto-riflessiva? Qual è il valore dell’essere nel
campo? Quali differenze di potere si creano massimizzando questa prossimità? E quando la ricerca,
l’etnografia, le narrazioni riescono a giocare esteticamente/eticamente con questi specchi?
Narrazioni. L’opacità nella produzione interattiva di una narrazione è presente quando un narratore racconta di sé a qualcuno o quando non lo fa; quando il senso creato risuona e riproduce il posizionamento insuperabile del proprio essere-in-relazione: opacizzato, parzialmente oscurato perché inter-soggettivo,
specchio di prospettive in-fondibili che vibrano di quel movimento del campo (e di ciò che sta fuori di esso)
in una dimensione testuale da considerarsi sempre a più dimensioni: espressivamente infinita e ineluttabilmente limitata (anche quando l’agire sociale è letto come un testo che diventa altri testi e altri testi…).
Perché proprio le narrazioni? «Per portare alla luce ed esplorare la circolarità dei discorsi sul mondo sociale» (in un espressione di A. Dal Lago tratta da ‘Oltre il metodo’), per orientare lo sguardo sulle «strutture
del mondo-della-vita» inseparabili da quel loro «assunto di opacità». Per un crocevia narrativo che si accende con il gesto di ricercare e prima non c’era…e risuona nel campo, si materializza, forse trasforma qualcosa…
«Il senso viene detto ma anche in parte nascosto, e viene detto in molte direzioni diverse contemporaneamente. Come sociologi ci interessa cogliere tutta l’ambivalenza o la polivalenza del soggetto verso se stesso e verso gli altri. L’opacità a sé fonda la differenza tra coscienza narrativa e coscienza pratica e di qui derivano tutti gli scarti che nei soggetti individuali e collettivi l’analisi può mettere in luce tra la coscienza e5
spressa a livello discorsivo e la coscienza pratica. (…) Analizzare i testi nelle loro strutture sociologiche comporta una capacità sempre più sofisticata di situarli all’interno di sistemi relazionali, che implicano sempre
differenze e potere» (A. Melucci).
Come ricercando e narrando il potere si interviene sul potere?
Narrare opachi silenzi. Perché qualcosa di quel campo non si vede, non si sente? La riflessione sulla dimensione di invisibilità e negazione del trattamento sociale delle morti di chi è emigrato-immigrato ha la possibilità di rivelare, intuitivamente e nella pratica di ricerca, i significati che attraversano non solo il fenomeno
in oggetto, ma anche i vissuti nella migrazione e il rapporto con lo stato; tracciando anche dei nessi tra le
significazioni che attraversano il trattamento sociale della morte e forme coscienti di morte civica, sociale e
politica nella migrazione.
Una delle strategie della ricerca è stata decidere di esplorare il configurarsi di un lutto familiare, individuale,
collettivo in un contesto migratorio nella sua dimensione narrativa: quali tracce lascia un’assenza in un contesto migratorio esplorata attraverso le narrazioni dei left behind e di altri molteplici medium? Che cosa dicono, non tanto sulla morte, ma sulla vita, su quella che fu la ‘presenza’ nella migrazione? Ma anche: qual è
la dimensione narrativa delle morti che accadono nello spazio sospeso tra l’emigrazione e l’immigrazione,
durante l’attraversamento di confini tra stati? Qual è la dimensione narrativa delle morti anonime? E cosa
diventano ancora dopo, quando quei corpi diventano sepolture e nuovamente sono vocalizzati da altri (come suggerito prima, quasi trasformandoli in piattaforme politiche)? Che cosa raccontano quei corpi là dove
vengono sepolti, numerati perché anonimi o nominati ‘immigrato’, ‘extracomunitario’ come status definitivo sulla propria esistenza, con una scritta di gesso sul cemento? Che cosa rivela l’impossibile vocalizzazione
di quei silenzi? O la loro vocalizzazione come ultima violenza? Che cosa dice l’impossibilità del loro discorso? La dis-integrazione dei corpi che dis-integra le parole? Le morti per invisibilità? Impossibili sconfinamenti che creano l’anonimo che è più dell’invisibile. Che metafora estrema per la ricerca e per le
narrazioni.
A. Melucci nel libro «Parole chiave» scrisse di una conoscenza sociale che doveva assumere il proprio compito» cioè quello di «ridurre l’opacità». Un’opacità che si manifesta attraverso quello che «viene negato,
messo ai margini, privato di parola e di senso».
È in questa dimensione che l’interrogazione ‘Oltre l’opacità?’ perde, per un attimo, il proprio punto di domanda e trova una traccia decisa attraverso la quale guardare oltre.
«I sommersi anche se avessero avuto carta e penna,
avrebbero testimoniato perché la loro morte
era cominciata prima di quella corporale» (P. Levi).
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Trame e percorsi tra tempo e identità. Le aspirazione dei giovani in una ricerca
narrativa. di Guido Fraia ed Elisabetta Risi
Il contributo si propone come riflessione sull’uso della narrazione nella progettazione e nell’analisi di ricerca
sociale, affrontando il rapporto tra epistemologia narrativa e metodologia di ricerca, sulla base di uno studio empirico i cui risultati sono ancora in fase di interpretazione.
L’oggetto della ricerca condotta indaga le aspirazioni degli attori sociali, come intrecci tra rielaborazione dei
vissuti e prefigurazioni del tempo, che entrano in gioco nella costruzione di «ponti che i soggetti
costruiscono tra il presente e il futuro» (Jedlowski, 2012).
Secondo alcuni autori (cfr. De Leonardis, Deriu, 2012) nelle nostre società sembra essersi indebolito il
riferimento culturale che orienta lo sguardo sul futuro, alimentando il desiderio e incoraggiando le
aspirazioni delle persone: si elaborano invece orizzonti di attesa complessi, soprattutto per ciò che concerne le giovani generazioni. Partendo dalle speculazioni teoriche dell'antropologo Appadurai sulla capacità di
aspirare (2004), alcuni studi esplorano il radicamento di quest’ultima nella vita quotidiana e nell'esperienza
soggettiva, nonché i loro legami con le dimensioni culturali e le condizioni sociali di vita.
Le aspirazioni sollecitano a indagare lo spazio del possibile, tra progettualità reali, orizzonti di attesa e speranze plausibili, avendo a che fare con la capacità di immaginare e col desiderio di raggiungere qualcosa
dotato di valore; si inseriscono nei processi culturali in cui si rappresenta socialmente il tempo e s’immagina
il futuro ancorandolo, o meno, a un immaginario collettivo culturalmente condiviso.
La ricerca si colloca nel contesto di indagine relativo al concetto di aspirazioni individuali e collettive, per
come queste emergono dai racconti di vita di soggetti inseriti nella società contemporanea avanzata. Alla
sua base c’è la convinzione che, per quanto nelle narrazioni si esprima soprattutto la voce del singolo, è
comunque possibile riconoscere nella storia di vita elementi contingenti e strutture sociali (Alheit, Bergamini, 1996), prospettive individuali e collettive degli eventi in grado di rilevare i valori, le speranze e le rappresentazioni del mondo che il narratore possiede (Di Fraia, 2004; Jedlowski, 2000). Negli ultimi anni
l’analisi narrativa e biografica ha assunto una crescente rilevanza nell’ambito delle scienze sociali, tanto che
si è giunti a parlare di una “svolta narrativa”. Tra le ragioni alla base di tale “svolta” vi sono i processi di individualizzazione che tendono a mettere al centro dell’analisi la dimensione esperienziale del soggetto.
Senza entrare nel dibattito sulla società contemporanea o addentrarci nelle differenze tra gli autori che lo
hanno animato (cfr. Beck, Giddens, Sennett, Bauman), ciò che accomuna le loro analisi è la constatazione
che i processi in atto pongono gli individui di fronte alla crescente necessità di affrontare situazioni di cambiamento, costringendoli a svolgere un continuo lavoro di “aggiustamento” della propria biografia, disancorandosi da forme sociali storicamente stabilite. La biografia si fa crocevia di processi contraddittori (Beck,
2000), in un mondo contrassegnato da elevate possibilità di scelta e dall’erosione di copioni di riferimento,
per cui la capacità strategica di progettare la propria vita assume straordinaria importanza (Giddens, 1991).
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Il sé diviene un progetto riflessivo, «qualcosa che deve essere continuamente cercato, creato e sostenuto»
(ivi p.52), un obiettivo, dunque, piuttosto che un risultato.
E’all’interno di questo contesto che si collocano i punti di intersezione tra identità e narrazioni: l’identità
non può che narrarsi e in questo stesso narrarsi si dispiega (proprio nel racconto fatto a se stessi o su se
stessi), mettendo in moto un processo riflessivo sia a monte che a valle della produzione di un racconto o
dei frame narrativi identitari rintracciabili in un resoconto (Batini, Del Sarto, 2005).
L’approccio narrativo nell’indagine sociologica può dispiegarsi su tre livelli: espositivo, metodologico e
ontologico (Di Fraia, 2004). Si può quindi, in primo luogo, usare una forma espressiva di tipo narrativo per
rappresentare l’oggetto di ricerca e narrare i risultati; si può utilizzare un metodo narrativo nelle procedure
di raccolta, analisi e interpretazione dei dati; oppure, a un livello ancora più profondo, si possono considerare racconti e narrazioni come parti integranti dell’oggetto di studio, elementi elettivi e costitutivi della realtà sociale, incorporando la dimensione narrativa nell’indagine di una serie di oggetti di rilevanza sociologica, tra cui l’azione sociale e l’identità.
L’uso delle narrazioni nell’ideazione e realizzazione del progetto, nonché la scelta di utilizzare materiali narrativi per sviluppare e rispondere alle domande di ricerca vertono, da un lato: sull’assunzione che la “materia prima” dell’oggetto di indagine (le aspirazioni) sia costituita dalle forme che il racconto dei soggetti assume, dalle figure e dai personaggi descritti, dalla spinta ad agire verso un qualche scopo. Dall’altro: sulla
scelta di aderire a quelle proposte teoriche e metodologiche relative alle storie di vita e alle interviste narrative (Bertaux, 1981; McAdams, 1993) orientate agli eventi, come strutture complesse, ma temporalmente
ordinate, di azioni, frutto di un particolare ambiente e tempo sociale (Abbot, 1992; Distefano, 2006).
Si è scelto di lavorare sulle aspirazioni nella cornice dell’agency dei soggetti, ancorandole alle azioni (o alle
possibilità di azione), e focalizzandosi (inevitabilmente) sui caratteri e le caratteristiche dell’identità degli
attori sociali contemporanei. E’ proprio la matrice temporale in cui si dipana l’azione del soggetto, che si
trova a riflettere a narrare una storia (una cosiddetta narrazione ontologica, Somers, 1992) che cerca di ricostruire un file rouge tra passato, presente e futuro.
La ricerca è stata condotta attraverso interviste narrative semi-strutturate a giovani tra i 20 e 25 anni: sono
state al momento raccolte, e analizzate 24 interviste, la cui traccia dedica ampio spazio alla dimensione esperienziale e progettuale del soggetti nel loro corso della vita. Nell’intervista viene in particolare stimolato
il racconto in termini di autoriflessività del sé che si dipana lungo un asse temporale (tra vissuti del passato
e immagini rispetto al futuro) e un asse identitario che si colloca tra un livello di aderenza alla realtà esperita (sé reale) e orizzonte di possibilità (sé ideale).
Le interviste condotte decostruiscono e ricostruiscono racconti che fanno luce sulle valenze interpretative
delle categorie del tempo e dell’immaginario, mettendo in gioco la progettualità dei soggetti e la rappresentazione non solo di se stessi ma, soprattutto, del mondo dell'esperienza attraverso i significati che a
questa vengono attribuiti. L’atto del narrarsi assume una rilevanza nella stessa contingenza in cui
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l’intervista viene raccolta: la narrazione ha permesso quindi di raccontare anche a se stessi una storia sul
proprio futuro.
La tipologia di soggetti intervistati ha permesso infatti di fare emergere nell’atto del racconto un’occasione
di riflessività in un percorso di sperimentazione e identificazione, definito da Erikson (1982) come moratoria
psicosociale, nel quale si rivela la consapevolezza delle proprie risorse confrontandosi con l’immagine che si
ha di sé rispetto alle opportunità sociali.
Dalle prime emergenze, il concetto di aspirazione viene raccontato e problematizzato (intrecciandosi con i
processi di costruzione dell’identità dei soggetti), in quattro declinazioni (corrispondenti ai quadranti della
mappa concettuale riportata in fondo al testo): quella del sogno, del progetto, del desiderio e della pluralità
di aspirazioni. Piuttosto che un’unica grande e solida aspirazioni a cui tendere, viene raccontato un grappolo di aspirazioni, con un centro dai contorni ancora sfumati. Dai racconti sembrano appartenere all’area del
“sogno” tutti quegli elementi di una mitografia, soprattutto di origine mediale, che hanno caratterizzato
l’età evolutiva nell’infanzia e i cui tratti vengono ripresi negli ambiti della vita legati al leisure: il voler diventare un calciatore, motociclista o una cantante, sono tensioni che si riversano nella scelta degli hobbies o
percorsi su cui non costruire un’attività lavorativa o professionale.
Nella prima fase delle interviste narrative condotte i contenuti delle aspirazioni ruotano intorno a componenti normative, quali ad esempio la costruzione di una famiglia, piuttosto che elementi di retorica che emergono come presa di distanza dai valori che si riconoscono socialmente dominanti: l’aspirazione è quella
di “aiutare gli altri” o “andare in Africa a fare il Medico senza Frontiere”, senza però riscontrare nel racconto nessuna progettualità effettiva che porti in tale direzione.
La narratività permette invece di approfondire i contenuti delle aspirazioni lavorative, che vengono espresse spontaneamente, associate a percorsi di autorealizzazione del sé che hanno come elemento comune
quello dell’unicità del proprio percorso: c’è la consapevolezza di contesti altamente competitivi e
l’aspirazione a «qualcosa di speciale, non mediocre, essere qualcosa di più, qualcosa di speciale, essere diversi da anche se è difficile», per cui «nessuno può avere l’aspirazione che ho io, anzi mi dà fastidio poi che
tutti sembriamo incanalati verso qualcosa perché stiamo studiando la stessa cosa, non è vero, ognuno vuole diventare qualcosa di diverso».
Nei racconti degli intervistati affiorano i tratti di detemporalizzazione del tempo e di presente esteso, rispetto a un futuro che si fa strada come un divenire, piuttosto che un avvenire, poiché l’avvenire implicherebbe per questi soggetti un insieme di possibilità mutuamente esclusive (e quindi mancate). Si fa strada
nelle narrazioni raccolte il processo relativo al processo di scelta, che implica gli elementi di elaborazione di
una perdita, la rinuncia ad alcuni sé possibili, che nei racconti non è ancora giunta a compimento: «faccio
tante cose, ma secondo me dovremmo mettere più impegno nel realizzare quello a cui aspiriamo veramente»; « a cosa aspirano i miei amici non lo sanno neanche loro. Decidere un’aspirazione significa scegliere e
la scelta fa paura perché sembra di rinunciare alle altre occasioni».
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Connesso a ciò appare anche un nodo chiave nei racconti è anche quello della rinuncia e del compromesso:
gli intervistati faticano a mettere a tema l’eventualità di una rinuncia, preferendo utilizzare termini quali
“imprevisti” oppure “ostacoli”. Da un lato sembra che i giovani intervistati raccontino soprattutto delle
aspirazioni realizzabili, un aspetto che si può interpretare sia come una sorta di meccanismo di difesa di
fronte ad eventuali fallimenti, sia come atteggiamento disilluso nei confronti di una macro-narrazione sociale associata alla contingenza (e al periodo della crisi economica strutturale). D’altro canto invece nelle
narrazioni emerge un’ambivalenza tra la possibilità di realizzare le aspirazioni espresse e le dinamiche di
negoziazione e compromesso; piuttosto che un adeguamento o un ridimensionamento delle aspirazioni
(che appaiono già essere dapprincipio ridotte ai minimi termini), viene invece considerato il cambio di rotta
e obiettivo: «cosa fai in quel caso? Beh secondo me ricominci da capo, ti cerchi altre aspirazioni perché ti
rendi conto che quelle che avevi non andavano bene, non erano adatte a te».
I soggetti intervistati sono molto spesso al centro di una progettualità già cominciata nella quale però le
mete e gli obiettivi posti sono relativi ad un futuro a breve-medio termine: «la mia aspirazione è laurearmi». Il tema della realizzabilità diviene molto interessante, poiché quello che appare nei racconti si sostanzia in un cauto idealizzarsi di quello che può essere un “orizzonte di speranze credibili” (Jedlowski, 2012).
Ad una temporalità schiacciata sul presente fa da contraltare l’immagine di una lunga distanza, di un viaggio verso un altrove lontano in cui portare a termine quelli che sono i desideri, che nei contesti di vista non
appaiono attuabili (dipingendo un immaginario di un’Italia “difficile” “burocratica” “che non lascia spazio ai
giovani”).
L’approccio narrativo viene utilizzato anche in fase di analisi dei resoconti: considerando quelle azioni che
emergono dalle narrazioni degli intervistati come dotate di agency e di intenzionalità (sia pure sul piano
immaginifico, intrinsecamente legato alle aspirazioni future), l’interpretazione delle interviste si è basata su
modelli di riferimento narrativi (Ricoeur, 1991; Bruner, 1991, Burke, 1945;), secondo cui la narratività
dell’esperienza sarebbe data dalla possibilità di riconoscere negli eventi raccontati la presenza di un certo
attore (Chi) che, spinto da una serie di scopi o motivazioni (Perché), agisce in un certo contesto (Cosa e Come), delineando un sistema di strumenti o figure che lo supportano o vi si oppongono (Con/Contro Chi o
Cosa).
Secondo questo modello di lettura narrativo delle interviste raccolte siamo quindi stati in grado di individuare gli aspir-attori (i protagonisti della storia raccontata) che compiono delle azioni volte al raggiungimento
di uno scopo (spesso a breve-termine) attraverso degli strumenti (risorse costituite soprattutto dai famigliari, quando visti nella veste più funzionale) su di una scena (il contesto italiano). Nelle storie proto-tipiche
emerse si rileva anche la presenza di alcuni ispir-attori, in particolare i genitori o alcuni insegnanti, quando
svolgono la figura del mentore.
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Mappare biografie di genere: una proposta metodologica. di Emanuela Spanò
Introduzione
The writing of the old-fashioned biography was a relatively simple matter. The subject was a homogeneous unit, an
individual. He had been born at certain date, had gone through this or that experience, and on dying had left behind
two invaluable things: a set of papers and letters, and a well-modeled clay mask called ‘character’ (Mumford, 1934, 1).
Così, già nel 1934, Lewis Mumford introduceva i problemi legati al ruolo del biografo moderno, ben più
complesso, a suo avviso, di quello dei suoi predecessori: per ‘raccontare vite’ non era più possibile, infatti,
accontentarsi di presentare in maniera acritica dei ‘fatti’ cronologicamente ordinati, come avevano proclamato per decenni i biografi ‘old-fashioned’ dell’epoca precedente. Quali sono però ‘i fatti’ che compongono
una vita? Come si racconta la storia di una vita? E, soprattutto, come vanno interpretate le relazioni con il
contesto sociale nel quale prende forma?
Per provare a dare una risposta a tali interrogativi,si farà riferimento a un lavoro di ricerca, ormai concluso,
che mette a confronto le narrazioni di donne che ricoprono ruoli di middle managers in due sistemi universitari molto diversi: il Regno Unito e l’Italia. Il modello anglosassone, infatti, è stato spesso indicato come
riferimento per molte iniziative di riforma o di cambiamenti ancora atto: introduzione di maggiore competitività tra istituzioni; relazioni più strette con i portatori d’interesse esterni ad esse; nuovi assetti, formali o
informali, di governance; introduzione di procedure di valutazione. Il secondo che è spesso definito ‘oligarchia accademica’ (Clark 1983), utilizzando la distinzione che per decenni ha costituito lo strumento di posizionamento dei sistemi di higher education e che scaturisce dal prevalere di uno dei tre poli o fonti di autorità (Stato, oligarchia accademica e mercato), e nel quale, al contrario, sembra si faccia grossa fatica a recepire i mutamenti in atto.
Il percorso di ricerca è partito dall’ipotesi che ogni racconto di sé sia sempre storicamente, socialmente e
culturalmente situato e che le narrazioni individuali debbano, dunque, essere interpretate come dei regimi
discorsivi in cui le ‘storie legittime’ alle quali il sé può attingere per costruire la propria narrazione individuale restino limitate. Il sé diventa narrabile entro i limiti dei processi di soggettivazione e, assumendo che
l’unico sé conoscibile ed esprimibile sia quello narrabile, una delle ipotesi da cui è partita l’analisi è che i
nuovi discorsi managerialisti che si stanno diffondendo nell’università siano riusciti a produrre non soltanto
nuovi oggetti e ‘nuovi’ soggetti, ma anche nuove narrazioni del sé femminile.
Partendo quindi dalla convinzione che il sé non sia neppure pensabile al di fuori delle matrici discorsive che
dominano uno specifico contesto, l’obiettivo dell’interventosarà di disegnare una mappa ‘fluida’ formata da
diversi punti tra loro interconnessi, attraverso la quale nel corso della ricerca sono stati ricostruitii processi
di formazione del sé narrabile. Essi sono: l’intervista intesa come iscrizione narrativa; le narrazioni come
tecnologie del sé; il genere come insieme delle tecnologie di genere. Si proverà a dare, inoltre, una forma a
tale mappa facendo convergere i punti individuati intorno ad una teorizzazione delle pratiche di narrazione
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del sé come forme di auto-rappresentazione del sé femminile.Per collegare, infine, l’ultimo punto che ha
costituito l’unità figurale, seppur temporanea, della mappa teorica e concettuale utilizzata, saranno ‘raccontate’ le strategie analitiche adottate per leggere le narrazioni raccolte. Queste ultime si sono ispirate ai
principi della decostruzione, come rielaborati da Martin, nel suo articolo Deconstructing organisational taboos (1990).
1. Leggere i testi: le interviste come iscrizioni narrative
Ne Le temps retrouvé (1927) Proust scrive: ‘Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello
che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso’. Quali implicazioni genera, tuttavia, una simile affermazione per chi intende utilizzare i testi narrativi per fare ricerca sociale? E cosa si intende poi per narrazioni?
Per rispondere al primo degli interrogativi che la citazione di Proust indirettamente pone, è necessario
premettere che,nonostante esistano molti modi di leggere le narrazioni1, si assumerà una prospettiva interpretativa basata su un approccio di tipo costruttivista2. Questa scelta si basa sulla convinzione che il si-
1
La distinzione più importante da compiere è quella tra i metodi finalizzati ad ‘analizzare’ i testi narrativi e quelli che, al contrario,
considerano l’‘interpretazione’ l’unico approccio conoscitivo possibile e accettabile da un punto di vista epistemologico. Riprendendo Czarniawska (2004), per provare a classificare tali modi di lettura, la ‘triade ermeneutica’ formulata da Paul Hernadi (1987)
sembra offrire un ottimo punto di partenza. Hernadi distingue tre diversi modi di leggere i testi narrativi, che, nella pratica, possono
presentarsi contemporaneamente e addirittura sovrapporsi, facendo emergere come la distinzione tra ‘spiegazione’ e ‘interpretazione’ possa spesso rivelarsi inutile e fuorviante. La triade ha inizio grazie ad un’operazione molto semplice che, attraverso tre passaggi successivi, rende il testo accessibile al lettore. 1) The rendering of a text in a reader’s vocabulary (“what does the text says?”);
2) various ways of explaining it (“why does this text say what it does”, or “how does this text say what it does?”; 3) a step that is
closer to writing than to reading: ‘what do I, the reader, think of all of this?’(Czarniawska 2004, 60).Tali passaggi corrispondono a
tre diverse forme di lettura dei testi narrativi, che sono, rispettivamente, la ‘spiegazione’, l’‘interpretazione’ e l’‘esplorazione’. La
spiegazione è una forma di lettura del testo che, aspirando a ricostruire cosa realmente intende dire, ‘la vera storia’ in esso contenuta, sembra ormai essere considerata un autentico ‘anatema’ (Czarniawska 2004, 61). Voler ‘spiegare’ il significato di un testo appare oggi una procedura ‘violenta’ da un punto di vista epistemico (Spivak 1988), in primo luogo, perché presuppone che il lettore,
che ambisce alla comprensione del testo, di fatto assuma una voce autoritaria, che pretende di ‘colonizzare’ tutte le altre voci pos1
sibili . In secondo luogo, perché quello stesso lettore prova a ‘tradurre’ nel proprio idioma, la storia di qualcun altro, silenziando
1
quella ‘polifonia del testo’ (Czarniawska 1999) , che consente all’autore di assumersi le responsabilità connesse al proprio ruolo,
attraverso il riconoscimento dell’esistenza dell’Altro. Nell’interpretazione, invece, la domanda ‘cosa dice il testo?’ è sostituita dalla
domanda ‘come lo dice?’ (Silverman e Todore 1980), o anche da ‘perché questo testo dice ciò che dice?’. Nel processo di interpre1
tazione, infatti, il lettore assume il ruolo del ‘lettore semiotico’ di cui parla Eco (1990) , che aspira cioè a comprendere come è
strutturato il testo, decostruendolo (Hernadi 1987). Decostruire un testo significa avviare una relazione che passa attraverso il riconoscimento delle differenze che si strutturano a più livelli secondo le prospettive assunte..Nell’esplorazione, infine, che è spesso
considerato un ‘genere’ di lettura dei testi non appropriato a quelli scientifici, il lettore porta la propria vita, le proprie esperienze e
1
convinzioni, all’interno del testo, trasformandosi di fatto nell’autore di un nuovo testo ‘nel testo’ . È il caso questo, ad esempio, delle ‘confessioni’ di un etnografo (Geertz 1988; Van Maanen 1988), di alcuni studi femministi critici (Martin 1990; Calàs e Smircich
1991), o di quegli approcci che rivendicano le potenzialità emancipatorie dell’analisi narrativa (Brown 1998; Cavarero 2009).
2
All’interno dell’approccio interpretativo Czarniawska distingue tre diverse forme di lettura dei testi: soggettiviste; oggettiviste; costruttiviste. L’approccio costruttivista è quello che considera il significato dei testi come il risultato di un processo di costruzione,
che avviene tra ciò che già esiste (un testo, un genere, una tradizione) e il processo di interazione tra il lettore e il testo, i vari lettori, e tra l’autore, i lettori e il testo (Czarniawska 2004).Ne deriva la convinzione che il significato di un testo non debba essere ‘cercato’, né tantomeno ‘creato’ dal nulla: esso viene, infatti, costruito all’interno di uno specifico contesto dove gli elementi testuali diventano comprensibili al lettore. Il significato di un testo è inoltre il prodotto dell’incontro tra il lettore e il testo, perciò l’interprete
dovrà prestare attenzione al processo di costruzione del significato, più che al significato stesso: ‘the meaning production becomes
more interesting than the meaning and this alone puts literary theory closer to social science’ (Czarniawska 2004, 67). Ogni testo
contiene, infatti, una moltitudine di significati: ‘There is never a single uniquely encoded in a text; there is a network of different
messages as decoded by different readers with different intertextual frames and intertexual encyclopedias, and different reading
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gnificato dei testi sia il prodotto del processo di interazione che ha luogo tra i lettori e il testo, e tra l’autore,
i lettori e il testo.
Per chiarire, invece, che cosa, in questa sede, si intenderà con il termine ‘narrazioni’ è altrettanto importante premettere che tale termine sarà utilizzato per definire quei testi, o segmenti di testo, che contengono
una trasformazione e dei personaggi, componenti che sono sempre tenute insieme da un intreccio complessivo. Riprendendo il pensiero di Ricoeur, ciò che trasforma un account in una narrazione sarebbe proprio quanto avviene nel processo di ‘messa in intrigo’. Tale processo è inteso dal filosofo francese come una
‘sintesi dell’eterogeneo’, una ‘concordanza discordante’ che opera attraverso diverse forme di mediazione:
Tra la diversità degli eventi e l’unità temporale della storia raccontata; fra le disparate componenti
dell’azione, intenzione, cause e casi, e il concatenamento della storia, infine tra la pura successione e l’unità
della forma temporale (Ricoeur 1993, 233).
Tali mediazioni possono addirittura stravolgere la cronologia fino al punto di abolirla. Inoltre, è proprio la
messa in intrigo a differenziare una narrazione da altri tipi di account (come gli archivi, le cronache, una
batteria di domande, o un questionario), nei quali, al contrario, a mancare è una ‘storia’.
Fatte tali necessarie premesse che consentono giustodi sfiorare questioni ben più complesse - che sono state invece approfondite nel lavoro di ricerca al quale tale contributo fa riferimento - si proverà a chiarire
come il processo di ‘lettura’ delle narrazioni tenda a complicarsi ulteriormente quando le narrazioni alle
quali si intende fare riferimento, derivano da una pratica narrativa ‘atipica’ come l’intervista.
Per aggiungere, infatti, un primo punto alla mappa che si sta incominciando a disegnare, si farà riferimento
alla teoria dei testi di Paul Ricoeur, sembra essere riuscita ad aprire indirettamente la possibilità di leggere
le interviste come testi scritti, o meglio come inscrizioni di una precedente produzione narrativa (Ricoeur
1981). In questo caso, la lettura costruttivista delle interviste come forme particolari di testi scritti, consentirebbe di sottolinearne la natura ‘atipica’ di osservazione del processo d’interazione che coinvolge
l’intervistatore e l’intervistato (Silverman 2002).
Con la teoria del testo, Ricoeur sembra prendere indirettamente le distanze sia dal soggettivismo ermeneutico di Gadamer, sia dalla ricerca di oggettività di Habermas, sia dall’idea che esistano interpretazioni infinite di uno stesso testo (Robinson 1995). Il testo è, infatti, considerato dall’autore come il ‘supporto per eccellenza’ di una comunicazione che si instaura ‘nella e attraverso la distanza’ (Ricoeur 1989, 51). Tale distanza è introdotta dal fenomeno della scrittura, in quanto separazione dal discorso e, allo stesso tempo,
memoria di esso. Per memoria non si deve intendere, tuttavia, una ripetizione che non apporta nessun
cambiamento, bensì ‘una ripresa interpretante, un’apertura all’altro nella forma di un dialogo silenzioso
2
codes’ (Eco 1979, 5) . E in un preciso spazio e momento storico potranno quindi esistere molteplici letture di uno stesso testo, alcune dominanti e altre marginali (Bruss 1976).
15
che supera i limiti del domandare e del rispondere in una situazione attuale, presente’ (Iannotta 1993, 22).
Il testo è, dunque, per l’autore un particolare tipo di discorso ‘fissato nella scrittura’ che, nonostante debba
conformarsi a delle regole che consentono di stabilire la sua appartenenza a un genere letterario specifico –
romanzo, saggio o commedia – assume sempre una composizione unica, ed irripetibile3.
Cosa fissa però la scrittura? Certamente l’intenzione di comunicare qualcosa, ma, al di fuori del contesto del
dialogo, che si costruisce nel gioco del domandare e del rispondere, il testo fissato nella scrittura si riferisce
a un ‘qualcuno’, un lettore, come termine di riferimento del messaggio. Al contrario di quanto avviene nel
dialogo, tuttavia, questo qualcuno non è più presente all’atto dello scrivere. In quanto parola inscritta, il testo diventa ‘un archivio a disposizione della memoria individuale e collettiva’ (ibidem), ossia un patrimonio
di tradizione dal quale è possibile trarre la consapevolezza dell’appartenenza al movimento dialettico del
distanziamento ed appropriazione4.
I presupposti epistemologici che accompagnano la teoria dei testi di Ricoeur (1989) sono fondamentali al
proseguimento dell’analisi, poiché consentono di concettualizzare le interviste come iscrizioni di una precedente produzione narrativa, che grazie alla distanza introdotta dal fenomeno della scrittura - ossia della
trascrizione - si trasformano in qualcosa che va oltre i confini dello specifico contesto discorsivo nel quale
hanno avuto origine. La fissazione attraverso la scrittura rende, infatti, ogni narrazione - che comunque nasce dalla sintesi di ‘materiali’ diversi, che appartengono a un repertorio culturale condiviso - un’innovazione
semantica, una composizione unica e irripetibile che, proprio come una metafora, anziché descrivere il
mondo, lo ri-descrive. Tale carattere di unicità e irripetibilità si mostra in maniera ancor più evidente nel caso di narrazioni, per così dire, ‘atipiche’, come quelle individuali. Ogni essere umano è, infatti, unico e unico
è il racconto della sua vita (Cavarero 1997)5.
Questo non deve, tuttavia, portare a sottovalutare le relazioni di potere che situano sia socialmente, che
discorsivamente le narrazioni individuali, circoscrivendole all’interno di quello che può essere visto come un
3
Per Carr: ‘Narrative is a synthesis of the heterogeneous in which disparate elements of the human world – agents, goals, means,
interactions, circumstances, unexpected results – are brought together and harmonized. Like metaphor, to which Ricoeur has also
devoted an important study, narrative is a semantic innovation in which something new is brought into the world by means of language. Instead of describing the world it redescribes it. Narrative opens us to the realm of “as if”’(Carr 1986, 120).
4
In tale prospettiva, le azioni dotate di senso si possono modulare sul paradigma del testo, proprio grazie ad un processo di ‘oggettivazione’, paragonabile a quello operato dalla fissazione attraverso la scrittura. Proprio come un testo, infatti, l’azione acquista autonomia nei confronti del suo agente, produce un’efficacia che supera i limiti contestuali del suo accadere, si offre alla lettura di chi,
non essendo presente, ne viene in qualche modo interessato: ‘Come un testo, così l’azione umana è un’opera aperta, la cui significazione è ‘in sospeso’. È perché essa ‘apre’ delle nuove referenze e ne riceve una pertinenza nuova che anche agli atti umani sono
in attesa di nuove interpretazioni che decidono la loro significazione’ (Ricoeur 1989, 197).
5
Come scrive Cavarero: ‘Ogni essere umano è un essere unico, è un essere irripetibile che, per quanto corra disorientato nel buio
mescolando gli accidenti alle sue intenzioni, non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso,
non si lascia mai dietro la medesima storia. Anche per questo le storie di vita vengono narrate e ascoltate con interesse, perché sono simili e tuttavia nuove, insostituibili e inattese, dall’inizio alla fine. Sono sempre capricci del destino’ (Cavarero 1997, Ciononostante, per l’autrice, le storie di vita non hanno mai un autore, poiché come afferma Arendt, ‘a ogni agente sfugge il significato del
suo agire, dalle sue azioni risulta una storia che custodisce il senso della sua identità’ (Arendt 1989, 140). Per questo motivo, giacché nessuno è in grado di padroneggiare e di disporre della propria identità, quest’ultima è totalmente costituita dal suo apparire
agli altri e riesce a raggiungere la completezza e l’unità, anche se momentanee, soltanto attraverso il racconto. Poiché in
quest’esercizio di auto-narrazione l’esistenza reale dell’altro è sempre messa in conto e al ‘chi sono io?’ risponde sempre il racconto
della propria vita fatto da un altro, è proprio l’‘altro necessario’ ad affermare il carattere di unicità di ogni storia, sottraendo così la
narrazione del sé dai canoni dello sguardo dell’Uomo Universale, neutro e maschile (Cavarero 2009).
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dispositivo discorsivo specifico, che è quello della biografia. Lasciando per un attimo da parte
quest’osservazione, che sarà approfondita e sviluppata nel corso del successivo paragrafo, è prima necessario affrontare altre due fondamentali questioni metodologiche, relative ad una pratica narrativa ‘atipica’
come l’intervista: 1) se le interviste possano essere considerate come uno scambio simmetrico di punti di
vista; 2) se le risposte tratte dalle interviste debbano essere trattate come un accesso diretto all’esperienza,
oppure come narrative costruite attivamente all’occorrenza (Silverman 2001).
Per rispondere alla prima questione è necessario partire dal presupposto che, a mio avviso, le interviste vadano interpretate come l’osservazione del processo d’interazione che coinvolge l’intervistatore e
l’intervistato. Tale interazione, proprio come nelle tecniche cristiane monastiche di esame del sé individuate da Foucault (1992), che implicavano la ‘confessione’ a un maestro per definizione dotato di maggiore esperienza e saggezza6, così l’intervista, anziché basarsi su uno scambio reciproco di opinioni, si basa sempre
su una forma di asimmetria di potere tra le due parti. L’intervistatore si pone, infatti, come un ‘confessore’,
un professionista ‘onnisciente’ che sottopone l’‘intervistato-oggetto’ - che non detiene il suo stesso ‘potere
della conoscenza’ - a un vero è proprio interrogatorio, o inquisizione7.
Per ciò che concerne la seconda questione metodologica, soprattutto in seguito all’esperienza delle interviste condotte per la ricerca, non sembra plausibile utilizzarle come fonti di ‘informazioni’, o strumenti attraverso cui conoscere i ‘fatti’, o avere accesso diretto all’esperienza8. Specialmente nel caso delle autonarrazioni è piuttosto facile osservare come le persone tendano a raccontarsi utilizzando le loro percezioni
e interpretazioni del mondo, a presentare la loro ‘identità preferita’, come osserva Riessman (2000), dando
spesso luogo a racconti frammentari e discontinui. Tali racconti mutano non soltanto nel tempo, poiché
l’intervistato reinterpreta in continuazione il proprio passato alla luce della prospettiva del presente, ma si
‘modellano’ nel processo di negoziazione tra intervistato e intervistatore, che sono entrambi posizionati rispetto al genere, la classe sociale, l’etnia, l’orientamento sessuale ecc9.
6
A tal proposito, Foucault scrive: ‘Per quale motivo dovremmo, rendendo in parole e trascrivendo tutti i nostri pensieri, riuscire a
diventare ermeneuti di noi stessi? Innanzitutto, il maestro è dotato di maggiore esperienza e saggezza, per cui dalla confessione
può trarre gli elementi di conoscenza che gli consentono di dare consigli adeguati. E anche se il maestro, nell’esercizio del suo potere di discriminazione, non dovesse dire nulla, il solo fatto di aver espresso il proprio pensiero produrrà un effetto discriminante’
(Foucault 1992, 46).
7
A tal proposito, Roland Barthes evidenzia quello che egli stesso definisce ‘il gendarme psicoanalitico’ e perciò lo scontato marchio
fallocentrico che lega il racconto di sé al piacere edipico: ‘(denudare, sapere, conoscere l’inizio e la fine), ogni racconto – ogni svelamento della verità – è una messinscena del Padre (assente, nascosto, o ipostatizzato)’ (Barthes 1975, 10).
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A tal proposito, un elemento emerso dalle interviste raccolte nel corso della ricerca è che molto spesso, invece, le persone non
ricordano numeri e date e, per questo motivo, anche la loro rappresentazione del tempo può non essere cronologica, ma ciclica o
kairologica, cioè narrativa, ossia costruita intorno ad un tempo non quantificabile oggettivamente: ‘il kairòs rappresenta una dimensione più qualitativa del tempo, dove quest’ultimo si esprime nella molteplicità, nell’incrociarsi e aggrovigliarsi di più tempi’
(Bory 2008, 84). Ancora, per alcuni studiosi, non sarebbe neppure necessariamente il tempo a strutturare le narrazioni: ‘At times,
state, social, historical or spatial succession and change, as well as processes and change attaching to objects, are taken as alternative or additional forms of narrative’ (Tamboukou et al. 2013, 11).
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Senza voler menzionare, inoltre, gli effetti ‘distorsivi’ introdotti da quella che Czarniawska definisce ‘logica della rappresentazione’
(Czarniawska 1999), ossia l’insieme delle strategie che molto spesso gli intervistati utilizzano per fornire un’immagine positiva di sé.
Come osserva Latour, ‘The true irony of the comparision between the natural and social scientists is that, while the former encounter a continous resistence to their objects who do not want to do what the researchers tell them to, the social subjects eagerly play
a role of pliable objects when asked to do so in the name of Science’ (Latour 2000, 22).
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Di conseguenza, è difficile considerare le interviste come delle ‘finestre’ aperte sulla realtà sociale, poiché
esse sono parte integrante di quella stessa realtà. Ogni intervista è, infatti, il prodotto unico e irripetibile
dell’interazione tra il ricercatore e l’intervistato, anche se naturalmente sarebbe presuntuoso e certamente
poco realistico immaginare che le persone inventino delle storie totalmente prive di fondamento, soltanto
per provare a compiacere il proprio interlocutore10.
Perciò è importante andare oltre la falsa dicotomia che legge le narrazioni provenienti dalle interviste, o
come i riflessi diretti dell’esperienza, o, al contrario, come degli specchi rotti, che restituiscono soltanto
immagini distorte (Lawler 2002).Le narrazioni sono sempre costruite secondo una logica ‘legittima’, che le
rende uno strumento prezioso per provare a leggere le azioni dei soggetti che le producono, azioni verosimilmente originate da quelle stesse percezioni e interpretazioni, intorno alle quali essi costruiscono i loro
racconti. Ogni azione o esperienza è sempre già interpretazione. In particolare, come osserva Scott, ogni
esperienza deve essere considerata una costruzione discorsiva(Scott 1991).Le auto-narrazioni che derivano
dalle interviste possono, dunque, essere intese come degli spazi semantici fluidi, che permettono al narratore di posizionare sé stesso, dando vita al processo di costruzione del sé attraverso il testo della narrazione11.Esse contengono, dunque, numerosi elementi che rendono evidente il ‘local achievement of identity’
(Cussins 1998), ossia la natura situata e performativa del processo di formazione dell’identità.
Per tornare, dunque, all’inizio della nostra riflessione, è necessario ricordare che la natura performativa della narrazione è sempre socialmente e discorsivamente limitata e si trasforma dopo il processo di trascrizione12 che, per tornare a Ricoeur (1989), introduce una distanza tra il racconto e il contesto interattivo che
l’ha prodotto, tra la scrittura e il dialogo. Per questo motivo, e per concludere, nella ricerca si farà riferimento alle narrazioni raccolte attraverso lo strumento dell’intervista narrativa discorsiva (Cardano 2011),
come a delle narrative specifiche, o, per riprendere Czarniawska (2004), delle narratives of interviews, ossia
iscrizioni di un precedente contesto interattivo.
10
Come osserva Cavarero: ‘La memoria personale, intenzionalmente o meno, può infatti persino procedere dimenticando, rielaborando, selezionando e censurando gli episodi della storia che racconta. Essa, tuttavia, raramente inventa come fanno gli artefici di
storie. La memoria personale non è un’autrice di professione’ (Cavarero 1997, 52).
11
Come scrive Riessman: ‘Narrators can position themselves, for example, as victims of one circumstance or another in their tales,
giving over to other characters the power to initiate action, not themselves. Alternatively, narrators can position themselves as
agentic beings that assume control over events and actions: they purposefully initiate and cause action. They can shift among positions, giving themselves agentic roles in certain scenes, and passive roles in others. To create these fluid semantic spaces for themselves, narrators use particular grammatical resources to construct who they are - verbs, for example, that frame actions as voluntary rather than compulsory, or grammatical forms that intensify vulnerability’ (Riessman 2000, 13).
12
Perciò, la trascrizione dell’intervista costituirà un momento estremamente delicato ed importante per il successivo lavoro di analisi. Nella trascrizione, infatti, oltre al testo prodotto dall’intervistato che deve essere riportato parola per parola, dovranno essere
registrati in dettaglio tutti gli elementi (eventuali sorrisi, commozione, lunghezza delle pause, eventuali interruzioni, eventi intervenuti nel corso dell’intervista come lo squillo del telefono o l’ingresso di un’altra persona ecc…) che potranno rivelarsi significativi ai
fini della comprensione del testo, così come gli stimoli provenienti dall’intervistatore.
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2. Le narrazioni come tecnologie del sé femminile
L’obiettivo di questo paragrafo è provare a motivare la decisione di adottare un approccio foucaultiano alla
lettura delle narrazioni individuali, evidenziando come tale decisione permetta di integrare le riflessioni
condotte in queste pagine con una prospettiva che ponga maggiore enfasi sulla natura discorsivamente situata delle narrazioni individuali. A tal fine, il ‘dangerous encounter’ (Tamboukou e Ball 2005) sinora combinato, proverà a connettere la precedente concettualizzazione delle interviste, con una lettura foucaultiana delle narrazioni individuali come tecnologie del sé e con una prospettiva di genere ispirata al femminismo critico.
La combinazione di tale ‘incontro pericoloso’ nasce dall’esigenza di evidenziare il power bias di una lettura
puramente testualista delle narrazioni individuali, che sottovaluta il ruolo che il potere esercita sui processi
di formazione del sé narrato sia limitando il repertorio di ‘storie’ al quale ciascuno può attingere per raccontarsi, sia aprendo spazi inediti di libertà entro quali il sé può invece emergere ai margini dei discorsi egemoni. Impostare il problema della narrazione configurandolo esclusivamente come una questione narratologica potrebbe, inoltre, rischiare di inghiottire le possibilità politiche contenute nell’atto di narrare il sé,
che si traducono nella capacità di indagare con un atteggiamento critico tanto il governo degli altri, che il
governo di sé (Foucault 1982).
Di converso, la decisione di adottare un approccio foucaultiano per leggere le narrazioni individuali rappresenta, per prima cosa, il rifiuto di un’interpretazione del sé come prodotto esclusivo del testo, quindi completamente avulso dalle relazioni di sapere/potere che ne definiscono la storicità. Per Foucault, infatti, il sé
non è neppure pensabile al di fuori delle matrici discorsive che dominano uno specifico contesto e si costruisce attraverso un insieme di pratiche finalizzate alla conoscenza di sé. Pertanto la soggettività non corrisponde all’essere ma al fare, ossia al modo in cui il sogge o fa esperienza di sé, in un gioco di verità in cui
è in rapporto con sé stesso (Foucault 1982). Ciò avviene attraverso il suo modo di soggettivazione, ovvero il
suo costituirsi come soggetto di conoscenza, e il suo modo di oggettivazione, ovvero il determinare le condizioni attraverso le quali stabilire l’oggetto di conoscenza, nella misura in cui si pone esso stesso come oggetto, conferendo ai discorsi generati dai saperi legati a quella conoscenza valore di verità.
Nonostante lo studio delle tecniche attraverso cui i soggetti conoscono sé stessi possa apparire come un
distacco netto rispetto alle questioni trattate in precedenza13, in realtà il cambio di registro intorno al quale
Foucault ha focalizzato l’ultima fase della sua ricerca va a completare il percorso che aveva stabilito in precedenza14. Le tecnologie del sé possono essere, infatti, intese come le procedure prescritte agli individui al
13
Dews (1989), ad esempio, parla di un suo ‘late return to the subject’, mentre Simons (1995) preferisce parlare di una ridefinizione
della sua concezione del soggetto, che parte dal rifiuto di alcuni assunti promossi dall’umanismo filosofico, riguardo l’esistenza di
un Soggetto universale, unitario ed immutabile.
14
Come è lo stesso Foucault ad affermare : ‘In fondo l’oggetto della mia ricerca sono stati i tre problemi tradizionali: primo, primo
quali siano i rapporti che noi istauriamo con la verità tramite quei ‘giochi di verità’ che sono così importanti per la civiltà e nei quali
fungiamo sia da soggetto che da oggetto; secondo, quali rapporti abbiamo con gli altri attraverso quelle strane strategie e quegli
19
fine di determinare la loro identità, di mantenerla o di trasformarla tenendo presente un certo numero di
finalità. Si tratta dei giochi di verità rispetto a sé stessi, delle modalità attraverso cui bisognerebbe governare sé stessi, per costruirsi come soggetti etici15. Così la riflessione sulle tecniche del sé s’interseca con il progetto sulla governamentalità, anzi per Foucault diventa un modo per continuare a tracciare una storia della
soggettività nel mondo occidentale, tenendo presente la storicità del soggetto. Se la governamentalità rientra all’interno di quelle forme di analisi che esplorano le modalità di direzione del comportamento degli altri attraverso le tecniche di governo, l’attenzione del problema della cura di sé inizia a porre la questione
della governamentalità, da una prospettiva differente: ‘the government of the self by oneself in its articulation with relations with others’ (Foucault 1997, 88).
Il termine ‘sé’, di conseguenza, non è sostanzializzato, reificato, a indicare una stru ura o un ogge o, ma
indica l’esperienza, ogni volta diversa, di una sogge vità. Non è il ‘Sé’ come istanza psichica, né il sé come
prodo o del testo,ma il ‘sé’ come rappresentazione di sé. Partendo da tali considerazioni, poiché l’unico sé
conoscibile è quello narrabile (Cavarero 2009), ossia quello che si offre a essere rappresentato a sé stessi, è
importante sottolineare che anche tale ‘narrabilità’ resta sempre racchiusa entro i limiti definiti dalle matrici discorsive dominanti all’interno di uno specifico contesto16.
Ma dove esiste il potere, esiste anche la libertà di chi lo subisce, ed è quindi sempre possibile la resistenza
al potere stesso. Per Foucault, infatti, il soggetto inteso come rappresentazione di sé non è mai soltanto
l’esito dei processi di soggettivazione17, ma anche l’espressione di pratiche di libertà. È lo stesso termine
‘soggetto’ a contenere un duplice significato, che ne rende esplicita la natura intrinsecamente contraddittoria.
There are two meanings in the word ‘subject’. Subject to someone else by control and dependence, and
tied to his own identity by a coscience or self-knowledge. Both meanings indicate a form of power which
subjugates and makes subject to (Foucault 1982, 212).
strani rapporti di potere; e, terzo, quali siano le relazioni tra verità, potere e sé […] Non escludo che nel corso della mia ricerca io
abbia insistito troppo sulle tecnologie del dominio e del potere. Proprio per correggere questo possibile errore di prospettiva, oggi
guardo soprattutto all’interazione tra il singolo e gli altri, alla storia delle tecniche adottate dall’individuo per agire su sé stesso, insomma a quelle tecnologie del dominio individuale che, con formula compendiaria, chiamo tecnologie del sé’ (Foucault 1982, 14).
15
Per Foucault l’etica può essere interpretata come la relazione che i soggetti dovrebbero intrattenere con sé stessi. Esistono tre aspetti che compongono tale relazione: il primo è definito ‘sostanza etica’ e corrisponde, alla lettera, al modo in cui un individuo fa di
questa, o di quest’altra parte di sé la materia principale del suo comportamento morale; il secondo è il ‘modo di soggettivazione’; le
tecnologie finalizzate alla formazione del sé, che per Foucault sono inseparabili da un’askesis, un esercizio, che si dà nella lotta con
se stessi per il dominio di sé in continuo rapporto con il logos, rappresentano, invece, il terzo aspetto dell’etica; infine, il telos, ossia il
tipo di esistenza al quale la condotta etica aspira, è il quarto (Foucault 1998).
16
Come scrive Ball: ‘The operation of discursive practices is to make virtually impossible to think outside of them; to be outside of
them is, by definition, to be mad, to be beyond comprehension and therefore reason. The discursive rules that produce and define
reasons are linked to exercise of power. The materiality of discourse also draws attention to architectures, organisation, practices
and subjects and subjectivities (including the author) as manifestations of discourse, and underlines the misunderstandings involved in reducing discourse to language’ (Ball 2013, 21).
17
In particolare, come riassume Ball, per Foucault i soggetti sono prodotti attraverso tre modi interrelati: ‘Firstly, within those
modes of inquiry that give themselves the status of sciences and which objectivize the speaking subjects (e.g. Linguistics) or the
productive subject (Economics) ot the sheer fact of being alive (Biology); secondly, those ‘dividing practices’ that separate subjects
inside themselves or from others (the mad from the sane, the sick from the healthy, the criminals from the good) and, in so doing,
objectivize them; and, thirdly, the ‘way a human being turns him – or herself into a subject’ (Foucault 1982 in Ball 2013, 127).
20
Per Foucault la soggettività, da un lato, si traduce nella possibilità di rappresentare il sé in un determinato
regime discorsivo ma, dall’altro, può sempre essere ridefinita mettendo in atto pratiche di resistenza ai discorsi dominanti. Di conseguenza, come osserva McGushin, ‘the self is both agent, and object’ (McGushin
2011, 129), può costituirsi attivamente, ed eventualmente ridefinirsi, ma resta sempre storicamente e discorsivamente contingente. Ogni soggetto è dunque costretto a costituirsi mediando tale paradosso potere/libertà dove, da un lato, il potere agisce generando ‘provocazioni permanenti’ e, dall’altro, i soggetti reagiscono attraverso l’adozione di pratiche di resistenza, anch’esse discorsivamente limitate (Foucault 1982,
222).
Poiché anche la comprensione di sé è strettamente connessa al regime discorsivo nel quale si è inseriti, la
soggettività si trasforma nell’esercizio di pratiche orientate al raggiungimento di tale conoscenza, nel corso
di un processo di perenne ricerca del sé, inteso come lavoro di ‘cura del sé’. Tale lavoro corrisponde a
un’arte, o tecnologia, del vivere, attraverso la quale i soggetti compiono un lavoro etico su sé stessi. Il termine ‘cura’ indica, infatti, un’attività che esprime l’attenzione verso qualcosa, un lavorare su qualcosa, che
implica, nello stesso tempo, sia una conoscenza, un certo sapere, sia una tecnica che ne permetta
l’applicazione pratica. Un’attenzione in cui il momento teorico è, in certo qual modo, non tanto subordinato
ma adeguato, misurato alla costituzione etica ed estetica di sé: un ‘conosci te stesso’ costantemente associato a prescrizioni e ad esercizi specifici, a pratiche e tecniche di sé volte sia a far progredire verso la conquista della sovranità su se stessi, sia a saper misurare il punto in cui si è giunti per farsi, come dice Epitteto,
‘guardiani di sè stessi’ (Foucault 1984).
Foucault individua quattro tipi di tecnologie che gli esseri umani utilizzano per conoscere sé stessi,
all’interno di specifici ‘giochi di verità’18. Tali tecniche sono collegate da stretti rapporti d’interdipendenza
ma ognuna è associata a una particolare forma di dominio e implica specifici metodi di educazione e di modificazione dell’individuo non solo nel senso, più ovvio, dell’acquisizione di determinate capacità, ma anche
in quello dello sviluppo di determinati atteggiamenti. Il suo scopo è, dunque, ‘mostrare sia la loro natura
specifica, sia la loro costante interazione’ (ivi, 14).
Nella sua ricostruzione genealogica delle tecniche che si sono affermate nella filosofia greco-romana dei
primi due secoli dell’impero romano e quelle della spiritualità cristiana e dei principi monastici diffusisi nei
secoli IV e V, Foucault approfondisce anche le tecniche di ‘verbalizzazione’ del sé, intese come pratiche di
auto-svelamento, emerse nel corso del IV secolo. Si tratta dell’exagoreusis, ossia di tecniche che riprendono
gli esercizi verbali tipici del rapporto tra discepolo e maestro/insegnate delle scuole filosofiche pagane, ap-
18
Tali tecnologie sono: ‘1) Le tecnologie della produzione, dirette a realizzare, trasformare o manipolare gli oggetti; 2) Le tecnologie
dei sistemi di segni, che ci consentono di far uso di segni, significati, simboli, significazioni; 3) Le tecnologie del potere, che regolano
la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a un’oggettivazione del soggetto; 4)
Le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, con i propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima - dai pensieri, al comportamento, al modo di essere - e di realizzare in tal modo una
trasformazione di sé stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità’ (Foucault
1992, 13).
21
plicandovi, tuttavia, due fondamentali principi della spiritualità cristiana: l’obbedienza e la contemplazione19.
Nell’exagoreusis, verbalizzando di continuo i propri pensieri per obbedire al proprio maestro, si attua sempre una rinuncia a sé stessi e alla propria volontà, rifacendosi al modello del martirio nel quale il peccatore
deve ‘uccidere sé stesso’ attraverso la macerazione ascetica. Il tema dell’autorinuncia è, quindi, fondamentale: l’intreccio tra svelamento di sé, drammatizzato o verbale, e rinuncia di sé stessi attraversa, infatti, tutta la storia del cristianesimo. L’ipotesi del filosofo francese è che le pratiche di verbalizzazione del sé siano
divenute sempre più importanti, soprattutto a partire dal Settecento, quando le cosiddette scienze umane
hanno recuperato tali tecniche per inserirle, però, in un differente contesto: ‘Non già quello
dell’autorinuncia ma quello, positivo, della costruzione di un nuovo sé e si tratta di una lettura decisiva’ (ivi,
47). Le pratiche contemporanee di verbalizzazione del sé possono, dunque, essere interpretate come delle
tecniche centrali di quell’‘arte del sé’, che si traduce nella possibilità di esplorare l’‘estetica dell’esistenza’,
interpretando criticamente il governo degli altri e il governo di sé.
Da un lato, ogni forma di verbalizzazione del sé implica un procedimento di oggettivazione e assoggettamento, attraverso la comparsa di una nuova modalità di potere nella quale ogni soggetto riceve come proprio status la propria individualità e nella quale egli viene vincolato ai tra , alle dimensioni, alle distanze, ai
‘segni’, che lo cara erizzano e che fanno di lui un caso unico. Dall’altro, l’a o di narrare il sé, inteso come
una forma di ascetismo, può consentire ai soggetti di riflettere sul proprio operato e sulle proprie percezioni, e di compiere operazioni sui propri pensieri e sulla propria anima, creando spazi di resistenza e libertà
per la costruzione di un nuovo sé.
Tornando, così, ai quattro tipi di tecnologie individuati da Foucault, è possibile affermare che ogni intervista, intesa come iscrizione narrativa, è il prodotto dell’interrelazione tra tecnologie del potere, che regolano
la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a
un’oggettivazione del soggetto, e tecnologie del sé che, come si è visto, aprono spazi inediti di libertà nei
quali il sé può essere ri-narrato e ricostruito ai margini dei discorsi egemoni. Da un lato, le interviste nascono in un contesto specifico all’interno del quale sono ‘saturate’ dalle relazioni di potere/sapere che vi agiscono, e che le rendono un insieme polifonico e mutevole di discorsi e relazioni di potere, dall’altro, possono sempre però trasformarsi in ‘luoghi’ di resistenza.
Ritornando a una concettualizzazione del sé come auto-rappresentazione, al già ‘pericoloso’ incontro tra
interviste intese come iscrizioni narrative e tecnologie del sé foucaultiane, appare necessario infine addivenire ad una concettualizzazione del soggetto che tenga anche conto della dimensione di genere inteso, a
sua volta, come tecnologia. Pur decostruendo una concezione modernista del Soggetto Universale inteso
19
Per Foucault:‘L’esame di sé proposto da questa tecnologia di origine orientale, dominata dall’obbedienza e dalla contemplazione,
è diretto molto più ai pensieri che non alle azioni […] consiste dunque nel tentativo di immobilizzare la coscienza, di eliminare quei
movimenti dello spirito, che distolgono da Dio. Ciò significa che, per ogni pensiero che ci si presenta alla coscienza, dobbiamo verificare quali rapporti intrattenga con l’azione, la verità e la realtà, per vedere se in esso sia contenuto qualcosa che può mettere in
agitazione il nostro spirito, provocare il desiderio, allontanarci così da Dio’ (Foucault 1992, 44).
22
come un’ibrida creatura generata dal pensiero, un universale fantastico prodotto dalla mente, che si dichiara però il solo dicibile dal discorso vero (Cavarero 2009), smascherandone la storicità e la situazionalità discorsiva, nella sua genealogia delle tecniche adottate dall’individuo per agire su sé stesso, secondo alcune
letture (de Lauretis 1987; Butler 1990; Braidotti 1994), il sé teorizzato da Foucault resterebbe comunque
neutro ed asessuato20.
Il suo lavoro sui processi di soggettivazione rappresenta uno spunto indubbiamente interessante per gli approcci femministi21.Ciononostante, sembra possibile ipotizzare che il filosofo francese non abbia apertamente problematizzato, almeno parlando della contemporaneità, i modi attraverso i quali le tecnologie del
sé agiscono, costruendo in maniera diversa le soggettività maschili e femminili. Le tecnologie del sé intese
come relazioni che i soggetti intrattengono con sé stessi, esprimono invece sempre un’identità di genere.
Ogni narrazione, concettualizzata come pratica di verbalizzazione, comporta sempre un posizionamento
dell’io narrante all’interno di categorizzazioni che le pratiche discorsive, le narrative e le resistenze alle pratiche della cultura di riferimento rendono disponibili. L’io narrato nel corso dell’intervista, interpretata come auto-narrazione, è sempre sessuato e l’ordine discorsivo nel quale è inserito opera un esercizio definitorio che produce una nominazione, altrettanto sessuata, del suo che cosa (Cavarero 2009).
Partendo da tali premesse e con l’intento di ampliare le riflessioni sul soggetto formulate da Foucault, de
Lauretis prova a introdurvi il genere, inteso come possibilità di ripensare da un punto di vista epistemologico le relazioni che legano la soggettività alla società. Il soggetto costruito attraverso il genere, infatti:
[i]s not constituted by sexual difference alone, but rather across languages and cultural representations; is
en-gendered in the experiencing of race and class, as well as sexual relations; is not unified but rather multiple, and not so much divided as contradicted (de Lauretis 1987, 2).
Partendo dalla concettualizzazione foucaultiana del sesso come tecnologia, de Lauretis evidenzia come
Foucault non abbia sufficientemente problematizzato i modi attraverso i quali tale tecnologia agisce, costruendo in maniera diversa le soggettività maschili e femminili.In risposta si ripropone di concettualizzare il
genere come una forma di rappresentazione e auto-rappresentazione, costruita attraverso diverse tecnolo20
Nonostante, in Beyond Structuralism and Hermeneutics, Foucault faccia riferimento all’‘opposition to the power of men over
women’as an example of a series of antiauthority struggles’ (Foucault 1982, 211) e in Storia della sessualità (1978-1984)abbia approfondito il tema del controllo sul corpo delle donne attraverso la sua sessualizzazione, patologizzazione e incarcerazione
all’interno della famiglia intesa come istituzione disciplinare, non si è mai occupato delle questioni di genere in maniera specifica.
Probabilmente, ciò è dovuto al suo rifiuto per ogni forma di essenzialismo. In ‘The Confession of the Flesh’ riconosce, infatti, come
principale merito del movimento femminista la capacità di proporsi come momento di desessualizzazione: ‘The real strenght of
women’s movement is not that of having laid claim to the specificity of their sexuality and the rights pertaining to it, but they have
actually departed from the discourse conducted within the apparatuses of sexuality, I find it creative and interesting because it is a
veritable moment of desexualisation’ (Foucault 1980b, 212).
21
Diamond e Quinby, ad esempio, hanno individuato, oltre alla teorizzazione del soggetto, altri quattro punti di convergenza tra la
teoria foucaultiana e il femminismo. Essi sono: 1) la teoria del discorso, 2) l’attenzione al corpo; 3) la messa in discussione delle
concezioni universaliste attraverso una metodologia orientata alla micro-analisi, che dedica attenzione a tutto ciò che è personale,
individuale e intimo; 4) la resistenza come il nodo concettuale trasversale, che collega tutti i precedenti punti (Diamond e Quinby
1988).
23
gie sociali, relazioni di potere, discorsi, epistemologie, e pratiche quotidiane. La nozione foucaultiana di sesso non sembra, infatti, in grado di cogliere la complessità dei processi attraverso i quali il genere è costruito
e introiettato come tecnologia. Il suo progetto prevede, al contrario, di abbracciare tale complessità partendo da quattro assunti22che le permettono di interpretare la costruzione di genere come il prodotto e il
processo di rappresentazione e auto-rappresentazione. Di conseguenza, non soltanto le rappresentazioni di
genere sono costruite dalle tecnologie esistenti, ma vengono anche introiettate dai soggetti ai quali tali
tecnologie sono orientate23. Questo passaggio, come si vedrà a breve, è molto significativo perché si ricollega alla possibilità di interpretare le pratiche di auto-narrazione del sé come tecnologie.
L’accento posto sul ruolo dell’auto-rappresentazione nei processi di costruzione del genere permette anche
di riprendere una concezione ‘positiva’ del potere, inteso come motore che spinge gli individui a posizionarsi nelle configurazioni discorsive disponibili in un determinato contesto. Così de Lauretis si ricollega ad
una concezione foucaultiana del soggetto letto come entità multipla e mutevole che si sviluppa all’interno
delle condizioni sociali e culturali che provano a controllarlo e dominarlo, ma che al livello dell’autorappresentazione, quindi delle tecnologie del sé, può ritagliarsi spazi di libertà (ivi, 26).
Riprendendo, infine, la prospettiva teorica adottata da Tamboukou (2003) per ‘leggere’ i processi di formazione del sé femminile attraverso le autobiografie di alcune donne appartenenti al campo dell’education
nell’Inghilterra di fine secolo, si proverà a collegare quanto detto sinora, immaginando di completare la nostra mappa ‘fluida’, formata da diversi punti tra loro interconnessi, che sono: l’intervista come iscrizione
narrativa, le narrazioni come tecnologie del sé, il genere come insieme delle tecnologie di genere. Si proverà a dare una forma, seppur transitoria, a tale mappa facendo convergere i punti che per adesso la compongono, intorno ad una concettualizzazione delle pratiche di narrazione del sé derivanti dalle interviste,
già interpretate come tecnologie del sé, come forme di auto-rappresentazione del sé femminile.
Se il sé che viene costruito nel corso della narrazione è sempre sessuato, ogni pratica di auto-narrazione
deve necessariamente contenere la dimensione dell’auto-rappresentazione di genere.
The term self-narrative describes those elements of self-representation which mark a location of the self in
the text, where self-invention, self- discovery, and self-representation emerge within the technologies of
22
Tali assunti sono: ‘1) Gender is (a) representation – which is not to say that it does not have concrete or real implications, both
social and subjective, for the material life of individuals; 2) The representation of gender is its construction – and in the simplest
sense can be said that all of Western Art and high culture is the engraving of the history of that construction; 3) The construction of
gender goes on a busily today as it did in earlier times, say the Victorian era. And it goes on not only where one might expect to it –
in the media, the private and public schools, the courts, the family, the nuclear or extended or single-parented – in short what Louis
Althusser has called “the ideological state apparati”. The construction of gender also goes on, if less obviously, in the academy in
the intelletual community, in avant-garde artistic practices and radical theory, even, and indeed especially, in feminism; 4) Paradoxically, therefore, the construction of gender is also affected by its deconstruction; that is to say, by any discourse, feminist or otherwise, that would discard it as ideological misrepresentation. For gender, like the real, is not only the effect of representation but
also its excess what remains outside discourse as a potential trauma and which can rupture, or destabilize, if not contained, any
representation (de Lauretis 1987, 2).
23
A tal proposito, riprende il concetto di ‘interpellazione’ elaborato sempre da Althusser per indicare il processo di accettazione e
assorbimento a livello soggettivo, delle rappresentazioni sociali, che circolano in un determinato contesto (de Lauretis 1987).
24
narration – namely those legalistic, literary, social and ecclesiastical discourses of through and identity
through which the subject of narrative is produced. Self-narrative as a description of self-representation
and is concerned with interruptions and eruptions, with resistance and contradictions as strategies of selfrepresentation (Gilmore 1994, 42).
La costituzione del sé attraverso la narrazione è sempre possibile entro dei limiti discorsivi, che danno un
senso al termine ‘donna’, così come alle altre forme di posizionamento che l’io narrante è in grado di assumere. Ogni auto-narrazione è, dunque, rappresentazione e auto-rappresentazione (tecnologie della narrazione) e permette al sé di emergere negli interstizi e nei margini dei discorsi egemoni, rivelando dei ‘momenti dell’essere’ temporaneamente cristallizzati nelle forme narrative ‘possibili’, o volontariamente ‘messe a tacere’, in un determinato contesto (Tamboukou 2008).
3.Appunti di metodo
Per collegare l’ultimo punto che costituisce l’unità figurale, seppur temporanea, della mappa teorica e concettuale che sarà utilizzata nei seguenti capitoli, saranno descritte qui di seguito le strategie analitiche adottate per leggere le interviste raccolte nel corso della ricerca.Queste ultime si ispirano ai principi della decostruzione24, come rielaborati da Martin, nel suo articolo Deconstructing organisational taboos (1990)25. Tali
strategie hanno rappresentato soltanto la base di partenza per la successiva elaborazione della procedura
di analisi delle interviste, adottata nel corso della ricerca e che, lungi da volersi porre come una metodologia di analisi del materiale narrativo chiusa, o definitiva, intende al contrario rappresentare, come si è visto,
una mappa ‘fluida’, composta da fasi frammentarie, che possono essere continuamente arricchite26.
Adottando tali strategie come uno strumento che mi ha aiutato nella lettura ermeneutica del materiale
empirico, da un punto di vista metodologico, con l’obiettivo di esplorare il livello della governance
in/attraverso il lavoro accademico (livello micro dei processi di soggettivazione e delle forme di resistenza),
24
Si ricorda che Derrida utilizza per la prima volta il termine ‘decostruzione’ nella seconda edizione di De grammatologie, Éditions
de Minuit, Paris 1967 trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasco, A.C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Como 2006.
25
In un articolo intitolato ‘Deconstructing organisational taboos’ (1990), l’autrice, dopo aver partecipato a una conferenza sponsorizzata da una delle più prestigiose università americane e dedicata ai modi in cui gli individui e le imprese possono contribuire a
risolvere i problemi sociali, ha raccolto la storia raccontata in quell’occasione dal CEO di una famosa multinazionale. Successivamente, anziché provare a ‘leggere’ il testo attraverso l’individuazione di connessioni spaziali e temporali, ha deciso di costruire e
ricostruire tale ‘storia’ da una prospettiva femminista.
26
Le ‘mosse’ individuate dall’autrice per decostruire (e ricostruire) un testo da una prospettiva femminista sono: 1) Dismantling a
dichotomies: mostrare come le dicotomie su cui il testo è costruito siano soltanto delle false distinzioni (privato/pubblico; natura/cultura ecc…); 2) Examining silences: prestare attenzione al ‘non-detto’ e a ciò che viene omesso; 3) Attending to disruptions and
contradictions: analizzare i passaggi del testo in cui emergono contraddizioni o incoerenze; 4) Focus on the element which is most
alien or peculiar in the text: individuare l’elemento più ‘estraneo’, o peculiare, all’interno del testo; 5) Interpreting metaphors as a
rich source of multiple meanings: interpretare le metafore come fonti di significati multipli; 6) Analysing double entendres: analizzare i doppi sensi che potrebbero veicolare un sotto-testo inconscio, spesso di natura sessuale; 7) Reconstructing the text: ricostruire
il testo da una prospettiva diversa, attraverso la sostituzione di molteplici elementi (rielaborato da Martin 1990, 355).
25
in due contesti plasmati da configurazioni discorsive molto diverse – l’Inghilterra e l’Italia - sono state raccolte 24 narrazioni di donne leader appartenenti a diversi settori disciplinari, che ricoprono – o hanno ricoperto – ruoli di middle managers (direttore di dipartimento, preside delle ex facoltà, o head of school/department). In particolare, 12 donne intervistate appartengono all’Università di Napoli, Federico II – e
altre 12 lavorano, invece, nell’università inglese27. Le narrazioni, raccolte attraverso lo strumento
dell’intervista narrativa discorsiva (Cardano 2011) e interpretate come narrative specifiche sono state tutte
registrate e successivamente trascritte e le trascrizioni – considerate appunto come una particolare forma
di testo scritto, come ‘narrazioni di interviste’ – sono state poi interpretate prendendo spunto, e integrando
con alcuni elementi tratti dall’analisi letterale e retorica (Riessman 1993; Czarniawska 2004), le strategie
analitiche di Martin (1990), sopra menzionate.
Più nello specifico, il lavoro analitico è iniziato con una lettura attenta delle interviste raccolte per cercare
di acquisire un’idea generale del materiale a disposizione. Dopo una seconda lettura, si è provato a individuare le dicotomie su cui molte delle narrazioni raccolte sono costruite e che possono essere definite trasversali, sia rispetto ai temi ricorrenti successivamente individuati, sia rispetto ai due contesti presi in esame. In seguito, si è provato a rintracciare i temi ricorrenti, sottolineando e prendendo degli appunti accanto
alle sequenze di testo in cui è sembrato che essi emergessero in maniera più esplicita. Tali sequenze sono
poi state copiate in un file separato, evidenziandone i passaggi più significativi, da utilizzare poi nella fase di
restituzione dei risultati. Partendo dai temi ricorrenti individuati, si è tentato inoltre di individuare dei miti
sul genere e sulla leadership e, infine, delle metafore con cui nelle interviste raccolte sono descritte le donne ‘di potere’. Infine, la lettura delle dicotomie, dei temi, dei miti e delle metafore emersi dal materiale a
disposizione è stata ‘ri-narrata’ e ‘ri-contestualizzata’ (Rorty 1991), provando a lasciare più spazio possibile
ai testi delle interviste senza dimenticare, tuttavia, di svelare i presupposti contestuali, teorici, epistemologici e personali del ricercatore, i passi indietro, gli errori, le contingenze che hanno caratterizzato le fasi della ricerca.
27
Le donne intervistate in entrambi i contesti della ricerca sono state selezionate attraverso un campionamento di tipo teorico (Silverman 1993, 2001). In particolare, nel contesto inglese, si è preferito adottare un campionamento a catena, a causa delle difficoltà
riscontrate nel contattare le donne leader.
26
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Narrazioni post-seriali
Spoiler! la narrazione trans-mediale e i suoi effetti collaterali.
di Emiliano Chirchiano
Nella cultura pop americana per spoiler si intende l’anticipazione relativa alla trama di un film, una serie TV
o un videogioco. Anticipare gli sviluppi narrativi può sembrare una pratica tesa a rovinare il piacere della
fruizione (da qui l’utilizzo del verbo “to spoil”: letteralmente rovinare, guastare).
Alcuni spettatori però, talmente curiosi da non riuscire a rispettare lo svolgersi lineare della narrazione, raccolgono indizi in modo da pre-vedere il finale prima che esso venga svelato, estremizzando quel gioco di anticipo e costruzione di mondi possibili(Eco 1979) alla base del rapporto tra testo e lettore.Studiare le serie
televisive e le loro complesse forme narrative, nell’epoca della cultura convergente (Jenkins2007) ci mette
di fronte a un quadro teorico che, partendodalle forme testuali e le loro derivazioni arriva a includere le
pratiche messe in atto dai pubblici mediante l’ausilio dei cosiddetti “nuovi” media.
Da un lato, le fiction hanno valicato i confini dei singoli mezzi di comunicazione configurandosi come narrazioni trans-mediali, integrazione e fusione di diverse esperienze dell’entertainment suddivise su piattaforme mediali differenti (Giovagnoli 2012).Dall’altro, la natura del pubblico, definitivamente de-massificata,
appare complessamente de-strutturata, frazionata in gruppi allo stesso tempo differenziati ma strettamente inter-connessi (Brancato 2011).
In uno scenario di ininterrotta trasformazione, i rapporti di forza tra produzione e consumo appaiono continuamente alla ricerca di un equilibrio, influenzando direttamente le storie e il modo in cui esse vengono
narrate.Lo storytelling delle serie televisive si struttura sempre di più seguendo un’articolazione transmediale, basata innanzi tutto su una complessità narrativa che comprende più linee di sviluppo, presupponendo forme di attività connessa da parte dei pubblici-utenti (Boccia Artieri 2012).
La ricerca di spoiler diventa quindi una parte rilevante del processo di consumo, anticipando e, paradossalmente, amplificando il piacere della fruizione stessa. Sempre più serie, infatti, sono progettate per coinvolgere lo spettatore in una sfida intellettuale, volta alla soluzione dei misteri presenti nella trama, mediante
una ricostruzione iper-testuale dell’universo narrativo.Arcani funzionali ad alimentare la curiosità degli
spettatori, in modo da indurli al consumo di testi secondari e a mantenere alta l’attenzione verso la serie
nei periodi in cui essa non è in onda.
Strategie, queste, che mirano alla creazione di una fan-base composta da spettatori appassionati che non si
limitino alla fruizione televisiva e al successivo acquisto di DVD e gadget correlati, ma, facendo comunità
online, partecipino - più o meno inconsapevolmente - alla promozione cross-mediale del brand.
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Sono pochi i casi in cui la ricerca sulle comunità di fandom e sulle tecniche di consumo testuale si è occupata della pratica dello spoiler. Già la parola stessa è contrassegnata da un’accezione fortemente negativa: richiama qualcosa di irreversibilmente rovinato, il risultato di una pratica errata, abnorme. Ma come ci fanno
notare Jonathan Gray and Jason Mittell (2012)sono proprio l’aberrazione e l’anormalità a costituire il limite
della normalità: osservare e comprendere i motivi che portano il pubblico a queste determinate pratiche, i
motivi che sono dietro al piacere di “rovinarsi” la storia, può dirci qualcosa in più riguardo i processi di coinvolgimento delle narrazioni.
Sebbene non rappresentino la maggioranza degli spettatori, i fan dello spoiler non sono una rarità: Numerosi siti internet sono interamente dediti a questa materia, alcuni dei quali con un notevole ritorno di popolarità (ad esempio www.spoilerfix.com owww.spoilertv.com).
Nonostante le terribili origini etimologiche del termine, lo spoiler sta diventando sempre più un comportamento - in qualche modo - accettabile, incorporato nelle strategie di consumo a disposizione del fandom,
costringendoci quindi a rivalutare quali siano le strategia di “normale” coinvolgimento narrativo nella cosiddetta “era digitale”.
Come sottolinea Cornel Sandvoss (2005), gli oggetti (e aggiungiamo, le pratiche) associati al fandom possono diventare a loro volta oggetti di fandom, in certi casi soppiantando il testo primario. Assistiamo quindi,
in alcuni casi – Lost è un buon esempio, in questo caso – a uno spostamento della dedizione dal testo televisivo al para-testo, creato dalla comunità, dello spoiler.
Possiamo guardare allo spoiler, quindi, come alla risposta ad una sfida degli autori al pubblico, che si ritrova
ad avere un potere accomunante in quanto oggetto esso stesso di fandom. Para-testi che riescono a conquistare pari dignità del testo costitutivo, tali da essere studiati e decodificati, fino alla creazione delle cosiddette fan-theories e fan-fiction, veri e propri testi narrativi creati per cercare di anticipare le conclusioni
del testo ufficiale o per espanderne il dominio con nuovi personaggi e nuove storie.
Come abbiamo scritto poc’anzi, il mistero, l’uso del cliffhanger- l’interruzione brusca e inaspettata del racconto - serve a coinvolgere emozionalmente lo spettatore nella speranza di alimentare l’engagement col
prodotto televisivo oltre i tempi della semplice fruizione. Ma oltre a questi desiderati effetti collaterali, ne
emergono altri che, al di là degli scopi preposti, arrivano a mutare radicalmente gli equilibri dello scenario
televisivo.
Nei paesi non anglofoni come il nostro, in cui i prodotti statunitensi vengono mediati attraverso adattamenti linguistici,alimentare “artificialmente” la curiosità dello spettatore ha contribuito all’affermazione
della condivisione peer to peer (per ricercare nuovi episodi, già trasmessi nei paesi d’origine ma ancora inediti in Italia) e del fenomeno del fan-subbing (per sopperire alla mancanza del doppiaggio e alla scarsa conoscenza delle lingue straniere).
Facciamo un piccolo passo indietro. I pubblici italiani, in particolare le generazioni cresciute negli anni 90,
hanno costruito il proprio immaginario spettatoriale mediante contenuti seriali d’importazione. È il mo32
mento, per intenderci, in cui i palinsesti dedicati al pubblico adolescenziale erano costituiti per la maggior
parte da teen drama americani.
Questa stessa generazione è anche la prima ad aver integrato i nuovi media nelle proprie abitudini di consumo. Alla passione generazionale per la serialità statunitense si affiancail conseguimento di competenze
nuove concernenti l’uso delle tecnologie digitali e l’interazione on-line. Le abitudini di consumo degli appassionati di telefilm si sono quindi evolute parallelamente alle nuove offerte dei media digitali, come i collegamenti ADSL a banda larga e i formati seriali trans-mediali.
I fan dei telefilm, non soddisfatti dalla programmazione delle serie Tv nelle reti italiane - che non sempre
hanno brillato per regolarità delle trasmissioni e accuratezza dell’adattamento - hanno quindi adottato le
reti peer to peer come canali di acquisizione alternativa degli episodi (in lingua originale).
La passione per le serie TV, quindi, converge con le emergenti culture partecipative legate alla rete, sviluppando nuove forme comunitarie.
Gli spettatori, curiosi e appassionati, si riuniscono online interagendo e confrontandosi con altri soggetti
con cui condividono un immaginario, prima che un’etica, un’ideologia o un’appartenenza territoriale.
Il consumo mediale, oltre a dare vita a forme di socializzazione dell’esperienza di fruizione, può anche stimolare i consumatori stessi a diventare produttori di contenuti. I membri di questi soggetti collettivi cominciano a produrre i sottotitoli delle serie Tv per consentire ai fan italiani di comprenderne i dialoghi in lingua
originale.
La pratica del fan-subbing (dalla contrazione di fan e subtitling), emersa precedentemente nelle comunità
statunitensi di appassionati di anime giapponesi, si è così diffusa anche nelle culture seriali italiane.
Nel sistema cross-mediale affiora spontaneamente un eterogeneo circuito distributivo di contenuti (i numerosi e vari canali del peer to peer, da eMule al bit-torrent, da IRC a WinMX) che consente di vedere gli
episodi in anteprima e in lingua originale.
I fan, a questo punto, possono così evitare le “costrizioni” dovute al meccanismo di broadcast tradizionale:possono aggirare il doppiaggio italiano che spesso non consente di fruire il prodotto nella forma in cui
era stato concepito originariamente, ma, soprattutto, possono appagare la curiosità intellettuale e il coinvolgimento emotivo creati dalla forte serializzazione dei moderni telefilm.
La distribuzione di serie come Lost, ad esempio, concepite per incentivare la curiosità e la partecipazione
degli utenti, hanno stimolato l’emergere di circuiti di distribuzione e di produzione amatoriali molto più rapidi di quelli commerciali. All’interno delle culture partecipative sono quindi emersi sia un sistema di distribuzione amatoriale trans-nazionale sia processi di mediazione nazionale operati dai sottotitolatori che regionalizzano i contenuti stranieri in funzione della propria comunità linguistica (Barra, 2009)
L’affermazione di questo nuovo modello di fruizione, slegato dalla trasmissione broadcast minaccia il sistema, ingessato, costituito dal monolitico palinsesto delle reti - soprattutto quelle generaliste – televisive. Tra
il pubblico partecipativo e l’industria culturale la tensione è palpabile.
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Queste trasformazioni hanno avuto ricadute significative sul sistema televisivo italiano, che, trovandosi forse per la prima volta ad inseguire il pubblico in questi territori,rivoluziona i processi di distribuzione e localizzazione delle serie Tv. Esemplificativo può essere il paragone tra la distribuzione italiana di Lost e il più
recente “The Walking Dead”. Mentre nel 2004 la prima stagione di Lost è stata programmata dalla Tv a pagamento italiana con un ritardo di circa sei mesi, dal 2013“The Walking Dead” è trasmesso solo dopo poche
ore dalla messa in onda statunitense. Alcuni episodi eccezionalmente rilevanti, come i Season Finale o i Series Finale che, concludendo la stagione o l’intera serie sono particolarmente significativi ai fini della risoluzione dell’intreccio narrativo, vengono addirittura trasmessi in contemporanea col paese d’origine.
Si tratta solo di un esempio di una tendenza alla sincronizzazione dei pubblici internazionali come effetto
della convergenza digitale (Jenkins 2007),che presuppone anche tempi più ristretti per il processo di adattamento e doppiaggio in italiano. In alcuni casi, i network hanno fatto riferimento diretto ad alcuni gruppi di
fan-subbers, che, pur mantenendo un approccio amatoriale, hanno ottenuto risultati rapidissimi e qualitativamente più che sufficienti.
Le pratiche dello spoiling, del fan-subbing e del file-sharing sono elementi rilevanti nell’evoluzione della
spettatorialità partecipativa. Un processo circolare che vede coinvolti da un lato i pubblici connessi e
dall’altro l’industria culturale, in una sfida continua tra forze sempre più equilibrate.
Gli autori trans-mediali progettano esperienze narrative sempre più stimolanti e coinvolgenti, cui gli spettatori rispondono modellando le tecnologie di rete per soddisfare i propri bisogni, dando vita a fenomeni imprevisti (ma non sempre sgraditi) dall’industria.
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Da serial fiction a serial killer: la narrazione del processo fuori dai tribunali. di Chiara Di Martino
La narrazione seriale e le sue specificità estetiche incidono sulla decostruzione dei contenuti almeno quanto
su quella della forma. Tra i “mondi” indeboliti dalla fiction seriale figura anche il processo penale, un racconto che costruisce la verità (giudiziaria) tramite l’interazione tra i soggetti coinvolti, le due parti e il giudice terzo. E andando a ritroso, insieme al processo, si decostruisce la percezione del crimine.
Una narrazione è tale nel momento in cui un narratore connette eventi in una sequenza (cronologica, logica, argomentativa) che sia consequenziale per le argomentazioni successive e per il significato che il parlante vuole comunicare a chi ascolterà la sua storia (Atkinson, 1998). Gli esseri umani hanno una tendenza naturale a rappresentare la propria esperienza rispetto al mondo in forma narrativa: le storie che raccontano
sono in grado di offrire coerenza e continuità alla propria biografia e sono lo strumento privilegiato che
consente loro di comunicare con gli altri (Lieblich e altri, 1998). Hanno un carattere sia personale che sociale, in quanto consentono di trarre informazioni sul contesto nel quale l’intervistato ha vissuto le sue esperienze e il modo con cui le interpreta informa il ricercatore della cultura del mondo sociale nel quale è inserito. Le storie si situano in un panorama che è costruito narrativamente da più soggetti, oggetti e eventi che
fanno parte del mondo sociale del soggetto (Connelly, Clandinin, 2000).
Il processo, dal canto suo, è lo strumento sovrano per dirimere le controversie, attraverso un soggetto terzo che applica le norme riconosciute e legittimate a prescrivere e sanzionare il mancato rispetto di queste
prescrizioni: il processo, soprattutto quello penale, però, da luogo istituzionale si è spostato sempre più
verso una collocazione mediatica, dove la visibilità della magistratura e del suo operato diventano di per sé
una nuova controversia da dirimere. E ancora: il ricorso all’opinione pubblica in caso di conflitto con gli altri
poteri costituisce ulteriore stortura del fenomeno. È in questo scenario che, da istituzione di rango costituzionale, il potere giudiziario si trova a fronteggiare una sorta di implicita delegittimazione che non è frutto
soltanto del suo contrasto con il potere politico, che pure rileva, ma anche di una perdita di credibilità che
attecchisce nel pubblico, rectius, nei cittadini.
Da un lato l’eccesso di visibilità e personalizzazione, dall’altro lo sbilanciamento a favore di una tesi o della
sua opposta anche in assenza di giudicato e addirittura nella fase delle indagini: l’imparzialità del giudizio
perde una delle sue fonti di giustificazione. Il fenomeno, naturalmente, non è tipicamente italiano: molti
studi infatti provengono dagli Stati Uniti (dove è molto forte la “cultura del controllo” cara a David Garland
e dove esiste addirittura una rete televisiva dedicata ai processi, Court Tv) ma anche dall’Australia (Indermaur e Roberts): il ruolo dei giudici come “nuovi attori politici” è dunque una realtà nata dal costante
scambio di contenuti tra giustizia e democrazia e nel sovrapporsi della pubblicità mediata alla pubblicità
immediata.
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Negli ultimi 20 anni, il tema della sicurezza sociale ha conquistato il primo posto nella scala di priorità negli
ordinamenti occidentali, complice un sistema penale incoerente e talvolta confuso, “con la conseguenza di
un movimento pendolare di tipo schizoide, che oscilla fra il rigore e il clemenzialismo”. Da qui discende un
senso generalizzato di inefficacia ed inefficienza del sistema giudiziario: l’immagine del reato e della pena
passano attraverso il filtro dei mass media, i quali concorrono nella formazione della definizione di questi
concetti.
Alla crescita del senso di insicurezza da parte della popolazione corrisponde un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni penali. È ciò che Paliero chiama “sicurezza collettiva”, anche indicata come “sicurezza
interna”: un bisogno di protezione dalla delinquenza ma anche e soprattutto quello di veder garantiti tutti i
diritti legati alla persona. Tale fenomeno si rispecchia nella produzione in eccesso di norme penali che rispondono a quel bisogno di sicurezza in un’ottica che si limita al breve termine. Risvolto ben diverso, invece, è la sicurezza in senso oggettivo, e cioè la reale protezione dei cittadini. La ipertrattazione dei crimini
violenti crea una falsa scala di valori soprattutto in merito alla frequenza degli stessi.
La nascita del concetto di sicurezza deriva dalla demolizione della rassicurazione legata all’idea di progresso
e dell’uguaglianza sociale. Secondo Ciappi, l’istanza sociale di sicurezza è diventata una istanza di intervento
penale: in Italia, storicamente, quando le questioni criminali nazionali hanno smesso di riempire le prime
pagine dei giornali, si sono diffusi stereotipi legati ad altro tipo di criminalità, non più ideologica: dal terrorista negli anni ’70 ed il mafioso e il corruttore negli anni ’80, si è passati a delitti la cui ricostruzione è più difficile da quel punto di vista: il pedofilo e il serial killer negli anni ’90”.
Karl R. Popper aveva individuato una deleteria influenza della televisione sull’educazione delle generazioni
più giovani: «Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione; essa è divenuta
un potere politico colossale, potenzialmente, si potrebbe dire, il più importante di tutti, come se fosse Dio
stesso che parla». Charles S. Clark ha calcolato che un bambino americano prima dei 10 anni assiste in media a ottomila omicidi e centomila atti di violenza e ha richiamato le osservazioni di Brandon S. Centerwall,
in merito all’associazione tra l’arrivo della televisione in Sudafrica ed il raddoppio del tasso di omicidi. Durante il periodo critico della preadolescenza, ha spiegato lo studioso, l’esposizione alla violenza televisiva ha
un impatto particolarmente profondo: «Mentre i bambini hanno un desiderio istintivo di imitare i comportamenti osservati, non posseggono un istinto per valutare a priori se un comportamento dato sia da emulare o no. Imitano qualsiasi cosa».
Se si considera il rapporto tra crimine e mass media, già da tempo il dibattito criminologico si è assestato su
una sostanziale neutralità dei mezzi di comunicazione, almeno in merito a quella che si riteneva essere una
influenza diretta e “indirettamente didattica”: il riferimento è alla possibile slatentizzazione di istanze delittuose o violente già presenti di fronte a messaggi mediatici particolarmente violenti, tanto più suggestivi
quanto più sottili. Da un lato, il delinquente non ha bisogno di apprendere tecniche criminali – perché ciò
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avviene attraverso i rapporti interpersonali nell’ambito della sua sottocultura – e, dall’altro, l’identificazione
in modelli negativi ha luogo, nella maggior parte dei casi pertanto l’eventuale identificazione non necessariamente si tradurrà in una effettiva assunzione di quel comportamento. Piuttosto, il rapporto tra criminalità e mass media sembra essere di direzione opposta: la presenza massiccia di violenza in tv e al cinema potrebbe essere piuttosto conseguenza, e non causa, del crimine nella società. Il legame tra mass media e violenza è fatto di reciproche interferenze: se una società è violenta, sarà parimenti violenta la sua comunicazione di massa.
Martin Innes, direttore del Police Science Institute della Scuola universitaria di Scienze sociali di Cardiff, ha
osservato che una quota sostanziosa delle vicende narrate dai media – sia reali sia fittizie – hanno ad oggetto il crimine, la devianza ed il controllo e a tal proposito ha richiamato gli studi di Garland sulla capacità di
alcuni gravi delitti di influenzare le pratiche discorsive della cultura popolare e della politica. Lo studioso ha
individuato una categoria di fatti criminosi – “crimini-segnale” – costruiti dai professionisti
dell’informazione attraverso particolari modalità di rappresentazione: tali storie vengono interpretate dal
pubblico come indicatore dello stato in cui versano la società e l’ordine sociale. In tal modo, quelle che sono
emozioni ancora indefinite prendono forma e contorno e si focalizzano su un determinato avvenimento o
su una categoria di avvenimenti. Dall’analisi di Innes viene fuori che, assumendo come premessa che le storie criminali siano esempi di narrazione che facciamo a noi stessi sulla nostra vita, i crimini-segnale vengono
assorbiti in un ampio universo culturale di significati simbolici. Assurti in tal modo al rango di fatti storici, i
crimini-segnale diventano ricordi collettivi che definiranno i successivi discorsi sul crimine e suggeriranno al
pubblico una priorità su determinate questioni.
Ciò che la gente ricorda non è altro, secondo la ricostruzione di Innes - che tiene conto sia della prospettiva
funzionalista ispirata a Durkheim e Halbwachs, sia della prospettiva costruttivista di Mead - che ciò che le
reti e le istituzioni sociali fanno in modo di imprimere nella memoria dei propri consociati.
Aaron Doyle ha indagato sui rapporti tra le immagini dei media e la polizia, partendo dallo studio del reality
tv americano Cops. Si tratta di uno show basato sull’invio di una troupe televisiva al seguito della polizia: gli
operatori dell’informazione vengono così a contatto con vere operazioni di polizia e veri reati. Il fatto che
vada in onda ancora oggi ci dice molto sul séguito che ha ottenuto presso il pubblico: con giornalisti al seguito di agenti in oltre 140 città, richiama il fenomeno degli embedded, i reporter al seguito delle truppe.
Più semplicemente, ciò che tali programmi vogliono trasmettere è il punto di vista della giustizia. La conclusione cui giunge Doyle è che la telecamera influenza anche le pratiche del sistema di giustizia penale, tanto
da coniare l’espressione di “giustizia mediatica”. Non si tratterebbe, perciò, di una semplice ‘registrazione’
quanto piuttosto di una ‘alterazione’. Il sistema penale diventa più espressivo, sono enfatizzati gli effetti reputazionali sugli indagati e le manifestazioni di diversità. Addirittura sono stati registrati aggravamenti di
pena per quei casi che avevano ricevuto grande attenzione dai media. «Esiste peraltro una tendenza dei
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giudici a emettere sentenze spettacolari - speiga - su singoli casi per attirare l’attenzione dei media. A volte
gli stessi giudici coinvolgono persino direttamente i media nella sentenza». Grazie ai media si è creata una
sorta di pena alternativa, informale, che consiste nella spettacolarizzazione dei rituali punitivi. Doyle parla
specificamente di “rito informale di degradazione”, una punizione supplementare che si aggiunge alla pena
prevista dall’ordinamento penale.
Una interessante analisi del nesso che lega mass media e il mondo della giustizia è fornita anche da Giacalone: il grado di discrezionalità delle decisioni delle agenzie di controllo sociale formale è molto elevato e
pertanto nel meccanismo della criminalizzazione opera un vero e proprio codice di secondo livello che modifica in modo latente l’applicazione del codice ufficiale delle regole penali. I mass media, in questo scenario, si inseriscono in qualità di agenzie del controllo alternative, insieme a enti locali, istituzioni sociosanitarie, sindacati etc. Peraltro, i giornalisti appena accorsi sulle scene del crimine hanno allo stesso tempo
la necessità di fare il proprio lavoro fornendo una spiegazione dei fatti, in assenza di una ricerca attiva non
ancora possibile per motivi di tempo, e pertanto si affidano alle versioni ufficiali delle agenzie e della loro
interpretazione. Le conferenze stampa della polizia e delle Procure hanno assunto, secondo Giacalone, un
«ruolo surrogatorio della sentenza penale dato che rappresenta il passaggio fondamentale attraverso il
quale i soggetti cui l’ordinamento giuridico (oggi più di ieri) attribuisce il rango di semplici parti processuali
(polizia giudiziaria e pubblico ministero) si appropriano (illegittimamente) del ruolo di autorità giudicanti,
operando un giudizio ascrittivo (e negativo) sulla condotta degli accusati, che a loro volta – nella realtà falsata dalla rappresentazione televisiva – vestono i panni dei condannati».
Conferma questa prospettiva anche la consuetudine di associare ai casi nomi fantasiosi alle operazioni investigative con l’intento di spettacolarizzarle e permettendo alla stampa di utilizzarli per indirizzare la visione
dei fatti.
David L. Altheide, invece, ha messo l’accento sul discorso di paura, ovvero «la comunicazione pervasiva, la
consapevolezza simbolica e l’aspettativa che il pericolo e il rischio siano un aspetto centrale della vita di ogni
giorno» . Secondo questa ricerca, la maggior parte dei cittadini americani hanno vite più sicure e prevedibili
che in ogni momento, eppure quelle stesse persone si sentono gravemente in pericolo. Nella cultura popolare, la paura costituisce la fonte principale di intrattenimento e in questo contesto si è affermata una nuova identità sociale, la vittima. Peraltro, secondo Altheide, il crimine è anche piuttosto semplice da trattare,
ed è questo un altro dei motivi per cui si è tanto diffuso nell’intrattenimento. Dallo spazio dedicato dai media al crimine per lo più violento e dalla scarsa attenzione prestata a crimini “minori” il pubblico deduce una
impropria associazione tra crimine e crimine violento con la conseguenza che alla parola ‘crimine’ si ricollega direttamente il significato di ‘crimine violento’. Allo stesso modo, l’Autore ha esaminato modalità ed
ampiezza dell’uso della parola ‘paura’ nei principali quotidiani americani dal 1987 al 1996, misurandone
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l’occorrenza nelle notizie della rete ABC. L’utilizzo del termine è aumentato del 100% nelle notizie e nei titoli, toccando il picco nel 1994. Di volta in volta, peraltro, la parola ‘paura’ è stata associata a diverse.
La percezione del terrore è amplificata e posta in primo piano dai media - come già postulato più in generale negli anni ’70 da McCombs e Shaw, ripresi da Iyengar e Kinder nel decennio successivo, e dalla teoria della coltivazione di Gerbner - e dallo spazio da essi destinato al crimine. L’aspetto cruciale è ciò in cui la paura
può evolvere: il barricarsi in casa, l’eccesso di auto-difesa e la continua richiesta di protezione alle istituzioni
diffonde il disordine sociale e ci si affida alle agenzie del controllo sociale formale perché ripristinino
l’ordine. Il discorso di paura diviene realtà e rende realtà anche ciò che si conosce soltanto per sentito dire:
eventi rari vengono percepiti come comuni e frequenti, perché tali appaiono nei racconti delle persone vicine.
Molti sono peraltro i casi in cui la paura viene associata all’altro, generalmente identificato nel membro di
una minoranza, etnica o sociale, come lo straniero e il povero. Il ‘discorso di paura’ di Altheide è costruito
tramite format di intrattenimento che permettono l’interiorizzazione e la fruizione di esperienze visive ed
emozionali in cui il pubblico si identifica. In particolare, più che la paura, conta la condivisione dell’identità
di “vittima”, diventata un vero e proprio status.
Molto è stato detto sul rapporto tra sovraesposizione del crimine e credenze, meno invece su quanto la legittimazione del potere giudiziario sia minata dalla sovraesposizione di chi lo esercita e quanto, si può osare, la presenza massiccia di crimine nei media influenzi a sua volta gli organi chiamati a giudicare.
Tutte le sfere dello studio e del sapere umano sono state nell’ultimo decennio investite dalla curiosità verso
la comprensione del crimine. Oltre alle innumerevoli fiction – tanto numerose che esiste un canale satellitare interamente dedicato ad esse, FoxCrime - va ricordata la smisurata letteratura sul tema,
dall’anatomopatologa di Patricia Cornwell, Kay Scarpetta, o al fumetto Julia, Le avventure di una criminologa, edito da 11 anni da Sergio Bonelli Editore.
Si tratta di produzioni basate su uno studio estremamente approfondito della realtà che raccontano: la
scrittrice americana Cornwell ha sviluppato una preparazione tale da essere chiamata, nel suo Paese, ad offrire consulenze forensi. Lo scrittore-sceneggiatore Berardi, per dare credibilità alle storie su carta che vedono come protagonista Julia Kendall, consulente della procura di Garden City con le sembianze di Audrey
Hepburn, ha frequentato per alcuni mesi come auditore un corso dell’Istituto di Medicina Legale di Genova.
La base di partenza si articola dunque partendo dalla interiorizzazione delle norme (Durkheim, Parsons,
seppur con le dovute distinzioni tra i due rispetto all’impatto che hanno sul singolo individuo, una imposizione nel primo e un elemento della personalità nel secondo) spingendosi a ritroso alla funzione del diritto
teorizzata da Weber (in Economia e società) e alla legittimazione degli ordinamenti giuridici, nonché alla
“legittimazione attraverso la procedura” di Luhmann e ai punti in comune e in contrasto con Habermas.
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Cruciale è in questo contesto l’ulteriore elemento aggiunto dall’autore di “Crisi della razionalità nel capitalismo maturo” (1975), che scrive “Perchè un potere legale sia riconosciuto come legittimo deve essere soddisfatta almeno un'altra condizione: devono essere dichiarati i motivi della forza legittimante di questa procedura formale”.
Uno sguardo più propriamente giuridico sulla questione passa attraverso gli studi di A. Garapon, Le gardien
des promesses (in italiano, I custodi dei diritti: giustizia e democrazia, Feltrinelli, che richiama a sua volta la
judicialization of politics di Tate e Vallinder, ma anche Del Giudicare, o le teorie sul rituale giudiziario di M.
Strazzeri), J,. Rozemberg, The search for justice, Gianaria-Mittone, Giudici e telecamere. Il processo come
spettacolo; Alpa, I custodi del diritto. Avvocatura, mercato, politica, tra i tanti. E ancora, i contributi di Bruti
Liberati, Ceretti e Giasanti (Governo dei giudici, 1996), Pulitanò e Di Chiara, ma anche Glauco Giostra che
parla di “giustizia percepita”: se è vero che le leggi dell’offerta e della domanda “costringono” gli operatori
dell’informazione a concentrarsi soltanto sullo stadio iniziale del procedimento penale, gli atti d’indagine
finiscono per caricarsi di una attendibilità, peggio, di una parvenza di definitività che non possono avere.
«Ci si va perniciosamente abituando – scrive - ad equazioni mentali del tipo: informazione di garanzia = imputazione; rinvio a giudizio = condanna di primo grado; misura cautelare restrittiva = esecuzione di pena.
Certo, tutti sappiamo che l’unica vera giustizia è quella istituzionale, l’unico accertamento meritevole di essere assunto pro veritate è quello contenuto in una sentenza emessa al termine di un giusto processo giurisdizionale. Ma càpita un po’ per la giustizia ciò che i meteorologi ci spiegano per il caldo: l’importante non è
la temperatura misurata dai termometri, bensì quella percepita. E la “giustizia percepita” rischia di essere
quella – più facilmente e direttamente fruibile- sommariamente dispensata dalla carta stampata o dal tubo
catodico. Tutto ciò determina rilevanti effetti distorsivi. Il controllo sociale, che dovrebbe essere esercitato
con lo strumento della norma penale, si sposta fatalmente dalle fattispecie incriminatici agli istituti del processo, utilizzati impropriamente come mezzi di prevenzione speciale».
Nella tradizione inquisitoria si ricerca e si accerta la Verità fuori del contraddittorio e fuori del controllo
pubblico. La pubblicità non ha la funzione di controllo, ma di messaggio sociale sulla esemplarità della pena
e della pronunzia della condanna. Per questo l’istruttoria è rigorosamente segreta mentre la condanna a
morte o a pena corporale è eseguita in pubblico. Il crescente rilievo della gius zia nella vita della colle vità
che Pulitanò coglieva già trentacinque anni addietro con riferimento alla situazione italiano è successivamente divenuto un fenomeno globale e di accentuata intensità al punto che il filosofo francese Philippe Raynaud lo ri ene “uno dei fa
poli ci più importan di questa fine del XX secolo”
Dal contesto narrativo del processo come strumento di risoluzione delle controversie si intende passare al
processo come conflitto in sé e all’ipotesi che il potere giudiziario viva negli ultimi anni una perdita di autorevolezza, una sorta di secolarizzazione.
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Nell’analizzare le serie tv incentrate sul crimine, la domanda che si è posto Richard Sparks, docente di criminologia alla School of Law di Edinburgo e co-direttore dello Scottish Centre for Crime and Justice Research, è stata: diventiamo più ansiosi se osserviamo il crimine in tv o siamo già ansiosi nel momento in cui
decidiamo di guardarlo? Sparks ha esplorato le relazioni tra il guardare i telefilm polizieschi (come “Hill
Blues Street”, “Miami Vice” e “The Sweeney”) e la portata e l’intensità della paura del pubblico e l’allarme
sulla criminalità. Egli esamina gli effetti della violenza televisiva, analizza la predominanza di alcune immagini e ricorrenza di tipi di storia e il loro appeal sul pubblico, e si riferisce alla più ampia agenda politica e
sociale. Egli attinge dalla teoria sociale, dalla psicologia sociale e dagli studi sui media e dalla criminologia
nel fornire un importante resoconto sui significati della criminalità e sull’applicazione della legge nella cultura contemporanea.
Forse il campo più importante in cui si vedono gli effetti della popolarità di telefilm come CSI è proprio
l’aula di tribunale: giurati e giudici rischiano di sopravvalutare l’apporto che gli scienziati possono introdurre
in un processo, aspettandosi risposte molto più precise di quante ne possano effettivamente dare, mentre
gli avvocati si sentono in dovere di portare sempre più prove a supporto della tesi, magari risultando più
approssimativi in altre parti del loro lavoro. Uno studio statistico dell’Università dell’Arizona ha rilevato che
gli spettatori di tali serie televisive sono più critici della scienza forense e meno persuasi dalle sue affermazioni, mentre questo effetto non si riscontrerebbe negli spettatori di serie poliziesche più generaliste come
Law & Order. Altri ritengono che grazie a questi show i criminali siano diventati più attenti a non lasciare
tracce di alcun tipo, come capelli o mozziconi di sigarette.
In criminologia si parla già da qualche anno di “Effetto CSI”, emerso in molti contributi di studiosi americani:
indicato col nome della più conosciuta delle crime fiction, si tratta di un fenomeno per il quale serie televisive di successo hanno cambiato la percezione che la gente comune ha verso la medicina forense e le perizie scientifiche in generale, alzando le aspettative e richiedendo la stessa qualità di risultati che si può apprezzare in televisione. Molti drama attuali sono, infatti, basati su casi reali che sono rimasti impressi nella
memoria collettiva. Secondo Shelton, realtà e finzione hanno iniziato a mescolarsi in programmi televisivi
come 48 hours Mystery o American Justice, la cosiddetta real tv: prima, però, tali trasmissioni ne rieditano il
contenuto spettacolarizzandolo e acuendone l’aspetto drammatico. Il livello successivo di distorsione del
sistema di giustizia penale è - secondo Shelton - il «reality-based crime fiction television drama», ovvero
quella branca dello spettacolo di intrattenimento basato su una ricostruzione fittizia che abbia, però, degli
elementi in comune con fatti realmente accaduti. In base all’analisi condotta, sembra che, in assenza di
prove scientifiche, in molti casi i giurati non siano riusciti a pronunciare verdetti di colpevolezza anche laddove tali prove non erano essenziali per la decisione.
Insieme a due ricercatori della Eastern Michigan University, Gregg Barak e S. Young Kim, Shelton ha condotto una indagine per verificare se la vox populi circa l’influenza delle crime fiction sul sistema giustizia avesse
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una corrispondenza empirica. La ricerca è stata condotta su 1000 potenziali giurati prima della partecipazione ai processi: essi sono stati interpellati in merito alle loro aspettative rispetto alle prove scientifiche,
ma anche sulle loro abitudini di “consumo televisivo” e più specificamente sulla visione di programmi come
CSI e simili; sono stati sottoposti anche 13 scenari di delitti, ciascuno con cinque risposte disponibili (sulla
scelta che ogni intervistato avrebbe compiuto in merito alla condanna, all’assoluzione o all’indecisione tra
le due). Nei mesi di giugno, luglio e agosto 2006 oltre mille potenziali giurati hanno compilato un questionario scritto prima di essere selezionati per prendere parte a un processo e le risposte possono essere indicate come nel grafico a seguire:
In tutti i casi penali a loro eventualmente sottoposti, il 46% degli intervistati si aspettava di vedere un qualche tipo di prova scientifica; il 22% si aspettava di vedere la prova del Dna in ogni caso; il 36% si aspettava
di ravvisare la prova delle impronte digitali e il 32% si aspettava di vedere prove balistiche o di altre armi da
fuoco. I risultati sono apparsi piuttosto razionali: ciò sta a significare che i vari tipi di prova erano richiesti
dai potenziali giurati in relazione a crimini rispetto ai quali potevano essere più significativi (il Dna per casi
di stupro, le impronte nei casi di furto e così via), quindi in modo pertinente. Le risposte sui programmi
guardati in tv indicano che Law & Order e CSI: Scena del crimine sono state le serie più viste (rispettivamente, il 45% e il 42% degli intervistati). È emerso anche che chi guardava CSI era solito guardare anche altri
programmi legati al crimine, mentre coloro che hanno affermato di non guardare CSI tendevano a non
guardare neanche quelli simili. Gli intervistati con un livello più basso di istruzione tendevano a guardare
CSI più frequentemente dei soggetti più istruiti. Rispetto alle prove - scientifiche e non - gli spettatori di CSI
avevano maggiori aspettative. Ma la domanda più rilevante per i ricercatori era: quali probabilità di proscioglimento ci sono nel caso in cui quelle prove non vengano soddisfatte? O meglio: i giurati ritengono
quelle prove necessarie per riconoscere la colpevolezza dell’imputato? Ebbene, in molti degli scenari presentati una aspettativa maggiore di questo tipo non si traduceva in una richiesta, per ciascun tipo di prova,
di essere prerequisito di colpevolezza.
Le conclusioni dei ricercatori non hanno accertato una relazione così lampante tra la visione del telefilm e le
decisioni dei giurati. Soltanto 4 scenari su 13 mostravano una qualche differenza significativa tra spettatori
di CSI e non spettatori e ciò è derivato dai seguenti risultati: in ogni scenario di reato sottoposto ai potenziali giurati, gli spettatori di CSI erano più inclini a condannare, anche senza prove scientifiche, in presenza
però di testimoni oculari; in casi di stupro, gli spettatori di CSI erano meno propensi a condannare se non
era stata presentata prova del Dna; negli scenari di furto e violazione di domicilio, davano più rilevanza alle
dichiarazioni della vittima e dei testimoni che non alle impronte digitali.
Secondo Shelton, Barak e Kim, più che di “Effetto CSI” si dovrebbe parlare piuttosto di effetto-tecnologia: la
rivoluzione tecnologica in atto ormai da 30 anni mette a disposizione di chiunque un numero elevatissimo
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di informazioni dettagliate su qualsiasi argomento e più di quante se ne imparino con l’istruzione scolastica.
Il problema risiede allora nell’adattare gli strumenti del sistema penale alle nuove aspettative dei giurati.
La rappresentazione della giustizia anche in Europa ha prodotto una serie di effetti sulla percezione della
giustizia stessa, conseguenza, in parte, della sua collocazione in contenitori mediatici. In questo meccanismo di delegittimazione (in cui i cittadini si ergono, pressoché involontariamente, a quarta istanza qualificata del processo) possono essere individuati ipotetici “tipi” di rappresentazione mutuati dalla letteratura
(Kafka, Camus, Simenon, Dickens, Capote, Dostoevskij) nei quali far confluire i prodotti mediatici incentrati
su crimine e processo.
Per esempio, la rappresentazione “catartica” della giustizia: quella derivante, per estensione, dal Delitto e
Castigo di Dostoevskij, fatta di auto-assoluzione e auto-colpevolezza. Il romanzo ha il suo evento chiave in
un duplice omicidio dettato dall'ostilità sociale: quello premeditato di un'avida vecchia usuraia e quello imprevisto della sua mite sorella più giovane, per sua sfortuna comparsa sulla scena del delitto appena compiuto. L'autore delle uccisioni è il protagonista del romanzo, Rodion Romanovič Raskol'nikov, e il romanzo
narra la preparazione dell’omicidio, ma soprattutto gli effetti emotivi, mentali e fisici che ne seguono. In
particolare, Raskol'nikov reputa di essere un “superuomo” e che avrebbe potuto commettere in modo giustificato l’uccisione della vecchia usuraia se ciò gli avesse portato la capacità di operare dell'altro bene, più
grande, con quell'azione. Il vero castigo di Raskol'nikov non è il campo di lavoro a cui è condannato, ma il
tormento che sopporta attraverso tutto il romanzo. Questo tormento si manifesta nella suddetta paranoia,
come anche nella sua progressiva convinzione di non essere un “superuomo”, poiché non ha saputo essere
all’altezza di ciò che ha fatto. Tormento a parte, questo plot sembra ripetersi in numerose crime fiction,
prima fra tutte Dexter, dove il protagonista vive il duplice ruolo di indagatore e giustiziere.
E ancora: la “rappresentazione dell’assurdo”, naturalmente riconducibile a quella incredibilmente ansiogena de “Il Processo” di Kafka, elemento che in altra forma si ritrova, ad esempio, in serie come The Mentalist, dove l’acume si mescola e si confonde con presunzioni paranormali.
“A sangue freddo” di Truman Capote, fedele rappresentazione di un efferato crimine realmente avvenuto e
pertanto considerato il primo romanzo-reportage o romanzo-verità della storia della letteratura, invece,
sembra il preludio per la “rappresentazione di verità”, quella ricerca spasmodica della verità tramite una
ricostruzione minuziosa dei dettagli. Vengono in mente in tal caso serie come Criminal Minds, C.S.I. Scena
del Crimine, NCIS, The Wire.
Infine, una quarta categoria potrebbe essere quella della “rappresentazione dal punto di vista criminale”:
in letteratura si può rinvenire questo modello in “Lettera al mio giudice” di G. Simenon – storia di un uomo,
Charles Alavoine, medico di campagna, vedovo con due bambine e risposato infelicemente con una donna
di nome Armande; durante questo matrimonio si innamora perdutamente di Martine. La loro storia è fatta
di passione, amore, ma anche di gelosia e possessività. Lui la picchia frequentemente, e un giorno, esage44
rando, la uccide. Nella lettera l’uomo non si giustifica né tenta di spiegarsi ma racconta la propria vita, le
proprie passioni ossessive, e l’omicidio). In narrazione televisiva seriale, nella serie campione di premi Breaking Bad, il cui protagonista è Walter White, professore di chimica che per assicurare un futuro alla sua famiglia, dopo aver saputo di dover morire per una grave malattia, si dedica alla produzione di metamfetamine e a una lunga serie di connessi delitti.
In particolare, le crime fiction, prodotto per lo più statunitense ma con alcuni buoni esemplari europei, ripercorrono, malgrado le differenze di genere, una serie di rappresentazioni ricorrenti che, a dispetto della
prevedibilità, sembrano disgregare gli elementi comuni del crimine e del processo. A partire dalla elementare (e ormai lontana) teoria della coltivazione di Gerbner fino al recentemente esplorato “CSI Effect”,
l’analisi si snoda nell’individuare ricorrenze ed effetti dei principali gruppi di serie televisive in Europa, dove
il maggior numero di studi sul tema si ritrova in Francia, e negli Usa.
La decostruzione del contenitore diventa anche decostruzione dei contenuti: il processo costruito nelle aule
di tribunale non vive più della ritualità che gli è stata propria e identificativa, ma si allarga a includere una
massa critica enorme fatta di spettatori. Di talk show, di canali informativi, ma soprattutto di forme seriali
di narrazioni che di fatto scompongono la sacralità intrinseca della giustizia.
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Lynn M. Randolph e Donna J. Haraway: la parabola del cyborg tra arte e filosofia.
di Linda De Feo
Oggetto della mia riflessione sarà il dialogo ideale, mai interrotto, tra Donna J. Haraway e Lynn M. Randolph.
Il filo virtuale che lega l’elaborazione teorica della filosofa al patrimonio immaginativo della pittrice mostra
come la filosofia, con l’ingresso nel tempo degli eventi, possa farsi racconto e diluirsi nel flusso della narrazione, rifuggendo gli schemi logici e le sintesi razionali del modello greco-idealistico, per nutrirsi della variabile tempo e configurarsi nei modelli plastici del linguaggio.
Il realismo, visionario e metaforico, dei dipinti randolphiani rappresenta significati, strumenti e tropi della
tecnoscienza, traducendo fedelmente sul piano della produzione di immaginario il nodo di organico e inorganico che nell’analisi harawayana viene intrecciato in una complessa e problematica matrice.
Incrociando i testi della studiosa, gli androidi e i vampiri creati dall’artista costituiscono liminali immagini di
transito tra sezioni, capitoli e discorsi, consentono di esaminare comparativamente analogie e convergenze,
e assumono il ruolo di metafore multiversali, che esistono all’interno di una logica narrativa, comprensiva di
un inizio, uno sviluppo e una fine.
Si tenterà di osservare come la parabola narrativa della Randolph, partendo dal palesamento dell’invisibile,
quella forma di conoscenza tacita, implicita, annidata negli oscuri ventricoli della carne, finisca per coincidere, come in un gioco di dissolvenze cinematografiche, con il racconto di perverse morfogenesi, mutamenti
di forma di un’identità corporea sempre meno biologica e sempre più erosa dalla tecnologia, riflesso estetico del processo di métissage sensoinformazionale che trova compiuta realizzazione nell’ibrida figura del
cyborg, creatura chimerica collocata al centro della speculazione della Haraway.
Nella percezione delle pulsioni di un’inarrestabile mutazione antropologica e nella decifrazione di inedite
realtà emerse dall’antroposfera, sia la pittrice sia la filosofa adombrano le sembianze di un’umanità futura,
costitutivamente difettiva ed estranea al mondo in cui è destinata a vivere, riflettendo su come il prodursi
dinamico delle potenzialità attualizzate realizzi progressive estensioni tecnologiche di un’indefinita liminalità, che, a sua volta, rilancia un perenne slittamento dei bisogni, delle funzioni e delle aspirazioni, mai esaudibili in senso compiuto.
Fulcro dell’analisi di entrambe le autrici è il corpo dell’uomo, il quale, riconfigurando se stesso, si narra, racconta delle sue declinazioni plurime, dei suoi commerci con l’alterità macchinica, delle sue destinazioni imprevedibili, che reinterpretano creativamente performatività e caratteristiche, contraddicendo l’esistenza
di essenze originarie e tradendo proiezioni teleologiche radicate in una natura tanto prodigiosamente potenziata quanto inquietantemente contaminata.
Questo corpo narrante, irresistibilmente spinto verso il crescente dominio dell’individuazione astratta sortito dalle macchine neocibernetiche, riferisce di un mondo progressivamente meno antropocentrico e antro48
pomorfizzato, ridefinendo l’ermeneutica della conoscenza, scandendo i ritmi intrinseci al potenziamento
della comunicazione e percorrendo il “tempo sociologico”. Generato dall’“evoluzione guidata” della specie
umana, questo corpo rappresenta storie eterogenee, metamorfosi realizzate nella zona liminale tra il presente e il futuro, la materia e la conoscenza, diffrazioni narrative che non oppongono più il naturale
all’artificiale, ma li fondono, sostanziando la produzione di inedite identità e inusitate alterità con apparenze né vere né false.
Durante le “catastrofi” tecnologiche, quei passaggi di stato prodotti dai dispositivi che imprimono irreversibilmente la loro forma nelle entità ritratte dalla Randolph e descritte dalla Haraway, il processo di remapping sensoriale dimostra quanto l’uomo appartenga a una specie “mutante”, sia cioè naturalmente incline
ad abitare le proprie estensioni o incorporazioni macchini che, e quanto, dunque, l’essenza stessa della
condizione antropologica sia artificiale.
L’amalgama tra ciò che è sempre meno umano e ciò che lo diventa sempre di più, così potentemente tratteggiato dalla pittrice e attentamente esaminato dalla filosofa, attraversa i processi strutturali e produce
riverberi sulle forme sovrastrutturali, promuovendo cambiamenti sul piano epistemologico che trascendono i dualismi -tra natura e cultura, biologia e tecnologia, mente e corpo, identità e alterità- con cui per secoli si è drasticamente spiegato il mondo e configurando la tecnoscienza come luogo di collasso delle frontiere disciplinari nonché delle categorie classiche della filosofia.
Il periodare estetico della Randolph e la logica immaginativa della Haraway, nel riconoscimento delle pericolose fantasie di immortalità disincarnata, vagheggiate dalla cibernetica biologica, nell’indefinito slittamento di senso, proprio della metafora, ossessivamente ricorrente nelle opere di entrambe, nel rifiuto del
continuismo di ogni filosofia della storia, concentrano l’interesse etico sulla narrazione di eventi che riguardano una soggettività transitante, che ristruttura la propria dotazione primigenia come radice da completare in una molteplicità di desinenze.
La tecnica, innervandosi nella carne viva degli individui, diventa l’essere nel corpo e, al contempo, impadronendosi delle strutture del cosmo per spingersi all’infinito, oltre i satelliti, si impossessa degli ordini di significazione delle collettività, dei modi di rappresentazione condivisi a livello planetario, che rispecchiano e al
contempo promuovono i processi dispiegantisi nel vissuto quotidiano, nel delineare lo sfondo storico su cui
si staglia la trama delle vicissitudini dell’umanità, immersa nell’ipercontemporaneo panorama mediatico e
costretta ad assumere indefinitamente cangianti e fluttuanti configurazioni.
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Lo spostamento del conflitto nella post-fiction seriale. di Achille Pisanti
Dopo che la fiction classica ha raccontato la frontiera, la metropoli e la famiglia/casa, oggi la post- fiction
racconta in primo luogo il racconto del corpo e dell’inconscio (meta-racconto), e lo fa sottoponendo la
scrittura ad una pressione che ne rinnova tutti i cardini e gli snodi tradizionali.
La scelta di ogni contenuto di plot sottostà agli stessi criteri metalinguistici : ogni snodo narrativo, nella
sua inevitabile ripetitività, deve guadagnare l’aura di mito raccontato , cioè assurgere a metafora di se
stesso (ormai l’unico modo di raccontare la stessa storia) .
Seguendo il medesimo criterio di pressione, l’introduzione di un elemento di differenza nel plot deve risultare clamoroso, unico nella sua specificità apodittica, mai visto.
Se il meta-racconto è portatore di una quota di manierismo barocco, l’esasperazione della diversità fa rientrare in gioco la categoria del realismo violento, penetrando, scardinando e dissacrando il contenuto del
concept o del plot (la de- generazione del plot ).
La compresenza dei luoghi abitati e quelli mentali ,e la simultaneità dei tempi raccontati, evidenziano il
passaggio dalla trasmissione lineare a quella sinaptica.
Trasmissione e sinapsi presiedono su un piano più generale al rapporto tra i generi narrativi ed a quello tra
genere e plot.
La trasmissione virale di un genere ad altri generi sostituisce, infatti, nella post-fiction, la pratica della
commistione tra i generi: dalla commistione all’infezione .
La caduta della dipendenza della scrittura dalle aspettative medializzate del pubblico generalista libera
questa scrittura dalla necessità catartica e dalla eticità degli statements (la depenalizzazione della scrittura).
Lo scrittore della post-fiction è diventato un fuorilegge (come ha sempre sognato), anche se ingabbiato dalle griglie rigide dei formati e dalla ossessione del rating (pena la morte della serie e talvolta dello scrittore
stesso.).
La sinapsi presiede anche alla relazione tra genere e plot , che non è più lineare (un genere produceva una
tipologia di plot) , ma si complessizza secondo le dinamiche descritte dalle scienze neurologiche per
quanto riguarda il rapporto cerebrale tra una potenzialità di azione ed i suoi effetti (un plot estremo attiva
diverse opzioni di generi contemporaneamente).
La novità più recente a questo riguardo è quella di impiantare un conflitto nella zona d’ influenza tra plot e
generi, utilizzandolo poi come mediatore ( lo spostamento del conflitto ) .
Questa pratica della scrittura è funzionale ad affrontare i problemi di fidelizzazione del nuovo consumatore.
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Grammatiche del sé
Narrare l’immortalità. di Alessandra Santoro
Una delle questioni più dibattute, all’interno del filone di studi sulla morte e l’immortalità, riguarda il modo
in cui gli individui e le società elaborano strategie d’immortalità sempre diverse, di epoca in epoca, per rispondere al problema della finitudine della vita umana.
Tali temi sono discussi all’interno della letteratura fenomenologica, che trae la sua origine dal più ampio
settore di studi della sociologia della conoscenza. Gli autori di riferimento a tale ambito di analisi (Ariès,
Bauman, Berger, CavicchiaScalamonti, Eliade, Elias,Gauchet,Luckmann, Morin, Yonnet) forniscono un quadro socio-storico del modo in cui, nel corso dei secoli, si siano modificate le strategie d’immortalità che le
società hanno messo a disposizione degli individui, e i processi di trasformazione che hanno accompagnato
tali mutamenti.
Dopo una breve introduzione di carattere generale, relativa al rapporto tra le grandi narrazioni universali,
soprattutto di derivazione mitico-religiosa, e le strategie di legittimazione della morte (Bauman, 1995), è
stato possibile focalizzare l’analisi su alcune tra le strategie d’immortalità che si stanno affermando, con
una forza sempre maggiore, nella società contemporanea.
Più nello specifico, si è ricorso alla descrizione e analisi di alcune tipologie di strategie d’immortalità sorte
dalla disamina di alcuni tra i giornali più noti in Italia e che si legano allo sviluppo delle tecnologie;in particolare, si affronterà il tema della Criopreservazione per quanto riguarda le strategie che si legano alle tecnologie medico-scientifiche, e si analizzeranno alcune piattaforme presenti sul Web come Eterni.me e 2045
Initiative, che invece si legano alle tecnologie digitali.
Per ogni tipologia di strategia è possibile individuare alcune tra le svariate narrazioni cinematografiche presenti nella filmografia occidentale, che hanno contribuito ad arricchire l’attuale immaginario collettivo riguardo le tematiche affrontate.
Le grandi narrazioni collettive, come le religioni universali, che per secoli hanno fornito alle società gli adeguati strumenti di legittimazione in risposta al problema della morte, “assicurando la sopravvivenza dei
morti nell’Ade, nel Walhalla nell’inferno o nel paradiso” (Elias, 2011, pg. 19), oggi, non assolvono più lo
stesso compito e risultano essere meno efficaci e totalizzanti.
La crescente individualizzazione (Rinaldi, 2014) che caratterizza la nostra epoca ha posto le fondamenta per
fare in modo che accanto ai principali edifici di legittimazione si affiancassero nuovi modi per personalizzare, a seconda della propria storia di vita, il modo di rispondere alla finitudine della vita umana.
51
Le strategie d’immortalità di carattere collettivo vengono così affiancate da narrazioni individuali che assumono senso e significato all’interno dei personali percorsi autobiografici.
Gli individui contemporanei avvertono sempre più l’esigenza di narrare se stessi, la propria storia e, allo
stesso tempo, personalizzare il modo di perpetuare la loro memoria e la propria identità oltre i limiti della
vita biologica (Boncinelli-Sciarretta, 2005).
Una delle trasformazioni che,di pari passo ai più ampi processi di secolarizzazione e individualizzazione
(Berger, 1969), sembra aver spianato la strada alla logica della personalizzazione della ricerca dinuove strategie d’immortalità nella contemporaneità, è senza dubbio l’avvento e lo sviluppo delle nuove tecnologie.
La diffusione e l’accesso, di un numero sempre maggiore di individui, all’utilizzo della tecnologia ha fornito
le condizioni essenziali per fare in modo che ognuno potesse scegliere, a seconda del proprio percorso autobiografico, il modo migliore per legittimare il problema della morte.
Per comprendere quali fossero le strategie d’immortalità più diffuse, o comunque fortemente in espansione,legate all’utilizzo delle tecnologie, si è scelto di procedere facendo una rassegna di alcuni dei giornali più
noti e consultati in Italia (Corriere della sera, Repubblica e La Stampa), in un periodo storico che va dal 2005
al 2015.
Dall’analisi di tali giornali è stato possibile estrapolare diverse tipologie di strategie d’immortalità, che possono essere suddivise in quelle che si legano alle tecnologie che vanno ad implementare l’universo medicoscientifico, e quelle che si legano alle tecnologie digitali.
La prima tipologia sembrerebbe essere fortemente ancorata alla sopravvivenza della coscienza o
dell’identità come inseparabile dal corpo. La seconda si concentrerebbe maggiormente, invece, sulla perpetuazione della memoria e dell’essenza dell’individuo, a prescindere dalla presenza di un supporto biologico
e, in alcuni casi, sostituendolo con un Avatar virtuale.
Alcuni esempi di tali strategie possono mostrare quanto le tecnologie siano sempre più al servizio dei singoli individui nel fornire loro una possibilità o speranza di sopravvivenza.
La più fantascientifica,che resta di fondamentale importanza per la costruzione del nostro immaginario collettivo,tra le frontiere dell’eternità, che implementa l’universo razionale-scientifico, è la Criopreservazione.
L’universo simbolico scientifico che permea la società occidentale da diversi secoli ha iniziato ad intravedere e a delineare la possibilità di interventi futuri sia sui processi di invecchiamento che sulla definizione di
morte in assoluto( Ettinger, 2005).
La crionica, infatti, è definita una proto-scienza fondata su previsioni di capacità d’intervento future.
La Criopreservazione o “sospensione crionica” consiste nell’abbassamento della temperatura corporea di
persone dichiarate legalmente morte, fino al raggiungimento della temperatura dell’azoto liquido, corrispondente a -196° C. A tali temperature la decomposizione corporea si ferma, e la speranza è che in futuro
sarà possibile riportare in vita tali persone, nonché ripristinare la condizione giovanile e di salute, tramite
procedure scientifiche sufficientemente avanzate.
52
La narrazione di questa tipologia d’immortalità la possiamo ritrovare in tantissime rappresentazioni cinematografiche, a testimonianza di quanto quest’idea che, a partire dagli anni 70, poteva sembrare pura fantascienza si stia invece avvicinando tantissimo alla realtà. “A Venezia muore un’estate” per esempio, del
1975 di P. Lazaga è un film che racconta la storia di una studentessa universitaria che s’innamora di un architetto, con cui si sposa. Quando la donna si ammala di una malattia incurabile, il marito accetta la soluzione estrema di sottoporla ad una tecnica sperimentale di ibernazione, in attesa che la scienza trovi un rimedio e la salvi. Dopo 40 anni la ragazza viene rianimata con successo e sottoposta ad una nuova terapia.
In “Apri gli occhi” del 1994 di Anemabar e nel suo remake “Vanillasky” del 2001 di Crowe, il protagonista, in
seguito ad un incidente stradale che lo sfigura, decide di stipulare un contratto con la “Life Extension”, ditta
che promette l’immortalità criogenizzando i pazienti deceduti perché siano conservati fino al giorno in cui
la tecnologia ne consentirà la rianimazione. Il paziente, suicidatosi dopo aver firmato il contratto con
l’associazione, vive in un cosiddetto “sogno programmato” nell’attesa del suo nuovo risveglio.
Ciò che poteva sembrare impensabile è invece realtà per centinaia di “pazienti” che hanno scelto la strada
della criopreservazione,e come loro in migliaia hanno già firmato un contratto per essere ibernati presso
istituti di crionica.
Tra le strategie d’immortalità legate alle tecnologie digitali, invece, possiamo indagare alcuni fra i rituali
commemorativi presenti sul web(Gamba, 2007). Più in particolare, si analizzeranno alcune piattaforme digitali che hanno come obiettivo perpetuare la memoria degli individui, dopo la loro morte.
Tali piattaforme hanno rafforzato la necessità di personalizzazione delle modalità di commemorazione dei
defunti e prevedono una pratica rituale del lutto totalmente diversa. Eterni.me è un software che promette
l’immortalità. Teorizzata da Marius Ursache, la piattaforma è ideata per creare l’avatar tridimensionale di
una persona defunta, elaborandone tutti i dati raccolti nel corso della sua vita: chat, e-mail, post lasciati sui
social media, foto, video, acquisti effettuati on-line, insomma ogni tipo di traccia digitale necessaria a riprodurre virtualmente, attraverso sofisticati algoritmi in grado di accorpare ed elaborare tutte queste informazioni, il comportamento, la personalità, la memoria e, quindi, l’identità del defunto. L’individuo durante il
corso della sua vita dovrebbe quindi contribuire ad arricchire e perfezionare il proprio avatar post-mortem;
una volta costruito ed ultimato, l’avatar emulando la nostra personalità sarebbe capace di comunicare ed
interagire con i nostri cari. La piattaforma sarà pronta nel 2016; nonostante ciò, allo stato attuale, vanta
quasi trentamila iscritti.
Vi è una ricca filmografia che attesterebbe lo svilupparsi e il diffondersi di queste strategie come una vera e
propria speranza che sempre più individui dimostrano di avere nelle tecnologie digitali.
Possiamo ricordare una nota serie televisiva “Black mirror”, e in particolare l’episodio “Be right back” del
2013 scritto da J. Armstrong, in cui la protagonista, in seguito alla morte del compagno, da cui aspetta un
figlio, decide di usufruire di un servizio online che le permetterebbe di rimanere in contatto con il marito
tramite un Avatar, creato utilizzando tutti i profili dei social media e da tutte le tracce digitali lasciate on53
line dal defunto durante il corso della sua vita. Ciò che avviene in questa nota serie televisiva non è poi così
diverso da ciò che prometterebbe la piattaforma Eterni.me.
Il film “Transcendence” del 2014 di Pfister, invece, racconta di un importante ricercatore nel campo
dell’intelligenza artificiale che viene assassinato da terroristi antitecnologici. Sua moglie, con la complicità di
un altro scienziato, riesce a caricare il cervello del dottore in un computer, e poi sulla rete, in modo da permettergli di continuare a portare avanti la sua ricerca, finalizzata alla guarigione dei tessuti umani. A questo
processo è abbinato poi un upload, un meccanismo che trasformerebbe persone umane in ibridi, da poter
manipolare e rigenerare, rendendoli di fatto immortali.
Quest’idea che potrebbe sembrare pura fantascienza, in realtà corrisponde un’iniziativa portata avanti da
Dimitri Istkov: 2045 Initiative è un progetto a cui il signor Istkov, insieme a un equipe di trenta scienziati tra
medici, biologi, nanotecnologi, sociologi e psicologi, sta lavorando per poter essere in grado di trapiantare
la coscienza umana su un supporto non biologico, creando cioè un vero e proprio Avatar, o più precisamente un ologramma che ci permetterà di fare a meno del nostro corpo mortale, per poter vivere per sempre.
Per questo progetto, che secondo i calcoli dovrebbe essere realizzabile entro il 2045, DimitryIstkov ha richiesto il supporto economico di tutti gli uomini più ricchi del pianeta.
Al di là dello stupore o del disagio che può causare un tale uso del web, e più in generale della tecnologia, è
chiaro che tali dinamiche provocano un cambiamento significativo nella personalizzazione dei rituali legati
alla morte: tali pratiche rituali si collocano al di fuori delle forme tradizionali e istituzionalizzate di commemorazione dei defunti; esse seguono la logica della personalizzazione, in cui gli individui, di volta in volta e
secondo il loro volere, sceglierebbero in anticipo la modalità della propria commemorazione.
Inoltre, il reale problema, che si pone al centro del dibattito scientifico, è quello inerente al mantenimento
dell’identità della persona deceduta. La difficoltà maggiore, infatti, soprattutto per quanto riguarda le tecniche d’ibernazione, consisterebbe, non solo nel ripristinare le funzioni vitali e biologiche del corpo ma, soprattutto, nel riuscire a riprodurre tutte le funzioni del cervello umano affinché avvenga, al momento del
risveglio, un recupero totale della memoria precedente, dell’identità e quindi della complessiva personalità
di ogni individuo.
54
Bibliografia
Bauman, (1995), Il teatro dell’immortalità, Il Mulino
Berger, (1969), La sacra volta,SugarCo Edizioni
Boncinelli-Sciarretta, (2005), Verso l’immortalità? La scienza e il sogno di vincere il tempo, Raffaele Cortina
Elias, (2011), La solitudine del morente, Il Mulino
Ettinger, (2005), The Prospect of Immortality, Ria Univ Pr
Gamba,(2007), Rituelspostmodernes d’immortalité. Lescimetièresvirtuelscommetechnologie de la mémoirevivante, «Sociétés», 97, n.3, pp.109-123
Rinaldi, (2014), Genesi e sviluppi del processo di individualizzazione, Franco Angeli
55
Narrare il corpo
Svelate. Marocco {f. pl.}: femminile plurale. Svelare storie per decostruire stereotipi. di Sara Borrillo
Il problema è il nostro sguardo
Paola Caridi
Il racconto è esistenza, relazione, attenzione
Adriana Cavarero
Breve introduzione: contesto e quadro teorico
Anche in Marocco, così come negli altri paesi dell’aerea MENA (Medio Oriente e Nord Africa) interessati nel
2011 dalle cosiddette Primavere, le donne hanno manifestato tra le fila dei movimenti di piazza per denunciare l’umiliazione in cui versa gran parte della popolazione e rivendicare il cambiamento democratico dello
Stato, la fine della corruzione nell’amministrazione pubblica e il concreto rispetto dei diritti umani e di cittadinanza.28 Benché sia possibile osservare la profonda continuità storica dell’impegno femminile, spontaneo o organizzato, in associazioni, partiti politici e altre emanazioni della società civile sin dall’inizio del
’900, la partecipazione delle donne nei recenti movimenti sociali dei paesi MENA ha generato un atteggiamento di sorpresa in alcune recidive analisi occidentali, anche di stampo femminista, ancora influenzate
dall’idea di derivazione coloniale secondo cui le donne di questi paesi sarebbero silenti, passive ed eterne
vittime del patriarcato.29 Le ragioni di una simile impostazione, cui è corrisposto il forte impatto mediatico
generato in Occidente dalle immagini di donne che hanno sfilato nei cortei della sponda sud del Mediterraneo guidando la folla al megafono, facendo cordoni in protezione dei manifestanti e resistendo alle cariche
della polizia, vanno spiegate con la mancata contestualizzazione dell’attivismo femminile nella longue durée
della storia dei paesi MENA. In proposito, è possibile osservare la presenza delle donne nelle battaglie dei
propri popoli, nei movimenti di liberazione nazionale e in quelli per il riconoscimento dei diritti civili, politici, economici e sociali, dai movimenti studenteschi, ai sindacati, ai partiti politici, ai movimenti islamisti, alle
associazioni per i diritti umani, ambientaliste e femministe.30 Nonostante questa partecipazione, le donne
28
Corrao, Francesca Maria (a cura di), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, Mondadori, Milano, 2011.
Si tratta di analisi che diverse autrici hanno definito “discorsivamente coloniali”: Leila Ahmed, Oltre il velo. La donna
nell’Islam da Maometto agli Ayatollah, Firenze, La Nuova Italia, 1995. Chandra Talpade Mohanty, “Under western
eyes.
Feminist scholarship and colonial discourses”, in «Feminist Review», 30 (1988), pp. 61-88. Quest’ultimo saggio è contenuto in Chandra Talpade Mohanty, Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti, a cura di Raffaella
Baritono, Verona, Ombre corte, 2012.
30
ElHoussi, Leila, Sorbera, Lucia (a cura di), Femminismi nel Mediterraneo, Genesis - Rivista della SIS - Società Italiana
delle Storiche, Viella, XII, 1-2013
29
56
faticano ad ottenere uguaglianza nel continuum pubblico-privato a causa di un’organizzazione sociale ispirata ad un’economia della sessualità31 in cui prevale il principio della complementarità di genere, che alimenta una divisione rigida del lavoro e degli spazi dell’agire sociale e politico. Nonostante alcune parziali
riforme – ad es. di alcuni codici di famiglia, come la Mudawwana marocchina (2004) -, in contesto islamico
le donne continuano ad essere per lo più cittadine di seconda classe32 e il pieno riconoscimento dei loro diritti continua ad interrogare direttamente il rapporto tra Islam e modernità, il tema dei diritti umani e di cittadinanza, la relazione tra le libertà individuali e la collettività in rapporto più o meno vincolato con l’Islam.
In particolare, il tema del corpo femminile occupa una posizione significativa negli equilibri sociali e
nell’immaginario dei paesi a maggioranza musulmana in quanto esso è al tempo stesso simbolo dell’onore
patriarcale (crimini d’onore, verginità, matrimoni riparatori, forzati e dei minori) e minaccia (fitna) per
l’ordine sociale. Nella narrazione occidentale sul mondo islamico, in epoca coloniale come in quella postcoloniale,33 il tema del velo in particolare è divenuto un catalizzatore della categoria di donna arabomusulmana con hijāb (foulard). Questa categoria è stata elaborata dalla studiosa Sirin Adlbi Sibai 34 traslando la
categoria di donna media del terzo mondo con cui, secondo Chandra Talpade Mohanty,35 la
maggior parte degli studiosi occidentali guardano all’Oriente, e alle sue donne, secondo un approccio orientalistico. Questa categoria racchiude in sé, denunciandone l’erroneità, le descrizioni fuorvianti di donna
musulmana intesa secondo una prospettiva astorica, socialmente omogenea e priva di elementi di differenza nazionale, culturale, di classe, d’istruzione, di militanza - o indifferenza - politica, di appartenenza generazionale e d’identificazione religiosa; aspetti che rendono le donne (scritto al plurale) dei paesi a maggioranza musulmana un insieme estremamente variegato di soggetti tutt’altro che omogeneo. Inoltre, utilizzando il simbolo del foulard islamico, essa veicola un’immagine femminile intrinsecamente e costitutivamente sottomessa e priva(ta) della capacità di agency, vale a dire della capacità di pensare e di agire autonomamente in società.36 Quest’immagine fissa di donna velata è andata stratificandosi nell’immaginario occidentale e sembra essere diventata una lente, un indicatore visuale carico di molteplici significati, estetici,
politici, religiosi, attraverso cui a taluni pare possibile misurare il grado di democraticità del mondo araboislamico, laddove questo viene generalmente percepito come intrinsecamente e costitutivamente retrogrado proprio in ragione della discriminazione di genere in esso perpetrata e simbolicamente rappresentata
dal velo. Sulla base di ciò, buona parte della retorica della missione civilizzatrice occidentale rivolta ai paesi
a maggioranza islamica ruota intorno allo svelamento, inteso come cartina di tornasole dell’emancipazione
31
Dialmy, Abdessamad, Sexualité et discours au Maroc, Afrique-Orient, Casablanca, 1988.
Joseph, Suad, (Ed.), Gender and citizenship in the Middle East, Syracuse University Press, Syracuse-New York, 2000.
33
Ahmed, Oltre il velo, cit. Mahmood, Saba, Politics of piety. The Islamic revival and the feminist subject, Princeton
University Press, Princeton, 2005. Said, Eduard, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2005.
34
Sirin Adlbi Sibai è una ricercatrice ispano-siriana all’Università Autonoma di Madrid, dove ha discusso una tesi di
dottorato sul rapporto tra teorie del femminismo occidentale, colonialismo e movimento delle donne in Marocco. Adlbi Sibai, Sirin,
“Colonialidad, féminismo e Islam”, in http://www.rebelion.org/docs/150680.pdf
35
Mohanty, “Under Western eyes”, cit.
36
Butler, Judith, La disfatta del genere, Meltemi, Roma, 2004.
32
57
femminile, prima individuale e poi collettiva. Nel 1923, la femminista egiziana Huda Sharawi, fondatrice
dell’Unione delle donne egiziane, compie un gesto pubblico dalla portata molto significativa per tutta l’area
MENA: di ritorno in Egitto dopo aver partecipato al Congresso internazionale delle donne per il suffragio universale a Roma si toglie il velo integrale alla stazione del Cairo.37 Lo svelamento da allora è divenuto il
simbolo della liberazione delle donne e leitmotiv della retorica coloniale di matrice occidentale alla base
della narrativa civilizzatrice del white-man-middleclass, secondo un atteggiamento che Gayatri Spivak ha
definito dell’uomo bianco che vuole salvare la donna nera dall’uomo nero.3811 Oltre ad essere il bersaglio di
un’indubbia discriminazione di genere presente nei codici di legge e nelle norme sociali, le donne in contesto islamico sono dunque state - e continuano ad essere - anche oggetto di un discorso occidentale strumentalmente liberatore. Va ad esempio ricordato che mentre il governatore britannico in Egitto Lord Cromer ad inizio ‘900 (1883- 1907) invocava il riconoscimento dei diritti delle egiziane, in patria si schierava
nella Men’s Leaugue for opposing women’s suffrage con gli oppositori del suffragio universale rivendicato
dalle suffragette.39 Non va poi trascurato che più di recente le campagne per la legittimazione delle guerre
all’Afghanistan e all’Iraq dopo l’11 settembre 2001 si siano servite di una precisa narrativa in favore della
liberazione delle donne di questi paesi. Né va trascurata l’insidiosa islamofobia prodotta da una certa retorica interessata a produrre paura e frammentazione sociale nella nostra società.
Obiettivo generale del progetto
L’antropologo marocchino Hassan Rachik durante una discussione dottorale (Casablanca,16 luglio 2012) ha
affermato che ogni stereotipo è prezioso, perché proprio a partire da esso l’antropologo può svolgere il
proprio lavoro. Il progetto Svelate. Marocco: {f. pl.} femminile plurale intende decostruire lo stereotipo occidentale circa l’eterna passività delle donne dei paesi a maggioranza islamica svelando storie, piuttosto che
corpi, e svelando preconcetti che impediscono di guardare al di là dei veli che ricoprono non tanto i volti,
ma le nostre geografie immaginarie. Si tratta di una mostra foto-narrativa che getta luce su storie di donne
che trasgrediscono, contestano, modificano o accettano i confini reali e immaginati delle norme sociali patriarcali in Marocco, attraverso il racconto biografico e visuale di sette profili femminili di cui il sito web
www.svelate.org raccoglie le tracce.
Il progetto nasce nel 2010 da due incontri o, meglio, da due processi di coinvolgimento nelle storie - potremmo dire riprendendo il titolo di questo convegno. Il primo incontro è quello con le narratrici. L’altro
consiste nell’incontro del mio lavoro di ricerca con lo sguardo fotografico di Michela Pandolfi. Vivevo in Marocco per svolgere un ricerca sul campo per il dottorato incentrata sulle convergenze e divergenze tra
37
Warnok Fernea, Elizabeth, Qattan Bezirgan, Basima, “Huda Sh’arawi, Founder of the Egyptian Women’s Movement”, Warnok
Fernea, Elizabeth, Qattan Bezirgan, Basima, Middle Eastern Muslim Women Speak, University of Texas Press, Austin, 1976, pp.193200.
38
Spivak, Gayatri C., “Can the subaltern speak?”, in Nelson, Cary, Grossberg, Lawrence, Marxism and the Interpretation of Culture,
MacMillan Education, Basingstone, 1988, pp.271-313.
39
Ahmed, Oltre il velo, cit.
58
femminismo laico e islamico e su alcune riforme di genere della monarchia marocchina, tra cui quella del
Ministero degli Affari Islamici che nel 2004 ha abilitato le donne a predicare l’Islam in moschea.40 Ogni giorno a margine del mio lavoro rientravo a casa con un bagaglio di storie di donne che per me avevano iniziato
a diventare consuete, facendo parte del mio quotidiano. Ad un osservatore che poco conosceva la realtà in
cui io ero immersa potevano tuttavia sembrare straordinarie. Ed infatti, ricordo la sorpresa di Michela
nell’ascoltare le storie che le raccontavo e soprattutto nel vedere accostate traiettorie individuali emancipatorie con il tema del velo.
Obiettivo specifico
Il progetto racconta quindi traiettorie femminili che vanno oltre l’equazione donna musulmana
con hijab = sottomessa, associata ad un Islam oscurantista, repressivo e retrogrado. Si tratta di
un’immagine mistificatrice innanzitutto perché induce a vedere in maniera omogenea un universo femminile che omogeneo non è, e in secondo luogo perché dà continuità alla retorica coloniale che riconosce nel
velo il simbolo della sottomissione femminile all’Islam in maniera automatica, ascrivendo all’Islam la responsabilità della discriminazione femminile nelle società a maggioranza musulmana e non ad un insieme
di concause legate alle gerarchie di genere, classe e razza, secondo un approccio intersezionale.41 Che non
risieda nell’Islam la causa della sottomissione femminile nei paesi a maggioranza islamica, ma nei modi in
cui esso è stato strumentalizzato in norme di legge e codici comportamentali, oramai è noto a buona parte
della comunità di studiosi in Genere e Islam. E di questo in particolare si stanno occupando le cosiddette
femministe islamiche, vale a dire intellettuali e teologhe riformiste che lavorano per dimostrare la compatibilità tra uguaglianza di genere e Islam, attraverso un lavoro di esegesi del Corano e una lotta per l’accesso
all’autorità religiosa (le pakistane Asma Barlas e Riffat Hassan, la marocchina Asma Lamrabet, l’iraniana Ziba Mir-Husseini, l’afro-americana Amina Wadud, etc…). Questo lavoro accoglie dunque la prospettiva post
coloniale che mette in discussione l’assunto del femminismo liberale di matrice occidentale secondo il quale in una relazione di potere, l’unica reazione possibile del soggetto sottomesso sarebbe quella della resistenza tesa ad un’emancipazione unidirezionale. E si propone, piuttosto, di dare valore e visibilità alle diverse modalità di esprimere la propria agency e alle diverse priorità emancipatorie di donne che quotidia-
40
Tra le mie più recenti pubblicazioni, "Il Movimento del 20 Febbraio e l’uguaglianza di genere in Marocco: tra dibattito interno e
riforma costituzionale", in: Francesca, E. e Di Tolla, A., (dir.), La rivoluzione ai tempi di internet. Il futuro della democrazia nel Maghreb e nel mondo arabo, Università L'Orientale, Napoli, 2012, pp.27-46. “Le Murshidat in Marocco: compromesso o rivoluzione?”,
in Il mestiere di storica, Genesis – Rivista della SIS – Società Italiana delle Storiche, VIII,1 2009, Aprile 2010, Viella, pp.145-168. “Il
femminismo islamico e il caso delle murshidat in Marocco”, in Guidi, L. e Pellizzari, M.R. (a cura di), Nuove frontiere per la Storia di
genere, Vol I –Genere e politica, Università di Salerno, 2013, pp.445-453.
41
Lykke, Nina, Feminist studies. A guide to intersectionality theory, methodology and writing, Routledge, London-New
York, 2010.
59
namente nei paesi a maggioranza musulmana negoziano con il patriarcato42 ritagliandosi interstizi di libertà
che valicano i confini sia reali che immaginati del patriarcato.43
Il problema è il nostro sguardo…
Tutta questa complessità sfugge al pubblico di massa. Troppo spesso infatti si guarda al mondo islamico
senza vedere, come dice Paola Caridi. Riferendosi alle copertine dei libri sul mondo islamico che si trovano
generalmente in libreria, la giornalista osserva:
“Guardate la foto qui accanto (…). È un collage di copertine di libri, romanzi, saggi, sul mondo arabo e/o
musulmano. Nelle copertine, solo donne. E solo donne velate. Donne del cui viso si vede poco, pochissimo, addirittura
nulla. Donne della cui vita si intravede altrettanto. Come se in quel poco, o nulla, vi fosse tutto il mondo di cui sono
diventate – involontariamente, più spesso ingiustamente – simbolo. La costruzione di un ritratto, o meglio di uno stereotipo,
è tutto in questo collage. Che non riguarda, ahimè, solo l’editoria anglosassone sui temi più disparati che riguardano pezzi di
mondo
anche
dissimili
tra
di
loro:
regione
araba,
islam,
Medio
Oriente,
Afghanistan,
Iran.
È il nostro sguardo, il problema. Lo sguardo occidentale. Uno sguardo sfuggente, a corrente alternata, che talvolta si
sofferma su un mondo di cui vuol sapere qualcosa. Solo qualcosa, ma poi mica tanto. È come se avessimo bisogno di un
semplice bignami per decodificare ciò succede dall’Altra Parte, ma – per carità – senza approfondire”.
44
Metodologia: un approccio post-coloniale alla relazione tra racconto e potere
42
Kandiyoti, Deniz, “Islam, modernity and the politics of gender”, in Khalid Masud, Muhammad, Salvatore, Armando e
Van Bruinessen, Martin, Islam and modernity. Key issues and debates, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2009,
pp.91-124.
43
Mahmood, Politics of Piety, cit.
44
Blog Invisible Arabs, http://invisiblearabs.com/?p=5841
60
Il progetto racconta i profili di sette donne marocchine incontrate a partire dal 2010 a più riprese, alternando interviste biografiche al reportage fotografico e alla semplice interazione. Il racconto è stato sia spontaneo che orientato. Per esplorare i vissuti indagati è stato fatto ricorso ai metodi dell’intervista biografica e
dell’osservazione partecipante,45 ispirandosi alla libertà del cercatore di tartufi descritto da Dal Lago in antitesi all’osservatore paracadutista.46 Non è stata utilizzata una griglia d’intervista rigida, ma si è preferito adottare una mappa semi-strutturata di aspetti da indagare, il cui canovaccio veniva talvolta abbandonato e
talvolta ripreso a seconda delle peregrinazioni della conversazione tra narratore e informatore. Il risultato
della raccolta di dati è un prodotto che potremmo considerare di finzione, perché prodotto secondo una
selezione e reso in un testo con la consapevolezza di star producendo quella che Portelli ha definito una
sorta di letteratura da registratore,47 fondata però sulla consapevolezza della differenza tra vita individuale
e visibilità comunicata.48 In fondo, come suggerisce Marc Augé, nel momento in cui l’antropologo scrive,
l’antropologia si apparenta con la letteratura generando storie e storie d’incontri.49 Il progetto Svelate interpella la relazione tra racconto e potere ed in particolare tra desiderio di narrazione, desiderio di essere
narrato/a e potere di riconoscibilità e del dare la parola. Qui il racconto non è inteso come scevro da relazioni potere, presenti anche nella sola scelta del dare parola e dunque visibilità ad alcuni soggetti piuttosto
che ad altri. Tuttavia, trascendendo la relazione di potere tra narratore e narrato, si è inteso lasciare spazio
alla capacità dei soggetti di esprimersi e di acquisire riconoscibilità, intanto accogliendo sin da subito
l’intenzione del nostro lavoro e poi partecipando in prima persona alla mostra esposta per la prima volta
all’Istituto italiano di cultura di Rabat. Nella lettura dei lavori e nella commozione del rileggersi di alcune, è
possibile intercettare aspetti di quel processo di riconoscimento, che per Adriana Cavarero rievoca
l’immagine di Omero, narratore cieco, che piange commuovendosi all’ascolto della propria storia narrata da
altri.50
Svelare chi?
Ogni storia rappresenta un desiderio individuale in cammino. Ogni racconto biografico porta con sé una
forma propria di emanciparsi, la scelta di far vivere il sé desiderato, districandosi nella ragnatela di regole
patriarcali. [Verranno proiettate alcune fotografie esemplificative] Asma Lamrabet è la pioniera delle femministe musulmane in Marocco. Con i suoi cinque libri sul valore dell’eguaglianza tra uomini e donne espresso nel Corano mette in discussione le letture patriarcali dell’Islam. Fatima Bennadi è la prima tassista
donna in Marocco. Mantiene suo marito e non le piacciono i conservatori. Per le strade di Casablanca la ri45
Geertz, Clifford, Islam observed. Religious developement in Morocco and Indonesia, The University of Chicago Press,
Chicago e Londra, 1968.
46
Dal Lago, Alessandro e De Biasi, R., (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, RomaBari, 2005.
47
Portelli, Alessandro, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, Roma, 2007.
48
Goffmann, Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969, (The presentation of self in
Everyday life, Garden city New York, Doubleday, 1959).
49
Augé, Marc (a cura di Marco Aime), Il mestiere dell’antropologo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
50
Cavarero, Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 2010.
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conoscono in molti chiamandola Donna di ferro. Fatima Zahra, strappata alla strada dalla scuola del Circo
del Sole di Salé, oggi acrobata dal cachet salato, gira il Marocco esibendosi in equilibrio su un tessuto rosso.
Giovanissima e già molto famosa, vive con il suo compagno a Marrakech. Nadia Yassine guida la sezione
femminile del movimento Giustizia e Benevolenza, tra i principali oppositori della Monarchia. A quasi cinquant'anni è leader politica, moglie, madre e nonna. Contraria ad ogni discriminazione contro le donne, nel
tempo libero legge il Corano e dipinge quadri coloratissimi. Najia Bounaim, trentacinquenne, originaria di
un quartiere popolare di Rabat, è responsabile comunicazione di Greenpeace Africa. Amante dei viaggi e
della musica, ha girato il mondo ed ora vive ad Istanbul. Kenza Fridou è tra le prime attrici di teatro di strada in Marocco, ribelle e anticonformista, a vent’anni diviene bersaglio dei conservatori per aver rasato a zero i capelli. Porta in scena storie di prostituzione e emarginazione sociale. Soukaina Hachad studentessa
ventenne, ha fondato un’associazione per la formazione gli scambi culturali, per permettere ai suoi coetanei marocchini di viaggiare in europa senza la necessità di rischiare la vita in mare. Il campione di donne incontrate non ha pretesa di esaustività rispetto alla descrizione della condizione femminile in Marocco, né il
progetto intende minimizzare le problematiche legate alla discriminazione di genere in contesto islamico,
mettendo in risalto profili femminili caratterizzati da una certa positività. In Marocco infatti
l’inferiorizzazione delle donne è un aspetto strutturale dell’impianto sociale e giuridico della gerarchia delle
relazioni sociali.51 Problematicità strutturali permangono nella disciplina delle relazioni di genere, nonostante le recenti riforme, tra cui quella costituzionale (2011) che riconosce il principio di uguaglianza tra uomini
e donne: le donne soffrono di discriminazioni che riguardano la violenza e le molestie sessuali, i matrimoni
delle minori, lo sfruttamento del lavoro, l’analfabetismo… Quanto al velo, non si intende dissertare intorno
ad esso o giudicare in un modo o in un altro chi lo indossa o meno. Si intende qui spostare l’attenzione andando al di là di esso. Anche perché, come dice Nadia Yassine, L’Islam è molto di più che un pezzo di tessuto (Toute voile dehors, p.19).
S’intende dunque rivolgere allo spettatore della mostra l’invito di Adriana Cavarero a guardare al di là delle
appartenenze (nazionali, religiose, etc) troppo spesso cariche di significati, e di andare al di là di ciò che appare: abbandonare il “cosa” si è (una donna musulmana con il velo o senza), per guardare il “chi” si è (una
persona con una propria esperienza e visione del mondo). Un invito al (ri)conoscere, che si manifesta nel
gioco di parole del titolo laddove lo svelare è inteso non certo come dinamica di liberazione coloniale, ma
come racconto di storie con la S minuscola per contribuire alla narrazione della storia con la S maiuscola.
Storie che esprimono il diritto al racconto, che abbiamo provato a tessere, con foto e testi, a partire dalle
autodefinizioni, ispirandoci all’idea che la narrazione rivela il significato, senza commettere l’errore di definirlo.
51
Joseph, Suad, (Ed.), Gender and citizenship in the Middle East, Syracuse University Press, Syracuse and New York,
2000.
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Esperienze di divulgazione sul territorio
In Italia la mostra è stata esposta a Padova in collaborazione con l’Assessorato alla Cooperazione internazionale del Comune e l’Associazione RIDIM (Rete italiana donne immigrate) e a Merano, con il Museo delle
donne di Merano, la fondazione Alexander Langer, la cattedra di Antropologia dell’Università di Bolzano.
Durante queste esperienze sono nate interessanti sinergie. Nella sua cornice sono state organizzate presentazioni di libri dibattiti. Abbiamo ospitato dal Marocco
l’intellettuale Asma Lamrabet, che ha arricchito l’iniziativa incontrando gli studenti di un istituto superiore e
partecipando ad una tavola rotonda sui diritti delle donne nel Mediterraneo in cui sono intervenute ricercatrici e rappresentanti di ong e istituzioni locali. In particolare, incontri formativi organizzati con alcune protagoniste della mostra e training teatrali per studenti universitari e di scuole superiori coadiuvati dal gruppo
Teatro Zappa5225 hanno fatto emergere uno spiccato interesse ad interrogare e mettere in discussione il sé
attraverso l’esplorazione della curiosità di conoscenza dell’altro. Molto interessante il riscontro degli studenti: mentre durante il primo giro di domande sulla percezione generata dal vedere una donna con il capo
coperto, emergevano stereotipi tipici sull’idea della sottomissione femminile nell’Islam, dopo aver svolto le
attività di lettura, immedesimazione e role play, i ragazzi familiarizzavano con le storie. Spesso la curiosità e
il senso di vicinanza sembravano riuscire a mettere in discussione gli stereotipi iniziali, rendendo performativa la frase di Adriana Cavarero, che interpreta il racconto come (r)esistenza, relazione, attenzione.
52
http://www.zappamerano.info/
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Sua santità il corpo. Narrazione e branding nel martirio del San Sebastiano di Ozmo. di Giovanni Bove
Introduzione
L'analisi della narrazione è uno dei campi di formazione e di sviluppo più raffinati della disciplina semiotica.
Una scienza della significazione sembra quanto meno necessaria per far luce sul complesso rapporto fra linguaggio, attività e interazioni sociali. In questo senso, la ricchezza e la complessità specifiche dell'espressività umana hanno obbligato la semiotica a sviluppare modelli di analisi della narrazione sempre più accurati e
raffinati. Per la semiotica, definita come scienza dei segni e della significazione, l'analisi della narrazione si
preoccupa di indagare il funzionamento dei testi – intesi come artefatti prodotti culturalmente – partendo
dalla narratività, ovvero l'insieme di caratteristiche costanti, essenziali, formali e astratte di un racconto che
si trovano più o meno celate in un prodotto testuale. Così, se da un lato la narrazione è un termine che riferiamo a quei prodotti testuali che nella nostra o in altre possibili culture vengono intesi come “racconti”, o
che raccontano delle storie (un romanzo, un film, ecc.), la narratività è una costruzione all'interno del metalinguaggio della semiotica e serve da modello esplicativo per accomunare i fenomeni discorsivi. In questa
prospettiva, allora, la narratività è un'ipotesi interpretativa per descrivere la struttura profonda di ogni fenomeno culturale, a prescindere dall'investimento di senso che ne può trarre origine.
Con questo intervento non ci soffermeremo sugli sviluppi delle teorie narrative in semiotica per ovvi motivi
– non è questa la sede e non è questa la questione principale che ci tiene assieme – ma ci limiteremo a introdurre gli aspetti essenziali di uno dei modelli di analisi della narrazione più raffinati e versatili: lo schema
narrativo canonico teorizzato dalla scuola semiotica avviata da Algirdas Julien Greimas. Questo modello
permette di prendere in esame anche un oggetto di studio estremamente complesso come il corpo, pertanto il corpus di analisi di cui ci occuperemo è un insieme di opere d'arte che raffigurano il corpo.
Oggetto di studio e sua definizione: il testo visivo
Nel presentare un modello del genere occorre precisare che l'oggetto di studio è considerato nella sua totalità e nella sua essenza come un testo chiuso, finito, limitato, dato per essere disponibile al destinatario finale, ovvero il 'ricettore ultimo', e alle interpretazioni che egli potrà operare basandosi sulle proprie competenze. Di conseguenza, le opere del corpus sono considerate come un insieme di testi, che definiamo testi visivi, organizzati essenzialmente ricorrendo al linguaggio visivo, definibile più in generale come linguaggio delle immagini. Dal momento che un testo visivo è il risultato dell'uso di segni visivi manifestati su un
supporto, occorre indagare le caratteristiche di questo tipo di segno e successivamente comprendere in che
modo un'opera d'arte figurativa riesce a narrare qualcosa sul tema del corpo, ricorrendo a un'alterazione
grafica chiaramente visibile, così determinante da avviare processi interpretativi complessi nell'arena della
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ricezione. Il regime del visibile, dunque, sarà al centro dell'analisi e affronteremo alcune questioni che ci
sembrano rilevanti per spiegare il funzionamento del meccanismo narrativo sotteso all'opera in questione.
Abbiamo precisato che l'oggetto di studio è considerato nella sua totalità, in una sorta di 'chiusura' che si
impone dal punto di vista metodologico: si tratta del bisogno di tracciare un limite. È una procedura che
non appare né come una novità né come un'eresia nel campo delle scienze sociali in cui la semiotica si colloca. Di eresia è stato invece accusato l'artista Gionata Gesi, nome d'arte Ozmo, autore dell'opera chiave
del corpus: “San Sebastiano”. Di formazione accademica (Accademia delle Belle Arti) Gesi all'inizio ha scelto
la strada come campo di espressione diventando un graffitista con stile e tecniche tradizionali, previste da
un movimento di proporzioni mondiali e sempre più noto anche per la sua illegalità. Ci sarebbe da aggiungere molto sul Graffitismo ma non abbiamo il tempo per approfondire la sua genesi e i suoi sviluppi in
quanto movimento artistico; tuttavia nella parte finale di questo intervento saranno prese in considerazione alcune questioni che toccano proprio la definizione e l'origine dei movimenti artistici (e delle opere d'arte che si farebbero portatrici di tali movimenti), la loro trasformazione in 'processi' culturali e la loro riconoscibilità sul fronte delle pratiche linguistiche attivate, proposte, rielaborate in seno a una determinata società.
Se il Graffitismo è stata la palestra giovanile di Ozmo, più tardi egli ha elaborato una autentica poetica d'artista, creando artefatti che presentano – in maniera molto originale – una vasta gamma di segni visivi e distinguendosi in modo sempre più radicale fino a diventare uno dei massimi esponenti della cosiddetta
Street Art, una corrente che prevede in ogni caso una fruibilità quanto meno pubblica e a tratti illegale, comunque destinata principalmente e senza intermediazione agli occhi del pubblico, alla sfera pubblica. La
Street Art è più elaborata tecnicamente rispetto al Graffitismo: stencil, spray, elementi urbani (tubature,
tombini, griglie, segnaletica, ecc.) possono utilizzati in sincrono o singolarmente per generare un'opera e
collocarla nello spazio pubblico. Dal punto di vista delle tematiche prescelte, mentre il Graffitismo esalta
l'uso della firma personale (la cosiddetta tag) e mostra elaborazioni perfino tridimensionali delle lettere
dell'alfabeto (lettering e sue elaborazioni grafico-visive), i temi trattati dalla Street Art possono essere disparati: spesso hanno a che fare con la percezione del quotidiano, con la presenza o meno di routines sociali determinanti le prassi sociali di interazione e comunicazione, con un immaginario che attinge all'ambito
del potere, del lavoro, della libertà, della spazialità delle metropoli. Questi temi sono stati integrati da Ozmo con quello della spiritualità: ne emerge un acuto lavoro sul rapporto fra spirito, fede, corpo, così come
inteso nella religione cattolico-cristiana. Ozmo ha realizzato una serie di opere dove il tema religioso è stato
sottoposto a una narrazione che è stata definita sorprendente, provocante, irritante, dai mass media o dalle autorità istituzionali.
Le opere d'arte figurativa possono essere narrazioni organizzate da un impianto grafico-figurativo relativamente efficace: è per questo motivo che le scelte estetiche di Ozmo diventano oggetto di studio per parlare
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di processi di senso che – grazie al corpo che si costituisce come il primo motore – coinvolgono in chiave
narrativa la sfera intersoggettiva, emotiva, valoriale, estetica.
Le fasi dell'analisi
La semiotica si occupa in modo costante del complesso rapporto fra corpo e emozioni da almeno trenta
anni. Dal momento che il corpo è il medium elettivo per l'esistenza e la manifestazione delle emozioni, la
definizione di un'emozione poggia sul riconoscimento del ruolo che un soggetto ricopre all'interno di un
processo narrativo. Così, è proprio l'analisi del discorso narrativo proposto dalle opere di Ozmo il primo
passo da compiere per indagare le proprietà narrative e il carico passionale del suo San Sebastiano. Che relazione esiste fra gli elementi del linguaggio visivo di Ozmo e le competenze linguistiche dei destinatari della
sua opera a Ràcale? Qual è l'idea di martirio del santo sulla quale ha fatto leva l'artista e qual è quella dei
credenti di questa cittadina? Cosa spinge un anonimo cittadino a imbrattare per modificare i boxer di San
Sebastiano fino a cancellare il logo D & G senza intervenire su nessun altro segno visivo dell'opera pubblica?
Queste sono solo alcune delle questioni alle quali si proverà a rispondere.
Una volta appurata la specificità linguistica (ovvero il sistema espressivo) che regge questo tipo di testi visivi
e il rapporto fra narrazione e narratività che ne deriva, la seconda parte del mio intervento indagherà i processi culturali per i quali una raffigurazione del genere può rientrare a pieno titolo nella definizione di opera
d'arte. Questa fase dell'analisi trarrà ispirazione da un approccio più strettamente sociologico e molto attento alla realizzazione di artefatti comunicativi che si pongono al confine fra ciò che è considerato come
arte e ciò che non lo è. In questo senso, alcuni contributi della sociologia francese [gli studi di Natalie Heinich e Roberta Shapiro] della scuola di Parigi si riveleranno un possibile strumento di riflessione.
Prima parte
In termini semiotici, le culture e le società di riferimento sono organizzate attorno a modelli narrativi universali, con ruoli e schemi di azione pre-fissati, ai quali corrispondono anche dei ruoli tematici specifici. Tali
ruoli – ad esempio l'avaro, il collerico, il nervoso, l'innamorato – possiamo riconoscerli all'interno di un racconto, di un testo narrativo. All'origine di questo approccio si situa il lavoro di Vladimir Propp sviluppato a
seguito delle analisi effettuate su un corpus di fiabe russe.
La semiotica francese fin dagli anni Sessanta ha individuato in questo lavoro un modello perfezionabile, che
può servire come punto di partenza per la comprensione dei principi di organizzazione di tutti i discorsi narrativi. Così, più che la successione delle trentuno funzioni definite da Propp, la semiotica ha messo in rilievo
la ricorrenza di tre tipi di prove (qualificanti, decisive, glorificanti) definendo una sorta di grammatica della
narrazione (grammatica narrativa). Ora, senza scendere nel dettaglio dell'apparato teorico appena citato,
ciò che ci preme sottolineare in questa sede è la natura polemica, cioè conflittuale, della struttura generale
che regge qualsiasi narrazione. Così, all'interno di un artefatto dotato di narratività possono coesistere og66
getti di valore, soggetti, anti-soggetti, aiutanti e opponenti, destinanti e destinatari. Questo insieme di entità astratte, suscettibili di divenire veri e propri attori portatori di ruoli specifici (l'eroe, il nemico, il prigioniero, ecc.), può essere organizzato attorno a una struttura fondamentalmente conflittuale e polemica, caratterizzata dal fatto che tutti si muovono perché mossi da un oggetto di valore, il luogo di investimento dei
valori con i quali ci si vuole in qualche modo congiungere (o si vuole far disgiungere l'altro). A ben guardare,
questa struttura polarizzata fa il paio con un altro aspetto della comunicazione umana, che è quello del
contratto comunicativo: ogni scambio implica l'affrontarsi di due voleri contrari e la lotta si inscrive nel
quadro di una rete di tacite convenzioni.
Il discorso narrativo appare allora come un 'luogo' dove rappresentare le forme possibili della comunicazione umana, fatta di tensioni e di ritorni all'equilibrio (definibili come compromessi). Di conseguenza anche
un'opera d'arte visiva (ovvero un testo visivo) che contiene un discorso può essere considerata come un atto di comunicazione, con tutto il suo potenziale carico di ambiguità, interferenze e sottintesi al pari di qualsiasi atto linguistico di tipo verbale.
Lo schema che stiamo prendendo come riferimento poggia sul presupposto che la congiunzione (e/o la disgiunzione) fra un oggetto di valore e un soggetto sia praticamente il perno attorno al quale ruota tutta la
narrazione. In estrema sintesi, affianco a un soggetto e a un oggetto di valore possono esserci anche altre
entità pronte all'azione per “mandare avanti la storia”: fra essi per esempio un destinante, un destinatario,
un aiutante, un opponente. Così, utilizzando questo metalinguaggio, nell'opera di Ozmo potremo indicare
che il soggetto della narrazione – nelle vesti di Sebastiano, il militare della Roma di Diocleziano – vive un fenomeno di disgiunzione dall'oggetto di valore, ossia la vita, o meglio l'essere in vita. L'analisi dei segni visivi
che definiscono l'opera di Ozmo, espressamente ispirata al San Sebastiano trafitto realizzato da Mantegna
e in mostra al Louvre, servirà per ricostruire da un lato lo svolgimento della narrazione (più comunemente
potremmo dire del racconto) che tiene in piedi il testo e dall'altro la narratività, così come l'abbiamo definita in precedenza, al fine di descrivere il discorso sotteso all'opera.
Dopo aver letto questo testo visivo servendoci dell'impianto teorico introdotto in precedenza, useremo lo
stesso impianto per riflettere sulla realizzazione dell'opera e sulla ricezione della stessa da parte della popolazione del comune dove essa si trova (Ràcale, provincia di Lecce). Questa riflessione si rivela importante
per comprendere i fenomeni interpretativi che sono emersi nell'ambito della società di riferimento, dal
momento che Ozmo è stato il soggetto incaricato di rappresentare un oggetto di valore (il santo) e al contempo il destinatario di un incarico che gli è stato conferito da un'associazione culturale attiva per la promozione dell'arte e della cultura. Quest'ultima va definita infatti come il mandante (o il destinante), che ha
operato una sanzione di tipo positivo.
Dall'altra parte, l'attenzione per il versante sociologico che interessa questa narrazione artistica ci spinge a
riflettere sulla reazione della popolazione poiché l'opera di Ozmo è stata oggetto di un vero e proprio attacco grafico preciso e premeditato, cioè una sanzione di tipo negativo. Come è emerso dall'arena pubblica e
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da alcuni mass media portavoce del sentire comune, la popolazione si è configurata come un soggetto collettivo pronto a coprire il ruolo dell'anti-destinante o anche dell'opponente e diretto a ostacolare l'esposizione dell'opera. Dopo poche settimane dalla consegna dell'opera un anonimo ha alterato l'opera ricoprendo il logo D & G e lasciando intatto tutto il resto della rappresentazione.
La dimensione passionale
Per l'attenzione che stiamo dedicando alla sfera passionale, possiamo sostenere che questo tipo di ritocco
ha avuto origine dal processo emotivo messo in moto dall'opera: tale processo è definibile come disforico,
ossia polarizzato verso la disforia (atteggiamento negativo) invece che verso l'euforia. Il ritocco grafico a
posteriori ci permette di avviare l'analisi della costruzione intersoggettiva delle emozioni: è fondamentale
riflettere sul fatto che la passionalità non solo caratterizza l'opera in sé (sofferenza e martirio del santo) ma
influenza anche il lettore finale, disponendolo verso specifiche passioni.
Un approccio semiotico pone lo studio delle passioni nel quadro della discorsività; in questo senso l'opera
di Ozmo contiene un discorso che si fa portatore di emozioni sia per come è stato prodotto che per come
può essere interpretato. Sul versante della produzione, l'artista introduce un segno grafico che – seppur
semplice ed elementare – avvia una controversia nel campo dell'investimento dei valori che sono in gioco
nell'opera. Ozmo decide di mettere in scena (fare arte) il suo repertorio culturale e personale e dall'altro
lato il pubblico attiva il suo, reagendo con un atteggiamento negativo, disforico.
Il ruolo patemico attribuito da secoli alla figura del santo è stato stravolto, alterato: si tratta di un vero e
proprio atto blasfemo. Perché vestire il martire con i boxer griffati? perché assegnare delle fiches da biliardo alle sue ferite? perché renderlo come soggetto di un endorsement pubblicitario? perché mettere in relazione santità e branding? È opportuno precisare che questi interrogativi non sono orientati a definire un
approccio in termini di critica e storia dell'arte, bensì tengono viva l'attenzione sui processi di senso che
prendono vita a partire dall'uso di specifici linguaggi: nel nostro caso, il linguaggio visivo.
Infine, lo studio della dimensione passionale del discorso e la relativa alterazione grafica del logo pubblicitario permettono anche di presentare alcune riflessioni su stili di vita e scelte di consumo che si formano nelle relazioni fra un consumatore (il lettore di quest'opera) e la marca e che interessano alcune scuole sociologiche. Proviamo a ipotizzare la presenza di un altro logo al posto del celebre D & G: quanto trendy sarebbe risultata l'immagine del santo martirizzato? Così, un'attenta analisi della dimensione passionale può contribuire allo studio degli stili di vita e della costruzione sociale e identitaria del sé passando attraverso il
corpo.
Seconda parte
La seconda parte dell'intervento focalizza sul processo interpretativo avviato dal ricettore, ovvero dal lettore finale, e poggia sul riconoscimento dell'efficacia del linguaggio analizzato in precedenza. L'attenzione si
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sposta sul processo di artificazione, ovvero lo spostamento - lungo un confine molto labile - di ciò che è definibile come arte e ciò che non lo è. Il termine è stato introdotto nella sociologia francese da Nathalie Heinich e Roberta Shapiro. Tanto per rendere l'idea di alcuni fenomeni culturali che sono stati oggetto di questo processo possiamo fare riferimento alla fotografia, alle arti circensi, alla magia, all'hip-hop, al jazz, alla
cucina. Per questi fenomeni lo spostamento verso l'arte è avvenuto dagli ambiti più disparati: la cucina, per
esempio, è arrivata dall'ambito dell'artigianato (precisamente, l'ambito domestico, le arti circensi e la magia sono arrivate dal divertimento, la fotografia e il jazz dal tempo libero (e anche dal divertimento). Si tratta di passaggi molto originali, controversi, sorprendenti. Alcune correnti del Graffitismo e della Street Art
hanno attraversato e ancora attraversano un processo del tutto simile, che ha portato addirittura dall'illegalità alla legalità – come del resto è accaduto anche per il jazz e la magia.
È bene precisare che non è nostro interesse tracciare una sorta di gerarchia dei prodotti artistici (o fenomeni espressivi) al fine di conferirvi una certa “dose di artisticità”, né tanto meno operare una classificazione dal punto di vista storico-critico dell'arte nelle sue possibili manifestazioni. Ciò che ci sembra importante
è comprendere in che modo si sposta la frontiera fra arte e non-arte tanto da poter infine “riconoscere”
nuove forme d'arte che necessariamente poggiano sull'uso e su una certa organizzazione di un linguaggio
determinato. In questo senso, contenuti e espressioni artistiche saranno sempre mutevoli, sottoposti potenzialmente al processo di artificazione. Assieme al contenuto delle opere e ai sistemi espressivi che ne
sono portatori (comunicatori), altri fattori operano in tale processo: si tratta di operazioni pratiche e simboliche, organizzative e discorsive che dal punto di vista sociologico possono essere inscritte in una teoria
dell'azione.
L'artificazione può essere anche ostacolata e in alcuni casi addirittura reversibile: alcune forme di resistenza
possono essere praticate da diversi attori sociali in base al tempo e allo spazio ove un artefatto può manifestarsi. In tal senso, il caso del San Sebastiano di Ozmo risulta molto interessante: per quanto non si tratti di
un'opera che vive un processo di artificazione – la Street Art continua a vivere tale processo da anni e Ozmo è un artista famoso non solo in Europa ma anche in nord America – è possibile sostenere che per la
popolazione di Ràcale tale processo non è stato ancora del tutto effettuato, soprattutto se la posta in gioco
afferisce alla sfera dei valori e delle pratiche afferenti alla religione. Nessuno tocchi il santo patrono.
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Bibliografia essenziale
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- Marrone, G., Il discorso di marca. Modelli semiotica per il branding, Roma-Bari: Laterza, 2007.
- Basso Fossali, P., Il trittico di Francis Bacon, Pisa: Edizioni ETS, 2013
La promozione dei valori. Semiotica della comunicazione e dei consumi, Milano: Franco Angeli, 2008
- Bove, G. - Gesi, G. (Ozmo), “Riscrivere le immagini: Street Art, un paradigma in divenire”, in Il Verri, n.53 ottobre 2013, pp.36-51, Milano: edizioni del Verri
- Codeluppi, V., Manuale di sociologia dei consumi, Roma: Carocci, 2005
- Corrain, L. - Valenti, M. (a cura di), Leggere l’opera d’arte, Bologna: Esculapio, 1991
- De Paz, A., La pratica sociale dell’arte, Napoli: Liguori Editori, 1976
- Fontanille, J., Figure del corpo, Meltemi: Roma, 2004
- Goodman, N., I linguaggi dell’arte. L’esperienza estetica: rappresentazioni e simboli, Milano: Il
Saggiatore, 1998
- Greimas, A. J. - Courtés, J. (éd.), Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris: Hachette, 1979 (trad. italiana a cura di P. Fabbri, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano: Paravia Bruno Mondadori, 2007)
Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Milano: Bompiani, 1984
- Heinich, N., - Shapiro, R. (dir.), De l’artification. Enquêtes sur le passage à l’art, Paris: École des Hautes
Études en Sciences Sociales, 2012
- Mukařovský, J., La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali. Semiologia e sociologia
dell’arte, Torino: Einaudi, 1971
- Traini, S., Semiotica della comunicazione pubblicitaria, Milano: Bompiani, 2008
70
1 Ozmo San Sebastiano Racale
71
2 Ozmo Madonna Ancona
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3 Ozmo La Vergine delle rocce
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4 Mantegna Il compianto
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Corpo, emozioni, linguaggio: le storie possibili della malattia. di Silvia Potì
Vorrei proporvi una storiella, sentita in una cartoleria posta di fronte al Dipartimento di Scienze Sociali
dell’Università della mia città. La figlia della proprietaria era intenta a fare i compiti, accovacciata su di un
tavolino nascosto in un angolo. Si trattava, evidentemente, di grammatica. La bambina si rivolge alla madre
e le pone un dubbio: “mamma, cuore è concreto o astratto?”. La signora risponde prontamente che cuore è
concreto, ci mancherebbe! E la figlia, ancora dubbiosa, le risponde: “ma il cuore non si può mica toccare!”.
Al sentire dalla madre che i medici in realtà lo toccano, la bambina conclude questo breve dialogo con un
profondo sdegno ed una esclamazione: “Che schifo!”. Ecco, parafrasando la nostra piccola filosofa potremmo chiederci se il corpo, in generale, è un elemento solamente concreto o anche astratto. Da un punto di vista medico lo possiamo toccare, e socialmente sembrerebbe abbiamo perfino l’obbligo di tenerlo in
buona salute, perché, come suggerisce il senso comune, nelle rappresentazioni sociali condivise nella cultura occidentale il malato è ancora identificato come colui che non è produttivo da un punto di vista lavorativo e che deve curarsi come obbligo sociale. Quando vogliamo concederci la possibilità di fare scelte diverse da quelle mainstream siamo soliti infatti affermare: “non te l’’ha mica ordinato il medico!”. Ecco, il medico, appunto, nella rappresentazione sociale, ordina.
Ora, cosa succede quando a raccontare la malattia non è più il medico nel suo gergo tecnicistico, che
nell’immaginario oltre ad essere incomprensibile è anche graficamente illeggibile?
Il problema se l’è posto recentemente proprio la cultura medica, di fronte ad alcuni casi in cui il malato
stesso non sembrava rispondere più agli ordini di cura fatti dal medico, un fenomeno che in letteratura viene definito “caduta di compliance”, o anche “non aderenza al trattamento”, riscontrato in diverse patologie, soprattutto croniche, come l’emofilia e il diabete, che si verifica in misura maggiore in periodi della vita
come l’adolescenza e la giovane età adulta, dove alla dipendenza evocata dalle cure si risponde con trasgressione e ribellione.
Negli ultimi anni, allo scopo di comprendere l’esperienza soggettiva della malattia, alcune case farmaceutiche hanno finanziato progetti di ricerca, in collaborazione con le ASL e l’Istituto Superiore di Sanità, allo
scopo di raccogliere le storie di vita dei malati cronici. Si leggeva nel quotidiano La Repubblica:
“Di fatto l’approccio narrativo nasce anche come reazione ad una visione considerata troppo rigida della
moderna medicina […]. La medicina basata sulla narrazione non si contrappone, evidentemente, alla medicina basata sull'evidenza ma si focalizza sul rapporto medico-paziente nelle specifiche realtà socio-culturali
[...]. Come ha scritto Rita Charon ‘malattia e guarigione sono, in parte, trame narrative. I pazienti scrivono
sulle proprie malattie con sempre maggiore frequenza, il che suggerisce che la ricerca di parole per contenere l'angoscia permette di affrontare meglio la malattia. Anche i medici scrivono sempre più spesso su loro
75
stessi e sulle loro esperienze [...]’. Nell'era della medicina super-computerizzata, tra nanotecnologie e cure
mirate, forse proprio questo è il fronte avanzato della "medicina personalizzata"” (Paganelli, 2011).
All’oggettività e universalità del sapere medico si affianca dunque la soggettività e storicità dell’esperienza
umana che ha bisogno del linguaggio per dotare di senso l’esperienza affettivo-emozionale e per organizzare i frammenti e i vissuti emozionali in un pensiero.
Potremmo definire questi racconti “patografie”, con un termine di origine freudiana che indica le produzioni testuali di malati e familiari, pubblicate o meno, siano esse diaristiche, narrative o aforistiche.
Dagli anni Settanta in poi, gli psicologi si sono interessati alle narrazioni delle malattie da parte dei pazienti
e dei familiari, analizzate con diverse metodologie qualitative di analisi dei testi (dall’analisi della conversazione all’analisi lessicale e tematica). L’elemento comune era l’esplorazione di come il malato riorganizza
l’esperienza, a partire dall’assunto proposto da Jerome Bruner (il quale ha teorizzato l’esistenza di un vero e
proprio Sé narrativo) che lega in modo stretto narrazione e identità (1990).
Gli stessi medici sono a loro volta autori di racconti sulla malattia, che prendono forme standardizzate delle
cartelle cliniche e della diagnosi. Essi sono soliti utilizzare, come ricorda il filosofo Brigati (2013), per lo più
metafore che riconducono ad un guasto da riparare o a un nemico da combattere. Queste metafore linguistiche possono essere interiorizzate dai malati e danno l’immagine di un corpo come un serbatoio di dati da
raccogliere o un campo di lotta, andando al di là del paziente e della sua esperienza, utile solo a identificare
e raccontare i sintomi. La patologia sembra essere iscritta tutta dentro la dimensione del Korper, inteso
come oggetto da penetrare con raggi, sonde, aghi, al fine di raggiungere l’attesa guarigione. Spesso
l’esperienza vissuta dal paziente rimane una buia scatola nera che non influisce, così si crede, sula definizione di ciò che è patologico e ciò che non lo è. Tuttavia, questa concezione organicistica della malattia si
sta orientando sempre più spesso, come abbiamo visto, verso l’inclusione degli aspetti psicosociali
dell’esperienza. Nella lingua inglese questo passaggio culturale si esprime attraverso l’uso di due termini
diversi: disease e illness, che fanno riferimento a due modelli sanitari diversi, uno basato sull’obbligo della
cura, “to cure”, l’altro sulla presa in carico e accadimento del paziente, valorizzando la sua parte attiva nel
cambiamento, “to care”. In questa seconda visione, il medico non interviene come deus ex machina nelle
storie di vita dei malati, ma si propone come consulente esperto, non di pazienti ma di persone (suoi clienti) che portano problemi. Se Michael Murray scriveva alla fine degli anni Novanta (1999) che quando si racconta la malattia è la diagnosi stessa a costruire la narrazione, il filosofo Roberto Brigati (2013), malato di
emofilia – malattia rara, congenita ed ereditaria dovuta all’assenza di un fattore ematico che permette la
coagulazione nel sangue – ricorda come la vita quotidiana nei racconti dei malati non sia tanto lo sfondo ma
la figura stessa attorno alla quale si organizzano progetti, desideri, strategie, possibili non nonostante la
malattia ma in presenza della malattia stessa. L’attenzione è volta dunque non alla “sofferenza” intesa come unica espressione della soggettività, ma ad una ben più vasta gamma di emozioni che permettono di
produrre categorizzazioni cognitive e affettive, di ridefinire ruoli e responsabilità, di percorrere adattamenti
76
e fare progetti. La concezione della malattia come diagnosi, prognosi e cura è stata infatti messa in crisi dalla diffusione delle malattie croniche, che per definizione accompagnano tutto l’arco di vita delle persone.
Questo ribaltamento di paradigma ci costringe a fare i conti con la concezione stessa di normalità, che se
intesa come corpo perfetto e salute totale, assenza di malattia e disfunzioni corporee, aderisce ad una visione organicistica del corpo. Tornando alla nostra piccola filosofa, dunque, vogliamo affermare che cuore è
anche astratto, perché porta con sé una densità di significati emozionali condivisi nella società, che fanno
riferimento ad aspetti mitici e simbolici che caratterizzano le esperienze. Oltre agli aspetti materiali, dunque, è utile indagare anche i significati simbolici, ossia le rappresentazioni costruite attorno al tema della
salute e malattia. Come ricorda Sander Gilman (1993), le immagini della malattia sono infatti condivise dagli
attori sociali che partecipano ad un contesto in uno specifico momento storico. Esse si costruiscono in ragione della loro capacità di assorbire e mescolare rappresentazioni provenienti da altre epoche e da mondi
categoriali diversi: accade così che nelle immagini delle malattie che propongono i pazienti nelle loro storie
di vita si possa rintracciare la compresenza di modelli medici e magico-religiosi, i quali hanno altrettanta
forza ed efficacia nello strutturare la rappresentazione che il malato ha di sé e le pratiche delle cure. Si legge in Jacques Le Goff:
“Dalla più lontana Antichità, con i suoi sorprendenti documenti babilonesi, fino alla tecnologia futurista delle moderne sale operatorie, l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla malattia non è cambiato. Da un lato, la
continua ricerca di un sapere scientifico e di una pratica medica che non ha mai cessato di riportare successi significativi, dalle preistoriche trapanazioni del cranio, via via fino ai vaccini, ai sieri, agli antibiotici.
Dall’altro, l’inveterata credenza sull’efficacia della magia (preghiere o erbe) e dei maghi (stregoni, esorcisti,
guaritori di tutte le risme). E, anche oggi, il confine è forse facile da tracciare?” (Le Goff & Sournia, 1986, p.
9).
Questi modelli sono simbolizzazioni condivise che agiscono ad un livello inconscio nella società, così come
ricordato da Ivana Markova (2009), andando a richiamare tabù e miti. La malattia, dunque, non è solo un
insieme di saperi scientifici organizzati, ma è anche l’oggetto di racconti di senso comune, nei quali è possibile ipotizzare quelle che Serge Moscovici ha definito “rappresentazioni sociali” del fenomeno. Se le scienze
sociali intendono occuparsi attraverso le narrazioni di indagare le rappresentazioni sociali, occorre confrontarsi con problemi epistemologici e metodologici, e ammettere l’uso di paradigmi abduttivi di conoscenza,
con i quali è possibile formulare ipotesi sulle esperienze soggettive ma non svelare realtà esistenti indipendentemente dalla relazione tra soggetti.
Le storie individuali dunque sono intessute nelle rappresentazioni condivise che costituiscono la realtà sociale della malattia e del malato. Questo universo consensuale, fondato sulla cultura dei malati e dei familiari e ancorato ad un sistema e ad un linguaggio diverso da quello medico, rappresenta un modello costruito dai gruppi sociali per affrontare gli universi sconosciuti con linguaggi noti e comprensibili. Scrive infatti
Moscovici, a proposito del costrutto teorico delle rappresentazioni sociali:
77
“[…] con l’espressione delle rappresentazioni sociali intendiamo una serie di concetti, asserti e spiegazioni
che nascono nella vita di tutti i giorni, nel corso delle comunicazioni interpersonali. Esse sono, nella nostra
società, l’equivalente dei miti e delle credenze nelle società tradizionali […]. Le rappresentazioni sociali devono, da una parte, essere concepite come una modalità particolare di acquisire conoscenze e comunicare
le conoscenze che vengono via via acquisite […]. Ciò crea gradualmente nuclei di stabilità e modi di fare abituali, una comunanza di idee tra coloro che vi partecipano” (1997, pp. 255-260).
I processi alla base del funzionamento delle rappresentazioni sociali nella nostra società sono l’ancoraggio e
l’oggettivazione. Il primo permette di porre un oggetto sconosciuto ed estraneo in un quadro categoriale
noto e familiare53, il secondo processo permette invece all’oggetto di essere trasformato in un nucleo figurativo e iconico, facilmente identificabile.
In una prospettiva di indagine fondata sulla psicologia sociale europea, sono state condotte alcune ricerche
sulle rappresentazioni sociali della salute e della malattia. Le questioni a cui tali ricerche si proponevano di
rispondere riguardavano i seguenti quesiti: cosa si intende per salute e malattia? Quali sono le concezioni di
salute e malattia condivise nella nostra società? Il metodo usato per conoscere i discorsi che concernono la
malattia è stato prevalentemente quello dell’intervista semi-strutturata.
Con questi obiettivi, Claudine Herzlich ha analizzato i rapporti tra le categorie dicotomiche sano/malato e
quelle di individuo/società, inclusione/esclusione. L’autrice ha riscontrato, in particolare, che se
l’esperienza individuale integra il singolo nella società in ragione della sua produttività lavorativa,
l’esperienza della malattia lo allontana, facendogli sperimentare l’esclusione che deriva dal non essere produttivo. Già a partire dal XIX sec. la salute è stata assimilata alla capacità di lavoro e la malattia alla sua incapacità. Essere malato e interrompere il lavoro ancor oggi, sulla base dei dati della ricercatrice, sono equivalenti nei discorsi quotidiani.
Al senso di esclusione dal mondo del lavoro si affianca un senso di appartenenza al gruppo dei malati.
Le ricerche sociali sulla salute e malattia hanno ripercussioni anche in termini di politica sanitaria:
l’educazione, l’informazione e la prescrizione infatti, come abbiamo visto, non sono sufficienti a produrre
cosiddette buone pratiche, se non si considerano le relazioni sociali all’interno dei gruppi, le emozioni e le
categorizzazioni espresse con il linguaggio, in altre parole, le rappresentazioni sociali.
I tentativi di trasformare le credenze in conoscenze non tengono conto del carattere funzionale delle credenze stesse per preservarci dal timore dell’ignoto, della loro origine profonda e radicata, e della loro interconnessione. Come sottolinea Marková:
“Le persone che possiedono rappresentazioni sociali basate su credenze e convinzioni non cercano prove di
ciò in cui credono [Moscovici, 2000]. Le credenze si alimentano all’interno della comunità e possono essere
53
“Ancorare è, quindi, classificare e dare un nome a qualcosa. Le cose che non sono classificate e sono prive di nome sono aliene,
inesistenti, e, nello stesso tempo, minacciose. Sperimentiamo una resistenza, una distanza quando non siamo in grado di valutare
qualcosa, di descriverla a noi stessi o agli altri” (Moscovici, 2005, p. 47).
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trasmesse inconsciamente di generazione in generazione attraverso la memoria collettiva e la conoscenza
del senso comune […]. Per questo motivo, le idee formulate nel presente sono cariche di significati derivanti dal passato, di affetti e di miti. Attraverso il linguaggio, il passato inconscio si fa strada nel presente e siccome siamo inconsapevoli della sua esistenza, la pressione che esso esercita è potente e si perpetua e rafforza attraverso il discorso degli altri” (2009, p. 242).
Se pensiamo all’immaginario sulla malattia costruito e veicolato ad esempio attraverso le narrazioni letterarie, così come esplorato dalla letteratura comparata (Montagni, 2006), ci accorgeremo come i racconti sulle
malattie diventino metafore stesse dell’agire dell’uomo e strumenti di critica sociale. Vittima dell’ira degli
dei nell’antichità, in preda a pallori e inappetenza nello Stil Novo, a causa del mal d’amore, oggetto di equivoci e derisioni nella poesia comico-realistica del Cinquecento e Seicento, ostacolo al progresso razionale
della società e portatore di un male corporeo da marginalizzare nel Settecento, il malato nell’Ottocento assume due connotazioni: da una parte, seguendo un filone romantico che va da Dumas a Nerval, e proseguirà fino ad Artaud, la malattia è la finestra sulla vita, mentre la salute nasconde all’uomo metà del mondo;
dall’altra, in una visione positivistica, le parole per narrare la malattia si tingono dei toni freddi, precisi, clinici e concreti della medicina, che alla vaghezza dei romantici contrappone teorie scientifiche sulle tare ereditarie. Nel Novecento invece le narrazioni sulla malattia esprimono, attraverso i romanzi di Svevo, Mann,
Camus, la difficoltà della vita quotidiana e l’alienazione dell’uomo moderno. La malattia come metafora esistenziale e sociale dal secondo dopoguerra proseguirà fino ad oggi, fino al male dei corpi cibernetici e
frammentati dell’epoca postmoderna. Nella seconda metà del XX secolo la fragilità umana è stata esasperata inoltre dalla malattia del secolo, il tumore, e dalla cosiddetta epidemia di AIDS negli anni Ottanta, come
si legge tra l’altro nella graphic novel Pillole blu di Frederik Peeters (2004), racconto autobiografico di un
amore per una ragazza che ha contratto il virus dell’HIV e della difficoltà di vivere la quotidianità tra ospedali, farmaci e precauzioni da prendere.
La malattia scritta ci consente di reificare la nostra paura della morte e del dolore e, in un certo senso, di
esorcizzarla attraverso la lettura. La patologia, inoltre, non coinvolge solo aspetti della fisiologia e della medicina, ma è rappresentata assieme a tutto un sistema di rapporti e emozioni, dall’impotenza alla colpa, alla
vergogna, di cui non si può ignorare l’esistenza e la rappresentazione simbolica ed artistica. Ad essere malato non è più il singolo. In un recente spettacolo teatrale del regista e drammaturgo Fausto Paravidino, La
malattia della famiglia M (2000), la scena ha inizio con la voce narrante del medico del paese, l’uomo che
raccoglie tutte le storie degli abitanti e che è anche il loro confidente più prezioso. Un medico che, come
era stato già per Cechov, Cronin e Céline, è prima di tutto un raccoglitore di storie, oltre che un narratore.
Il rapporto dunque tra malattia e letteratura è molto stretto. Se analizziamo poi quel particolare genere letterario che è l’autobiografia, ci accorgiamo come tra i topoi narrativi tipici della scrittura autobiografica, in
primo piano troviamo il corpo sofferente e malato e, in alcuni casi, la paura della morte.
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Lo scrittore che di professione inventa storie, o il filosofo che decide di renderci partecipi della sua parabola
esistenziale, di solito danno inizio al racconto scrivendo del trauma della nascita o di un’improvvisa malattia
sopraggiunta come una sventura durante l’infanzia. Eccone qualche esempio:
Il signor Gianbattista Vico egli è nato in Napoli l’anno 1670 da onesti parenti, i quali lasciarono assai buona
fama di sé [...]. Imperciocché, fanciullo, egli fu spiritosissimo e impaziente di riposo; ma in età di sette anni,
essendo col capo in giù piombato da alto fuori d’una scala nel piano, onde rimase ben cinque ore senza moto e privo di senso, e fiaccatagli la parte destra del cranio senza rompersi la cotenna, quindi dalla frattura
cagionatogli uno sformato tumore, per gli cui molti e profondi tagli il fanciullo dissanguò; talché il cerusico,
osservato rotto il cranio e considerando il lungo sfinimento, ne fe’ tal presagio: che egli o ne morrebbe o
arebbe sopravvissuto stolido54.
Si trovava all’infermeria. Dunque era malato. Avevano scritto a casa per avvertire la mamma e il babbo? Ma
sarebbe stato più sbrigativo se uno dei sacerdoti fosse andato ad avvertirli personalmente. Oppure lui avrebbe scritto una lettera da consegnare al sacerdote.
Cara mamma,
sono malato. Voglio tornare a casa. Ti prego, vieni a prendermi. Mi trovo all’infermeria.
Il tuo affezionato figliolo,
Stephen
Quanto erano lontani! Si vedeva la fredda luce del sole fuori della finestra. Si domandò se sarebbe morto. Si
poteva morire anche in una giornata di sole. Avrebbe potuto morire prima che sua madre arrivasse55.
Non sono infrequenti i casi in cui la malattia dello scrittore lo ha costretto ad una forzata permanenza a letto, predisponendolo non tanto a scorrazzare tra i campi e a saltare tra gli alberi, ma ad una più tranquilla
attività di lettura e scrittura. Se Proust ebbe così modo di scrivere la Recherche, Robert Louis Stevenson ricordava con affetto i racconti della governante Cummy nei frequenti periodi di malattia, storie che divorava
e che gli permettevano di viaggiare con l’immaginazione, tanto da rendere il letto simile ad una nave di sogni e avventure (raccolte nelle liriche sulla propria infanzia o nei racconti d’avventura, ricchi, appunto, di
peripezie e imprese corporee).
Legate al tema del corpo e in particolare della sua malattia, le autobiografie sviluppano le riflessioni sul tema della morte e dell’inutilità dell’esistenza, cui proprio la scrittura e la vocazione letteraria permettono invece di dare senso. Attraverso il racconto della propria vita, infatti, non solo si comunica con il mondo esterno e si scambiano esperienze, ma si contribuisce anche alla costruzione della propria identità attraverso
54
55
Si cita da: Giambattista Vico, Autobiografia. Milano: Garzanti, 2000 [1729], p. 13.
Si cita da: James Joyce, Dedalus. Milano: Mondadori, 1997 [1916], p. 19.
80
il linguaggio. Per mezzo della parola, quindi, siamo in grado di modificare noi stessi, il nostro rapporto con il
mondo e il nostro senso di identità.
Come scriveva Calvino nel suo saggio “mondo scritto, mondo non scritto”, la scrittura nasce sempre da
un’assenza, un vuoto, un desiderio, qualcosa che vorremmo possedere e che ci sfugge.
Nell’ambito della scrittura autobiografica, in particolare, ciò che vorremmo possedere ha a che fare con la
nostra identità e il nostro posto nel mondo. Per la filosofa spagnola Maria Zambrano, l’autobiografia è un
continuo movimento oscillatorio tra la ricerca di significato e una attività di sense-making sulla realtà, da
una parte, ed un elegante modo per sfuggirne, perdersi, esplorare nuove strade, attraversare una zona opaca di confusione, dall’altra.
In quest’ottica, le “patografie” prodotte dai pazienti possono essere considerate strumenti preziosi per conoscere e scambiare l’esperienza soggettiva, indagare le teorie implicite e le rappresentazioni sociali, considerare come cambiano i paradigmi culturali e quali elementi invece permangono trasversali nei secoli. Ciò
al fine di migliorare la comunicazione tra malato e dottore, tra malato e società, in un tessuto di narrazioni
che si intrecciano producendo rappresentazioni di esperienze. Il filosofo Benjamin ricorda come raccontare
una storia e scambiare esperienze permettono uno sguardo obliquo e distante sulla realtà, la possibilità
dunque di sviluppare un pensiero sulle proprie emozioni e di condividerlo attraverso le parole.
81
Storia di storie, narrare il mondo
Narrare, narrarsi l’esilio. di Elena Trapanese
Busqué otro tiempo en el mundo
y sólo hallé otro espacio.
Eugenio Montejo
Lo psichiatra ed esule spagnolo José Solanes56, in un testo pubblicato negli anni novanta in Venezuela, si
chiedeva: “Non bisognerebbe far iniziare qualsiasi Antropologia con uno studio sull’esilio?”. Lontano dallo
star proponendo una semplicistica teorizzazione dell’esilio come stile di vita, come figura del nomadismo, o
dell’emigrante amateur(Stevenson), lo psichiatra vede nell’esilio la manifestazione più evidente della fondamentale inadattabilità dell’essere umano e, citando il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, afferma che
l’uomo è per sua essenza straniero, emigrato, esiliato. Tuttavia, ci avverte: esistono differenze sostanziali
nelle definizioni, narrazioni e figurazioni che di questo fenomeno hanno dato, da un lato, gli “spettatori” e,
dall’altro, i “protagonisti”, perché se è vero che l’essere umano è per sua essenza esiliato57, e che l’esilio
può essere considerato una costante della storia dell’umanità, non possiamo non ignorare che non tutti gli
esili possono dirsi con gli stessi nomi. Come affermerà lo scrittore polacco JozefWittlin, “scendiamo sulla
terra”: sebbene il termine “esuli” non comporti necessariamente “la cupa immagine di uomini scacciati brutalmente dai loro paesi” e sebbene molti abbiano lasciato la patria di loro spontanea volontà, chiunque
consideri l’esilio una normale forma d’esistenza, chiunque “trasformi tale disgrazia in una religione non si
salverà più”58.
56
JoséSolanes (Spagna, 1909 - Venezuela, 1991) éstato un importante medico psichiatra e docente universitario. Esule spagnolo,
dapprima in Francia e poi, dal 1949, in Venezuela, ha dedicato gran parte delle sue ricerche allo studio degli effetti dell’esilio ed in
particolare alla struttura spazio-temporale del mondo degli emigranti.
57
Nel Salve regina, “troviamo due volte la parola ‘esilio’. L’autore dell’antifona prima definisce l’intero genere umano ‘exules fili Hevae’, poi descrive la nostra vita terrena ‘exilium’. […] Accettando questa premessa, dobbiamo dunque ai nostri primi progenitori se
la nostra permanenza sulla terra, non importa dove viviamo, nése siamo felici o infelici, èun esilio.”(JozefWittlin, “Splendore e miseria dell’esilio”, Settanta, a. III, n. 24, maggio 1972, p. 36). L’esilio da una terra che non abbiamo mai conosciuto sarebbe dunque, dal
punto di vista religioso, un castigo ereditato dai nostri progenitori. Se consideriamo tale immagine svincolata dal contesto religioso
nel quale ènata, mi sembra possa offrire interessanti spunti di riflessione a proposito della percezione e della narrazione dell’esilio
delle cosiddette seconde o terze generazioni.
58
Ib., p. 35. Wittlin appare particolarmente critico nei confronti delle “esaltazioni”dell’esilio come figura dell’artista, del creatore.
“Ci èstato detto spesso che ogni artista autentico e originale èuno straniero in patria”(ib., p. 37). Ma torniamo sulla terra, appunto,
e rendiamoci conto che l’esilio èper lo piùuna disgrazia, prodotto di conflitti politici, etnici e religiosi.
82
Da questa necessità di narrare per differenziare, ma anche per dare un senso a eventi che altrimenti ne rimarrebbero sprovvisti, nasce il titolo del libro di Solanessopra citato: Los nombres del exilio59(I nomi
dell’esilio). Dare un nome, ma anche darsi un nome. Narrare l’esilio, ma anche narrarsil’esilio. E come, a
partire dalle narrazioni personali, dai nomi che gli esiliati si sono dati, dai generi letterari che hanno scelto
per narrarsi e dall’immaginario mitologico e letterario al quale sono ricorsi cercare di trovare dei modelli
interpretativi condivisibili e socialmente rilevanti e –perché no– suscettibili di nuove realtà anche dal punto
di vista legislativo60.
Narrare e nominare, dunque. Per riconoscere uno statuto d’esistenza ad un vissuto personale, ma anche
per limitare questa stessa esperienza, per definirla e circoscriverla. Se il raccontare o il definire non sempre
ci libera dal passato o da un peso, è almeno una strada per condividerlo. Da questo punto di vista, l’intento
di Solanes appare particolarmente significativo, in quanto narrazione di narrazioni o narrazione di definizioni, “storia” dei nomi dell’esilio e dei campi dell’immaginazione e della percezione nei quali sono nati e ai
quali hanno dato origine. I nomi dell’esiliodevono essere intesi come il risultato di una condensazione di
narrazioni, come la punta dell’iceberg che rimanda ad un mondo non immediatamente visibile, ma implicito
e che funge da cimento. O, se si preferisce, come le figure simboliche che abitano il nostro immaginario.
Seguendo la trattazione dello psichiatra venezuelano e per circoscrivere e delimitare il mio intervento,
prenderò in considerazione alcune delle narrazioni e definizioni nate a partire dall’esilio repubblicano del
1939, frutto della Guerra Civile Spagnola (1936-1939) e della vittoria delle forze franchiste. Un esilio particolarmente drammatico: per la sua durata (il generale Franco restò al potere dal 1939 al 1975, anno della
sua morte) e per lo strappo generazionale prodotto (esiliate furono intere generazioni, che portarono con
sé le storie, le narrazioni del passato prossimo)61.
L’esilio si configura come un’esperienza di radicale sradicamento tale da produrre delle vere e proprie alterazioni, dei veri e propri fenomeni di elasticità nella percezione dello spazio e del tempo che, sebbene non
arrivino a poter essere definite “patologiche”, hanno delle importanti ripercussioni nella vita dei singoli e
della loro collettività (esiliata e non) di appartenenza: fenomeni non più congiunturali, ma strutturali.
Molti i nomi dati all’esilio: destierro(confino, sradicamento, esilio), refugio(rifugio), desarraigo(sradicamento), exilio(esilio). E molti anche i neologismi per descrivere la figura dell’esule: despatriado
(“spatriato”, neologismo coniato da Miguel de Unamuno), transterrado(“trapiantato”, termine creato dal
59
JoséSolanes, Los nombresdel exilio, prólogo de Pedro Grases, Monte Avila Latinoamericana, Caracas, Venezuela, 1991.
Per il paese che accoglie, l’esule puòessere, nel migliore dei casi, un rifugiato (richiedente asilo); nel peggiore, un immigrato clandestino o irregolare. Se l’emigrazione economica èdetta e puòdirsi immigrazione, l’emigrazione per motivi politici o religiosi –scrive
Solanes–solo crea emigranti, mai immigrati (nel migliore dei casi, appunto, “rifugiati”). Sebbene le nostre legislazioni tendano a sottolineare e a marcare le differenze tra l’emigrazione economica e quella politica, come ha scritto YolandeFoldes ne La rue du chat
qui pêche, “fa lo stesso per i poveri essere espulsi dai loro luoghi dalla politica o dalla miseria”perché–aggiunge Solanes–“quando la
miseria espulsa, tuttavia èla politica a gettarci all’estero”.
61
Si puòparlare, in questo caso, di un vero e proprio sradicamento o “strappo”narrativo.
60
83
filosofo José Gaos), expelido(termine ibrido tra “espulsado” e “exiliado”) o addirittura descielado (“sradicato dal cielo”, termine creato da un giornalista –Francisco Umbral– dopo aver visto lo sguardo rivolto al cielo
di Madrid degli esuli spagnoli tornati in Spagna dopo la morte di Franco, per indicare che ciò di cui erano
stati privati non era il suolo, ma il cielo62).
Tutti termini che fanno riferimento alla dimensione spaziale dell’esilio e, nella maggior parte dei casi,
all’idea di un’espulsione forzosa, di un’uscita obbligata, dell’assenza del suolo originario. In molti casi, nota
Solanes, l’immaginario dell’esilio si inscrive in un campo di rappresentazione legate al “silenzioso” mondo
vegetale. L’esiliato, da questo punto di vista, è descritto come un “albero” desarraigado (sradicato), con le
radici nell’aria o come una pianta che, considerata nient’altro che un’erbaccia, viene estirpata per garantire
la sopravvivenza delle altre piante.
Solo in alcuni casi, questi alberi sradicati riescono a trovare una nuova terra, o una nuova patria: esuli transterrados, trapiantati da una terra o patria d’origine ad una di destino, che può esser vissuta al tempo stesso come un luogo d’accoglienza a partire dal quale tornare a progettare e a progettarsi, o come un suolo
che ci alimenta, sì, ma che al tempo stesso ci impedisce il movimento ed il ritorno.
Tratti in comune con il trapiantato presenta anche il rifugiato: “Fummo, prima di tutto, rifugiati. Chi viene
esiliato o desterradoviene prelevato da un contesto nel quale risulta essere scomodo o pericoloso. Chi si rifugia lo fa per salvare la pelle”63 in vista del ritorno. Ricorda de Rivas nella sua autobiografia: “Per preservarci in vista di questo ritorno, ci trapiantarono, con le radici tenere completamente nell’aria, ma al farci
passare da una terra all’altra, dal momento che non si trattava di mettere radici esotiche, si preoccuparono
che il concime fosse lo stesso che quello dell’altro lato dell’oceano o il più possibile simile, affinché diventassimo le stesse piante che saremmo state se non fosse esistita la necessità del rifugio”.
Rispetto allo sradicamento, al trapianto e al rifugio, il termine “esilio” è stato utilizzato per descrivere
un’esperienza di assoluta radicalità, come il non avere “un luogo né geografico, né sociale, né politico, […]
né ontologico”64. Aggiungerebbe Wittlin, il non avere un dove linguistico, dal momento che l’esule si vede
continuamente obbligato a ripetere il proprio nome, a sillabarlo, a spiegare “come” si scrive. I nomi, dunque ci identificano, ci narrano. Le storpiature delle quali sono oggetto in terre straniere ci inseriscono in altri contesti narrativi, ci danno un’altra identità.65
62
Francisco Umbral, “El cielo azul”, ElNacional, Caracas, 10.12.1976. Da notare, nel vocabolario creato dai propri esuli, la quasi totale assenza del termine “emigrato”(termine che, in effetti, fu il termine imposto dal regime franchista per parlare –nei rari casi permessi–di figure scomode da definire e da ricordare).
63
Enrique de Rivas, “Destierro: ejecutoria y símbolo”, en M. T.González de Garay y J. Aguilera Sastre (eds.), Elexilioliterario de 1939:
actas del CongresoInternacionalcelebrado en la Universidad de La Rioja del 2 al 5 de noviembre de 1999, Logroño, GEXEL/Universidad de La Rioja, 2011, p. 23.
64
María Zambrano, Los bienaventurados, Siruela, Madrid, 2004, p. 36.
65
“Abiteròil mio nome”, ha scritto S.-J. Perse. Riferisce Solanes, a proposito degli usi dati alla parola “esilio”, di alcuni casi interessantissimi: il fatto che esista un sostantivo femminile, “Exilia”, nome di donna usato –a suo dire–almeno in Venezuela; che il termine abbia partecipato alla formazione di cognomi, di nomi di luogo e di specie vegetali.
84
Lo spazio dell’esilio si configura come uno spazio eterogeneo: a volte gli esuli cercano di ricreare piccole isole in grado di ricordar loro la patria, a volte vivono un fenomeno di “elasticitádelle frontiere”, quasi come se
portassero i confini della patria attaccati sotto le suole delle loro scarpe, incapaci di uscire dal cerchio
dell’esilio. La stessa nozione di “frontiera” smette di essere oggettiva e finisce con il corrispondere ad un
sentimento: quello di mantenersi sempre sulla linea di confine, di portare con sé confini dai quali è impossibile liberarsi e che non è possibile oltrepassare. Lo spazio dell’esilio, commenta Solanes, èquello i cui limiti
l’esule porta con sé. In questo consiste ciò che lo psichiatra definisce come il carattere “adesivo” delle frontiere. A tal proposito, scriveva Pablo Neruda:
L’esilio è rotondo:
un cerchio, un anello:
i tuoi piedi lo girano, attraversi la terra,
nonè la tua terra,
ti sveglia la luce, e non è la tua luce,
la notte giunge: mancano le tue stelle,
trovi fratelli: ma non è il tuo sangue..
In questo senso, interessante ci sembra un neologismo creato dal venezuelano Eugenio Montejo: desespacio, termine che rinvia non alla semplice privazione della terra, ma ad uno sfasamento spaziale.
Ma è all’esule polacco JozefWittlin che dobbiamo un neologismo in un certo senso simmetrico e particolarmente interessante, che crea a partire dallo spagnolo: destiempo, termine che indica uno sradicamento
temporale, uno sfasamento nei modi del percepire e percepirsi o no parte integrante del tempo di una collettività.
In spagnolo c’è un termine speciale, per definire un esule: destierro, cioè [la condizione di] un uomo
privato della sua terra. Io vorrei coniare un’altra definizione: destiempo, cioè [la condizione di] un
uomo privato del tempo, di quel tempo che continua a scorrere nel suo paese. Il tempo in esilio è
un’eternità completamente diversa: qualcosa di abnorme, di quasi folle. Perché un esule vive simultaneamente a due diversi livelli temporali, il presente e il passato. Vivere nel passato richiede talvolta più energie che vivere nel presente, e può esercitare un’influenza tirannica sull’intera psiche
di un esule, influenza questa che può avere conseguenze positive o negative.66
Uno sfasamento che rende manifesto un problema fondamentale: come narrare, come dire il destiempo? Il
saggio nel quale Wittlin conia questo neologismo è definito dallo stesso autore, non a caso, come “una fi66
Joseph Wittlin, “Miseria e splendore dell’esilio”, cit., p. 38.
85
siologia della letteratura degli esuli” e come il tentativo di “stabilire certi principi e leggi che governano la
vita e la morte della creatività letteraria durante l’esilio”67.
Se ci atteniamo alla dimensione temporale dell’esilio, noteremo che è proprio la durata dell’assenza dalla
patria più che l’assenza in sé ciò che conta. Scriveva Cervantes: “Desconcierta la vida larga ausencia” e, anni
prima della teorizzazione di Wittlin, scriveva lo spagnolo Arturo Serrano Plaja:
Forse arrivo tardi o è presto?
Forse non c’è tempo o c’è solo tempo,
aspettare e ancora aspettare e sempre in vano?
O forse il mio aspettare è contrattempo,
pena sottilissima, insidia
di un ordine mal guidato e a destiempo?68
Ma in realtà ciò che qui interessa non è la durata in sé dell’esilio, quanto la percezione del tempo che in esso vive l’esule e che può arrivare a percepire un’intera comunità di esuli. Come nel caso della dimensione
spaziale, anche in questo caso molti ed interessanti sono i neologismi nati per descrivere una tale esperienza: il già citato destiempo, ma anche redrotiempo o trastiempo.
Il primo, coniato da Miguel de Unamuno, si riferisce ad un ritorno al passato, fino alle soglie dell’infanzia e
della stessa nascita. Un vivere “a redrotiempo” che si puótradurre in un des-vivere: un andare a ritroso nel
tempo fino ad arrivare al momento della nascita e al suo confine con la morte, fino a ricordi che potremmo
definire pre-natali. Solanes, a tal proposito, ricorda che numerosi sono i testi, in prosa e poesia, nei quali
appare il termine “desnacer”69e sostiene che un tale percorso a ritroso nel tempo ha l’effetto inaspettato di
introdurre speranza nell’attesa. Se la nostalgia sembra bloccare il tempo verso il passato, la speranza sospende l’avvento del futuro.
Il secondo termine, coniato dal già citato Montejo, fa riferimento ad una ulterioritàdel tempo dell’esilio, ad
un oltre riferito tanto al passato come al futuro e che produrrebbe una deformazione o un’elasticità nella
percezione del presente stesso.
Il tempo dell’esilio non fluisce, ma affluisce: nel tempo dell’esilio non si cammina, ma ci si impantana.
L’esule si situa sulla soglia del tempo70, in un tempo altro, perché fuori dal proprio paese “non si procede
dal passato al futuro con lo stesso passo” che si ha quando si vive nella propria patria. Si tratta di
un’alterazione (trovarsi fuori dal tempo o imprigionati in esso) “della funzione che passato e futuro hanno
67
Ib., p. 35.
Arturo Serrano Plaja, “La cita”,Boletín de la Unión de IntelectualesEspañoles, Parigi, settembre 1946, a. III, n. 22.
69
L’esule cubano AlejoCarpentier descrive in Viajea lasemilla un percorso a ritroso dei personaggi, che arrriva ad includere nel processo di decostruzione anche il mondo inanimato.
70
Cfr. Enrique de Rivas, En elumbral del tiempo.Poesíacompilada (1946-2012), UAM / Eón, México, D.F., 2013.
68
86
in comune: quella di stabilire una prospettiva, quella di dare –al di là della dimensione dello spazio– un significato ai concetti di vicino e lontano”. Aspetto valido anche dal punto di vista affettivo: un dettaglio della
vita quotidiana percepito in patria come affettivamente “lontano” può diventare “vicino” e suscitare nostalgia. Lo stesso accade per ciò che Wittlin definisce il “ritorno delle parole”:
Parole dimenticate, non più usate nella nostra vita presente, riaffiorano nella nostra coscienza.
Tornano come ricordi. Rimane solo la loro forma puramente sonora, da cui la vita è evaporata. Una
parola come questa non è più la voce della vita, ma la sua eco. È una conchiglia vuota in cui si può
di tanto in tanto sentire il mormorio della vita.
Suggerisce Solanes, che l’esperienza del destiempo non deve essere confusa con quella di un non-tempo,
ma di un tempo abnorme ed elastico, scandito da ore e minuti differenti. Un tempo dilatato, il tempo di chi
è stato lasciato soltanto con la vastità dell’orizzonte.
L’esiliato è stato lasciato senza nulla, al margine della storia, solo nella vita e senza luogo; senza
luogo proprio. Essi invece [i non esuli], con un luogo, ma in una storia priva di antefatti. Dunque,
anch’essi senza luogo; senza luogo storico. Infatti, come collocarsi, da dove cominciare, in un oblio
e ignoranza senza limiti? Sono rimasti senza orizzonte. E per quanto stiano nella terra, nella loro,
dove si parla il loro idioma, dove possono dire: “Sono cittadino”, quando rimane senza orizzonte
l’uomo, animale storico, perde anche il luogo, in ciò che si riferisce alla storia. […]
Mentre all’esiliato è rimasto quasi soltanto orizzonte; orizzonte senza realtà, orizzonte nel quale
egli guarda, passa e ripassa, sgrana la storia, tutta la storia […].71
Si tratta di uno sfasamento temporale che si rende manifesto in particolare modo nel momento del ritorno,
in un sentimento di inadeguatezza, che in realtà lo rende difficile, se non impossibile. Destiempo, infatti, è
un avverbio che in spagnolo significa “fuori luogo”, “inopportunamente”.
Il destiempoè l’uomo […] che può tornare, per così dire, nello spazio che ha perso durante molto
tempo, che può tornare nella sua città, al suo paesaggio, che può esser cambiato però non così
tanto; ma il tempo che hanno vissuto gli altri non è il tempo che lui ha vissuto. E quindi si ritrova in
un certo senso espulso dal presente e forse anche dal futuro del suo proprio paese. Perché ancora
71
María Zambrano, “Lettera sull’esilio”, in Ead., Per abitare l’esilio. Scritti italiani, Le Lettere, Firenze, 2006, pp. 142-143.
87
non si è potuto incorporare al futuro, al futuro temporale del suo paese, al suo ritmo, al suo sviluppo72.
Un’espulsione, commenta Guillén, dal futuro linguistico, culturale, politico del paese di origine.
Impossibile tornare, dunque; impossibile des-exiliarse, rinunciare all’esilio soprattutto nella sua dimensione
temporale. Chiedere agli esiliati di dis-exiliarsi corrisponde quasi al chieder loro di cambiar nome, di subire
una dolorosa privazione simile a quella di chi viene privato della pelle73, di questa prima superficie di contatto con il mondo. Come affermerà lo scrittore MaxAub al suo rientro in patria dopo il lungo esilio, “Sono
venuto, ma non tornato”74.
Non è un caso che molti degli esuli abbiano scritto dell’esilio scegliendo generi come la poesia, la confessione o l’epistola e che pochi abbiano parlato della propria esperienza in trattati o in testi sistematici. E non
è un caso che abbiano utilizzato figure mitiche e letterarie come quelle del Don Chisciotte, di Ulisse, del Cid,
di Antigone o, ancora, di Endimione. Su due di queste figure vorrei adesso soffermarmi brevemente e concludere il mio intervento: Antigone e Endimione, figure che potremmo considerare al tempo stesso del destierroe del destiempo75.
Nelle scienze naturali, commenta Solanes, si parla di rocce intrusive, facendo allusione a quei minerali che
penetrano in strati geologici di origine distinto. Da questo punto di vista, si potrebbe parlare di uno spazio e
un tempo “intrusivi” in relazione alle due figure mitiche citate: Antigone, la sepolta viva, e Endimione, il
giovane dormiente ad occhi aperti in una caverna.
L’espulsione dalla polis della figlia di Edipo per aver disobbedito alla legge di Creonte che proibiva di dar sepoltura ai nemici caduti in guerra, la fa entrare in uno spazio intrusivo: quello di una tomba. L’espulsione si
tramuta in un interrare ed il suo esilio in un destierro: una privazione di terra che crea un vuoto nella continuità. Ma l’esilio di Antigone è al tempo stesso un destiempo: sepolta viva, è una intrusa nel regno dei morti, una sopravvissuta che si colloca sulla linea di confine tra vita e morte, creando un trastiempo, un tempo
altro.76
72
Enrique Tortosa y Silvia G. Ponzoda, “Entrevista a CaludioGuillén”, cit. in María Fernanda de Abreu, “Seráelvolver y no volver?
Claudio Guillén: del exilio a la Real Academia. Desexilio y destiempo”, en AA.VV, Elexiliorepublicano de 1939 y la segundageneración, Renacimiento, Sevilla, 2011, p. 498.
73
Cfr. María Zambrano, Amo il mio esilio, in Ead., Le parole del ritorno, Troina, CittáAperta, 2003.
74
J.Martíe J. M. Huertas, “MaxAubretorno a la tierra. ‘He venido pero no he vuelto’”, El Correo Catalán(11.09.1969), p. 18. Uno dei
personaggi de La gallina ciega, testo teatrale di Aub, commenta: “L’uomo va e non ritorna. Per tornare bisognerebbe essere gli
stessi di prima.”
75
Figure che ricordano la leggenda coranica dei Sette dormienti di Efeso, della quale riportiamo la versione citata da Enrique de
Rivas: perseguitati dall’imperatore Decio, sette uomini riescono a fuggire e a rifugiarsi in una grotta; scoperti, vengono murati vivi.
Invece di morire, cadono in un sonno di trecento anni. Allo svegliarsi, credendo di aver dormito una sola notte, mandano un messaggero in cittàaffinchétrovi cibo e beni di prima necessità. Ma il messaggero ritorna a mani vuote: tutto ècambiato (la lingua, la
moneta) e nessuno lo riconosce. Convinti di non esser ancora usciti dal proprio sogno, i sette ritornano a chiudere gli occhi.
76
Cfr. JoséBargamín, Il sangue di Antigone, Alinea, 2003 ;María Zambrano, La tumba de Antígona y
otrosescritossobreelpersonajetrágico, Cátedra, Madrid, 2013.
88
Figura interessante e meno nota èquella di Endimione, che lo scrittore Enrique de Rivas sceglie per narrare
il suo ritorno in patria. Endimione in greco vuole dire “colui che sta dentro”. La versione più antica del mito
lo descrive con il giovane amante di Selene, eternamente addormentato in una caverna. Versioni successive
del mito vogliono che sia stato Hipnos a dargli in dono la capacità di dormire con gli occhi aperti e ad offrigli
le sue ali, affinché potesse viaggiare addormentato nello spazio e nel tempo per reincarnarsi.
“Un giorno, Endimione–scrive de Rivas– che era stato preso da piccolo dalla patria della sua attuale incarnazione, stanco di dormire con gli occhi aperti, decise di tornarvi, fatto che gli permise di chiuderli ogni tanto, ma che gli tolse il sonno, non so se per sempre.”
La geografia del mio itinerario non può essere segnalata in nessuna mappa delle agenzie turistiche;
il tempo del mio volo ha tanti anni come me e non esiste bilancia che possa pesare il mio bagaglio,
né magazzino in grado di contenerlo, né doganiere capace di ispezionarlo. I posti degli altri si trovano a babordo o tribordo, fissati all’orditura dell’apparato; il mio, nel vertice di trenta secoli, sospeso tra la paura e una strana curiosità fatta di angustia e di allegria.77
Non esistono bilance, magazzini, orologi, mappe e doganieri in grado di ispezionare, pesare, misurare e definire l’esilio: esistono, tuttavia, narrazioni, storie, nomi in grado di farne un’esperienza comunicabile.
77
Enrique de Rivas, Endimión en España, in Id., En elumbral del tiempo, cit., pp. 401-402.
89
Discontinuità narrative e temporali nel don Chisciotte. di Paola Gorla
Omaggio per i 400 anni dalla pubblicazione della Seconda Parte
Nei due volumi che compongono ilChisciotte, 1605 la prima parte e 1615 la seconda, Cervantes rievoca,
rinnova e fa coesistere generi letterari differenti: passa dalle novelle interpolate (come il Curioso impertinente), alla pastorale (la storia di Marcela e Grisostomo), al fantasioso e grottesco incrocio tra ciclo carolingio e bretone nell’episodio della grotta di Montesinos (Parte II-capp.: 22-24); il tutto, all’interno di un macrosistema narrativo che a sua volta si bilancia in un precario equilibrio tra il genere della cavalleria errante
(figlio dell’epos) e quello del romanzo moderno (figlio a sua volta della picaresca). Questo gioco ben dosato
di alternanza di generi, assieme alla loro manifesta inconciliabilità, è struttura portante dell’effetto comico
del libro.
Una riflessione sul gioco dei generi nel Chisciotte porta indubbiamente a porsi il problema di cosa s’intenda
esattamente per genere letterario. Un genere si caratterizza per un proprio specifico tenore narrativo, si
può caratterizzare per i luoghi che ne ospitano l’azione, per la tipologia dei personaggi, per l’azione stessa
oggetto della narrazione. Ma ancor più, ed in modo evidente nel Chisciotte, ogni genere narrativo o letterario è portatore di un regime temporale specifico (vd Ortega y Gasset, ma anche Bachtin), che governa il
contesto, detta il profilo stesso del personaggio-eroe e ne definisce la narrazione.
Da qui, che il cavaliere don Chisciotte risulta portatore, sicuramente non-sano, di un regime temporale estatico tipico dell’epica (di cui, come si diceva, la cavalleria errante è erede). Il regime temporale della narrazione epica permette, tra l’altro, l’esistenza letteraria dell’archetipo, e dell’eroe classico. Ma il tempo estatico è anche il tempo della scienza speculativa, della conoscenza sub specie aeternitatis, è il tempo della
melancolìa, delle oziose letture ed elucubrazioni, del settimo peccato capitale: l’accidia. Cervantes fa nascere il personaggio del don Chisciotte in questo specifico spazio letterario, ma sceglie di narrare il suo gesto, il
suo agire, con un tenore narrativo grottesco. Fin qua, si riassumerebbe e comprenderebbe appieno la linea
parodica della prima parte del Chisciotte: mera parodia, seppur ‘ingeniosa’, di un genere letterario in decadenza.
Tuttavia, il cavaliere don Chisciotte si muove per un mondo (la Mancia del 1600) che a sua volta è soggetto
a un regime temporale ben diverso: il tempo del romanzo, della narrazione moderna, tempo della contingenza e dell’immanenza. E se, nella prima parte del volume, è assimilabile al tempo letterario della picaresca e dell’urbanizzazione rinascimentale, nella seconda parte Cervantes porta alle più estreme conseguenze
tale faglia di discontinuità: si rivela per essere un regime temporale che accomuna il lettore, lo scrittore e lo
stesso protagonista del romanzo in questione (vd Foucault et al.).
Questa alternanza e coesistenza di regimi temporali differenti porta a interessanti riflessioni. Se come faglia
di discontinuità scegliamo il Concilio di Trento, e non già l’uscita dal feudalesimo e l’urbanizzazione incipiente secondo la visione di Foucault et al., allora il regime temporale estatico, quello dell’epos e
90
dell’archetipo, non è altro che il tempo della melancolia e della speculazione che ora si sono convertite in
vizio e peccato, perché la conoscenza di ciò che è sub specie aeternitatis è propria di Dio, e all’uomo non è
concessa l’insolenza di conoscere ciò che solo a Dio è dato pensare.
Di contro, il tempo del romanzo si presenta allora come il tempo della scienza nuova, applicata, tecnica e
tecnologica. L’uomo come soggetto di conoscenza può esistere, ma l’unico campo lecito in cui può impiegare il proprio ingegno è il piano del reale. Lecita allora è la scienza applicata e tecnologica, i cui progressi
vanno a beneficio della conduzione quotidiana della vita, le cui scoperte e innovazioni appartengono alla
contingenza e sono anch’esse soggette al regime temporale della modernità e del romanzo. E’ lecito che
l’ingegno umano si dedichi ad alleviare il passaggio, per il tempo di una vita che è ‘valle di lacrime’; non è
lecito speculare sul senso di una vita all’interno del progetto divino.
Don Chisciotte è e può essere eroe, o parodia di un eroe archetipico a cui grottescamente rimanda, solo e
solamente se trova un modo per far esistere o conciliare il tempo della speculazione, a cui lui stesso è vincolato dalla nascita, al nuovo tempo del romanzo e della modernità. Se la scienza speculativa può ancora
esistere, allora può ancora esistere l’eroe. Ma l’insieme delle avventure di don Chisciotte dimostra che, dopo il Concilio di Trento, la melancolia speculativa non ha più diritto a esistere, non è più lecita. Quindi l’eroe
stesso vive la propria dissonanza ogni volta che entra in contatto con la tecnologia del mondo moderno, fino a dissolversi fatalmente a Barcellona, davanti alla testa incantata (il paradosso ludico) e alla stampa.
Ne consegue che, quando l’ingegno umano si applica allo studio speculativo -sub specie aeternitatis–
permette l’esistenza del fantastico. Al contrario, quando l’ingegno umano si dedica alla scienza applicata –
tecnologia o tecnica- porta alla dissoluzione dell’eroe, e del fantastico.
91
Religione e Umanità in Comte. di Davide De Sanctis
Se l’origine può essere considerata l’ordigno narrativo strategico per ogni configurazione identitaria, allora
forse è possibile, per cercare di dare un piccolo contributo allo svolgimento del nostro tema, porre il “problema Auguste Comte”. Come nodo particolarmente significativo quando si cerchi di sollecitare un atteggiamento conoscitivo aperto ad istanze genealogiche. Per assumere quindi un’ottica che tratti l’origine, nel
nostro caso delle scienze sociali, non tanto nei termini di un evento concluso eda collocarsi in un tempo
passato una volta per tutte, ma come luogo di attivazione di un dispositivo concettuale sempre potenzialmente disponibile a funzionare, quando nuove esigenze teoriche emergono e le soluzioni a disposizione
sembrano improvvisamente invecchiate.
Nella consapevolezza della inevitabile restrizione di campo implicata nella mia scelta, cercherò di vedere
per un verso, in maniera necessariamente sommaria, che posizione occupa, ovvero che ruolo gioca la figura
di Comte nell’immaginario dal quale una comunità scientifica così multiforme come la nostra abitualmente
preleva le sue categorie concettuali e il suo lessico di riferimento. Dall’altro di rendere ragione, attraverso
alcuni approfondimenti critici, di una ormai sempre più imponente messe di studi, una vera e propria ‘Comtereinassance’, esplicitamente intesa a porre in questione, ovvero a contestare esplicitamente, la legittimità di un’architettura identitaria in cui il nome di Comte, sebbene mai dimenticato, non ha mai di fatto conseguito, tranne alcune eccezioni incaricate di confermare la regola, lo statuto di un classico del pensiero sociologico. Intendendo per classico quello all’opera del quale ogni generazione di studiosi sente l’esigenza di
tornare, per rileggerla e rileggendola meditare le scelte attualmente esperibili per interpretare la propria
funzione culturale.
Riguardo al primo tema, si può affermare che a partire dal secondo dopoguerra e fino alla fine del secolo
scorso, la figura dell’inventore del neologismo ‘sociologia’, appare prevalentemente incastonata in una narrazione che lo dipinge con le fattezze di uno scientismo gretto e un po’ ingenuo. Intento a mutuare i metodi
di ricerca delle scienze fisico-matematiche per applicarli allo studio dei fenomeni sociali, egli avrebbe elaborato un modello di conoscenza esclusivamente empirico e dagli esiti fortemente deterministi, allestendo un
impianto teorico caratterizzato da un indebito riduzionismo (‘fisica sociale’) e implicante un’ideologia politica dai caratteri fortemente autoritari e conservatori, se non esplicitamente reazionari. L’autentico discorso
sociologico si sarebbe poi incaricato di superare questa impostazione non più utilizzabile, problematizzando
in maniera sempre più soddisfacente i suoi canoni epistemologici.
Se questa è, nei suoi tratti essenziali, la presentazione canonica che finisce per attestarsi nella stragrande
maggioranza della manualistica di riferimento, è possibile mostrare come rappresenti il sedimento composito e non del tutto lineare di un itinerario stratificato del quale vale la pena ripercorrere alcune delle tappe
essenziali.
92
La prima, interna a quella che potremmo definire storia della ricezione, comincia nel momento in cui Comte
intraprende quella che egli stesso definisce “seconda carriera”, il cui inizio è databile nel periodo che va dal
1845 al 1848. Anno quest’ultimo nel quale, con la fondazione della “Società positivista”, Comtegiudica non
più procrastinabile il momento di passare dalla riconfigurazione teorica dei saperi scientifici (‘carriera filosofica’) alla loro coordinazione articolata all’interno di un più preciso disegno speculativo (‘carriera religiosa’).
Questa mossa produce infatti una netta spaccatura nelle fila dei suoi seguaci, qualificabile come divisione
tra ‘dissidenti’ (o ‘positivisti incompleti’) e ‘ortodossi’ (o ‘positivisti completi’). Con la conseguenza per certi
versi paradossale per la quale sarà il successo schiacciante dei primi e l’emarginazione totale dei secondi a
veicolare la mentalità positivista tout court. In opposizione alla quale le filosofie del ‘900 variamente reagiranno, saldando il suo nome ad un sistema di pensiero edificato in buona parte sulla negazione degli esiti
che lui stesso aveva inteso imprimere alle conseguenze della sua dottrina.
Così, nel decennio successivo alla morte, appaiono due libri particolarmente importanti nel determinare il
futuro carattere del positivismo europeo: Auguste Comte et la philosophie positive (in Francia nel 1863) eAuguste Comte and positivism (in Inghilterra nel 1866). Due libri aventi un intento principalmente divulgativo e accomunati da una scelta interpretativa fortemente discontinuista, il cui grande successo si deve soprattutto alla statura dei rispettivi autori: ÉmileLittré e John Stuart Mill, i due principali protagonisti del
comtismo eretico, dissidente o eterodosso, cui accennavo in precedenza.
Il primo, allievo diretto di Comte, ma già escluso nel ’48 dalla neofondata ‘Societé’, diventerà una figura di
spicco della Terza Repubblica,soprattutto grazie al successo monopolistico ottenuto in campo didattico dal
suo monumentale Dizionario della lingua francese (il “Littré” appunto). Al contrario del suo maestro, di fatto sempre emarginato dalla vita istituzionale, egli viene eletto membro sia dell’Accademia francese che
dell’Assemblea Nazionale, fondando e poi dirigendo fino alla morte (avvenuta nel 1881) laRevue de philosophie positive, di fatto il principale organo di irradiazione del positivismo in Europa.
Ancora più noto e importante è il secondo discepolo dissidente di Comte. Figlio del filosofo storico psicologo e economista scozzese James, ma padre del liberalismo europeo e continuatore della tradizione utilitarista, il giovane Mill è uno dei più assidui corrispondenti di Comte.E durante tutto il periodo della stesura e
della pubblicazione del Corso di filosofia positiva (1830-1842), si fa promotore di una modesta ma fondamentale raccolta di fondi per sostenere il lavoro altrimenti non retribuito del suo prezioso corrispondente.
Leggendo questo carteggio, il cui principale interesse risiede evidentemente nella possibilità di seguire in
presa diretta la maturazione del pensiero di entrambi, si assiste a un percorso che va da quella che può essere tranquillamente individuata come una relazione tra il maestro-Comte e l’allievo-Mill, ad una sempre
più aperta divaricazione di vedute. La rottura definitiva, avvenuta nel 1843, dunque qualche anno prima
che Comte intraprenda la sua “seconda carriera”, è l’esito del progressivo allargarsi di una divergenza il cui
nucleo principale risiede nella diversa concezione che i due avanzano a proposito del ruolo della donna.
L’opzione ‘emancipativista’ e tendenzialmente egalitaria cui finirà per approdare Mill è infatti l’asse intorno
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al quale è possibile ordinare tutta una costellazione di incompatibilità sempre più profonde, riguardanti ad
esempio lo statuto dell’osservazione dei fenomeni psicologici o economici, due ambiti di ricerca ai quali
Comte, a differenza di Mill, negherà sempre la legittimità a costituire terreno di un’indagine autenticamente scientifica.
Dai libri di Littré e Mill esce fuori la prima parte del nostro ritratto, frutto di uno sdoppiamento di immagini,
propedeutico all’ingigantimento di una, quella del Comte filosofo della scienza, e alla cancellazione
dell’altra, quella del Comte ideatore di una religione politica. La prima, associata al Corso di filosofia positiva, è l’unica degna di essere ammirata e, con le opportune riduzioni della sua complessità, di essere tramandata e fatta circolare come manifesto il più compiuto e convincente che la riflessione filosofica moderna fosse riuscita a partorire sulla necessaria saldatura tra scienza e progresso. La seconda, maturata nel
trattato di sociologia (pubblicato in quattro volumi, tra il 1851 e il 1854, col titolo Sistema di politica positiva. O Trattato di sociologia istituente la Religione dell’Umanità), sarebbe invece da scartare come frutto visionario di una mente non più in grado di controllare l’adeguatezza tra gli esiti e le premesse del suo procedimento argomentativo, preda di una sindrome ordinatrice regredita fino al punto da volgersi nostalgicamente alla rifondazione di un ordine religioso, in patente contraddizione col modello liberale che si accreditava intanto come parametro politico dominante il processo di statualizzazione societaria.
Questa, per grandi linee, è quella che Antimo Negri ha definito “operazione critica manichea”, indicandone
da una parte il peso e l’influenza, dall’altra l’inconsistenza filologica. Un’inconsistenza più volte riaffermata
da numerosi interpreti, anche di talento e statura, la cui fortuna però non è mai riuscita seriamente a destabilizzare l’immagine di Comte ‘uno e bino’. Non è inutile per inciso segnalare come Negri sia, almeno per
quanto mi consta conoscere, l’unico italiano della generazione di studiosi appena trascorsa a dedicare, anche se da filosofo e non da sociologo, una corposa monografia all’interpretazione dell’intera opera comtiana. Un’interpretazione intesa a esaltarne l’unitarietà e l’attualità, contro i luoghi comuni che ne deformavano l’immagine, ma soprattutto contro la corrente culturale di un periodo nel quale le mode intellettuali,
trainate dalla scuola di Francoforte, preferivano rileggereHegel,Marx, Nietzsche, Freud o Heidegger. Il suo
Augusto Comte e l’umanesimo positivo, pubblicato nel 1971 (per i tipi dell’editore Armando), è significativo
sin dalla dedica a quel frutto problematico del neoidealismo italiano che fu Ugo Spirito, da cui Negri afferma di aver “imparato a leggere Comte non meno che Gentile”. Quando invece il positivismo contro cui sia
Croce che lo stesso Gentile scagliavano i propri strali era principalmente quello del comtismodi seconda
mano, ovvero quello veicolato più tardi dalle opere di Spencer e Darwin, associato all’idea di una scienza
non consapevole dei propri presupposti filosofici e intenta a scambiare prodotti dello spirito per fatti naturali, precludendosi così la possibilità di comprenderli storicamente o di modificarli creativamente. Mi pare
quindi condivisibile il giudizio secondo il quale quella tra Comte e l’Italia resta la storia di un rapporto sostanzialmente mancato [Donzelli M., 1999]. Anche dopo che uno studioso della statura di Franco Ferrarotti
curava la traduzione, nel 1967 per i ‘classici’ UTET, di un’edizione parziale del Corso di filosofia positiva,
94
contenente l’ultima parte sulla “fisica sociale” (Lezioni 46-60) e accompagnata da un’introduzione dove avvertiva i lettori che – cito – “viviamo in tempi che sembrano la vendetta postuma di Comte”.
Sempre ad Antimo Negri si deve poi la pubblicazione, nel 1983, di un’agile Introduzione a Comte nella collana arancione di Laterza, un’attenta sintesi al termine della quale è possibile seguire la storia e consultare
una bibliografia ragionata riguardanti la complessa vicenda dell’eredità comtiana, un’appendice che non
copre tuttavia la più recente ‘Comtereinassance’. Manca perciò in Italia una traduzione, anche solo parziale
o antologica, dell’opera che reca nel titolo la dizione “Trattato di sociologia” e nella quale Comte giudica arrivata a maturazione la concezione di quella disciplina solo introdotta, attraverso il corso di filosofia, nel
novero delle scienze.
Se le eccezioni, come abbiamo previsto, si incaricano di confermare la regola della rimozione di Comte dalle
fila dei classici della sociologia, di particolare rilievo appare del padre dell’etnologia francese, Lucien LévyBruhl. Il quale pubblica, nel 1900 per i tipi di Alcan, quella che, a mio modesto avviso, è una delle più belle e
lucide monografie mai scritte sul fondatore del positivismo: La philosophie d’Auguste Comte. Un saggio assai significativo non soltanto per la decisiva confutazione del manicheismo critico descritto sopra, ma perché segna il transito del suo autore dagli studi di storia della filosofia a quelli che caratterizzeranno poi
l’originalità e il successo delle sue successive ricerche sul mondo primitivo. Ricerche condotte sulla scorta di
una antropo-logica che indaga il differenziarsi delle forme di pensiero a partire da una radicale problematizzazione del modo moderno di conoscere il mondo e approdanti ad una sociologia del mentale dalla configurazione anomala, laterale e difforme, rispetto a quella che nel frattempo si accreditava istituzionalmente
attraverso la scuola durkheimiana.
È a quest’ultima scuola infatti che, com’è noto, si deve la fondazione della sociologia scientifica francese
per come oggi la studiamo. Una rifondazione che, per quanto ci interessa in questa sede, comporta
l’adozione di due strategie strettamente connesse: da una parte il mantenimento di un atteggiamento
scientifico esplicitamente positivista da applicare, ricalibrandolo, allo studio dei ‘fatti sociali’; dall’alta la rimozione pressoché totale del ‘problema Auguste Comte’ dall’orizzonte critico sfruttabile per la buona riuscita di questa operazione. Durkheim infatti, maggiormente incline a propendere per le tematiche filosofico
giuridiche apprese in Germania che per quelle più schiettamente cartesiane, non intraprende mai un confronto serrato con l’opera di Comte, al contrario di quanto avviene con autori come Montesquieu o SaintSimon, Spencer o Tarde, Rosseau o James. Si potrebbe quindi dire che il rapporto tra Durkheim e Comte oscilli tra la filiazione di una stessa concezione dei ‘fatti sociali’ e la rottura epistemologica riguardante
l’istaurazione di una sociologia maggiormente compatibile con quel progetto di stampo nazionalisticotipico
del primo Novecento, e poggiante su di una strategia di governo dei fenomeni sociali fortemente connotata
dalla valorizzazione degli strumenti potestativi messi in campo dalla statualizzazione del diritto.
Se volgiamo lo sguardo all’altra grande tradizione sociologica che confluisce nella narrazione di cui ci stiamo
occupando, quella di matrice tedesca, si capisce subito come l’esigenza di scientificità, rivendicata a propo95
sito della trattazione dei fenomeni sociali, affondi le sue radici su di un terreno dissodato del problematico
accomodamento reciproco di due stili di pensiero difficilmente riconducibili allo stesso filone positivista
dentro cui il nome di Comte aveva finito per confluire. Sia l’hegelismo, declinato come operazione di storicizzazione integrale dello spirito, che il neokantismo, declinato come irriducibile prospettivismo gnoseologico del soggetto conoscente, negano infatti la possibilità di poter affidare alle potenzialità della scienza la
stabilizzazione di un modello di conoscenza coerente e senza residui. Senza voler percorrere la complessa
dialettica che vede impegnati i due fronti, si può considerare la sintesi weberiana come uno dei luoghi più
autorevoli nel quale è dato osservare una loro ricomposizione sul piano sociologico. Un piano che paga
l’oggettività dei suoi asserti conoscitivi al prezzo del radicale scioglimento dei loro presupposti dentro
un’analitica esistenziale che assume tutta intera la tragicità del paradosso non neutralizzabile per il quale il
valore della scienza non è mai scientificamente dimostrabile. Una prospettiva culturale radicalmente deontologizzata, questa che si vuole agli antipodi del positivismo, che trova all’interno del suo stesso rigore
l’unico rimedio di fronte all’impossibile ricomposizione di un universo morale univoco e conciliato. Ma che,
più o meno consapevolmente, spalanca il problema, come vedremo tipicamente comtiano, del rapporto tra
politica e scienza, dal momento che, assunto il dualismo tra fatti e valori mediante la distinzione tra essere
e dovere, colloca la determinazione dei secondi su di un piano che, per essere soggettivamente fondato,
non smette perciò di essere collettivamente condizionabile.
È contro gli effetti più deleteri di questo condizionamento reciproco tra politica e scienza, che la scuola di
Francoforte costruisce la sua sociologia critica. Ora, se nell’orizzonte weberiano il positivismo era solo
l’altra filosofia, ingenuamente fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive della scienza, e come tale mai
degna di essere presa veramente sul serio, il contrario succede ad una rinnovata sociologia che, filtrata attraverso le maglie di una critica esercitata a combattere qualsiasi forma di dominio, prende molto sul serio
quell’esperienza filosofica, declinandola interamente come ideologia e eleggendola a bersaglio polemico
privilegiato di una caccia senza quartiere al germe dei regimi totalitari. In quest’ultima tessera del mosaico
che intendevo mostrare, la figura di Comte assume finalmente le fattezze del conservatorismo reazionario
tipico della forma di dominio borghese che si intendeva combattere. Anche se quando la sua opera viene
direttamente sottoposta a esame critico, come avviene in Ragione e rivoluzione di Herbert Marcuse(1954) o
più estesamente nello Hegel e Comte di Oscar Negt (1964), la posizione politica di Comte viene interamente
desunta da quanto implicitamente si riteneva lecito dedurre dalla sua concezione della scienza. Quella di
Comte diventa allora una “filosofia della rassegnazione” già tutta contenuta in un positivismo, quello del
Corso riveduto e corretto dai suoi divulgatori, che anziché negare il dato, come fa Marx sulla scorta di Hegel, finisce per affermarlo come col surplus di legittimazione politica derivante dalla sua naturalizzazione
scientifica.
Termino questa prima parte con la menzione di due eccezioni che si levano dal coro, avvero quelle di due
sociologi del secondo Novecento del calibro diRaimond Aron e Norbert Elias. Probabilmente inappagati
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dall’egemonia culturale froncofortese, ma certamente non associabili né al gretto empirismo né a simpatie
autoritarie, entrambi gli autori,unofrancese e l’altro tedesco,arrivati all’apice delle loro carriere, scrivono
delle introduzioni al pensiero sociologico nelle quali la figura di Comte viene riabilitata come quella di un
classico. Sebbene in una forma che, più spregiudicatamente in Che cos’è la sociologia (Elias, 1970) e più
prudentemente neLe tappe del pensiero sociologico (Aron, 1967), indugia sulla portata trasgressiva e inattuale, perciò rischiosa ma affatto illegittima, da assegnare al gesto di riappropriazione dei testi comtiani.
In questa seconda parte cercherò allora di effettuare qualche operazione di carotaggio per sondare le ragioni per le quali oggi, a quasi due secoli di distanza, Comte torna, come torna il rimosso, a far apparire
concetti e problemi, formule e ricette, paure e speranza, che prendono a interrogarci in maniera improvvisa
e inquietante. Per farlo dividerò questa parte del mio intervento in due blocchi narrativi: nel primo cercherò di mostrare quale sia l’atteggiamento tenuto da Comte nei confronti della scienza, nel secondo di vedere
quali ricadute questo atteggiamento produca riguardo agli esiti ‘religiosi’ della sua sociologia.
Per quanto riguarda il primo tema si potrebbe dire che quella effettuata attraverso il Corso di filosofia positiva è una critica a tutto campo, motivata da intenti politici radicalmente riformatori, e rivolta al modo nel
quale vengono prodotti appresi e studiati i risultati della scienza.
Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare infatti, quella tenuta da Comte nei confronti delle scienze, è una postura inflettibilmente insoddisfatta. Approdante ad una diagnosi estremamente allarmata sulla
dispersione di senso che si consuma al loro interno (“eccessiva specializzazione”). Mai ottimista sulla possibilità che si produca spontaneamente un regime di conoscenze adatto a offrire soluzioni all’altezza dei bisogni del tempo (“vana speculazione”).
Le scienze sono tutte radicalmente da riformare, perché tutte, senza eccezioni, mostrano di essere ancora
lontane dall’aver pienamente centrato i loro obiettivi conoscitivi. Per quanto riguarda quelle ammesse da
Comte: l’astronomia [lez. 19-27], scienza dei fenomeni osservabili, non ha ancora legiferato quale sia la
porzione di fatti dai quali può dipendere l’efficacia della sua missione conoscitiva. La fisica [lez. 28-34],
scienza dei fenomeni sperimentabili, non si è ancora completamente disfatta delle entità metafisiche che
guastano la costruzione delle sue ipotesi, e perciò, ossessionata dal falso problema dell’origine, fallisce
l’istituzione di un sistema di conoscenze interamente relativizzabile. La chimica [lez. 35-39], scienza dei fenomeni classificabili, non è ancora in grado di perimetrare con esattezza la trasformazione di quali circostanze dipenda dalla combinazione degli elementi che prende in considerazione. La biologia[lez. 40-45],
scienza dei fenomeni comparabili, è ancora lontana dallo stabilire una teoria generale dei corpi organizzati
che renda soddisfacentemente conto del complesso rapporto dialettico che intercorre tra modificazioni organiche e trasformazioni ambientali. La matematica [lez. 3-18], scienza dei fenomeni geometrizzabili, pretende abusivamente di forzare nella logica delle sue dimostrazioni porzioni della realtà che esibiscono un
regime di variazioni refrattario ai requisiti di precisione attingibili attraverso il calcolo. Infine la sociologi97
a[lez. 46-58], scienza dei fenomeni storicizzabili, è ancora tutta da costruire perché il problema politico relativo alla concezione delle leggi che regolano i fatti sociali non è neanche posto all’interno di un dispositivo
teologico-metafisico che oscilla tra due assoluti, quello dell’eteronomia associata alla “volontà divina” e
quello dell’autonomia associata alla “natura umana”. Di qui la venuta fuori di due tentativi abortiti di scienza. Da una parte l’economia politica (una “pretesa scienza” di fatti senza teoria), che, dopo aver correttamente osservato come quello delle relazioni sociali sia l’ambito di produzione di un ordine spontaneo, finisce per considerare questo come l’unico valido, impedendo quindi il suo governo. Dall’altra la psicologia (una “pretesa scienza” di teorie senza fatti), che intende governare i mutamenti psichici come se questi dipendessero dal supporto individuale che li esprime, senza tenere sufficientemente in conto il fatto che
quella del mentale è una trasformazione storica e collettiva. Quello che Comte denuncia sul piano politico
come regime “bastardo o stazionario”, connotato dal parlamentarismo e dall’individualismo proprietario, si
costituisce a partire dall’incrocio di questi malintesi per i quali si tenta di costituire il sociale come un ordine
(“costituzionalismo”) senza neanche aver cominciato a pensarlo come un insieme di trasformazioni.
Questo insieme di circostanze può aiutare ad ascoltare il tono retorico che Comte manterrà prima edopo la
stesura del Corso, per cui non è tanto la politica ad essere investita da un linguaggio derivato dallo studio
delle scienze, quanto piuttosto le scienze, ma soprattutto gli uomini di scienza, ad essere oggetto di una critica che riflette lo stile tipico del polemista politico.
Coerentemente con le criticità esibite da questo quadro insieme enciclopedico e antropologico, le soluzioni
più urgenti da ricercare sono: predisporre in primis un modulo disciplinare per mettere in ordine i risultati
delle ricerche scientifiche; congegnando una dinamica della conoscenza che, senza mortificare la legittima
autonomia di procedimenti conoscitivi non riducibili ad unità, si incarichi di sfruttare al massimo la connettività di ogni scienza con tutte le altre. La costruzione poi, indispensabile per impostare con successo questo
piano inter-disciplinare, di un’ipotesi trans-disciplinare che consenta di misurare il grado di maturità raggiunto da ogni singola scienza in qualsiasi fase del suo sviluppo, sulla base ad una griglia di variazioni valida
per tutte [lez. 1-2]. Per allacciare un filo rosso tra la mia narrazione e la contemporaneità, non è forse inutile ricordare come, l’insegnamento di “storia generale delle scienze positive” che Comte propone invano a
Guizot di accendere, sarà successivamente attivato, nel 1892 al Collège de France, e, con la significativa elisione del termine “positive”, affidato ad un ‘comtiano ortodosso’ come Pierre Lafitte. Com’è noto si tratta
di un insegnamento all’interno del quale verrà temperato un vero e proprio stile francese di filosofia delle
scienze, tenuto tra gli altri da personaggi del calibro di Gaston Bachelard, George Canguilhem, Michel Foucault.
Riprendendo i fili narrativi del Corso, la legge della “gerarchia delle scienze” e quella dei “tre stadi di sviluppo”, consentono a Comte di isolare quella scientifica come una prestazione culturale dal valore del tutto
paradigmatico, non tanto, lo si è visto, per la qualità intrinseca dei suoi prodotti, quanto per la chiarezza
adamantina con la quale esibisce fasi e successioni sfruttabili all’interno di una narrazione più ampia e
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complessa. Una narrazione per ipotesi estendibile ad altri ambiti culturali, più intimi e decisivi, anche se
molto meno facilmente osservabili. Pe individuare una logica della trasformazione umana che, per diventare progresso culturale vero e proprio, necessita di un capovolgimento di prospettiva già in parte operante al
grado più progredito e meno complesso dello sviluppo positivo.
Il caso della prima scienza è in questo senso talmente paradigmatico che Comte terrà, praticamente ogni
settimana della sua vita, un corso gratuito di “astronomia popolare” ritenendolo la migliore mossa a sua disposizione per tenere un “discorso sullo spirito positivo”. Si tratta infatti della più ‘semplice’ delle scienze,
poiché è quella che riesce meglio di tutte ad esibire la legge di trasformazione dei regime di verità, mostrando chiaramente il passaggio da un certo insieme di ipotesi tenute per valide ad un altro sistema diverso e inconciliabile con il primo, attraverso le tappe successive che portano dai piccoli cedimenti iniziali
dell’uno all’incontrovertibile e definitivo accreditamento dell’altro. Un paradigma di commutazione
dell’opinione, la storia dei cui effetti culturali coinvolge l’uomo da quando smette il nomadismo, per diventare una forma di vita agricola e pastorale (“astrolatria”), a quando finisce per tagliare la testa del re che
poche generazioni prima si chiamava‘Sole’ (“rivoluzione”). Non c’è tempo né bisogno di accennare, anche
solo per sommi capi, all’elenco di osservazioni che potrebbero essere fatte sul rapporto tra la trasformazione delle concezioni astronomiche (e, per analogia, fisiche, chimiche o biologiche) e quelle che parallelamente si producono in ambito tecnico, estetico, giuridico, politico, psicologico, economico, in una parola ‘sociale’, ma è chiaro come tutto un metodo di lavoro si metta in cammino, grazie al quale diventa possibile collegare tra loro le variazioni delle dimensioni culturali più diverse, indicizzandole su di un vettore di stabilizzazione delle credenze la cui cifra è la liberazione dell’opinione.
Il fatto nuovo con il quale la modernità dovrà allora misurarsi è la stabilizzazione di questo nuovo circuito,
quello positivo (né teologico né metafisico), che si viene a creare tra libertà fiducia e consenso. Un circuito
che la Rivoluzione francese si incarica di istallare al centro della politica.
Nel primo saggio in ordine di tempo, tra quelli poi ripubblicati in appendice al Trattato, per rispondere alle
accuse di contraddizione mossegli sin dentro la sua scuola, il tema affrontato da Comte è quello della Distinzione generale tra opinioni e desideri (1819). Si tratta di un saggio brevissimo, nel quale tuttaviaviene
posta una questione fondamentale: che cosa significa opinare in politica. Se infatti i desideri in politica si
assomigliano tutti e sempre di più, per l’effetto di un inarrestabile processo di democratizzazione al termine
del quale i fini dell’azione di governo vengono inderogabilmente posti (cito: “è del tutto spontaneo che tutti
i cittadini…che vivono del prodotto delle loro fatiche, desiderino la libertà, la pace, la prosperità industriale,
l’economia nelle spese pubbliche e il buon uso delle imposte”); l’opinione invece è un qualcosa in più che si
aggiunge a questo desiderio – cito ancora – “è l’espressione, il più spesso molto affermativa e molto assoluta, che questi desideri non possono essere soddisfatti se non con questi e quei mezzi, ed in nessun modo
con altri”. Si capisce allora come, proprio per soddisfare quei desideri, il ragionamento vertente sui mezzi
più idonei al loro soddisfacimento, per quanto possa essere raffreddato, non può mai arrivare fino al punto
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di smarrire il collegamento con le passioni dalle quali dipende, pena la perdita totale della sua efficacia. La
competenza politica allora si configura come una capacità strategica complessa e multiforme, perché da
una parte si tratta di collegare tra loro per fini applicativi tutto un insieme di risorse tecnico-scientifiche che
consentano di prevedere con il minor grado di approssimazione possibile gli esiti dell’azione di governo
(passando dal dominio dell’uomo sull’uomo a quello dell’uomo sul mondo), dall’altra di condizionare questa possibilità alla riuscita di un’operazione connettiva più complessa e decisiva dalla quale dipende la postura, in ultima analisi rigorosamente adesiva e meramente assertiva, dell’opinione.
Se Comte progetta un dizionario delle polisemie, inverso a quello dei sinonimi o dei contrari, per sfruttare a
pieno la ricchezza del linguaggio, ci autorizza a mantenere tutta intera l’ambiguità del genitivo in una dizione come quella di “governo dell’opinione”, tanto più che la “seconda carriera”, tema dell’altro carotaggio
che mi propongo di effettuare, si caratterizza principalmente per l’adozione di un “metodo soggettivo” inverso e complementare a quello“oggettivo” adottato nel Corso.
Per sondare quella che ho definito ‘Comte reinassance’ e per esporre alcune circostanze che possono risultare meno note, esporrò prima di tutto il diverso set di concetti di cui Comte si avvale a partire dalla messa
in ‘Discours’ del ‘48, indicando, dove possibile, una recente bibliografia essenziale di riferimento. Poi concluderò cercando di mostrare il nuovo registro narrativo utilizzato da Comte nella sua ‘seconda carriera’.
La più grossa novità è certamente quella, già accennata sopra a proposito del rapporto ComteMill,riguardante lo statuto centralissimo che la dimensione femminile finisce per conquistarsi all’interno del
sistema comtiano, dopo la morte di Clotilde de Voux (1846) e con la pubblicazione del Discorso sull’insieme
del positivismo, un -ismousato per la prima volta in contrasto all’altro che si annunciava nello stesso anno
con la pubblicazione del Manifesto di Marx e Engels.
Sul carteggio Comte-Mill si può vedere Vincent GuillinAuguste Comte and John Stuart Mill on sexual equality. Historical, Metodological and Philosofical Issues (Brill, 2009). Sull’intera vicenda biografica che determina lo sconvolgimento
mentale dovuto all’improvviso innamoramento e all’altrettanto repentina elaborazione del lutto di Clotilde, si possono
leggere gli ultimi due tomi, pubblicati nel 2009 per la Cambridge University Press, dell’importante trilogia che Mary
Pikering, una studiosa californiana di storia del pensiero, ha dedicato alla vita di Comte(Auguste Comte. An intellectualBiography, 1993-2009). In Italia invece, per una casa editrice minore (Spirali), il sociologo Gianfranco Morra ha
pubblicato, ma ormai sono passati più di quindici anni, un libretto dal titolo significativo: La sociologia si chiama Clotilde. Comte e la Religione dell’Umanità (1998), dove la ‘seconda carriera’ occupa una posizione centrale nella presentazione della sociologia comtiana.
La fondazione della “Religione dell’Umanità” è l’altra grossa novità direttamente collegabile alla prima. Allo
slogan “ordine e progresso”, inventato da Comte per il Corso e transitato sulla bandiera del Brasile, si aggiunge ora la parola d’ordine “amore”. La formula positiva, così completata, quella che campeggia sul fron100
tespizio del Sistema, recita: “l’amore per principio, l’ordine per base, il progresso per scopo”. Se nel Corso la
nascita di una scienza nuova aveva implicato una violenza al linguaggio tanto memorabile come il conio della parola ‘sociologia’, l’invenzione del neologismo ‘altruismo’, la cui paternità comtiana è forse meno nota,
non vale meno a segnare un avanzamento decisivo, la creazione di una scienza ulteriore e inizialmente non
prevista: la “morale”, ovvero la scienza dei fenomeni individualizzabili.
Nell’incipit del Catechismo positivista (1852), un’altra opera importante della seconda carriera, composta
nei modi di un dialogo tra un prete dell’umanità (Comte stesso) e il fantasma di Clotilde (eletto a paradigma
di “femme” e abitante nel cervello del primo), la donna provoca il suo interlocutore a giustificare il mantenimento di questo termine, chiedendo di spiegarle di che razza di religione si tratti, visto che non somiglia a
nessun’altra e presuppone l’esclusione di ogni ricorso alla “credenza soprannaturale”:
“La religione – risponde l’altro costruendo un’etimologia sintetica – consiste nel regolare ciascuna natura individuale
[à réglerchaque nature individuelle] e nel radunare (in uno spettro semantico che va dal gesto di raccogliere a quello
di riconciliare,‘stringere insieme mettendo d’accordo’) tutte le individualità [à ralliertouteslesindividualités]; il che costituisce solamente due casi distinti di un problema unico. Infatti, ciascun uomo differisce successivamente da se sesso
altrettanto di come differisce simultaneamente dagli altri; di modo che la fissità e la comunità seguono delle leggi identiche”. [traduzione mia]
Questa morale ‘more sociologico demonstrata’ prevede che il baricentro della conoscenza si sposti dalle
scienze dure, quelle dei fenomeni meno modificabili, edificate intorno al modello geometrico-astronomico,
a quello delle scienze dei fenomeni più modificabili, “vegetali, animali e sociali”, assegnando, quella che
Comte chiama la “presidenza enciclopedica”, prima al nesso biologia-sociologia (Corso) poi a quello sociologia-morale (Sistema). Inaugurando di fatto una prospettiva bio-politica per la quale la prestazione normativa delle scienze non viene più valutata in base alla distinzione tra vero e falso quanto piuttosto in base a
quella tra normale e patologico, dove il paradigma della regolarità viene marginalizzato a tutto vantaggio di
quello della regolazione dei fatti legiferati. La ‘modificabilità’infatti è una categoria concettuale che Comte,
a giudizio di Canguilhem, è il primo ad estendere ai fenomeni politico-sociali.
Sul punto voglio segnalare due libri coevi (2006) a mio avviso capitali per il rinnovamento degli studi comtiani
dell’ultimo decennio, soprattutto perché provenienti da giovani studiosi molto attivi nel panorama intellettuale francese, ma non appartenenti alla cerchia, ancora abbastanza ristretta ma molto produttiva, degli specialisti comtiani. Il
primo si intitola Politique de l’esprit (Bruno Karsenti, Hermann) mentre il secondo reca il titolo L’esprit desscienceshumaines (Guillame Le Blanc, Vrin). Ma che si tratti della politica o della scienza entrambi gli studi riescono a riannodare
in maniera molto convincente la sociologia di Comtead un ‘esprit’ che è ancora il nostro, proprio nella misura in cui la
sua inattualità ci costringe ad attraversare l’impianto teologico-politico da una parte (Karsenti) e quello psicoeconomico dall’altra (Le Blanc) fornendoci un’attrezzatura concettuale alternativa, ma potente e rigorosa. Sul rappor-
101
to tra Comte e la biopolitica voglio poi citare un passo di Roberto Esposito, il quale afferma, a proposito della saldatura
prima occasionale ma poi sempre più intenzionale tra il sapere biologico e quello politico, che: “all’origine di questo
mutamento di sguardo c’è l’opera – apparentemente arcaica solo perché estranea all’asse portante della concezione
moderna – di Auguste Comte. Quando, nell’introduzione al suo Système de politique positive, egli conierà il termine
‘biocrazia’, propedeutico a quello, ulteriore, di ‘sociocrazia’, si può ben affermare che un lessico concettuale estraneo
alla semantica democratica sia ormai costituito: il potere non ha più come orizzonte di riferimento il démos – cioè
l’insieme dei soggetti riuniti in una comune identità nazionale – ma il bìos, la vita di un organismo, individuale o collettivo, esteriore ed eccedente ogni formulazione giuridico-politica tradizionale” [cit. da Terza Persona. Politica della vita
e filosofia dell’impersonale, Einaudi, 2007, pp. 35-6].
Attraverso il ricorso sempre più massiccio all’uso delle immagini Comte sottopone infine la mappatura delle
funzioni cerebrali, a cui avevano lavorato i primi neuroscienziati (in particolare il frenologo tedesco Gall e il
suo allievo Spurzheim), ad una revisione filosofica al termine della quale il cervello diventa il dispositivo religioso dell’umanità. Questa “doppia placenta che collega l’uomo all’umanità” è il territorio di cultura di una
terza dimensione (rispetto al dualismo classico, sostanzialmente rispettato nel Corso, tra pensiero e azione,
teoria e prassi) che il passaggio dalla sociologia alla morale rende possibile governare: le emozioni (“sentiments” o “penchants”). Il “cuore” infatti , non le altre due parti della neurofisiologia comtiana (l’ “esprit”
che ha funzione servente e il “caractre” che ha funzione esecutiva), è l’ “apparato nervoso” che, spostato
nella testa, funziona da “motore” del “Grande-Essere”, ovvero dell’ “insieme di tutti gli esseri convergenti,
passati presenti e futuri”, compresi gli animali ai quali Comte dedica un’attenzione tutta volta a umanizzarne l’evoluzione.
Sull’insieme di implicazioni derivanti dalla filosofia cerebrale di Comte si possono segnalare gli studi, questa volta di
uno specialista tra i più attivi come Laurent Clauzade, membro del consiglio di amministrazione
dell’associazioneMaison d’Auguste Comte, contenuti in particolare nel libro,L’organe de la pensée. Biologie et philosophie chez Auguste Comte (P.U. de Franche-Comté, 2009). Sugli stessi temi e ancora nel 2009 è apparso un lavoro di
Braunstein, il presidente dell’associazione che ho testé menzionate, dal titolo La philosophie de la médicine d’Auguste
Comte (Puf), capace di riannodare un filo sotterraneo, sempre meglio dissodato in sede storiografica, che collega il
comtismo ortososso ad una tradizione più medico-politica che scientifico-metodologica. Per una recente storia della
ricezione comtiana tutta spostato su quest’asse di ricerca è disponibile, dal 2013 per i tipi Mimesis, il libro dello storico
fiorentino Claudio De Boni intitolato Storia di un utopia. La religione dell’Umanità di Comte e la sua circolazione nel
mondo, dove si può leggere, insieme alla vicenda più nota della ricezione francese inglese o sudamericana, la storia
meno nota del ruolo tuttaltro che marginale che l’influenza della ‘religione’ comtiana ha giocato per la fisionomia culturale di paesi come gli Stati Uniti o l’India. Ed è proprio in questo senso, sempre nel 2013, ma in maniera completamente indipendente, che un’autrice come Martha Nussbaum usa la religione comtiana dell’umanità come pietra di
paragone di due culture politiche, quella americana e quella indiana per l’appunto, ognuna a suo modo capace di lavorare sulle Emozioni politiche, questo il titolo del libro che reca come sottotitolo: Perché l’amore conta per la giustizia (il
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Mulino, 2014). Sulla potenza delle immagini nel sistema comtiano è da vedere poi il lavoro di quello straordinario studioso dell’animo umano ‘sub specie sociologica’ che è WolfLepenies, autore nel 2010 di un libro su Comte intitolato
Die Machtder Zeichen. Sulla complessa epistemologia comtina sono invece fondamentali gli studi di Angèle KremerMarietti, in particolare quelli raccolti nel volume del 2007 intitolato Le kaledoscopeépistemologique d’Auguste Comte.
Sentiments Images Signes.
A questo punto diventa utile vedere, per avvicinarci alla conclusione, quale peculiare strategia narrativa
Comte adotti nel Trattato di sociologia per istituire la Religione dell’Umanità all’interno del Sistema di politica positiva. L’opera, come ricordavo, si compone di quattro volumi, ciascuno dei quali consta di circa settecento pagine.
Nel primo, che funziona da Introduzione fondamentale, si tratta di ricapitolare l’insieme di conoscenze acquisibili attraverso i metodi delle scienze, ma a differenza del Corso (suddiviso in sei parti quante sono le
scienze trattate), è diviso in due sezioni fondamentali, una “analitica o cosmologia” e una “sintetica o biologia”, dove la differenza fondamentale che passa tra scienze inorganiche e scienze organiche viene ridotta
spostando definitivamente l’asse dell’osservazione dal mondo all’uomo (“metodo soggettivo”), o se si preferisce dalla materia (intesa come “milieu”) alla vita, facendo vedere come in definitiva tutte le scienze non
siano altro che scienze dello spirito. Significativa è in questo senso la dizione ‘cosmo-logia’ adottata per designare l’insieme delle conoscenze astronomiche fisiche e chimiche, perché mima il gesto con il quale, durante la stesura del Corso, Comte si disfa definitivamente del termine ‘fisica sociale’, che non soddisfaceva
più il tipo di discorso corrispondente alla sua ‘socio-logia’.
Nel secondo volume intitolato Statica sociale si tratta di costruire l’ipotesi del “Grande-Essere”, modellata
sul dispositivo cerebrale che chiude aporeticamente il discorso biologico, e che dovrà poi essere verificata
sul piano storico o “dinamico”. In questo che è il volume più citato dei quattro, Comte sfrutta tutta
l’ampiezza del dispositivo tridimensionale messo in campo a partire dalla legge dei tre stadi e riproposto a
proposito della partizione delle funzioni cerebrali, ma già operante nella sua filosofia geometrica a proposito della distinzione tra la superfice (un volume molto assottigliato), la linea (una superficie molto ristretta) e
il punto (una linea molto accorciata). Così “famiglia”, “patria”e “chiesa” diventano le tre figure della religione attraverso l’ “amour” l’ “activité” e l’ “esprit”; quella statuale, poggiante sul binomio legge-individuo,
viene invece recisamente esclusa come forma solidaristica transitoria, che blocca invece di favorire il processo religioso che si tratta di portare a compimento. Questa religione è portata avanti attraverso l’analisi
di tre dimensioni collettive, scarsamente attenzionate nel Corso, e dove solidarietà e continuità sono inscindibilmente legate, nelle quali cioè la “popolazione soggettiva” (ovvero i morti e i non ancora nati) governa sempre di più i vivi (popolazione “oggettiva”): la disciplina lavorativa o ‘economica’, la disciplina comunicativa o ‘linguistica’, la disciplina classificatoria o ‘sacerdotale’. Si tratta dei tre capitoli centrali del libro. Nella ‘economica’ si trova una trattazione del problema della “proprietà” alla luce della quale Comte
prevede, contro ogni logica redistributiva o di scambio, un sistema di concentrazione progressiva del capita103
le nelle mani di pochi “capi pratici” chiaramente identificabili (i “banchieri”), attraverso la riattivazione di un
sistema collettivo di accumulazione volontaria (il “dono”), alternativo a quello della conquista (militare) e
della confisca (giuridica). Adatto a sviluppare un uso responsabile dei capitali resi in questo modo pienamente socializzati, in una divaricazione complementare tra la “classe proletaria” e quella dei “patrizi” destinata a estinguere completamente quella “bastarda” della borghesia. Nella ‘linguistica’ si tratta di distinguere tra l’uso comunicativo dei “sentimenti”, delle “immagini” e dei “segni”, per prevedere una forma di linguaggio nella quale i segni siano messi in grado di esprimere i sentimenti attraverso il ricorso ad una strategia pedagogica incentrata sull’esercizio dell’immaginazione. Con l’analisi della funzione ‘sacerdotale’, la più
dinamica delle funzioni umane, se è vero che anche nel mondo animale si sviluppano sistemi comunicativi
ed economici, si tratta di distinguere teoricamente due tipologie di poterepraticamente inscindibili: quella“materiale” e quella“spirituale”. Se la distinzione risulta impossibile da un punto di vista della ricognizione
delle forme storiche, poiché i governanti combinano in maniera tipica ‘auctoritas’ e ‘potestas’, un’analisi
condotta alla luce dello schema mentale apprestato in sede di fisiologia cerebrale è in grado di isolare il
punto di applicazione dell’una e dell’altra. Il primo potere infatti, detenuto dalla forza del “numero” o da
quella della “ricchezza”, comanda sui risultati dell’azione, avendo di mira una modificazione materiale che
obbliga alla cooperazione ma non necessariamente al consenso. Il potere spirituale invece è quello che
“consiglia” e che “regola”, e può esercitarsi solo provocando una modificazione liberamente interiorizzata e
risultante dalla religione tra più organi cerebrali per definizione sottratta ai rapporti di forza, com’è tipicamente quella che si istaura tra le due popolazioni dell’Umanità, quella “oggettiva” e quella “soggettiva”. Di
quest’ultimo potere, il più importante per il governo dei fatti psico-sociali, la donna è l’organo normale,
mentre il sacerdozio è l’organo artificiale (o sistematico) che deve intervenire, coordinandosi con l’altro, solo quando si tratta di rimediare a situazioni critiche, da medico o da politico, a seconda che la “follia”, che è
sempre una patologia sociale dovuta allo scollamento tra uomo e umanità, si manifesti sul versante biografico ovvero storico dell’esistenza collettiva.
Il terzo volume, che si incarica di dimostrare le ipotesi astrattamente formulate in sede statica, si intitola
Dinamica sociale. In questo volume di filosofia della storia lo scarto tra “stadio teologico” e “stadio metafisico”, già presentato nel Corso come semplice sostituzione e non vera e propria modifica, viene decisamente minimizzato a tutto vantaggio di una narrazione centrata sulla tripartizione tutta interna al primo stadio.
Nella mentalità teologica si assiste infatti al passaggio dalle prime due fasi, quella “feticista” e quella “politeista”, veramente religiose e universali, a quella finale o “monoteista”, nelle due varianti, cattolica (o “occidentale”) e islamica (o “orientale”), fondamentaliste e contrastive. Nella prima fase – la religione dei “sentimenti” – l’uomo, tipicamente il “primitivo” il “bambino” o il “folle”, proietta le sue emozioni direttamente
all’esterno senza distinguere tra oggetti animati e inanimati, allestendo così una strategia di addomesticamento delle forze della natura i cui effetti esteriori sono pienamente misurabili dall’efficacia con la quale
agisce sugli animali. Nella seconda – religione delle “immagini” – l’uomo, grazie all’immaginazione di esseri
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“fittizi”, razionalizza la realtà in tanti ambiti di esperienza quanti sono i desideri che lo animano. Nella terza
– quella monoteista o dei “segni” – la più teologica e meno religiosa delle tre tappe, l’uomo istaura, per
progressivi gradi di astrazione, una rigida gerarchizzazione degli esseri fittizi, corrispondente alla definitiva
supremazia delle funzioni intellettualistiche della psiche, e alla sistematica compressione delle altre. Una
supremazia e una compressione funzionali allo stadio “metafisico o transitorio”, tipicamente espresso
dall’invalicabile cesura cartesiana tra una ‘res cogitans’ egoisticamente sublimata e una ‘res extensa’ mortificata a mera cosa manipolabile a volontà, e dal quale si tratta positivisticamente di uscire, per accedere allo stato definitivo, quello nel quale lo sviluppo, lungi dall’arrestarsi,diviene pienamente umano.
A quest’ultimo che è lo stadio normale, ovvero della religione tra “sentimenti” (incarnati dalla popolazione
dei “neri”, riconducibile al feticismo) “immagini” (incarnate dalla popolazione attivadei “gialli”, ancorata al
politeismo) e “segni” (incarnati dai “bianchi”), è dedicato il Tableau synthétic de l’avenirhumain (volume
quarto) a sua volta dipinto in tre scene distinte: il “culto”, o disciplina dell’emozione (“sociolatria”), il “dogma”, o disciplina dell’intelligenza (“sociologia”), e il “regime”, o disciplina dell’azione (“sociocrazia”).
Col primo si tratta soprattutto di valorizzare culturalmente la figura femminile, contro il fallocentrismo teologico-metafisico tipico dell’occidente, per marcare tutti i benefici mentali e sociali derivanti da una complementarietà, quella donna-uomo, sfruttabile all’interno di un dispositivo mentale nel quale le esigenze
della prima metà risultino esplicitamente “sotto-messe”, presupposte cioè come fondamento di qualsiasi
prestazione pratica o teorica.
Col “dogma” si tratta di ricapitolare ancora una volta le leggi che regolano i fenomeni inorganici vitali e morali, ma questa volta in maniera tale che possano essere oggetto di un apprendimento che non sacrifichi le
esigenze religiose di una psiche per la quale la “bellezza” e la “bontà” delle dimostrazioni valgono tanto
quanto vale la loro “verità”.
Col “regime” infine si tratta di prevedere una pratica governamentale, “artistica”e “educativa”, “industriale” e “amministrativa”, rispondente ad una logica dello sviluppo calibrata su di un’endiadi, quella tra umanità e mondo, dalla cui religione dipende la sopravvivenza sia del primo che del secondo termine.
Quest’opera, che ho tentato di riassumere nei suoi elementi narrativi centrali, e quest’ultima sezione in
particolare, nella quale Comte immagina con scrupolosa minuzia la fisionomia transitoria di un’Europa
(“Repubblica occidentale”) divisa in macro regioni produttive, con una moneta unica e un’unica lingua
(l’italiano), è quella da cui siaLittré che Mill reputavano doveroso distanziarsi. Maè anche quella che ci provoca di più consegnandoci da pensare una connettività globale misurabile in base alla crescita delle capacità pro capite piuttosto che in pase a quella del Pil.
Chiudo facendo mia, per quanto possa essere giudicata ingenua, la notazione di chi ha individuato, nei più
seri esperimenti esplicitamente improntati al comtismo completo, avvenuti soprattutto in America latina
all’indomani della decolonizzazione, un esito molto meno tanatopolitico di quello scaturito da tutte le altre
‘religioni politiche’ cui, in maniera più o meno confessata, si è ispirato il ‘900.
105
Sulla recente riscoperta della ‘religione politica’ di Comte ho tenuto presente, tra i lavori monografici più cospicui non
citati nel testo, le seguenti pubblicazioni:
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Bibliografia
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