Una nuova pubblicazione di Alessandro Savorelli

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Una nuova pubblicazione di Alessandro Savorelli
Alessandro Savorelli
ARALDICA E ARALDICA COMUNALE: UNA SINTESI STORICA
1.
Nei manuali di araldica non manca mai una sezione sull’araldica civica, ed esistono molte
monografie di carattere locale: alcune ottime; altre piuttosto superficiali, perché proiettano
sull’insieme del fenomeno valutazioni anacronistiche e approssimative, con scarso senso storicocritico e comparativistico. Una trattazione esauriente della materia non è mai stata scritta: dovrebbe
del resto padroneggiare una massa molto consistente di dati (non sempre facilmente reperibili) ed
estendersi all’arco di molti secoli, analizzando un’evoluzione non lineare e situazioni storiche molto
diverse. In queste pagine non potremo nemmeno impostare il problema nel suo insieme, ma ci
limiteremo a porci alcune domande preliminari, alle quali sarà possibile rispondere solo per grandi
linee1.
In primo luogo, qual è il peso dell’araldica civica, di un aspetto cioè che nasce collaterale e
secondario rispetto all’araldica ‘in generale’, e quale percezione se n’è avuta in passato? Quali sono
le sue differenze specifiche? ed è possibile quantificarle a livello continentale? Ed infine: qual è
l’apporto di questa ‘provincia’ minore, derivata, e spuria, alla formazione ed evoluzione del
linguaggio araldico, ossia di un sistema di segni che ha caratterizzato indelebilmente, nella sua
varietà, la cultura iconografica, la mentalità e l’immaginario del continente europeo? e in che
misura questo apporto si dimostra ancora vitale?
2.
C’è in primo luogo un problema di numeri di date e di numeri. Gran parte dell’araldica
comunale è, come in genere l’araldica impersonale, mediamente un po’ più tarda di quella
gentilizia, estesa a tutti gli strati della ‘nobiltà’ entro la metà del XIII s. Generalizzandosi verso la
metà del XIII s. e il Trecento e nel periodo successivo, l’araldica civica si presenta perciò, dal punto
di vista cronologico, come un aspetto del fenomeno araldico maturo2. È anche vero, tuttavia, che un
segmento dell’araldica delle città (quelle più importanti) di alcune aree europee, si situa
anteriormente alla metà del XIII s., ed è forse più antico di gran parte dell’araldica di molta nobiltà
‘minore’.
Quanto ai numeri, la marginalità dell’araldica civica è vistosa. Alla fine del medioevo, quando
la popolazione urbana era attorno al 12% del totale, si può stimare che esistessero circa 10.000
località con statuto o diritti urbani (metà tra Impero germanico, Polonia, Ungheria e Scandinavia,
1
È impossibile in questa sede offrire indicazioni bibliografiche, anche sommarie. A puro titolo indicativo ci limitiamo a
citare trattazioni che si estendono a una considerazione più generale del fenomeno, come: La ville et ses habitants.
Aspects généalogiques, héraldiques & emblematiques, Luxembourg 1999; Lexikon Städte und Wappen der Deutschen
Demokratischen Republik, Leipzig 19852; la monografia sui sigilli di E. KITTEL, Siegel, Braunschweig 1970, e il recente
W. SCHÖNTAG, Kommunale Siegel und Wappen in Südwestdeutschland. Ihre Bildersprache vom 12. bis zum 20.
Jahrhundert, Ostfildern 2010 (oltre, se ci è consentito, a V. FAVINI - A. SAVORELLI, Segni di Toscana. Identità e
territorio attraverso l'araldica dei comuni: storia e invenzione grafica (ss. XIII-XVII), Firenze 2006). Tra le raccolte,
menzioneremo solo, per la sua esemplarità filologica, J. ČAREK, Mestské znaky v ceských zemích [Stemmi civici
boemi], Praha 1985 e Armoiries communales en Belgique. Communes wallonnes, bruxelloises et germanophones,
Bruxelles 2002; per i sigilli: Corpus des sceaux français du moyen âge. 1. Les sceaux des villes, Paris 1980; Sigilli nel
Museo Nazionale del Bargello, a c. di A. Muzzi, B. Tomasello, A. Tori, vol. III, Firenze 1990. Vorrei ringraziare
Miguel Metelo de Seixas per le sue preziose osservazioni e informazioni su alcuni aspetti dell’araldica comunale
portoghese, di cui ho fatto tesoro nel saggio.
2
Cfr. per queste stime M. PASTOUREAU, Traité d'héraldique, Paris 19932, pp. 41-52. Ma cfr. anche le osservazioni di
carattere generale di H.J. v. BROCKHUSEN, Wetzlar und der Reichsadler im Kreis der Älterer Städtewappen,
«Mitteilungen d. Wetzlarer Geschichtsverein», 1954, pp. 93-126.
metà nell’Europa occidentale e meridionale): località molto diverse per tipologia, da autentiche
“città-stato”, a città soggette ma con larga autonomia, a piccole comunità giuridicamente
riconosciute, ma con autonomia assai limitata. Solo una parte delle città ha fatto uso, prima del
1500, di un apparato simbolico, ossia di un sigillo più o meno araldizzato o di uno stemma: la
maggior parte di quelle dell’area imperiale (dove il termine Stadt si applicava a una gamma molto
estesa di centri) e una élite più ristretta altrove. In Inghilterra e nella Francia centro-settentrionale
l’uso del sigillo nei centri muniti di privilegi di tipo urbano si limita a comunità in possesso di
un’amministrazione giuridicamente costituita: 250-300 in tutto. In Italia e in Provenza-Linguadoca,
invece, una quantità più rilevante di borghi, oltre le città vere e proprie, sviluppò istituzioni
comunali con un precoce uso del sigillo; in Spagna e Portogallo, delle centinaia di centri dotati di
fueros/foros, una buona parte deve aver fatto regolare uso di un sigillo, evoluto, tra i secoli XIVXV, nello stemma3.
In tutto siamo forse di fronte a 5000 sigilli/stemmi, qualcosa di più se si aggiunge un certo
numero di comunità non urbane araldicamente dotate (tra Paesi Bassi, Germania renana e
meridionale, Austria, Boemia e Italia). L’intero corpus dell’araldica comunale medievale può esser
compreso nelle dimensioni di un paio di stemmari ‘universali’ dell’epoca. Su un milione di stemmi
noti (il 40% dei quali ‘non nobili’)4, essa rappresenta lo 0,5% del totale, poco più se si considerano
anche le istituzioni del mondo urbano, officia, corporazioni, societates, etc., di cui sono note varie
centinaia di insegne.
Nell’inventario dei sigilli normanni di Demay, per esempio, il numero dei sigilli civici è
irrilevante5. Solo in aree dove le città ebbero grande sviluppo, si registrano valori più alti. In
Toscana l’insieme delle insegne pubbliche è attorno al 5-10%. In Fiandra, all’epoca di Carlo V, 66
stemmi di città e borghi stanno di fronte a circa 600 di signori (di cui un centinaio di alto rango),
dunque superano il 10%6; nelle carte araldiche della Fiandra Gallicana e dell’Hainaut di Martin
Doué (fine XVI s.- inizio XVII), gli stemmi cittadini sono il 5% e il 17% del totale7. Nell’inventario
dei sigilli fiamminghi di Demay, le città rappresentano il 4% del totale e sono in rapporto di 1 a 5
rispetto a quelli dei signori8. In generale, tuttavia, il confronto si può stabilire più adeguatamente
non con la gran massa degli stemmi personali, nobili e non, ma tra lo strato medio-superiore dei
centri urbani (circa 1300 città) e l’élite dell’alta e media aristocrazia, ossia con lo strato più antico
dei portatori di insegne araldiche (che in Francia, ad esempio, era il 16% del totale9, in Inghilterra
sommava circa 1300 tra baroni e cavalieri nel Trecento, mentre l’alta nobiltà imperiale può aver
contato varie centinaia di membri). Del resto negli stemmari europei due-trecenteschi, di carattere
nazionale o ‘universale’, ove sono rappresentati perlopiù l’aristocrazia feudale medio-alta e un
segmento di quella minore, sono comprese solo alcune decine di migliaia di stemmi. Con questa
élite e con l’alto clero, con gli elementi cioè della gerarchia feudale che tendevano a evolvere in
corpi ‘politici’ istituzionali, le città maggiori – che in Francia e nelle Fiandre saranno
significativamente chiamate bonnes villes – partecipavano alle diete e si conquistavano un posto di
crescente prestigio nella società, anche se di diverso peso nei vari paesi. Su questa base l’araldica
comunale è una frazione meno insignificante: i ranghi superiori delle città potrebbero stare
3
Cfr. F. MENENDEZ PIDAL DE NAVASCUES, Del emblema sigilar a las armerías de las ciudades; P. SAMEIRO,
L’héraldique municipale portugaise, entrambi in La ville et ses habitants, cit., pp. 309-322, 343-366. Per la Spagna si
veda anche A. RUCQUOI, Des villes nobles pour le Roi, in Realidad e imágenes del poder. España a fines de la Edad
Media, coordinación de A. Rucquoi, Valladolid 1988, pp. 195-214.
4
Cfr. M. PASTOUREAU, L’art héraldique au Moyen Age, Paris 2010, p. 42.
5
G. DEMAY, Inventaire des sceaux de la Normandie, Paris 1881.
6
Cfr. CORNEILLE GAILLARD, Le blason des armes suivi de l’armorial des villes etc., a cura di J. van Malderghem,
Bruxelles 1866.
7
Cfr. T. LEURIDAN, Armorial des communes du Département du Nord, Lille 1909.
8
G. DEMAY, Inventaire des sceaux de la Flandre, Paris 1873.
9
Dunque 5-6000 membri, cfr. P. CONTAMINE La noblesse au royaume de France de Philippe le Bel a Louis 12. Essai
de synthèse, Paris 1997, pp. 82-84.
mediamente in rapporto di 1 a 3 rispetto ai ‘baroni’ (che sono circa l’1/1,5% della nobiltà) e all’alto
clero, e di 1 a 10 rispetto alla media nobiltà.
Quanto alla ‘visibilità’, va detto che le città di alto-medio rango hanno avuto spesso occasione
di dotarsi di un’araldica formalizzata e di spiegare le loro insegne in circostanze e su supporti più
vari e in sedi istituzionali: principalmente come veicolo di riconoscimento giuridico-politico, e
persino (come nel caso dei comuni italiani e delle città imperiali e anseatiche), come insegne
militari (usate dalle città indipendenti, ma anche dai contingenti armati al servizio del sovrano,
come ad esempio in Portogallo), analogamente a quanto era avvenuto in origine per i cavalieri. La
costruzione di porte e mura e dei palazzi comunali (sia nei grandi centri, ma anche nella rete delle
piccole cittadine e – come in Italia – nei centri rurali), ha poi moltiplicato la presenza e la visibilità
delle insegne cittadine. Gran parte dei centri urbani secondari – che contavano poche centinaia di
abitanti – aveva naturalmente minori opportunità, anche architettoniche, di esibire uno stemma, e
questo spiega perché nella maggior parte dei casi esso, quando si è formato, ricalchi semplicemente
l’immagine sigillare, con struttura e figure talora poco congruenti con l’araldica classica. Occorre
anche ricordare che la perdita di molte fonti iconografiche medievali ci consente di valutare non
sempre con esattezza la presenza dell’araldica comunale nei centri minori: si sa ad esempio che il
comune di Bologna già nel XIII prescriveva alle piccole comunità del contado l’uso di proprie
insegne nei rispettivi contingenti militari, delle quali in seguito non è rimasta traccia estesa e
coerente10.
La nobiltà non ha preso in considerazione, per secoli, l’araldica impersonale (né quella dei
ceti non nobili, con qualche eccezione per i prelati), espungendola di fatto, benché lo fosse a pieno
titolo, dall’araldica in quanto tale. Bellatores e oratores hanno sempre tenuto a distanza il ‘terzo
stato’, i laboratores: anche in araldica. Il caso di Bartolo da Sassoferrato (De insignis et armis,
1358), che annovera tra i fenomeni araldici i marchi di fabbrica e le filigrane della carta (ma che
non parla di araldica comunale, benché il fenomeno gli dovesse essere ben noto), è isolato. La
trattatistica medievale e della prima età moderna ignora l’araldica comunale e impersonale11:
l’opera di Gaillard, dove gli stemmi delle città seguono quelli dei ‘pari’, e precedono quelli di
baroni, bannerets e cavalieri, è un’eccezione. La maggioranza degli stemmari medievali dà spazio
all’araldica di personaggi classici, letterari e biblici o a quella, apocrifa, di sovrani e paesi
extraeuropei, ma non mostra poca o nessuna attenzione a quella delle città: poche le deroghe, come
gli stemmari della Germania meridionale (Stuttgarter, Miltenberg, Ingeram del XV s., etc.), la
quindicina di stemmi civici del Tudor Book of Arms (Harleian mss. 2169 e 6163), le nove
dell’araldo Berry, etc. Di regola solo documenti provenienti dalla cultura urbana, come le cronache
italiane e svizzere (o quella del Concilio di Costanza di Ulrich von Richenthal) e i portolani, danno
spazio all’araldica comunale: per il mondo feudale-cavalleresco essa è una sfera opaca, quasi che le
città non avessero mai cessato di apparire come nel XII secolo il luogo infido dei romanzi arturiani
di Chrétien de Troyes, e il Comune il «detestabile nomen» di cui si doleva Ottone di Frisinga. Nella
sua vita parallela, l’araldica comunale è largamente tributaria – nel linguaggio, nelle regole, negli
usi, negli ‘ampliamenti’ – di quella nobile, ma non le trasmette niente in cambio. L’identità
simbolica urbana anzi, nell’indifferenza del mondo signorile, è talora severamente contrastata:
come nel caso del vescovo di Lione, che nega alla città l’uso del sigillo, dei signori di Penzlin
(Meclemburgo) che ostacolano l’uso delle insegne civiche sulle mura, o di Carlo I d’Angiò, che
fece spezzare i sigilli dei comuni (universitates) del regno di Napoli.
Solo tardi o sporadicamente i prìncipi mostrano interesse per l’araldica comunale,
promovendone raccolte (che nascono più per impulso o curiosità di eruditi o degli stessi araldi,
soprattutto nel ‘600: come il Tesouro da nobreza, e il Siebmacher del 1605 e la raccolta del De La
Planche, in Francia12) e inserendole in apparati decorativi, allo scopo di sottolineare l’inclusione
10
Cfr. S. NERI, Emblemi, stemmi e bandiere delle società d'armi bolognesi (secc. XIII-XIV), Firenze 1978.
Cfr. C. BOUDREAU, L'héritage Symbolique des Hérauts d'Armes: Dictionnaire Encyclopédique de l'Enseignement du
Blason Ancien (XIVe-XVIe s.), Paris 2006.
12
Edita da J. MEURGEY, Armoiries des provinces et villes de France, Paris 1929.
11
delle città nei corpi politici degli stati sovrani: così accade nella serie di armi civiche della
cattedrale di Pamplona13 e della ‘Corte Italiana’ di Kutná Hora in Boemia (XIV s.), dei sepolcri dei
Visconti (a Milano e Pavia), del castello di Rotenburg (Assia, XVI s.), della Curia del vescovo di
Bressanone/Brixen (Tirolo, XVII s.), in vari edifici, oggi perduti, del ducato del Württemberg, nella
decorazione granducale di Palazzo Vecchio a Firenze, nella citata cartografia fiamminga, nello
stemmario municipale portoghese redatto da Cristóvão Alão de Morais dopo il 1640, etc. Inoltre,
mentre ai suoi esordi l’araldica comunale è fenomeno spontaneo, a partire dal XV-XVI s. su di essa
è frequente l’intervento di sovrani e principi (soprattutto in Spagna, Inghilterra e Impero e Italia)
che concedono stemmi, li riformano e li autorizzano, tendendo a disciplinare la materia e a limitarne
l’uso. In ogni caso, tra i grandi ‘pavesi’ o apparati decorativi (su edifici, libri, opere d’arte, etc.),
quelli comunali sono di entità trascurabile, con qualche eccezione – di nuovo – in Italia, Svizzera e
Paesi Bassi.
Emarginazione e subordinazione dell’araldica comunale (insieme a fenomeni imitativi
omologanti e snaturanti di alcune sue caratteristiche originarie), pur a fronte dell’incremento
quantitativo che investe dal XVI s., in alcune aree, anche centri rurali non-urbani, vanno di pari
passo con l’affermazione dell’egemonia del ceto nobile sulle istituzioni politiche e sociali: la
nobiltà, come casta organizzata è più un’invenzione del mondo moderno che del medioevo. Il
quadro istituzionale sempre più irrigidito e monopolizzato da ristretti ceti aristocratici e l’eclisse
delle autonomie cittadine, nelle forme in cui s’erano affermate nel medioevo, conducono alla
codificazione dell’araldica come pratica di riconoscimento rituale della nobiltà e al rafforzamento
della presunta (ma mai più messa in discussione) ‘identità’ fra araldica e nobiltà, con l’appendice
crescente dell’araldica ecclesiastica. E ciò, nonostante la funzionalità originaria dell’araldica fosse
venuta meno. In questo panorama l’araldica comunale e le sue derivazioni occupano un posto
periferico, salvo nelle ‘confederazioni di repubbliche’, come la Svizzera e le Province Unite, e –
come fossile del grande passato repubblicano – nell’Italia centro-settentrionale.
Non sorprende che al termine di questo processo, l’alterità fra le ‘due araldiche’ fosse
codificata dal più noto teorico della materia tra Sei e Settecento, Claude-François Menestrier. Egli
definì gli stemmi, come gran parte dei suoi predecessori, «marques d’honneur pour la distinction
des familles»; poi vi aggiunse «et des communautez» (poiché secondo la scienza politica classica le
città sarebbero «grandes familles dont le Prince est le chef»)14, ma chiarendo che solo gli stemmi
nobili sono «marques d’honneur», mentre gli altri non sono che «marques de distinction».
Radicalizzando questa definizione, fino a teorizzare che si tratti di due «specie diverse», egli
sostenne che gli stemmi delle comunità (città, quartieri, comunità ecclesiastiche, mestieri, province,
Università etc.) servono solo «a farle riconoscere» tra di loro; sono anzi «impropriamente» chiamati
armoiries, trattandosi solo di «devises et signes», poiché le comunità «non fanno professione
d’armi», ma hanno bisogno di autenticarsi attraverso sigilli e stemmi sui trattati, gli statuti, gli
oggetti, le divise dei valletti, gli edifici etc. Riteneva infine che i marchi di nobiltà (che
sostituirebbero nel medioevo, per segni, il sistema patronimico romano) siano più recenti di quelli
di distinzione, già usati nell’antichità: il che non argomenta affatto per il prestigio di questi ultimi,
ma ne conferma e ne sposta all’indietro nel tempo il carattere non-araldico15.
L’identità nome=segno era già stata teorizzata da Bartolo da Sassoferrato («sicut enim
nomina inventa sunt ad cognoscendum homines, ita etiam ista insignia»)16. Menestrier tuttavia,
anziché inserire il sistema araldico in una ‘teoria dei segni’ – come un caso particolarmente
versatile e perciò diffusosi anche in altre cerchie sociali – traccia sin dall’inizio una differenza di
genere: il sistema patronimico patrizio antico e l’araldica servirebbero a distinguere non i soggetti,
ma il corpo dei nobili dai non nobili, mentre i segni ‘di distinzione’ identificano una comunità
rispetto a un’altra. Ben più moderno era l’approccio al tema di un suo contemporaneo, il filosofo
13
Cfr. F. MENENDEZ PIDAL DE NAVASCUES, cit., p. 319.
La méthode du blason, Paris 1688, pp. 7-9.
15
La nouvelle méthode raisonné du blason, Lyon 1734, pp. 1-2, 267 sgg.
16
De insignis et armis, a cura di M. Cignoni, Firenze 1998, p. 28.
14
napoletano Giambattista Vico, che riconobbe la continuità della funzione del segno araldico dai
«signori» alle «repubbliche popolari»17.
È superfluo sottolineare che il pregiudizio aristocratico mette Menestrier su una strada
storicamente del tutto falsa, che capovolge il reale processo storico: è semmai la pratica bellica e la
gerarchia feudale che portò al bisogno di identificazione tra i membri della cavalleria con segni che,
in seguito, solo stati intesi come marchi di distinzione sociale, e che sono stati imitati e assunti in
cerchie sociali non nobili. Le comunità, viceversa, non hanno inizialmente nessun bisogno di
distinguersi tra loro – non costituendo un corpo – ma semmai solo di legittimarsi all’esterno o in
una gerarchia sociale, assumendo un segno la cui funzione non è di distinzione, ma di
riconoscimento giuridico (sancendo l’uscita di ‘minorità’ di una comunità) e di identità culturale e
ideologica. Del resto è più facile trovare stemmi o sigilli identici in città anche vicine (sorprendente
la ripetitività delle croci nelle città italiane del nord o dell’aquila delle città imperiali), che stemmi
gentilizi identici in un ambito territoriale ristretto. Anche dal punto di vista empirico, la gamma dei
supporti e degli impieghi dei segni araldici è, pur se in misura diversa, comune alla nobiltà e alle
città: entrambe fanno uso di sigilli e vessilli, entrambe marcano documenti, proprietà, livree, edifici
etc. La differenza è dunque di quantità e opportunità, non di specie.
La separazione arbitraria dei due sistemi di segni operata da Menestrier non è convincente:
non è vero che quelli della nobiltà sono solo militari (sono anche marchi identitari e di proprietà)18,
e viceversa che quelli delle comunità non lo sono mai («non hanno niente di militare»)19. La vetrata
delle corporazioni di Strasburgo, ne mostra i membri in assetto di guerra, con i loro vessilli, in tutto
e per tutto simili a un reparto di cavalieri20; le bandiere di commende e città dell’Ordine Teutonico e
delle compagnie militari dei comuni italiani (le compagnie del ‘Popolo’) espongono figure
araldiche molto ‘seriali’, non diverse da quelle della cavalleria di un qualunque feudo. Dall’altro
lato, i sigilli equestri di signori e prìncipi sono l’esatto corrispondente dei segni cittadini impressi
sui sigilli, come le mura turrite e la raffigurazione dei magistrati civici; molti comuni italiani,
dominati dal ceto dei milites, si rappresentano nel sigillo con un cavaliere, divenuto qualche volta
una figura araldica (come ad Ancona, Spoleto, etc., o – in Portogallo – Évora, Elvas, etc.).
3.
Menestrier, coerentemente con la sua tesi generale, fornì una classificazione delle figure
araldiche, individuandone distinte tipologie per l’araldica nobile e per l’araldica comunale. Nella
prima – a parte i segni speciali di sudditanza, di ufficio, dignità etc. – distingueva tra le armi
‘parlanti’ e tutte le altre, quelle «più difficili a spiegare» (perché il motivo della scelta di una figura
non è palese), cioè contenenti le figure araldiche in senso proprio. Nella seconda, oltre gli stemmi
parlanti, quelli con figure allusive di carattere religioso, topografico, architettonico, professionale,
etc. Sintomatico della sua interpretazione, è il fatto che egli trascura la presenza di figure araldiche
(pezze e partizioni) negli stemmi comunali, come se queste fossero appannaggio dell’araldica
nobile (il che è vero solo in parte) e interpretando anche i casi più evidenti come figure allusive: i
pali e i decusse delle città olandesi sarebbero il pittogramma di canali e dighe, le croci dei comuni
italiani un simbolo di partitanza guelfa. Se in generale le tesi di Menestrier sono opinabili, egli
aveva intuìto tuttavia, attraverso questa classificazione, che la differenza tra araldica nobile e
araldica comunale è principalmente di struttura semantica e non di funzionalità e di origine, come
invece mostrava di credere.
Noi possiamo tentare di ridurre la struttura semantica degli stemmi a tre tipi, basati sul diverso
valore che assumono le figure dello scudo. Si noti bene, le stesse figure, perché quasi tutte – una
fascia, un leone, un giglio, etc. – sono equivoche e possono rivestire significati differenti.
17
G.B. VICO, La scienza nuova prima, Bari 1931, pp. 57, 185-186; La scienza nuova, Bari 1928, II, pp. 180, 206, 207208.
18
Cfr. M. PASTOUREAU, Une histoire symbolique du Moyen Age occidental, Paris 2004, pp. 222-225.
19
C.F. MENESTRIER, La nouvelle méthode, cit., p. 277.
20
Cfr.: http://drapeaualsace.free.fr/zunftfahnen.htm
(1) Nel primo tipo – che chiameremo astratto – le figure (pezze, partizioni, animali, oggetti
etc.) non sono ‘pittogrammi’ e non rappresentano perciò un ‘concetto’: sono puri ‘segni’ privi di
‘significato’ e di contenuto simbolico. La loro funzione è unicamente di indicare – o stare per – il
loro possessore.
(2) Nel caso degli stemmi parlanti la figura è un ‘pittogramma’ o ‘icona’ e ha un significato
specifico e un contenuto concettuale: il nome del possessore. Quest’ultimo, qualora si presti dal
punto di vista linguistico (anche falsamente), è richiamato da una figura concreta o da un ‘gioco di
parole’ o anche solo da una espressione alfabetica (una iniziale, un monogramma, etc.).
(3) Il terzo tipo, il più vario, è quello allusivo. La figura qui non rappresenta direttamente il
possessore o il suo nome, ma un diverso concetto o significato, che il possessore assume come
riferimento identitario e che delega a rappresentarlo simbolicamente. In questa struttura,
diversamente dalle prime due, il segno si è perciò trasformato, da segno e icona come nei due tipi
precedenti, in ‘simbolo’. Ne vedremo più avanti le diverse modalità.
Dovrebbe già essere evidente che l’araldica gentilizia è quasi completamente rappresentata dai
tipi (1) e (2). La maggior parte degli stemmi presenta figure araldiche (suddivise pariteticamente fra
pezze/partizioni, animali e figure secondarie, con poche ‘figure comuni’), che sono dei puri ‘segni’
astratti (1), e un 20-25% di stemmi parlanti (2): una robusta minoranza che tende via via ad
aumentare21. Solo in misura ridotta (e non sempre perspicua), invece, le figure esprimono contenuti
allusivi di tipo politico (segni di vassallaggio e parentela, brisure) o un troppo vago e generico
contenuto simbolico (per il comune simbolismo attribuito al leone, all’aquila, al giglio etc.; Il tipo
‘allusivo’ vero e proprio (a caratteristiche personali, eventi, funzioni etc.), è quasi assente dagli
stemmi gentilizi, e spesso è frutto di costruzioni apocrife, leggendarie e letterarie fabbricate ex post
sull’origine e il significato presunto di una figura.
Tutto al contrario nell’araldica comunale. Essa è connotata da una ridotta presenza del tipo
astratto (1), da una altrettanto forte presenza del tipo parlante (2), ma, soprattutto, dalla netta
prevalenza del tipo allusivo o simbolico (3), fenomeno che costituisce dunque la vera e propria
differenza specifica rispetto all’araldica gentilizia. L’araldica delle comunità non ‘si accontenta’ – o
non ha bisogno – di un segno astratto di identificazione: fa largo uso del tipo parlante (il modo più
semplice e classico per dire il proprio nome), ma, soprattutto, si rivolge a una simbologia più
pregnante di riferimenti a significati, concetti e contenuti più o meno fortemente identitari per la
collettività (talvolta di carattere quasi totemico). Attraverso questa tendenza l’araldica comunale
costituisce una cesura molto meno netta dell’araldica gentilizia rispetto alla simbologia
dell’antichità e del suo prolungamento nell’alto medioevo: l’iconografia e la monetazione antiche
delle città erano in gran parte basate sul tipo allusivo (con figure di eroi, divinità, oggetti, animali,
vegetali etc.). Il che da un lato autorizzava gli eruditi e i trattatisti barocchi a collocare falsamente
l’origine dell’araldica nella remota antichità, dall’altro legittima la tesi moderna che vede confluire
nel sistema araldico molto materiale iconografico pre-araldico altomedievale.
Il tipo allusivo è classificato variamente dagli studiosi. Noi vi identifichiamo cinque modi
distinti (salvo rari casi che non vi rientrano):
a) segni politici (esprimono sudditanza o vassallaggio, perlopiù attraverso l’assunzione o l’aggiunta di armi di
signori e sovrani e varianti – sorta di brisure – delle medesime)
b) religiosi (generici segni religiosi; allusione a un santo protettore, sia in forma della immagine del santo, dei suoi
‘attributi’ o di un episodio della sua vita o a un elemento del culto)
c) architettonici (mura della città, edifici – anche ‘realistici’ – e parti di essi, ponti, etc.)
d) topografici (un elemento naturale specifico: monti, corsi d’acqua, mare, boschi etc.)
e) economici (riferimenti ad attività economiche predominanti)
f) storico-leggendari (fatti ed eventi significativi della tradizione locale).
È da notare inoltre che, diversamente dagli stemmi gentilizi, che di solito usano un solo tipo,
quelli comunali si presentano molto spesso in forma mista, unendo variamente i tre tipi principali e i
21
M. PASTOUREAU, Une histoire symbolique du Moyen Age occidental, cit., p. 231.
sottogruppi del tipo allusivo: e si danno anche casi in cui la stessa figura può avere un valore
semantico equivoco, potendo essere rubricata contemporaneamente in tipi e gruppi diversi (per
esempio: nello stemma di una località che prenda il nome da un santo, l’immagine del santo nello
stemma è insieme parlante e allusivo-religiosa, etc.). L’araldica civica tende a rappresentarsi con un
sistema di segni identitario ‘plurale’: presso molti grandi comuni italiani, questa pluralità si
distribuisce in scudi distinti, che formano un pavese; altrove si concentra in un solo scudo, con
figure plurime.
Gli studi sull’araldica comunale accentuano o escludono alcuni di questi tipi e gruppi (a
seconda delle caratteristiche locali), mentre le trattazioni generali si limitano ad elencarli
sommariamente: manca dunque un quadro statistico complessivo, che consenta di delineare un
panorama significativo dei caratteri specifici dell’araldica comunale.
Per ovviare a questa lacuna, analizzeremo qui i dati relativi agli stemmi di 5.200 città e
comunità medievali, suddivise in quattro liste. Le prime tre (A-B-C: 3000 centri) comprendono città
“privilegiate” (per esempio convocate alle diete nazionali e locali) o comunque sottoposte
direttamente a sovrani e a grandi principati, suddivise in: città più rilevanti (A: 627), uno strato
medio/medio-alto di comunità (B: 685), centri minori (C: 1700); la quarta lista (D: 2000), molto
meno omogenea e completa, è un campione di centri meno importanti, talora “mediati”, ossia
dipendenti da signorie locali, con una tradizione araldica più recente e meno documentata. Quasi
tutte queste località (soprattutto nelle prime tre liste) hanno posseduto un’insegna pubblica entro il
1500 o poco oltre: nella prima metà del Duecento le città più importanti, fra il Due-Trecento lo
strato intermedio, i centri minori tra XIV e XV secolo22.
Nelle tabelle che seguono, per brevità, esporremo solo i dati delle liste più complete A-B-C (i
dati della lista D non si discostano significativamente da quelli della lista C)23. Si tenga conto del
fatto che il totale delle %, calcolate sul numero delle città, è superiore a 100 per via – come si è
detto – della presenza simultanea di figure di diverso tipo in uno stesso stemma). Il risultato
complessivo mostra che i tre tipi sopra menzionati hanno indici di frequenza molto diversi:
A
B
C
(totale)
(1) astratto
30%
27%
6%
16%
(2) parlante
26%
39%
28%
30%
(3) allusivo24
84%
70%
76%
75%
È facile constatare che il tipo allusivo predomina largamente; che la frequenza di quello
parlante è un po’ superiore che negli stemmi gentilizi (30% contro 20-25%), ma non quanto ci si
potrebbe immaginare, dal momento che si ripete comunemente – ed erroneamente – che gli stemmi
parlanti sarebbero più caratteristici delle città; e che infine, viceversa, il tipo astratto – dominante
nell’araldica gentilizia – cala bruscamente, decrescendo proporzionalmente al rango delle città.
22
Pur con margini di errore e discrezionalità, il quadro statistico offerto è tendenzialmente attendibile (non abbiamo
spazio per considerare i criteri di compilazione delle liste e della valutazione delle tipologie araldiche). Le città sono
suddivise secondo i confini approssimativi di stato o unità tradizionali medievali, come segue: area italiana (Italia
centro-settentrionale; Regno di Napoli; Dalmazia); area iberica (Castiglia, Navarra, Aragona, Portogallo); area francese
(Francia, Lorena, Franca Contea e Savoia); area britannica (Inghilterra, Irlanda, Scozia); area ‘germanica’ (o
germanico-orientale e scandinava: Impero, ossia Germania e Austria, Paesi Bassi, Svizzera, Boemia, Prussia, Polonia,
Ungheria, Scandinavia).
23
L’analisi di un ulteriore campione di 400 comunità non-urbane dell’Italia centro-settentrionale (con stemmi e sigilli
generalmente anteriori al XVI s.) dà risultati leggermente diversi, ma con una progressione simile fra i tre tipi: astratto:
18%; parlante: 44%; allusivo: 63%.
24
Tra le figure di tipo allusivo-politico si computano solo l’assunzione diretta di uno stemma di un sovrano o signore, o
una brisura dello stesso, cioè quelle figure che costituiscono – sebbene mutuate da uno stemma altrui – l’arme originaria
della città: non si tiene conto degli ‘ampliamenti’ (inquarti, capi, etc.), cioè di aggiunte posteriori che, tuttavia si trovano
mediamente circa in un numero rilevante di centri, circa nel 30% degli stemmi, con oscillazioni locali anche importanti.
Se si raffina il calcolo percentuale relativamente alle singole aree, si ottengono risultati che
oscillano attorno alla media o se ne discostano, anche vistosamente:
area italiana
A
B
C
area iberica
A
B
C
area francese
A
B
C
area britannica
A
B
C
area ‘germanica’ A
B
C
(1) astratto
78%
59%
26%
9%
8%
28%
16%
6%
7%
4%
3%
22%
14%
4%
(2) parlante
19%
52%
42%
25%
50%
31%
24%
47%
33%
26%
26%
14%
31%
25%
25%
(3) allusivo
53%
65%
49%
115%
84%
87%
90%
53%
59%
89%
82%
99%
83%
76%
81%
Il dato più significativo in questa tabella è quello relativo al tipo astratto, per il quale la media
continentale è ‘bugiarda’: esso raggiunge infatti percentuali-limite solo in Italia, molto oltre il 50%,
con una punta del 93-83% nelle liste (A-B) del Centro-nord, del 50% nella lista (A) del Sud (e
decrescenti via via da Nord a Sud e secondo il rango delle località). Fuori d’Italia, se si disaggrega
il calcolo, percentuali significative di questo tipo si trovano solo in zone molto determinate:
Francia Settentrionale (A)
50%
Francia Meridionale (A)
Paesi Bassi (A-B)
Città imperiali tedesche (A-B)
Germania Settentrionale (A)
Prussia (A)
Svizzera (A-B)
39%
41-39%
29-30%
36%
28%
55-33%
In tutte le altre liste e aree la percentuale è inferiore (talora di molto) al 20%. Questi dati
mostrano che il tipo astratto è diffuso soprattutto in speciali gruppi di città con rilevante autonomia
(in Francia i comuni del Nord e le città consolari del Sud, i comuni italiani, le città anseatiche,
fiamminghe e olandesi, le città imperiali e svizzere). È evidente che in queste città l’uso di pezze,
partizioni e totem animaleschi deriva da vessilli militari, del tutto analoghi a quelli del mondo
feudale-cavalleresco: è anche da rilevare che in larga misura lo stemma di queste città si discosta
dalla figura del sigillo, che contiene assai più spesso figure parlanti e allusive. Occorre aggiungere
che in varie città, col tempo, l’uso di segni astratti, derivanti da vessilli militari, può essere andato
perduto25.
Nelle città minori le cose vanno diversamente: questi centri attingono in larga parte dai loro
sigilli segni di carattere giuridico, non militare, e perciò immagini di carattere figurativo, non
astratto, che tendono poi a fissarsi o rispettando il modello e la composizione del sigillo (attorno al
30% dei casi), o araldizzando in diverso grado le figure dello stesso. Il genere del supporto fisico è
dunque una circostanza determinante per la formazione degli stemmi.
È interessante anche stabilire come si ripartiscano le figure di tipo allusivo:
area italiana
area iberica
area francese
area britannica
area germanica
Totale
25
A
B
C
A
B
C
A
B
C
A
B
C
A
B
C
politico
6%
8%
10%
20%
10%
12%
43%
17%
24%
23%
15%
15%
35%
31%
26%
22%
religioso
12%
14%
7%
21%
10%
8%
18%
8%
8%
21%
26%
16%
17%
9%
14%
12%
architettonico
14%
30%
21%
42%
46%
47%
18%
20%
17%
28%
30%
22%
21%
26%
25%
26%
altro
21%
13%
9%
32%
18%
20%
11%
8%
10%
17%
11%
46%
10%
10%
16%
15%
Ne ho proposto qualche esempio in «Dignum cernite signum». Stile "sfragistico" e stile "araldico" negli stemmi delle
città medievali, «Archives héraldiques suisses», CXII, 1997, II, pp. 91-113. È forse il caso della stessa Lisbona, che
potrebbe aver usato in origine una semplice ‘banda’ come insegna vessillare.
La tabella rivela un certo equilibrio tra i quattro gruppi, anche se il modello architettonico
prevale. La figura stilizzata della città o di una sua parte essenziale, ossia l’autoritratto fisico della
città stessa, corrisponde in un certo senso ai sigilli signorili di tipo equestre, ed è l’aspetto più
vistoso dei sigilli civici: in Spagna e Portogallo è la figura dominante, sfiorando il 50%. Assai più
contenuta la frequenza delle figure religiose, con una media molto costante. Il tipo politico invece
oscilla ampiamente: è al minimo nelle città italiane, per la loro condizione di città libere, e aumenta
nei paesi di forte struttura feudale, come la Francia e le terre imperiali. Molte città, anche
importanti, soggette a principi laici ed ecclesiastici, soprattutto tra Paesi Bassi e Germania,
assumono infatti o variano lo stemma signorile: nel che è da vedere un sintomo della loro
subalternità politica, ma – nelle città più importanti – anche un segno di privilegio, e addirittura, ove
lo stemma sia coscientemente ‘brisato’, di spiccata autonomia. Molto ampia invece è la varietà dei
riferimenti allusivi che non rientrano in questi tre primi gruppi: si va dai simboli dell’attività
marinara (tra Atlantico e Mare del Nord) e mineraria (tra Germania, Boemia e Ungheria), alla
raffigurazione naturalistica del sovrano, assai presente in Spagna, alla memoria di leggende o
episodi storici locali, e – ovunque – a elementi stilizzati del paesaggio. Si tratta dunque – dato che
insieme non oltrepassano il 15% – di segni identitari abbastanza marginali.
4.
Siamo in grado ora di tentare una risposta all’ultimo quesito: qual è il contributo dell’araldica
civica alla storia dell’araldica, e più in generale dei sistemi simbolici occidentali? Se Menestrier
estremizzava, è indubbio però che l’alterità di molta araldica comunale rispetto a quella gentilizia
esiste: anche il profano, confrontando uno stemmario classico, come il Rotolo di Zurigo, Gelre, il
Toson d’oro, il Livro do Armeiro Mor o il Grüneberg, con un qualunque stemmario comunale, ha la
sensazione di cose molto diverse: gli stemmi comunali gli potrebbero persino ricordargli quelli dei
club di football o le brand-images aziendali. Gli araldisti tedeschi hanno coniato il termine
Afterheraldik per designare la generatio aequivoca e la decadenza formale dell’araldica comunale
rispetto a quella classica, fenomeno accentuatosi in epoca contemporanea, quando l’araldica
comunale ha avuto un immenso sviluppo, non sempre qualitativamente accettabile: se aree come
Portogallo, Catalogna, Scandinavia e Svizzera sono in genere di buon livello, non altrettanto si può
dire della Francia (assai monotona) o dell’araldica comunale italiana, spesso impresentabile e
sciatta. È indubbio che la rinuncia al ‘segno’ in favore del ‘simbolo’, e perciò il bisogno di un
repertorio di figure diverso da quello classico, e l’ispirazione tratta dalla configurazione
naturalistica, complessa e non-araldica o proprio anti-araldica dei sigilli, possa essere letta in questa
direzione. L’origine segna pesantemente le scelte figurative e di struttura e perciò la qualità
complessiva: semplicità e visibilità ottica per lo scudo del cavaliere, complicatezza per lo strumento
di autenticazione sigillare.
Se tuttavia guardiamo al fenomeno con occhio storico più sereno e nel lungo periodo, possiamo
sfumare questo giudizio e giungere a conclusioni molto diverse.
Innanzi tutto occorre ammettere che tutta l’araldica, anche quella personale, andò incontro a
processi degenerativi, dal ‘500 in poi: la stanchezza dello stile tardo – è un dato su cui tutti
convengono – segnò l’abbandono del vigoroso tratto gotico che era la legge non scritta dello stile
araldico, «the nicest combination of boldness and discretion»26. Ma, come vedremo, il fatto più
importante è che decisivi mutamenti avvennero non tanto e non solo sul piano stilistico e formale,
ma in un altro ambito.
Occorre in primo luogo dire che l’araldica civica non è stato sempre passiva rispetto a quella
gentilizia. Certo ne ricavò il codice iconico, le regole di base, gli usi, il modello figurativo: a
cominciare dall’assunzione, bizzarra per una entità impersonale, dello scudo come contenitore
principale (ma non unico) dei segni. Si tratta quindi di una subalternità in primo luogo ‘culturale’.
Nell’adattare questa eredità alle sue esigenze simboliche, l’araldica comunale agì però
selettivamente su di essa, con un proprio tono o stile specifico, rinunciando a una parte delle figure
classiche e favorendone l’ampliamento in altre direzioni. La prima vistosa selezione avvenne
attraverso una drastica riduzione delle figure ‘secondarie’ di piccola taglia (bisanti, biglietti, gigli,
crescenti, crocette, anelli, merlettes, etc.), della diversificazione dei contorni delle pezze e dell’uso
di particolari elementi come le pellicce. La struttura dello scudo gentilizio proviene essenzialmente
dalla logica combinatoria, con possibilità quasi infinite, tra figure principali (pezze, partizioni,
animali etc.), figure secondarie (che accompagnano, accostano e caricano quelle principali secondo
pochi schemi fissi), variazioni dei bordi e iterazione (come i seminati) di tutti questi dettagli.
L’araldica comunale non ha nessuna sensibilità per questo tipo di combinatoria seriale: e non ne ha
nemmeno bisogno, perché non avverte l’esigenza di variare combinazioni su grandi numeri. La sua
combinatoria, come si è visto, non è di segni, ma di concetti. In linea di massima non è rilevante la
distinzione tra figure principali e secondarie: nello stemma di Porto, per fare un esempio, le quinas,
le mura e l’immagine agiografica hanno pressoché lo stesso peso e valore simbolico.
Rinuncia, dunque, a un’ampia porzione del repertorio araldico classico, e (salvo qualche caso)
alla tendenza, che si verifica tardi nell’araldica gentilizia, ma che assume poi forme parossistiche,
alla moltiplicazione dei quarti: per certi aspetti, pur usando e unendo figure più complesse,
l’araldica comunale è più conservatrice, mentre l’accumulo dei quarti nell’araldica gentilizia
vanifica il presupposto iniziale della visibilità a favore della espressione di una pluralità di
messaggi. Ancora: l’araldica delle città più autonome non ha niente da invidiare alla semplicità
della grande araldica delle origini, nell’uso di pezze, partizioni e figure comuni; e anzi in Italia essa
viene estesa ineccepibilmente, tra Due e Trecento, a insegne di quartieri cittadini, di corporazioni e
societates militari (Firenze, Bologna, Siena, Roma etc.: se ne conoscono in tutto circa 300, ma
molte sono scomparse con la fine dei regimi ‘repubblicani’) e persino a team rionali di giochi
popolari e di piazza: qui non si scorge nessuna differenza formale di principio dall’araldica nobile27.
26
A. WAGNER, Heraldry in England, London-New York 1946, p. 25. Cfr. anche M. PASTOUREAU, Traité d'héraldique,
cit., pp. 70-72.
27
Cfr. su questi aspetti V. FAVINI - A. SAVORELLI, Segni di Toscana, cit., pp. 147-181.
Viceversa l’araldica comunale – e questo può essere considerato un acquisto e insieme una perdita –
amplia il repertorio delle figure, introducendone di nuove per venire incontro alle sue esigenze
simbolico-identitarie: qualche volta ciò provoca l’adozione di figure, diremmo imbarazzanti dal
punto di vista araldico puro, per il loro naturalismo e la loro prospettiva tridimensionale (fino a
configurare non più segni, ma infantili quadretti di genere) o per i cervellotici e volgari calembour
escogitati per il tipo parlante. L’esito è ora pedestre come il facchino che trasporta un sacco su un
ponte del comune di Ponsacco (Toscana); ora curiosamente ironico, come il ‘contadino azzurro’
dello stemma di Blaubeuren (Svevia). La figura umana, in generale, così come l’uso delle lettere
dell’alfabeto, è, araldicamente, quasi un’eresia.
Meno negativa è la moltiplicazione di figure come gli edifici e gli elementi del paesaggio, che
non mancano nell’araldica gentilizia, ma ai quali l’araldica comunale ha dato largo impulso. I
‘monti all’italiana’ di molti comuni d’Italia centrale sono una figura estremamente innovativa; e
quanto alle mura e alle torri, appena stilizzate nell’araldica nobile, la loro resa grafica, nei modelli
gotici più puri derivati dai sigilli, è assai efficace: soprattutto in Portogallo, Spagna, Germania e
Boemia. L’efficacia, o meno, per la verità, dipende dalla capacità dell’esecutore, più che dal
soggetto: le ottime stilizzazioni degli edifici dal sigillo allo scudo, in Germania e Boemia, nella
penisola iberica, in Italia o nel Midi francese, stanno a dimostrarlo. Un altro gruppo di figure cui i
trattatisti guardavano con diffidenza, se non con disprezzo e pregiudizio ‘di classe’ (si sa che uno
dei contrassegni delle nobiltà era l’astensione dalle attività meccaniche), sono quelle relative alle
professioni. Eppure, non solo i segni delle città minerarie e le navi – se adeguatamente stilizzate –
sono figure araldicamente nuove e vivaci, ma l’intera gamma degli attrezzi e dei prodotti delle
professioni e dei mercanti hanno dato luogo a un’araldica delle corporazioni del tutto originale che
ha concesso dignità di segno agli oggetti del lavoro e non più solo a quelli della guerra: le serie
degli stemmi e vessilli di corporazioni di Bruges, Gand, Strasburgo, Colonia, Praga, Basilea,
Zurigo, Berna, Bologna, Firenze e le molte altre centinaia, soprattutto quelle risalenti al medioevo
maturo, sono araldicamente di grande qualità. L’ambiente urbano ha dunque in parte conservato il
lessico araldico più puro e in parte ha contribuito a un rinnovamento positivo del codice iconico più
antico.
Queste valutazioni potrebbero apparire di carattere estetico: è indubbio che in questo ambito
l’araldica civica più scadente è vulnerabile, ma noi vorremmo spingere il discorso in una direzione
assai più radicale.
A nostro modo di vedere, l’involuzione più notevole del’araldica, non fu dovuta al sopravvenire
dell’araldica impersonale, ma sorse all’interno della stessa araldica nobile, ove si registra (in misura
modesta nel tardo medioevo, e poi in forma appariscente nell’età moderna) uno stravolgimento
degli aspetti formali e delle funzionalità originaria del sistema, che configura quasi un passaggio ad
aliud genus: è stata questa trasformazione a interrompere in maniera decisiva la presunta continuità
del fenomeno araldico dalle origini ad oggi, assai più che l’espansione del sistema fuori del ceto
nobile.
Non alludiamo più ora a quanto si è già accennato (perdita di visibilità, accumulazione di segni,
involuzione del linguaggio iconico), ma al mutamento del sistema araldico originario causato
dall’uso invadente del timbro e degli accessori dello scudo. Da essenziale sistema di segni che
sostituisce il nome, attraverso questi elementi, talora inutili e ridondanti, l’araldica – parallelamente
alla gerarchizzazione sociale e alla cosiddetta «reazione nobiliare»28 – divenne espressione
complessa della collocazione di rango di un individuo o di una famiglia e ambì a rappresentare
l’intera costellazione ideologica della loro posizione politica, culturale e sociale. Mentre l’araldica
delle origini di fatto non distingue categorie sociali di individui, quella senile assume
ossessivamente come suo scopo principale questa distinzione. Graficamente, ciò conduce alla
esibizione, non di un segno, ma di un curriculum, con l’effetto goffo di un biglietto da visita
28
Cfr. M. PASTOUREAU, Traité d'héraldique, cit., p. 67; H. ZUG TUCCI, Un linguaggio feudale: l'araldica, in Storia
d'Italia. Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978. p. 869. J.P. LABATUT, Les noblesses européennes de la
fin du XVe s. à la fin du XVIIIe s., Paris 1978, “Introduction”.
sovraccarico di titoli. Questa tendenza si era già manifestata, ma assai più sobriamente e
prevalentemente sul piano decorativo, con la valorizzazione del cimiero come attributo personale e
con lo sviluppo delle imprese, come segni di identità spirituale, morale e culturale: questi segni
tuttavia costituirono solo un sistema a latere di quello principale, non privo di una sua freschezza29.
L’invadenza crescente e incontrollabile del timbro provocò invece una maldestra fusione del
sistema araldico con la logica derivata dalle imprese, generando una tendenza all’accumulazione di
sistemi di segni paralleli, integrati in una sola immagine, non più compatibile col modello originale.
Araldica nobile ed ecclesiastica fecero a gara nel praticare questa strada.
Nel timbro d’età moderna e barocca, con l’intenzione di palesare una serie di significati
molteplici, senza rinunciare però al gusto esoterico del bizzarro e dell’enigmatico, tendono a
confluire due sistemi di segni di diversa natura: da un lato segni burocratici di rango (corone – per
le quali si ebbe un crescente, meticoloso culto – elmi, cappelli, etc.), di sudditanza, marchi di
dignità civile, ecclesiastica e militare e officia, insegne di ordini cavallereschi e società d’armi;
dall’altro una profluvie di componenti decorative, ideologiche e retoriche di gusto tardo-umanistico,
come sottoprodotto del sistema delle imprese: tenenti, sostegni, bandiere e pennoni, motti, lacci,
nastri, manti, emblemi religiosi, militaria etc. La moda dilagò in tutti i paesi, ma principalmente in
Inghilterra, Spagna e area germanica.
Il sistema araldico originario non resse il peso di questo accumulo, collassando in direzione di
un allegorismo contaminato col gusto umanistico-decadente per la classicità, come segno di
distinzione culturale oltre che sociale. Il risultato – paradossale! – fu la retrocessione dello scudo a
elemento meno significante e si potrebbe persino dire, ad accessorio tra gli accessori, tollerato solo
per la sua onorifica vetustà. In un composito blasone, completo di tutti i suoi elementi, che la
trattatistica elencava minuziosamente e con autocompiacimento, lo scudo implode e finisce per
venir soffocato dai segni allotri. Il sistema medievale viene stravolto col recupero incongruo
dell’iconografia antica tardo-imperiale e con la costruzione di una complicata panoplia. Questa
stereotipa imagérie cortigiana, nel dichiararsi erede della struttura araldica tradizionale (scudo,
scudo/cimiero), contrabbandava in fondo un modello completamente diverso: una variante erudita
del trofeo d’armi classico. L’esito che ne risulta è qualcosa a mezza strada tra un arredamento
troppo carico di chincaglieria, e un monumento funebre: ma non più un’arme come era nello spirito
dell’araldica. L’accumulazione crea un ibrido ingestibile tra figure bidimensionali (proprie
dell’araldica: una creazione dell’arte «romanica», ha detto efficacemente Pastoureau, schiacciata su
un piano) e tridimensionali. Lo stemma cessa di essere un’immagine, per diventare l’immagine
intellettualistica di un complesso di altre immagini a guisa di una macchina teatrale.
Possiamo dunque parlare in un certo senso, non di una evoluzione dell’araldica, ma di una
seconda araldica, quella propria della nobiltà moderna, che non ha voluto rinunciare al messaggio
originario, storpiandolo e sforzandosi di renderlo adatto – con un esito improprio – a mutate
condizioni sociali e giuridiche e a nuovi bisogni ideologici di ceto.
Di nuovo paradossalmente, il timbro, accosta l’araldica nobile alle esigenze dell’araldica
impersonale, disponendo attorno allo scudo un sistema di allusioni ed informazioni, che possono
essere preziose per noi oggi sul piano filologico, ma che lo scudo non conteneva e non avrebbe
potuto contenere. La differenza sta però nel fatto che l’araldica impersonale – e questo è il suo
apporto in definitiva al sistema di segni araldico – aveva tentato coraggiosamente di piegare il
sistema a esigenze identitarie, inserendo elementi allusivi di vario genere, come si è visto, nello
scudo stesso: intorbidando sì lo scudo, talora, ma senza farlo deflagrare in una struttura enfatica.
Essa si arrestò ad uno stadio abbastanza embrionale del processo in atto nell’araldica nobile: poche
città e abbastanza tardi (soprattutto in Inghilterra, Germania nord-orientale e Boemia) hanno
adottato un timbro (prescindendo naturalmente dalla prassi moderna delle – a nostro parere
sgradevoli – corone civiche), per imitazione dell’araldica nobile o per concessioni dall’alto. Non
bisogna invece scambiare gli elementi accessori, puramente estetici, che si aggiungono talora agli
29
Cfr. M. PASTOUREAU, Traité d'héraldique, cit., pp. 205 sgg.
scudi civici nel periodo rinascimentale-barocco, per elementi qualificanti: si tratta in realtà solo di
effimeri adattamenti al gusto d’epoca (mascheroni, supporti occasionali etc.), e non significanti. Se
la maggior parte della città avessero tentato sistematicamente – come i nobili – di esprimere gli
elementi costitutivi del proprio immaginario e della propria identità e ‘differenza’ storica, giuridica,
culturale, religiosa etc., col sistema del timbro, il risultato sarebbe stato una ancora più illeggibile e
pletorica enciclopedia di segni.
L’araldica civica, in conclusione, ha costituito tacitamente una linea di parziale resistenza alla
corruzione e all’inutile complicazione del sistema araldico e ha finito – di nuovo, paradossalmente –
per conservarne alcuni caratteri più genuini. Questo apporto non è privo di conseguenze storiche. La
degenerazione dell’araldica nobile ha condotto, col crollo con l’ancien régime e la sua fossilizzata
appendice otto-novecentesca, a una sua completa eclisse. Dotata ormai solo di interesse storicodocumentario, l’araldica nobile, o ciò che ne sopravvive stancamente (nei paesi dove sussistono
istituzioni ufficiali della nobiltà), è priva oggi di una riconoscibilità socialmente diffusa: il che è
l’effetto opposto a quello che si prefiggeva l’araldica antica! La percezione comune, in sé erronea,
dell’esoterismo dell’araldica, è in qualche modo giustificata dall’esclusivismo castale ed
autoreferenziale della superstite araldica nobile e dalle forme che essa assunse tra XVI e XIX
secolo. La sua eredità – concettuale e formale – è da scorgersi piuttosto, tristemente, nella
modestissima e giustamente ignorata araldica militare, poliziesca, e istituzional-burocratica degli
apparati di Stato moderni.
L’araldica impersonale, al contrario (e in particolare quella civica), resistendo in qualche
misura al trend ipertrofico dell’araldica della decadenza e praticando un equilibrio talora riuscito fra
sistema segnico e sfera dei significati, ha trasmesso, sopravvivendo, alla grafica della
comunicazione e ad esigenze identitarie contemporanee di vario genere (sociali, sportive,
ideologiche, culturali, commerciali, etc.) un modello iconico ancora in parte fruibile anche nel
mondo moderno (anche se combattuto dalla pratica discutibile, stereotipa e monotona,
disinvoltamente importata dalla grafica commerciale, del logo: prodotto concettualmente e
graficamente sciatto, e infinitamente più povero del potente segno medievale!).
L’araldica comunale, pur con tutti i suoi vistosi difetti, è l’ultima espressione di quella che gli
studiosi hanno chiamato ‘araldica viva’, cioè di un sistema di segni non solo ‘scritto’ e ‘dipinto’,
com’è il sistema concettualmente moribondo della tarda araldica nobile, ma operativo, versatile e
concreto.