Lo sguardo di Eva - Cineforum del Circolo

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Lo sguardo di Eva - Cineforum del Circolo
i quaderni del cineforum
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LO SGUARDO
DI
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a
E
Le donne raccontano
le donne nel cinema degli anni Zero
CHIARA MATTUCCI
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
LO SGUARDO DI EVA
CHIARA MATTUCCI
settembre - ottobre 2011
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
Viale Monza 140, Milano
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
GLI OCCHI DI EVA
OVVERO
LA TENTAZIONE DI UN NUOVO SGUARDO SULLA REALTÀ
I
l modo in cui guardiamo non è mai esclusivo, unidirezionale, risolto. Nel momento in cui osserviamo
e nel come tutto ciò avviene c’è già qualcuno che ci vede e inevitabilmente ci cambia. Lo sguardo degli
altri racconta noi stessi, ci definisce, delinea i contorni dell’identità individuale, impone un dover essere o un orizzonte di attese rispetto alle quali ci si sente più o meno adeguati. Muta la percezione all’interno di un gioco molto complesso durante il quale si verifica l’oscillazione tra similitudine e alterità, fra la
tendenza ad assimilare tutto al proprio punto di vista e lo scontro, a tratti violento e distruttivo, con una
maniera di essere alternativa.
Perché allora proporre con una certa ostinazione, assolutamente incollata agli interrogativi che il contemporaneo ci pone, una rassegna che mette al centro di interpretazioni non solo cinematografiche e con un’urgenza imprescindibile l’universo femminile? Per quale motivo discutere di simili tematiche nell’epoca del
precariato, della degenerazione politico-morale, della crisi economica e dell’invadenza mediatica in ogni
compartimento del privato? Forse non è possibile rispondere direttamente a domande che presuppongono
la spontaneità di un’esigenza nata proprio dalla condizione attuale e dalle sue intrinseche contraddizioni.
O forse il ruolo, la rilevanza, il valore, la problematicità e la rappresentazione della donna le contengono
tutte legittimando di conseguenza la scelta in questa direzione. Ci sembra indispensabile una trattazione
che si concentri su tali elementi soprattutto alla luce delle derive dell’attualità, che quotidianamente espone, spettacolarizza, usa il corpo svuotandolo di emozioni, sbattendolo su un palcoscenico da show della
carne, trasformandolo in oscenità routinizzata, in strumento del consenso o in oggetto di un’assuefazione
di massa. In una parola, in oscenità.
Tematiche necessarie per un linguaggio come il cinema che fa vedere prima di lasciar parlare, mette in
mostra prima ancora di elaborare discorsi, raffigura un mondo, ma anche una prospettiva sulla realtà che
colloca al centro la funzione dello spettatore, dunque la responsabilità di chi si presenta non solo come
“semplice” voyeur. In un contesto del genere è essenziale l’immagine di un’immagine, ovvero la messa in
scena del modo di rappresentare determinati attori sociali, una specifica categoria o un sistema di riferimento capace di includere figure fondamentali per la collettività. Nello stesso tempo, consapevoli delle
spinte provenienti dalla società riguardo alla questione femminile ci è sembrato corretto limitare il nostro
discorso alla situazione contemporanea, usando e facendoci ammaliare dal mezzo cinema per avere una
visione privilegiata sulla realtà, anche quando questa è trasposta e riorganizzata con estrema creatività. Un
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decennio più che mai connotato da esperienze diverse, apertosi con i disastrosi fatti dell’11 settembre (di
cui quest’anno si celebra il decennale) che hanno lanciato un’ombra di terrore divenuta ormai sintomo
strutturale di cui siamo tutti vittime, spesso inconsapevoli. Gli anni Zero hanno anche portato l’allargamento, in termini di quantità di offerta e domanda, della dimensione virtuale (i social network, la digitalizzazione della burocrazia nei suoi aspetti più quotidiani, l’uso privato delle tecnologie tascabili, la sostituzione dei vecchi supporti come libri cartacei o schermi domestici). Le recenti forme di contatto in rete, frutto
esse stesse della paura di una relazione diretta e al contempo risorsa da sfruttare, si affiancano alla cancellazione dei ruoli tradizionali, con aspetti interessanti che riguardano la libertà personale (la costituzione
sempre più numerosa di nuove forme familiari, il dibattito sull’eutanasia e sulle cure palliative, l’esistenza di quote rosa) ma che instradano anche derive pericolose (la presenza invasiva del sistema televisivo
nella vita delle persone, il ricatto di un ideale spesso irraggiungibile, la manipolazione ossessiva del corpo
per farne veicolo non di espressione ma di consenso). In questa situazione multiforme, fatta di grandi possibilità e straziata da sotterranee paure, spesso la donna si trova costretta ad (ac)cogliere e subire le trasformazioni di una società liquida che può essere percepita ma mai catturata del tutto.
Ecco perché “lo sguardo di Eva”, come recita il titolo che emblematicamente si è deciso di attribuire alla
rassegna e che implica un doppio livello di significato: da un lato, il punto di vista sulla condizione femminile e sulla sua estrema delicatezza rispetto a ciò che accade nel presente, dall’altro l’insieme di questi
materiali filtrati attraverso gli occhi delle donne. Il ciclo offre così cinque ritratti, cinque film su storie di
vita che affrontano tali argomenti realizzati da registe di Paesi differenti. Non tanto per soddisfare un desiderio di completezza, quanto per dare dignità a racconti nati da prospettive diverse, in luoghi e ambiti
sociali lontani, a volte opposti per ideali di riferimento e per le molteplici situazioni che ospitano. Tuttavia,
abbiamo preferito fare un’eccezione, includendo due titoli italiani (Lo spazio bianco di Francesca
Comencini e Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi), convinti dell’esistenza di una profonda particolarità
in entrambe le opere, che però è facilmente traducibile su un piano più generale fino ad assumere caratteristiche universali (il rapporto travagliato, sofferto e in alcuni momenti indescrivibile con la maternità
osservato dai due estremi della relazione). Oltre ai timori, alle difficoltà del legame madre-figlia e al dolore rimasto sospeso in una memoria offuscata dal passaggio del tempo, le altre questioni trattate conducono a un’unica conclusione, piacevole o scomoda ma comunque da accogliere come dibattito aperto: non
esiste un’immagine compiuta, circoscritta e stabile del “femminile”, come dimostra la vastità di film girati da autrici di innegabile spessore che non era possibile inserire nello stesso ciclo per ovvie ragioni di spazio e di tempo. Non esiste la donna assimilabile a uno stereotipo, facile da portare sullo schermo, riproducibile ed esportabile in altri contesti. Questo modello di omogeneizzazione che viene quotidianamente alimentato dalla proposta (quasi) monodirezionale del prototipo televisivo è stato fortunatamente scalfita nell’ambito del linguaggio cinematografico che ha saputo leggere e captare la natura multiforme del “femminile” in senso generale, lontano dalle facili etichette, colmo di sfumature, dettagli.
Alle sfumature e ai dettagli è dedicato Lo sguardo di Eva. Alle numerose declinazioni di opposte sensibilità e del rapporto fra i sessi nel lungo processo di integrazione della modernità nella tradizione in Libano
(Caramel di Nadine Labaki). Al percorso della malattia, in bilico tra speranza e disillusione, religiosità e
scetticismo, apparenza e vissuto interiore tormentato (Lourdes di Jessica Hausner). Alla solitudine e alla
debolezza della provincia americana, dove le nuove generazioni incontrano un mondo privo di riferimenti stabili (Me and You and Everyone We Know di Miranda July). Alla varietà delle tematiche possibili, ciascuna con il proprio ambito di riferimento, tutte animate dalla necessità di un’analisi che produca significati, apra delle prospettive, e provi ad attirare l’attenzione sul grado di consapevolezza richiesto, sul bisogno di non ignorare ciò che è parte del nostro reale, pubblico e privato.
Del resto, come anticipato, molte sono le registe dedite a un mestiere che, ancora pochi decenni fa, era frequentato prevalentemente da occhi maschili, a dimostrazione non tanto di una diffusione della padronanza
del mezzo cinematografico, quanto della volontà di impossessarsi di una voce che rispecchi la propria personale visione delle cose grazie a un’immedesimazione totale con l’oggetto e i soggetti rappresentati.
Un’arte che vuole essere attiva, a volte militante, contraria ad accettare l’imposizione passiva e pronta a
parlare ovunque di sé. L’elenco dei nomi si aggiorna con una frequenza continua, associando alle autrici
di maggior esperienza attive già nel periodo precedente a quello trattato a molte esordienti: Cristina
Comencini (Va’ dove ti porta il cuore, Il più bel giorno della mia vita, La bestia nel cuore), Francesca
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Archibugi (Verso sera, Lezioni di volo, Questione di cuore), Liliana Cavani (Il portiere di notte, La pelle,
Il gioco di Ripley), Wilma Labate (La mia generazione, Domenica, Signorinaeffe), Marina Spada (Forza
cani, Come l’ombra, Poesia che mi guardi), Sofia Coppola (Il giardino delle vergini suicide, Lost in
Translation - L’amore tradotto, Somewhere), Kathryn Bigelow (Point Break - Punto di rottura, Strange
Days, The Hurt Locker), Jane Campion (Lezioni di piano, Ritratto di signora, Bright Star), Susanne Bier
(Non desiderare la donna d’altri, Dopo il matrimonio, In un mondo migliore), Agnès Varda (Cléo dalle 5
alle 7, Garage Demy, Les plages d’Agnès), Mira Nair (Salaam Bombay!, Monsoon Wedding - Matrimonio
indiano, La fiera della vanità), per citarne solo alcune. E poi, Susanna Nicchiarelli, Alice Rohrwacher,
Anna Negri, Giorgia Cecere, Paola Randi, Maria Sole Tognazzi, Chiara Brambilla, Isabel Coixet, Lisa
Cholodenko, Julie Taymor, Shirin Neshat, Lucía Puenzo, Sylvie Verheyde e molte altre ancora.
Mossa solo da normali esigenze di selezione, la scelta dei cinque film non ha la pretesa di essere esaustiva ma di fungere da termometro di una nuova temperatura di questo cinema, come mezzo sociale oltre che
individuale di apertura a uno sguardo versatile e assolutamente necessario.
Chiara Mattucci
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CARAMEL
Sukkar banat
Nadine Labaki (Libano/Francia, 2007)
Davanti al nostro riflesso ci poniamo tante domande, scrutiamo non solo una ruga,
i primi capelli bianchi, ma tutto il nostro essere, in una continua messa
in discussione. Le fasi della vita di una donna sono legate
alla trasformazione del corpo. Da questo deriva
una complessità che è una ricchezza,
ma anche gran fatica.
Nadine Labaki
Cast & Credits
Sceneggiatura Rodney El Haddad, Jihad Hojeily,
Nadine Labaki
Fotografia Yves Sehnaoui
Montaggio Laure Gardette
Musica Khaled Mouzannar
Scenografia Cynthia Zahar
Costumi Caroline Labaki
Con Nadine Labaki (Layale), Yasmine Elmasri
(Nisrine), Joanna Moukarzel (Rima), Gisèle Aouad
(Jamale), Adel Karam (Youssef), Sihame Haddad
(Rose), Aziza Semaan (Lili), Dimitri Staneovski
(Charles), Fadia Stella (Christine)
Durata 95’
Trama
Il salone di bellezza Sibelle è luogo d’incontro per un
mondo femminile variegato e complesso, dove emergono le vicende di donne diverse: Layale, la bella proprietaria, è l’amante di un uomo coniugato, Nisrine
invece sta per sposarsi, Rima è attratta dal suo stesso
sesso pur non ammettendolo, Jamale occupa il tempo
tra un provino e l’altro per non guardare gli anni che
passano, e infine Rose ha trascorso la vita dedicandosi
unicamente alla sorella Lili. Cinque storie per cinque modi differenti di vivere la femminilità in un Libano
sospeso tra spinta all’occidentalizzazione e attaccamento al passato, per un film che unisce leggerezza e
commozione assieme.
Caramel: tempo e controtempo dell’essere donna
L’universo femminile combattuto fra tradizione e modernità, nel rapporto con quello maschile, con la famiglia di origine, con la propria identità, gioca un ruolo fondamentale nell’essere donna oggi, in particolare
in un Paese come il Libano sospeso tra istanze cattoliche e musulmane, regole da rispettare e futuro da
costruire. Al suo esordio alla regia Nadine Labaki costruisce un film che è un canto d’amore per la sua
Beirut e per la femminilità tout court, scegliendo di raccontare la vita di cinque personaggi, ciascuno dei
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quali rappresenta una diversa tappa nel percorso di crescita e un singolare sguardo sulla dimensione femminile.
Lo fa non solo dipingendo un affresco colorato di voci,
corpi e storie differenti che ruotano attorno al salone di
bellezza Sibelle, con un linguaggio lieve che lascia spazio a riflessioni più profonde. Ma soprattutto intrecciando un dialogo con il tempo. Un tempo rubato, inseguito,
rimpianto, ricordato, sognato. Così Layale corre dal suo
amante al suono insistente di un clacson, come animale
che risponde a un richiamo, Jamale insegue disperatamente una giovinezza perduta, Nisrine cerca di rattoppare un errore commesso, Rose sogna di ricucire un passato mai nato. Il tempo della donna è dimensione fuori sincrono, tra chi insegue brandelli di amori impossibili e chi
prova a recuperare un’immagine di sé ormai scomparsa.
Caramel fa scorrere questo passaggio nel corpo: nella
sensualità di Layale (messa in scena dalla stessa Labaki),
che vive le giornate aspettando un’auto o lo squillo di un
telefono pur di strappare qualche istante d’amore; nella
maschera di Jamale; vittima del patetico tentativo di ringiovanire e colmare con un consenso pubblico la propria
insicurezza per poi vedersi umiliata davanti alle telecamere; nella finta durezza di Rima, che nasconde e insieme
veste la sua diversità; nella verginità rammendata di
Nisrine, il cui dialogo con la madre che le spiega i doveri
di moglie risulta appunto fuori tempo massimo. Fino ad
arrivare alla coppia zia Rose/Lili, al loro rapporto tenero e
turbolento insieme, capace di riportare alla luce un’altra
età. Eppure la rassegnazione a un destino di rinunce continua a essere illuminata da fantasie da cullare nel silenzio
di un’imbastitura o nell’urlo di una comica follia.
In questo mondo contraddittorio e affascinante l’uomo è
presente come causa di passione, dolore e desiderio, percepibile nei suoi effetti sulle protagoniste ma
non espressamente visibile. Non c’è una sola
immagine di Rabih, l’amante di Layale, né
dell’ex marito di Jamale, mentre un’unica
scena è concessa al futuro sposo di Nisrine. A
colmare quest’assenza si collocano da un lato
ancora le donne (la moglie e la figlia di Rabih,
la madre di Nisrine), dall’altro figure maschili che ispirano comunque sentimenti femminili (il poliziotto che sogna a sua volta Layale, il
cliente americano della sartoria che corteggia
Rose). In Caramel tutto parla del modo in cui
le donne si vedono, con le proprie meraviglie,
le attese e le privazioni, e di come vorrebbero
guardarsi attorno, tra complicità, ironia e
occhiate d’intesa, in un’atmosfera sospesa che
ha i più intensi attimi di poesia nel blackout di
un fraintendimento. Per esempio, la scena
della telefonata tra Layale e il suo amante
viene girata adoperando un dialogo immagi7
nario con il poliziotto che la spia, come se ognuno si rivolgesse all’altro, interrompendo così il livello di
realtà con una pennellata di fantasia che gioca sullo sbilanciamento dei ruoli: non è lui l’uomo del clacson,
e quella che ascoltiamo non è una conversazione bensì l’immersione nella favola di silenzi e non detti a
cui vorremmo assistere. Donne e uomini si inseguono, si desiderano, rincorrono invano un contatto. C’è
qualcosa di magnificamente universale in Caramel nella raffigurazione del rapporto tra i sessi e delle
rispettive sensibilità. E c’è anche il fascino di un Libano in bilico tra passato e presente, abitato da donne
apparentemente emancipate ma intimorite dal giudizio sociale, tanto che una telefonata notturna, la ricerca di un hotel o l’ammissione di esperienze sentimentali precedenti non sono concepibili. Canti arabi e processioni cattoliche si intrecciano, l’Occidente è sempre più vicino e un fascino d’Oriente attraversa gli
sguardi, trasformando la coesistenza dei contrari in elemento in grado di definire meglio i personaggi.
Beirut, che nella dedica finale è nome declinato al maschile, è la vera figura d’uomo di Caramel. Come
per gli altri presente e invisibile (le vicende si svolgono quasi completamente in interni), motivo di desiderio e sofferenza, terra amata e odiata nella quale si ritorna diversi, con il bagaglio colmo di esperienze
ma continuamente animato dalla voglia di scoprire.
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Rassegna stampa
Cinque donne, un salone di bellezza, un labirinto di contraddizioni chiamato Beirut, un mondo
in cui shampoo e cerette si intrecciano a codici e tabù ora cristiani ora musulmani, e a una
visione molto complicata e molto mediorientale della bellezza, della femminilità, della famiglia. È Caramel, esordio rivelazione della 37enne Nadine Labaki, anche protagonista nei panni
della proprietaria del salone, centro di un mondo in cui talvolta è difficile distinguere fra desideri e realtà, ma come in certi musical francesi tutto sembra poter succedere - o almeno aggiustarsi alla meno peggio. Fino a far soffiare su questo carosello di amori impossibili, passioni senili, omosessualità repressa, chirurgia estetica, cliniche per ricostruire la verginità, la brezza di un colorato, doloroso ottimismo. Con qualche piccola concessione al gusto globalizzato delle nuove soap. Ma anche molte
finezze inattese nella costruzione del racconto e nella scelta felice di attrici tutte non professioniste ma
vivaci, coraggiose, convincenti, affiatatissime.
(Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 21 dicembre 2007)
Eva
Nella commedia dolceamara i rapporti acquistano calore e colore mediterranei; e in questo
dilaniato angolo del mondo, sempre sull’orlo della guerra civile, l’affresco di una cronaca quotidiana dove le diversità convivono in piena armonia risuona come un appello alla pace. È un
messaggio ben colto da alcuni entusiasti spettatori libanesi che sulle pagine di Internet invitano a vedere un film che fuori da ogni settarismo parla con tanta verità del loro Paese.
(Alessandra Levantesi, La Stampa, 21 dicembre 2007)
Il tema centrale di Caramel è quello di tanti film mediorientali: la sensualità femminile frustrata, i desideri sacrificati, il bisogno di emancipazione a fronte del machismo e dei divieti religiosi che dettano ancora legge: in contrasto col titolo dolce (il caramello è uno strumento tradizionale per fare la ceretta) e col tono prevalente di commedia. Il retro sapore dell’opera
prima di Nadine è amaro. Eppure, la regista-sceneggiatrice-attrice riesce a immettere nel suo
microcosmo di donne un’insolita allegria: complice, contagiosa, un po’ kitsch. E perfino un
auspicio di ottimismo generazionale: se un’anziana sarta deve rinunciare al sogno di ricostruirsi una vita,
forse le donne più giovani ce la faranno. Un film molto fisico: a tratti, guardandolo, sembra di avvertire gli
odori e i profumi dell’ambiente, il calore dei corpi.
(Roberto Nepoti, la Repubblica, 21 dicembre 2007)
[…] Il gioco è l’amore, bello, brutto, che distrugge e rende felice. Quello impossibile e quello
che sta sempre lì - ma non ce se ne accorge mai. Ma soprattutto la lezione di cineaste come
Jocelyne Saab, anche lei libanese, narratrice di personaggi femminili fuoriclasse, potenti per
sapienza e gusto del gioco. Nadine Labaki in questo racconto è istintiva e immediata anche nei
momenti più teatrali, anche nelle situazioni più stilizzate che comunque non appesantiscono lo
spirito del film. Complice il gruppo delle attrici, Yasmine Al-Masri, Joanna Moukarzel, Gisèle
Aouad, tutte non professioniste, tutte irresistibili.
(Cristina Piccino, Il Manifesto, 21 dicembre 2007)
[…] Lontano dalla tragedia della realtà libanese, la finzione filmica compone una colorata sinfonia in rosa dai rimandi almodovariani e dai dialoghi alla Sex and the City. […] Sarà perché
ambientato in un salone di bellezza, sarà per caso, il film è costellato di specchi e tendine che
creano un continuo gioco a spiarsi e riflettersi. Un ostacolo si interpone spesso tra i protagonisti e il loro desiderio: Nadine vede la figlia dell’uomo che non potrà mai avere attraverso un
acquario, il poliziotto spia l’amata dietro una tenda, la simpatia tra Rose e il cliente si gioca tra
sguardi e messaggi allo specchio. È come se l’amore si potesse vedere e toccare solo indirettamente, riflesso. Caramel è un film leggero, spiritoso, con certi passaggi esilaranti come il “montaggio delle attrazioni”
tra l’operazione di richiusura dell’imene e l’incedere di una macchina da cucire; un bell’affresco al femminile che ha il limite, forse, di risultare un po’ troppo caramelloso per il gusto maschile. Inizialmente colpisce che questo ritratto di donne senza veli provenga da un paese arabo, ma delude alla fine che tale (pre-
Eva
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sunta) emancipazione si conquisti a colpi di spazzola e tagli di capelli. […] Peccato che la visione del
Libano quale Svizzera del Medio Oriente e luogo di convivenza tra islamismo e cristianesimo sia solo
abbozzata. Il rimpianto è di essere stati troppo fermi negli interni del salone e di aver viaggiato e capito
troppo poco di quella Beirut alla quale lo stesso film è dedicato.
(Valentina Torlaschi, duellanti n. 39, febbraio 2008)
Premi e riconoscimenti
- PRESENTATO ALLA 39ª “QUINZAINE DES REALISATEURS” (CANNES, 2007)
- CANDIDATO AGLI OSCAR COME MIGLIOR FILM STRANIERO (2008)
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LO SPAZIO BIANCO
Francesca Comencini (Italia, 2009)
Credo che oggi raccontare le persone sia rivoluzionario. È da qui che dobbiamo
ripartire, dalla sacralità della vita. […] In un mondo di reality-show in cui
domina l’irrealtà, dove tutti noi siamo stati trasformati in clienti
che comprano merci, bisogna tornare a legare la vita alla realtà,
per ritrovare la singolarità dell’individuo, l’unicità della persona.
Francesca Comencini
Cast & Credits
Tratto dal libro Lo spazio bianco di Valeria Parrella
(Einaudi, 2008)
Sceneggiatura Francesca Comencini, Federica
Pontremoli
Fotografia Luca Bigazzi
Montaggio Massimo Fiocchi
Musica Nicola Tescari
Scenografia Paola Comencini
Costumi Francesca Vecchi, Roberta Vecchi
Con Margherita Buy (Maria), Giovanni Ludeno
(Fabrizio), Salvatore Cantalupo (Gaetano), Guido
Caprino (Pietro), Antonia Truppo (Mina), Gaetano
Bruno (Giovanni Berti), Maria Paiato (Magistrata)
Durata 96’
Trama
Maria è una donna di 42 anni, forte e indipendente, che
vive a Napoli dove insegna italiano alle classi di adulti
delle scuole medie. Abituata a contare unicamente su
se stessa, decide di affrontare da sola una gravidanza
inattesa nonostante l’abbandono del suo compagno. La
piccola Irene nasce però prematura e Maria scopre che
i sei mesi nei quali ha portato in grembo la bambina
non sono stati sufficienti a darle del tutto la vita. La donna si troverà così costretta ad aspettare: che sua
figlia nasca o muoia, nessuno può saperlo. Maria viene così risucchiata nello spazio bianco dell’attesa…
Lo spazio bianco: il lento cammino da una vita all’altra
Una donna nuda fuma, dopo l’amore, seduta davanti a un bambino di pochi mesi. Gli sguardi si incontrano nel silenzio della notte. Maria osserva il figlio di Pietro, il suo amante, con freddezza e distanza, come
se la cosa non la riguardasse e quel piccolo esserino fosse solo un ostacolo tra loro. Non lo sa ancora, ma
proprio in quel momento sta già compiendo un attraversamento: il suo corpo si sta preparando ad accogliere, a donare, a divenire altro.
Comincia con il ritratto di un personaggio assolutamente fuori dai soliti stereotipi il film di Francesca
Comencini, affrancato dai ruoli, tradizionali o nuovi. Maria non è sposata né fidanzata (e a quanto pare non
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ambisce a esserlo), non è nemmeno la classica single incallita, ma solo una donna libera. La sua vita le piace, anche se
ne avverte la solitudine, colmata nel buio di un cinema
d’essai, dal rapporto con i suoi allievi adulti o dall’intensità con cui si lancia in un nuovo rapporto. È in questo equilibrio di certezze e ricerca che viene colta di sorpresa. Una
maternità inaspettata, che (forse) potrebbe essere gioia
completa eppure non lo diventa, inizialmente per l’assenza
di un uomo che rifiuta di essere padre una seconda volta e
in seguito a causa di un ciclo che s’interrompe prima del
previsto. Lo spazio invaso da tinte cupe (le luci degli interni, gli abiti di Margherita Buy completamente neri) si apre
al chiarore, la luce entra improvvisa nella vita della protagonista dopo soli sei mesi di gravidanza. Lei però insieme
alla sua Irene aspetta nella totale incertezza che la piccola
viva o muoia.
Il bianco è per definizione un non-colore, ovvero il regno in
cui qualsiasi tinta potrebbe essere, prepara ad accogliere ciò
che verrà ma che ancora non è. La storia è disposta su più
livelli del racconto. Da un lato descrive l’attesa straziante di
una vita non ancora completamente nata, dall’altro fa riflettere sulla sorte di tutte quelle donne, sempre più numerose,
che si trovano ad affrontare da sole la responsabilità di una
nascita. E soprattutto parla di come essere madri non sia
solo frutto d’istinto innato, bensì il compimento di un processo di maturazione: nei cinquanta giorni che separano
l’esistenza potenziale dalla vita effettiva non è solo Irene a
dover imparare a respirare, ma Maria stessa a capire il
significato profondo della maternità. Lo spazio bianco non
si ferma all’asettica realtà ospedaliera che risucchia tutto il
resto (da quel momento ogni cosa cade in secondo piano,
dal lavoro agli affetti fino alle proprie esigenze). Riflette la
condizione di chi si ritrova diversa (e isolata) di fronte a una
scelta nel momento più delicato del percorso di donna.
Maria è un personaggio nel mezzo di un cammino sia personale sia familiare. In questo senso spesso viene ripresa
mentre sta letteralmente andando. Sono molte le scene
girate all’interno di tram e autobus, su traghetti o durante
una passeggiata, a simboleggiare la collocazione al centro
di un prima e un dopo, di un inizio e una fine. Nel frattempo la maternità si trasforma lentamente da «un castigo» a
un nuovo modo di percepire la condizione femminile. Non
a caso la Comencini decide di non mostrare mai la gravidanza. Dalla scena dell’ecografia si passa subito all’immagine del post partum, con la piccola Irene che fa il suo
ingresso dentro l’incubatrice, come se quei mesi non fossero esistiti, o meglio non avessero dato alla protagonista la
sensazione di piena maternità. Semmai il periodo prenatale
emerge a tratti durante l’attesa, quando la madre impara a
conoscere ogni piccolo particolare del corpicino di sua
figlia e della sua nuova sensibilità di donna. Realtà e
memoria si uniscono, Maria si apre al confronto entrando in
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contatto con i medici e le altre mamme, tornando al ruolo d’insegnante, assimilando da Irene l’arte dell’ascolto, per rinascere una seconda volta con lei.
Rassegna Stampa
Margherita Buy oltre Margherita Buy: ecco lo scoop del film di Francesca Comencini. Proprio
perché la protagonista di Lo spazio bianco sembra di primo acchito un concentrato delle abusate inclinazioni dell’attrice, colpisce la ricchezza di sfumature che la rendono via via più
fascinosa e intensa e soprattutto perfettamente rispondente allo spirito del romanzo originario
di Valeria Parrella. Nel complesso il film può dirsi ambivalente: dal punto di vista del cruciale rapporto che si sviluppa tra la quarantenne madre single e la figlia nata prematura e tenuta
in vita dall’incubatrice, stile e forma si armonizzano con drammatica pregnanza; da quello, al contrario,
del cosiddetto sottotesto ci si ritrova ai soliti italici termini. La coppia Comencini/Buy è efficace, insomma, nel dare colore e movimento a un racconto che sarebbe potuto diventare monotono e deprimente,
esplorando con cognizione di causa e sincero trasporto l’oscura suspance che si crea tra l’insopprimibile
desiderio di maternità e i dubbi, le scelte, le contraddizioni delle ragazze e delle donne contemporanee di
ogni ceto. Peccato che all’esterno della protagonista, attestata in ospedale e immersa come in una dolorosa trance per accudire con lo sguardo la bimba in lotta per la sopravvivenza, agiscano melense o immotivate figurine sparpagliate su una Napoli da cartolina forse incongruamente favolistica, forse clamorosamente travisata.
(Valerio Caprara, Il Mattino, 9 settembre 2009)
È legittimo leggere Lo spazio bianco come un’allegoria delle donne dell’Italia di oggi: donne
in attesa - di rispetto, identità, ruolo sociale - ma capaci di lottare, di tramandare solidarietà e
cultura (non è un caso che Maria sia un’insegnante). Ma è soprattutto una toccante storia di
amore materno. Margherita Buy è fantastica. Sappiamo da anni che è brava, ma qui si supera.
Se il film fosse americano, vincerebbe l’Oscar a mani basse.
(Alberto Crespi, L’Unità, 9 settembre 2009)
Tratto dal bel romanzo di Valeria Parrella (Einaudi), Lo spazio bianco di Francesca Comencini
poteva cadere nel sociologico, invece una regia attentissima e inventiva, il montaggio che
accelera e rallenta, sottolinea e nasconde creando continuamente pieni e vuoti, una Margherita
Buy indurita e molto efficace, come tutto il cast, ci danno un quadro fedele, palpitante e come
in soggettiva della “società liquida” in cui viviamo e di quell’incrinatura nei rapporti fra i sessi
che è fra i dati più vistosi di questi nostri anni. Un film da vedere e rivedere.
(Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 9 settembre 2009)
Per portare sullo schermo il libro di Valeria Parrella Lo spazio bianco, Francesca Comencini
opera un piccolo ma significativo scarto rispetto al romanzo, trasformando l’esperienza sostanzialmente privata di una donna a cui nasce una figlia al sesto mese di gravidanza in una storia
più dichiaratamente pubblica dove le angosce e le paure di una madre diventano occasione per
riflessioni più generali, sulla condizione della donna, sulla latitanza degli uomini, sull’arretratezza della burocrazia, sul rapporto medici-pazienti. Non che queste cose non ci fossero (più o
meno) anche nel libro, ma nel film diventano i momenti che scandiscono il tempo che la donna deve far
trascorrere prima che alla piccola venga staccato il respiratore artificiale. Così, coerentemente con l’andamento un po’ ondivago degli avvenimenti, la Comencini adotta uno stile di riprese molto spoglio, dove il
percorso temporale perde la sua linearità mentre i silenzi prendono il posto delle parole. Una scelta che si
regge soprattutto grazie all’ottima prova di Margherita Buy, «primipara attempata» a cui l’attrice sa dare
quella carica di rabbia trattenuta e di rassegnata infelicità che identificano il suo personaggio. E che fanno
passare in secondo piano qualche momento di esagerata “poesia” (il ballo delle madri tra le incubatrici),
qualche facile sottolineatura sociologica e soprattutto un uso delle musiche invasivo e fastidiosamente
accattivante.
(Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 9 settembre 2009)
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È un duetto vertiginoso e napoletano tra lei e l’incubatrice dalla quale sua figlia, nata troppo
prematuramente, potrebbe non uscire mai viva. Maria, colta, single, frequentatrice di cineclub
alla Viganò, dopo la fine di una intensa storia con un jazzista blasé, insegnante sballottata di
qua e di là perché impegnata nel sociale, che scolarizza immigrati e anziani, utilizza infine un
amore che già sa effimero, tra un dancing e un film uzbeko, per avere, con non poche sofferenze, la sua, solo la sua bambina Irene. Sarà, quella sofferenza, iniziata per la verità con incosciente indifferenza, la punizione che, secondo una burocrazia ancora medievale merita una maternità
autarchica, leggera, irregolare, illegittima, quasi “clandestina”, come scoprirà all’anagrafe?
(Roberto Silvestri, Il Manifesto, 9 settembre 2009)
È un’opera fuori del comune, intensa, tutta interiore, toccante, alla quale Buy non soltanto dà
una speciale eloquenza, ma regala con la sua interpretazione un dinamismo nervoso che sostiene tutta la vicenda: è uno dei rari casi in cui il film sopraffà il romanzo (di Valeria Parrella,
Einaudi) da cui deriva.
(Lietta Tornabuoni, La Stampa, 9 settembre 2009)
Premi e riconoscimenti
- IN CONCORSO ALLA 66ª MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI
VENEZIA (2009)
- NOMITATION COME MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA PER MARGHERITA BUY AI DAVID
DI DONATELLO (2010)
- NASTRO D’ARGENTO 2010 PER IL MIGLIOR MONTAGGIO. IL FILM ERA CANDIDATO ANCHE
PER: MIGLIOR REGIA, ATTRICE PROTAGONISTA (MARGHERITA BUY) E SONORO IN PRESA
DIRETTA
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LOURDES
Jessica Hausner (Austria, 2009)
Ho cercato di creare distanza da quel che racconto, immaginando di essere un
viaggiatore giapponese che guarda quello che succede: i diversi aspetti della
guarigione miracolosa, le preghiere a Dio, la speranza che il miracolo sfiori
qualcuno, quando invece i piani di Dio sono incomprensibili
e ti accorgi di essere solo nell’universo.
Jessica Hausner
Cast & Credits
Sceneggiatura Jessica Hausner
Fotografia Martin Gschlacht
Montaggio Karina Ressler
Musica Nicola Tescari
Scenografia Katharina Wöppermann
Costumi Tanja Hausner
Con Sylvie Testud (Christine), Léa Seydoux
(Maria), Gilette Barbier (Frau Hartl), Gerhard Liebman
(Padre Nigl), Bruno Todeschini (Kuno), Elina
Löwensohn (Cécile)
Durata 96’
Trama
Durante un viaggio di gruppo a Lourdes, Christine,
bloccata da anni sulla sedia a rotelle, una mattina si
sveglia ed è in grado di stare in piedi. La donna assapora appieno questa occasione di felicità, cosa che suscita tanta ammirazione ma anche invidie. La guarigione,
frutto di un miracolo o di un momentaneo miglioramento, è l’occasione per riflettere sulle trame misteriose del sacro e sulla deriva umana da cui nessuno è
escluso.
Lourdes: il libero arbitrio degli uomini e di Dio
È difficile non rimanere affascinati e al contempo stupiti da un film come Lourdes: qualcosa di estremamente sacro e umanamente profano si muove dentro. Più che un’opera che racchiude in sé sensibilità laica
e religiosa, la pellicola allarga lo sguardo per includere, accanto alla visione da cartolina del famoso luogo
di culto, anche un’altra prospettiva che non è quella opposta della dissacrazione atea, ma la dimensione
oggettiva e neutrale di chi osserva senza sbilanciarsi da una parte o dall’altra.
Attraverso uno stile rigoroso e a tratti inflessibile, Jessica Hausner mostra i vari momenti del pellegrinaggio. Riti sacri si alternano a semplici attimi di quotidianità dei fedeli, passando dalla fila verso il santuario,
le grotte sante e le piscine ai pasti o alla liturgia di una messa a letto. Allo stesso modo, vicino alla difficile condizione dei devoti la regista filma anche la realtà degli accompagnatori, sospesi tra dedizione al prossimo e umane curiosità. Grazie a questa scelta espressiva l’autrice riesce a raccontare i diversi aspetti di
Lourdes, lasciando semplicemente agire i suoi personaggi e rimanendo a guardare le loro reazioni. Così già
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nella prima sequenza l’austera sala da pranzo, immersa in colori scuri e atmosfera anni Settanta, viene
ripresa dall’alto mentre alcune cameriere apparecchiano; poi lentamente da destra entrano visitatori e
accompagnatori che, come un esercito di formichine, riempiono lo spazio. In questa inquadratura è già possibile individuare la dichiarazione di un intento. La macchina da presa è ferma e solo alla fine si abbassa
avvicinandosi pianissimo, lo spettatore resta a osservare ciò che avviene nel quadro mentre la sacralità
dell’Ave Maria è accostata non alla ricerca di un banco in cui ascoltare la messa ma a quella di un tavolo
dove consumare un pasto.
Lourdes spicca per il rispetto con cui affronta il tema del mistero religioso. In bilico tra ciò che si vede e
ciò che potrebbe esistere senza rivelarsi, decide di non dare una risposta. Qualcosa in effetti accade.
Christine, affetta da sclerosi multipla, vede compiersi il miracolo. Nel cuore della notte si alza e cammina,
proprio lei che dichiara apertamente di preferire i viaggi culturali ai pellegrinaggi, che confessa di non provare nessuna pietà per gli altri malati, che è lì anche per non sentirsi sola. L’evento è seguito da grande
entusiasmo e naturali invidie, l’incomprensione di un dono divino si scontra con il destino di Cécile, la
capo infermiera che piena di fede e completamente dedita al prossimo si trova a combattere tra la vita e la
morte. Non c’è spiegazione per un Dio «buono o onnipotente», che distribuisce una grazia vera o presunta e a cui ci si affida colmi di speranza. Nel finale Christine cade mentre balla, sulle note di una penosa
Felicità s’insinua il dubbio che il miracolo non si sia compiuto. L’anziana signora che l’ha seguita percepisce per l’ennesima volta ciò che sta avvenendo, e le avvicina la sedia a rotelle. Christine la rifiuta ma non
l’allontana, decidendo all’ultimo momento di sedersi. Cosa sarà della sua ipotetica guarigione possiamo
solo intuirlo. Probabilmente il senso definitivo è racchiuso nelle parole di Padre Nigl: Dio, se c’è, è libero
e forse questa è in fondo la cosa più difficile da accettare.
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Rassegna stampa
Lourdes è stato ideato e girato dalla viennese Jessica Hausner in occasione dei centocinquant’anni delle apparizioni mariane nella cittadina francese. Un racconto condotto con eccezionale abilità tra fideismo e blasfemia, documentarismo iper-oggettivo e suspance enigmatica, in
apparenza freddo, asettico resoconto del pellegrinaggio di una ragazza paraplegica francese,
ma in realtà sottilissima, poliedrica trasfigurazione del Dubbio Primario palleggiato tra credenti e laici. Le guarigioni che come lampi abbaglianti squarciano il muro di quotidiana mestizia
e contrizione di masse sterminate e sventurate sono miracoli, fenomeni naturali o truffe organizzate da un
agghiacciante congegno ecclesiastico-turistico? Delicatissimo nel suo linguaggio come sospeso sulla
minaccia (positiva o negativa, fa lo stesso) dell’evento […].
(Valerio Caprara, Il Mattino, 5 settembre 2009)
L’obiettivo della regista non si fissa solo su di lei: dedica altrettanto spazio e tempo alle giovani accompagnatrici dell’Ordine di Malta, agli altri malati, alle piccole ritualità quotidiane
che scandiscono i giorni di permanenza al santuario. E lo fa con un occhio che sarebbe fuori
luogo chiamare laico ma che è certamente oggettivo ed equidistante da spiritualità e scetticismo. Se scatta il sorriso è perché quello che si vede può essere letto anche in maniera ironica
ma tutto potrebbe offrirsi anche a una lettura opposta. Proprio come succede alla protagonista
quando viene “miracolata”: è lei la prima ad avere dei dubbi, a temere per una possibile recrudescenza della
paralisi, a subire gli sguardi invidiosi degli altri malati. In questo modo il film racconta sì un miracolo ma
evita in tutti i modi di spiegarlo (la protagonista non sembra neppure particolarmente credente) facendo
tornare alla mente quello spirito dissacrante ma insieme ambiguo e un po’ sorpreso che Buñuel aveva portato a vette eccelse e che Jessica Hausner sembra in grado di ritrovare di nuovo.
(Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 5 settembre 2009)
Hausner filma con misura, tra l’altro è abbastanza difficile entrare nei luoghi di Lourdes con
una macchina da presa, infatti ci sono voluti mesi di preparazione. Filma l’attesa, le tappe
obbligate, quel momento collettivo in cui gli attori si confondono coi malati veri. Non distorce anzi è quasi realista, luce e folla da sé declinano l’incubo di uno stordimento. Lourdes è un
luogo crudele, il miracolo non arriva mai, la sua mitologia è piena di miracoli passeggeri, di
guarigioni date e poi tolte da un dio beffardo, tutto il contrario di quanto la fede lo vorrebbe,
buono e eterno. Ma pensare il film di Jessica Hausner come una riflessione sul cattolicesimo è limitante.
Lourdes è piuttosto un teatro della vita, coi suoi ineffabili casi di felicità conquistate e perdute, epifanie di
benessere che svaniscono senza ragioni, e la giusta ironia. Perché io e non lei. E vale per il dolore e per il
miracolo. Perché esistono i ricchi e i poveri dice il prete, ma allora Dio non è buono e giusto commentano
le signore. Si parla di fede, certamente, e dei suoi misteri obbligati ma dentro alla vita, al quotidiano equilibrio precario dell’esistenza, alle sua altalene di imprevisti, felici o tragici, senza spiegazione. Un mistero. O una scommessa come la felicità, che vale quanto una canzonetta.
(Cristina Piccino, Il Manifesto, 5 settembre 2009)
Il problema è che il miracolo messo in scena da Hausner suscita reazioni contrastanti: l’invidia di altri malati, il contrappasso rappresentato nella suora probabilmente in chemioterapia
che cade in coma, l’amore di un aitante volontario della croce di Malta. Fino a un finale raggelante che sarebbe delittuoso raccontare, ma che ripropone in un loop filosofico esistenziale
infinito il cosiddetto “mistero della fede”. «Arrivare a Lourdes è scioccante: centinaia e centinaia di barelle, persone speranzose di guarire», racconta Gerard Liebman che nel film interpreta padre Nigl, «una sensazione di commozione che si fa ambivalente appena ti accorgi dell’indotto, di questa sorta di Disneyland cattolica che sfrutta la speranza e la fede dei malati». Caratteristica peculiare di
Lourdes, però, è il distacco nello sguardo adottato da Hausner rispetto al palpitare della fede (altrui), riportandola sullo schermo senza mai sottolineare, additare, sfottere. […].
(Davide Turrini, Liberazione, 5 settembre 2009)
Eva
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Il santuario di Lourdes visto come un luogo terreno, dunque sottomesso a tutte le leggi che
governano gli uomini, il potere, il denaro, i buoni e i cattivi sentimenti, senza per questo negare la fede e la speranza che muovono ogni anno milioni di pellegrini. La massima fabbrica di
miracoli del mondo cattolico osservata con occhio distaccato, pungente, pedino divertito, ma
senza cedere alla facile dissacrazione, per fare luce sulle dinamiche che la attraversano grazie
a un pugno di personaggi pieni di umanità. [...] Se un buon film si riconosce dalla chiarezza
dei mezzi espressivi e dalla precisione con cui li usa, Lourdes è addirittura esemplare. Come altri importanti registi austriaci, Michael Haneke o Hulrich Seidl, Jessica Hausner lavora infatti su mondi chiusi e ben
definiti entro cui operano personaggi tanto riconoscibili quanto ambigui. [...] a Venezia l’eleganza crudele
di Lourdes ha convinto sia i cattolici del premio Signis sia gli atei del premio Brian. Un paradosso che la
dice lunga sull’arte della Hausner, così preziosa oggi che tanti film somigliano alle fiction e alle loro false
certezze.
(Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 12 febbraio 2010)
La prospettiva di Jessica Hausner nel suo Lourdes è dichiarata subito, sin dalla scena iniziale,
coll’inquadratura dall’alto della sala da pranzo per i pellegrini. Nessuna finestra, ma una luce
artificiale fioca, su un ambiente claustrofobico: nero il pavimento, nere le pareti cui sono appesi crocifissi neri, nere le gonne e i pantaloni del personale, neri i mantelli delle hospitalières
con la croce di Malta, nere le divise dei Cavalieri dell’Ordine, neri i clergyman dei preti. A quei
tavoli funerei prende posto, in silenzio, una turba da corte dei miracoli di nani, paralitici, cancerosi, assistiti da volontari tanto formalmente educati quanto distratti o perplessi […], vivi solo nello
scambio di sguardi tra ragazze col velo e giovanotti col basco. Poca, pochissima luce in tutto il film, la cui
cifra cromatica è il plumbeo: nuvole nere nel cielo persino nelle pochissime scene all’aperto. Anche la
benedizione eucaristica del pomeriggio, l’appuntamento quotidiano più amato dai pellegrini, assieme alla
processione notturna con le fiaccole non è girata, come è nel vero, sulla grande, luminosa Esplanade che
fronteggia i tre santuari sovrapposti. No, la Hausner ha scelto di ambientarla nell’enorme chiesa sotterranea, dove non penetra alcuna luce. Poca luce pure per la lugubre festicciola finale. [...] Qui, però, occorre
forse riconoscere delle attenuanti. In effetti, a una prima lettura il film della regista austriaca (la solita ex
cattolica: l’occidente ne è ormai pieno) pare accattivante per i devoti.
(Vittorio Messori, Corriere della Sera, 12 febbraio 2010)
Eva
In Lourdes Jessica Hausner posa uno sguardo distante ma non distratto su una realtà piena di
contraddizioni, ma che conserva al fondo un nucleo misterioso. Il commercio della fede è raccontato con pungente ironia e la crudeltà che alimenta le relazioni più o meno pietose con le
persone sofferenti non viene mai nascosta, ma d’altro canto non viene mai esclusa la possibilità che il miracolo si compia. Alimentato da un raffinato gioco con le aspettative dello spettatore (Hausner è austriaca come Haneke...), il film è un appassionante thriller teologico che
suggerisce a credenti e non credenti una riflessione piuttosto scomoda.
(Luca Mosso, Repubblica - Tutto Milano, 11 febbraio 2010)
Eva
[…] Film austriaco, firmato da una regista varie volte incontrata nei festival, Jessica Hausner,
che come cornice, il titolo dichiara, ha proprio Lourdes e, come fatto, un miracolo. [...] Senza
però nessun pietismo ed anzi, di sfondo, lasciando spazi a dubbi e interrogativi sul mistero dei
miracoli e sui motivi perché accadono a questo piuttosto che a quello. Naturalmente senza
potervi rispondere. Il film queste risposte comunque non le cerca, documenta invece, dal di
dentro, un pellegrinaggio a Lourdes, con la benemerita assistenza dei volontari e delle volontarie dell’Ordine di Malta, e con tutta una galleria di malati che, spesso con animo diverso, prendono parte
ai vari momenti rituali di quella loro permanenza ai margini della Grotta. [...] Questa documentazione in
diretta, queste volute incertezze nell’ultima parte sono realizzate da Jessica Hausner con stile limpido e
asciutto, tra immagini realistiche ma dai segni mai insistiti, secondo ritmi così raccolti e fortemente meditati che potrebbero definirsi addirittura interiori (e segreti). Mentre i personaggi, quelli centrali e il coro
attorno, sono seguiti da vicino in ogni loro momento, in ogni loro reazione, per far sentire sempre l’auten-
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tico, anche quando, in certi risvolti, si insegue una verità che non si trova […].
(Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 11 febbraio 2010)
Il film ha in parte l’andamento di un bellissimo documentario: con attenzione e pathos vengono descritti i riti e gli impegni quotidiani dei pellegrini a Lourdes, l’immersione nell’acqua
della piscina miracolosa come la collettiva sala-mensa, la visita alla grotta mistica come la
stanza da letto e le cerimonie religiose di impetrazione, il rapporto con infermiere, volontari e
guardie in divisa sempre presenti, la tristezza di trovarsi costantemente in compagnia di persone malate concentrate su una speranza per lo più frustrata. Questa descrizione minuziosa è ispirata a una fisicità che non ha nulla di spirituale ma si rivela molto, molto interessante, proprio grazie al suo
materialismo. Una parte diversa di Lourdes riflette e a volte discute sul miracolo: cos’è, perché accade, perché favorisce alcuni e non altri, perché non si verifica. Infine, tutto il film mostra il volto del dolore umano:
le facce deformate dalla sofferenza, le persone alterate dal rancore (perché lei si e io no?), la speranza e la
fede come consolazioni impossibili, la preghiera come mantra penoso. Eppure il permanere di intensa umanità: le piccole vanità e rivalità, l’insorgere improvviso d’una risata, la stanchezza fisica più forte di tutto.
Molto bello e onesto, senza ironia, preclusioni ideologiche né pregiudizi. La protagonista Sylvie Testud è
un’attrice bravissima e non bella, anche scrittrice (il suo Senza santi in Paradiso è pubblicato da Salani).
Lo stile e il freddo pathos del film sono perfetti.
(Lietta Tornabuoni, La Stampa, 12 febbraio 2010)
Premi e riconoscimenti
- IN CONCORSO ALLA 66ª MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI
VENEZIA (2009)
- PREMIO FIPRESCI, PREMIO SIGNIS E PREMIO BRIAN ALLA 66ª MOSTRA INTERNAZIONALE
D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2009)
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ME AND YOU AND
EVERYONE WE KNOW
Miranda July (Usa/Gran Bretagna, 2005)
Questo film ha tratto l’ispirazione dal forte desiderio che avevo da bambina
che il magico entrasse a far parte della mia vita, trasformando tutto.
È stato costruito intorno al modo in cui questo desiderio si è evoluto
mentre diventavo adulta, facendosi un po’ più pauroso, più contorto,
ma non meno splendidamente pieno di speranza.
Miranda July
Cast & Credits
Sceneggiatura Miranda July
Fotografia Chuy Chàvez
Montaggio Andrew Dickler, Charles Ireland
Musica Mike Andrews
Scenografia Aran Mann
Costumi Christie Wittenborn
Con Miranda July (Christine Jesperson), John Hawkes
(Richard Swersey), Miles Thompson (Peter Swersey),
Brandon Ratcliff (Robby Swersey), Carlie Westerman
(Sylvie), Hector Elias (Michael), Brad William Henke
(Andrew), Natasha Slayton (Heather), Najarra
Townsend (Rebecca), Tracy Wright (Nancy
Herrington)
Durata 91’
Trama
Christine fa l’autista per persone anziane, ma ha
un’anima artistica che esprime con originali opere di
montaggio audio-video. Richard è invece commesso in
un negozio di scarpe, ha un matrimonio fallito alle spalle, due figli che non gli parlano e una mano bruciata al
seguito. Robby, il più piccolo, ha 7 anni e già chatta,
Peter, il maggiore, ne ha 14, come le sue compagne
Heather e Rebecca, amiche per la pelle che vivono l’esplosione adolescenziale con spregiudicata curiosità, mentre Sylvie a 10 anni già prepara il corredo per quando sarà grande. Un turbinio di vite che s’incrociano, si sfiorano e si toccano nell’epoca di Internet, della paura post 11 settembre, dell’iper comunicazione e della sempre maggiore difficoltà di relazione, per un film che è un grande affresco della generazione
contemporanea.
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Me and You and Everyone We Know:
le facce multiformi della realtà contemporanea
In una delle prime scene di Me and You and Everyone We
Know Richard dà fuoco alla sua mano sinistra davanti ai due
figli. In sottofondo le parole di Christine, che sta registrando
un nastro, ricordano che «è la vita e sta accadendo proprio in
questo momento». Non ci sono spazi vuoti nel mondo magico di Miranda July. Come tessere di un puzzle digitale anche
i frangenti all’apparenza superflui del quotidiano contribuiscono a creare gradualmente la figura riconoscibile di un
mondo nominabile. Così un pesciolino rosso dimenticato sul
tetto di un’auto è l’occasione per parlare dell’imprevisto che
ci coglie soli, della necessità di una condivisione anche
momentanea ma comunque vitale. Più che essere un’opera in
cui coesistono coppie di opposti Me and You and Everyone
We Know allarga la dimensione del reale per fare spazio alla
voce dell’assurdo e del meraviglioso. Un film-caleidoscopio
sulla contemporaneità in cui adulti, bambini e anziani hanno
in comune la medesima curiosità verso l’altro e insieme l’invadenza scomoda di un isolamento profondo. Christine e
Richard vivono tutta la loro storia in cinquanta metri di marciapiede, alla fine del quale solo la morte potrà separarli,
all’interno di una sequenza che unisce surreale e poetico,
scontrandosi un attimo dopo con la durezza di muri indistruttibili nella “vita vera”. Ci sono adulti che si inseguono, anziani che si sono trovati troppo tardi ma hanno capito tutto, adolescenti provocanti e altre che preparano il corredo, ragazzini curiosi e bambini che accendono inconsapevolmente l’erotismo, in una sfera sessuale capace di caratterizzare soprattutto i personaggi più giovani senza sfociare nella volgarità.
Me and You and Everyone We Know è un grande affresco
della generazione degli anni Zero, in lotta tra eccesso di
comunicazione e difficoltà relazionali, paura della solitudine
e incapacità di ascolto. Ci sono il reale e il virtuale che si
spartiscono le ore di vita dei protagonisti, c’è la percezione
afferrabile di come questo possa costituire assieme un’opportunità e un pericolo, ma soprattutto una disperata forma di
compensazione La realtà prende forma all’interno di minuscoli appartamenti di periferia, in centri commerciali, dentro
vecchie automobili. La fantasia si anima nell’altrove di una
cartolina o negli spazi virtuali di una chat line. Ma le due
dimensioni non sono scollate, semmai l’autrice vuole mostrare proprio come nell’apparente piattezza di ogni giorno, nella
storia di un’autista e un commesso o nelle tappe di crescita di
alcuni ragazzini le sfumature rendano la vita tridimensionale.
Basta spingersi a fondo con lo sguardo senza mai violare il
mistero di un silenzio. Si dicono cose e si tentano discorsi,
ma alla fine le parole più belle si esprimono mentre si aspetta che la colla su uno specchietto rotto si attacchi, durante un
canto notturno per strada, nel segreto di un abbraccio sotto un
ulivo o nel rinascere di un nuovo giorno, mosso dalla fanta22
sia purissima dell’inconsapevolezza. La mano bruciata di Richard viene liberata dalle bende e portata a
spasso in una passeggiata con i figli, che finalmente lo perdonano, per essere infine stretta da Christine. Il
male è passato, il riposo forzato ha permesso alla cura di agire, la vita risorge dalle ceneri di un dolore nella
speranza di un abbraccio.
Rassegna stampa
[…] Me and You è un film sottile, stralunato, apparentemente timido ma determinato al tempo
stesso, sinceramente emozionante. Un film che parla di relazioni (di coppia e non), ma non
solo: parla delle persone, parla della vita. Si apre con una separazione e termina con una nuova
unione: nel mezzo, personaggi a tratti surreali ma veri, un’umanità inedita solo perché a volte
non si hanno occhi e tempo per vedere. Un’umanità che, indipendentemente dalla generazione cui si appartiene, sembra condividere le stesse certezze e incertezze, fatta di bambini dall’inquietante maturità, che chattano (in)consapevolmente di sesso e altri che già preparano il corredo per
le nozze, adolescenti sospesi tra sesso immaginato e sesso praticato, adulti alle prese con le difficoltà dell’amore e della solitudine, anziani a confronto con la morte. La July si avvicina lentamente e ci accompagna senza tante parole alla scoperta di tutto questo, con uno stile tanto personale tanto (positivamente) vicino a quello di molto nuovo cinema americano. Ci porta a fare conoscenza di quell’umanità che rischia altrimenti di rimanere lontana, vista dall’alto, un ammasso di punti, virgole e puntievirgola su un foglio di carta,
come rappresentato da uno dei ragazzi protagonisti del film attraverso uno strampalato ma significativo
esempio di Ascii Art. […] Persino quando racconta le opere e le aspirazioni di Christine e quando scocca
frecciate caustiche ma complici al mondo dell’arte e dei musei, la July riesce e mantenere un buon e delicato equilibrio nella narrazione. […] La July racconta la sua storia e i suoi protagonisti con la stessa procedura con la quale Christine racconta la sua arte. Christine filma fotografie, istantanee semplici, momenti di vita, spesso nemmeno scattate da lei, e le filma sovrapponendogli la sua voce off, raccontando una
nuova storia per quel momento, ricontestualizzando il tutto e donandogli un significato nuovo, figlio dei
suoi sogni e della sua sensibilità, ma tanto vero da essere universale. Universale perché tutti i protagonisti
del film di Miranda July sono io, siete voi, sono tutte le persone che conosciamo.
(Federico Gironi, duellanti n. 22, dicembre 2005)
Eva
Pare che sia nata una bella promessa: Miranda July. Artista versatile e attiva su molti fronti,
dalla scrittura alla radio alle performance musicali, nasce cineasta (sceneggiatrice, regista e
attrice: in Me and You è tutto) dal vivaio Sundance. [...] Siamo davanti a un piccolo film molto
personale come poteva essere un debutto ai tempo d’oro della nascente Nouvelle Vague francese o dell’inglese Free Cinema. Un originale contenitore minimalista, sentimentale e comico
contemporaneamente, dove si mescolano le moderne stravaganze e paure di contatto umano.
[...] Anche i passaggi più scabrosi sono serviti con un sorriso leggero, che sdrammatizza pur non occultando l’inquietudine di fondo di un’umanità isolata e spaventata. L’ordinario e il magico delle aspettative, il
comune e l’eccezionale di ciascuna personalità.
(Roberto Nepoti, la Repubblica, 9 dicembre 2005)
Un passaggio della promessa ripetuta all’inizio («vivrò ogni giorno come fosse l’ultimo») racchiude lo spirito della poliedrica Miranda July, la quale pubblica storie su riviste, recita performance radiofoniche, gira cortometraggi proiettati in musei internazionali. Esordio cinematografico personalissimo il suo, avendo provato tutti i ruoli mentre stendeva la sceneggiatura,
per poi interpretare la co-protagonista in una struttura corale e dirigere. Ne viene fuori un piccolo mosaico umano straordinario - in senso letterale - in quanto bizzarro, al punto da suscitare una risata dietro l’altra. Un risultato universalmente confermato dai premi ottenuti nei festival, dal
Sundance a Cannes. Per un film accompagnato da note elettroniche minimaliste e vitali, esatto riflesso di
una trama trapuntata di personalità che si sfiorano appena, s’intrecciano, si passano accanto. […]. Nelle
situazioni potenzialmente scabrose (eticamente il sesso e la giovane età) c’è una felice innocenza, leggerezza, sensibilità di tocco, mentre nel complesso almeno due momenti raggiungono vette liriche: il bimbo
che scopre la natura del ticchettio ascoltato tutte le sere, e il discorso sul parallelo tra una relazione e una
Eva
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camminata a due sul marciapiede.
(Federico Raponi, www.filmup.it)
È ancora un film indipendente Usa […] dove si raccontano storie inserendole nel semaforo del
destino. Il tratteggio a piccolo punto realistico della vita di provincia è vivo, ha colori tenui ma
solidi, sentimenti pronti a contraddirsi, a giudicare dall’incontro tra un’artista timida e un commesso divorziato. Siamo nel pianeta della tenerezza non stop e si fa molto uso del carino. Una
commedia che non promette e non giura su niente, tanto meno sugli affetti: piace perché prova.
Ha ottenuto tanti premi, è sincero.
(Maurizio Porro, Corriere della Sera, 16 dicembre 2005)
In una cittadina Usa qualsiasi Christine, artista di performance multimediali, campa facendo
l’autista per vecchi pensionati; Richard, neodivorziato con due ragazzini a carico (che, però,
rimpiangono la mamma), vende scarpe in un negozio. Lei s’innamora di botto, lui un po’ meno
perché tiene la guardia alta. Intorno a quella coppia in formazione ruota una galleria di personaggetti disegnati con garbo e brio. Come suggerisce il titolo sono tutti (anche i molti bambini) alla ricerca di contatti, connessioni, legami, magari anche soltanto virtuali. Da lei scritta e
interpretata, è una commedia con cui Miranda July, artista audiovisuale di successo, esordisce nella regia,
dopo aver fatto quattro cortometraggi e studiato al Sundance Institute. In questo piccolo affresco sulla solitudine all’alba del XXI secolo riesce a essere intrigante, commovente e spiritosa con dialoghi aguzzi che
toccano una larga gamma dell’umorismo, dal patetico al grottesco, dal tenero al volgare. Molti premi nei
festival Usa (Sundance, Los Angeles, Philadelphia) e Camera d’or a Cannes dove fu presentato alla
Semaine de la Critique.
(Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini. Dizionario dei film, 2008)
Premi e riconoscimenti
- PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA AL SUNDANCE FILM FESTIVAL (2005)
- CAMERA D’ORO E PREMIO SPECIALE DELLA CRITICA AL 58° FESTIVAL DI CANNES (2005)
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UN’ORA SOLA TI VORREI
Alina Marazzi (Italia, 2002)
Con questo lavoro vorrei trasmettere il fortissimo sentimento di nostalgia che ho
provato nel guardare queste immagini per la prima volta. Non solo nostalgia
per una mamma che non c’è e che non c’è mai stata ma anche nostalgia
per tutto quello che è stato e che non tornerà, per quello da cui veniamo
e al quale ci sentiamo più o meno consapevolmente legati. La nostalgia
come sentimento necessario per il superamento di una perdita.
La nostalgia come condizione essenziale per vivere.
Alina Marazzi
Cast & Credits
Immagini d’archivio (1926-1972) Ulrico Hoepli, (19581962) Giorgio Magister
Testo Luisa Marazzi Hoepli
Voce Alina Marazzi
Montaggio Ilaria Fraioli
Durata 55’
Trama
La storia di Liseli Hoepli Marazzi viene ricostruita dalla
figlia Alina attraverso i filmini girati nell’arco di trent’anni dal nonno, il famoso editore milanese Ulrico
Hoepli, insieme ai diari della madre, morta suicida
quando la regista aveva sette anni. Un viaggio nell’elaborazione di una memoria assente che unisce la riscoperta di un mondo interiore a un’interessante sperimentazione dal punto di vista cinematografico.
Un’ora sola ti vorrei: il corpo gravido della
memoria
Le tracce di una vita si conservano sulla pelle, nel fondo
di uno sguardo. A volte si negano o si dimenticano,
chiudendole in bauli impolverati di silenzio. Il corpo
delle donne è depositario di storia non solo personale ma anche ricevuta in eredità, una memoria troppo
spesso muta perché non pubblica e quindi meno considerata. Di questo vuoto si fa portavoce Un’ora sola
ti vorrei.
Il rapporto con una madre, l’intersecarsi di femminilità che nascono da un’unica origine e divergono sono
temi complessi: fondono l’essere figlia e al contempo donna, il ricordo di ciò che si è vissuto (e spesso
subito) e quello che si vuole donare a chi verrà dopo. È nel corpo che questo lascito avviene. Un corpo abitato e in seguito svuotato, che diviene prima culla, poi distanza e infine destino. Alina Marazzi compie
un’operazione che è insieme drasticamente emotiva e profondamente intellettuale, in grado di portare alla
luce la memoria personale e di collocarla in una dimensione più ampia. La ricostruzione del volto e della
voce di una donna quasi mai conosciuta e l’assemblaggio dei pezzi di diario con le immagini di un nonnopadre che ha filmato per anni episodi di vita fanno emergere nettamente la difficoltà di un’esistenza inaf-
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ferrabile. Nella scelta di utilizzare solo le scene dei filmini (con qualche intervento di repertorio) assieme
alle parole di Líseli lette dalla regista c’è già l’incontro di generazioni e diversi punti di vista. Lo sguardo
di un uomo sulla propria famiglia e l’ossessiva autoanalisi della figlia che si racconta scrivendo vengono
restituiti attraverso gli occhi e la voce di chi si fa testimone di un mondo altrimenti taciuto. Dal coraggio
di questa regista-figlia nasce un vero e proprio incontro con un’eredità silenziosa. Non un patetico memoir
o un testamento postumo, ma l’immagine di un’inquietudine che nonostante il benessere e l’apparente serenità non riusciva a trovare pace. Le parole della protagonista sono così quelle di una pellicola in cui tempo
cronologico e controtempo emotivo si attraversano tramite il montaggio, capace di alternare velocità e
ritmi di racconto diversi fino a non poter più mostrare il sorriso di Líseli e il dolore della malattia se non
con sequenze di cartelle cliniche, tracciati medici, alberi e insetti. Un’ora sola ti vorrei non intende trovare motivazioni razionali a quanto viene rappresentato. Cerca i segni nostalgici di un amore sofferto e interrotto, un’effigie nascosta. L’ultima inquadratura restituisce ancora lo stesso volto dell’inizio, che al termine di questo viaggio reca in sé il peso di un destino già presente ma invisibile. Il cinema si trasforma in
mezzo privilegiato per risarcire l’assurdità di una perdita, archivio umano pronto a rielaborare mancanze e
lutti.
Rassegna stampa
Film di montaggio che A. Marazzi ha tratto - con la collaborazione di Ilaria Fraioli al montaggio delle immagini e di Benni Atria a quello del suono - da una sessantina di bobine di film di
famiglia in 16 e 8 mm, filmati dal 1926 alla metà degli anni ‘70 dal nonno materno Ulrico
Hoepli (1907), figlio Hoepli (1847-1935), editore svizzero che fondò in Milano la nota casa
editrice, specializzata in pubblicazioni tecniche e scientifiche. La spinta iniziale è stata emotiva: trovare immagini della madre Liseli Hoepli Marazzi (1938-1972), morta tragicamente, vittima di una sindrome depressiva, a 33 anni nel 1972 quando Alina ne aveva sette. «Ho scelto di raccontare la storia di mia madre inserendola nel contesto della sua famiglia [...] e cercando di tracciare [...] una
genealogia femminile che parte da mia nonna e arriva fino a me.» (A. Marazzi). Dai momenti e dai riti
domestici di una ricca famiglia borghese del Norditalia nasce un viaggio attraverso metà del Novecento. Il
commento parlato è un collage di lettere e diari di Liseli e cartelle cliniche, in forma di un’ipotetica lettera, come se fosse lei a raccontare la sua storia alla figlia Alina alla quale appartiene anche la voce narrante. Il risultato di questo giuoco di rispecchiamenti è struggente, ma anche controllato, occhiuto e un po’
inquietante nella descrizione di una famiglia della ricca borghesia lombarda. Primo premio ai festival di
Torino e Newport, menzioni speciali della giuria a Locarno e al Festival dei Popoli di Firenze.
(Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini. Dizionario dei film, 2008)
Ci sono piccoli film grandi come una montagna. Ci sono emozioni che la fantasia non riesce a
inventare. Ci sono dolori che risiedono solo nella vita reale e gioie che nascono solo dal vissuto di chi soffre […]. Un film meraviglioso, fatto di dolore, di tempo, di nostalgia, di curiosità. L’autrice, una ragazza del ’64, voleva conoscere la storia di sua mamma, morta quando
lei era piccola. Una morte, quella di Liseli Hoepli, circondata da un riserbo e un silenzio che
in sua figlia, man mano che cresceva, allargava il vuoto e la voglia di sapere […]. Che comincia, come accade sempre, con una domanda sofferta a chi è restato, a chi sa, a chi ha visto, condiviso, vissuto. Una domanda al padre. E poi la scoperta di un baule. Uno di quegli oggetti con i quali conviviamo
ma che, Santa Lucia, non avevamo mai guardato con gli occhi giusti. Un ricovero di vita vissuta. In questo caso la vita della propria madre. Con una particolarità. Non c’erano, lì, solo le carte. Ma anche immagini, ciò che i bauli spesso non conoscono. Sono rifugi di altri tempi, di memoria scritta, di oggetti, semmai. Ma il nonno di Liseli amava il cinema e dal 1926 al 1972 aveva filmato cose e persone, città e sorrisi. Aveva cominciato con una cinepresa Pathé Baby e poi aveva continuato con una Bolex Paillard. Persino
la storia di questo oggetto è poesia pura. Il nonno di Liseli la aveva avuta come parte dei proventi della
vendita di un’automobile. Il compratore non aveva tutti i soldi e aveva così scambiato quella macchina
sedici millimetri con la meccanica a molla. Fermiamoci un attimo. Se il compratore avesse avuto tutto il
denaro o se il nonno si fosse impuntato, il baule sarebbe rimasto un baule come gli altri. Non avrebbe con26
tenuto, conservato e portato fino alle mani esitanti di Alina la vita di una famiglia e la storia del viso e del
sorriso che cambia direzione, di una giovane donna. Alina Marazzi ricostruisce, con stupore e delicato
dolore, la vita di una ragazza della sua età poi diventata sua madre e poi smette di sorridere e poi fa male
alla sua vita che le faceva male. C’è l’amore di una figlia e il suo incanto nel capire e ritrovare il filo di
vite intrecciate e di destini spezzettati. È un film che strazia ed emoziona. Che fa bene, che è un atto di
generosità. Ed è dolcezza terribile, vuoto e pieno. Vita e morte. Si potrebbe dire che è un film sul film. Se
non fosse, invece, sulla sua vita.
(Walter Veltroni, Ciak n. 3, marzo 2007)
Dopo aver realizzato tanti documentari che affondano le radici nel sociale, denunciando realtà difficili, aspre problematiche, Alina Marazzi dimentica il mondo che la circonda e ritorna al
passato, facendo il film della sua vita, o meglio il film della vita di sua madre, Liseli. Una decisione coraggiosa, matura, che sembra indicarci un faticoso percorso individuale di accettazione e al tempo stesso di riscatto. Liseli si è tolta la vita nel 1972 quando Alina aveva 7 anni, ma
molte immagini di lei sono fissate per sempre nei film di famiglia girati dal nonno, Ulrico
Hoepli, in bianco e nero e a colori. Alina li ritrova, riporta tutto alla luce, li monta con abilità e con passione, presta alla madre la “sua” voce , la fa rivivere, e consegna con grande amore e audacia la sua vicenda
umana agli spettatori. Prima al Festival di Locarno poi al Torino Film Festival, dove il suo lavoro è accolto con molto calore e ottiene il premio per il miglior documentario, e infine al festival dei Popoli di Firenze,
dove ottiene una menzione speciale (il premio è andato a Guido Chiesa). E Alina spera che il suo, come
altri documentari, possano andare nelle sale e trovare altri spettatori. Ancora il desiderio di una condivisione ampia delle sue vicende personali, dei suoi ricordi, risolti, sublimati in una creazione artistica. Ci troviamo fin dalle prime sequenze all’interno di una famiglia dell’alta borghesia lombarda con origini in un
paese della Svizzera. Matrimoni eleganti , feste, viaggi straordinari, vacanze allegre al mare e in montagna, prati, giochi di bimbi. E nel raccontare le vicende private di questa famiglia lo schermo si riempie di
bellezza. Soprattutto Liseli è molto bella, quando è ancora ragazza, quando si fidanza e quando si sposa
con Antonio; quando diventa mamma di Martino e di Alina e quando coi bimbi piccoli va a vivere negli
Stati Uniti, si intuisce per seguire il marito nel suo lavoro. Tutta questa parte del film è “anche” ricca documentazione antropologica di un ambiente sociale, attraverso quei riti famigliari solitamente segnati dalla
felicità. Poi qualcosa, che già era preannunciato dalla voce narrante Liseli/Alina si rompe, e la malattia ha
il sopravvento. Ora Liseli è ricoverata in cliniche per malattie nervose, i referti parlano di sindrome depressiva, non vediamo più il suo bel viso, ma ascoltiamo le parole intense e strazianti che scrive ai figli, i suoi
diari. E poi con lievità, senza retorica, Alina ci conduce alla fine della storia, al mistero della morte. Ma
come sappiamo Alina con questo film compie il miracolo e dà una nuova vita a Liseli, che le sarà di nuovo
accanto. Madre e figlia ormai si confondono, nello stesso atto creativo che le lega.
(www.cinemah.it)
Eva
Premi e riconoscimenti
- PREMIO COME MIGLIOR DOCUMENTARIO AL FESTIVAL DEL CINEMA DI TORINO (2002)
- MENZIONE SPECIALE PER LA MIGLIOR REGIA AL FESTIVAL DEL CINEMA DI LOCARNO
(2002)
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FILMOGRAFIA
Francesca Comencini
Pianoforte (1983)
La luce del lago (1989)
Un altro mondo è possibile (2001)
Le parole di mio padre (2001)
Carlo Giuliani, ragazzo (2002)
Mi piace lavorare - Mobbing (2003)
Visions of Europe, episodio Anna lives in Marghera (2004)
A casa nostra (2006)
In fabbrica (2007)
Lo spazio bianco (2009)
Jessica Hausner
Lovely Rita (2001)
Hotel (2004)
Lourdes (2009)
Miranda July
Me and You and Everyone We Know (2005)
The Future (2010)
Nadine Labaki
Caramel (2007)
Et maintenant, on va où? (2011)
Alina Marazzi
L’America me l’immaginavo (1991)
Il declino di Milano (1992)
Mediterraneo, il mare industrializzato (1993)
Ragazzi dentro (1997)
Il sogno tradito (1999)
Un’ora sola ti vorrei (2002)
Per sempre (2004)
Vogliamo anche le rose (2007)
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BIBLIOGRAFIA
Bertelli Pino, Dolci sorelle di rabbia. Cento anni di cinemadonna, Belforte, Livorno, 2005
Casella Paola, Cinema: femminile, plurale. Mogli, madri, amanti del terzo millennio, Le mani, Recco, 2010
Comencini Francesca, Famiglie, Fandango, Roma, 2011
Comencini Francesca, Bernini Franco, A casa nostra, Marsilio, Venezia, 2006
Comencini Francesca, Ranieri Daniele, Il lavoro molesto. Mi piace lavorare - Mobbing. Libro con dvd,
Eddiesse, Roma, 2004
July Miranda, Tu più di chiunque altro, Feltrinelli, Milano, 2007
Marazzi Alina, Un’ora sola ti vorrei. Libro con dvd, Rizzoli, Milano, 2006
Marazzi Alina, Vogliamo anche le rose. Libro con dvd, Feltrinelli, Milano, 2008
Morandini Morando sr., Morando Morandini jr., Il Morandini delle donne. 60 anni di cinema italiano al
femminile, Iacobelli, Pavona (RM), 2010
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INDICE
Gli occhi di Eva ovvero la tentazione di un nuovo sguardo sulla realtà………………pag. 3
Caramel……………………………………………………………………………………pag. 6
Lo spazio bianco…………………………………………………………………………..pag. 11
Lourdes……………………………………………………………………………………pag. 15
Me and You and Everyone We Know…………………………………………………...pag. 21
Un’ora sola ti vorrei………………………………………………………………………pag. 25
Filmografia……………………………………………………………………………… pag. 29
Bibliografia……………………………………………………………………………… pag. 31