Prime pagine - Codice Edizioni

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Prime pagine - Codice Edizioni
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Alan Burdick
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Un’odissea ecologica
Traduzione di Valeria Roncarolo
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Alan Burdick
Lontano dall’Eden
Un’odissea ecologica
Progetto grafico: Gaetano Cassini/Passages
Coordinamento produttivo: Progedit & Consulting, Torino
Copyright © 2005 by Alan Burdick
All rights reserved
Printed in the United States of America
First edition, 2005
Alan Burdick
Out of Eden
An Odyssey of Ecological Invasion
© 2006 Codice edizioni,Torino
ISBN 88-7578-047-1
Tutti i diritti sono riservati.
Per le riproduzioni grafiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi
inserite in quest’opera, l’Editore è a disposizione degli aventi diritto,
nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione
nei riferimenti bibliografici.
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A Mary e Robert,
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Perché, figlio di Agenore,
guardi quel serpente ucciso?
Tu stesso come serpente sarai guardato.
OVIDIO, Metamorfosi
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Nella stretta del serpente
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Paradiso in vista
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Facendo vela
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Nuovo mondo
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All’improvviso nel blu, un cortocircuito rosso: le Hawaii.
La prima isola nata da una bocca vulcanica sottomarina, trasportata a nord-ovest insieme alla crosta oceanica e poi affondata. Chiamata Meiji Seamount, ha più di 80 milioni di anni e oggi si trova sul
fondo dell’Oceano Pacifico, non molto lontano dalla penisola russa
di Kamchatka e dalle isole A l e u t i n e, sepolta sotto mezzo miglio di
argilla marina, calcare fine e uno strato sottile in costante movimento di sedimenti biogenici, noto agli scienziati come o o ze1. I secoli
sono passati; altre isole sono sorte, tramontate o rimaste. Si è formato un arcipelago dall’area semisommersa: una linea di pietre di guado che risalivano indietro fino al punto di origine. Sopra di loro, si
sono stabiliti una serie di viaggiatori casuali: un ragno arrivato viaggiando nell’aria appeso a un filo di seta, una lumaca, una zecca o una
lappola trasportata tra le piume di un uccello marino di passaggio,
ogni nuovo colono è arrivato a intervalli di circa 20 000 anni. La selezione naturale ha fatto la sua opera di sfoltimento. Un paio di fri nguelli hanno dato vita, nel corso di milioni di anni, a oltre 50 specie
di multicolori fringillidi. Da un’unica coppia di moscerini della frutta, si è avuta l’evoluzione di più di 600 specie di mosche. Lamponi
senza spine, ortiche non urticanti, insetti albini che vivono in cunicoli di lava. Nessun rettile, nessuna zanzara, nessun mammifero, a
parte, di tanto in tanto, una foca monaca o un pipistrello insettivoro.
Beati i mansueti, perché erediteranno la terra.
In mezzo al bl u , ore e ore di bl u , anche in quest’era di viaggi
aerei, ci sono le Hawa i i . G u a rdo l’arcipelago che si distende al di
sotto del mio finestrino, da est a ovest. Prima c’è la “Grande Isola”,
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Sedimenti biogenici carbonatici a nanofossili e foraminiferi. [N.d.T.]
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l’omonima Hawaii. Delle nuvole circondano come una ghirlanda
le sue ve t t e,Mauna Loa e Mauna Kea, a 3000 metri; con il suo milione di anni di età, è il membro più giovane della catena insulare.
Venti minuti dopo, ci sono Maui e il cratere irre g o l a re dell’Haleakala, che gli abitanti dell’isola sono abituati a considerare un vulcano estinto, ma che in realtà è solamente non attivo. Poi vengono
Molokai e Lanai, basse e ondulate come dei platelminti ve rd i . Nella cabina passeggeri, sullo schermo del telev i s o re appare improvvisamente una cartina dell’arc i p e l a g o. Noi siamo rappresentati dalla
piccola silhouette bianca di un jet che sta virando verso Honolulu,
indicato da una stellina rossa sull’isola di Oahu.
Una hostess scende lungo la cabina porgendo dei fogli stampati
con lettere arancioni: i moduli di dichiarazione. Dichiaro che non sto
trasportando frutta o verdure fresche. Non ho da dichiarare la pre s e nza di aragoste o bivalvi vivi, nessun fiore, foglia, piante in vaso, o talee;
niente semi, bulbi, terriccio o sabbia; nessun batterio, né alghe, funghi
o protozoi. No, non sto viaggiando con un cane, un uccello, una tartaruga o una lucertola. Oahu appare attrave rso l’oblò: il cratere Diamond Head a ovest, i grattacieli di Waikiki che si mescolano con
quelli di Honolulu, perle di conglomerati urbani si susseguono lungo
la spiaggia di sabbia bianca. L’aereo vira sorvolando campi di canna da
zucchero, al di sopra di Pearl Harbour. Lontane più di 3000 chilometri dal continente asiatico e dal Nord-America, le Hawaii rappre s e ntano la più isolata e vasta massa terrestre al mondo, come annuncia il
pilota. La sua voce risuona forte dagli altoparlanti: «Qui siamo più
lontani da qualsiasi altro luogo di qualsiasi altro luogo sulla Terra».
Sono ve nu t o, apparentemente, per occuparmi di un serpente. E
questo è un passatempo inusuale qui alle Hawaii, per il semplice
motivo che, per quanto se ne sappia, ci sono ben pochi serpenti da
scoprire. Un paio di volte all’anno, un boa costrittore domestico o
un pitone moluro birmano fuggono dai loro padroni, per riappari re
in qualche garage di Waikiki o di Wimea, fatto che si risolve con
una chiamata alla squadra animali dell’Hawaii Department of Agric u l t u re. L’unico serpente riconosciuto come stanziatosi nel paese è
il serpente cieco bramino (Rhamphotyphlops bra m i n u s), una viscida
creatura, molto diffusa e priva della vista, più vicina per dimensione
e carattere a un verme.
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Il rettile che stavo cercando era, proprio come me, uno straniero alle
Hawaii: il Boiga irregulari s,il serpente arboreo bruno. Originario dell’Australia, questo serpente giunse in un primo momento sull’isola
di Guam, nel Pacifico, a più di 6000 chilometri a ovest di Honolulu,
poco dopo la Seconda guerra mondiale. La sua sfera d’influenza e la
sua fama da quel momento si estesero rapidamente. Prima di quell’arrivo fatidico, l’unico serpente a Guam era lo sventurato Rhamphotyphlops bra m i n u s. Oggi invece l’isola ospita più serpenti arborei
bruni (per essere precisi, accoglie il maggior numero di serpenti in
assoluto) per chilometro quadrato di qualsiasi altro luogo al mondo.
Questo record va decisamente a scapito della popolazione di uccelli
nativi di Guam, che è stata quasi interamente eliminata dall’insaziabile appetito di questo rettile. L’uccello che costituisce l’emblema
nazionale, un rallo incapace di volare, noto come koko, regna sull’isola da dietro una rete elettrificata di sicurezza, all’interno di un recinto in cui viene specificamente allevato, nelle vicinanze dell’aeroporto internazionale.
Nel suo paese natale, il serpente arboreo bruno raramente raggiunge più di 90 centimetri di lunghezza, m e n t re a Guam gli esemplari che arrivano a quasi quattro metri non sono una rarità. Il suo
morso, che colpisce circa 200 persone ogni anno, è leggermente velenoso, in maniera analoga a una puntura d’ape. Il serpente è caratterizzato da un’incontenibile tendenza ad arrampicarsi, in part i c o l are su linee elettriche e trasformatori, provocando dozzine di bl a c k out ogni anno, per un costo che si avvicina annualmente al milione
di dollari. Il prezzo psicologico per la popolazione locale è molto
più difficile da quantificare. Girano leggende metropolitane su un
serpente che sarebbe strisciato all’interno degli scarichi di un bagno, di un altro saltato fuori dalla bocca dell’impianto per l’aria
condizionata di un’automobile facendo fa re al guidatore una sterzata quasi mortale, e di serpenti che attaccano bambini nelle loro
culle, guidati, come affermano le casalinghe locali, dal profumo del
latte materno.
E ora, pare, il serpente arboreo bruno ha addirittura acquisito la
capacità di volare. Dal 1981, otto esemplari sono stati ritrovati vicino
alle piste dell’aeroporto di Honolulu. Da quello che gli esperti sono
riusciti a spiegare, pare che i rettili siano arrivati come clandestini all’interno del vano di alloggiamento delle ruote di jet provenienti da
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Guam. Un nono esemplare, visto per l’ultima volta all’interno del
perimetro della locale base aeronautica, p o t rebbe essere stato a sua
volta un serpente arboreo bruno, ma è sgusciato via prima di essere
chiaramente identificato. Nel corso dei secoli, la popolazione avicola delle Hawaii ha superato uno dopo l’altro gli attacchi di organismi introdotti nel paese: esseri umani armati di randelli, malaria (arrivata insieme alle casse di uccelli importati e poi trasmessa da un
tipo di zanzara anch’esso introdotto nel paese), ratti grigi (arrivati
fortuitamente a bordo di navi europee) e manguste (introdotte intenzionalmente alla fine del XIX secolo allo scopo, errato, come risultò in seguito, di tenere sotto controllo la popolazione di ratti).
Oggi, quasi il 40% degli uccelli che rientrano nella lista americana
delle specie a rischio di estinzione sono hawaiani, una prova dell’unicità dell’avifauna delle Hawaii e, al tempo stesso, della sua situazione pre c a ria. Nessuno di questi uccelli, dato il loro sviluppo evo l uzionistico, è infatti preparato ad affrontare la minaccia dei serpenti.
E lo stesso si può dire dei 18 000 visitatori umani che arrivano
quotidianamente alle Hawaii. Una buona parte dei passeggeri del
mio volo aveva cominciato a radunarsi nell’area di re c u p e ro bagaglio: coppie in luna di miele, uomini d’affa ri giapponesi, nonnine inghirlandate, turisti con magliette a fiori stanchi del viaggio. Avevamo ricevuto raccomandazioni varie durante il volo d’andata. Per alcuni momenti, la cartina delle Hawaii sullo schermo nella cabina
passeggeri era scomparsa per far posto a un video dal titolo Venuto
da fuori, realizzato dall’Hawaii Department of Agriculture. Apparve
una celebrità locale: «Aloha! Le Hawaii sono un luogo speciale; grazie per la vostra visita! Ma le Hawaii hanno anche altri visitatori
meno benvenuti: insetti, animali, piante e malattie che possono minacciare l’agricoltura e la fauna locale se dovessero stabilirsi nel paese. Per cui, per favore, prestate attenzione a ciò che portate con voi.
Meglio dichiarare cosa trasportate che pagare una mu l t a . Meglio
confessare». N e l l ’ a rea recupero bagagli stavo a osservare mentre un
avido segugio che portava una pettorina verde con la sigla “Hawaii
Department of Agriculture” si tirava dietro il guinzaglio un amabile
funzionario per tutto il locale, in un mare di valigie, borse, zaini, p a cchi e di loro sfiancati proprietari. Il cane avanzava a zig zag, i m p egnato a fiutare l’aria, finché non è rimasto paralizzato di fronte a un
piccolo paradiso olfattivo: una borsetta nera abbandonata sul pav i-
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mento di marmo. L’ispettore con il cane parlò brevemente con la
proprietaria della borsa, una donna coreana che fissava il segugio con
occhi terrorizzati. Riluttante,estrasse due arance dalla borsetta e le
consegnò all’ispettore.
Otto serpenti arborei bruni in vent’anni sembrerebbero non poter costituire una grande minaccia; tuttavia, le caratteristiche biologiche del Boiga irregularis sono tali da pre o c c u p a re qualsiasi scienziato,
ecologista o amministratore nel campo turistico. Il serpente è un animale notturno e, come ogni buon predatore, terribilmente difficile
da indiv i d u a re. I n o l t re, questo serpente è incredibilmente robusto:
nel 1993 un ufficiale militare di Corpus Christi, in Texas, aprì lo sportello di una lavatrice che aveva imballato e spedito a casa svariati mesi
prima dalla sua precedente residenza a Guam.All’interno vi trovò un
serpente arboreo bruno, vivo, senz’altra compagnia o fonte di nutrimento oltre a una piccola quantità di acqua stagnante.Thomas Fritts,
direttore del Brow Tree Snake Research Program per gli Stati Uniti e
Guam, tenne un serpente arboreo nel suo ufficio per un intero anno
senza mai nutrirlo. Come molti rettili, una femmina di serpente arboreo bruno è in grado di deporre uova fertili per svariati anni successivi al momento in cui si è accoppiata. Due dozzine di uova all’anno per sette anni equivalgono a 150 uova, cioè altrettanti nuovi
serpenti capaci di nasconders i , accoppiarsi e produrre altre uova, tutto questo da un singolo serpente. A Guam, sono passati quattro decenni prima che gli scienziati si rendessero conto che l’isola era interamente infestata dai serpenti, che la sua avifanuna era condannata e
l’ecosistema alterato per sempre. Oggi alle Hawaii siamo di fronte a
un’emergenza simile e ugualmente urgente: forse quei sette serpenti
sono solamente degli araldi, un piccolo gruppo venuto alla luce del
sole appartenente a un insieme di innumerevoli serpenti arborei bruni che sono strisciati e continuano a strisciare oltre i confini e nel fogliame delle Hawaii, un segnale d’allarme evidente di ciò che in realtà è una moltitudine clandestina di serpenti che si sta moltiplicando.
Forse dietro la facciata edenica, fatta di strade bordate di bougainv i lle e foreste pluviali drappeggiate di muschio, esiste un brulicante
mondo alla Hieronymus Bosch fatto di serpenti arborei bruni che si
stanno radunando a form a re una folla irreversibile.
«Quale strage l’introduzione di qualche nuovo animale di rapina
deve cagionare in una regione – profetizzava Charles Darwin nel
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1835 – prima che gli istinti dei suoi abitanti indigeni si siano adattati
alla forza e al potere dello straniero»2. Darwin all’epoca aveva 26
anni, era passeggero a bordo della nave di Sua Maestà, il Beagle, sulla
quale avrebbe svolto quello che si rivelò un viaggio fondamentale attrave rso l’Oceano Pacifico orientale.Alcuni anni dopo espresse il suo
entusiasmo per le possibilità presenti alle Hawaii – «Pagherei 50 sterline a qualsiasi collezionista per andare laggiù a lavorare» –, ma invece il suo destino professionale si legò a doppio filo con le isole Galápagos, a circa 1000 chilometri dalle coste dell’Ecuador. Darwin vi
trascorse dive rse settimane raccogliendo esemplari di fringuello e facendo analisi comparative sui carapaci delle tartarughe, annotando le
differenze morfologiche tra le specie di un’isola e quelle delle altre.
Questo bagaglio di prove avrebbe in seguito alimentato la sua teoria
dell’evoluzione basata sulla selezione naturale. Una creatura rimane
isolata: un fringuello proveniente dalla terraferma o un ragno trasportato dal vento in un luogo più distante, una tart a ruga rimasta isolata su una spiaggia per un lungo periodo di tempo a causa della frana di un istmo di terra o per l’innalzamento di una catena montuosa
insormontabile. Così ha inizio la lotta per la sopravvivenza; ne segue
la competizione per le limitate disponibilità di cibo e partner. I vincitori sopravvivono e si riproducono, e i loro successori continuano
la battaglia. I perdenti soccombono, lasciando pochi discendenti, un
ramo secco sull’albero dell’evoluzione che viene potato generazione
dopo generazione, fino a che un nu ovo ramo, una nuova specie, d iversa quanto basta dalla quella originaria, prende forma.
Questa conclusione sarebbe stata raggiunta solo in un secondo
momento, mentre la domanda che si affa c c i ava all’epoca alla mente
di Darwin era ben più semplice: perché certi animali e piante si trovano dove si trovano e non sono presenti in altri luoghi? Perché gli
abitanti di quest’isola sono simili, sebbene con delle differenze, a quelli di quell’altra isola? Pe rché la flora e la fauna mondiali non sono
ovunque le stesse? Cosa rende unico un luogo e i suoi residenti? «Uno
dei temi sul quale ho compiuto degli esperimenti e che mi è costato molte fatiche è quello dei modi di distribuzione di tutti gli esseri
2 Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Casa Editrice Sociale, Milano
1925, p. 384.
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organici individuati sulle isole oceaniche», scrisse Darwin a un collega nel 1857. Le conclusioni che presentò, nell’edizione del 1859 di
L’origine delle specie (e nelle cinque seguenti edizioni), svelavano il segreto della struttura della natura attraverso le ere geologiche e gli
spazi geografici. La natura è dinamica, non statica. Specie che esistevano un tempo non esistono più og gi; nu ove specie sono dunque
sorte dove prima non ne esistevano di simili.Tutto è in movimento.
La vita, se lasciata a se stessa per un tempo sufficiente, si trasforma da
sola.Alla fine – così lentamente che l’occhio umano può rendersene
conto solo a posteriori – un certo luogo, dal punto di vista della sua
fauna e della sua flora, diventa diverso da un altro. Nasce l’eterog eneità e poi si rinnova continuamente.
Questa struttura variegata, temono gli scienziati contemporanei,
si sta disfacendo dall’interno.
Come non era mai accaduto prima d’ora, le piante e gli organismi esotici stanno viaggiando attraverso tutto il globo, trascinati dall’alta marea del traffico umano in luoghi dove la natura non aveva affatto previsto che si trovassero.Api africanizzate hanno raggiunto la
California, pungenti colonie di formiche rosse sudamericane si sono
stanziate in Texas, la pianta rampicante kudzu sta soffocando il sudest degli Stati Uniti, la dreissena (un mollusco europeo della dimensione di un pistacchio) tappezza il fondale dei Grandi Laghi e, sempre più, anche quello del Mississippi, dove fa piazza pulita del plankton necessario alla sopravvivenza delle altre creature acquatiche.Tra
gli invasori che si sono conquistati ultimamente le prime pagine dei
giornali, c’è un pesce asiatico noto come “testa di serpente”. Una prelibatezza per alcuni, per altri un pesce ornamentale; ad ogni modo,
buttato in stagni o ruscelli da proprietari di acquari che vo l evano disfarsi del loro animale domestico, ha progressivamente colonizzato
le acque statunitensi. Quest’animale ha proliferato e la sua popolazione si è diffusa fino a raggiungere recentemente il Maryland e la
Florida e mettendo in allarme i biologi marini per il suo vorace appetito nei confronti della fauna locale. Gli sforzi compiuti per arginarlo, avvelenando interi stagni e ruscelli, sono falliti: l’animale si
rintana semplicemente nel fango, oppure, con una versatilità da anfibio, striscia sulla terraferma, dove può rimanere anche per parecchi
giorni. Se ne sono ritrovati degli esemplari vivi a chilometri di distanza dal più vicino specchio d’acqua; apparentemente, quando uno
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stagno o un fiume non soddisfa più le loro necessità, questi pesci
semplicemente si spostano in uno nuovo.
Il volo del serpente arboreo bruno è solamente uno dei più
drammatici passi ve rso quella che alcuni esperti in invasioni biologiche hanno iniziato a definire come una preoccupante “omogeneizzazione del mondo”. I maiali selvatici attualmente hanno messo radici nei territori di San José, in California. Le carpe asiatiche giganti, introdotte negli anni Settanta per controllare il pro l i f e r a re delle
alghe, saltano furtivamente sui pescherecci lungo il corso del Mississippi. Nella città di NewYork, in cui si è portati a credere che esistano già esemplari di ogni genere, gli ufficiali incaricati della pro t e z i one dell’ambiente stanno monitorando attentamente l’avanzata dello
scarabeo lungo-cornuto asiatico, che ha già determinato la veloce rimozione di una quantità di aceri pari alla dimensione di diversi
quartieri nell’area di Brooklyn. Secondo gli ultimi studi effettuati,
anche due alberi di Central Park ne sono risultati infestati; allo scopo di prevenire ogni ulteriore diffusione, i ricercatori stanno sperimentando l’uso di uno macchinario simile a uno stetoscopio che
permette di percepire il suono della masticazione delle larve di scarabeo all’interno degli alberi. Detto questo, è noto che oggi esistono
5000 specie di piante introdotte nell’ecosistema degli Stati Uniti,
contro le 17 000 autoctone conosciute. La metà delle piante velenose del Nord America sono state introdotte, così come la metà dei
vermi che si trovano nel suo terreno. Nella Florida del sud, centro
assoluto del commercio nazionale di animali, l’avere un serraglio sul
retro di casa e la fuga di animali sono veri e propri luoghi comuni,
tanto che pitoni e boa costrittori esotici sono ormai diventati dei residenti fissi in libera circolazione. L’addetto locale alla cattura di animali scorrazza nella periferia di Miami a bordo di un’automobile
sport iva a caccia di leoni, tigri, puma, nandù, macachi e, una volta,
anche di un bisonte sulla superstrada. La fotografia sul biglietto da
visita di quest’uomo lo immortala insieme a tre amici che sostengono un pitone indonesiano di sette metri estratto da una tana scavata
sotto le fondamenta di una casa nella periferia di Miami.
Gli invasori sono un esercito: gli animali domestici fuggono, pesci d’acquario e piante di serra dilagano con conseguenze devastanti,
gli insetti arrivano nascosti tra le foglie di piante in vaso esotiche,
vengono introdotti degli insetti per combatterne altri che sono infe-
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stanti, con grande, o più spesso, scarso successo. Lo xenopo liscio, un
anfibio molto adattabile e onnivoro, venne importato negli anni
Quaranta e Cinquanta per essere utilizzato come test di gravidanza
(infatti quando vi viene iniettata l’urina di una donna incinta la rana
inizia a produrre le sue uova; è questo che costituisce un chiaro segno rivelatore). Tuttavia, le abitudini riproduttive proprie dell’animale non furono attentamente monitorate e quindi entro il 1969
aveva creato una colonia selvatica in California, nutrendosi di giovani
trote. Gli invasori arrivano sotto forma di semi, spore, larve: u n g ulati
a quattro zampe che si aggirano a piede libero. Essi arrivano dentro
o sopra gabbie, nei container trasportati dai cargo e all’interno dell’acqua che le navi trasportano come zavorra per controbilanciare il
peso del carico. I pesci si sono diffusi tramite l’apertura dei canali, le
piante lungo le massicciate dei binari, le spugne sulla parte sommersa delle navi. Decine di migliaia di specie – la maggior parte delle
quali appartenenti alla fauna, escludendo gli insetti – possono essere
e sono legalmente importate via posta negli Stati Uniti. Negli ultimi
anni, gli ufficiali sanitari statunitensi sono diventati sempre più preoccupati riguardo alla diffusione della zanzara tigre asiatica, che nel suo
ambiente natale è portatrice della dengue e che è giunta a Houston
a metà degli anni Ottanta. Deponendo le sue uova nell’acqua piovana che si raccoglie in vecchi pneumatici abbandonati, l’insetto si è
diffuso parallelamente al commercio delle gomme per auto – un’industria da un miliardo di dollari l’anno, che spedisce pneumatici usati dall’Asia agli Stati Uniti, perché essi vengano sminuzzati, riciclati e
trasformati in nuovi esemplari – in ben 12 stati e nei Caraibi. L’insetto rappresenta il viaggi a t o re per antonomasia: colui che migra sulle ruote che hanno reso possibile dei viaggi nel passato, che, a loro
volta, hanno intrapreso una vita migratoria.
Gli invasori provengono da ogni dove e sono pronti ad andare
dappertutto.“Aliens”, una newsletter internazionale alla quale sono
stato abbonato per qualche tempo, fornisce dati aggiornati sui corvi
indiani a Zanzibar, sulle formiche argentine in Nuova Zelanda, sui
gamberi d’acqua dolce del Nord America in Inghilterra e sulla stella
marina del Pacifico settentrionale in Tasmania. L’Australia – che ha
subito per anni la devastazione terrestre causata da conigli, cani, gatti, cammelli e voraci serpenti velenosi introdotti nel suo territorio –
sta ora focalizzando la sua attenzione sugli invasori delle sue acque.
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Il più significativo esemplare introdotto è costituito dal granchio
ve rde europeo, un crostaceo predatore che rappresenta una minaccia per la nascente industria nazionale legata alla vendita di molluschi ed è inoltre ospite di un plancton unicellulare tossico che, una
volta ingerito dagli uomini che si sono nutriti di crostacei che a loro
volta l’hanno mangiato, può provocare una sgr a d evole, e in alcuni
casi fatale, crisi respiratoria. L’Italia sta combattendo una battaglia
contro l’aumento dello scoiattolo grigio americano che ha rimpiazzato quello rosso autoctono in quasi tutta Europa (a Mosca la scarsità di scoiattoli rossi è tale che la città ha istituito un programma speciale per nutrire gli esemplari di questa specie in un parco locale). In
Antartide, noto per essere il continente più remoto della Terra, gli
scienziati ultimamente hanno scoperto che i pinguini imperatori
sono stati esposti a un virus responsabile della bu rsite infettiva, un
p a t ogeno che normalmente colpisce il pollame domestico, ed è stato
ipotizzato che esso li abbia raggiunti attraverso i rifiuti gettati oltre
b o rdo dalle navi di passaggio. Le capre selvatiche alle Galápagos hanno causato una tale erosione della vetta dell’isola Isabella da modific a re il modello di caduta dell’acqua piovana e il ciclo idrico dell’isola; esse hanno, in definitiva, cambiato il clima locale. Anche i fringuelli di Darwin sono a rischio: gli scienziati hanno ultimamente
scoperto che i loro nidi nelle Galápagos sono infestati dalle larve di
una mosca parassitica esotica. Di notte le larve emergono e, come dei
vampiri, succhiano il sangue della nidiata, arrivando a uccidere un
pulcino su sei.
Come quantificare l’impatto delle specie esotiche? Come contro l l a re il loro flagello? Facendo una stima in termini finanziari, il
governo federale ha calcolato che, tra il 1906 e il 1991, 79 specie
non indigene – tra cui, in particolar modo, la falena gitana europea
e il moscerino della frutta mediterraneo – hanno causato danni alla
nazione per 97 miliardi di dollari, ossia circa un miliardo di dollari
l’anno. Recentemente un rapporto effettuato da un gruppo di ricercatori della Cornell University ha alzato la stima dei danni a ben
138 miliardi di dollari l’anno. La formica rossa sudamericana costa
al Texas mezzo miliardo di dollari l’anno, includendo danni e costi
di controllo. Bonifica e controllo della dreissena: cinque miliardi di
dollari annu a l i . Afide russo del grano: 173 milioni di dollari. L a mp reda di mare presente nella regione dei Grandi Laghi: 10 milioni
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di dollari. Malattie introdotte che colpiscono tappeti erbosi, gi a rd ini e prati da golf: due miliardi di dollari. Bivalvi che danneggiano
le navi: 200 milioni di dollari. Controllo e ri c e rche sul serpente arboreo bruno: sei milioni di dollari. Per quanto riguarda le “malattie
emergenti” come il virus del Nilo occidentale, il loro costo è di
norma calcolato in termini di vite umane perse, e in quest’ottica,
almeno nei paesi occidentali, la perdita anche di una sola vita si
considera già troppo.
Gli ecologi fanno un ragionamento diverso. Con l’aumento progressivo dello spostamento da un luogo all’altro di piante e organismi esotici, un numero sempre maggiore di specie native – originarie delle zone più stagnanti del pianeta e incapaci di coabitare con
una crescente classe zoologica sempre più cosmopolita – stanno per
essere forzatamente cancellate dalla faccia della Terra. Nel 1991, il
Fish and Wildlife Service americano stimava che 160 specie ufficialmente schedate come minacciate o danneggiate devono il loro status, almeno in parte, alla competizione con altre non indigene o agli
attacchi da parte di queste ultime. Il biologo di Harvard Edward O.
Wilson ha affermato che l’introduzione di specie non autoctone è la
seconda causa principale che condurrà all’estinzione delle specie su
scala mondiale, subito dopo quella della distruzione dell’habitat.
Le specie introdotte prevalgono a tal punto che nell’opinione
pubblica entrano a far parte della nostra esperienza quotidiana. Esse
appaiono così regolarmente negli articoli dei giornali che a volte diventa difficile cogliere la vastità di questo fenomeno nella sua interezza – come ad esempio ve d e re la foresta così com’era, a causa degli
alberi non autoctoni che continuano a spuntarvici: gli opossum in
Nuova Zelanda, i pini in Africa, il panace di Mantegazzi in Slovacchia. La natura sta entrando in una nu ova era – l’“Homog e c e n e ” ,
come l’ha definito uno scienziato – in cui la maggior minaccia alla
diversità biologica non è più costituita da bulldozer e pesticidi, ma,
in un certo senso, dalla natura stessa. Una strisciante omog e n e i z z azione ci minaccia e si consolida man mano che le specie introdotte
si insinuano nella struttura darwiniana e gradualmente, quasi impercettibilmente, la soppiantano. Un biologo che ho incontrato definiva
tutto ciò in termini di costo personale: «Siamo di fronte a una perd ita dei modelli che ci permettono di descrivere il luogo in cui viviamo. Quando si vuole specificare il posto da cui si proviene, si guar-
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Lontano dall’Eden
dano le piante e gli animali che si vedono fuori dalla finestra, anche
se non si fa subito caso a essi. Io credo che ci sia qualcosa di terribilmente sbagliato nella perdita di un senso preciso del proprio sé. Si
arriva a chiedersi: dov’è casa mia?».
È stato per andare a fondo di questo enigma, la natura della propria casa, che ho deciso di lasciare la mia per qualche tempo. Queste
due parole,“natura” e “casa”, d’abitudine non si trovano all’interno
della stessa frase. La natura è concepita come un regno separato,
qualcosa di selvatico e non toccato dalla mano e dal piede dell’uomo; quando quest’ultimo si moltiplica, la natura diminuisce, al punto che rischia di scomparire del tutto, se ciò non è già avvenuto.
Continuando a informarmi sulle specie introdotte, tuttavia, ho iniziato a chiedermi se non fosse necessario assumere un punto di vista
più sfumato sul tema. Dopotutto, la natura è stata oggetto di spostamenti per centinaia di migliaia, e anche miliardi, di anni: questa è
l’essenza della biogeografia. Semmai, la natura di oggi sembra essere
diventata un campo di battaglia, sebbene avvenga a suo scapito. Ciò
rappresenta un nu ovo tipo di natura, oppure si tratta della vecchia
versione che è impazzita? Che cosa, in questo mondo che cambia
sempre più rapidamente, è la natura?
Mi sono inoltre reso conto che, in qualità di abitante di una città,
forse non ero nella miglior posizione per porre questo genere di
domande. Le città sono fatte dalle persone, per le persone; questo è
il motivo per cui mi piaceva vive rc i . Quello che qui s’intende per
natura non soddisferebbe un purista. L’aspetto sconnessamente selvatico di Central Park in realtà fu interamente opera di un architetto di paesaggi; l’orso polare nello zoo del parco per un certo periodo fu in terapia presso uno psichiatra per curarsi dal suo modo di
passeggiare compulsivo. Una volta, m e n t re stavo sulla terrazza posteri o re del mio appartamento ad affitto bloccato (nel quale era compreso anche un quadrato di terrazzo ad affitto bloccato), vidi una vicina in mezzo al cortile che mi fa c eva dei cenni con la mano per attirare la mia attenzione. Il suo pappagallo cenerino era volato via.
L’ avevo visto? Mi ri c o rdo che pensai, in uno spirito molto lontano
da un sentimento di buon vicinato, “Assolutamente no!” e che mi
sentii leggermente compiaciuto del fatto che la città avesse guadagnato un tocco di grigi o re africano, anche solo per contro b i l a n c i a re
il grigiore imperante dei piccioni. Il nostro mondo era troppo per
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Volo
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me. Per comprendere veramente la minaccia rappresentata dall’invasione ecologica avrei avuto bisogno di scostare il sipario omogeneizzante costituito dall’umanità e andare alla ri c e rca di una natura
autentica, eterogenea e grezza.Av rei trovato il confine in cui le persone si sarebbero esaurite e la natura avrebbe avuto inizio e mi ci sarei coraggiosamente avventurato.
Così partii. Quello che era nato come un vago interesse nel seguire le tracce delle specie migranti, rapidamente si trasformò in
un’acuta ossessione per tutto ciò che era coperto d’erbacce infestanti e non voluto, e presto mi ritrovai a seguire dei sentieri che attraversavano tutto il globo e che erano pieni di svolte, proprio come
quelli seguiti dalle specie di cui ero alla ricerca. Seguii delle conferenze dedicate alle specie introdotte, a quelle non indigene, a quelle
acquatiche nocive, ai bioinvasori marini; raccolsi le brutte copie manoscritte di simposi tenutisi in Norvegia; ordinai dei cataloghi illustrati che descrivevano ogni vegetale e ogni animale acquatico esotico in Tasmania. La mia ricerca del serpente arboreo bruno era solo
l’inizio; strisciai nell’oscurità del mondo sotterraneo e incontrai un
fantasma chiamato Polifemo. L’unica cosa che mi mancò fu una balena bianca.Thoreau una volta suggerì che un viaggiatore non deve
mai lasciare casa sua: p o t rebbe fare a meno di spedizioni nei mari del
sud ed esplorare invece il mondo interno dell’essere. Dimenticatevi
di questo. Io troverò me stesso andando fino alla fine della natura,
oppure questa sarà la mia fine.