humor vacui - Tralerighe

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NICOLÒ MAZZA DE’ PICCIOLI
HUMOR VACUI
L’imprevedibile durata dell’attimo
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In copertina: illustrazione di Marta Cavicchioni
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Prima edizione: maggio 2016
ISBN 978-88-99575-07-6
Mamma, papà, fratello, sorella,
Marta, cani e gatti per la pazienza.
Sognava di poter passeggiare anni e anni per città
e per foreste, di non essere in nessun posto e dappertutto.
Il sognatore ha il gusto divino dell’onnipresenza.
(Pierre Drieu La Rochelle, Gilles)
.
Prefazione
di Giacomo Paris
Lo scrittore fa quello che fa il bambino giocando: crea
un mondo di fantasia che prende molto sul serio. Non
dobbiamo però immaginarci i prodotti di questa attività fantastica come castelli in aria, sogni a occhi aperti rigidi e immutabili. Si adattano invece alle variabili
impressioni offerte dalla vita, mutano a ogni cambiamento della nostra posizione e da ogni nuova vivace
esperienza traggono, per così dire, un contrassegno
temporale.
Il rapporto della fantasia con il tempo è molto significativo in questi racconti. Si muovono tutti su tre tempi: quello dell’impressione attuale, un’occasione offerta
dal presente e promotrice di grandi desideri; quello
dell’esperienza anteriore, risalente ai ricordi innocenti
dell’infanzia; quello del sogno futuro, che si configura
come appagamento almeno parziale di quei desideri e
di quei ricordi.
La lingua tedesca preserva l’affinità che sussiste tra
il gioco e la scrittura, e tra la scrittura e il tempo, indicando con lo stesso termine i testi, ossia le produzio-
ni scritte che richiedono un appoggio a oggetti reali e
tangibili (Spiele) e i giochi (Spiele); lo scrittore è poi lo
Schauspieler, cioè il giocatore che dà spettacolo all’interno della ruota del tempo, quasi ingoiato dalle fauci di Cronos. Da questa apparente irrealtà del mondo
della scrittura derivano conseguenze assai notevoli per
l’arte creativa in generale: molte cose che, in quanto
reali, non produrrebbero alcun piacere o godimento,
possono invece farlo nell’infinito gioco della fantasia.
Questo è ciò che riesce a fare lo scrittore, questo è il suo
particolarissimo segreto. Il piacere estetico procuratoci
da questi racconti ci mette nella condizione di gustare
d’ora in poi le nostre fantasie senza vergogna e senza
sensi di colpa.
Certo, incontrare la scrittura di Nicolò Mazza de’
Piccioli significa anche, per converso, incamminarsi verso l’abisso. Per questo motivo essa richiede una
devozione quasi religiosa, una predisposizione al sacro.
Si ha l’impressione ogni volta di essere segregati, come
trasferiti in un mondo di improvvisa insanabilità: il
racconto, nel suo intersecarsi, regala sempre un trauma, mite e stranamente gratificante ma anche violento; tutto è angoscia e conflitto e nel contempo salvezza
purificata dal dubbio. Ogni racconto una tappa, un
purgatorio, una finestra sul mondo dell’io e del non-io.
La sua scrittura è alla fine un luogo di villeggiatura,
dove ci si muove a fiato lento attraverso stadi intermedi
di convalescenza, una sorta di mito di Sisifo consolato
dalla poesia della parola.
Il settimino
L’argano era ormai entrato in funzione. Uno alla volta,
i suoi mobili stavano abbandonando lui e la sua casa,
per sempre. Per ognuno di loro aveva un ricordo, come
fossero bare di vecchi amici che gli sfilavano davanti al
funerale.
“Quelle sedie”, pensava, “avevano fatto accomodare
allo stesso modo le più prestigiose autorità cittadine e i
più giovani e promettenti artisti. Magari privi di grandi disponibilità, ma famelici di enorme conoscenza”.
E mentre pronunciava col pensiero la parola enorme, i
suoi occhi si spalancavano e le sue mani si aprivano in
un abbraccio.
Come in ogni casa in cui per qualche tempo sia entrata della luce, i quadri rimossi avevano lasciato un
segno indelebile della loro presenza sulla carta da parati
del salotto. I cuscini del divano, invece, li aveva fatti
imbottire lui stesso con lana d’importazione di rarissima qualità, proprio come ebbe a suggerirgli nientemeno che un effendi di Bisanzio, come ancora s’intestardiva a chiamare Istanbul.
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nicolò mazza de’ piccioli
«Lo stretto del Bosforo», insegnava ai suoi ragazzi,
«è la vagina da cui è stato partorito l’Occidente. Più che
all’Atlantico o al Pacifico, per comprendere a fondo le
vostre origini vi invito a guardare, e a guardarvi, dal
Bosforo». E l’ultimo accento, accompagnato dal gesto
dell’abbraccio e dallo strabuzzare degli occhi, cadeva
con smisurata enfasi sulla prima o.
«Come lei crede, signor maestro», rispondevano in
coro gli studenti.
Appellarsi e contestare erano per lui nient’altro che
espedienti dialettici e fini artifici accademici, quindi
non seppe in che modo opporsi a quell’esecuzione di
sfratto. Le parole si erano fatte polveri bagnate. Rimase
educatamente in disparte, stretto nei suoi ricordi, mentre gli pignoravano l’intera sua vita.
Senza farsi notare dagli uomini incaricati del trasporto, era però riuscito a sottrarre una cornicetta da
uno degli scatoloni destinati all’incanto. All’interno vi
era una vecchia fotografia di suo padre da giovane. La
impugnava con entrambe le mani e stringeva così forte
che sembrava stesse cercando di lasciarci cadere forzatamente una lacrima, ma proprio allora gli addetti al
trasloco si apprestarono a svuotare e rimuovere il settimino che fu suo.
Benché fossero trascorsi già sei mesi dalla morte,
non aveva ancora trovato il coraggio di profanare il paterno ordine maniacale impartito a quei sette cassetti:
il primo era destinato ai soli guanti. Ogni varietà di
guanti, anche se ne indossava un solo paio a stagione.
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Il secondo era soltanto per le cravatte. Rigorosamente
a tinte unite. Nel successivo si trovavano i fazzoletti da
taschino e via via giù, fino all’ultimo cassetto – che non
era stato mai neppure aperto in sua presenza – destinato a calzini e mutande.
La biancheria intima del padre si stava ammucchiando adesso sulle lastre di marmo del pavimento, i
cassetti svuotati.
Rimase solo, con una fotografia in mano e una negli occhi.
Fu in quel preciso istante che comprese con quanta
indifferenza suo padre, ammalandosi e morendo, così
come gli aveva donato la vita, lo stava ora privando di
ogni cosa. Espropriato, non avrebbe mai potuto immaginare che la sua vita, integralmente votata allo studio
della luce e al suo insegnamento, si sarebbe d’un tratto
inchiodata di fronte alla profondità cieca di un pozzo.
Un pozzo nero che gli era stato scavato sotto la punta
delle scarpe senza che nemmeno se ne accorgesse.
Comprese che quella malattia non gli apparteneva. Lo aveva privato, al contempo, di suo padre e della
convinzione di averlo mai conosciuto realmente.