Studi Cattolici n. 644 - Movimento Ecclesiale Carmelitano

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Studi Cattolici n. 644 - Movimento Ecclesiale Carmelitano
Poste Italiane Spa Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia
20131 Milano - Via Stradivari, 7
27 settembre 2014:
Álvaro del Portillo Beato
quaderno con interventi di
Cesare Cavalleri, Alessandro Rivali,
card. Francesco Monterisi,
Antonio M. Sicari, Emma Fattorini,
Maria Vittoria Marini Clarelli,
card. Julián Herranz, mons. Mario
Delpini, Agostino Giovagnoli,
Javier Medina Bayo.
Con una lettera di Papa Francesco
e le omelie del card. Angelo Amato
nella Messa di beatificazione
e di mons. Javier Echevarría
nella Messa di ringraziamento
Siria: genesi & prospettive
di una guerra
di Alberto Leoni
Segantini il grande
& il mistico Chagall
di Michele Dolz
644
Ottobre
2014
Patrick Modiano,
un Nobel meritato
di Andrea Vannicelli
DEL TUO DOMANI,
PARLIAMONE OGGI.
Editoriale
La gratitudine del beato Álvaro del Portillo
I
l momento di maggior commozione alla Messa
della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo,
il 27 settembre scorso, a Madrid, è stato, per me,
quando ho visto il piccolo José Ignacio Ureta Wilson recare sull’altare, con tutta la solennità di cui è
capace un bambino, la reliquia del Beato. La guarigione di José Ignacio, dopo un arresto cardiaco di
oltre mezz’ora, avvenuta il 2 agosto del 2003, è il
miracolo che ha consentito la beatificazione, ed eccolo lì, il ragazzino cileno con i genitori raggianti e
commossi. Un bellissimo miracolo, un miracolo
«normale» per una famiglia normale, davvero tipico di don Álvaro che aveva appreso da san Josemaría Escrivá l’eroismo della vita «normale».
Molto si è scritto e moltissimo si scriverà sul beato Álvaro, e il dossier che apre questo fascicolo dà
un contributo importante e autorevole. Io, che ho
avuto il privilegio di conoscere don Álvaro e di essere da lui conosciuto, non me la sento, tanto meno in questa pagina, di parlare della sua fedeltà,
della sua umiltà e di tutte le virtù, a cominciare
dalle teologali, che egli ha vissuto e che fin da ora
sono oggetto di testimonianze e di studi altamente
qualificati. Riferirò due ricordi personali.
G
iovedì 26 giugno 1975: muore improvvisamente il fondatore dell’Opus Dei. È il dolore più grande della mia vita. La consegna è che
nessuno si muova da dove sta: la nostra peculiarità è di sforzarci di santificare la quotidianità,
quindi non vanno interrotti i compiti abituali. Fra
l’altro, convenire a Roma dai quattro punti cardinali sarebbe anche contrario allo spirito di povertà. Venerdì 27, però, alle 10 di mattina, vengo
chiamato a Roma per dare una mano all’ufficio
stampa. Prendo un aereo e alle 13,45 (altri tempi,
altri aerei) sono in viale Bruno Buozzi 75. La
chiesa di Santa Maria della Pace è chiusa perché
in quel momento stanno collocando nel feretro il
corpo del fondatore che, durante le Messe ininterrotte dal giorno precedente, riposava a terra,
su un tappeto davanti all’altare, con i paramenti
sacerdotali. Poco dopo, la porta si apre ed esce
don Álvaro. Mi vede, mi abbraccia, e sussurra:
«Consummati in unum, consummati in unum».
Tutti insieme, uniti nel dolore e nell’impegno di
seguire le orme del fondatore. Non dimenticherò
mai lo sguardo sereno, eppur velato, di don Álvaro, la fortezza e la pace che in quel momento irradiava. Davvero, ho pensato, egli è il capolavoro formativo del fondatore.
S
econdo ricordo. Nei primi anni Ottanta, don Álvaro, che ormai era «il Padre», mi fa chiamare
a Roma per redigere un testo che lo interessava. Vado, mi metto alla macchina per scrivere (all’epoca il
computer non aveva ancora preso il sopravvento) e
lavoro. Consegno il testo al Padre, che lo approva,
e insiste a baciarmi le mani, dicendo schezosamente: «So che tu scrivi direttamente a macchina, ma
non mi pare il caso di baciare la macchina...». La
gratitudine: ecco un’altra virtù che il beato Álvaro
ha praticato incessantemente, anche in occasioni
minime come quella mia.
N
ell’Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, che
l’Ares pubblicò in prima edizione per la beatificazione di Josemaría Escrivá, chiesi a don Álvaro
di dirci qualche cosa sul suo vincolo di filiazione
con il fondatore. Egli raccontò alcuni aneddoti particolarmente espressivi, e concluse: «La mia ammirazione per la sua straordinaria carità verso Dio e
verso il prossimo è cresciuta di giorno in giorno. Nei
suoi confronti mi sento debitore, debitore insolvente». Ancora una volta, la gratitudine, quella che oggi, non solo noi che l’abbiamo conosciuto, sentiamo
verso il nuovo Beato. Mons. Javier Echevarría, nella lettera che mensilmente rivolge ai membri della
prelatura (ma che tutti possono leggere sul sito
www.opusdei.it), ha scritto: «Ut in gratiarum semper actione maneamus! Uniamoci al permanente
rendimento di grazie di san Josemaría in Cielo, ora
per l’unità dell’Opera che abbiamo potuto toccare
con mano durante la beatificazione dell’amatissimo
don Álvaro: quanto più ringrazieremo il Signore,
tanto più ci uniremo alla sua Santissima Volontà,
sempre e in tutto. Rinnoviamo il desiderio di dare a
Dio tutta la gloria, lottando con quotidiana determinazione per impiantare il regno di Cristo nella società, molto uniti al Papa, lasciandoci condurre a
Gesù dalla Santissima Vergine, Madre nostra».
C.C.
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N° 644
Editoriale
657
La gratitudine del beato Álvaro del Portillo
27 settembre 2014: Álvaro del Portillo Beato
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660
Alessandro Rivali
Álvaro del Portillo, Beato
Papa Francesco
«Grazie, perdono, aiutami di più». Lettera al Prelato dell’Opus Dei
668
Card. Angelo Amato
«L’umiltà apre la porta della santità». Omelia nella Messa di beatificazione
669
Mons. Javier Echevarría
672
«La fedeltà è il nome dell’amore». Omelia nella Messa di ringraziamento
Card. Francesco Monterisi
Il primo successore di san Josemaría
675
Antonio Maria Sicari
679
Il carisma del beato Álvaro del Portillo
Emma Fattorini
683
Un’eroica & fattiva «leggerezza»
Maria Vittoria Marini Clarelli
Alla luce della fedeltà
685
Card. Julián Herranz
688
Il beato Álvaro visto da vicino
Mons. Mario Delpini
692
L’inesausta fantasia dello Spirito Santo
Agostino Giovagnoli
693
Il dinamismo della fedeltà
Javier Medina Bayo
695
Il segreto per essere felici? La santità
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Lettera del Direttore
697
«Studi cattolici», 2015
Alberto Leoni
698
Scenari. Siria: genesi & prospettive di una guerra
Nicola Scopelliti
702
Interviste. Gaza: il presente & il futuro. Colloquio con A.G. Ayoub
Giovanni Livi
704
Osservatorio d’Europa. La squadra di Junker & la Scozia
Guido Clericetti
707
Inquietovivere
Giuseppe Brienza - Omar Ebrahime
708
Diritto. Cambiamenti in vista sui diritti umani? Colloquio con J.-P. Schouppe
Matteo Andolfo
710
Filosofia. Eliot & il neoidealismo anglosassone
Franco Olearo
712
Bioetica. Le ferite della fecondazione eterologa
Andrea Vannicelli
714
Letteratura. Patrick Modiano: un Nobel meritato
Guido Vassallo
716
Bestseller. Donna Tartt, premio Pulitzer 2014
Léon Bertoletti
718
Profili. Ridolfi, «chierico» della cultura italiana
Giorgio Faro
720
Shakespeariana. Il «Tommaso Moro» di Shakespeare
Dino Basili
723
Piazza quadrata. «Tuittar no es gubernar»
Michele Dolz
724
Arti visive. Segantini il grande & il mistico Chagall
Florio Fabbri
727
Cruciverba d’autore
Massimo Venuti
728
Musica. Infelici & felici amori
Vincenzo Sardelli
730
Teatro. Teatro mensa & cibo spettacolo
Eleonora Fornasari
732
Cinema. Le stelle & l’amore per sempre
Luisa Cotta Ramosino
734
Mostra del Cinema di Venezia. Frammenti di Festival
Claudio Pollastri
736
Un cocktail come la vita. Colloquio con il Leone d’Oro Roy Andersson
A.R.
738
Ares news. Ricominciare da Müller & Péguy
*
741
Libri & libri
Mauro Manfredini
748
Doppia classifica. Libri venduti & libri consigliati
Franco Palmieri
750
Fax & Disfax. Noi & gli altri
*
752
Libri ricevuti
+
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IMPORTANTE COMUNICAZIONE A PAGINA 697
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OTTOBRE 2014
ANNO 58°
in questo numero:
Lo scorso 27 settembre è stato beatificato a Madrid mons. Àlvaro del Portillo (1914-1994), successore di
san Josemaría alla guida dell’Opus Dei. Per festeggiare
l’evento Sc ha preparato un quaderno speciale: i colori e
le emozioni di quel giorno sono ricostruiti da Alessandro
Rivali (p. 660), seguono i «documenti» dell’indimenticabile cerimonia: la lettera di Papa Francesco (p. 668), l’omelia del card. Angelo Amato (p. 669), che ha presieduto
la liturgia, e quella di mons. Javier Echevarría alla Messa
di ringraziamento (p. 672). l La seconda parte dello
«speciale» racconta la doppia presentazione dell’accuratissima profilo che Javier Medina ha dedicato al nuovo
Beato (Àlvaro del Portillo, Ares, Milano 2014): alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma sono intervenuti il card. Francesco Monterisi (p. 675), l’agiografo
Antonio Maria Sicari (p. 679), la senatrice Emma Fattorini (p. 683) e Maria Vittoria Marini Clarelli (p. 685), soprintendente alla GNAM. La tavola rotonda milanese presso il Teatro FAES è stata animata dal card. Herranz (p.
688), mons. Mario Delpini (p. 692), il prof. Agostino Giovagnoli (p. 693) e lo stesso Javier Medina Bajo (p. 695).
Esteri. Da mesi assistiamo alla sconcertante barbarie dell’ISIS (foto): a p. 698 Alberto Leoni fa il punto sul
dramma siriano e iraqueno, concentrandosi sulle misteriose origini dell’esercito del Califfo; in bilico anche la situazione a Gaza: Nicola Scopelliti ha incontrato un testimone d’eccezione come Abouna George Ayoub, cancelliere del Patriarca latino di Gerusalemme (p. 702); il focus dell’Osservatorio d’Europa è per la neosquadra UE
del Presidente Jean-Claude Junker, tra le sfide all’orizzonte non ci sarà però la Scozia indipendente (p. 704).
Letterature. Donna Tartt (foto) è tornata a pubblicare dopo 10 anni e con il suo Cardellino ha scalato le
classifiche e vinto il Premio Pulitzer: per la sua storia c’è
Guido Vassallo a p. 716; il francese Patrick Modiano conferma la tradizione dei Nobel a sopresa, ma è una vittoria
doverosa, spiega Andrea Vannicelli a p. 714; a p. 718
Léon Bertoletti «riscopre» Roberto Ridolfi (1899-1991),
poliedrico cultore del Rinascimento. l Ci sono molti fantasmi dietro il dramma shakesperiano Sir Thomas More:
li rivela con dovizia di particolari Giorgio Faro a p. 720.
Cinema. Roy Andersson (foto) con Un piccione
seduto su un ramo riflette sull’esistenza si è aggiudicato il
Leone d’Oro, ma non ha potuto sottrarsi all’impallinamento del nostro Claudio Pollastri (p. 736); Luisa Cotta
Ramosino ha invece stilato una precisa mappa (luci & ombre) della Rassegna veneziana (p. 734). l Esiste l’amore
per sempre? Così s’interroga Eleonora Fornasari analizzando Colpa delle stelle, re al box office estivo (p. 732).
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Madrid,
Valdebebas
Álvaro
del Portillo,
Beato
27 settembre
2014
N
660
Il 27 settembre 2014, a Madrid, è stato beatificato mons. Álvaro del Portillo, primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei.
Erano presenti 18 cardinali, 160 vescovi, 300 sacerdoti e oltre duecentomila pellegrini giunti da ogni parte del mondo. In queste pagine, dopo la
cronaca di Alessandro Rivali che fa rivivere il clima di festa e di gratitudine delle intense giornate madrilene, viene pubblicata la lettera che Papa
Francesco ha inviato, per l’occasione, al Prelato dell’Opus Dei. A seguire,
l’omelia del delegato pontificio, card. Angelo Amato, che ha presieduto la
celebrazione, e l’omelia di mons. Echevarría nella Messa di ringraziamento del giorno successivo, sempre nel grande scenario di Valdebebas.
o dejes de soñar. Non smettere di sognare. È l’insegna, a caratteri d’oro su
campo nero e anche un po’ retrò, che accoglie i visitatori del «Giardino degli Angeli», un antico e celebre
vivaio in Calle de Las Huertas, nel pulsantissimo cuore di Madrid. È un motto, una frase a effetto, ma potrebbe essere anche il refrain per la beatificazione di
Álvaro del Portillo (Madrid, 1914 – Roma, 1994), avvenuta lo scorso 27 settembre a Valdebebas, alle porte della città, davanti a più di duecentomila persone
dei più disparati angoli del globo.
«Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», insegnava Shakespeare e difficilmente potrà contraddirlo chi ha vissuto in diretta l’evento di Madrid: è stato una grande festa e un crocevia di sogni.
Innanzitutto, il sogno compiuto di san Josemaría
che dall’alto avrà abbracciato con la Chiesa il suo
discepolo più fedele. Álvaro, infatti, fu uno dei primi a seguirlo per quel sentiero «aperto» con la na-
scita dell’Opus Dei il 2 ottobre 1928, mentre suonavano le madrilene campane di Nostra Signora degli Angeli: per ricordare che la santità non è appannaggio di poche anime «elette» o fuori dal mondo,
ma è possibile anche per il contadino, la colf, il banchiere o l’artista dal temperamento infiammato.
Ma è stato anche il sogno coronato (nel senso del
paradiso «certificato») di Álvaro, quel timido universitario con la passione per i numeri e l’ingegneria che, dopo aver ascoltato un paio di meditazioni
di san Josemaría, il 7 luglio del 1935, decise di dare una nuova direzione alla propria vita. Da quel
giorno la sua esistenza si sarebbe complicata, ma
sarebbe stata irrimediabilmente più intensa, secondo la magna charta di ogni vocazione, descritta in
Marco 16: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratel-
27 settembre 2014:
li e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna».
Lasciare tutto per il Regno: del resto fu proprio questo il motto episcopale (Regnare Christum volumus!) scelto da Álvaro del Portillo al momento della consacrazione voluta da Giovanni Paolo II il 6
gennaio 1991. A Valdebebas questo motto giganteggiava sul palco della beatificazione con la riproduzione di un autografo del nuovo Beato.
Il terzo sogno raggiunto è stato quello di tutti i pellegrini, dei devoti e degli amici del nuovo Beato.
Perché se nella Chiesa si fa festa quando lo Spirito irrompe con un carisma nuovo, si festeggia con
pari intensità quando il testimone del carisma viene trasmesso nella sua più integra e feconda ricchezza. E se un discepolo ha seguito bene il fondatore, anche altri discepoli potranno incamminarsi sulla stessa strada.
È la santità dei numeri «due», come ha spiegato
Francesco Ognibene su Avvenire nell’editoriale del
1° ottobre: «Tanto Escrivá abbagliava per la sua
personalità straripante e contagiosa – un uomo, dissero in molti, “che seguirei in capo al mondo” –
quanto don Álvaro era discreto, umile, lavoratore,
l’ombra del fondatore al quale tutti guardarono un
attimo dopo la morte del “Padre”, di un uomo cioè
la cui santità era pressoché universalmente riconosciuta. Cercando la strada da seguire fu naturale
volgersi a chi non vestiva i panni del numero uno
ma l’indiscussa, tenace e persino oscura fedeltà del
numero due. Il primo degli altri, il primo di noi che
probabilmente non siamo fuoriclasse, ma servitori.
La fedeltà di chi segue una strada aperta dalla grandezza altrui è la vera, grandissima santità della qua-
Álvaro del Portillo Beato
le ha urgente bisogno il nostro tempo: non solo prim’attori, ma gente che conosce il suo posto nel
mondo, e sa servire dove Dio l’ha voluto».
La santità passa per l’infinitamente piccolo. È l’esperienza di tutti i santi. Una giovane suora a Lisieux è diventata dottore della Chiesa raccomandando la «piccola via». E in anni recenti lo ha ricordato anche papa Benedetto XVI, per esempio,
nella splendida omelia per la veglia di Natale 2005.
I «luoghi» di don Álvaro
I pellegrini per Álvaro del Portillo a Madrid hanno
cercato, dalla brulicante Puerta del Sol agli ombrosi
boulevards nelle vicinanze del Museo del Prado, i
«piccoli segni» per cui è passata la vita di don Álvaro. Tappe naturalmente intrecciate con i primi passi
dell’Opus Dei e con l’esistenza del suo fondatore.
Un’ipotetica pole position delle fermate obbligate
potrebbe vedere al primo posto gli edifici di via
Santa Isabel (ai numeri civici 46, 48, 48 bis), non
lontano da quella stazione di Atocha tristemente nota per gli attacchi terroristici dell’11 marzo 2004
che causarono ben 191 morti e 2057 feriti.
Nella Casa del Rettore di via Santa Isabel san Josemaría visse dall’estate del 1934 all’agosto 1939. La
chiesa contigua fu lo scenario di celebri episodi.
Qui il giovane sacerdote ravvivò la sua umiltà di
fronte a Dio scoprendo che un giovane lattaio entrava in chiesa ogni mattina dicendo semplicemente, ma con molta devozione: «Gesù, ecco qui Juan,
il lattaio». Qui si innamorò di una piccola statua di
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662
Gesù bambino del XVII secolo con le guancie rosse e le braccine incrociate. Qui, durante la novena
all’Immacolata del 1931, nel ringraziamento successivo alla Messa, scrisse di getto il testo del Santo Rosario. Ma queste mura furono testimoni anche
di decisive locuzioni divine. Forse la più nota è
compendiata nel punto 933 di Cammino: «Le opere
sono amore, non i bei ragionamenti».
Fu lo stesso Josemaría a riportare sui propri Appunti intimi i retroscena dell’episodio: «16 febbraio
1932. Oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Messa, dissi a Gesù
quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di
notte: “Ti amo più di loro”. Immediatamente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei
ragionamenti”. Vidi subito con chiarezza quanto io
sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti
particolari cui non pensavo né davo importanza,
che mi fecero comprendere con molta evidenza la
mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinello sia completamente generoso.
Opere, opere!».
La storia «interiore» di Álvaro passò senza dubbio
per Santa Isabel, per il Parco del Ritiro (tra i suoi
viali san Josemaría infiammava le anime dei primi
discepoli come del servo di Dio Isidoro Zorzano),
come per altri luoghi di culto della città: la chiesa di
san Giuseppe (via Alcalá, 43) dove fu battezzato il
17 marzo 1914; la parrocchia della Concezione di
Nostra Signora (via Goya, 26) dove ricevette la prima comunione e la cresima; la parrocchia di san
Roberto Bellarmino (via Veronica, 11) dove si prodigò per i più bisognosi.
Però, fu un luogo laicissimo a innervare ancora più
profondamente la sua vocazione. Fu l’ex Consolato
dell’Honduras al primo piano del Paseo de la Castellana, 45. Erano i tempi della guerra civile spagnola. Quando imperversava la persecuzione religiosa e bastava essere trovati con un rosario in tasca o una medaglietta della Madonna al collo per
essere messi al muro. Nel Consolato ripararono sia
san Josemaría sia Álvaro. Si confidarono. Pregarono insieme. Sognarono una grande messe apostolica e quando si spensero gli ultimi bagliori della
guerra, nel marzo del 1939, l’apostolato poté riprendere ai ritmi sospirati.
«Vieni a Valdebebas
& comincia a vivere»
La grande festa per i tantissimi pellegrini giunti a
Madrid è iniziata alle prime luci del 27 settembre: è
la data in cui si ricorda san Vincenzo de’ Paoli. Curiosamente, anche Álvaro fu legato a questo santo:
da giovane partecipò con entusiasmo alle iniziative
della Società San Vincenzo rivolte ai più poveri e in
una delle sue uscite rimediò un furibondo colpo di
chiave inglese alla testa. In quegli anni di esasperato anticlericalismo, qualcuno mal tollerava iniziative così spiccatamente cristiane.
Valdebebas è una zona periferica di Madrid, vicino
alla Fiera e all’aeroporto di Barajas e accanto alla
«cittadella» del Real Madrid (definita pomposamente la mejor ciudad deportiva del mundo, vanta
12 campi d’allenamento, studi televisivi e uno stadio da seimila posti, dove gioca la seconda squadra,
dedicato al campione Alfredo di Stefano).
Valdebebas doveva essere un’area di forte espansione, poi la crisi economica ha in buona misura
27 settembre 2014:
paralizzato i lavori. Si è completata sinora solo la
rete viaria che ha contribuito alla riuscita dell’evento: per chi non è stato a Madrid può trovare su Youtube la fisionomia della Valdebebas del futuro.
Su uno dei cavalcavia vicini alla zona della celebrazione si osservava la gigantografia di un Tir con
questo spot: «Ven a Valdebebas y empieza a vivir»
(«Vieni a Valdebebas e comincia a vivere»). Per i
pellegrini, un avviso dalle molteplici risonanze...
La lunghissima striscia d’asfalto che correva verso
la zona A1, quella del palco della cerimonia e dei
posti riservati agli anziani e ai disabili, si è presto riempita di colori, sotto lo sguardo delle nuvole un
po’ arcigne, ma alla fine clementi: bandiere di ogni
nazionalità (ma quanti sudamericani…), gonne
quadrettate di impeccabili divise di ragazze provenienti da scuole single sex, i giubbetti blu con il bollino arancione degli infaticabili volontari, gli sgargianti abiti tubolari from Africa, i sari indiani e i sai
degli ordini religiosi.
Iniziative apostoliche
in tutto il mondo
Nel percorrere i viali si contavano avventure molto
diverse. Pellegrini partiti dall’aeroporto di Verona
per una toccata e fuga di poche ore, ragazzi kenyoti disposti a dormire per giorni sul pavimento della
palestra di una scuola e sorbirsi più di dieci ore
giornaliere di pullman per andare e tornare dal santuario di Fatima. Un gruppo di ragazze che ripercorrevano il loro repertorio chitarristico e la famiglia venuta a ringraziare don Álvaro per la guarigione di un figlio o la felice conclusione di una gra-
Álvaro del Portillo Beato
vidanza. E su don Álvaro specializzato in miracoli
famigliari torneremo più avanti.
Nel settore A1 si poteva trovare un variegato campionario di storie di dedizione. Silvia Quezada, per
esempio, si è impegnata fin dagli anni Settanta con
la Fondazione Siramà (El Salvador) per promuovere la dignità della donna in una zona particolarmente povera del Paese. Edgar Umaña è venuto dal
Guatemala: fa parte del direttivo di Kinal, un centro
educativo di avviamento professionale ai confini di
una gigantesca baraccopoli. Ito Diejomaoh (Niger
Foundation Hospital) presta gratuitamente cure mediche ad alcune comunità rurali nella regione di
Enugu. Ma ci sarebbe da scrivere anche il profilo di
Mario Minami (Centro Pedreira di San Paolo), Juan
Humberto Salazar (Educar, Valle del Chalco in
Messico) o Anabelle Brown (Developmental Advocacy for Women Volunteerism, Manila, Filippine) e
di cento altri con loro…
Don Álvaro, come prelato dell’Opus Dei, viaggiò
moltissimo per accudire spiritualmente i suoi figli:
sono stati calcolati 198 viaggi pastorali in 42 diversi Paesi per la bellezza di 408.082 km percorsi (per
avere un’idea, è circa dieci volte la circonferenza
del globo). Ma don Álvaro ebbe una speciale predilezione per i Paesi in via di sviluppo. È anche per
soddisfare i suoi desideri di Padre che si è voluto
chiedere ai pellegrini di Madrid un aiuto per quattro
progetti molto specifici: la costruzione di un padiglione maternità per il Niger Foundation Hospital
and Diagnostic Center (Nigeria), l’avvio di un programma per sradicare la malnutrizione infantile a
Bingerville (Costa d’Avorio), lo sviluppo di quattro
ambulatori in una zona difficile della Repubblica
del Congo che permetterà di accudire diecimila
663
I grandi viali di Valdebebas gremiti di pellegrini. Nella pagina accanto, il piccolo cileno José Ignacio Ureta Wilson ascolta le ultime raccomandazioni della mamma mentre si accinge a recare sull’altare le reliquie del nuovo Beato. La guarigione di José Ignacio, riconosciuta miracolosa per intercessione di don
Álvaro, avvenuta il 2 agosto 2003, ha concluso l’iter della beatificazione.
bambini ogni anno e, infine, un buon numero di
borse di studio per seminaristi africani che vogliano
prepararsi al sacerdozio a Roma.
La sterminata assemblea
& l’altare
Qualche immagine per ricostruire l’attesa della beatificazione. Intanto, in molti sono rimasti impressionanti dagli avveniristici confessionali che sembravano un’interminabile serie di vele da surf (si
erano già usati per la GMG madrilena). E che peccato che il Corriere della sera abbia dedicato all’evento soltanto una gallery di foto con il maldestro
titolo: «Madrid, confessione di massa per la beatificazione del numero due dell’Opus Dei».
Poi, le scatole di cartone. Ossia le sedie «usa e getta»
che hanno consentito a moltissimi di potersi sedere
durante la cerimonia (le sedie in plastica erano solo
nei primissimi settori). Qualche capogruppo ha anche
usato le scatole, al posto dei più consueti ombrelli, per
guidare il proprio piccolo gregge verso la zona asse-
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gnata. Eroici quelli che si sono ritrovati con il biglietto dalla zona C in poi. Da quella posizione in giù era
impossibile infatti anche scorgere il palco, complice
la conformazione a schiena d’asino del vialone centrale di Valdebebas: questi fedelissimi di don Álvaro
hanno benedetto la tecnologia dei tanti megaschermi
che hanno garantito la «copertura» dell’evento.
Qualche curiosità. Seicento persone da tutto il mondo hanno contribuito a preparare le vesti per i sacerdoti: dopo la beatificazione sono state offerte alle Chiese giovani o di Paesi perseguitati come l’Iraq, il Venezuela, le Filippine o l’Uganda.
I giornalisti accreditati sono stati più di 300, da 18
Paesi diversi e più di 30 reti televisive hanno chiesto di poter trasmettere la cerimonia.
Dopo la Spagna, lo Stato che ha contato il maggior
numero di pellegrini è stato il Messico (3.175 iscritti), seguito dall’Italia (2.136 presenze, ma qualcuno
si sarà «imbucato»…) e dalle Filippine (1.732 pellegrini). Da notare che hanno partecipato alla cerimonia anche persone provenienti da regioni in cui
non è ancora presente il lavoro apostolico dell’Opus
Dei come gli Emirati Arabi Uniti e Cuba.
27 settembre 2014:
Uno zoom sul palco. L’altare, l’ambone e la sede del
celebrante sono state le stesse della beatificazione dei
martiri di Tarragona (13 ottobre 2013). Alla destra
dell’altare la serigrafia (6 metri di altezza per 4,5 metri di larghezza) con il volto del nuovo Beato, a sinistra, invece, una bella immagine della Vergine dell’Almudena, la rassicurante patrona di Madrid.
All’inizio della cerimonia il postulatore, don Javier
Medina Bayo, ha letto un brano dal Decreto sulle virtù del Venerabile Servo di Dio (28-6-2012): «Il suo
amore alla Chiesa si manifestava nella totale comunione con il Romano Pontefice e i vescovi: fu sempre
figlio fedelissimo del Papa. Dando prova di un’adesione indiscussa alla sua persona e al suo magistero».
Don Álvaro è stato un silenzioso servitore della
Chiesa anche in periodi complicati, come durante il
Concilio Vaticano II, quando, per esempio, dovette
seguire i lavori per il Decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita dei sacerdoti, che però fu
approvato il 7 dicembre 1965 con solo quattro voti
contrari sui 2.394 padri conciliari. Sul suo spirito di
servizio, sono significative le parole dell’allora
card. Ratzinger: «Ricordo la modestia e la disponi-
Álvaro del Portillo Beato
bilità in qualunque circostanza che caratterizzano il
lavoro di mons. Del Portillo come consultore per la
Congregazione della Dottrina della fede, istituzione
che contribuì ad arricchire in modo singolare con la
sua competenza ed esperienza, come ho avuto modo di comprovare personalmente» (Lettera al Vicario generale dell’Opus Dei, 23 marzo 1994).
E a Valdebebas è stato tangibile vedere l’affetto della Chiesa per don Álvaro. Presenti 18 cardinali, 160
vescovi e 300 sacerdoti. Tra i cardinali, oltre al celebrante, il cardinal Angelo Amato, prefetto della
Congregazione per le Cause dei santi, il card. Antonio Cañizares Llovera (prefetto della Congregazione per il Culto), l’arcivescovo emerito di Madrid,
card. Carlos Amigo Vallejo, i cardinali Francesco
Monterisi, George Pell, Gerhard Ludwig Müller
(prefetto della Congregazione per la Dottrina della
fede), Jean-Louis Tauran (Pontificio consiglio per il
Dialogo interreligioso), Juan Luis Cipriani, Julián
Herranz, Robert Sarah (Presidente Pontificio consiglio «Cor unum»), Stanislaw Rylko (Presidente
Pontificio consiglio per i Laici).
E, ancora, gli arcivescovi di San Juan de Cuyo (Argentina), Lagos (Nigeria), Guayaquil (Ecuador),
Cagayan de Oro (Filippine), Johannesburg (Sudafrica), Maracaibo (Venezuela), Kitui (Kenya), Maronita (Brasile), Kaisiadorys (Lituania), Ebibeyin
(Guinea Equatoriale) e tantissimi altri. Naturalmente presente anche l’attuale prelato dell’Opus Dei,
mons. Javier Echevarría, che tra le migliaia di persone presenti è stato colui che più intensamente ha
conosciuto la santità del nuovo Beato.
Folta anche la rappresentanza delle autorità civili,
come il ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fenández Díaz, e quello dell’Economia, Luis de Guindos, l’ex sindaco di Madrid, José María Martínez
Alegre o gli ambasciatori di Colombia, Polonia,
Svizzera, El Salvador.
Il miracolo del piccolo
José Ignacio
La causa di beatificazione è iniziata nel marzo del
2004 dopo che più di duecento tra vescovi e cardinali ne hanno chiesto l’apertura: negli anni sono stati
ascoltati ben 133 testimoni, tra cui 19 cardinali e 12
vescovi o arcivescovi e sono giunte 13.300 relazioni
di favori attribuiti all’intercessione di don Álvaro.
Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha dichiarato l’eroicità delle virtù di don Álvaro e la sua fama di
santità. Lo «sprint» finale per la beatificazione è
stato il miracolo del piccolo José Ignacio, riconosciuto da Papa Francesco il 5 luglio del 2013.
Una storia sorprendente risalente al luglio 2003 in
Cile. José Ignacio nasce dopo una gravidanza travagliata. In passato gli era stata diagnosticata un’ernia
a livello ombelicale, ma la situazione si complica in
665
Lunghe file sorridenti ai confessionali e
molta devozione nel distribuire e nel ricevere la Comunione.
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modo vertiginoso dopo la nascita. Il cuore di José
Ignacio fa le bizze. Deve essere operato: all’ernia e al
cuore. Il 2 agosto sopraggiunge un’emorragia devastante al pericardio. Il cuore smette di battere per
mezz’ora. Sembra tutto finito. Così la madre ha raccontato quelle drammatiche circostanze in un’intervista reperibile su www.opusdei.it: «I medici lo stavano dando per morto, perché non reagiva al massaggio cardiaco né al resto. Ma quando stavano per
desistere, il cuore di José Ignacio ha ricominciato a
battere. L’emorragia comunque era stata massiva.
Ricordo che fu il dottor Felipe Heusser, cardiologo
dell’Università cattolica, che ci disse che José Ignacio aveva recuperato la frequenza cardiaca, ma aveva avuto un’emorragia nella zona del pericardio e intorno al rene. Siamo andati a vederlo e il suo colore
era spettrale, provammo una gran pena. Le unghie
sembravano viola: come mi spiegarono era una conseguenza della mancanza di ossigeno. Per tutto il
giorno le preghiere furono intense». Nonostante il
parere dei medici e grazie alla preghiera incessante
dei genitori a don Álvaro, il cuore di José Ignacio si
stabilizzò e riprese a fare il suo dovere.
La madre ha spiegato ancora: «Ricordo che il medico di turno ci disse che il dottor Heusser era venuto
a chiedere a che ora della notte era morto José Ignacio. È un dettaglio che mi è rimasto impresso, perché
è la stessa cosa che il medico chiese al padre di san
Josemaría quando ebbe una grave malattia da bambino. Il dottor Heusser mi confermò di non aver mai
pensato che il bambino avrebbe potuto sopravvivere.
Ripeteva costantemente quanto sorprendente fosse il
recupero. Ci chiese chi avevamo pregato...».
Adesso José Ignacio è un bambino come tanti altri,
innamorato del calcio, che tifa per il Colo-Colo, ma
che ha una particolare predilezione per Alexis Sánchez e Lionel Messi. E, puntualizza ancora la madre: «Gli piace anche il tennis, non si stanca mai di
ballare: ama la musica e ogni tanto a casa canta canzoni inventate da lui e balla seguendo i ritmi più diversi. Al matrimonio di sua zia stette tutto il tempo
a ballare fino a quando la festa non finì...».
Uno dei momenti più emozionanti del 27 settembre è
stato quando José Ignacio con la sua giacca blu e i
pantaloni bianchi, e accompagnato da mamma Susana e papà Javier, ha portato vicino all’altare il reliquiario con qualche goccia del sangue di don Álvaro.
Organizzazione impeccabile
& professionalità del coro
La celebrazione è iniziata con le note del canto Mi
alma bendice al Señor: all’interno di un’organizzazione impeccabile, è spiccata la professionalità del
coro: 250 voci coordinate da Marina Makhmoutova, che aveva avuto già questo incarico per la Giornata Mondiale della gioventù di Madrid.
Tra le «sorprese» riservate agli organizzatori, una
lunga lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus
Dei imperniata su una frase cara a don Álvaro: «Mi
piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio
era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli
anniversari personali: “Grazie, perdono, aiutami di
più!”. Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana».
Tra gli altri interessanti «fuori programma» del 27
settembre, anche un articolo molto positivo del
27 settembre 2014:
Washington Post a firma di John Allen, che negli
anni scorsi aveva dedicato più di un anno di lavoro
a un’inchiesta confluita nel libro Opus Dei: An Objective Look Behind the Myths and Reality of the
Most Controversial Force in the Catholic Church
(tradotto in Italia da Sperling).
Il card. Amato nella sua omelia ha ripercorso gli
snodi dell’esistenza del nuovo Beato, soffermandosi sulla sua umiltà: «C’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario,
ritenendola uno strumento indispensabile di santità
e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva
da alcuni semplici atti di devozione popolare, come,
per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a
Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala
Santa perché si considerava un cristiano maturo e
ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso,
aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa
ventilazione. Fu una grande lezione di semplicità e
di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore
Gesù, che non era venuto per essere servito ma per
servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così
come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas
Ejemplares: “Sin humildad, no hay virtud que lo
sea” (“Senza umiltà non c’è vera virtù”). E spesso
pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei:
“Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies”. Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità. Ripeteva un consiglio
Álvaro del Portillo Beato
che dava spesso il fondatore dell’Opus Dei, citando
le parole di san Giuseppe Calasanzio: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più
umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo”».
Alla Comunione sono apparsi gli ormai consueti
ombrelli bianchi o gialli portati dai volontari per individuare con più facilità i sacerdoti, ed eventualmente ripararli dalla pioggia. Come era già accaduto per la beatificazione e la canonizzazione di san
Josemaria, il momento è stato contraddistinto da un
raccoglimento impressionante. Uno dei mille volti
della festa per don Álvaro. Tra l’altro, moltissimi
conventi della Spagna hanno fornito le ostie necessarie e, nei giorni precedenti la beatificazione, il comitato organizzatore si è visto recapitare una gigantesca cassa proveniente da una comunità di Elche,
contenente ventimila particole. Era accompagnata
da una sola frase: «Per ringraziare don Álvaro».
La gratitudine
del Prelato
Prima della conclusione della cerimonia, mons. Javier Echevarría si è così confidato all’assemblea:
«Al termine di questa celebrazione desidero manifestare la mia più profonda gratitudine alla Santissima Trinità per il dono che oggi ha fatto a tutta la
Chiesa. La elevazione agli altari di don Álvaro del
Portillo, successore di san Josemaría Escrivá, ci ricorda ancora una volta la chiamata universale alla
santità, proclamata con grande forza dal Concilio
Vaticano II. L’itinerario terreno del beato Álvaro ci
dimostra che il perfetto compimento dei propri doveri contrassegna il cammino della santificazione
personale, la via che conduce alla piena unione con
Dio, alla quale tutti dobbiamo aspirare».
667
Intorno alle 14 di sabato la gratitudine era il sentimento che traboccava sul volto dei duecentomila
pellegrini. La fiumana delle persone si è poi dispersa in modo ordinato sul perfetto asfalto di Valdebebas. I più fortunati sono stati quelli che «sfidando» gli organizzatori sono riusciti a parcheggiare a meno di mezz’ora a piedi dall’area riservata all’evento.
In tanti si sono poi dati appuntamento nella caotica
movida madrilena. Ogni pellegrino ha continuato a
celebrare il gran giorno a modo suo. Chi davanti a
una cerveza ghiacciata, chi scegliendo una varietà di
prosciutto sui tavolini del Museo del Jamón, chi in-
zuppando i churros fritti nella cioccolata di un antico locale accanto a Plaza Major (la leggendaria
Chocolateria San Gines). Ognuno con il proprio
racconto della beatificazione, che difficilmente potrà essere cancellato dalla memoria. Tutti con la consapevolezza di aver toccato con mano un ricorrente
incoraggiamento di san Josemaría: «Sonad y os quedereis cortos». «Sognate e la realtà supererà i vostri
sogni più audaci». È questa, in fondo, la sintesi di
don Álvaro. Il saxum, così amava chiamarlo san Josemaría, che continua a indicare il buon cammino.
Alessandro Rivali
«Grazie, perdono, aiutami di più»
Lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei
In occasione della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, Papa Francesco ha inviato a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, questa lettera che il vicario generale dell’Opera, mons. Fernando Ocáriz, ha letto all’inizio della cerimonia. Nella foto, il Papa e il Prelato al termine dell’udienza del 1° ottobre in Piazza San Pietro.
Caro fratello,
la beatificazione del servo di Dio Álvaro del Portillo, collaboratore fedele e primo successore di san
Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei, è un
momento di gioia speciale per tutti i fedeli della
prelatura, come pure per te, che sei stato così a lungo testimone del suo amore a Dio e agli altri, della
sua fedeltà alla Chiesa e alla propria vocazione. Desidero unirmi anch’io alla vostra gioia e rendere
grazie a Dio che adorna il volto della Chiesa con la
santità dei suoi figli.
La sua beatificazione avverrà a Madrid, la città in cui
nacque e in cui trascorse l’infanzia e la giovinezza,
con un’esistenza forgiata nella semplicità della vita
famigliare, nell’amicizia e nel servizio agli altri, come quando si recava nei quartieri estremi per collaborare alla formazione umana e cristiana di tante persone bisognose. Lì, soprattutto, ebbe luogo l’evento
che segnò definitivamente l’indirizzo della sua vita:
l’incontro con san Josemaría Escrivá, dal quale imparò a innamorarsi di Cristo ogni giorno di più. Sì,
innamorarsi di Cristo. Questo è il cammino di santità che deve percorrere ogni cristiano: lasciarsi amare
dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita.
Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di
Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e
negli anniversari personali: «Grazie, perdono, aiu-
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tami di più!». Sono parole che ci avvicinano alla
realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con
il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare
nuovo slancio alla nostra vita cristiana.
Anzitutto, grazie. È la reazione immediata e spontanea che prova l’anima dinanzi alla bontà di Dio.
Non può essere altrimenti. Egli ci precede sempre.
Per quanto ci sforziamo, il suo amore giunge sempre prima, ci tocca e ci accarezza per primo, è primo sempre. Álvaro del Portillo era consapevole dei
tanti doni che Dio gli aveva concesso e lo ringraziava per quella dimostrazione di amore paterno.
Però, non si fermò lì; il riconoscimento dell’amore
27 settembre 2014:
del Signore risvegliò nel suo cuore desideri di seguirlo con maggiore dedizione e generosità e di vivere una vita di umile servizio agli altri. Era notorio il suo amore per la Chiesa, sposa di Cristo, che
servì con un cuore spoglio di interessi mondani,
alieno alla discordia, accogliente con tutti e sempre
alla ricerca del buono negli altri, di ciò che unisce,
che edifica. Mai un lamento o una critica, nemmeno in momenti particolarmente difficili, piuttosto,
come aveva imparato da san Josemaría, rispondeva
sempre con la preghiera, il perdono, la comprensione, la carità sincera.
Perdono. Confessava spesso di vedersi davanti a
Dio con le mani vuote, incapace di rispondere a tanta generosità. Peraltro, la confessione della povertà
umana non è frutto della disperazione, ma di un fiducioso abbandono in Dio che è Padre. È aprirsi alla sua misericordia, al suo amore capace di rigenerare la nostra vita. Un amore che non umilia, non fa
sprofondare nell’abisso della colpa, ma ci abbraccia, ci solleva dalla nostra prostrazione e ci fa camminare con più decisione e allegria. Il servo di Dio
Álvaro conosceva bene il bisogno che abbiamo della misericordia divina e spese molte energie per incoraggiare le persone con cui entrava in contatto ad
accostarsi al sacramento della confessione, sacramento della gioia. Com’è importante sentire la tenerezza dell’amore di Dio e scoprire che c’è ancora
tempo per amare.
Aiutami di più. Sì, il Signore non ci abbandona mai,
ci sta sempre accanto, cammina con noi e ogni giorno attende da noi un amore nuovo. La sua grazia
non ci verrà a mancare e con il suo aiuto possiamo
portare il suo nome in tutto il mondo. Nel cuore del
nuovo beato pulsava l’anelito di portare la Buona
Novella a tutti i cuori. Percorse così molti Paesi
dando impulso a progetti di evangelizzazione, senza preoccuparsi delle difficoltà, spronato dal suo
amore a Dio e ai fratelli. Chi è profondamente immerso in Dio sa stare molto vicino agli uomini. La
prima condizione per annunciare loro Cristo è
amarli, perché Cristo li ama già prima. Dobbiamo
uscire dai nostri egoismi e dai nostri comodi e andare incontro ai nostri fratelli. Lì ci attende il Signore. Non possiamo tenere la fede per noi stessi, è
un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri.
Grazie, perdono, aiutami! In queste parole si esprime la tensione di una vita centrata in Dio. Di chi è
stato toccato dall’Amore più grande e di quell’amore vive totalmente. Di chi, pur avendo l’esperienza
delle debolezze e dei limiti umani, confida nella misericordia del Signore e vuole che tutti gli uomini,
suoi fratelli, ne facciano anch’essi l’esperienza.
Caro fratello, il beato Álvaro del Portillo ci invia un
messaggio molto chiaro, ci dice di fidarci del Signore, che egli è il nostro fratello, il nostro amico
che non ci defrauda mai e che sta sempre al nostro
fianco. Ci incoraggia a non temere di andare controcorrente e di soffrire per l’annuncio del Vangelo.
Ci insegna infine che nella semplicità e nella quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità.
Chiedo, per favore, a tutti i fedeli della prelatura,
sacerdoti e laici, e a tutti i partecipanti alle vostre attività, di pregare per me, mentre impartisco la Benedizione Apostolica.
Gesù vi benedica e la Santa Vergine vi protegga.
Fraternamente,
Francesco
«L’umiltà apre la porta della santità»
Omelia del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione
«Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» è questo il ritratto che Papa
Francesco fa del beato Álvaro del Portillo, pastore
buono, che, come Gesù, conosce e ama le sue pecore, conduce all’ovile quelle smarrite, fascia le
ferite di quelle malate, offre la vita per loro (cfr Ez
34, 11-16; Gv 10,11-16).
Il nuovo Beato, da giovane fu chiamato alla sequela di Cristo per essere dopo zelante ministro della
Chiesa e per manifestare a tutti la gloriosa ricchezza del suo mistero salvifico: «È lui [Cristo] che noi
annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo
con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in
Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza
Álvaro del Portillo Beato
che viene da lui e che agisce in me con potenza»
(Col 1, 28-29). E la proclamazione di Cristo salvatore egli la fece con una modalità di assoluta fedeltà alla croce e, allo stesso tempo, di esemplare letizia evangelica nelle difficoltà. Per questo oggi la liturgia gli applica le parole dell’apostolo: «Perciò
sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e
completo quello che nella mia carne manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la
Chiesa» (Col 1, 24).
La letizia nelle prove e nelle sofferenze è una caratteristica dei santi. Del resto le beatitudini, anche
quelle più ardue come le persecuzioni, non sono altro che un inno alla gioia.
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Il card. Angelo Amato accoglie i doni all’offertorio della Messa di beatificazione.
Sono molte le virtù – come la fede, la speranza, la
carità – che il nostro Beato visse con eroismo. Ma
questi suoi abiti virtuosi egli li interpretò alla luce
delle beatitudini della mitezza, della misericordia,
della purezza di cuore. Le testimonianze sono concordi al riguardo. Oltre all’estrema sintonia spirituale e apostolica con il suo santo Fondatore, anch’egli fu una figura di grande umanità.
I testimoni affermano che, fin da piccolo, Álvaro era
un ragazzo di carattere allegro e studioso, che mai
diede problemi («un chico de carácter muy alegre y
muy estudioso, que nunca dio problemas»); era simpatico, semplice, gioioso, responsabile, buono («Era
cariñoso, sencillo, alegre, responsable, bueno»)1.
Dalla mamma Donna Clementina aveva ereditato la
proverbiale serenità, la delicatezza, il sorriso, la comprensione, l’attenzione a dir bene delle persone, l’equilibrio nel giudizio. Era un autentico gentiluomo.
Non era verboso. La sua formazione scientifica di ingegnere gli permettevano rigore mentale, concisione
e precisione per andare subito al cuore dei problemi e
risolverli. Ciò incuteva rispetto e ammirazione.
Alla squisitezza del tratto univa una eccezionale ricchezza spirituale, nella quale dominava la grazia dell’unità tra vita interiore e instancabile apostolato. Lo
scrittore Salvador Bernal afferma che egli trasforma-
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va in poesia l’umile prosa del lavoro quotidiano2.
Era esempio vivente di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa, al magistero del Papa. Trovandosi nella basilica di
San Pietro, a Roma, era solito recitare il Credo presso la tomba dell’Apostolo e una Salve Regina davanti all’immagine di Maria, Mater Ecclesiae.
Rifuggendo da ogni personalismo, comunicava più
che i suoi pareri, la verità del Vangelo e l’integrità
della tradizione. La sua vita spirituale era nutrita di
pietà eucaristica, di devozione mariana e di venerazione dei santi. Frequenti giaculatorie e preghiere
vocali rendevano viva e continua la presenza di
Dio. Abituali erano le invocazioni: Cor Iesu Sacratissimum et Misericors, dona nobis pacem!, come
anche Cor Mariae Dulcissimum, iter para tutum.
Continue erano le invocazioni mariane, come Santa Maria, speranza nostra, ancella del Signore, sede della Sapienza.
Portatore del «buon
profumo di Cristo»
Una tappa decisiva della sua vita fu la chiamata all’Opus Dei. A 21 anni, nel 1935, dopo aver incontrato l’allora trentatrenne san Josemaría Escrivá de Balaguer, rispose generosamente alla chiamata del Signore, che per lui significava anche una vocazione alla santità e all’apostolato. Aveva un profondo sentimento di comunione filiale, affettiva ed effettiva con
27 settembre 2014:
il Santo Padre, del quale accoglieva con riconoscenza
il magistero, facendolo conoscere a tutti i fedeli dell’Opus. Negli ultimi anni della sua vita baciava spesso l’anello prelatizio che gli era stato regalato dal Papa, per confermare la sua piena adesione ai desideri
del Sommo Pontefice, quando soprattutto chiedeva la
preghiera e il digiuno per la pace, per l’unità dei cristiani, per l’evangelizzazione dell’Europa.
Appartenevano al suo abito virtuoso gli atteggiamenti di prudenza e rettitudine nel valutare gli
eventi e le persone; di giustizia nel rispetto dell’onore e della libertà delle persone; di fortezza nel resistere alle avversità fisiche e morali; di temperanza, vissuta come sobrietà, mortificazione interiore
ed esteriore. Il nostro Beato fu portatore del buon
profumo di Cristo (bonus odor Christi: 2 Cor 2,
15), profumo di santità autentica.
Ma c’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno
strumento indispensabile di santità e di apostolato:
la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio,
salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si
considerava un cristiano maturo e ben formato, il
nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo
che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria
pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione3.
Fu una grande lezione di semplicità e di pietà.
Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non
era venuto per essere servito ma per servire. Per
questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico
Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva
sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: «Sin
humildad, no hay virtud que lo sea» («Senza umiltà non c’è vera virtù»)4. E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: «Cor contritum et
humiliatum, Deus, non despicies».
Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era
la casa della carità5. Ripeteva un consiglio che dava
spesso il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile;
se vuoi essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un asino il trono
di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi
compagni di studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in risalto la semplicità,
l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di
superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la superbia. Un testimone
afferma che era l’umiltà in persona6.
Álvaro del Portillo Beato
Si trattava non di una umiltà aspra, appariscente,
esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla convinzione di non valere molto. All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico
a me stesso. Occorre lottare tutta la vita per giungere a essere umili. Abbiamo la scuola meravigliosa di umiltà del Signore, della Santissima Vergine
e di san Giuseppe. Dobbiamo imparare. Dobbiamo
lottare contro il proprio io che si alza costantemente come una vipera, per mordere. Ma siamo sicuri,
se rimaniamo vicino a Gesù che è della stirpe di
Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente»
(«Os lo digo a vosotros, y me lo digo a mí mismo.
Tenemos que luchar tota la vida para llegar a ser
humildes. Tenemos la escuela maravillosa de humildad del Señor, de la Santísima Virgen y de San
José. Vamos a aprender. Vamos a luchar contra el
proprio yo que está constantemente alzándose como una víbora, para morder. Pero estamos seguros
si estamos cerca de Jesús que es del linaje de María, y es el que aplastará la cabeza de la serpiente»7).
Per lui l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia era il grande ostacolo
per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la maschera di cartone, ridicola, che portano le
persone presuntuose soddisfatte di se stesse» («La
humildad nos arranca la careta de cartón, ridícula,
que llevan las personas presuntuosas, pagadas de
sí mismas»8). L’umiltà è il riconoscimento dei nostri limiti ma anche della nostra dignità di figli di
Dio. Il miglior elogio della sua umiltà lo scrisse una
signora appartenente all’Opus, dopo la morte del
Fondatore: «Chi è morto è stato don Álvaro, perché
il nostro Padre continua a vivere nel suo successore» («El que ha muerto ha sido D. Álvaro, porque
nuestro Padre sigue vivo en su sucesor9»).
«Pastore secondo
il cuore di Gesù»
Un cardinale testimonia che quando leggeva il tema
dell’umiltà nella Regola di San Benedetto o negli
Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, gli
sembrava di contemplare un ideale altissimo, inarrivabile all’essere umano. Ma quando incontrò e
conobbe il nostro Beato capì che l’umiltà spinta fino alla radice era possibile.
Si possono applicare al nostro Beato le parole che
l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nel 2002 in
occasione della canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei. Parlando della virtù eroica, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede
disse: «Virtù eroica propriamente non significa che
uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è
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stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio
[...]. Questa è la santità10».
È questa la consegna che fa a noi oggi il beato Álvaro del Portillo «pastore secondo il cuore di Gesù,
operoso ministro della Chiesa». Ci invita a essere
santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa, gentile, mite e umile.
La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande
spettacolo della santità, per bonificare, con il suo
buon profumo, i miasmi dei tanti vizi ostentati con
arrogante insistenza.
Abbiamo oggi più che mai bisogno di una ecologia della santità, per contrastare l’inquinamento
del malcostume e della corruzione. I santi ci invitano a immettere nel seno della Chiesa e della società l’aria pura della grazia di Dio, che rinnova la
faccia della terra.
Maria Ausiliatrice dei cristiani e Madre dei santi ci
aiuti e ci protegga.
Beato Álvaro del Portillo, prega per noi. Amen.
Card. Angelo Amato
Prefetto della Congregazione
per le Cause dei santi
Positio (2010) I p. 27.
Ivi, p. 30.
Ivi. p. 662.
Ivi, p. 663.
5 Agostino, De sancta virginitate, 51.
6 Ib. p. 668.
7 Positio I p. 675.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 705.
10 Ivi, p. 908.
«La fedeltà è il nome dell’amore»
Omelia del Prelato dell’Opus Dei alla Messa di ringraziamento
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri come io ho amato voi»: «Ut diligatis invicem, sicut dilexi vos» (Gv 15, 12). Cari fratelli e
sorelle, queste parole del Vangelo risuonano oggi
nella mia anima come una gioia nuova, considerando che la gente che ieri affollava questo luogo, in
piena comunione con Papa Francesco e con quanti
ci erano vicini dai quattro punti cardinali, non era
propriamente una folla ma la riunione di una famiglia unita dall’amore di Dio e dall’amore mutuo.
Questo stesso amore oggi diventa ancora più forte
nell’Eucarestia, in questa Messa di ringraziamento
per la beatificazione del carissimo don Álvaro, vescovo, prelato dell’Opus Dei.
Il Signore, nell’istituire l’Eucarestia, rese grazie a
Dio Padre per la sua eterna bontà, per la creazione
uscita dalle sue mani, per il suo misterioso disegno
di salvezza. E noi lo ringraziamo di quell’amore infinito manifestato sulla Croce e anticipato nel Cenacolo. E chiediamo al Signore: come dobbiamo fare per amare come tu ci hai amato? Per amare come
tu hai amato Pietro e Giovanni, ciascuno di noi, e
anche san Josemaría e il beato Álvaro?
Guardando alla vita santa di don Álvaro, scopriamo
la mano di Dio, la grazia dello Spirito Santo, il dono
di un amore che ci trasforma.
E accogliamo nel profondo dell’anima, facendola
nostra, quella preghiera di san Josemaría che tante
volte ripeté il nuovo Beato: «Dammi, Signore, l’Amore con cui vuoi che io ti ami1», affinché io sappia amare gli altri con il tuo Amore e con il mio po-
672
vero sforzo. Allora gli altri scopriranno nella mia
vita la bontà di Dio, come avvenne nel cammino
quotidiano di don Álvaro: in questa Madrid tanto
amata nella sua solidarietà con i più poveri e abbandonati si percepiva la misericordia divina. Ci riempie di gioia che nella seconda lettura della Messa ci sia stata ricordata la presenza di Cristo in noi,
che ci riveste «di tenerezza, di bontà, di umiltà, di
mansuetudine, di magnanimità» (Col 3, 12).
«Dio ci amava ancor prima
che nascessimo»
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo Iddio chiedendogli ancora più amore. Nella maturità della giovinezza, quando aveva 25 anni, don Álvaro era già «saxum», una roccia, per san Josemaría. Con la sua
umiltà, un giorno scrisse in una lettera al Fondatore
dell’Opus Dei queste parole: «Io nutro l’aspirazione che, malgrado tutto, Lei possa fidarsi di uno che,
più che roccia, è fango privo di ogni solidità. Ma il
Signore è tanto buono!2». Tale sicurezza nella bontà divina può impregnare anche tutta la nostra esistenza. «Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore
e la tua fedeltà», abbiamo ripetuto con il Salmo responsoriale (Sal 138 [137], 2). E innalziamo la nostra gratitudine alla Santissima Trinità perché resta
con noi con la sua Parola, Gesù stesso (cfr Col 3,
16), e con il suo Spirito, che ci colma di gioia (cfr
Gv 15, 11; Lc 11, 13) e ci permette di rivolgerci a
27 settembre 2014:
Mons. Javier Echevarría ha presieduto la
Messa di ringraziamento il 28 settembre.
Al suo fianco, il card. Salvatore De Giorgi.
Dio, pieni di fiducia, chiamandolo «Abba, Pater»:
«Padre! papà!».
«La trinità della terra ci condurrà alla Trinità del
Cielo3», ripeteva don Álvaro seguendo gli insegnamenti e l’esperienza del Fondatore dell’Opus Dei.
Gesù, Maria e Giuseppe ci guidano al Padre e allo
Spirito Santo; nella santa umanità di Cristo scopriamo la divinità, inseparabilmente unita a essa4.
La Sacra Famiglia! Con le parole della prima lettura, benediciamo il Signore «che fa crescere i nostri
giorni fin dal seno materno, e agisce con noi secondo la sua misericordia» (Sir 50, 24). Il testo sacro ci
fa presente che Dio ci amava ancor prima che nascessimo. Mi vengono in mente i versi che Virgilio
indirizza a un neonato: «Incipe, parve puer, risu
cognoscere matrem» (Virgilio, Egloga IV, 60): «Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere tua madre dal sorriso». Il neonato scopre l’universo a poco a poco; nel volto di sua madre, pieno d’amore, in
quel sorriso che lo accoglie, l’esserino appena venuto al mondo scopre un riflesso della bontà di Dio.
Nella giornata odierna che il Santo Padre Francesco
ha dedicato alla preghiera per la famiglia, anche noi
ci uniamo alle suppliche di tutta la Chiesa per quella «communio dilectionis», quella «comunione d’a-
Álvaro del Portillo Beato
more5», quella «scuola6» del Vangelo, la famiglia,
come diceva Paolo VI a Nazareth. La famiglia, con
il «dinamismo interiore profondo dell’amore7», ha
una grande «fecondità spirituale8», come insegnò
san Giovanni Paolo II, a cui il beato Álvaro era unito da una filiale amicizia.
Nel ringraziare don Álvaro, ringraziamo i suoi genitori che lo hanno accolto ed educato, che hanno
preparato in lui un cuore semplice e generoso pronto a ricevere l’amore di Dio e rispondere alla sua
chiamata. «Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Don
Álvaro è stato così: un uomo che con il sorriso sulle labbra benediceva Dio che «compie grandi cose»
(Sir 50, 24), e che si è servito di lui per il servizio
della Chiesa, estendendo l’Opus Dei, come fedele
figlio e successore di san Josemaría.
Preghiamo affinché molte famiglie siano «focolari... luminosi e allegri, come quello della Sacra Famiglia9», citando parole di san Josemaría. La nostra
gratitudine si innalza a Dio per il dono della famiglia, riflesso dell’eterno amore trinitario, luogo in
cui ognuno sa di essere amato per sé stesso, così com’è. E ringraziamo adesso anche tutti i padri e le
madri di famiglia qui riuniti, e tutti coloro che si occupano dei bambini, degli anziani, dei malati.
Famiglie: il Signore vi ama, il Signore è presente
nel vostro matrimonio, che è un’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. So che voi, molti
673
Don Javier Medina Bayo, Postulatore della Causa
di beatificazione, ha letto un brano del Decreto
sulle virtù eroiche di mons. Álvaro del Portillo.
di voi, vi dedicate generosamente a sostenere altri
coniugi nel cammino della fedeltà, che aiutate molti altri focolari ad andare avanti in un contesto sociale spesso difficile o addirittura ostile. Coraggio!
Il vostro impegno nella testimonianza e nell’evangelizzazione è necessario per tutto il mondo. Ricordatevi quello che ha detto l’amato Benedetto XVI:
«La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore10».
«Trasmettere ciò che
abbiamo ricevuto»
«Siate riconoscenti» è l’esortazione di san Paolo
(Col 3, 15). Il beato Álvaro, pensando a quanto doveva a san Josemaría, affermava che «la migliore
manifestazione di riconoscenza è fare buon uso dei
doni ricevuti11». Nella sua predicazione, nelle tertulie, in incontri personali, dappertutto, non tralasciava mai di parlare di apostolato e di evangelizzazione. Per perseverare nell’amore di Dio che abbiamo
ricevuto, dobbiamo condividerlo con gli altri; la
bontà di Dio tende a diffondersi. Papa Francesco diceva che «nella preghiera il Signore ci fa sentire
questo amore, ma anche attraverso tanti segni che
possiamo leggere nella nostra vita, tante persone
che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con
Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma
ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa12».
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv
15, 16). Il Signore, dopo aver ribadito che l’iniziativa è sempre sua, nel primato del suo amore ci manda a diffondere il suo amore per tutte le creature: «Vi
ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (ibidem). «Manete in dilectione
mea»: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Rimanere nel Signore è necessario per dare un frutto capace di affondare, a sua volta, delle radici profonde.
674
Gesù lo ha appena detto ai suoi discepoli: «Rimanete
in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto
da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi
se non rimanete in me» (Gv 15, 4).
La folla di questi giorni, i milioni di persone in tutto
il mondo, e tante altre che ci aspettano già in Cielo,
testimoniano all’unisono la fecondità della vita di
don Álvaro. Vi invito, sorelle e fratelli, a restare, a
operare nell’amore del Signore: nell’orazione, nella
Messa e nella Comunione frequente, nella Confessione sacramentale, affinché tutti noi, fortificati dalla
predilezione divina, sappiamo trasmettere ciò che
abbiamo ricevuto, e sappiamo farlo attraverso un autentico apostolato di amicizia e confidenza.
Nella lettera che l’amato Papa Francesco mi ha
scritto in occasione della beatificazione di ieri, ci
diceva che «non possiamo tenere la fede per noi
stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo
e condividerlo con gli altri13»; e aggiungeva che il
beato Álvaro «ci incoraggia a non aver paura di andare controcorrente e di soffrire per annunciare il
Vangelo», e inoltre «ci insegna che nella semplicità
e quotidianità della nostra vita possiamo trovare un
cammino sicuro di santità14».
In questo cammino, assieme a molti angeli, ci accompagna la Santissima Vergine. Maria è Figlia di
Dio Padre, Madre di Dio Figlio, Sposa e Tempio di
Dio Spirito Santo. È Madre di Dio e Madre nostra,
la Regina della famiglia e la Regina degli apostoli.
Che Lei ci aiuti, come ha fatto con il beato Álvaro,
a seguire l’invito del Successore di Pietro: «Lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo
amore e permettere che sia lui a guidare la nostra
vita15», come chiese tante volte san Josemaría alla
Vergine dell’Almudena, molto amata e venerata in
questa arcidiocesi. Così sia.
Mons. Javier Echevarría
Prelato dell’Opus Dei
1
San Josemaría Escrivá, Forgia, n. 270.
Beato Álvaro del Portillo, Lettera a san Josemaría, Olot, 13
luglio 1939.
3 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 30 settembre 1975.
4 Cfr Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale in occasione delle Nozze d’Oro della fondazione dell’Opus Dei, 24 settembre
1978.
5 Venerabile Paolo VI, Allocuzione a Nazareth, 5 gennaio 1964.
6 Ibidem.
7 San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale
«Familiaris consortio», n. 41.
8 Ibidem.
9 San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 22.
10 Benedetto XVI, Omelia a Fatima, 12 maggio 2010.
11 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 1 luglio 1985.
12 Francesco, Discorso, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013.
13 Francesco, Lettera a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, in occasione della beatificazione di Álvaro del Portillo celebrata a Madrid il 27 settembre 2014.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
2
27 settembre 2014:
Tavola rotonda
romana
Analisi della
biografia/1
J
Il primo
successore
di san Josemaría
Il volume di Javier Medina Bayo Álvaro del Portillo. Primo successore di
san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano
2014, pp. 760, euro 22) ha fornito lo spunto per un approfondimento non
solo biografico sulla figura del nuovo Beato. Alla tavola rotonda del 18 settembre 2014, nell’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce, moderata da Cesare Cavalleri, hanno preso la parola, dopo il saluto del
prelato dell’Opus Dei, il card. Francesco Monterisi (foto), padre Antonio
Maria Sicari, la sen. Emma Fattorini e la prof. Maria Vittoria Marini Clarelli, i cui interventi sono pubblicati in queste pagine. Da p. 688, gli interventi della tavola rotonda milanese.
avier Medina Bayo, nel redigere il volume
che oggi presentiamo, si è avvalso di una
documentazione che noi possiamo dire «eccezionale», per dimensioni e contenuti: ha utilizzato, fra
l’altro, gli Archivi dell’Opus Dei e della Santa Sede, gli scritti e le dichiarazioni di tanti testimoni, in
gran parte de visu, a cominciare dall’attuale prelato
dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che è vissuto per ben quarantaquattro anni con mons. del
Portillo. Don Medina ha consultato poi diversi professori ed esperti della storia dell’Opus Dei, e in
particolare il postulatore della Causa di beatificazione di mons. Álvaro, e cioè mons. Flavio Capucci, il quale ha presentato alla Congregazione delle
Cause dei Santi una Positio in tre volumi, di 2.340
pagine complessive, curata da lui e composta a più
mani, come si suole dire (cfr p. 537).
Di fatto, la caratteristica di questa biografia che subito balza agli occhi è quella di essere veramente «do-
Álvaro del Portillo Beato
cumentata», come raramente si trova fra le vite dei
santi, anche oggi. Le citazioni, dalle fonti più varie e
disparate, sono indicate nelle Note collocate alla fine
del volume e occupano più di 90 pagine (pp. 633725). Le Note stesse, con i rispettivi commenti, aiutano moltissimo a entrare nel vivo della narrazione
delle vicende e della bell’anima di don Álvaro. Alla
fine del volume vi sono anche un’Appendice documentale e una Cronologia della vita di don Álvaro,
molto utili alla lettura e alla comprensione del testo.
Sul contenuto di questa biografia, si può dire che
l’Autore innanzitutto espone in successione storica il dipanarsi della vita di don Álvaro, con precisione e abbondanza di informazioni: dalla sua nascita e formazione alle prime responsabilità, dalla
sua adesione all’Opus Dei al suo insediamento a
Roma e, via via, alle sue attività come procuratore, segretario generale e quindi prelato dell’Opus
Dei e al lavoro per il Concilio ecumenico Vatica-
675
no II e per i dicasteri della Santa Sede.
Le vicende della vita di mons. Álvaro sono inquadrate, con pericopi brevi ed essenziali ma incisive,
nei contesti storici, civili ed ecclesiastici che toccarono o talvolta condizionarono le fasi dell’esistenza
del futuro Beato: la Guerra di Spagna, la Seconda
guerra mondiale, la Guerra fredda, la situazione italiana e mondiale: dal punto di vista ecclesiale, la
creazione e lo sviluppo dell’Opus Dei guidata da san
Josemaría Escrivá, il Concilio, le modifiche da esso
apportate nella Chiesa e nella Curia romana, con il
susseguirsi dei Papi da Pio XII a Giovanni Paolo II.
Ma tengo soprattutto a sottolineare che l’impianto
storiografico della biografia si intreccia armonicamente con la descrizione del carattere, delle doti, delle virtù e della spiritualità di don Álvaro. Questa simbiosi mi sembra il pregio più notevole di questa biografia. Cioè, la narrazione della storia e l’osservazione dell’anima di mons. del Portillo sono ben combinate e compenetrate l’una nell’altra. La lettura risulta piacevole, molto interessante e coinvolgente.
Infine, il racconto e le riflessioni procedono in forma
piana, certamente con viva passione e partecipazione
d’animo dell’Autore, ma non c’è traccia di quell’enfasi celebrativa o «oleografica» che spesso appare in
tante biografie di santi. Questo perché parlano da sé
stesse le vicende della vita di mons. del Portillo, a
volta paradossali e straordinarie (come quelle del riuscito passaggio dal territorio controllato dalle forze
«repubblicane» a quello dell’esercito «nazionale»
verso la fine della Guerra di Spagna, nel 1938; cfr pp.
109-113). Ma sono altrettanto rivelatrici della sua
personalità anche le notizie su fatti semplici, personali, familiari e comunitari, talvolta pure comici, descritti con vivacità in questo libro.
Da tutto il volume emerge con naturalezza la figura
sovrastante di un uomo di fede, affettuoso e generoso, sacrificato e cordiale, semplice e grande, quale fu
il prelato dell’Opus Dei mons. Álvaro del Portillo.
Sicurezza, serenità,
buonumore
Il carattere dell’imminente Beato si delineava già
nella sua fanciullezza e gioventù. Fu considerato da
alcuni parenti «deciso ed energico, ma unito a grande affabilità»; i genitori e altri familiari descrissero
il piccolo Álvaro talvolta «alquanto brusco, persino
discolo» (di fatto, aveva fatto solo qualche marachella come di solito fanno i fanciulli). In realtà era
un ragazzo «vivace e risoluto», nonostante qualche
tratto di «timidezza». Per questa sua riservatezza –
egli stesso lo racconta – al momento di iscriversi all’università, scelse la facoltà di Ingegneria e non
quella di Giurisprudenza, come aveva fatto suo padre, perché preferiva la professione più «discreta»
degli ingegneri a quella «pubblica» degli avvocati.
676
Questo temperamento era comunque «accompagnato da una grande bontà». Un compagno di scuola lo ricorda come un «bambino normalissimo, ma
diverso in questo: che aiutava costantemente gli altri». Da alunno intelligente e responsabile della
scuola Nuestra Señora del Pilar, retta dai Marianisti a Madrid, ricevette voti alti, tanto da essere
iscritto nel Libro d’Oro dell’Istituto. Soprattutto, in
tale scuola e in famiglia, ricevette un’ottima formazione religiosa, che profondamente si impresse nel
suo cuore. Aveva poi un costante buonumore, con
senso di sicurezza e serenità, mantenendolo anche
nelle difficoltà. Per esempio, faceva delle «battute»
con i fratelli sulla stretta dieta che doveva seguire a
colazione a causa dei medicinali al salicilico prescritti per guarire da un’affezione reumatica: «Che
fortunaccia (suertasa) avete! A voi uovo fritto e fagioli, a me solo salicilati» (pp. 39 e ss.).
Ovviamente, queste doti specifiche di carattere e di
spirito si sarebbero poi arricchite e perfezionate nel
corso delle vicende della vita, ma sempre nello stesso senso. Di fatto, san Josemaría Escrivá colse subito la ricchezza d’animo del giovane Álvaro fin da
quando questi cominciò ad accostarsi all’Opus Dei,
all’età di 21 anni. Ne riconobbe subito il temperamento deciso e forte, insieme alla bontà d’animo.
Lo chiamò in seguito «Saxum» e gli spiegò che questo titolo stava per «Roccia, fortezza, fondamento,
paternità» (p. 125). («Saxum» è il nome che è stato
dato alla Casa di Ritiri spirituali che l’Opus Dei sta
costruendo in Terra Santa, presso Abu Gosh; speriamo che la beatificazione di mons. Álvaro ne affretti la conclusione).
Tornando alle caratteristiche dell’animo di mons.
del Portillo, mi limito a segnalarne tre. Innanzitutto
la sicurezza, la serenità d’animo e anche il buonumore. Fu un uomo di pace. Nato a Madrid nel 1914,
morto a Roma nel 1994, visse in un secolo segnato
da guerre e divisioni. Basti ricordare la Guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, il mondo
diviso in blocchi. Nella Chiesa, sentì profondamente la sofferenza delle persecuzioni comuniste, le divisioni del Concilio e le tensioni del periodo postconciliare; infine, anche prima del suo arrivo a Roma nel 1946 e fino alla morte, ebbe un impegno veramente arduo, anche se esaltante, di accompagnare i primi passi e di espandere l’Opus Dei. In totale
obbedienza al fondatore san Josemaría e affrontando difficoltà di ogni genere – viaggiando spesso in
Europa e negli altri continenti –, don Álvaro sapeva
mantenere un atteggiamento di calma, di sicurezza,
di decisione, fondato certamente nella sua fiducia e
nel suo amore per Cristo e frutto della sua volontà
affinata nelle prove.
Il giovane Álvaro mostrò queste disposizioni già
quando, ancora ventenne e quindi prima di aderire
all’Opus Dei, fu assalito da un gruppo di facinorosi
anticlericali, da cui ricevette un colpo di chiave in-
27 settembre 2014:
L’Aula Magna della Pontificia Università della
Santa Croce durante il saluto di mons. Javier
Echevarría. Da sinistra, Cesare Cavalleri, Emma Fattorini, il card. Francesco Monterisi, Maria Vittoria Marini Clarelli, p. Antonio Maria Sicari, Javier Medina Bayo.
glese alla testa, all’uscita da una parrocchia di Madrid nella quale insegnava il catechismo. Non si
diede in recriminazioni e lagnanze. Il medico che
poi lo curò diceva alla madre: «Che ragazzo coraggioso! Non si lamenta mai!» (p. 60).
Negli anni ‘50, durante la costruzione di Villa Tevere, sede centrale dell’Opus Dei a Roma (costruzione che san Josemaría aveva in pratica affidato
totalmente a don Álvaro), non di rado mancavano le
risorse economiche ed egli, vivendo in strettezze,
era afflitto da dolori e febbri frequenti. Ricordando
quei tempi, mons. del Portillo scriveva: «Tutte le
difficoltà si sommavano, comprese quelle materiali
che, sebbene non ci togliessero la pace, ci portavano via molto tempo». Si aggiunse anche il fatto che
delle persone interessate presentarono un’ingiusta
querela contro i lavori che si stavano realizzando.
Egli, pur sapendo di avere pienamente ragione,
scelse la via del dialogo e con serenità e pazienza
incontrò i denuncianti, riuscendo a calmarne gli
animi. Alla fine le denunce furono respinte dalle autorità competenti. «Si tratta di preoccupazioni che
non preoccupano», diceva don Álvaro riferendosi a
questi avvenimenti (pp. 237 e ss.).
Agli inizi degli stessi anni ‘50, ci fu una pericolosa
e dolorosa campagna di calunnie contro l’Opus Dei,
sollevata da varie parti (pp. 275 e ss.). Se ne presentò poi un’altra ancora più dura, dal 1983 in poi,
subito dopo l’erezione dell’Opus Dei in prelatura
personale, durante la quale le contestazioni si diffusero in diversi Paesi europei, proprio per diffamare
l’Opera (pp. 446 e ss.). Nella prima, ma soprattutto
nella seconda, quando mons. del Portillo era prelato, egli affrontò questi attacchi con grande serenità
Álvaro del Portillo Beato
e pace. Questi sentimenti infuse anche nei suoi collaboratori e fedeli, incoraggiandoli a mantenere la
visione soprannaturale e a non cedere alla dinamica
della contrapposizione. Il libro di don Medina riferisce diversi episodi di quel periodo burrascoso (si
mossero il prof. Hans Küng e, purtroppo, anche il
teologo Urs von Balthasar; cfr p. 449). Mons. Álvaro chiamava «aneddoti» questi episodi, come a
sminuirne la drammaticità, e manteneva la calma,
interna ed esteriore, propria di chi scorge in tutto la
mano di Dio. Tuttavia, non mancò di difendere l’Opus Dei (e anche il Papa e la Chiesa, pure attaccati
in quel periodo post-conciliare), usando i mezzi
umani più adatti alla situazione, ma con spirito sereno e leale verso tutti.
Un padre amorevole
Una seconda caratteristica di fondo dell’animo di
mons. del Portillo fu lo spirito di paternità e amore,
aiuto agli altri, concretizzato in iniziative sociali.
Come detto prima, il piccolo Álvaro era un ragazzo
«normalissimo, ma si distingueva perché aiutava
molto i compagni di scuola». Da giovane, durante gli
anni ‘20 e ‘30, si dedicò alle necessità dei più deboli; si recava tra i poveri di Madrid per assisterli, pri-
677
ma con gli amici della San Vincenzo de’ Paoli; poi
con gli universitari del primo Centro dell’Opera.
La sollecitudine per le necessità del prossimo rimase una costante nella sua vita. Nella Roma del periodo della guerra e in quello post-bellico, si adoperò molto per il sostentamento di molti fedeli e specialmente dei membri dell’Opus Dei che vi giunsero per studiare nelle Università ecclesiastiche.
Quando poi divenne prelato, seppe ispirare decine e
decine di iniziative in tutto il mondo sul piano sociale: scuole urbane e rurali, centri di formazione,
ospedali. Quando si recava in un posto in Africa o in
America Latina, cercava di scoprire quali erano le
necessità più urgenti delle popolazioni. Quindi, con
il suo solito spirito sereno ma determinato, incoraggiava i fedeli dell’Opus Dei del luogo a darsi da fare per mettere in piedi qualche iniziativa per rispondere a tali necessità. E poi, con costanza, seguiva
queste opere affinché arrivassero a piena maturità.
Qualcuno le ha radunate in una mappa che mostra
come le «ispirazioni sociali» di don Álvaro siano arrivate praticamente in tutti i continenti. Il capitolo di
questo libro sui «viaggi pastorali» di mons. Álvaro
riportano i dati principali su questo suo interessamento di tipo «sociale» (cfr pp. 452-477).
Il campo principale della sua paternità spirituale furono naturalmente i sacerdoti e i fedeli dell’Opus
Dei. Metteva grande attenzione al buon andamento
del Collegio Romano e della Pontificia Università
della Santa Croce, ma anche dell’Università di Navarra e di altri centri di formazione, perché specialmente in tali istituzioni si formano, con i membri
dell’Opera, moltissimi altri fedeli. Aveva un affettuoso rapporto con tutti e singoli, fin dal primo incontro. Seguiva lo sviluppo delle vocazioni nell’Opera, sia con contatti personali, sia almeno con una
fitta corrispondenza. Tipica la sua vicinanza a un
malato che andava a incontrare spesso in un ospedale di Zurigo, o ai ricoverati nella clinica dell’Università Navarra, o nel Campus Biomedico di Roma.
Tutti concordano nel riconoscere che mons. del Portillo, fu un autentico «Pastore buono» della prelatura personale (pp. 356 e ss.; pp. 403 e ss.).
Fedeltà alla Chiesa
& al Papa
Infine, il tratto più distintivo della sua personalità è
stata la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa, all’Opus
Dei e al suo fondatore. Del resto, questa fedeltà non
era che «fedeltà a Cristo», poiché il Signore si rivelava a don Álvaro, dietro le figure del Papa e di san
Josemaría, come in filigrana. Si può dire che tutte le
pagine di questa biografia, a ogni piè sospinto, sono ricche di episodi e di dichiarazioni di fedeltà di
don Álvaro a san Josemaría e alla Chiesa. In un momento di forte crisi generale, in un mondo spesso
678
lacerato dalle rotture e dalle opposizioni alla Chiesa e ai suoi insegnamenti, il libro ci mostra un sacerdote e vescovo che ha speso tutta la vita nel promuovere il grande valore della fedeltà, che dà dinamismo a tutta la vita. La sua è stata, infatti, una «fedeltà dinamica», come la descrisse il card. Julián
Herranz. Nella «fedeltà e continuità» con l’azione e
il carisma del fondatore, don Álvaro diede un impulso e un ampliamento straordinario all’Opus Dei.
Innanzitutto, la fedeltà di mons. Álvaro al Papa e alla Chiesa era nella scia dello spirito «romano» che
san Josemaría aveva infuso nell’Opera, in maniera
forte e concreta, non solo nei suoi Statuti. Per don
Álvaro era una gioia e un gesto di fede poter essere
ammesso a udienze personali con i Papi succedutisi durante il suo soggiorno a Roma, da Pio XII a san
Giovanni Paolo II. Tali udienze sono state sempre
una testimonianza del suo amore per il Papa e talvolta anche risolutive di alcuni problemi dell’Opus
Dei. Don Álvaro era molto legato al fatto di aver ricevuto la consacrazione episcopale dal Papa, il 6
gennaio 1991. Il volume narra che mons. del Portillo, da prelato, con una certa frequenza toccava il
suo anello pastorale e lo baciava. Don Álvaro stesso ne raccontò il perché: alla fine di un’udienza con
san Giovanni Paolo II, aveva rivolto questa preghiera al Papa: «Santo Padre, vorrei che Lei indossasse un momento questo anello». Glielo diede, e il
Papa se lo mise al dito. Quando glielo restituì, don
Álvaro disse al pontefice: «Quest’anello mi ha dato
sempre il senso della presenza di Dio, perché è il
simbolo della mia unione con l’Opus Dei… Ma
adesso che Vostra Santità lo ha indossato, mi darà
anche la presenza del Papa» (p. 404).
Mons. del Portillo lavorò molto per la Chiesa prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, con
giorni e notti passati a studiare, leggere e comporre
testi e pareri (mirabile il suo lavoro per la redazione del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis).
In seguito, ebbe varie nomine a membro e consultore di importanti dicasteri della Curia. Quando
mons. Fernando Ocáriz ricevette la nomina a consultore della Congregazione della Dottrina della Fede, gli disse: «Se sei chiamato a un lavoro per la
Santa Sede, bisogna rispondere sempre di sì» (p.
412). Così aveva sempre fatto lui stesso, pur sapendo il sacrificio che ogni nuovo lavoro per la Santa
Sede comportava. (Purtroppo, per mancanza di
tempo, non posso parlare della sua profonda cultura teologica e giuridica, delle sue pubblicazioni tradotte e apprezzate in tutto il mondo).
San Giovanni Paolo II, come i suoi predecessori,
aveva una profonda stima di mons. Álvaro. Lo dimostrò in particolare quando si recò a visitarne e
benedire le spoglie a Villa Tevere, il giorno stesso
della morte, il 23 marzo 1994 (p. 528). Da Gerusalemme, pochi giorni prima, don Álvaro aveva
scritto una cartolina al Segretario del Papa, mons.
27 settembre 2014:
Stanislao Dziwisz, per pregarlo di «presentare al
Papa il nostro desiderio di essere fideles usque ad
mortem nel servizio della Santa Chiesa e al Santo
Padre» (p. 528).
Nel libro appaiono impressionanti anche l’amore e
la fedeltà di mons. del Portillo all’Opus Dei e al suo
fondatore. Paolo VI, all’indomani dell’elezione di
mons. Álvaro a successore di san Josemaría, gli
aveva detto: «Lei, quando deve risolvere un problema, si metta alla presenza di Dio e si domandi: in
questa situazione che farebbe il mio fondatore? E
agisca di conseguenza. Dica a tutti i suoi figli e a
tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del
fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora –, con efficacia, con profondità e
con ampiezza» (p. 357).
La sintonia tra san Josemaría e don Álvaro fu totale e perfetta. Si stimavano e si amavano di cuore.
Mi devo limitare a indicare questo dato generale,
ma i fatti e le espressioni di questo amore e di questa stima sono innumerevoli in questa biografia. Mi
limiterò a dire che don Álvaro, alla morte del fondatore, tra i tanti compiti richiesti dalla guida dell’Opus Dei, si propose e riuscì a ottenere due obiettivi fondamentali: la beatificazione di mons. Josemaría Escrivà, il 17 maggio 1992, e l’approvazione
dell’Opus Dei come prelatura personale, con la
Bolla pontificia Ut Sit del 19 marzo 1993.
La beatificazione era molto importante per sottolineare l’esempio di santità del fondatore dell’Opus
Dei per tutta la Chiesa; ma sottolineava anche l’amore e la stima di mons. Álvaro e di tanti per san Josemaría. Si può dire che, pur con enorme lavoro,
questo obiettivo fu raggiunto senza grandi scosse. A
differenza del secondo obiettivo, cioè l’approvazione
dell’Opus Dei come prelatura personale. Questa co-
stituiva una vera e propria novità nella Chiesa, ma
era indispensabile per definire l’identità stessa dell’Opera e il suo carisma. Il carisma dell’Opus Dei,
come sappiamo, è l’appello ai cristiani a raggiungere
la santità nello svolgimento delle proprie attività e
professioni, da «secolari», com’è la loro condizione
di vita. La prelatura personale avrebbe avuto anch’essa il carattere secolare; i suoi sacerdoti non sono «religiosi» con la vita comune e i voti, ma «secolari»; i suoi fedeli laici hanno anche compiti direttivi. L’Opera ha comunque un’estensione a carattere
mondiale, guidata da un prelato, con sede a Roma, in
stretta comunione con il Papa. Per raggiungere questa approvazione definitiva dalla Santa Sede, don Álvaro, forte delle sue competenze giuridiche, aveva
lavorato fin dal suo ingresso nell’Opera, insieme a
san Josemaría, ma fu lui, con determinazione e con
grande lavoro di approfondimento e convinzione
presso personalità e uffici della Santa Sede e dell’episcopato, a ottenere il risultato, «contro venti e marosi», come si suol dire. Sono appassionanti e istruttive le pagine del libro su questa vicenda.
Mi piace concludere con alcune espressioni non mie.
Nell’epilogo del libro vengono riferite queste parole
del nostro amato prelato, mons. Javier Echevarría.
Esse, mi sembra, veramente sintetizzano tutto della
personalità di mons. Álvaro del Portillo e del significato della sua beatificazione: «Don Álvaro ha servito costantemente la Chiesa proprio perché ha assecondato nostro Padre (san Josemaría) come un “figlio fedelissimo”» (p. 540). Sono certo che la sua
beatificazione sarà un bene immenso, per la Chiesa e
per l’Opus Dei.
Card. Francesco Monterisi
Arciprete emerito della Basilica papale
di San Paolo fuori le Mura
Il carisma del beato Álvaro del Portillo
di Antonio Maria Sicari
La santità di un cristiano è sempre legata al fedele
compimento della missione che Dio gli assegna.
Nel caso di Álvaro del Portillo – chiamato a essere
il primo collaboratore e il primo successore di san
Josemaría Escrivá – è perciò necessario rifarsi al
carisma del fondatore, per vedere come egli lo abbia assimilato e vissuto.
In Mutuae Relationes (1978) – uno dei primi documenti del Magistero in cui è stata affrontata tale
questione – si legge: «Il carisma dei Fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito, da essi trasmessa ai propri discepoli, per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente svi-
Álvaro del Portillo Beato
luppata, in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (n. 11).
Studiando molti anni fa la questione, mi è sembrato
che gli elementi costitutivi di tale carisma (di fondatore e di fondazione) si potessero descrivere così:
l Lo Spirito Santo, in un particolare momento della storia della Chiesa e per rispondere a particolari necessità dei fedeli, getta, per così dire, una luce
nuova sul mistero di Cristo: da tale luce viene illuminato tutto il mistero cristiano (dato che esso non
può mai essere frammentato), ma secondo una particolare prospettiva unificante.
679
l Lo Spirito Santo, con lo stesso unico getto di luce, brucia il cuore del carismatico (del futuro «fondatore») che s’innamora del Signore Gesù e del suo
mistero amorosamente e indimenticabilmente contemplato in quella speciale prospettiva che gli è stata offerta.
l Lo Spirito Santo, con questa stessa duplice e indivisibile luce, fa risaltare una specifica drammaticità della situazione ecclesiale, alle cui necessità
il carismatico sente di dover dare risposta, con opere molteplici corrispondenti all’illuminazione ricevuta.
l Lo Spirito Santo mobilita tutte le energie, naturali e soprannaturali, del carismatico perché possa
fedelmente adempiere il compito che gli è affidato,
e diffonde la sua «luce» anche su coloro che questi
raduna attorno a sé come discepoli, non solo nei
primi tempi della sua missione, ma anche nel corso
della storia durante cui quel carisma si prolungherà
e si consoliderà.
l Lo Spirito Santo illumina anche i responsabili
della Chiesa, perché possano discernere il carisma,
possano accoglierlo e valorizzarlo, e possano armonizzarlo con gli altri doni, perché serva all’edificazione dell’unico corpo ecclesiale.
l Lo Spirito Santo, nei successivi momenti della
storia, farà sì che la stessa luce originaria si proietti ancora su necessità nuove e inedite della Chiesa
e del mondo: in tal modo la fedeltà allo stesso e
identico carisma si coniugherà con forme nuove di
servizio ecclesiale e missionario»1.
680
Forse doveva essere meglio precisato l’apporto ineliminabile dei «discepoli» e soprattutto dei primi
«compagni» del fondatore, senza i quali non si darebbe «fondazione». Questo rapporto di solito viene raccontato secondo una molteplicità di immagini: la
piantagione, la famiglia, la casa, il corpo, il gregge2.
L’immagine più decisiva resta comunque quella
della generazione: il fondatore si percepisce ed è
percepito come un padre (a volte perfino come una
madre!), e i discepoli si percepiscono come figli,
tanto che il fondatore può dire loro, con san Paolo:
«Io vi ho generati in Cristo Gesù».
Non mancano nella storia casi dolorosi in cui al fondatore viene a mancare (almeno parzialmente) tale sequela, al punto che egli stesso si trova poi messo in disparte ed è costretto a soffrire una certa distorsione
negli scopi o nei metodi della sua opera.
Così non ne mancano altri in cui i discepoli iniziano presto a «interpretare il fondatore», provocando
conflitti e divisioni tra i seguaci di uno stesso carisma. E non mancano fondatori ai quali toccano in
sorte discepoli piuttosto sbiaditi e seriali. Per grazia
di Dio, se il carisma originario viene davvero dallo
Spirito Santo ed è davvero necessario alla Chiesa,
nel corso della storia, tra i discepoli, sorge poi qualche santo a dargli nuovo splendore ed efficacia.
È ovvio tuttavia che la fedeltà dei discepoli al carisma del fondatore è condizione ineliminabile, se si
vuole assecondare generosamente l’iniziativa dello
Spirito Santo; fedeltà tanto più necessaria quanto
più il carisma presenta aspetti di novità, che potrebbero essere male interpretati: sia da chi – in nome
della novità – vorrebbe rifiutarli, sia da chi – in nome della stessa novità – vorrebbe impadronirsene.
Tale era il caso del carisma di san Josemaría Escrivá, chiamato ad anticipare con forza una delle più
belle conquiste del futuro Concilio ecumenico Vaticano II: la solenne proclamazione della vocazione
universale dei fedeli alla santità3.
Purtroppo, tutto quello che so del nuovo Beato l’ho
letto nella Biografia che oggi viene presentata4, e
posso solo parlarvi di ciò che, leggendola, mi ha
particolarmente colpito.
Ciò che maggiormente vi risalta è l’incontro felice
tra un fondatore ricco di carisma e di passione per i
drammi della Chiesa (del suo e del nostro tempo) e
un primo discepolo, presto riconosciuto come tale.
Il nome che deve essere dato a questo «incontro felice» è la parola «fedeltà», ma intesa in senso molto profondo e bidirezionale, che va, cioè, dal fondatore-Padre al discepolo-figlio e dal discepolo-figlio
al fondatore-Padre.
Unione di mente
& di cuore col fondatore
Fedeltà è la prima e l’ultima parola (oltre che la più
ricorrente) che legge chi prende in mano la biografia
su don Álvaro. Già nel titolo originario era scritto: Álvaro del Portillo. Un hombre fiel (peccato che sia stato tolto nella traduzione italiana) e nella quarta di copertina si leggono queste parole di san Josemaría rivolte a tutti gli altri discepoli: «Álvaro ha la fedeltà
che voi dovete avere sempre, e ha saputo sacrificare
con un sorriso tutto ciò che aveva di personale...».
A p. 70 poi leggiamo: «Álvaro ricevette un carisma
particolare: la coscienza precisa che poteva condurre
la missione che Dio gli affidava soltanto vivendo in
totale unione di mente e di cuore col fondatore. Era
convinto che la sua strada d’identificazione con Gesù passasse dalla sequela fedele di san Josemaría:
questo era il “canale regolamentare”». E viene citata
la risposta che egli stesso diede a Cesare Cavalleri in
un’intervista del 1992: «Mi considero, con un santo
orgoglio – anche se immeritatamente da parte mia –
figlio spirituale del fondatore e debitore insolvente...
Mi unisce, pertanto, al Padre la filiale immensa stima
che ho di lui, tanto perché mi diede sempre un esempio di santità eroica quanto perché fu lo strumento
del Signore per farmi trovare la mia vocazione, che è
la ragione della mia vita».
Quando Álvaro si presentava in pubblico assieme a
Josemaría tutti notavano l’affinità che li legava,
27 settembre 2014:
espressa perfino nello sguardo. Lo
zioni di don Álvaro con il fondatore.
sottolinea bene questa bella testimoUsciti dalla basilica, san Josemaría
nianza di Luis Prieto, uno studente
gli domandò: “Álvaro, che cosa hai
ventenne che lo conobbe già nel
chiesto alla Vergine?”. “Vuole che
1945: «Ebbi la sensazione che “usasglielo dica?”, rispose don Álvaro.
se” il suo talento a servizio del fonPoiché il fondatore aveva assentito,
datore, con tanta naturalezza e didisse: “Ebbene ho ripetuto ciò che
screzione che i suoi interventi nemdico sempre, ma come se fosse la
meno si notavano. […] Fra i due traprima volta. Le ho detto: ti chiedo
spariva l’esistenza di una tale sintociò che ti chiede il Padre”» (p. 260).
nia che, per comprendersi, a don ÁlAntonio Maria Sicari
l «In una lettera a san Josemaría –
varo bastavano poche parole o uno
scritta nel gennaio del 1944, in occasione di uno dei
sguardo del fondatore per interpretare discretamensuoi viaggi fuori Madrid per motivi di studio –, si
te il suo volere e andare rapidamente a compiere
vede come egli valutasse il fatto di vivere così viciquanto richiesto [...]. Era tale l’unità di volontà che
no a quel santo sacerdote: “Come sempre, molto
a volte restava il dubbio su a chi attribuire l’iniziacontento: ma anche, come al solito, con quel tanto di
tiva di un intervento» (p. 201).
tristezza che si mescola alla mia gioia quando mi seLa fedeltà risaltava perfino nelle formule spirituali
paro dal Padre. Per questo mi costa tanta fatica parche trasmetteva, dato che egli si preoccupava di
tire da Madrid. Capisco bene che è una sciocchezza,
chiarire fin dall’inizio agli ascoltatori: «L’importanma è la vita! Padre: ho un’enorme voglia di essere
te non è quel che dirò io, l’importante è ciò che lo
una persona buona e di lavorare davvero nell’Opera,
Spirito Santo suggerisce nell’anima di ciascuno,
per la Chiesa. Peccato che così spesso faccia l’idiocompresa la mia» (p. 198), e precisava che «nella
ta e non mi comporti come devo! Mi raccomandi,
sua» lo Spirito faceva sempre riecheggiare le paroPadre, perché qualche volta riesca a essere uno strule del fondatore!
mento buono, davvero docile, nelle sue mani. Ogni
Sappiamo che, nella mentalità comune, una fedeltà
volta che sono lontano da Lei prego con più forza
così totale rischia di essere interpretata come passiche mai, con tutta la mia anima, per mio Padre. E
vità intellettuale e sudditanza psicologica. Ma trocosì la mia presenza di Dio aumenta, nel ricordo del
viamo, al riguardo, la forte difesa di un uomo eccePadre e nell’offrire cose per lui”» (pp. 181-182).
zionale – il cardinale Andrzej Maria Deskur, che
descriveva così «l’unità, soprannaturale e umana, di
l «Il 19 marzo 1936 Álvaro rinnovò la sua incoraffetti e intenzioni, che esisteva tra san Josemaría e
porazione all’Opera in maniera definitiva. Fu una
don Álvaro»: «Pur nella diversità dei caratteri, [escerimonia breve, semplice e al contempo solenne,
si] fanno tutt’uno nella mia memoria: Álvaro era
nel corso della quale san Josemaría soleva allora
una sorta di reduplicazione del fondatore. Non una
baciare i piedi dei suoi figli spirituali [...]. Álvaro
copia inerte, ma un ritratto vivo e fedele. Ne portaconservò indelebile per tutta la vita il ricordo di
va scolpiti nella mente gli insegnamenti e, ciò che
quel momento e la scena gli tornò in mente con forpiù conta, il suo animo aveva assimilato gli esempi
za il 27 giugno 1975, mentre pregava davanti alla
al punto che non riuscivi mai a distinguere ciò che
salma del fondatore. Prima di procedere con la seera suo da ciò che scaturiva dal contatto con il Papoltura s’inginocchiò e gli baciò i piedi. Più tardi
dre. Finché capivi che non si poteva operare questa
avrebbe spiegato il perché di quel gesto: “Mi ricordistinzione: tutto ciò che Álvaro aveva imparato dal
dai di quando il Padre li aveva baciati a me, e gli rebeato Josemaría era profondamente suo, parte di sé
stituii il bacio. Come potevo dimenticarlo? Non è
stesso, era la sua vita. Egli fu il miglior esempio
stato soltanto un gesto. Non è stata soltanto l’edella virtù della fedeltà» (p. 273).
spressione di fedeltà e di unione. Molto di più: è
stato un tornare a donare me stesso”» (p. 81).
Tre episodi emblematici
Solo questa attenta ricostruzione psicologica e spirituale ci consente di rileggere con tenerezza certi
episodi della loro vita. Vorrei sottolinearne almeno
tre che mi hanno particolarmente colpito:
l Nel gennaio 1948 fecero un rapido viaggio Loreto per affidare alla Madonna l’espansione dell’Opera in Italia. «In quella breve visita tornò a manifestarsi la profondissima unione di affetti e d’inten-
Álvaro del Portillo Beato
Sono tre episodi intensi, ma potremmo ricordarne
anche altri più semplici e famigliari:
l l’esperienza del giovane Álvaro che in un momento di grave difficoltà sente con sicurezza, da
lontano che il Padre sta pregando per lui (cfr p.
130).
l Álvaro che fa il pagliaccio in uno studio fotografico per far sorridere il fondatore che si è messo in
681
posa tutto serio, in modo che non resti poi ai suoi figli un’immagine accigliata, ma sorridente di san Josemaría (cfr p. 268).
l E ci fu anche tra loro un intenso momento di comunione mistica che il fondatore ha così annotato:
«Ricordi? – Facevamo, tu e io, la nostra orazione al
cader della sera. Si udiva, lì vicino, il rumore dell’acqua. – E, nella quiete della città castigliana, sentivamo anche voci diverse che parlavano in cento lingue,
gridandoci ansiosamente che ancora non conoscevano Cristo. Baciasti il Crocifisso senza ritegno e gli
chiedesti di essere apostolo di apostoli» (p. 265).
l Ma c’è anche un simpatico momento di sofferenza, per un contrasto di opinioni: «[Una confidenza di san Josemaría, alle sue “figlie”, alla presenza dello stesso Álvaro, durante la costruzione
degli edifici di villa Tevere]: Oggi don Álvaro mi
ha fatto una correzione. Mi è costato accettarla.
Tanto che me ne sono andato un momento in oratorio e ho detto: “Signore, Álvaro ha ragione e io no”.
Ma subito dopo: “No, Signore, questa volta ho ragione io... Álvaro non me ne fa passare neanche
una... e questo non mi sembra affetto, è crudeltà”.
E poi: “Grazie, Signore, per avermi ha messo accanto mio figlio Álvaro che mi vuol tanto bene... e
non me ne lascia passare neanche una!”». Poi si rivolge a del Portillo che, con ritrosia, ha ascoltato in
silenzio. Gli sorride e gli dice: «Dio ti benedica,
Álvaro, figlio mio!» (p. 291).
E fu alla morte del Fondatore che la bella certezza
e la certa bellezza della fedeltà giocarono tutta la loro forza: «Lo spirito con cui desiderava affrontare
quel periodo [in cui bisognava eleggere il successore] era quello che lo aveva animato per tutta la vita…: fedeltà agli insegnamenti di san Josemaría. E
la stessa cosa chiedeva i suoi fratelli: se il Padre potesse parlarci che ci chiederebbe? Penso che l’abbia
già detto a tutti: dobbiamo essere fedeli! Siatemi fedeli era il ritornello del Padre, siatemi fedeli! Mi
permetto di insistere, sorelle e fratelli miei, che è
giunta l’ora: è questo il momento di essergli più fedeli che mai, il tempo di una decisa conversione
della nostra vita a una fedeltà più piena, più fine,
più sincera, più innamorata, più generosa, a tutta
l’eredità spirituale che il Padre ci ha trasmesso, donando per noi la sua stessa vita…» (p. 347).
E raccontò che Paolo VI gli aveva appunto raccomandato di restare fedelissimo allo spirito del fondatore: «Mi diceva: “Lei, quando deve risolvere un
problema, si metta la presenza di Dio e si domandi:
in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E
agisca di conseguenza”. Dica a tutti i suoi figli e a
tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del
fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora – con efficacia, con profondità con
ampiezza”» (p. 354; ripetuto a p. 489).
682
Una «profezia»
battesimale
Al termine di questa mia veloce lettura della biografia, mi pare di dover ancora sottolineare un altro
aspetto della sua anima che rivela la sostanza intima di quella stessa fedeltà.
Don Álvaro aveva una salute precaria ed erano innumerevoli le sofferenze fisiche che lo affliggevano. Eppure sia le sue innegabili capacità sia il ruolo che doveva svolgere accanto al fondatore, e in
suo nome, esigevano da lui una massa di lavoro impressionante, umanamente incompatibile con le forze fisiche di cui disponeva.
Ebbene: non si lamentò mai, né mai si sottrasse,
eseguendo sempre ciò che gli era chiesto anche
quando a mala pena riusciva a reggersi in piedi (cfr
p. 240; p. 301; p. 305; p. 471).
E c’è una dolce e rispettosa malinconia nel ricordo di
mons. Echevarría che – rivedendo un filmato che lo
ritraeva stanco e affaticato, ma sempre in azione –
disse ai presenti: «Chiedo scusa, perché vedo che a
don Álvaro chiedevamo più di quanto poteva dare fisicamente, e non ce ne rendevamo conto» (p. 521).
Per concludere mi è sembrato che l’espressione più
sintetica e più bella, per descrivere l’esperienza e la
missione del nostro Beato sia ancora quella coniata da
mons. Echevarría, che è stata messa a conclusione di
tutto il racconto biografico: «[Don Álvaro] ci ha offerto una personificazione convinta e convincente
dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente
nella predicazione di san Josemaría» (p. 540).
D’altra parte come dimenticare che Josemaría era
anche il secondo nome che il piccolo Álvaro aveva
già ricevuto nel giorno del Battesimo?
Antonio Maria Sicari O.C.D.
Saggista e scrittore
1 Cfr A. M. Sicari, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una
nuova collocazione, Jaca Book, Milano 2002, pp. 29-30.
2 Per tutta la questione cfr. F. Ciardi, I Fondatori uomini dello
Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982.
3 Mi piace ricordare, per la sua simpatica immediatezza, la risposta che san Josémaría diede – quasi sul finire della sua vita,
durante un incontro pubblico in Brasile – a un’interrogazione
sugli inizi dell’Opera: «Ti sembra una pazzia da poco dire che
si può e si deve diventare santi nel bel mezzo della strada? Che
possono e devono diventare santi il venditore di gelati col suo
carrettino, la collaboratrice domestica che passa tutto il giorno
in cucina, il direttore di banca, il professore universitario, il contadino, il portabagagli...? Tutti chiamati alla santità! Tutto questo è stato poi raccolto nell’ultimo Concilio, ma a quel tempo –
nel 1928 – non entrava in testa a nessuno. Quindi... era logico
che mi ritenessero pazzo... Adesso sembra una cosa naturale,
ma allora non era così...».
4 J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san
Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014.
Le pagine da me citate si riferiscono tutte a questa biografia.
27 settembre 2014:
Un’eroica & fattiva «leggerezza»
di Emma Fattorini
Álvaro del Portillo ha avuto per tutta la sua vita un
rapporto specialissimo con il fondatore dell’Opus
Dei Josemaría Escrivá de Balaguer. Una relazione
davvero non solo «istituzionale» (in quanto Segretario generale dell’Opera), ma intessuta anche di
dedizione, cura, custodia; una sorta, starei per dire, di «filiazione paterna», fatta di piccoli e grandi
gesti nei quali il ruolo del padre e del figlio si
scambiavano con amorevolezza, tenerezza e
schiettezza insieme, in un rapporto costruito su
una fedeltà tenace.
Non si può ragionare sulla biografia dell’uno senza
tornare a quella dell’altro.
Il 6 ottobre del 2002 papa Wojtyla proclamava santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Vorrei ricordare
il libro scritto dal suo postulatore (F. Capucci, Josemaría Escrivá, santo, L’iter della causa di canonizzazione, Edizioni Ares, Milano 2008), che ebbi pure l’onore di presentare.
Una canonizzazione, avvenuta in tempi insolitamente rapidi, a solo 17 anni dalla morte del fondatore dell’Opus Dei. La celerità del processo fu dovuta anche all’accorciamento dei tempi delle beatificazioni, voluto da Giovanni Paolo II, che proseguì
nella riforma iniziata nel 1969 da Paolo VI.
Escrivá muore il 26 giugno del 1975 e il processo di
beatificazione, iniziato nel 1981 e conclusosi nel
1992, ha rappresentato un record assoluto per rapidità (record che poi fu superato da quello di Teresa
di Calcutta, beatificata subito dopo e in soli 6 anni).
Come sappiamo, Giovanni Paolo II avviò un numero enorme di processi di beatificazione, tanto da far
parlare qualcuno di una vera e propria «fabbrica dei
santi», modelli ispirati a una santità praticabile e
quotidiana. L’idea di santità non era quella di una
perfezione distante e irraggiungibile: i santi dovevano essere, per il Papa polacco, vicini all’esperienza
umana comune, dovevano toccare le vette dell’eccezionale a partire dall’ordinario, dal quotidiano. Questo bisogno di vicinanza e di umanizzazione del santo propone quelle che si potrebbero definire le figure
di santi vivi: si tratta di figure particolarmente carismatiche che già in vita sono state un riferimento, riconosciuto e conclamato per i credenti.
C’è una specie di assonanza, di intima sintonia tra
la scelta delle canonizzazioni di cui qui parliamo e
questo spirito, diciamo così wojtyliano, di concepire la santità.
Ricordavo, già in occasione della presentazione del
Álvaro del Portillo Beato
libro di monsignor Capucci, come tra le testimonianze contenute nella Positio, lo scritto che, a mio
avviso, meglio coglie i punti essenziali della spiritualità di Escrivá, vi fosse un breve testo di Albino
Luciani, il Papa del sorriso, del 25 luglio 1978: vedere lo straordinario nell’ordinario, la santità nella
normalità, l’abbandono a Dio, l’allegria e il buon
umore, la cura delle piccole cose. E infine l’intuizione più moderna: la santificazione del lavoro, da
vivere non come «tragico quotidiano», ma come «il
sorriso quotidiano».
Un’autentica
spiritualità laicale
Una spiritualità che si rifà alla tradizione di Francesco di Sales e che, secondo Giovanni Paolo I, Escrivá «radicalizza» proponendo non solo una «spiritualità dei laici», ma una «spiritualità laicale». Egli parla addirittura di «materializzare» la santificazione:
per lui sarebbe lo stesso lavoro materiale a trasformarsi in preghiera e santità. E così Escrivá si dichiara «anticlericale», nel senso che i laici non devono
«scopiazzare» quello che fanno i religiosi, ma crescere nella loro spiritualità iuxta propria principia,
secondo un’idea della funzione laicale che anticipa
quella del Concilio Vaticano II. Una sorta di «spiritualità materializzata», vissuta cioè nel mondo e nella vita di ogni giorno, che consente una vita all’insegna dell’unitarietà, nella quale le tante parti esistenziali si compenetrano senza scissioni. Del resto, non
è forse vero che l’attuale deficit etico ha lì la sua radice profonda: nel distacco tra ciò che si pensa e ciò
che si fa, tra ciò che si crede e ciò che si è?
La principale vocazione dei laici è fare bene e pienamente il proprio lavoro, «perché il lavoro», diceva Escrivá, «come può essere di Dio, se è fatto male, di fretta, senza competenza?». E gli faceva eco
Gilson, scrivendo nel 1949: «Ci dicono che è stata
la fede a costruire le cattedrali del Medioevo; d’accordo... ma anche la geometria». Fede e geometria,
fede e lavoro, Fides et Ratio.
In un’omelia del 1967 del fondatore dell’Opus Dei,
Amare il mondo appassionatamente, sono contenute tre affermazioni di sorprendente attualità:
l «Essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità»: pensiamo all’odierna crisi economica, alle infinite sciat-
683
Emma Fattorini
terie nelle professioni, al rinnovarsi
periodico delle furbizie nostrane.
l «Essere sufficientemente cristiani
da rispettare i fratelli nella fede che
propongono, nelle materie opinabili,
soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi»: pensiamo alle risse, alle competitività, alla mancanza di ascolto fraterno che anima
tanti credenti.
l «Essere sufficientemente cattolici
da non servirsi della Chiesa, nostra
Madre, immischiandola in partigianerie umane».
Un monito a che la Chiesa non si compiaccia e inorgoglisca di fronte a un pensiero laico fragile, non
approfitti trionfalisticamente delle macerie lasciate
dal crollo delle ideologie, capitalizzandole a proprio vantaggio, ma si proponga come madre di tutti, come voce di tutta l’umanità.
La formazione familiare
Mi sono soffermata a lungo su questa vocazione
«alla chiamata universale alla santità», anche perché essa si esprime in modo mirabile nel percorso
spirituale di don Álvaro, a proposito del quale vorrei sottolineare alcune impressioni personali ricavate dalla lettura della corposa biografia di Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore
di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014). Ingegnere civile, gran lavoratore, preveggente sostenitore dell’importanza
fondamentale della ricerca scientifica e tecnica per
il futuro dell’umanità in anni in cui la cultura cattolica ne diffidava, egemonizzata com’era da un impianto quasi esclusivamente umanistico.
Forza di volontà, tenacia e fedeltà erano qualità che
si erano palesate già negli anni della sua formazione giovanile, unite a un’innata mitezza e bontà.
«Bontà, semplicità, allegria. Era profondamente
buono», così lo descrive il suo compagno di banco.
E forse a questa sua attitudine docilmente serena
eppure forte ha concorso il particolare rapporto
avuto con i genitori dei quali mi ha colpito molto
una sorta di «mescolanza» dei ruoli.
Il padre, Ramón, avvocato di una delle più importanti compagnie assicurative spagnole era «serio
ma non severo», ordinato (il figlio ricorda le penne,
i libri in perfetto allineamento), abitudinario (la
Messa alla stessa ora, la passeggiata al parco con i
figli che dovevano essere perfettamente ordinati),
puntuale («quasi maniacale»).
La madre, Clementina, era messicana, nata a Cuernavaca e cresciuta nelle haciendas di famiglia, in
mezzo alla natura e ai prodotti agricoli; era «un’ottima amazzone e montava i cavalli più focosi, che sa-
684
peva controllare e comandare in maniera ammirevole», un’audacia che
destava trepidazione. Studierà in Europa e curerà la formazione dei figli,
attentissima alla loro conoscenza delle lingue straniere. Clementina è una
donna di fede profonda, lontana dagli
stereotipi sdolcinati del devozionismo
femminile tardo ottocentesco che siamo soliti vedere attribuiti alle mamme
dei santi. Anche se le sue devozioni
c’erano, saldamente ancorate al culto
mariano e a quello del Sacro Cuore.
Álvaro le era molto legato, come si capisce da tante lettere e testimonianze. Mi ha colpito il doloroso
episodio della sua morte improvvisa: la notizia
giunge in serata, ed Escrivá, perché don Álvaro non
trascorra una notte di pena, gliela riferisce solo il
giorno successivo. E don Álvaro, nonostante che, a
questo punto, non gli fosse possibile arrivare in
tempo al funerale, resterà certo molto, molto triste,
ma filtrerà questo suo sentimento con uno spirito
profondamente accettante.
La cosa che più mi ha colpito della sua formazione
umana e spirituale è la cifra misurata e profonda insieme, leggera e molto interiore.
Fedeltà e libertà, «la verità vi farà liberi»: l’abbandono alla volontà del Signore significa fedeltà all’Opera e a Escrivá, attraverso il lavoro e l’impegno
assoluto. Il tutto senza attaccamento, senza doverismo dolorista, senza lamentosità: non c’è mai in lui
un eroismo esibito, quella sorta di vittimismo sacrificale di chi «fa tante cose». Una fattiva leggerezza,
una sostanziosa spiritualità.
Durante il Concilio
Álvaro del Portillo ha avuto un ruolo importante su
alcune questioni chiave del Concilio Vaticano II,
pur continuando a svolgere i compiti di Segretario
generale dell’Opus Dei, con un aggravio di lavoro e
di impegno notevolissimi.
Avvicinato da Domenico Tardini e collaborando nel
corso degli anni con Pietro Ciriaci, partecipa a tutte
le fasi del Concilio a cominciare da quella preparatoria che, com’è noto, rivestì una funzione decisiva.
Il 2 maggio del 1959 è nominato consultore della
Sacra Congregazione del Concilio (oggi Congregazione del clero), il 10 agosto Presidente della VII
Commissione preparatoria che aveva il compito di
studiare il laicato cattolico e il 12 dello stesso mese
nella III Commissione sui moderni mezzi di apostolato. Al lavoro di commissione, dall’ottobre del
1959 fino al marzo del 1960, farà seguito l’intensa,
quotidiana presenza alle sessioni dell’Assemblea
dal 1962 fino al 1965. Si occupa di questioni tra le
27 settembre 2014:
più controverse: il 26 ottobre del 1960, per esempio, è nominato qualificatore nella Congregazione
del sant’Uffizio e affronta con equilibrio la delicata
questione del celibato dei sacerdoti.
Mi soffermo sulla sua azione conciliare perché il tema della laicità, cuore pulsante dello spirito conciliare, era, semplificando, il carisma specifico che il
fondatore aveva voluto imprimere all’Opus Dei, «la
chiamata universale alla santità». È quindi particolarmente illuminante vedere l’impegno del Segretario generale di fronte ai grandi temi del nuovo rapporto che i laici, nelle professioni e nella famiglia,
sono tenuti a stabilire con il mondo, cercando di discernere i segni dei tempi.
Álvaro del Portillo non cederà mai alle ali estreme,
non sarà mai né conservatore né progressista, mantenendo una posizione equilibrata e ferma, a proposito
della quale monsignor Angelo Dell’Acqua auspicava
che nel Concilio «ci fossero molti don Álvaro».
Nella documentatissima biografia di Javier Medina
Bayo alla partecipazione di don Álvaro alle varie
fasi del Concilio si accompagna quella non meno
perigliosa della vita interna all’Opus Dei, quando
dalla fine degli anni Cinquanta anche gli assilli economici diventano molto gravosi. È del 9 gennaio il
completamento degli edifici di Villa Tevere. La sede centrale. O quando si susseguono le opposizioni
curiali ed ecclesiastiche, dovute anche all’incerto
statuto giuridico dell’Opera; essa era ancora lontana dall’esser prelatura personale. Nel 1960, Escrivá, molto preoccupato, si era rivolto al cardinale
Tardini chiedendo di modificare la configurazione
giuridica dell’Opus Dei, senza ottenere però nessun
esito; un altro tentativo di trasformare l’Opera in
prelatura fu sostenuta dal cardinale Ciriaci nel
1962, sempre senza alcun successo. Una conquista
che si ottenne solo vent’anni dopo quando ormai il
fondatore era morto.
Don Álvaro seguì passo dopo passo tutto questo
percorso difficile, spiegando come l’Opus Dei «“al
giorno d’oggi, non abbia più nulla in comune con
ciò che attualmente si intende per istituto secolare”
e che, per questo motivo, “sia per un miglior servizio alla Chiesa, sia per un elementare senso della
giustizia [...], non dovrebbe essere più compreso nel
gruppo delle Associazioni che vengono chiamate
Istituti secolari, né dovrebbe dipendere dallo stesso
S. Dicastero dal quale esse dipendono» (Javier Medina Bayo, op. cit., pp. 303-304).
Per concludere, vorrei ricordare il rapporto molto
bello che si stabilì con Papa Montini. Messosi in
preghiera subito dopo l’annuncio della sua elezione
a Pontefice, Álvaro lo aveva molto apprezzato fin
dal suo primo viaggio a Roma.
Nel 1965, da parte sua, Paolo VI aveva visitato il
centro ELIS, esprimendo molto interesse per l’impegno verso la gioventù operaia, dimostrato con quella scuola tecnico-professionale.
A sua volta, nel luglio del 1976 don Álvaro gli
espresse una sincera solidarietà sul caso della sospensione a divinis di Lefebvre. Del resto ricordava
quanto Montini fosse stato coinvolto dalla lettura di
Cammino di Escrivá.
Molteplici possono essere le considerazioni e i bilanci che si possono svolgere su una personalità
tanto volitiva quanto abbandonata alla volontà del
Padre, così attraversata, a partire dalla sua famiglia
di origine, dai grandi sconvolgimenti novecenteschi: le guerre, le rivoluzioni, i rovesci economici.
Ma la nota che in me resta più viva è la pace interiore, la calma del cuore, la serenità che, nella fatica dell’accumularsi degli impegni, di natura tanto
diversa, sapeva mantenere, perché nel grande lavoro nel quale era immerso don Álvaro non era «né
nervoso, né impaziente, né eroico». E per me, ai
miei occhi – perché un santo parla al cuore di ciascuno di noi in modo diverso –, è proprio questa
eroica e fattiva leggerezza che lo ha reso davvero
santo.
Sen. Emma Fattorini
Ordinario di Storia contemporanea
nell’Università di Roma La Sapienza
Alla luce della fedeltà
di Maria Vittoria Marini Clarelli
La biografia di Alvaro del Portillo scritta da Javier
Medina Bayo riesce a mantenere in equilibrio due
livelli difficili da conciliare: presentare un personaggio storico e presentare un santo. Il taglio scelto
dall’autore è, se così posso definirlo, polifonico: a
parlare di don Alvaro sono molte voci diverse – di
uomini e di donne – che l’autore orchestra evitando
deliberatamente di far prevalere la propria, alla qua-
Álvaro del Portillo Beato
le, anzi, sembra aver messo la sordina. L’unica voce solista è quella del futuro beato, del quale sono
citati moltissimi scritti anche inediti. Rispetto ai
due profili biografici già editi in Italia – e qui ampiamente utilizzati – la novità principale del libro di
Medina Bayo mi sembra proprio il tentativo di far
parlare il protagonista in prima persona. Il tempo
trascorso dalla fine della sua vicenda terrena – po-
685
Maria Vittoria Marini Clarelli
co più di vent’anni – permette già la
distanza storica, ma il confine con la
cronaca è sottile, perché sono ancora
molti coloro che, avendolo conosciuto, leggono queste pagine cercando ora la corrispondenza con i
propri ricordi ora qualche aspetto o
episodio nuovo. Anch’io ho avuto la
fortuna di incontrare il futuro beato,
seppur occasionalmente, e questa
biografia, pur confermando l’idea
generale che ne avevo, mi ha permesso di rispondere a una domanda che sempre mi
ero posta a proposito del suo ruolo di primo successore di san Josemaría Escrivá. La domanda suona
più o meno così: «La fedeltà al fondatore è compatibile con la creatività? E se sì, come si è espressa?»
Per spiegare come ho trovato una risposta, devo
esaminare la fedeltà in rapporto a tre altri temi: la
tradizione, la magnanimità e la bellezza.
Fedeltà & tradizione
Il ruolo di primo successore in seno a una nuova
fondazione, anche non religiosa, è forse il più delicato. È infatti un passaggio cruciale che decide come si imposterà la tradizione, nel duplice senso di
trasmissione del deposito fondazionale e di costituzione di un’eredità che non è solo spirituale ma è
anche culturale. La fedeltà nella continuità, che è
stato il motto di don Alvaro, è un principio non così semplice da applicare come sembrerebbe, perché
non c’è tradizione senza interpretazione. Ciò che
permette la creatività nella fedeltà è la ricchezza del
messaggio ricevuto: il messaggio che il fondatore di
un’istituzione ecclesiale riceve è inesauribile, ossia
così denso e profondo che nessuna vita umana basta a penetrarlo interamente. È un dono divino che
deve bastare per sempre. La difficoltà sta nel riuscire a mantenerlo il più possibile integro, ma senza
confondere il permanente con il transeunte, quello
che fa parte del deposito e quello che è legato a una
certa contingenza storica. Don Alvaro, per creare la
tradizione, ha innanzitutto dedicato la massima attenzione alle fonti primarie, cioè agli scritti del fondatore dell’Opus Dei, sia quelli destinati alla catechesi generale, che egli stesso ha fatto pubblicare
scrivendone la prefazione – mi riferisco a Amici di
Dio, Solco, Forgia –, sia quelli che si riferiscono alla vita interiore di san Josemaría e che don Alvaro
ha citato spesso nelle sue lettere destinate alla formazione dei membri dell’Opus Dei. Per inciso, la
tradizione delle lettere del prelato risale appunto a
don Alvaro, che la inaugurò nel 1984. Il processo di
beatificazione di monsignor Escrivá, che è stato
portato a compimento sotto la sua guida, è stato an-
686
che un momento essenziale di raccolta e vaglio di questi documenti,
che sono il lascito del carisma fondazionale. Nel rapporto fra fedeltà e
tradizione il margine di creatività sta
dunque nell’ermeneutica, disciplina
essenziale non solo nell’esegesi ma
anche nella cultura cattolica. Ecco un
esempio di come don Alvaro la applica al pensiero del fondatore, tratto
dalla presentazione di Solco: «La
dottrina di monsignor Escrivá unifica
gli aspetti umani e divini della perfezione cristiana,
come non può non succedere quando si conosce in
profondità e si ama e si vive appassionatamente la
dottrina cattolica sul Verbo incarnato. In Solco restano saldamente tracciate le conseguenze pratiche
e vitali di questa gioiosa verità. L’autore delinea il
profilo del cristiano che vive e lavora in mezzo al
mondo impegnato nelle nobili aspirazioni che muovono gli altri uomini e, nel contempo, totalmente
proiettato verso Dio. Ne risulta un ritratto sommamente attraente».
Fedeltà & magnanimità
Essere davvero fedeli – e non seguaci pedissequi –
richiede grandezza d’animo, ampiezza di orizzonti,
disponibilità a rischiare. La biografia di Medina Bayo pone in rilievo questa virtù del futuro beato essenzialmente da tre punti di vista: la mentalità universale, la lettura dei segni dei tempi e la fortezza
nel lavoro. La linea è quella tracciata dal fondatore
in un brano famoso: «Ampiezza di orizzonti e un
vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; anelito
retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia…; una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del
pensiero contemporaneo; un atteggiamento positivo
e aperto, di fronte all’odierna trasformazione delle
strutture sociali e dei modi di vita» (Solco, n. 428).
L’adesione fedele a un simile programma, però, implica una grande capacità d’iniziativa. Il libro cita
tutti i nuovi Paesi nei quali sono stati aperti centri
dell’Opus Dei e la quantità ed estensione dei viaggi
compiuti da don Alvaro, che poi dovette limitarli all’Europa per motivi di salute. Medina Bayo sottolinea anche come l’espansione apostolica sia stata
sempre accompagnata dall’avvio di iniziative sociali e culturali, come ospedali, scuole, università.
L’attenzione ai problemi sociali è attestata, fra l’altro, da queste parole pronunciate dal futuro Beato in
Messico nel 1986: «Figli miei, da quel che ho potuto osservare nelle scorribande nel vostro Paese, ho
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notato una grande differenza fra le classi sociali.
Vedo ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri». E
poco dopo aprivano i battenti in Messico due scuole professionali per l’elevazione sociale. Lo stesso
accadde nel 1987 nelle Filippine e poi ancora in Bolivia, Paraguay, Argentina, Kenya, Congo. La cattolicità, intesa nel senso non della confessione religiosa ma dell’apertura universale, acquista un significato particolare nell’era della cosiddetta globalizzazione. A questo proposito, Medina Bayo mette
in speciale risalto l’attenzione prestata da Alvaro
del Portillo alle comunicazioni sociali.
Notevoli sono poi le testimonianze citate sul suo
metodo di lavoro, che era governato da una grande
fortezza. L’attuale prelato, monsignor Javier Echevarría, lo sintetizza così: «Centrare gli obiettivi, fissare i tempi e tradurli in atto con la necessaria determinazione». Lavorava con «ritmo e armonia»,
come ha scritto mons. Mariano Olés, osservando
che anche il suo modo di camminare era sereno. Un
esempio di fortezza nel lavoro è anche il ricorso costante alla collegialità, un metodo di governo ereditato dal fondatore ma non per questo più semplice
da applicare. Con la sua capacità di sintesi, don Alvaro osservava infine che «il lavoro di governo richiede carità, altrimenti si trasforma in un’occupazione burocratica», lasciando intendere che la burocratizzazione è una deriva molto insidiosa e non
meno grave dell’autocrazia, perché equivale all’indifferenza per le persone.
Fedeltà & bellezza
Lo sforzo di raggiungere la santità rende una personalità umana non solo migliore ma anche più bella,
perché, come ha scritto don Alvaro nella già citata
introduzione di Solco, «se, in conseguenza del peccato originale, l’umano non giunge alla propria pienezza senza la grazia, non è meno certo che la grazia non appare come giustapposta o come in azione
al margine della natura: al contrario, fa risplendere
le migliori perfezioni naturali per poterle divinizzare». Nel suo caso, la bellezza della fedeltà consisteva soprattutto nella «serenità che nessuna fatica può
offuscare, che nessuna sofferenza cancella», per
usare le parole pronunciate da mons. Echevarría
nell’omelia della Messa per il primo anniversario
del suo transito. Questa serenità, che colpiva chiunque lo incontrasse, era tanto attraente da consentirgli di fare rapidamente amicizia e anche di correggere, quando era necessario, riuscendo a conciliare
energia e affetto. Era il suo tratto distintivo, il suo
modo di raggiungere il misterioso equilibrio che,
sull’esempio di Cristo, ogni cristiano è chiamato a
trovare fra termini apparentemente inconciliabili:
obbedienza e libertà, lealtà e discernimento, compi-
Álvaro del Portillo Beato
Il libro
«Quando verrà scritta la sua biografia», suggeriva mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, «tra gli altri
aspetti rilevanti della sua personalità
soprannaturale e umana, questo dovrà
avere un posto di risalto: il primo successore di san Josemaría Escrivá alla
guida dell’Opus Dei è stato – prima di
tutto e soprattutto – un cristiano leale».
L’autore ha compiuto un profondo lavoro di ricerca, costruendo il testo sulla
base di lettere, documenti e testimonianze, mettendo a punto una biografia
commovente e rigorosa.
Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría
alla guida dell’Opus Dei, Edizioni
Ares, Milano 2014, pp. 760, € 22.
mento della volontà di Dio ed espressione della propria personalità. In questa «concordia discors» sta il
paradosso della vita cristiana, nella quale ogni contraddizione è risolta dall’amore, che è il vero principio rivoluzionario, capace di mantenere giovane il
cuore e indipendente lo spirito. Lo affermava don
Alvaro in un’omelia pronunciata nel 1985 e citata in
questo libro che molto più permette di comprendere
di lui: «La gioventù è l’età dell’anticonformismo,
della ribellione, del desiderio di tutto ciò che è bello, buono, elevato. Davvero giovane è soltanto chi
mantiene nello spirito questi ideali, anche quando il
corpo va consumandosi nel trascorrere del tempo».
C’è dunque un nesso fra bellezza e anticonformismo.
Maria Vittoria Marini Clarelli
Soprintendente alla Galleria nazionale
d’Arte moderna e contemporanea di Roma
687
Tavola rotonda
milanese
Analisi
della biografia/2
H
Il beato
Álvaro
visto da vicino
Lunedì 22 settembre 2014, presso il Teatro Faes di Milano, una tavola rotonda ha approfondito altri aspetti della personalità del nuovo Beato. Il
moderatore Francesco Ognibene, caporedattore di Avvenire, ha coordinato gli interventi del card. Julián Herranz (foto), di mons. Giuseppe Delpini
e del prof. Agostino Giovagnoli. Al termine, ha preso la parola don Javier
Medina Bayo, postulatore della causa di beatificazione.
o vissuto con don Álvaro dal 1953 al
1993, cioè per quarant’anni, e leggendo
il libro di Javier Medina Bayo, ho ritrovato intatta
questa figura così cara. Cara a tutti, ma specialmente
a chi ha vissuto accanto a lui momenti molto importanti nella vita dell’Opera e nella vita della Chiesa.
Lascio agli altri relatori di delineare con profondità
scientifica la figura di don Álvaro; per parte mia, ho
pensato a un intervento, diciamo, più famigliare.
Quattro ricordi. Ho scelto quattro momenti in cui ho
vissuto accanto a lui situazioni di particolare rilievo.
La tenerezza
di un padre
688
Primo ricordo. Credo fosse il 3 novembre 1953. Un
giovanotto laureato in Medicina, che voleva specializzarsi in Psichiatria in Germania, fu catapultato a
Roma per studiare Diritto canonico.
Mi spiego: nell’Opus Dei le cose si fanno con serietà; quel giovanotto ero io, naturalmente. Terminata la laurea, avevo chiesto qualche consiglio di
orientamento professionale, e mi fu suggerito di
puntare a una cattedra universitaria in Psichiatria,
sia perché la psichiatria mi appassionava, sia perché
in Spagna era un campo nel quale, anche dal punto
di vista cristiano, era molto importante incidere in
prospettiva apostolica. Un mese dopo, la stessa persona che mi aveva dato quel consiglio, mi disse:
«Senti, non ti piacerebbe andare a Roma per studiare il Diritto canonico?». «Ma tu non mi avevi detto
di andare in Germania? Spiegami un po’, perché il
Diritto canonico io non so neppure cosa sia».
Per dire come gioca il Signore con noi: non sapevo
cosa fosse il Diritto canonico, e ho finito per diventare presidente del Pontificio consiglio per i Testi legislativi. Dopo tanti anni, quando mi domandano come
27 settembre 2014:
Dopo il saluto del presidente Faes, Giovanni
De Marchi, nel gremitissimo Teatro hanno
preso la parola (da sinistra) Francesco Ognibene, Agostino Giovagnoli, il card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini.
si fa a essere felici, rispondo: «C’è un solo modo, ed
è fare quello che il buon Dio vuole da te». Chi fa la
volontà di Dio è sempre sereno, tranquillo, gioioso e
ha la forza per affrontare le difficoltà della vita.
Bene, quel ragazzo – adesso si considerano ragazzi
anche i quarantenni, ma io, benché laureato, ero in
effetti un ragazzino – andò a Roma. Un giorno, stavo recitando il Rosario nel giardinetto che c’è attorno a Villa Tevere – la sede centrale della prelatura
dell’Opus Dei – ed ecco che si apre la porta ed esce
il Padre, san Josemaría, con don Álvaro. Quando mi
videro, don Álvaro – che praticamente non conoscevo – mi chiamò e disse: «Il Padre chiede se vuoi
venire con noi a San Pietro». «Subito!».
Pochi minuti dopo ero in macchina, seduto alla destra del conducente. Dietro c’era il Padre, a sinistra
don Álvaro. Siamo partiti. In San Pietro abbiamo
seguito la prassi abituale di san Josemaría: una Salve Regina davanti alla Pietà, la visita al Santissimo
nella cappella eucaristica, il Credo sulla tomba di
san Pietro. Poi, il Padre e don Álvaro entrarono in
Vaticano per qualche impegno, e quando uscirono
pensai: «Adesso torneremo a casa».
Invece no. Don Álvaro: «Il Padre dice che se non
hai niente in contrario, vorrebbe farti vedere un po’
di Roma». Io andavo di sorpresa in sorpresa. Un ragazzino che si trova lì accanto al Fondatore dell’Opus Dei che vuole fargli da cicerone. Io non sapevo
cosa dire, annuivo con la testa e non mi veniva fuori la voce. E cominciammo il tour. Il Padre mi spie-
Álvaro del Portillo Beato
gava: «Questa è Piazza Venezia, questo è il Colosseo, San Giovanni in Laterano...», e io avevo il torcicollo perché a me, in quel momento, Roma non
importava per niente. Mi dicevo: «La vedrò con
calma in un altro momento, adesso per me lo spettacolo è il Fondatore dell’Opus Dei che ho qui dietro». Mi interessava sentirlo, vederlo, godere per la
prima volta della sua presenza.
Don Álvaro si comportava un po’ come il direttore d’orchestra: lasciava che il Padre parlasse e a
me faceva qualche domandina per farmi intervenire. A un certo momento mi disse: «Senti, perché
non racconti al Padre come hai conosciuto l’Opera, la tua vocazione?».
Rimasi interdetto, perché la mia vocazione non era
quella di san Paolo, ma abbastanza vicina... A vent’anni, mentre frequentavo la facoltà di Medicina
nell’Università di Madrid, non conoscevo l’Opera,
anzi, avevo idee un po’... non giuste, sull’Opera. Dirigevo una rivistina settimanale per gli studenti dell’ateneo. Eravamo abbastanza presuntuosi, perché
l’avevamo chiamata Bengala: per «illuminare», an-
689
che se non illuminava niente. Un giorno, durante il
consiglio di redazione della rivista, arrivò il turno di
un articolo sull’Opus Dei. Lo lessi e dissi:
«Mmm…», perché era un articolo tremendo. Ne avevo sentite di cose sull’Opera: massoneria bianca, il
segreto, cospirano contro lo Stato… eccetera. Non
avevo dato troppo peso, ma l’autore dell’articolo
aveva scritto anche delle cose che per delicatezza
preferisco non ripetere. Rimasi molto impressionato
per cui dissi: «Questo articolo è molto duro, molto
forte. Io non conosco questi dell’Opus Dei, ma mi informerò personalmente. Nella mia classe ci sono due
ragazzi che frequentano l’Opera…». Presi contatto
con uno di loro e gli chiesi: «Mi fai vedere uno di
questi luoghi, di questi covi dove vi riunite?». E lui:
«Sì, vieni», e mi fece conoscere uno dei due centri
dell’Opus Dei frequentati da gente giovane.
«Ed eccomi qui», dissi al Padre. «Mi ha convinto di
più quel ragazzo che non l’autore dell’articolo». Il
Padre si mise a ridere e poi a cantare. Sono state due
ore straordinarie, in cui ho scoperto l’umanità divinizzata di san Josemaría, perché sapeva trarre dalle
canzoni d’amore umano una teologia finissima. Tra
le altre cantò una canzone popolare della sua terra,
l’Aragona, che mi è rimasta qui, non l’ho dimenticata anche se sono passati tanti anni. E ve la dico:
prima in spagnolo e poi la traduco in italiano: «Eres
mi primer amor / tú me enseñaste a querer / no me
enseñes a olvidar / que no lo quiero aprender».
«Sei il mio primo amore / tu mi hai insegnato ad
amare / non insegnarmi a dimenticare / che non lo
voglio imparare». È una bellissima canzone d’amore, ma anche un’esortazione alla fedeltà: fedeltà alla propria vocazione, al primo amore.
Questo era san Josemaría, e questo era don Álvaro
che si definiva «l’ombra»: stava un po’ dietro e suggeriva. Ne ho avuta conferma quando, arrivati a casa, sono sceso, ho spostato il sedile (l’auto era una
Seicento) e mentre il Padre usciva, abbassando la
testa, ho notato che aveva il collo pieno di foruncoli. Foruncoli tremendi, pieni di pus. Evidentemente
lì c’era una malattia, un diabete fortissimo. Dissi
sottovoce: «Don Álvaro, ha visto come sta il Padre?». E lui rispose: «Sì, sì, tu sei medico ed è giusto che sappia le cose, ma non commentarle perché
gli altri non si preoccupino. Il Padre ha un diabete
fortissimo, non ha dormito tutta la notte e ha un mal
di testa che non riesce a passare. Poi abbiamo grossi problemi economici, dobbiamo pagare gli operai
che stanno lavorando, che stanno ristrutturando la
sede centrale dell’Opera e io non so come potremo
fare per le scadenze di questa settimana…».
Allora ho capito due cose. Primo: che san Josemaría
era un santo, perché un uomo in quelle condizioni che
si dimentica completamente di sé stesso per dedicarsi
a un suo figlio è un santo. Secondo: ho ammirato anche don Álvaro, perché era stato lui a chiamarmi, a
preparare quell’uscita per distrarre il Padre, per fargli
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prendere un po’ d’aria, per fargli sentire da parte mia
qualcosa che gli potesse far piacere, appunto il racconto di una vocazione, che è sempre un momento
meraviglioso. Ho ammirato don Álvaro e mi sono
detto: «Questo è davvero l’uomo su cui il Fondatore
può contare completamente». E il libro di Javier Medina lo descrive magnificamente.
Preparazione & sviluppo
del Vaticano II
Per il secondo ricordo, facciamo un salto di dieci anni: 1962. Il Concilio Vaticano II si è aperto in ottobre,
ma è in settembre che sono stati nominati i presidenti e i segretari delle commissioni. Appunto in settembre arrivò a san Josemaría una lettera della Santa Sede in cui si chiedeva a don Álvaro di accettare la nomina come segretario di una delle dieci commissioni
conciliari più importanti, quella sulla vita e il ministero dei sacerdoti. Don Álvaro era il segretario generale dell’Opus Dei. Era la mano destra del Fondatore
per tutto il lavoro apostolico e di governo. Il Padre,
san Josemaría, accennò alla richiesta vaticana in una
riunione di famiglia e aggiunse: «Don Álvaro farà la
volontà di Dio. L’Opera è nata per servire la Chiesa.
Álvaro deve servire la Chiesa. Vediamo un po’ se riesce a fare tutte e due le cose». Ebbene, durante i quattro anni di intenso lavoro conciliare ho visto come
don Álvaro, che aveva una capacità di lavoro immensa, riusciva a servire la Chiesa nel Vaticano II, e a
mantenere gli assorbenti impegni nell’Opus Dei.
Anch’io lavoravo in quella commissione conciliare e
voglio ricordare un episodio particolarmente significativo, per mostrare come don Álvaro reagiva nei
momenti difficili. La commissione era stata inizialmente incaricata di elaborare un progetto di decreto.
Successivamente, il comitato di coordinamento del
Concilio decise diversamente: sulla vita e il ministero dei sacerdoti si dovevano fare solo dieci brevi proposizioni. Don Álvaro, di fatto, dirigeva il lavoro
della commissione, perché il presidente, il cardinale
Pietro Ciriaci, che era malato, aveva delegato a lui la
presidenza e la direzione intellettuale del lavoro.
Della commissione facevano parte quattro cardinali,
una ventina di vescovi e una trentina di teologi e canonisti. Se i canonisti e i teologi erano gente complicata, i cardinali lo erano ancora di più, perché essi
parlavano ex-cathedra e don Álvaro doveva regolare
il dialogo e limitare gli interventi. Lo faceva con una
grazia e con una finezza straordinarie: fece redigere
un regolamento e, invece di dare dieci minuti a ciascuno, ne diede otto. E quando un cardinale abusava
della sua autorità, diceva: «Eminenza, scusi, interessantissimo tutto quello che sta dicendo, però dobbiamo consentire di parlare anche agli altri; per favore,
lasci il resto per iscritto». Poi toccava a noi leggere
tutto quello che era stato consegnato per iscritto.
27 settembre 2014:
Quando arrivò l’indicazione di elaborare solo dieci
proposizioni, don Álvaro ne soffrì: «Ma come,
quattrocentomila sacerdoti in tutto il mondo stanno
aspettando dal Concilio indicazioni e direttive sulla
loro vita e sul loro ministero, e noi facciamo dieci
brevi proposizioni!». Ma obbedì. La commissione
le preparò e le presentò all’Assemblea plenaria nell’aula di San Pietro, e i padri conciliari, fortunatamente, le bocciarono. Dico «fortunatamente» perché noi in fondo al cuore volevamo così.
Abbiamo fatto quello che ci era stato detto di fare,
ma era un momento in cui sulla natura e sull’identità del sacerdote nella Chiesa cattolica c’erano due
tendenze fortemente contrastanti. Da una parte c’era la concezione del prete «sacramentale» che rimane in sacrestia, che si accontenta di confessare
quando qualcuno lo desidera, di celebrare la Messa,
eccetera; dall’altra parte c’era il sacerdote «missionario», che esce alla ricerca delle pecore, con impegni nel sociale. Con don Álvaro, noi pensavamo che
non fossero due figure contrapposte, bensì che si
dovessero integrare: la parola e i sacramenti, tutto
in un contesto sacro di elezione divina.
Non mi dilungo su questo tema: basti dire che don
Álvaro propose al presidente della commissione e relatore, che era il cardinale François Marty, arcivescovo di Reims e successivamente arcivescovo di
Parigi, di scrivere una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendo il permesso di preparare un decreto che toccasse tutti i punti riguardanti
la vita e il ministero dei sacerdoti dal punto di vista
teologico, disciplinare e ascetico. Il consiglio di presidenza approvò la proposta e don Álvaro organizzò
il lavoro: in meno di un mese si è potuto presentare
alla plenaria del Concilio un documento, il decreto
Presbyterorum ordinis, che ottenne dai padri conciliari una votazione plebiscitaria. I numeri me li ricordo bene: su 2.394 votanti, 2.390 espressero il Placet;
soltanto 4 il Non-placet.
Questo era don Álvaro. Una volta gli ho detto che mi
ricordava una meridiana che avevo visto sul campanile di una chiesa della Val di Sole o della Val di Non,
che recava la scritta: «Horas non numero, nisi serenas. Segno soltanto le ore serene». Così era don Álvaro. Dirigeva il lavoro con grande serenità in ogni
momento, anche nei momenti più critici. Non perdeva mai la calma, la mitezza e la fortezza così ben descritte nella biografia scritta da don Javier Medina.
Piena valorizzazione
del laicato
Dunque, protagonista del Concilio. Ma anche del
post-Concilio. Terza realtà da ricordare. Infatti, per diciotto anni don Álvaro ha lavorato nella Commissione pontificia per la revisione della legislazione della
Chiesa in base al Vaticano II. E ha lavorato come re-
Álvaro del Portillo Beato
latore di una commissione di studio che si doveva occupare nientemeno che dei diritti e doveri dei laici nella Chiesa e nel mondo. Cioè di come nella legislazione della Chiesa si doveva riflettere quello che – a mio
giudizio – reputo centrale nel Vaticano II: la chiamata
universale alla santità e all’apostolato, in forza del battesimo. Cioè far sì che nella Chiesa tutti i battezzati si
rendano responsabilmente conto che, per il fatto di essere stati battezzati, hanno il diritto/dovere di diventare santi, cioè di conformare la propria vita a quella di
Gesù, e di diventare apostoli, cioè diffusori del Vangelo nelle comunità umane in cui vivono: famiglia, lavoro, attività sindacali e politiche, arte eccetera...
Questo è il punto centrale che il Santo Padre Francesco, come i suoi immediati predecessori, ricorda con
tanta insistenza: la «nuova evangelizzazione» si farà
con l’apporto dei laici. La grande evangelizzazione
della Corea, come al Papa è piaciuto moltissimo ricordare nel suo recente viaggio, è stata fatta dai laici,
quando erano rimasti senza sacerdoti.
Ebbene, don Álvaro organizzò per la prima volta nella storia della Chiesa il lavoro su questo tema. Scrisse un documento di più di trecento pagine, cominciando col distinguere le parole: che cosa significa
«fedele» e che cosa significa «laico». Fedeli sono tutti coloro che hanno ricevuto la vocazione cristiana e
si sono incorporati alla Chiesa con il battesimo. E di
lì nascono i diritti e i doveri a cui abbiamo accennato. Perché un laico faccia apostolato non c’è bisogno
che un vescovo gli dia la missione canonica. Gliel’ha
data il Signore, con il battesimo e la cresima. Don Álvaro l’ha sottolineato, perché si riflettesse anche nei
canoni, che danno al fedele laico nella Chiesa il senso di quali sono le sue prerogative, i suoi diritti.
Il documento di don Álvaro ha molto stupito la
commissione perché vi si approfondivano molto i
concetti che poi si traducevano in canoni, come
nessuna legislazione ecclesiastica aveva mai fatto.
Potete comprovare che nel nuovo Codice è stato riversato tutto il lavoro di fondo fatto da don Álvaro.
Mentre lavoravo nella commissione per la revisione del Codice di diritto canonico (e poi per l’interpretazione del nuovo Codice: per questo adesso mi
trovo qua), mi resi conto dell’importanza del saggio di don Álvaro e gli suggerii di pubblicarlo:
«Don Álvaro, questo va reso pubblico, è una nuova
apertura nella storia del diritto canonico e della pastorale in applicazione del Concilio. Apre prospettive di studio anche a livello accademico». Don Álvaro tentennava. Era abituato a fare dei lavori stupendi a servizio della curia romana che non sono
stati mai pubblicati, perché lavorava nel nascondimento, in umiltà. Aveva fatto proprio il programma
di san Josemaría: «Il mio compito è nascondermi e
scomparire, perché brilli soltanto Gesù». Abbiamo
faticato non poco, ma alla fine l’abbiamo convinto.
Ed è stato pubblicato. Il libro ha avuto un successo
enorme, è stato tradotto in quasi tutte le lingue e la
691
prima edizione italiana è stata curata dall’Ares col
titolo Laici & fedeli nella Chiesa.
L’indimenticabile
26 giugno 1975
Passiamo velocemente al quarto punto. L’ultimo ricordo riguarda il 26 giugno 1975, giorno della morte di san Josemaría.
Ero di ritorno dal lavoro in Vaticano, verso l’una e
mezza. Appena entrato in Villa Tevere, dalla portineria mi hanno detto: «Per favore, salga al quarto piano». Ho preso l’ascensore e sono andato nella stanza
di lavoro di don Álvaro. Entro, e vedo sul pavimento
san Josemaría disteso per terra. Accanto a lui c’era un
altro sacerdote, medico, don José Luis Soria, che poi
è andato in Canada ed è lì tuttora, che cercava con i
massaggi cardiaci di rianimare san Josemaría. Don
Álvaro mi disse: «Vieni, vieni Julián, aiuta José Luis».
Abbiamo fatto massaggi cardiaci, respirazione artificiale, ma inutilmente. Senza parlare, ci leggevamo
nel pensiero: «Non c’è niente da fare». Io trattenevo a stento le lacrime e stavo dicendo al Signore:
«Portami con te, perché io non servo a niente, ma il
Padre è tanto importante per la Chiesa!». Era una
preghiera per capovolgere la situazione, ma il Signore non ha ascoltato: il Padre è morto.
Don Álvaro era lì insieme con don Javier Echevarría, attuale prelato dell’Opus Dei, e alcuni altri. Eravamo tutti distrutti, tranne uno: don Álvaro. «L’ombra», di colpo, era diventata corpo. E corpo di un
uomo forte che non ha esitazioni, che con grande
serenità comincia a dare indicazioni, ordini, cose da
fare mentre noi stavamo lì sconvolti. Era difficile
ragionare bene in quel momento perché i sentimenti agitavano troppo la mente. Io sentivo don Álvaro
che diceva: «Javier, per favore, chiama al telefono
l’assessorato centrale (l’organismo di governo delle donne dell’Opus Dei), di’ che preparino in Santa
Maria della Pace il luogo dove deporre il Padre».
Intanto erano sopraggiunti gli altri membri del consiglio generale dell’Opus Dei. Abbiamo recitato un
responsorio per accompagnare la sua anima e poi
don Álvaro ha incominciato a dare indicazioni all’uno e all’altro. In quel tempo telefonare all’estero
– erano già una trentina le nazioni in cui c’era l’Opus Dei – era abbastanza difficile, bisognava fare
diversi tentativi per ottenere le linee dirette... Poi
bisognava avvertire il Vicariato, andare nella basilica di Sant’Eugenio per preparare il funerale pubblico. A me disse di telefonare a diverse personalità in
Vaticano… Insomma, ha cominciato a dare tutta
una serie di istruzioni con grande fortezza e serenità come se tutto fosse nella normalità.
Non l’ho visto piangere. Qualche giorno dopo, però, avevamo la riunione che alle 10 di ogni domenica si svolgeva con san Josemaría: è il «Circolo
breve», che comprende un commento al Vangelo,
un esame di coscienza e qualche riflessione spirituale. Quella domenica, quando arrivò don Álvaro e
per la prima volta dovette sedersi nel posto che normalmente occupava san Josemaría, scoppiò a piangere. Per la prima volta.
Svolse magnificamente la lezione del Circolo e,
quando finì, io, non sapendo cosa fare, lo abbracciai. Era un modo per dire che tutta la famiglia era
attorno a lui per trovare maggiore unità e maggior
amore fraterno. L’unica cosa che ho saputo dirgli,
a voce bassa, è stato: «Grazie». E mi pare che gli
altri hanno fatto altrettanto.
l
l
l
Mi fermo qua. Sono quattro ricordi che toccano diverse tappe. Nel libro troverete molti altri racconti
di questo tipo, molto ben scritti. Grazie.
Card. Julián Herranz
Presidente emerito del Pontificio consiglio
per i Testi legislativi
L’inesausta fantasia dello Spirito Santo
di mons. Mario Delpini
692
Dalla lettura del libro di Javier Medina emerge la figura di don Álvaro come persona di un’umanità
completa, sorridente, colta, umile, una persona con
la quale sembra di entrare in amichevole compagnia.
Leggendo le peripezie, descritte con molto realismo,
e le gioie che hanno costellato la vita di don Álvaro,
sono stato colpito particolarmente da due cose: la
prima è da quante disgrazie è scampato. Per esempio, da ragazzo, mentre stava per compiere una gita
sul lago col fratello e altri amici, successe che il fratello scese dalla barca perché aveva dimenticato
qualche cosa, e Álvaro lo seguì. Ebbene, scoppiò un
fortunale e la barca affondò, ma Álvaro e il fratello
rimasero in salvo. Un’altra volta, mentre era in macchina con il Fondatore su una strada di montagna,
per la strada scivolosa la macchina sbandò e si fermò quasi in bilico sul ciglio, lasciando illesi i viaggiatori. Per non parlare poi dei pericoli durante la
27 settembre 2014:
Guerra civile spagnola, dell’interrogatorio che Álvaro affrontò con la pistola di un miliziano puntata
alla tempia, del drammatico attraversamento delle
linee del fronte per raggiungere il Fondatore nella
zona liberata, e tanti altri avvenimenti.
Anche da questi episodi si intuisce che il Signore
l’aveva protetto perché gli aveva affidato un compito da svolgere, una missione provvidenziale.
Oltre la diocesi
ambrosiana
La seconda cosa la vorrei dire da milanese, perché
si sa che noi ambrosiani siamo famosi per la nostra
umiltà [applausi e risate dal pubblico], per cui per
me, sacerdote di Milano, che esista qualcosa fuori
di Milano è sorprendente. È vero, alla televisione
dicono che esiste qualcosa anche altrove, ma insomma... Ebbene, tutto l’impegno di san Josemaría,
di don Álvaro e di tutta l’Opus Dei, che emerge da
questo libro così documentato e coinvolgente, mi
ha suscitato qualche domanda. Perché non basta la
Chiesa, nel senso della diocesi, della parrocchia,
con la sua presenza territoriale che nella diocesi
ambrosiana è così capillare? Perché non basta che il
cristiano laico vada a Messa alla domenica, e poi
nei giorni feriali si sforzi di essere cristiano in ufficio, nel lavoro, nella vita famigliare? Perché c’è bisogno di dare una consistenza anche giuridica a
un’istituzione come la prelatura? Perché a Roma
non bastano le università pontificie che già ci sono,
e bisogna fondarne un’altra?
Sono domande che mi sono posto, forse perché a
Milano abbiamo la presunzione di essere una Chiesa che offre tutto quello che occorre: c’è la pastorale per i giovani, per gli anziani, per la famiglia, per
la scuola, per i bisognosi... La lettura del libro mi ha
aiutato a perdere un po’ la boria milanese, quella che
da noi si chiama la baüscia: mi ha fatto capire che la
Chiesa col vescovo, i parroci eccetera, è importante,
essenziale, ma lo
Spirito Santo è più
grande, più vivo
dell’aspetto dell’organizzazione; ho
capito che c’è bisogno di qualcosa di
più, e don Álvaro
con la sua intraprendenza, con i
suoi viaggi per porMons. Mario Delpini
tare l’Opus Dei in
tutti i continenti, lo ha testimoniato. C’è qualcosa di
più di quello che la tradizione, l’organizzazione ecclesiastica, pur essenziale, ci ha consegnato. E ciò
vale anche per l’apostolato dei laici: il Concilio ha
detto che i laici, in quanto battezzati, sono missionari; perché dunque creare un’istituzione che ha come
carisma specifico quello di santificarsi nel lavoro e
nella vita quotidiana? La risposta è che la tradizione
può diventare stanchezza, la pratica ordinaria può
diventare un’abitudine un po’ rassegnata. Per questo
lo Spirito Santo suscita delle forme che risvegliano,
che danno un gusto di apertura, di intraprendenza, di
coraggio, di sfida anche per raggiungere ambienti
verso i quali la nostra «organizzazione», pur capillare, resta un po’ intimidita.
Talvolta anche la realtà ecclesiale costituita ha bisogno di correttivi, perché la pratica ordinaria rischia di essere un po’ troppo condizionata dall’abitudine, per cui una voce che richiama al vigore della coerenza, risveglia tutta la Chiesa. Dalla biografia di don Álvaro ho recuperato una visione di Chiesa più ampia, più viva, più capace di creatività, proprio perché attraverso l’esempio, il ministero, la testimonianza del nuovo Beato, si coglie un’integrazione, un arricchimento di tutta la Chiesa.
Mons. Mario Delpini
Vicario generale
dell’Arcidiocesi di Milano
Il dinamismo della fedeltà
di Agostino Giovagnoli
Álvaro del Portillo, com’ è noto, ha avuto un ruolo
importante nel Vaticano II ed è stato certamente una
figura di grande rilievo nella stagione post-conciliare. Attraverso i vari incarichi da lui svolti durante il
periodo conciliare, ha indubbiamente servito tutta
la Chiesa, non solo con zelo, impegno, pazienza ma
anche con una comprensione lucida dei problemi
più importanti del suo tempo, in modo particolare
Álvaro del Portillo Beato
per quanto riguarda il ruolo del laico nella Chiesa e
la sua vocazione spirituale. Mi pare però si possa
dire anche che don Álvaro ha servito la Chiesa tutta anzitutto perché ha servito l’Opus Dei. Le due
cose non devono essere separate: nel servizio all’Opera egli ha realizzato un grande servizio alla Chiesa. L’Opus Dei, infatti, è stato uno dei grandi doni
che la Chiesa cattolica ha ricevuto nel XX secolo.
693
Agostino Giovagnoli
Nel ’900 la Chiesa ha corso un grande
pericolo. Il modo in cui è entrata in
questo secolo non era adeguato alle
sfide inattese che si è trovata di fronte.
Se non fosse cambiata, se non avesse
accettato di mutare in profondità la
sua fisionomia, avrebbe rischiato non
di scomparire, ma di diventare molto
marginale all’interno di una società
che si trasformava sempre più rapidamente. La sfida più importante è stata
quella di trovare la strada per incontrare le masse, gli uomini e le donne che vivono una
vita comune, nel mondo, insomma i laici, i semplici
fedeli. Nel XX secolo, la Chiesa non poteva sopravvivere restando identica a come era stata nei secoli
precedenti, un’istituzione separata, chiusa in sé stessa, a tratti anche forte in rapporto ad altre istituzioni,
ma con un’influenza sempre più limitata nella multiforme vita quotidiana di milioni di uomini e di donne immersi nella «modernità». Il messaggio antico
di cui la Chiesa è portatrice in tutti i secoli rischiava
di diventare vecchio e incomprensibile se non avesse assunto una forma nuova. Ed è avvenuto qualcosa di inatteso: la Chiesa è rinata nelle anime, come
diceva Romano Guardini. Davvero il XX secolo è
stato «il secolo della Chiesa». Tale costatazione è
strana se si considera che tante sono state le difficoltà da questa incontrate nel Novecento, le critiche, le
opposizioni, le contestazioni di cui è stata oggetto.
Ma è un’affermazione profondamente vera se si considera la grande novità di una Chiesa che non è rimasta un’istituzione del passato ed è entrata nel cuore di milioni di uomini e donne.
L’«impresa»
più importante
L’ Opus Dei è stata una delle strade attraverso cui
questa novità si è realizzata. Per questo dico che, al
fondo, il più grande servizio fatto da don Álvaro alla Chiesa è il servizio che ha fatto all’Opera. Álvaro del Portillo è stato un ingegnere civile e qualcuno potrebbe dire: non c’ è bisogno della laurea per
diventare santi. È così. Ma Álvaro è stato prima ingegnere e solo successivamente membro dell’Opera, sacerdote, esperto di Diritto canonico, vescovo e
tante altre cose. L’ingegnere civile costruisce le case, le scuole, gli edifici pubblici... E verso la fine
della guerra civile, ha sentito il bisogno di servire la
patria costruendo ponti, strade e tante altre cose distrutte dalla guerra. È stato il suo modo per contribuire a ricostruire una società profondamente ferita
dalla violenza della guerra. San Josemaría ha saputo parlare a questi ingegneri, medici, avvocati e a
tanti altri immersi nell’impegno di costruire la società, l’«impresa» più importante del XX secolo,
694
per così dire, come costruire lo Stato era stato l’impresa più importante del XIX secolo. Ha saputo spiegare loro che la ricostruzione più
importante non era quella delle case
distrutte dalla guerra e neanche
quella di una società lacerata dalla
violenza: occorreva soprattutto lavorare per la costruzione di un grande edificio spirituale.
Don Álvaro si è messo al servizio di
questo grande disegno. Il libro di
Javier Medina Bayo ci spiega come ciò è avvenuto.
L’autore scrive che il suo volume non è né un libro
di storia né una biografia (anche se in realtà è, in
modo molto riuscito, entrambe le cose). La bibliografia su don Álvaro – aggiunge – è «piuttosto copiosa» e in particolare «sono già stati pubblicati due
ampi profili biografici, che offrono una sintesi adeguata» (p. 13). Il suo obiettivo, perciò, è un altro:
dimostrare la necessità, per chiunque intenda scrivere la biografia di don Álvaro, di tener conto in
modo preminente che «il primo successore del beato Josemaría Escrivá nel governo dell’Opus Dei fu
– anzitutto e soprattutto – un cristiano leale, un figlio fedelissimo della Chiesa e del Fondatore, un
pastore completamente dedito a tutte le anime e in
modo particolare al suo pusillus grex, alla porzione
del popolo di Dio che il Signore aveva affidato alle
sue cure pastorali, in stretta comunione con il Romano Pontefice e con tutti i suoi fratelli nell’episcopato. Lo ha fatto in assoluta dimenticanza di sé,
con donazione gioiosa e allegra, con carità pastorale sempre accesa e vigilante» (sono parole tratte
dall’Omelia di mons. Echevarría per la morte di
don Alvaro).
La Presentazione sottolinea inoltre che, più importanti delle virtù umane nel primo successore di san
Josemaría, sono state le sue virtù teologali. E conclude: «La fedeltà – che ha origine nella fede, come
spiega il suo nome – è la nota più caratteristica della vita di mons. del Portillo. Fedeltà a Dio, fedeltà
alla Chiesa e al Papa, fedeltà all’Opus Dei». L’intenzione di suffragare questa tesi – e cioè non solo
di sostenerla, ma soprattutto di portare elementi che
ne dimostrino la fondatezza – viene infine integrata
da quanto dichiarato in Premessa. Perciò, conclude
l’autore, il sottotitolo del libro potrebbe essere: «Testimonianze su Álvaro del Portillo visto da quanti
gli furono vicini», unite al tentativo di «lasciar parlare mons. del Portillo» il più possibile (p. 14). Questi diversi obiettivi si saldano in uno solo: mostrare
il possesso nel Beato, in un grado altissimo, della
virtù della fedeltà. E, indubbiamente, il libro è stato
molto fedele alle promesse: scorre in modo compatto – costruito con solidità e rigore come è giusto che
sia per un «ingegnere civile» – senza digressioni o
derive lungo questi due binari fino alla fine.
27 settembre 2014:
L’incontro con
Giovanni Battista Montini
Dopo alcune note sull’infanzia e adolescenza, si
mettono in evidenza l’incontro con il Fondatore,
l’ascolto, l’obbedienza, il sacrificio di sé, la collaborazione stretta con san Josemaría ecc. Particolarmente illuminate è la fedeltà di don Álvaro al Fondatore dell’ Opus Dei dopo la morte di questi. Il
modo in cui tale fedeltà si è esplicata viene anticipato nel libro da alcuni passaggi precedenti, di cui
ricordo alcuni soltanto. Una nota (due foglietti) in
cui il Beato spiega la sua concezione ascetica, trasponendo sul piano spirituale modalità tipiche della
vita militare (p. 125). Egli utilizza i termini militari
di disciplina e collegamento desumendoli dall’obbedienza agli ordini e dall’immedesimazione con la
volontà dei superiori che si debbono avere nei confronti dello Stato maggiore anche quando ci si trova nell’impossibilità di ricevere un ordine esplicito.
È questo il motivo per cui viene definito saxum dal
fondatore dell’Opera (p. 124). Per descrivere ulteriormente la sua fedeltà, l’autore ricorda che lo stesso don Álvaro, dopo la morte di san Josemaría, corregge il termine «continuità», utilizzato da mons.
Echevarría, con fedeltà (p. 355). Javier Medina Bayo richiama anche i termini «continuità dinamica»
(p. 355) – don Álvaro raccomandava di non sotterrare il talento ricevuto – e «dinamismo della fedeltà», come capacità di rispondere alle nuove sfide
dell’apostolato (p. 356). In concreto, al centro della
fedeltà di don Álvaro, dopo essere succeduto al fondatore, c’è stato l’impegno fortissimo a realizzare la
volontà di san Josemaría circa la forma giuridica
dell’Opus Dei e di promuoverne la canonizzazione.
Attraverso la sua fedeltà, don Álvaro è stato al ser-
vizio di Qualcosa, di Qualcuno, di un grande disegno. Ed è significativo, in questo senso, il suo incontro con un uomo molto diverso: Giovanni Battista Montini. Quando arriva a Roma, subito dopo la
guerra, don Álvaro incontrò don Battista, come lo
chiamavano i suoi ragazzi, che lavorava nella Segreteria di Stato di Pio XII. E questi mostrò un grande
interesse per don Álvaro, come pure, successivamente, per san Josemaría e, più in generale, per l’Opus Dei. Montini è stato molto legato all’Azione cattolica, alla FUCI, al Movimento laureati. Ma era curiosissimo verso tutte le esperienze ecclesiali nel suo
tempo. Giovanni Battista Montini, infatti, non è stato solo un grande Papa, un uomo di Dio ora riconosciuto beato, un «architetto» del cattolicesimo contemporaneo. È stato anche uno dei più grandi testimoni del rischio corso dalla Chiesa cattolica nel XX
secolo, uno dei più sensibili al pericolo che tra l’istituzione ecclesiastica e gli uomini e le donne del suo
tempo si creasse una distanza incolmabile. Quando è
diventato arcivescovo d Milano, ha dedicato grandissima parte della sua pastorale ai «lontani», impegnandosi in modo appassionato per avvicinarli nuovamente alla Chiesa. Credo perciò che la sua simpatia per don Álvaro e il suo interesse per l’Opera nascessero proprio da qui. Montini era alla ricerca di
una risposta a quel grande problema e si è impegnato personalmente per trovarla, insieme ai giovani
della FUCI. Ma sapeva anche che non poteva esserci
una sola risposta ed era perciò curiosissimo – segno
della sua grandezza spirituale – verso tutti coloro
che, come san Josemaría, ne stavano trovando altre
per costruire la grande novità di cui la Chiesa aveva
bisogno e di cui il Concilio Vaticano II è stato la
maggiore espressione.
Agostino Giovagnoli
Ordinario di Storia contemporanea
nell’Università Cattolica di Milano
Il segreto per essere felici? La santità
di Javier Medina Bayo
Mons. Delpini mi ha fatto scoprire un gemellaggio
con i milanesi, perché io sono basco, e anche noi baschi abbiamo la fama di essere molto umili.... [Applausi e risate dal pubblico]. Sono arrivato a Roma
nel 1970 e da allora sono cresciuto accanto a don Álvaro fino alla sua morte, nel 1994. In tutti questi anni, ho ascoltato molte volte la sua predicazione, ho
potuto parlare con lui personalmente, mi è stato concesso di essere testimone del suo lavoro di governo
nell’Opus Dei. Nell’accingermi a scrivere questa
biografia, pensavo di avere una buona conoscenza
Álvaro del Portillo Beato
della vita di don Álvaro. Tuttavia, nella stesura del libro, sono venuto a conoscenza di moltissimi episodi
che non mi erano noti, e che arricchiscono di moltissime sfaccettature la sua grandissima personalità
umana e soprannaturale. Sapevo che era molto santo
ma, per dirla in poche parole, non immaginavo che la
sua santità fosse così grande.
Nel 1997, il cardinale Luis Aponte Martínez, arcivescovo di San Juan di Porto Rico, in una lettera al vicario dell’Opus Dei scriveva: «Come era buono don
Álvaro. Era così umano e al tempo stesso così so-
695
prannaturale. Con gli anni la sua figuappagare questa sete procurandosi il
maggior numero possibile di beni
ra andrà ingigantendosi sempre più.
materiali; altri pensano di soddisfarSe la Chiesa lo riterrà opportuno, io
la con il potere, o con i piaceri senspero di vedere monsignor del Portillo
sibili... Ma non basta: l’uomo ha bielevato alla gloria degli altari. Questo
sogno di ben altro per essere felice.
chiedo al Signore. E questo spero. PerI santi sono persone che hanno troché penso che sarà di grande aiuto alvato il segreto della felicità e l’hanno
la nostra Chiesa cattolica l’esempio di
raggiunta. San Josemaría amava diquesto santo vescovo».
re: «Ne sono sempre più persuaso: la
Veramente don Álvaro era molto buofelicità del Cielo è per coloro che
no. Nel decreto della Santa Sede che Javier Medina Bayo
sanno essere felici sulla terra» (Fordichiara l’eroicità delle sue virtù, si
gia, n. 1005). Nonostante le possibili sofferenze –
afferma che egli era «uomo di profonda bontà e afche non mancano mai – nessun santo si dichiara trifabilità, capace di trasmettere pace e serenità alle
ste o non soddisfatto della propria sorte. Come si
anime». Nessuno ricorda un gesto poco cortese da
spiega? La risposta è questa: perché i santi hanno un
parte sua o il minimo moto d’impazienza dinanzi
cuore innamorato. Don Álvaro è stato un uomo veraalle contrarietà; mai una parola di critica o di protemente felice, perché il suo cuore era pieno di amore:
sta. Aveva imparato dal Signore a perdonare, a preper Dio e per gli uomini. Anche per questo motivo
gare per i persecutori, ad aprire sacerdotalmente le
bisogna far conoscere la sua vita.
braccia, accogliendo tutti con un sorriso e con cristiana comprensione. Dal giorno in cui fu scelto come successore di san Josemaría molte persone, anche non dell’Opus Dei, cominciarono a chiamarlo
«Padre». Don Álvaro era un sacerdote cordiale, sorridente, un vero padre. Un padre che diffondeva inInoltre, i santi intercedono per noi in Cielo. Per quantorno a sé un clima di serenità e di pace anche nei
to riguarda don Álvaro, dopo la sua morte sono permomenti più difficili. Anche quand’era immerso in
venute più di 13.000 relazioni firmate di favori otteun ritmo di lavoro molto intenso, riusciva sempre a
nuti grazie alla sua intercessione, anche da luoghi in
mantenere l’affabilità e il sorriso.
cui l’Opus Dei non è ancora presente. Si tratta di grazie di ogni tipo: materiali e spirituali. Certamente, le
più sorprendenti sono le guarigioni straordinarie, ma
ci sono tantissimi doni ricevuti, forse meno appariscenti ma ugualmente preziosi: disoccupati che trovano lavoro; sposi che recuperano l’armonia coniuIntorno all’anno 408 o 409, sant’Agostino scrisse
gale; concepimento di figli, a volte dopo anni di atteuna lettera a un suo amico vescovo, Memorio, che
sa prima di ricorrere alla sua intercessione; riconciconsiderava un vescovo santo, e gli diceva: «Mi
liazioni tra parenti in lite; nascita di bambini sani, dosento sollevato dal tuo amore. Poiché non è da una
po una diagnosi di malformazioni congenite...
persona qualunque che sono amato, prediletto, ma
Lo scorso mese di marzo, presso la Pontificia Unida una persona altamente qualificata, da un vescoversità della Santa Croce, a Roma, si è svolto un
vo di Dio quale tu sei, e so che sei tanto gradito a
convegno in occasione del centenario della nascita
Dio che, quando innalzi la tua anima sì buona al Sidi don Alvaro, in cui intellettuali e persone che lo
gnore, con essa innalzi anche me, poiché nella tua
avevano conosciuto da vicino hanno evidenziato diracchiudi pure la mia» (lettera 101, A Memorio, n.
versi aspetti della sua figura. Tra le tante manifesta1). Chi ha conosciuto don Álvaro sperimentava la
zioni di affetto, il Segretario di Stato di Sua Santità
stessa sensazione: ci si sentiva sollevati verso Dio,
ha telegrafato al prelato dell’Opus Dei, mons. Jagrazie al suo aiuto e al suo esempio.
vier Echevarría, che il Sommo Pontefice Francesco
Finché vivono sulla terra, i santi ci mostrano come
– sono le parole testuali – «esorta a imitare la vita
deve comportarsi il cristiano. Si racconta che una
umile, allegra, nascosta e silenziosa, ma anche devolta, in pieno giorno, Diogene uscì con una lantercisa nel testimoniare la perenne novità del Vangelo,
na per le strade di Atene e, alla domanda su che coannunciando l’universale chiamata alla santità»,
sa stesse facendo, rispose: «Cerco l’uomo!», intendell’allora venerabile, e oggi beato, Álvaro del Pordendo dire: «Cerco un uomo onesto». Oggi, viene
tillo. Penso che non possa esserci consiglio più auvoglia di gridare: «Cerco un uomo felice!», perché
torevole.
in questi nostri tempi, così opulenti, tantissime perJavier Medina Bayo
sone inseguono la felicità, ma non la trovano perché
non sanno quali sono le sorgenti di questa aspiraPostulatore della Causa di beatificazione
di mons. Álavaro del Portillo
zione insita nel cuore dell’uomo. Alcuni tentano di
Testimone della perenne
novità del Vangelo
Sollevati verso Dio
dal suo amore
696
27 settembre 2014:
«Studi cattolici», 2015
Gentile abbonata, caro abbonato,
non vi sarà sfuggito, sfogliando il Quaderno d’apertura, che Studi cattolici a colori è (quasi) tutta un’altra storia, ma questo è solo un anticipo, perché dal prossimo gennaio la rivista sarà full color e con un nuovo look di copertina.
È solo la prima delle novità per il 2015, anche se il 2014 è stato ricco di sorprese: abbiamo
rinnovato il sito www.ares.mi.it, lanciato i primi e-book, creato l’opportunità per gli abbonati
di leggere in anteprima in pdf i numeri di Studi cattolici + Fogli, nonché di consultare l’archivio digitale delle riviste.
La nostra rivista è stata (e sarà sempre) un osservatorio privilegiato per approfondire la realtà multicaotica in cui siamo immersi, dalla marcia sanguinaria dell’ISIS a quella di Ebola. Certo, chiunque con un click può conoscere le novità, ma per interpretarle ci vuole molto di più.
Un pensiero libero si forma a poco a poco, con la riflessione e il confronto, non con la consultazione frenetica di Facebook, Youtube o Wikipedia. Per questo continuiamo ad affrontare
sfide che in troppi considerano perse: dalla difesa della famiglia ai princìpi irrinunciabili della bioetica, alla valutazione critica della letteratura e degli spettacoli. Gli «studi» d’apertura e
tutte le rubriche vogliono essere strumenti d’orientamento anche sul lungo periodo. Le buone
idee non hanno data di scadenza.
Si tratta di un’avventura appassionante, ma non facile. Abbiamo bisogno del sostegno dei
lettori per continuare questo sogno editoriale nato nel lontano 1957 e il modo più immediato
per aiutarci è di rinnovare fin da ora l’abbonamento alla rivista facendola conoscere anche agli
amici. Siamo in molti, ma vogliamo (e possiamo) essere molti di più.
Grazie di cuore, e auguri per un 2015 tutto da leggere.
Per (ri)abbonarsi
Se sul bollettino postale allegato si trova scritto Scad 2014.12 significa che l’abbonamento è da rinnovare.
Il canone di Euro 70 (Estero Euro 100) resta immutato anche per il 2015. Se, oltre al proprio abbonamento, si desidera sottoscrivere un abbonamento dono per un amico (e confidiamo che molti lo desiderino), la
quota complessiva è di Euro 100 (anziché Euro 140). Per questa modalità contattare [email protected].
I versamenti possono essere effettuati tramite l’unito bollettino di conto corrente postale oppure con carta
di credito attraverso il nostro sito www.ares.mi.it, o con bonifico bancario
Iban: IT 90 E 01030 01608 000000060654.
Data la situazione, sono particolarmente graditi gli abbonamenti sostenitori (Euro 150) e benemeriti (Euro 600). Chi volesse impegnarsi ancor più direttamente come socio dell’Associazione Ares può contattare
personalmente il Direttore ([email protected]).
697
SCENARI
Siria: genesi & prospettive di una guerra
Tre anni di guerra
oltre 180mila morti
Tre anni e mezzo di guerra civile,
180mila morti, tre milioni e mezzo
di rifugiati, un Paese distrutto. La
Siria non esiste più, è solo un cumulo di macerie sotto le quali giacciono non solo decine di migliaia di
cadaveri, ma anche le speranze di
milioni di arabi di vivere in un
mondo libero. Ma questi sono solo
numeri, filosofia o geopolitica. Per
capire anche solo un poco la travolgente angoscia di un popolo bisognerebbe guardare un volto alla
volta, uno per uno, oppure osservare più e più volte lo spot di «Save
the children» dove si racconta in un
fotogramma al secondo la vita di
una bambina inglese in un’ipotetica
guerra civile e che termina con lo
slogan: «Solo perché non succede
qui non significa che non accada».
Si pensi solo a che cosa può avere
nel cuore un padre che deve dire ai
figli: «Dobbiamo andare via di qua.
Dobbiamo lasciare la nostra casa e
tutto ciò che abbiamo portato è solo lo stretto indispensabile per sopravvivere», e moltiplicare tutto ciò
per ogni profugo siriano. Solo allora potremo avere una pallida immagine di una tragedia così immane da
avere pochi precedenti nella storia,
a parte la Seconda guerra mondiale.
Perché è proprio una guerra mondiale che stiamo vivendo, anche se
i nostri Paesi (per ora) sono tranquilli e in pace. Che sia la Terza come ha detto Papa Francesco o la
continuazione di quella Quarta
Guerra mondiale (la GWOT, Great
War On Terrorism) è questione da
risolvere in salotto con un buon
698
amaro a fine pasto: i bambini che a
decine di migliaia vivono nelle baraccopoli libanesi o siriane non
hanno questo tipo di problemi.
La «primavera araba»
& i suoi falsi profeti
E, tuttavia, capire che cosa è accaduto e sta accadendo è necessario
per comprendere come evitare la
medesima sorte, perché il nostro
destino di uomini si compie ora per
ora e i capi delle nazioni, al di là dei
relativi meriti, non hanno la possibilità di tornare indietro sulle proprie scelte, né beneficiano di macchine del tempo che possano ripristinare determinate situazioni. Ciò
che è irritante nella gran parte delle
analisi sui fatti della «primavera
araba» è il porsi come «profeti del
giorno dopo», da veri Nostradamus
delle baracche. Per esempio, l’esprimere il proprio scetticismo sui
«facili entusiasmi» che aveva suscitato il sommovimento del 2011 nei
Paesi arabi è del tutto inutile qualora non si pensi a qual era la situazione in quei fatali mesi invernali.
Era del tutto chiaro che il crollo dei
regimi dittatoriali avrebbe comportato rischi pesantissimi: e, tuttavia,
l’ondata che ha travolto tali regimi
è apparsa, quasi fin da subito, come
inevitabile e i governanti occidentali sono stati costretti ad assecondarla. Si pensi solo a come tutto iniziò:
il 17 dicembre 2010, in Tunisia, dopo essere stato vittima di oltraggi e
soprusi da parte di alcuni poliziotti
(e la più feroce era una donna poliziotto), Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante di verdure privo di licenza si dà fuoco per
protesta nella città di Sidi Bouzid.
Il tunisino Mohamed Bouazizi: la sua morte ha scatenato la Primavera araba.
Muore il 4 gennaio per le ustioni riportate. L’indignazione della piazza
è enorme e sfocia in cortei di protesta che vengono duramente repressi dalla polizia tunisina, con supporto tecnico francese, offerto dall’allora ministra degli Esteri, Michèle Alliot-Marie. La storia la sappiamo: Alliot-Marie diede le dimissioni e poco dopo anche il presidente tunisino Ben Alì dovette lasciare il potere. Le elezioni furono
poi vinte dal partito islamico moderato e il Paese ha ritrovato una propria stabilità. Questo, però, è l’unico caso di successo della primavera
araba. In Egitto i militari hanno prima perso poi ripreso il potere, estromettendo i Fratelli musulmani e difendendo, di fatto, la maggioranza
degli egiziani che non si sentiva
rappresentata dal partito islamico.
In Marocco e in Giordania il prestigio delle monarchie ha retto bene,
per ora, ma altrove è stata ed è guerra civile. In Bahrein la rivolta degli
sciiti è stata repressa dall’esercito
saudita, ma in Libia la guerra ha
portato al rovesciamento del regime
di Gheddafi e alla sua brutale esecuzione poco dopo la cattura. Da
notare che, nel caso libico, i rivoltosi sono stati appoggiati dai Paesi
europei, fra cui Francia e Italia, che
compresero come il rais fosse ormai perdente. A questo intervento
militare non è seguito un supporto
politico tale da evitare la frantumazione del Paese, oggi di fatto, diviso secondo logiche tribali. Oggi, di
fronte al fatto che la Libia è, ormai,
uno Stato fallito, si rimpiangono i
tempi del rais ma c’è da chiedersi,
nella primavera del 2011, quale politica si doveva adottare: l’appoggio
al dittatore, data la sua nota brutalità sarebbe stato moralmente squalificante per l’Europa e l’avrebbe
messa in cattiva luce rispetto a insorti che, prima o poi, avrebbero
avuto la meglio. In altre parole, è
mancato l’impegno politico mentre
c’è stato solo quello militare.
La dittatura
degli Assad
Quanto alla Siria, la fama di spietatezza degli Assad è fin troppo nota,
così come sono noti e non smentibili fenomeni di corruzione sistematica e di controllo totalitario sulla società. Gli Assad basano il proprio potere sulla minoranza alawita, una setta sciita in contrasto con
la maggioranza sunnita del Paese. I
cristiani, anch’essi minoranza, sono tollerati e godono di una relativa libertà sicuramente maggiore
che in Arabia Saudita o altri Paesi
islamici. Questa tolleranza, tuttavia, è come sempre funzionale all’unica cosa che importi veramente
al governo siriano, e cioè la conservazione del potere, tenendo conto
che, in caso di sconfitta, l’esilio è la
minore delle disgrazie.
Basta tutto ciò a volere la fine di un
regime da parte dell’Occidente
che, quando gli conviene, tollera
qualsiasi nefandezza? Evidentemente no, ma non si può nemmeno
credere che la rivolta di tanta parte
Dinastia al potere: manifestazione con i ritratti di Bashar al-Assad, attuale presidente della Siria, e del suo predecessore, il padre Hafiz alAssad, morto il 17 giugno del 2000, dopo quasi 30 anni di dittatura.
della società siriana contro il dominio degli Assad sia dovuta soltanto
a intrighi di potenze estere con
l’immancabile CIA sempre presente o che la lotta sia tra un governo
che si è macchiato di crimini indicibili e criminali che tagliano teste
e gole con il più ilare entusiasmo.
Si tratta di un’estremizzazione che,
qui in Italia, conosciamo molto bene dato che sono gli stessi argomenti di propaganda utilizzati dai
fascisti contro la Resistenza, composta, come ognun ben sa, da terroristi comunisti all’80%. Una fandonia a cui troppi italiani credono ciecamente ancora oggi.
2010-2012: genesi
di un mattatoio
Per la Siria ci si dovrebbe chiedere
come si è arrivati a questo mattatoio
dal quale è emersa la spaventosa
realtà dello Stato islamico (IS o
ISIS). Tutto comincia a Damasco il
15 marzo 2011 quando una manifestazione di protesta, tesa alla liberazione di prigionieri politici, viene
dispersa dalla polizia. Le manifestazioni durano anche nei giorni
successivi e il governo siriano, come più volte farà negli anni successivi, annuncia riforme che non verranno mai fatte, né i siriani si aspettano qualcosa da un regime del tut-
to privo di scrupoli e per niente disposto a qualsiasi forma di mediazione. Le proteste, disarmate, continuano nei mesi successivi, ma la repressione è sempre più feroce e le
vittime si contano a centinaia già in
aprile. Proprio l’11 aprile 2011 si
verifica il primo episodio di resistenza armata con l’uccisione di 9
poliziotti nel Nord del Paese. Al 14
giugno, tre mesi dopo l’inizio delle
proteste, risultano uccisi 1.300 siriani dalla polizia o da spietati reparti paramilitari, gli «Shabab»,
mentre le persone arrestate sono
10mila e altri 8.500 sono già fuggiti in Turchia. La durezza della repressione ormai non lascia più scelta anche perché un numero sempre
maggiore di soldati sceglie di non
sparare sui civili e di rivolgere le
proprie armi contro gli ufficiali o
semplicemente di disertare. Ma la
diserzione si paga sempre con la
morte ed è allora che si costruisce il
primo nucleo del Free Syrian Army
(FSA), il 26 luglio 2011. Da questa
data inizia la resistenza armata contro le forze governative con l’andamento caotico di tutte le guerre civili. Le forze ribelli sono concentrate soprattutto nel Nord del Paese,
dove sfruttano l’aiuto della Turchia,
da sempre nemica del governo di
Damasco, e puntano alla conquista
delle città dove è più facile difendersi in una lotta casa per casa. La-
699
takia, Homs, Aleppo, la stessa Damasco diventeranno tante Stalingrado. Come in ogni lotta partigiana, i ribelli cercano di guadagnare
l’accesso ai confini con Paesi amici
o di conquistare basi militari per fare bottino di armi pesanti. Accanto
al FSA, composto e guidato da militari, si formano altri eserciti come il
Fronte Islamico o il Fronte Al Nusra, composto da estremisti radicali
musulmani affiliati ad Al Qaeda, ed
è interessante notare come, secondo
molte testimonianze, il formarsi di
tali milizie islamiche sia stato permesso dallo stesso governo siriano.
Poche settimane dopo l’inizio dell’insurrezione furono liberati centinaia di questi estremisti radicali secondo un calcolo machiavellico che
si può solo presumere ma i cui risultati sono abbastanza certi. Le milizie islamiche, con i loro atti criminosi, sono diventate, in effetti, il
simbolo stesso della resistenza siriana, a volte combattendo contro lo
stesso FSA. Per tutto il 2012, infatti,
il FSA consegue alcune vittorie,
conquistando città e basi aeree che
poi finisce per perdere di fronte alla
strapotenza militare siriana.
Il Papa & la flebile
diplomazia di pace
Nel 2103 le sconfitte subìte fanno
sì che il territorio controllato dall’FSA sia ristretto ad alcune zone
settentrionali del Paese, soprattutto
nella provincia di Idlib, al confine
con la Turchia, mentre le milizie islamiche sostenute e finanziate da
Arabia Saudita e dagli emirati del
Golfo conseguono notevoli successi controbilanciati dalle offensive
dell’esercito siriano sostenuto sia
da personale iraniano appartenente
alle milizie basij e ai reparti speciali Al Qods sia, soprattutto, dalle milizie di hezbollah, che dal Libano
attaccano i ribelli e vincono una
grande e sanguinosa battaglia ad Al
Qusair. Sempre nel 2013, però, le
forze governative subiscono alcune
dure sconfitte. Si ha l’impressione
che, qualora l’esercito siriano si
concentri per organizzare delle
700
controffensive, debba subire attacchi dove rimane più debole, così
che la somma di vittorie e sconfitte
è quasi pari allo zero. Così Aleppo
rimane in mano ribelle e la lotta
sembra essere destinata a durare all’infinito. In campo internazionale
l’unica organizzazione che potrebbe avere la legittimità per intervenire è l’ONU, che però viene sistematicamente bloccata di veti di
Russia e Cina. I motivi di questa
opposizione sono diversi, ma è
probabile vi sia il timore di legittimare un futuro intervento dell’ONU
qualora dovessero scoppiare rivolte simili a opera delle minoranze
musulmane, per esempio, in Cecenia o a opera della minoranza uighura nella Cina occidentale.
Un piano di pace dal contenuto velleitario e buonista, varato dal ex segretario dell’ONU Kofi Annan fallisce completamente mentre l’Occidente, Stati Uniti in testa, appoggia
i ribelli, spesso finendo per favorire
proprio l’estremismo islamico. Nell’agosto 2013 un attacco chimico
nei sobborghi di Damasco provoca
almeno 635 morti. Ribelli e governo si accusano reciprocamente dei
aver scatenato l’attacco sulla popolazione civile e un’indagine indipendente non arriva ad alcun risultato concreto. Tanto basta però perché la macchina da guerra di Stai
Uniti, Francia e Inghilterra si metta
in moto per quella che sembra ormai un’operazione improcrastinabile: abbattere il regime siriano con
la forza come è stato fatto con
Gheddafi. C’è però una fondamentale differenza: a Tartus c’è un’intera flotta russa ed è impossibile attaccare le installazioni siriane senza
coinvolgere anche i russi, con il rischio di un conflitto fra grandi potenze. Il mondo trattiene il respiro e
Papa Francesco indice per il 7 settembre una veglia di preghiera per
la pace: una settimana dopo la diplomazia ha la meglio sulle armi e
viene negoziata la distruzione delle
armi chimiche da parte di Assad.
Bisogna ammetterlo, anche se è necessario vergognarsi: dopo quell’accordo la Siria è tornata al suo
macello quotidiano nella nostra to-
tale indifferenza, risvegliata solo
provvisoriamente dalle testimonianze di uomini coraggiosi come
Domenico Quirico.
L’ISIS: il califfato
di Al Baghdadi
Già dall’estate del 2013, tuttavia,
stava prendendo piede una nuova
organizzazione, fino ad allora poco
attaccata dalle forze governative e
che aveva dimostrato la propria aggressività combattendo contro il
FSA, contro i curdi o anche contro
lo stesso fronte islamico. Si trattava
dell’ISIS (stato islamico dell’Iraq e
del levante) o ISIL o, attualmente,
più semplicemente IS, Stato islamico. Le sue origini vanno fatte risalire a un altro tagliateste come Amu
Musab Al Zarqawi, che gli americani fecero saltare in aria con un
missile guidato. Già da allora i metodi di Al Zarqawi riuscirono a
scandalizzare mammolette come
Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri. Con la morte di Bin Laden
e la sostanziale sconfitta di Al Qaeda nella lotta condotta contro il
mondo intero, lo Stato islamico
fondato da Abu Bakr al Baghdadi è
diventato di fatto il punto di riferimento per i jihadisti di tutto il mondo. Va detto, per inciso, che rimane
un grande mistero il fatto che al
Baghdadi sia stato rilasciato dalle
autorità americane nel 2009 con
una decisione che ha lasciato stupiti molti ufficiali statunitensi.
L’IS è diventato il protagonista delle vicende medio orientali iniziando da una sconfitta, quando il FSA
è riuscito a scacciarlo da Raqqa,
mentre anche Al Nusra è riuscito a
buttarlo fuori da Idlib. Per nulla
scoraggiato, Al Baghdadi ha attaccato dove la preda era più ghiotta e
il nemico più debole, cioè l’Iraq
settentrionale. Un calcolo notevole,
in quanto IS ha trovato l’appoggio
delle tribù sunnite penalizzate dalla
politica pro sciita del governo di
Baghdad. L’esercito iracheno si è
squagliato come neve al sole e l’IS
si è trovato in possesso di uno Stato grande come il Belgio, con risor-
La battaglia di Kobane
se petrolifere ingenti e possibilità
di autofinanziamento difficilmente
calcolabili. I successi dell’IS non
devono stupire. La sua tattica somiglia a quelle degli eserciti della prima conquista islamica: scorrerie in
profondità, attacchi nei punti deboli e nelle risorse del nemico, indebolimento del suo potenziale militare, ritirate strategiche di fronte a
preponderanza nemica e poi ritorni
offensivi con mobilità pari alla ferocia. Si tratta di colonne di un centinaio di mezzi, quasi sempre Pick
up su cui sono piazzate armi pesanti o anticarro: una tattica adottata
dall’esercito del Ciad, addestrato
dai francesi contro le colonne corazzate di Gheddafi nel 1978.
L’IS ha introdotto un livello di spietatezza che il mondo non conosceva dal nazismo, tanto che, in confronto a questi tagliagole, lo stesso
Osama Bin Laden sembra un cavaliere della Tavola Rotonda. Massacri sistematici di cristiani e yazidi
hanno inorridito il mondo che, ora,
sembra deciso a contrastare un
esercito che, secondo alcune stime,
ammonta già a 100mila uomini, in
gran parte sunniti dell’Iraq settentrionale. Un temporaneo scacco
contro i curdi è stato compensato da
altre vittorie e l’iniziativa appare
sempre in mano ad al Baghdadi.
Il 4 ottobre 2014, le forze dell’IS sono entrate nella città curda di Koba-
ne, al confine con la Turchia. I curdi, oggi, sembrano gli unici in grado di contrastare, non certo di sconfiggere, questo esercito nero che
pare invincibile. Sicuramente gli attacchi aerei anglo-americani e francesi, insieme a quelli di apparecchi
arabi, non sembrano in grado di
contrastare più di tanto l’avanzata
di IS. La situazione potrebbe cambiare in modo totalmente imprevedibile nei prossimi giorni qualora il
governo turco mantenesse l’impegno preso di difendere Kobane.
Eroismo curdo &
Occidente immorale
Ora, l’esercito turco, di gran lunga
il più numeroso e combattivo di tutta la NATO, rappresentante di una
tradizione guerriera ottomana mai
venuta meno (ancora si ricordano le
gesta dei turchi durante la guerra di
Corea del 1950-1953), è sicuramente in grado di sbaragliare l’IS,
ma nella risoluzione votata dal parlamento turco c’è un inghippo non
da poco: il vero nemico della Turchia resta la Siria e viene da pensare che per gli Stati Uniti sia la stessa cosa. Un intervento contro l’IS,
necessario e legittimo, almeno moralmente, comporterà anche una resa dei conti con le forze siriane, ripresentando le questioni sollevate
nel settembre 2013. Se la Turchia,
Paese NATO, dovesse essere coinvolta in scontri con forze russe,
l’art. 5 del trattato che prevede il
mutuo soccorso dei Paesi alleati sarà reso efficace, sia pure con le limitazioni in esso previste?
Mentre scrivo la battaglia per Kobane continua e l’avanzata dell’IS
sembra tentennare. La resistenza
dei curdi stava per essere schiacciata, con i turchi alla frontiera a guardare senza intervenire, in un atteggiamento simile a quello dei sovietici davanti a Varsavia nel 1944,
quando lasciarono che i nazisti
schiacciassero i partigiani anticomunisti. In questo quadro di disperazione, un segnale di riscossa è
venuto dalle donne curde, decise a
morire piuttosto che essere prese
prigioniere. Una giovane soldatessa, Arin Mirkan, madre di due figlie, mentre stava per essere sopraffatta si è fatta saltare in aria con un
blindato di IS e 16 nemici. Sui giornali occidentali hanno definito il
gesto «kamikaze», ignorando tutta
la tradizione di eroismo che è propria dell’Occidente. Anche questo è
il segno della nostra bancarotta morale. Una maledizione cinese augurava di «vivere in tempi interessanti»: a dispetto della nostra disgustosa distrazione, questi lo sono per
davvero.
Alberto Leoni
701
INTERVISTE
Gaza: il presente & il futuro
Colloquio con il Cancelliere del Patriarca latino di Gerusalemme
Abouna George Ayoub è nato a
Reineh, un villaggio alle porte di
Nazareth. Dopo aver conseguito la
laurea in Architettura all’Università
di Haifa, ha lavorato per alcuni anni anche in un cantiere edile, il cui
titolare è il padre. La sua è stata una
vocazione adulta e ha scelto di entrare nel seminario di Beit Jala del
Patriarcato latino di Gerusalemme
per diventare sacerdote. Dopo l’ordinazione sacerdotale è stato nominato vicario parrocchiale a Madaba,
in Giordania. Parla cinque lingue:
l’ebraico, l’arabo, il francese, l’inglese e l’italiano. Il patriarca Fouad
Twal l’ha voluto al suo fianco e da
tre anni guida la «macchina» della
Chiesa Madre, con il ruolo di Cancelliere e Segretario del Patriarca. È
stato tra i principali organizzatori
della visita di Papa Francesco in
Terra Santa ricevendo i complimenti dalle autorità sia israeliane
sia palestinesi. La sua giornata inizia alle 6.30 con la celebrazione
della Messa nella Casa Madre delle
Suore del Rosario a Bet-Hanina,
una frazione di Gerusalemme,
spesso teatro di scontri tra palestinesi e israeliani. Chiude la porta del
suo ufficio alle 19, dopo un breve
colloquio di aggiornamento quotidiano con Sua Beatitudine.
Ha vissuto la guerra, tra Israele e
Gaza, passo dopo passo, tenendo i
contatti con i religiosi e le suore
che vivono in quella martoriata terra. Ora coordina, tra l’altro, assieme all’economo patriarcale padre
Imad Twal, gli aiuti per la popolazione palestinese di Gaza. «È stata
una guerra senza esclusione di colpi da ambo le parti: oltre duemila
morti fra i palestinesi (di cui il 70%
civili, secondo stime ONU) e sessantasette fra gli israeliani (64 mili-
702
tari e 3 civili). Una guerra assurda.
Credo, però, che non si sia trattato
dell’ennesimo e ricorrente scontro
tra israeliani e palestinesi, bensì di
un’azione militare da collocare in
quel contesto che da qualche tempo sta incendiando il Nord Africa,
il Levante e tutto il Medio Oriente.
Preghiamo Dio che i venti di guerra cessino presto e si possa ritornare al tavolo delle trattative per dare
a questa regione una stabilità duratura, sia politica sia sociale».
Missionari
nell’apocalisse
l Padre George, che cosa ha visto a Gaza? Quando siamo arrivati a Gaza con mons. William Shomali, con l’economo padre Imad e
con la superiora generale delle Suore del Rosario, Madre Ines Al-Yacoub, siamo stati accolti al posto di
blocco di Erez, da una delegazione
della parrocchia, guidata da padre
Mario Da Silva, vicario parrocchiale. Il parroco, George Hernandez,
non era ancora tornato da Roma,
dove era stato ricevuto in udienza
dal Santo Padre. In auto abbiamo
attraversato il quartiere di Shejaiya
di Gaza City e costatato l’enorme
devastazione; era come l’aspettavamo: uno scenario apocalittico, solo
rovine, macerie e centinaia di case
rase al suolo o bruciate.
l E la popolazione? Abbiamo incontrato alcune famiglie che hanno
condiviso con noi il loro dramma.
Molti esprimevano la loro contrarietà nei confronti di Hamas e dell’offensiva israeliana. La guerra, secondo loro, li ha lasciati perdenti e
senza un’abitazione. Abbiamo visto
persone che soffrono per la scarsità
d’acqua, gente in fila a riempire
bottiglie e recipienti dalle cisterne
messe a disposizione, per strada,
dalla Caritas di Gerusalemme. Abbiamo visto giovani e adolescenti
che rovistavano tra le rovine alla ricerca di ferro o di qualsiasi altro oggetto di valore da poter rivendere.
l A Gaza, il Patriarcato ha una
parrocchia e svolgono la loro
missione anche delle suore. Grazie alla Madonna, Regina della Palestina, Nostro Signore non ci ha
abbandonato. Abbiamo visitato le
Suore della Carità di Madre Teresa,
rimaste al loro posto durante la
guerra, per seguire una trentina di
disabili e una quindicina di anziani.
Erano sorridenti e felici per il loro
lavoro. Una notte, sono state invitate ad abbandonare la loro casa per
un possibile bombardamento. Ma
grazie all’intervento dell’Ambasciata Italiana, sono potute rimanere nella loro casa, con i loro assistiti. Era l’unica soluzione: non sarebbero state in grado di trovare un altro posto protetto sotto i bombardamenti. In seguito, abbiamo visitato
la casa delle religiose del Verbo Incarnato. Il loro alloggio, restaurato
di recente, è stato colpito dai frammenti di un’esplosione e ora necessita di un’altra ristrutturazione. Abbiamo poi incontrato Alessio, vescovo ortodosso di Gaza, di origine
greca. Come un buon pastore, durante la guerra, è rimasto nella sua
parrocchia. Ci ha raccontato che,
nel bel mezzo del conflitto, durante il Ramadan, ogni sera ha aperto
la sua chiesa ai musulmani della
zona per permettere loro di rompere il digiuno, con un pasto caldo.
Abbiamo visitato l’ospedale angli-
metterle a regime e poter accogliere gli studenti. Prevediamo inoltre
gravi problemi finanziari, per il fatto che le famiglie degli allievi non
saranno in grado di pagare le rette
scolastiche e bisognerà trovare il
modo di aiutarle.
Don Abouna George
tra le rovine di Gaza
cano Al’ali che ha ospitato e curato
4.000 feriti. Ci siamo fermati presso le Suore del Rosario, la cui
scuola ha subito tre esplosioni, meno gravi questa volta, rispetto alla
precedente guerra.
l Una vera e propria maratona.
Direi di sì. A Gaza siamo arrivati
molto presto, non potendo fermarci oltre le due del pomeriggio, per
la chiusura anticipata del valico di
Erez. Per questo non ci è stato possibile visitare la nostra scuola parrocchiale dove, durante tutto il conflitto, è stato ospitato e assistito dalla Caritas circa un migliaio di persone rimaste senza casa.
l Qual è il sentimento predominante tra la gente di Gaza? Paura, disperazione? In effetti, è un
paradosso: ci aspettavamo di imbatterci in persone tristi, che si lamentavano, siamo invece rimasti
sorpresi nell’incontrare persone coraggiose, che hanno ripreso la vita
con decisione. La gente sta gradualmente tornando al lavoro. I pescatori hanno ritrovato un po’ di
speranza: escono alle sei di sera e
ritornano all’alba, con una pesca
abbondante e con varietà di pesci
mai viste prima. C’è chi dice che
già alle otto del mattino non si trova più pesce al mercato ittico. In effetti, abbiamo visto brillare la spe-
ranza negli occhi di coloro che abbiamo incontrato e non la disperazione che ci aspettavamo.
Solo 1500
cristiani rimasti
l Ci sarà un futuro per queste
persone? L’anno scolastico è già
iniziato. Quando si potrà tornare
a scuola a Gaza? Più di 30mila case sono state distrutte. Il numero
dei rifugiati che ha perso le proprie
abitazioni si aggira più o meno a
350mila. C’è chi dorme ancora nelle scuole dell’ONU o presso genitori e parenti. Ho visto anche persone
che dormono per strada su materassi di fortuna, in attesa delle tende, che l’ONU dovrebbe inviare prima dell’inverno. Si parla di tende,
in attesa della ricostruzione di Gaza, che dovrebbe durare anni e costare miliardi di dollari. Per quanto
riguarda il nuovo anno scolastico,
probabilmente è impossibile che
possa iniziare regolarmente. Le
scuole statali, invece, dovrebbero
riaprire prima, non essendo state
colpite dai bombardamenti. Le
scuole dell’ONU, dal canto loro, sono state le più bombardate e serviranno alcune settimane per sistemarle. Per quanto riguarda le nostre istituzioni scolastiche, abbiamo bisogno di almeno un mese per
l Qual è il ruolo della Chiesa,
delle comunità e delle associazioni religiose cristiane nell’aiuto
umanitario? La Chiesa ha assunto
un ruolo attivo durante e dopo il
conflitto: ortodossi, anglicani e musulmani hanno collaborato con la
Chiesa cattolica e con le sue agenzie umanitarie, tra cui la Caritas, il
Catholic Relief Services e la Pontifical Mission che hanno lavorato a
fianco di altre associazioni cristiane
come il World Vision. Tutti hanno
fatto un ottimo lavoro di distribuzione di acqua, pane, coperte, pasti
caldi e farmaci. Sono anche riusciti
a ottenere carburante per gli ospedali di Gaza, dopo che la centrale
era stata gravemente danneggiata.
Ci sono, oggigiorno, dei generatori
che forniscono l’elettricità.
l Il popolo di Gaza potrà ancora
avere una speranza? Dopo tre
guerre consecutive, interrotte da
brevi tregue, gli abitanti di Gaza
hanno perso la speranza e credono
poco alla pace. I cristiani, ridotti a
meno di 1.500 unità, non pensano
ad altro che a lasciare questa terra.
Ma c’è ancora qualcuno che crede
nella pace. Si tratta di coloro che
pensano di aver vinto la guerra e di
poter presto godere di tutti i vantaggi di questa vittoria: accesso libero, creazione di un porto e di un
aeroporto. I fatti e l’avvenire soprattutto diranno chi ha vinto. La
vittoria in verità sarà solamente politica o diplomatica, perché dal
punto di vista militare sono tutti
perdenti. I negoziati dovrebbero
iniziare a settembre: chi otterrà di
più avrà «vinto» la guerra. Quanto
a noi, preghiamo che questa sia
l’ultima guerra di Gaza e che possa
affermarsi la pace. Questa è la nostra sola speranza.
Nicola Scopelliti
703
OSSERVATORIO D’EUROPA
La squadra di Junker & la Scozia
Con la composizione della sua
Commissione e i portafogli assegnati a ciascuno dei 27 Commissari, di cui 7 avranno le funzioni
di vicepresidente, il Presidente
eletto, il lussemburghese JeanClaude Junker, conta di realizzare un programma ambizioso. La
sua «squadra», in primis, dovrà
convincere i cittadini europei che
la situazione dell’UE cambierà.
Junker, forse ispirato dai recenti
Campionati di calcio in Brasile,
ha fatto spesso riferimento alla
«squadra» e ai suoi giocatori.
Uno solo ha una carica calcistica
definita: il «rigorista» finlandese
Jyrki Katainen (42 anni) vicepresidente incaricato dell’Occupazione, della crescita, degli investimenti e della competitività. Il
«rigorista» (così definito non
perché sia bravo a mettere la palla in rete dagli 11 metri, ma perché è avvinghiato come un salmone al rigore circa il rispetto
dei dettami del Patto di stabilità)
ha avuto subito «cortesi» battibecchi con Matteo Renzi, che richiede (come altri Paesi, per
esempio la Francia) una certa
flessibilità nel patto, pur rispettando, ha confermato Renzi, che
l’Italia a fine anno avrà un deficit
di bilancio al di sotto del 3%.
Come calcolare
la flessibilità
La flessibilità può essere calcolata tenendo conto anche degli «investimenti», le spese per il «sociale», come scuole, ospedali, riducendo il deficit al di sotto del
3% del PIL. La stessa posizione è
stata presa dal ministro Carlo Pa-
704
doan, nella riunione dei ministri
finanziari dei 18 Paesi che hanno
adottato l’euro, convocata dal nostro ministro in qualità di presidente semestrale dell’Eurogruppo, ai primi di settembre a Milano
(con visita ai cantieri dell’Expo
2015). Peraltro, si teme che i lavori non vengano terminati in
tempo per l’apertura dell’Expo,
anche per i vari scandali per
«mazzette» consegnate ad alti
funzionari che hanno dovuto dimettersi (o cambiar casa, andando in prigione), finendo col dilungarsi per anni, come la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, che è una vera «anomalia» italiana alla quale nessun
governo è riuscito a porre in essere un rimedio radicale.
La «squadra» di Junker dovrà
concentrarsi sulle grandi sfide politiche che l’Europa deve affrontare: reinserire le persone in posti di
lavoro dignitosi; stimolare maggiori investimenti; assicurare nuovi prestiti bancari all’economia
reale; creare un mercato digitale
connesso; attuare una politica
estera credibile; assicurare l’indipendenza dell’Europa in materia
di sicurezza energetica. Alcuni
commissari temono di essere
«schiacciati» dai sette vicepresidenti (più esperti o più potenti),
che avranno funzioni di team leader, anche se Junker ha cercato di
riassicurare che non vi sono commissari di prima o seconda classe.
Se il capitano della squadra, Junker, sarà assente, il suo braccio
destro sarà il vicepresidente olandese Frans Timmermans che dovrà calmare i litigi, senza estrarre
il cartellino rosso. Il primo vicepresidente avrà anche il ruolo di
«Custode della Carta dei Diritti
fondamentali e dello Stato di diritto» in tutte le attività della
Commissione.
Come avevano richiesto alla
Commissione, con forza, Matteo
Renzi e il ministro degli Interni,
Angelino Alfano, dopo che l’Italia
ha affrontato da sola un inatteso e
ininterrotto afflusso di emigranti,
nessun aiuto è venuto da Bruxelles. La visita, del tutto inutile, del
presidente della Commissione europea Barroso accompagnato dalla gelida commissaria svedese,
Cecilia Malmström, a Pantelleria
nella primavera scorsa, non ha indotto la Commissione a stanziare
nemmeno un euro per l’Italia.
Junker, tuttavia, ha mantenuto la
promessa, fatta a Renzi, di un
commissario per i migranti, e ha
nominato il greco Dimitris Avramopoulos.
Le severe audizioni
del Parlamento
Ciascun commissario, meno il
Presidente Junker, sarà sottoposto
a una severa «audizione» dalla
Commissione del Parlamento europeo competente per i dossier affidati al nominando commissario.
L’audizione, oltre che tecnica, può
avere risvolti politici o personali:
si ricorda il caso del ministro Rocco Buttiglione, «bocciato» per
aver difeso alcuni suoi princìpi
morali che scatenarono l’ostilità
dei radicali e di alcuni socialisti.
Dopo le audizioni di tutti i nominandi commissari l’intera «squadra» Junker si presenterà, a fine
ottobre, davanti al Parlamento
europeo per l’approvazione defi-
ma non implica la fine delle rivendicazioni scozzesi, malgrado
le concessioni, messe frettolosamente sul tappeto del negoziato
dal governo di David Cameron,
quando appariva favorito il minaccioso «Sì». Come successore
di Alex Salmond, sia al governo
sia alla testa del partito, viene pronosticato il vicepremier Nicola
Sturgeon (44 anni) che è l’astro
nascente di Holyroad, sede delle
istituzioni scozzesi.
Il presidente eletto della Commissione europea, il belga JeanClaude Junker, osserva con qualche perplessità un’ispirata
cancelliera tedesca Angela Merkel.
nitiva della Commissione, che
dovrebbe entrare in funzione il 1°
novembre, per cinque anni, salvo
imprevisti degli europarlamentari, con critiche su uno o l’altro
dei commissari.
10 lezioni dal
referendum scozzese
Per tutta la notte del 18-19 settembre gli scozzesi sono rimasti
attenti alle notizie diffuse dalle
stazioni radio e televisive che aggiornavano ininterrottamente sui
risultati del referendum che chiedeva agli scozzesi se desideravano l’indipendenza dalla Gran
Bretagna o rimanere ancora legati a Londra, situazione che dura
da tre secoli (1703).
I risultati sono stati più netti delle previsioni: con un’affluenza
record di oltre l’85%, si sono dichiarati favorevoli al «No» per
l’indipendenza dal Regno Unito
il 55,3% dei votanti; in favore del
«Sì» all’indipendenza da Londra,
il 44,7%. Qualche osservazione:
¶ Il Vallo di Adriano (Vallum
Hadriani), costruito su ordine
dell’Imperatore romano Adriano,
agli inizi del II sec. d.C., per
bloccare le incursioni dei Pitti
che scendevano dal Nord, non sarà rinforzato poiché la Scozia
continuerà a far parte della Gran
Bretagna. Il muro costruito dai
soldati romani è lungo 120 km
(pari a 80 miglia romane) ed è rimasto pressoché intatto specie
nella parte centrale. All’epoca, il
Vallo segnava la linea di spartizione tra Inghilterra e Caledonia
(l’odierna Scozia) ed era il confine più pesantemente fortificato di
tutto l’impero, il che è dimenticato sovente nei libri di storia. È
stato dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
· La votazione si è svolta con
ordine, con canti, sventolio di
bandiere e bevute di birra. Incidenti pochissimi, morti nessuno,
un paio di feriti, inciampati sui
cocci di bicchieri caduti sul pavimento dei Pub. I «Sì» e i «No»
erano rimasti quasi appaiati fino
all’alba, finché il pieno sole ha
sorriso alla vittoria del «No».
¸ Da ammirare le dimissioni, già
annunciate per novembre, di Alex
Salmond da Capo del governo
(First Minister) e da leader dello
SNP (Scottisch national party). Il
risultato del referendum del 18
settembre segna la sconfitta (temporanea?) dell’indipendentismo,
¹ Il premier britannico David
Cameron ha minacciato più volte
l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, con un referendum da tenersi nel 2017. Tattica per problemi interni o volontà di porre
l’isola al di fuori dell’Europa in
costruzione? Che ne sarà della
Scozia, se la Gran Bretagna abbandonerà l’UE? La Scozia rinuncerebbe al suo desiderio di
adesione all’UE e alla NATO? Si
apre per Londra un periodo costituente molto intenso, che interessa anche alcuni stati dell’UE. Tra
le rivendicazioni degli indipendentisti scozzesi figuravano la
spartizione con Londra dei mezzi
militari e, soprattutto, il ritiro
della flotta di sottomarini nucleari alla fonda nei pressi di Glasgow (che sarebbe costato molti
milioni di sterline).
º La Scozia! Le immagini più
tradizionali che colpiscono gli europei sono gli scozzesi con le cornamuse, suonate nelle feste o alla
testa di battaglioni per spronare i
soldati alla battaglia. Vi è poi il
kilt, la gonna a quadretti di diversi colori e intrecci che indicano
l’appartenenza a un dato clan. Secondo la tradizione, alcuni secoli
fa i capitani delle varie milizie
decisero, per i soldati, di abbandonare i pantaloni per adottare il
kilt, che con i suoi colori permetteva di identificare le milizie alleate e di correre più agilmente.
Gli scozzesi, forti guerrieri nel
passato e nel presente, sono anche audaci pescatori nelle acque
che circondano le numerose isole
705
dell’Oceano Atlantico vicine alla
Scozia. Alcune isole sono estese
e abitate, come le Isole Shetland,
le Ebridi, le Orcadi, site di fronte
al punta più a nord della Scozia,
Capo Duncansby; altre sono più
piccole ma custodiscono sotto il
fondo marino importanti giacimenti di petrolio, vera ricchezza
per la nazione. Quale nazione?
La Gran Bretagna, le cui compagnie estraggono gran parte del
greggio, lasciando «una piccola
mancia» alla Scozia.
Non dimentichiamo, infine, la
produzione della famosa acquavite di cereali, denominata anche
whiskey, con la «e» che indica
spesso l’alcol irlandese.
» Per rispettare le eredità storiche, le isole del Canale della Manica non fanno parte del «Regno
Unito di Gran Bretagna e Irlanda
del nord», ma dipendono direttamente dalla Corona britannica alla quale furono trasferite dall’allora ducato di Normandia, all’epoca della conquista dell’Inghilterra (1066) compiuta da Guglielmo il conquistatore. Non facendo parte dell’Unione europea
hanno potuto mantenere un regime fiscale particolare che ha favorito uno straordinario sviluppo
delle attività finanziarie. Le isole
hanno un Governatore in rappresentanza del sovrano di Gran
Bretagna e hanno propri organi
legislativi ed esecutivi. La popolazione è di circa 150 mila abitanti. Lingue ufficiali sono l’inglese e il francese; religioni ufficiali, cattolica e protestante. Anche l’Isola di Man non fa parte
del Regno Unito ma dipende direttamente dalla Corona. Dal
1990 la figura del governatore
generale, rappresentante del sovrano del Regno Unito, è stata
sostituita da quella del Presidente
del Parlamento (Tynwald). Le attività finanziarie e le esportazioni
di alcuni beni, come gli alcolici,
sono «Tax free» (senza tasse).
¼ Il referendum scozzese, indipendentemente dal risultato, ha
706
avuto importanti riflessi in altre regioni europee, desiderose di indipendenza o di maggior autonomia.
In Scozia sono stati ammessi a
votare, per la prima volta, anche i
giovani che avevano compiuto i
16 anni. Per votare occorreva risiedere in Scozia o in Inghilterra.
Il voto per corrispondenza non è
stato, per ora, adottato.
La Catalogna aspira sempre di
più all’indipendenza da Madrid.
Il Governo non vuol sentire parlare delle richieste di Barcellona
e nemmeno dell’apertura di negoziati al riguardo. La Catalogna
ha deciso, qualche anno fa, di
sopprimere ufficialmente lo spagnolo e di passare al catalano negli atti pubblici, nelle indicazioni
su piazze e strade.
Anche nel Galles e nella Repubblica dell’Irlanda del Nord, con
capitale Belfast, vi è chi pensa
all’indipendenza. Sono i cattolici ferventi sostenitori di un’unione con la Repubblica d’Irlanda, con capitale Dublino, membro dell’Unione europea, con
l’euro, come in altri 17 Stati dell’UE, e che ha beneficiato, negli
ultimi tre anni di crisi, del sostegno finanziario europeo.
Vi sono anche movimenti indipendentisti nei Paesi Baschi, a cavallo
tra Spagna e Francia, in Corsica e
in altre regioni europee.
½ John Balliol, scozzese, e Filippo IV di Francia, che mantenne
un importante ruolo negli affari
franco-svizzeri e anche inglesi,
firmarono nel 1295 la Auld Alliance (Vecchia Alleanza) tra la
Scozia e la Francia per limitare la
potenza inglese, in funzione
chiaramente antibritannica. Non
vogliamo qui ricordare tutte le
vicende dei rapporti della Scozia
con la Gran Bretagna ma desideriamo segnalare una particolarità
del trattato che nel 1512 estendeva la Auld Alliance: tutti i cittadini diventarono anche cittadini
dell’altro Paese (una specie di
trattato di Shengen sulla libera
circolazione nell’UE, ante litteram). Questa clausola di doppia
cittadinanza fu abrogata in Francia solo quasi quattro secoli dopo
la firma del trattato, nel 1803,
mentre non risulta che sia stata
abrogata anche in Scozia.
¾ Nel XVII secolo la Scozia attraversò un periodo politico agitato anche con un confronto religioso con Carlo I d’Inghilterra
che cercò d’imporre, invano, il
metodo di preghiera usato in Inghilterra alla Chiesa scozzese.
Quest’ ultima reagì con la creazione del National Convenant of the
Church of Scotland e successivamente scoppiarono la «Guerra dei
vescovi», la guerra civile scozzese e la guerra dei tre regni. Dal
punto di vista religioso, in Scozia
vi fu un cristianesimo celtico, seguito da movimenti di paganesimo, di luteranesimo, di calvinismo, dopo la Riforma protestante.
¿ Le grandi riserve di idrocarburi del mare del Nord sono per
nove decimi nel mare scozzese.
La Scozia versa più sterline a
Londra di quante ne riceva, il
che limita la crescita dell’economia della Scozia che altrimenti
sarebbe vicino alle economie dei
Paesi scandinavi. La Scozia dopo tre secoli è stanca di «dormire nel letto di un elefante» e di
essere controllata dai banchieri
della City. I sostenitori nello SNP
del primo ministro Salmond ripetono continuamente: «Vogliamo essere una piccola nazione
pro-europea che difende la pace
e la giustizia, o parte di un grande Paese che entra in guerra
ogni due o tre anni (con militari
scozzesi)?». La Scozia, grazie al
petrolio e alla pesca, come è accaduto alla Norvegia, potrebbe
diventare un Paese ricco.
Né la legislazione di Bruxelles né
il trattato di Lisbona hanno previsto la scissione interna di un Paese dell’UE. Si dovranno studiare
altre forme giuridiche e/o politiche. Auguriamo agli scozzesi un
felice futuro (europeo?).
Giovanni Livi
INQUIETOVIVERE
di Guido Clericetti
707
DIRITTO
Cambiamenti in vista sui diritti umani?
Colloquio con Jean-Pierre Schouppe, premio Cassin 2014
Jean-Pierre Schouppe, nato a Bruxelles nel 1955, è giurista e canonista. Sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei, nel 1982 ha conseguito un Dottorato di ricerca con una tesi sul realismo giuridico (cfr Le réalisme juridique, Kluwer/StoryScientia, Bruxelles 1987). Dal 1989 è professore incaricato presso la Facoltà di
Diritto canonico della Pontificia università della Santa Croce. Qui ha insegnato
dapprima Filosofia del diritto e Diritto patrimoniale canonico e, successivamente fino a oggi, Rapporti tra Chiesa e società civile e Diritti umani. Oltre a numerosi studi di dottrina giuscanonistica (tra i quali, il manuale Elementi di Diritto
patrimoniale canonico, Giuffrè, Milano 20082), ha pubblicato numerosi saggi nei
quali, in una prospettiva giusnaturalistico-classica, approfondisce i temi del realismo giuridico contemporaneo, delle radici e permanenze del diritto naturale nell’ordinamento canonico, dei diritti umani. È stato «Promotore di Giustizia e Difensore del Vincolo» presso il Tribunale Interdiocesano di prima istanza delle Diocesi francofone del Belgio e, nell’aprile 2011, Benedetto XVI l’ha nominato consultore del Pontificio consiglio per i Testi legislativi.
Il giurista, magistrato e diplomatico francese René Cassin (18871976) è stato, com’è noto, fra i
principali redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nonché
Premio Nobel per la Pace (1968).
Forse è significativo che, il 7 luglio 2014, un sacerdote cattolico,
Jean-Pierre Schouppe, docente di
Diritto canonico nella Pontificia
Università della Santa Croce, sia
stato insignito della «menzione
speciale» del premio Cassin
2014, presso il Consiglio d’Europa, per la sua tesi in giurisprudenza difesa nell’Université Panthéon-Assas (Paris II) sul tema
della dimensione istituzionale
della libertà religiosa1. Qualcosa
sta cambiando?
l Prof. Schouppe, il diritto canonico classico cui Lei si richiama, che si basa, anche e soprattutto nel suo riconoscimento del
diritto alla vita e della libertà
religiosa, su una legge morale
708
naturale e immutabile, com’è
potuto arrivare a ricevere un tale «tributo» nell’Aula a Strasburgo? Anche se la giurisprudenza di Strasburgo viene spesso
criticata per qualche sentenza deludente dal punto di vista etico,
rappresenta ciò che oggi si fa di
meglio per la protezione dei diritti fondamentali. La Convenzione
europea dei diritti umani del 1950
riconosce esplicitamente i principali valori della società: protezione della vita, libertà religiosa, matrimonio... A volte, la Corte non
può tutelare quanto ci si aspetterebbe, anche perché a sua volta
deve prendere in considerazione
la legge degli Stati oppure si trova
a dover risolvere un difficile conflitto tra due diritti fondamentali
mediante un delicato bilanciamento. Vi è poi anche la preoccupante sfida dei cosiddetti «nuovi
diritti». Sebbene all’inizio si siano
registrati pochi casi, la tutela della
libertà di religione è diventata un
punto forte di quella giurisprudenza. Perciò, non vi è da meravigliarsi che sia stata premiata una
tesi sulla libertà di religione nell’Aula del Consiglio d’Europa.
l La tesi premiata dall’Istituto
fondato da René Cassin a Strasburgo è intitolata: La dimensione istituzionale della libertà religiosa nella giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Può illustrarci qualche sviluppo evolutivo positivo dal Foro di Strasburgo? Si può ricordare la sentenza Bayatyan c. Armenia che riconosce la possibilità di
fare obiezione di coscienza in materia di servizio militare obbligatorio. Grazie a questo pronunciamento, oggi, l’obiezione di coscienza è riconosciuta anche in altri settori. La libertà di religione
istituzionale – ossia quella spettante ai gruppi religiosi come
complemento necessario della libertà di religione individuale – è
oggetto di una tutela particolarmente efficace qualora sia invocata insieme alla libertà di associazione. Due altri pronunciamenti
della «Grande Camera» di Strasburgo vanno menzionati: Sindicatul c. Romania, che ribadisce il
diritto della gerarchia ortodossa di
rifiutare la creazione di un «sindacato di preti» con esigenti rivendicazioni lavorative, e la sentenza
Fernández Martínez c. Spagna, la
quale riconosce che lo Stato, a richiesta della Chiesa cattolica, può
togliere l’incarico a un prete sposato che insegna religione cattolica in un liceo pubblico. Si vede,
quindi, come la giurisprudenza di
Strasburgo contribuisca all’effettiva applicazione del diritto canonico e dei concordati.
l Nell’agenda istituzionale del-
le Nazioni Unite o dell’Unione
europea, però, i temi e, di recente, anche la questione stessa della libertà religiosa, non trovano
facile accoglienza. Come giudica la situazione attuale? In effetti, l’ambiente generale nelle organizzazioni delle Nazioni Unite e
nell’Unione europea non sembra
molto affidabile per quanto riguarda i temi etici e religiosi, se
non a livello di soft law. Da un lato, infatti, diverse lobby sono artefici di un intenso attivismo per
perseguire i loro scopi particolari
e, dall’altro, vi è un deficit di trasparenza e partecipazione democratica dei cittadini. Basti ricordare il sorprendente veto della Commissione europea all’iniziativa
cittadina denominata Uno di noi
(One of us), firmata da più di un
milione e 700mila europei. Comunque, mi sembra che questo tipo di situazione sia reversibile
con il tempo e dipenda maggiormente dal senso di responsabilità
delle persone con maggiore formazione etica. Più che mai, vi è
bisogno di giovani che si dedichino alla bioetica e alla vita politica!
l Spesso, negli ambienti della
politica e della diplomazia occidentale (a parte, probabilmente, il caso nordamericano che
per radici antiche fa storia a sé),
si tende a considerare il fenomeno religioso per lo più come un
annoso problema di cui liberarsi e da liquidare. Niente a che
vedere, quindi, con una soluzione e una risorsa per lo sviluppo
della società. Che cosa si può fare a suo parere per cambiare
questo deleterio trend? Questo
modo di pensare, mi sembra, corrispondeva piuttosto al contesto
del secolo scorso, ma oggi è sempre più chiara la lungimiranza della celebre frase (forse falsamente?) attribuita allo scrittore francese André Malraux (1901-1976)
secondo cui il secolo XXI sarà religioso o non sarà. I mass-media
sono pieni di notizie, non sempre
buone, ma che hanno a che fare
con la religione. E questo anche in
molti Paesi europei nei quali il laicismo esercita una pressione in
modo «sornione», o non immediatamente evidente. Il laicismo
non va confuso con la sana laicità: non c’è bisogno di ritornare al
regime degli Stati confessionali
cattolici, ma occorre far rispettare
l’autonomia sia delle Chiese sia
degli Stati. Il dualismo cristiano,
che risale a Gesù Cristo, va rispettato. Tuttavia, nel contesto di un
pluralismo religioso, che si dà oggi anche in Italia, abbiamo riscontrato l’esistenza di un «dualismo
plurale».
l Un’idea che era stata avanzata da alcuni osservatori per sensibilizzare le classi dirigenti e
l’opinione pubblica sui temi
della persecuzione religiosa
contemporanea, che colpisce
oggi soprattutto i cristiani, era
quella dell’istituzione di una
«Giornata mondiale della memoria per i martiri cristiani». A
che punto è la proposta? Pensa
che possa servire a qualcosa?
Come ha segnalato Papa Francesco, in questo periodo vi sono forse più martiri che nel II e III secolo d.C. sotto l’Impero romano,
ossia fino al decreto di tolleranza
emanato da Galerio (cioè l’Editto
di Serdica del 311). Questo scandalo richiede una reazione urgente in primo luogo dell’Unione europea, ma anche a livello universale. L’iniziativa alla quale si fa
riferimento potrebbe essere interessante, anche dal punto di vista
ecumenico. Non ho informazioni
concrete sulla sua accoglienza,
ma si può ipotizzare che, se dovesse rimanere una giornata della
memoria riservata ai soli martiri
cristiani, difficilmente sarà accettata a livello mondiale. D’altra
parte, se invece si allarga il concetto, si corre forse il rischio di
un’inopportuna confusione con i
jihadisti che ricercano la morte in
combattimento.
l Un’ultima domanda sul fronte del dialogo e del confronto
con il mondo islamico che rap-
presenta il primo interlocutore
per le comunità cristiane autoctone del Medioriente, tutte duramente perseguitate in questo
periodo. Quali sono le principali difficoltà e quale il giudizio sul
profilo delicato della libertà religiosa in quei Paesi, alla luce
della sua esperienza? Devo confessare che non sono mai andato
nel Medioriente e, in questo senso, non ho alcuna esperienza sul
campo. Per quanto riguarda l’Iraq,
per esempio, può essere interessante il rapporto che il cardinale
Fernando Filoni, delegato del Papa, ha presentato il 1° settembre al
Consiglio dei diritti umani dell’ONU di Ginevra. Mi sembra anche
un motivo di speranza la denuncia
dei crimini del cosiddetto «Stato
islamico» da parte di alcuni capi
musulmani come il Gran Muftì
d’Egitto e il rettore della moschea
di Bordeaux. Anche gli Stati interessati dovrebbero adottare provvedimenti adeguati per proteggere
le minoranze religiose in pericolo.
Più generalmente, mi sembra
molto importante distinguere attentamente tra i musulmani e gli
estremisti musulmani. Nella mia
tesi ho cercato di sottolineare il
contributo delle principali tradizioni religiose alla libertà religiosa. Anche nell’islàm si può trovare qualche testo a favore di detta
libertà. Tuttavia, in questa religione, l’argomento non riveste la
stessa centralità che si rileva nel
cristianesimo. Probabilmente,
l’islàm ha bisogno di riflettere ancora su questa tematica e di fare
un’esperienza parallela a ciò che
per noi è stato il Concilio Vaticano II e il suo principale frutto in
quest’àmbito: la dichiarazione Dignitatis humanae.
A cura di Giuseppe Brienza
& Omar Ebrahime
1 Cfr Jean-Pierre Schouppe, La dimension
institutionnelle de la liberté de religion
dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, Préface de
E. Decaux, Pedone, Paris 2015.
709
FILOSOFIA
Eliot & il neoidealismo anglosassone
Nel maggio scorso The Time Library Supplement (pp. 14-15) ha
pubblicato un estratto da un saggio inedito di Thomas Stearns Eliot (1888-1965), il celebre poeta, drammaturgo e critico angloamericano, autore di The
waste land, Murder in the cathedral e dei Four quartets, nonché
premio Nobel per la letteratura
nel 1948. Tuttavia, non si tratta
di un testo letterario, bensì di uno
scritto di carattere filosofico che
Eliot ha elaborato all’età di 26
anni, quand’era studente al Merton College di Oxford (1914-’15)
e con già alle spalle tre anni di
studi filosofici ad Harvard e uno
alla Sorbona di Parigi. S’intitola
The validity of artificial distinctions1 e aderisce al pensiero di
Francis Herbert Bradley (18461924), che è uno dei principali esponenti del neoidealismo angloamericano, corrente filosofica
che, come dice il nome stesso,
rielabora l’idealismo tedesco.
Vorrei sintetizzare quelle che mi
paiono le tesi principali dello
scritto ed evidenziare il loro grado di vicinanza con la concezione di Bradley esposta nella
sua opera principale, Appearance
and Reality, del 1893.
La filosofia non parta
dall’esperienza
L’intento che Eliot si propone è
così da lui espresso: «Difenderò
le distinzioni convenzionali di
cui si serve la filosofia in quanto
sostengo che siano necessarie,
ritenendo che in metafisica tutte
le distinzioni siano in un certo
senso ugualmente convenziona-
710
li, ma che alcune siano più vere
di altre». E la prima tesi che
espone ha un sapore nettamente
idealistico: «Qualunque spiegazione filosofica che implichi di
trarre uno o più termini dall’uso
quotidiano e di conformare a essi il resto della realtà [...] è una
spiegazione deplorevolmente insufficiente», perché non la si
può provare né imporre agli altri; anzi, può essere sostenuta solo «per fede (by faith)», la quale
reca con sé una certa dose di
scetticismo.
A mio parere, questa tesi si comprende al meglio ricordando che
Bradley rifiuta l’identificazione
hegeliana di pensiero e realtà e
sostiene che la Realtà sia inizialmente colta nel feeling, l’atto di
coscienza ancora indistinto dal
suo oggetto e in cui sono contenute tutte le relazioni tra soggetto e oggetto. Non appena il pensiero discorsivo distingue arbitrariamente l’oggetto dal soggetto ponendoli in relazione cade in
contraddizione: il contenuto dell’esperienza umana così ricostruito dal pensiero è determinato e contraddittorio, perché consiste in una relazione tra qualità,
ma, non essendo la qualità identica alla relazione, dovrà entrare
in relazione con la relazione, ingenerando un processo all’infinito. Pertanto, l’esperienza è pura
apparenza, mentre la realtà è
l’Assoluto.
Teoria, verità
& realtà
Alla luce di ciò, ritengo possibile intendere quest’altra afferma-
zione di Eliot: «La vera ragione,
ritengo, del fallimento di tutti i
voli filosofici non è il loro avventurarsi troppo lontano, ma
l’avventurarsi da soli. L’occhio
dell’honnête homme sulla terra
non li segue. Il filosofo gli parla
dei fenomeni dell’atmosfera, ma
quale ragione ha chi dimora sulla terra di credere che tali asserzioni riguardino il suo mondo? I
significati non si estendono sino
a costruire una scala tra il tuo
cielo e la mia terra. Più il sistema
si estende e più diviene tenue.
Concordo che la verità sia “in
avanti” (forward)2 e non “dietro”
(behind), ma nell’opera di ognuno o di qualsiasi gruppo di pionieri l’avanzamento verso l’articolazione e la completezza è invariabilmente accompagnato da
una perdita di densità e di ricchezza», dove il contrasto tenuedenso equivale a quello tra pensiero e realtà.
Eliot prosegue sostenendo che
una teoria mira ad apprendere la
realtà e che quando si parla dell’uso di un sistema non lo si pensa come vero, perché «se crediamo a una teoria della realtà, non
ha senso assegnarle un uso. Perché? Perché quando o finché crediamo in un sistema, siamo all’interno di esso: non vi è alcuna
“teoria” in quanto la teoria è la
realtà». La teoria del giudizio,
per esempio, è giustificabile solo
per mezzo del sistema che costruiamo su di essa, sicché l’ulteriore sviluppo del sistema coincide con l’uso della teoria.
Anche questo ricorda una tesi di
Bradley, che accetta la teoria hegeliana dell’universale concreto,
secondo cui l’universale è un si-
stema i cui costituenti sono peculiarmente connessi tra loro, e
confuta l’edonismo e il formalismo etico del dovere proponendo una morale fondata sulla realizzazione dell’io infinito, poiché l’io empirico è connesso a
un contesto sociale e perciò fa
parte di un sistema in cui si incarna l’universale concreto e che
è appunto l’io infinito.
Metafisica
& linguaggio
La seconda tesi principale dell’estratto di Eliot è che il mondo
non è semplicemente a disposizione del metafisico per meditare sulla sua natura, bensì è esso
stesso metafisico ed è colmo di
teorie non ancora dispiegate, la
massima parte delle quali non
raggiungerà mai una forma
espressiva articolata. Dal punto
di vista del linguaggio, ciò significa che è solo a momenti e in limitate sfere determinate da scopi
particolari che riusciamo a pensare con chiarezza e coerenza e
ad armonizzare i nostri significati. Per esempio, nella teoria etica
i termini «autorealizzazione»,
«piacere» e «soddisfazione» sono in grado di rendere conto della condotta umana «solo in quanto assomigliano fortemente ai
motivi che imputiamo alle azioni
nostre e altrui o a motivi che sono coscientemente davanti alle
nostre menti». Secondo Eliot, è
pressoché inutile discutere se
l’oggetto ultimo del desiderio sia
il piacere o una realtà o un fatto
o uno stato, perché possono esserlo tutti questi o nessuno di loro. Tuttavia, «isolarne uno e
spiegare il resto nei suoi termini
è a mala pena più sensato che
cercare di tenere ambedue i piedi
in una sola scarpa». Ogni filosofia fa questo e ha ragione di farlo: nella misura in cui i risultati
che essa ottiene possono essere
usati (nel senso suddetto del termine), le sue affermazioni sono
vere. Ogni teoria trova la propria
Thomas Stearns Eliot (1888-1965)
giustificazione nel rifiuto delle
altre teorie, determinando il loro
errore, e trova la propria nemesi
nell’erronea convinzione che conosciamo completamente e immediatamente queste astrazioni
più di qualsiasi altra cosa.
Anche in questo mi sembra di
cogliere un richiamo a Bradley,
secondo il quale la Realtà assoluta, per non essere apparenza,
dev’essere non contraddittoria,
ossia unica.
Nondimeno, la condizione dell’esistenza delle determinazioni
apparenti è l’esistenza dell’Assoluto, sicché esse sono apparenze della Realtà assoluta, che riunifica in sé stessa ciò che il pensiero discorsivo ha diviso, ma lo
riunifica in un feeling superiore a
quello originario.
Eliot con Bradley,
ma con riserve
Così perveniamo alla terza tesi
portante dell’estratto: «Ci si può
chiedere se sia possibile costruire una filosofia senza ammettere
termini costanti in cui risolvere il
resto [...]. Credo che Appearance
and Reality, sia pure con certe riserve3, abbia soddisfatto questo
ideale. Nondimeno, [...] il merito
positivo del libro è che non dispiega alcun risultato positivo.
Dico merito nel senso che quando un filosofo pretende di far
emergere qualche “risultato positivo” formulabile, che dichiara
trionfalmente che la realtà è questa o quella, che qualche scoperta ci informa che niente è qualcos’altro da quanto supponevamo fosse prima che iniziassimo a
filosofare, allora il filosofo sta
semplicemente estraendo dalla
tasca ciò che egli stesso vi ha
messo. Il segno che una filosofia
è vera, ritengo, è il fatto che ci riporta all’esatto punto da cui siamo partiti». Eppure, «in qualche
modo non lo è, ma è un più alto
livello della realtà».
Oltre a richiamare l’idea di
Bradley del feeling nella sua unità e distinzione di livello, per
comprendere l’elogio del merito
del principale testo di Bradley è
necessario richiamarne il fulcro
teoretico: in esso, sulla base del
principio secondo cui la Realtà è
unica e non contraddittoria,
Bradley in primo luogo confuta
l’empirismo, sicché al di fuori
dello spirito non può esserci
realtà alcuna e lo spirito, ossia la
coscienza trascendentale, non è
un fatto e come tale non può essere oggetto della scienza; in secondo luogo distrugge in quanto
autocontraddittorie le qualità primarie e secondarie, la cosa e gli
attributi, la qualità e la relazione,
lo spazio e il tempo, il mutamento, la causazione, l’azione e la
passione, la sostanza e l’identità
delle cose, il male e il bene.
L’Assoluto come spirito è al di là
della personalità come dell’impersonalità e in questo senso
Bradley sostiene di avere eliminato anche Dio e la religione.
Aporie di Eliot
& di Bradley
A conclusione, ritengo condivisibile il giudizio di TLS: l’idealismo di Eliot (e di Bradley) si oppone alla tendenza della maggior
parte dei filosofi attuali di partire dalle categorie dell’esperienza
ordinaria. Le argomentazioni di
Eliot sono più eleganti di quelle
di Bradley, ma meno abilmente
giustificate, sicché la concezione
idealistica di Eliot risulta più asserita che non adeguatamente argomentata.
Anche se non sono un esperto del
neoidealismo anglosassone, non
711
mi pare che sfugga all’errore teoretico di fondo dell’idealismo tedesco. È vero che, se mi soffermo
sul mio pensare, scopro che è
un’attività assoluta: non è in me,
ma io sono in essa, e soprattutto
che è intrascendibile: se anche
penso l’essere, il mondo, come
«esterno» al pensiero, pensandolo
non è più esterno. Ed è vero che
ciò determina la confutazione
dello gnoseologismo moderno,
secondo cui conosciamo idee
mentali e perciò nasce il problema di sapere se la realtà esterna
sia conforme o meno alle nostre
idee, il che conduce all’ammissione contraddittoria dell’inconoscibile «cosa in sé» kantiana, che
penso essere impensabile. Tuttavia, da questo l’idealismo trae che
l’essere è prodotto dal pensiero,
mentre l’essere non è neanche
«interno» al pensiero, poiché senza l’esterno cade anche il suo correlativo, il che implica la confutazione dell’idealismo e la riaffermazione del realismo: il pensiero
è l’autotrasparire dell’essere (Parmenide e Aristotele) che gli è intenzionalmente presente.
Infatti, sebbene Bradley sostituisca al pensiero il feeling, resta l’idea che l’essere sia «interno» allo
spirito, peggiorata dall’eliminazione della dialettica che sola può
identificare gli opposti senza sopprimere la loro differenza.
Matteo Andolfo
1
Il saggio è ora pubblicato nel vol. II di
The Complete Prose of T. S. Eliot: The
Critical Edition, che s’intitola: The Perfect Critic, 1919-1926, edited by Anthony Cuda and Ronald Schuchard, The
Johns Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 2014.
2 In ogni esperienza, dice Eliot, vi è
qualcosa di dato, ma anche sempre una
costruzione ideale, che risulta sotto certi
aspetti ingiustificata e il cui significato è
nella sua «impaziente attesa» (espressa
con il verbo to look forward) di essere
verificata.
3 In una nota marginale Eliot afferma di
non essere in grado di vedere come pervenire all’ammissione che la Realtà è
spirito, l’affermazione con cui si conclude l’opera citata di Bradley.
712
BIOETICA
Le ferite della fecondazione
La Corte Costituzionale, con sentenza del 9 aprile 2014, ha dichiarato incostituzionale il divieto di ricorrere alla fecondazione
eterologa per le coppie sterili,
perché, come dice la sentenza, la
scelta di «diventare genitori e di
formare una famiglia che abbia
anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi».
Vicende come questa mostrano
con dolorosa evidenza l’esistenza
di vuoti legislativi in difesa dei
più deboli. Continua a venir convalidato il principio secondo il
quale «la legge è uguale per tutti», purché quel «tutti» sia costituito da persone che vadano a votare. In questo momento storico
manca qualsiasi forma giuridica
dei nascituri.
La possibilità di poter ricorrere
alla fecondazione eterologa determinerà profonde ferite nel tessuto sociale. Ne abbiamo individuate quattro.
1
Viola i diritti del nascituro.
È l’aspetto più evidente, già
sottolineato dal segretario della
CEI Nunzio Galantino: «Una sentenza che non garantisce i più deboli». La fecondazione eterologa
di fatto «fabbrica artificialmente» un orfano, di padre o di madre a seconda dei casi. Non si
tratta dell’orfano che per un ingrato destino si trova senza uno o
entrambi i genitori e verso il quale è ammirabile qualsiasi gesto di
solidarietà; si tratta di un ragazzo
(o ragazza) che è stato crudelmente e volontariamente privato
dei rapporti con il suo vero padre
(o madre). Un ragazzo (o ragazza) che si domanderà sempre co-
me sarebbe vissuto se fosse stato
educato dal suo vero padre, con il
quale avrebbe, per esempio, potuto condividere quella vocazione musicale (o atletica o altro)
verso la quale si sente particolarmente portato e che non trova riscontro nel genitore adottivo.
Un concepito che si trova nel
grembo materno non è un semplice ammasso di tessuti; è già un
essere umano completo di tutte
quelle caratteristiche, doti, inclinazioni che gli sono state trasmesse dai suoi genitori biologici; ha solo bisogno di venir alimentato dalla madre per crescere
e svilupparsi.
2
Crea squilibrio all’interno
della coppia. Nel caso di
coppie sterili, il gesto più bello e
generoso che esse possano fare è
quello di allevare un orfano. Si
tratta di un gesto che possiamo
definire «simmetrico» perché entrambi i coniugi si trovano ad accogliere questo bambino: un impegno che li consolida nella loro
unione. Al contrario, il ricorso alla fecondazione eterologa è un
atto profondamente asimmetrico:
se l’infertilità è dell’uomo, la
donna potrà avere dalla fecondazione eterologa piena soddisfazione per il suo istinto materno,
mentre il marito si troverà nell’incomoda situazione di esser
coinvolto all’interno di uno strano «ménage à trois». Il film americano Provetta d’amore (The
babymakers, 2012) uscito nelle
sale italiane a luglio 2014, sviluppa una satira particolarmente
mordace nei confronti della fecondazione eterologa: un amico
della coppia sterile, venuto a co-
eterologa
noscenza del loro problema, propone di evitare il fastidioso procedimento della fecondazione artificiale e si offre quindi come
donatore «naturale», unendosi alla donna nel modo più classico.
Al di là delle buone intenzioni e
della generosità dei coniugi, la
fecondazione eterologa è un atto
divisivo della coppia e oggettivamente egoistico nella sua ricerca
di una soluzione unilaterale al
problema dell’infertilità.
3
Viola una volontà popolare
chiaramente espressa. Il referendum abrogativo del giugno
2005 sulla Legge 40 conteneva
espressamente un quesito sulla
fecondazione eterologa. Se sommiamo le persone che non si sono
presentate alle urne a quelle che
hanno votato «no» all’abrogazione di questo punto, possiamo
concludere che il 79,9% degli italiani iscritti a votare si è manifestato contrario a tale pratica. La
Corte Costituzionale (indiscrezioni parlano di un solo voto di
scarto) ha considerato illegittima
questa chiara espressione della
volontà popolare. Al di là di
quanto prescrive l’ordinamento
giuridico italiano, è lecito domandarsi che cosa abbia più significato: una sentenza dei 13 magistrati
della Corte Costituzionale o la
volontà democratica, soprattutto
quando espressa in un modo così
plebiscitario? Il lavoro dei magistrati della Corte, se ben fatto (cosa di cui non dubitiamo), è necessariamente circoscritto: deve rivolgersi al passato per garantire
che le leggi del Parlamento siano
coerenti con i princìpi espressi
dalla Costituzione del 1947. Nel-
la fattispecie della fecondazione
eterologa è inevitabile un alto
grado di aleatorietà su una tematica che non poteva minimamente
venir concepita 67 anni fa dai padri costituenti. Al contrario, con i
risultati del referendum del 2005
il popolo italiano si è chiaramente espresso intorno a una situazione che gli era ben presente perché
contemporanea. Chi si è espresso
per il no all’eterologa ha percepito molto bene quali sono i presupposti di qualsiasi vero amore
genitoriale: bisogna concepire il
figlio come un totalmente altroda-sé, degno della massima dignità e rispetto, che non può in alcun modo essere manipolato per
diventare un mezzo che soddisfare la propria aspirazione alla genitorialità. Occorre ben riflettere,
in questa come in analoghe situazioni future, se sia opportuno che
la volontà espressa da un voto popolare, soprattutto quando raggiunge questi livelli di consenso,
diventi vincolante anche nei confronti della Magistratura.
4
Determina un cambiamento di atteggiamento: dalla
procreazione all’acquisto. La
scelta del seme del donatore è
una delle attività da compiere per
attuare la fecondazione eterologa. Si sta discutendo in questo
momento su come limitare tale
scelta (fino a che punto e fino a
quando il donatore dovrà restare
segreto?) e contenere le speculazioni su questo business nascente
(solo donazioni gratuite? Ma se è
lecito il rimborso spese, ci saranno mille modi per aggirare l’ostacolo). Anche se si cercherà di
porre un argine a questo fenome-
no, è facile ipotizzare nei prossimi anni una spinta verso una
sempre maggiore liberalizzazione. Sappiamo, da quanto accade
in altri Paesi, che la scelta del donatore è diventata una vera procedura di acquisto con tanto di
cataloghi fotografici per scegliere la più bella o il più prestante.
Nel serial televisivo americano
Brothers & Sisters due giovani
che stanno insieme da tempo si
ritrovano una sera nella casa di
lei quando lui scopre nel frigo la
presenza di un contenitore di
sperma. La donna gli manifesta
chiaramente le sue intenzioni:
non vuole un figlio da lui, ma ha
comprato a caro prezzo il seme di
un famoso atleta perché desidera
assolutamente avere, tramite inseminazione artificiale, quello
che ha sempre desiderato: un figlio che possa diventare un campione sportivo. La paternità e la
maternità sono sempre state un
servizio, quasi sempre non facile,
di donazione totale e incondizionata. Come sarà possibile conservare questo atteggiamento quando si sarà cercato di acquistare il
«meglio» e questo «meglio» poi
non si manifesta?
La fecondazione eterologa determinerà gravi ingiustizie nei confronti dei nascituri e sta mettendo
a nudo pesanti deficienze legislative: se si considera che in Italia
non è consentita la soppressione
dei cani randagi, perché ciò è ritenuto indegno di un Paese civile,
dobbiamo concludere che oggi, in
assenza di leggi che definiscano i
diritti dei nascituri, un cane randagio ha maggiori tutele di un essere umano.
Franco Olearo
713
LETTERATURA
Patrick Modiano: un Nobel meritato
Patrick Modiano, scroittore francese nato nel 1945, ha vinto il
premio Nobel 2014 per la letteratura. L’Accademia Svedese ha
motivato il riconoscimento «per
l’arte della memoria con cui ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato la vita e il
mondo dell’Occupazione». Di
origini italiane ed ebraiche, Modiano è uno dei narratori francesi
più di successo, sia di pubblico
sia di critica. Nonostante l’enorme seguito ottenuto in Francia e
in molti altri Paesi, rimane tuttora un personaggio piuttosto schivo, lontano dai riflettori, e raramente concede interviste.
Un talento
precoce
Tra il settembre e il novembre del
1978, i due premi letterari allora
più visibili per i media, il Goncourt e il Médicis, imposero all’attenzione dei lettori francesi
due romanzi estremamente diversi tra loro: lo smilzo Rue des
Boutiques Obscures del trentatreenne Patrick Modiano e l’immenso capolavoro del quarantaduenne Georges Perec, La vie
mode d’emploi. Nessuno sembrò
allora sospettare che una rete di
affinità tematiche apparentavano
i due libri: il puntiglioso iperrealismo di Perec in apparenza si
scontrava contro il mondo flou di
Modiano, in cui un protagonista
dalla fragile identità si muove
sulle tracce del proprio evanescente passato. Sarebbe bastato
invece prendere tra le mani Je me
souviens, l’esile librino nel quale,
pochi mesi prima, Perec con ma-
714
niacale diligenza, raccoglieva la
memoria collettiva, a sottolineare
il naufragio novecentesco di
quella memoria intima e individuale cui Proust aveva ispirato la
sua Ricerca. È questo naufragio
della memoria a sospingere Perec
e Modiano (e si noti che tutti e tre
gli scrittori hanno radici ebraiche) verso scelte molto diverse
da quelle dei nouveaux romanciers (ai quali invece si ispira Le
Clézio). Per loro l’oggettività è
un rifugio, un guscio protettivo
per il loro io pietrificato da lutti
inassimilabili (per Perec la morte
della madre, per Modiano quella
del fratellino Rudy) e mortificato
dai lutti della Storia. In Dora
Bruder (1997), Modiano ricostruisce con pacata precisione la
storia di un’adolescente ebrea la
cui fuga attraverso la Parigi occupata si conclude con la morte.
La sua è una voce sommessa, non
una parola che denunci, deprechi
e commiseri. La vicenda però è
così straziante che si commenta
da sola. Il narratore descrive piccole foto in bianco e nero, cita
dettagli di lacerante precisione:
la resurrezione di quel che la
Shoah e la guerra hanno cancellato è espresso attraverso una
poetica della discrezione, una
pietas «gozzaniana», custode
ostinata dell’individuale e dell’inapparente.
Patrick Modiano fu incoraggiato
a scrivere da Raymond Queneau,
amico di famiglia (e grande amico di Italo Calvino). Aveva esordito per Gallimard nel 1968 con
La place de l’étoile e già con
quello aveva vinto il premio Roger Nimier. Il premio successivo
arrivò nel 1972 con Les Boule-
vards de ceinture (Grand prix du
roman de l’Académie française).
Nel 1978 giunse appunto il premio Goncourt con Via delle Botteghe Oscure, ma la traduzione
italiana (uscita per Cde nel 1979)
non rende bene il titolo, perché
da noi fa pensare alla vecchia sede del PCI a Roma. Oltreché romanziere, Modiano è anche sceneggiatore, ha lavorato con i migliori cineasti francesi contemporanei: Louis Malle (Arrivederci,
ragazzi), Jean-Paul Rappeneau
(L’ussaro sul tetto), Patrice Leconte (per la sceneggiatura del
suo Il profumo di Yvonne, tratto
da Villa triste).
Misteriose ombre
del padre
Albert Modiano (quasi sicuramente di origini toscane), padre
del futuro premio Nobel, nacque
a Parigi nel 1912 e verso la fine
della Seconda guerra mondiale si
legò a Louisa Colpijn, attrice
fiamminga non ebrea che nel
1945 diede alla luce Patrick. Albert Modiano sfuggì alle persecuzioni naziste non senza ambiguità e suo figlio sarebbe stato
per sempre segnato dalle di lui
vicende. In effetti il motore nascosto della narrazione di Patrick
Modiano è legato al mistero e alle ombre del padre. La ricerca del
padre assente è una tematica fortemente presente nella cultura
francese contemporanea. Scrittori francesi di altissimo profilo,
come Patrick Modiano (1945),
ne hanno fatto il motore segreto
dei loro libri (un titolo per tutti:
Albert Camus, Il primo uomo,
Patrick Modiano
1960 ma pubblicato postumo).
Nei romanzi di Modiano, per lo
più ambientanti nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intorno alla figura dello straniero,
dell’esule, dell’ebreo, si intrecciano una vena disperata di
ascendenza esistenzialista e il gusto della rievocazione; ed è più di
tutti l’ambigua figura del padre a
essere rievocata, un ebreo sicuramente vittima del nazismo, che
arrestato nel 1943 si dimostrò
pronto a tutto pur di sopravvivere – in effetti sfuggì alla deportazione grazie a potenti amicizie
collaborazioniste, invischiandosi
purtroppo in rapporti di complicità con i carnefici. Questa storia
mai del tutto chiarita torna soprattutto (ma non solo) nell’autobiografia Un pedigrée (2006).
Nel 1997 uscirono in Italia i suoi
primi romanzi, a nostro giudizio i
migliori: I viali di circonvallazione (1973) e Villa Triste (1976),
per i tipi di Rusconi. Modiano vi
crea un’atmosfera sfumata, un
po’ quella che oggi si ha ascoltando un vecchio grammofono o
Edith Piaf, oppure guardando un
filmato d’archivio storico dell’Istituto Luce o un album di foto in
bianco e nero. Un senso di forte
struggimento, di amarezza invade la pagina; ma non è ancora
nulla rispetto a quello cui l’autore dà vita nei testi successivi.
Modiano è ossessionato dalle esistenze qualunque, immemorabili,
delle quali restano tracce negli
elenchi telefonici, nei verbali di
polizia e in poco altro; ossessionato dalla ferita della gioventù,
dai ragazzi sbandati «né figli le-
gittimi né eredi», come si sentì
lui e com’è il suo alter ego Roland in un breve e lancinante romanzo, Nel caffè della giovinezza perduta (Einaudi, 2010), che
si potrebbe leggere per avere
un’idea complessiva della seconda fase di Modiano. Ancora, ossessionato dalla feroce solitudine
di giovani donne in balìa del caso (tutti i personaggi di Modiano
sono orfani, specialmente quando hanno una famiglia), di un destino imboccato per distrazione o
per inerzia, come quando si entra
in una porta sbagliata.
Donne in fuga
dal destino
Giovani donne «assenti in vita»
(com’è altresì la protagonista del
bellissimo Dora Bruder, uscito in
Italia per Guanda nel 2004). E com’è Jacqueline che i giovani
clienti del Café Condé chiamano
Louki: «Non ero veramente me
stessa se non nel momento in cui
fuggivo. Gli unici bei ricordi che
ho sono ricordi che ho sono quelli
di fughe vere e proprie o di scappatelle da casa».
Fugge, Louki. Da una madre laconica che lavora al Moulin Rouge e da un padre ignoto. Fin dall’adolescenza, perdendosi in vagabondaggi notturni per una Parigi minuziosamente esatta (la topografia è un’altra ossessione di
Modiano) finché la polizia non la
ferma per riportarla a casa. Fugge da sé stessa, lei che non è stata ammessa al liceo, per inventarsi un’identità di studentessa in
lingue orientali (si inventa un’identità da editore d’arte anche il
detective che indaga su Louki e
poi decide di assecondarne la fuga: tanto nessuno controlla, tanto
ti credono, e così semini il passato, vivendo però come Louki nell’angoscia e nel panico che il
passato ti riacciuffi). Fugge dalle
amicizie equivoche nelle quali si
è imbrancata, cambiando marciapiede non appena vede da lontano qualcuno di loro. Fugge dal
marito più anziano di lei, datore
di lavoro dal quale si è lasciata
passivamente sposare. Sempre
comparsa e mai protagonista, accompagnata da un alone di modesto mistero e di intenso fascino
quando siede sola in fondo al caffè, quando frequenta gli incontri
promossi da un garbato esoterista
che le presta Orizzonte perduto
(il libro esiste davvero, lo scrisse
James Hilton raccontando la scoperta di un improbabile e fiabesco Shangri-La in Tibet, e Frank
Capra lo portò sullo schermo).
Quando infine cede a un amore
coetaneo, felice e alla giornata,
sta soltanto preparando l’estrema
fuga che qui non sveleremo.
Goffredo Fofi ha definito Louki
«una Nadja (Breton) o una Odile
(Queneau) più terrena, o una Karina di Godard: meno ardita e
ideale, più malinconica e nostra».
E ha sottolineato la vocazione di
Modiano «al resoconto minuto e
asciutto, senza ricatti di sorta».
Un’asciuttezza che cerca di tenere a bada un dolore primario, lontano nel tempo ma non del tutto
assorbito, come una ferita suturata senza anestesia.
Nelle storie di Modiano fanno a
volte irruzione (fanno un cameo,
si direbbe al cinema) persone vere. In Un pedigree c’era Raymond
Queneau. Qui c’è Arthur Adamov,
drammaturgo francese di origine
armena che, assieme a Beckett e
Ionesco, fu il maggiore esponente
del teatro dell’assurdo. Sullo sfondo c’è sempre Parigi, perché da
sempre Modiano è lo scrittore di
una sola città.
Andrea Vannicelli
715
BESTSELLER
Donna Tartt, premio Pulitzer 2014
Entrare in un romanzo di Donna
Tartt è entrare in un piccolo mondo
soprattutto di personaggi interessanti, come lei stessa ha spiegato: «I
personaggi diventano più chiari
man mano che si va avanti, in particolare se uno scrive storie incentrate sui personaggi (character-driven
fiction) come faccio io. Lo sviluppo
dei personaggi e l’interazione tra di
loro è la cosa che più mi interessa
nella scrittura. Si arricchiscono pian
piano. Non devono necessariamente cambiare... è un po’ come quando conosci una persona nella vita
reale: le prime impressioni sono
importanti, ma poi, più tempo trascorri con lei e più si arricchisce
quella impressione»1.
Un «Dio di illusioni»
Per averne conferma basta aprire
Dio di illusioni, la sua opera prima,
che pubblicò, ventottenne, nel 1992
e che le diede fama mondiale. La
vicenda è ambientata in un prestigioso college del Vermont, dove un
gruppo di studenti si raduna intorno
a un professore carismatico e colto
di nome Julian. A seguire le sue lezioni, ci sono Richard, che narra in
prima persona, e cinque altri ragazzi: Henry, dalle capacità linguistiche fuori dal comune, il pupillo del
professore, ricco e di fascino, in cui
tutti riconoscono il leader del gruppo; Francis, di famiglia nobile, viziato, ipocondriaco, esteta; Edward,
detto Bunny, rozzo e impulsivo, dice sempre quello che pensa, è meno smart degli altri e per questo viene trattato da loro con complesso di
superiorità; e poi Charles e Camilla, due gemelli, lui irrequieto e pas-
716
libro inizia in modo drammatico:
uno del gruppo muore, e sono i suoi
compagni a causarne la morte. Da
questo evento prende avvio il racconto di Richard che nella prima
parte cerca di spiegare come si sia
giunti a quel punto e nella seconda
che cosa sia avvenuto dopo. Fino al
termine, per certi versi inaspettato,
per altri necessario.
Investire 10 anni
su ogni libro nuovo
Donna Tartt
sionale, scontroso, lei eterea, indecifrabile, di una bellezza non appariscente, ma che pure fa innamorare. Pagina dopo pagina sembra di
conoscerli meglio, di scoprirli, soprattutto attraverso le relazioni tra
di loro. Relazioni di complicità, ma
anche gelosie e incomprensioni,
rancori. Sullo sfondo, un mondo
classico del quale i ragazzi hanno
assorbito il fascino che viene soprattutto da una religiosità irrazionale, da una bellezza fatta di eccessi, dall’elemento dionisiaco (è lui,
Dionisio, il dio di illusioni). «È
un’idea tipica dei greci, e molto
profonda», insegna Julian ai suoi
studenti. «Bellezza è terrore. Ciò
che chiamiamo bello ci fa tremare.
E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni
controllo?». Il romanzo è animato
da questo pensiero: non avere limiti, poter vivere una vita oltre ogni
regola. La ricerca dell’evasione come sogno di una vita, la ricchezza
che risolve ogni problema col denaro: Henry, Richard e i loro colleghi,
sono affascinati. È un fascino che
attira ma può avere esiti tragici. E il
Non sono i colpi di scena, non gli
intrighi a trainare l’attenzione dell’audace lettore che ha il coraggio
di affrontare le centinaia di pagine
dei romanzi della Tartt. Sono gli
ambienti, i personaggi. Ma anche la
cura del dettaglio e il cesello linguistico. Lei impiega circa dieci anni a
scrivere un romanzo: «C’è un livello di ricchezza che si può raggiungere solo se un intero decennio è
impegnato in quel libro, e non è
possibile se ci impieghi due o tre
anni. Ci sono libri che non si propongono questi standard qualitativi
e lettori che non li cercano. Quel
che è certo è che spendere tanto
tempo su un libro gli dà profondità
e spessore. Tu (lettore) puoi sentire
il tempo che è stato investito in quel
libro. È un lavoro frase dopo frase.
Un sassolino, poi un altro e un altro
ancora. Scrivo e riscrivo una frase
finché non mi soddisfa e poi un’altra. Poi guardo l’intero paragrafo e
se non mi piace lo riscrivo finché
non mi soddisfa. E vado avanti così. Certo, è un lavoro lento. Diceva
William Styron di avere capito che
forse aveva solo quattro o cinque libri dentro di sé ma che andava bene così. Per me è lo stesso»2.
Theo & il cardellino
Sono le impressioni che si provano
nella lettura de Il cardellino, (Rizzoli, Milano 2014, pp. 896, euro
20) terza e (finora) ultima fatica di
Donna Tartt, che le ha meritato, nel
mese di aprile scorso, il prestigioso
premio Pulitzer per la narrativa.
Tutto comincia quando il museo
che Theodor Decker sta visitando
insieme alla mamma salta in aria.
Non si sa bene se si tratti di un attentato o un incidente. Non importa. Quello è il momento in cui la vita di Theo viene sconvolta. Succedono molte cose. Un istante prima
dell’esplosione ha incrociato gli occhi di una ragazzina dai capelli rossi, Pippa. La madre di Theo, donna
estrosa e vivace, perde la vita. Un
vecchio consegna a Theo uno strano anello, chiedendogli di portarlo
a un tal Hobie, a un certo indirizzo.
Ma soprattutto il ragazzino trova in
mezzo alle macerie il quadro che
stava ammirando prima del boato,
una tela che rappresenta un cardellino appollaiato su un trespolo, la
zampetta legata a una piccola catenella, lo sguardo rivolto verso lo
spettatore. L’opera è di Carel Fabritius, un promettente pittore olandese del ’600, allievo di Rembrandt,
morto prematuramente nell’esplosione di una fabbrica di polvere da
sparo. Quel quadro vale un sacco di
soldi, e Theo, preso dalla confusione, stordito da quanto è successo, lo
mette nella sua borsa e se lo porta a
casa. Per circa ottocento pagine seguiamo le avventure di Theo, in
una narrazione quasi dickensiana:
tanti ambienti diversi, personaggi
oscuri e più luminosi con cui entra
in contatto, rovesci di fortuna. E soprattutto il suo animo travagliato
che cerca la bellezza ma è costantemente a contatto con ambienti laidi,
spesso intontito dalle droghe in cui
trova un’effimera evasione. Come
quel cardellino Theo anela a volare
ma è legato da una piccola catena.
Donna Tartt ama Verne, ama Stevenson, e Barrie. E Melville, e Dic-
kens. Di tutti questi grandi della letteratura il lettore attento trova traccia nelle sue opere. Come nei grandi romanzi, dietro le sue trame e i
personaggi c’è tanta umanità. Sembra ci sia poco spazio dedicato alla
trascendenza, Dio sembra assente
nelle storie della Tartt. Ne Il piccolo amico la dodicenne protagonista
Harriet, decisa a scovare chi abbia
ucciso il suo fratellino dieci anni
prima, si imbatte in alcuni predicatori che rappresentano una religiosità superstiziosa e vuota che ricorda certi racconti di Flannery O’Connor. Ma in tutti i romanzi c’è
una forte tensione morale, una ricerca della felicità e del senso dell’esistenza, che a volte muore nell’illusione di un bello sfrenato e irrazionale o nella ricchezza, che
sembra eliminare ogni problema.
Altre volte si aggrappa a certezze
caduche, un quadro, amicizie che
rovinano, amori irraggiungibili. O
ancora nella ricerca di una verità
che si scontra con il vuoto, la superficialità e la delusione (la piccola Harriet vive in una famiglia dove
il dolore per la perdita del fratello è
stato esorcizzato con la chiusura in
sé stessi, con piccole forme di depressione o evasione nella vita sociale). Alla fine ai personaggi di
Donna Tartt restano più domande
che risposte, e anche ai suoi lettori.
Ma rimane sicuramente il gusto di
una scrittura attenta, precisa, profonda, che cerca nella qualità e non
nelle facili emozioni la sua forza. Il
lavoro dello scrittore è andare in
profondità, diceva Melville.
Impermeabile
al marketing
Uno studio realizzato dal matematico americano Jordan Ellenberg3
sulla base di dati statistici forniti dal
sito di Amazon ha dimostrato che il
98,5% delle persone che hanno acquistato Il cardellino lo ha finito (a
fronte del 44,4% de La ragazza di
fuoco, del 28,3% del Grande
Gatsby e del 25,9% delle Cinquanta sfumature di grigio). Come a dire: la qualità paga. I dieci anni che
l’autrice ha investito nella creazione di questa storia hanno dato frutto, in controtendenza con un mercato del libro fatto di fenomeni editoriali istantanei, marketing selvaggio
e autori in cerca di facile successo.
Un mondo che è alieno a Donna
Tartt che, dopo il lancio dei suoi romanzi, non vede l’ora di tornare a
chiudersi nella sua «stanza del manoscritto» per immergersi nelle sue
storie: «C’è un sistema pericoloso
secondo il quale si dà per scontato
che se hai scritto un libro di successo allora devi subito scriverne un
altro per tenere in vita la fama che
hai ottenuto. Ma l’attenzione dei
media va e viene, è intensissima
quando c’è, ed è capace di scivolare via con grande rapidità. Guarda
un po’: quando scrivevo Dio di illusioni la cosa non interessava a nessuno, nessuno chiamava. Adesso
improvvisamente tutti chiedevano:
hai un nome da mantenere davanti
al tuo pubblico, sono passati anni.
Oppure: a che punto è il nuovo libro? Io non avevo troppe aspettative quando scrissi il primo romanzo.
Volevo che fosse pubblicato, e questo era avvenuto. Ottimo. E se questo non dovesse più accadere that’s
fine. C’erano enormi aspettative per
qualcosa che io non necessariamente desideravo. Volevo soltanto lavorare in pace, tutto qui»4. Cicerone
usa una bella espressione: aura popolaris, the popular breeze, (il vento della celebrità, si potrebbe tradurre): «Dipende da come spira il
vento. Penso sia un serio problema,
terribile, per coloro che cercano la
celebrità e vogliono attenzione continua; ma è invece piuttosto consolante per chi, come me, non cerca
altro che andare a casa, chiudere la
porta e tornare alla sua scrivania»5.
Guido Vassallo
1
Intervista pubblicata in http://www.identitytheory.com/donna-tartt/
2 Ivi.
3 http://lettura.corriere.it/ecco-quanto-leggiamo-davvero-di-un-libro/
4 Intervista pubblicata in http://www.telegraph.co.uk/culture/4729011/Worth-waiting-for.html.
5 Ivi.
717
PROFILI
Ridolfi, «chierico» della cultura italiana
L’onestà di misurarsi. «Gli eroismi
mi entusiasmano e mi commuovono; ma io non sono un eroe, non sono un superuomo: non sono che un
pover’uomo. E, secondo l’ammonimento evangelico, nessuno può
aggiungere un cubito alla sua statura. A meno di non camminare sui
trampoli; ma è un esercizio che non
mi riesce e neppure mi piace».
La chiusa di Notturno minore (brano scritto originariamente, come
molti altri, per la Terza Pagina del
Corriere della sera, poi pubblicato
nella raccolta Le cantafavole) inquadra l’intero Roberto Ridolfi: un
grande che sapeva stare al suo posto. Colto, raffinato, era persona di
archivi e di biblioteche, di antichità
e di erudizione, ma anche di sincere relazioni personali, di umile concretezza, di retta devozione. Creatura e anima, si potrebbe sintetizzare, di prosa e di poesia. O – come
disse egli stesso ponendo da una
parte gli studi storici e le scoperte
di inediti, dall’altra quei brani lirici
e memorialistici che gli procurarono tanti lettori affezionati – di «pane e companatico».
Fiorentino in nascita e in morte
(1899-1991), di antica e nobile famiglia imparentata nientemeno che
con Lorenzo il Magnifico, Ridolfi
spese la sua esistenza principalmente tra le camere, i volumi, il
verde e la chiesetta della villa avita
La Baronta, «sui poggi delle Campora, un miglio e mezzo fuori di
Porta Romana. Vi nacqui e, tanto
per cominciare, vi fui battezzato
nella cappella ch’è sulla parte davanti del giardino. La parte davanti, per chi non lo sapesse è anche il
titolo di un mio libro dove dico, appunto, della mia fanciullezza e della mia adolescenza», ricorderà.
718
La Trilogia
da riscoprire
Specificando, riguardo al periodo
trascorso tra quelle stanze, che «levati quelli della guerra e di qualche
scorribanda, dal battesimo in poi,
sono rimasto qui ottant’anni filati:
attaccato al macigno di questo poggio come un’ostrica al suo scoglio».
Scrittore nitido, elegante e ricercato, promotore delle belle lettere in
contrasto alla già piuttosto contagiosa leggerezza e sciatteria delle
parole, Ridolfi contava su un enorme bagaglio intellettuale accatastato in buona parte da autodidatta, oltre che su un indubbio talento e fiuto per la ricerca. Capacità e nozioni gli valsero la direzione quarantennale della rivista La Bibliofilia,
un’infinità di riconoscimenti e una
laurea honoris causa dall’Università di Oxford. La sua figura dotta e
appassionata, le pubblicazioni biografiche e autobiografiche1 non
paiono oggi abbastanza ricordate e
riproposte; mentre a suo tempo vissero una fama internazionale che
mai saziò la fame di conoscenza.
Nel 1954, sessant’anni fa, Ridolfi
diede alle stampe la Vita di Niccolò
Machiavelli. Insieme a quelle di Girolamo Savonarola (realizzata nel
1952) e di Francesco Guicciardini
(1960) compone una trilogia, anzi
un trittico brillante e imprescindibile per approfondire vicende e ruoli
di questi protagonisti del Rinascimento. Una Vita piena d’arte e di
aneddoti la dedicò anche a Giovanni Papini, l’anno dopo la morte dell’amico nel 1956. Mentre riflettendo (senza eccessiva mestizia) sulla
sua, annoterà: «Mi figuro cosa potrebbe uscir dalla penna dell’amico
Montanelli. Se non avessi lasciato
scritto che nessuno potrà assistere
al mio funerale, nemmeno i parenti,
mi sarebbe piaciuto che lui ci assistesse; mica con uno zampone sottobraccio come fece a quello di Leo
Longanesi, che dalle nostre parti sarebbe una stonatura; semmai, con
un fiasco d’olio della Baronta o con
un sacchetto di fagioli; i miei famosi fagioli di Marignolle, bianchi e
teneri come cervellini di lodole.
Con quello che ha scritto di me vivo, chissà cosa Indro ne scriverebbe da morto dopo avermi visto uscire nel giardino dalle stanze dei libri,
attraverso la porta vetrata, per andare a stare in quella cappella appena
cinquanta o sessanta passi più in là:
sarebbe l’ultimo tocco alla mia caricatura. Un capolavoro. Peccato!
Ma se gli salta il ticchio, aiutandosi
un poco con la fantasia, che in queste cose non gli manca davvero, gli
riuscirebbe bene lo stesso».
Ridolfi faceva i conti con l’addio
alla vita, serenamente, anche grazie
alla devozione: atteggiamento leale,
spontaneo, genuino. Nel colloquio
aperto con la fede conservava la
freschezza del contatto diretto con
gli amati personaggi cinquecenteschi. Basti a conforto la tenera
spontaneità di questa memoria nelle pagine di La cappella: «Quando
ero bambino, tutte le domeniche e
le altre feste comandate, veniva a
dirci la Messa un frate francescano
del vicino convento di San Leone.
Di questi tempi ci si gelava: attraverso un battente della porta lasciato aperto per carità dei ritardatari, la
tramontana mi frustava le gambe
nude, mi mozzava le orecchie, mi
martoriava i geloni scoppiati. Anche quando mio padre, a un certo
punto della Messa, faceva cenno
che chiudessero, il freddo era tremendo: non c’erano chiome tanto
folte né lane tanto grosse che lo fermassero: entrava nella carne, nelle
vene, fin dentro le ossa. Io e i miei
fratelli si stava dietro la balaustrata
che recinge l’altare, in cornu Epistolae; mio padre solo, sempre ritto
in piedi, col suo pizzetto grigio, in
cornu Evangelii; nelle panche dietro a noi prendeva posto la servitù.
Il fiato si gelava uscendo dalla bocca col respiro o con le preghiere:
parevano nuvolette di fumo. Quel
gran freddo, ogni volta che ci ripenso, me lo sento ancora nelle ossa
come se qualche poco ce ne fosse
dopo tanto tempo rimasto».
Come il priore
di san Quirichino
Tutto intirizzito, il piccolo Ridolfi
guardava «con compassione e ammirazione il frate che celebrava, appena due passi innanzi a me: aveva
la testa rasa per la gran chierica e i
piedi nudi nei sandali, consistenti
soltanto nelle suole trattenute dai
correggioli: la pelle dei calcagni era
paonazza come la pianeta nei dì di
quaresima. Altri tempi, altri uomini». Dopo la Messa, «il frate faceva
colazione nella sala da pranzo della
villa, intrattenuto da mio padre
sempre in bilico tra il burbero e il
faceto. Morto mio padre, la consuetudine della Messa, della colazione
e dell’intrattenimento è stata continuata da me». È poi con rammarico, con rimpianto, che lo scrittore
confessa di aver dovuto interrompere la tradizione famigliare, «qualche anno dopo l’ultima guerra»,
perché nel luogo «il “progresso” fece deserto». Da allora «la cappella
non è stata più aperta, nemmeno
una volta. Eppure più sta chiusa e
più io ci penso: forse ci penso tanto
proprio perché è chiusa. Vorrei riaprirla, ma non posso senza restaurarla, malandata com’è dopo tanto
abbandono seguito a tanto cattivo
gusto che l’aveva imbruttita; aspetto che mi vengano non so di dove i
denari per poterlo fare».
Lo stesso registro da «altri tempi,
Roberto Ridolfi
altri uomini», la capacità artigiana
di trasmettere descrizioni, conoscenze ed emozioni attraverso frasi,
la sacralità naturale e nuda, solenne
anche senza sfarzo, si ritrova nello
scritto Il priore di San Quirichino.
Ora, «San Quirichino è una chiesina posta sul poggio di Marignolle,
dalla parte che scende verso la Greve. Che sia molto antica si sa soltanto dai libri, perché i secoli, anche
quelli che la gentilezza di una pietra
scolpita l’hanno lasciata dovunque,
di lì sono passati come se non ci
fosse. Veramente il suo nome sarebbe San Quirico a Marignolle; né
ho mai saputo se quel diminutivo le
venga dall’avere per santo patrono
un bimbinello di appena tre anni,
oppure dalla sua piccolezza e dalla
sua scarsità di tutto».
La chiesina «non è molto più grande di una cappella ed ha soltanto un
mozzicone di campanile: misure
molto proporzionate al popolo della parrocchia, il quale, negli anni da
cui prendo le mosse, si riduceva a
qualche famiglia di contadini. Anche il benefizio annesso alla cura
appariva conforme a tutto il resto,
ma non al vocabolo, consistendo in
un campicello che mezzo sacco di
grano sarebbe bastato a seminarlo e
forse ne sarebbe avanzato. Da quel
poco grano il parroco cavava il suo
poco pane; quanto al companatico,
se non trovava il modo d’ingegnarsi, credo che lo vedesse di rado».
In questo contesto si insedia un
nuovo priore: «Un prete giovane,
magro, di statura più che mezzana,
con un viso adusto, grifagno, che
gli occhi miopi velavano appena
d’una stanca dolcezza, quando li
disarmava di certi occhiali azzurro-
gnoli, cupi e spessi come il fondo
di un bicchiere».
Il prete è energico, intelligente, volenteroso, «con un che di balzano,
d’inquieto, di ribelle: un che in perpetua contesa con l’esterna umiltà
della tonaca lisa, verdastra, e con gli
interni richiami di una religione fortemente sentita». Inviato in quella
minuscola parrocchia di campagna,
«avendo soltanto quattro scalzi di
parrocchiani e la muffa per compagnia», si mette a lavorare sodo.
«Per principiare, si rifece la canonica di sana pianta con le sue mani;
quelle nocchiute mani di contadino
divennero, secondo il bisogno, mani di muratore, d’imbianchino, di
falegname. Venuta la sera, al poco
lume di una lucernina a olio che sapeva di moccolaia, posati i mattoni
di argilla, pigliava i mattoni di carta. Come di giorno aveva con quelli accresciuti la sua topaia, con questi veniva allargando le conoscenze
raccapezzate nel Seminario».
In questo carattere sacerdotale che
da una chiesetta edifica una cattedrale del sapere, pietra cartacea su
pietra cartacea, sembra di vedere in
controluce lo stesso Ridolfi. Chierico della cultura italiana, cesellatore di termini, ha saputo lasciare in
dono uno stile, un atteggiamento,
un metodo. La sua lezione garbata
e rispettosa non merita di andare
perduta.
Léon Bertoletti
1
Principali opere di Roberto Ridolfi: Studi
savonaroliani (Leo S. Olschki, Firenze
1935), Genesi della Storia d’Italia guicciardiniana (Leo S. Olschki, Firenze 1939), Le
prediche del Savonarola. Cronologia e tradizione del testo (Fondazione Ginori Conti,
Firenze 1939), Vita di Girolamo Savonarola
(Angelo Belardetti, Roma 1952), Vita di Niccolò Machiavelli (Angelo Belardetti, Roma
1954), Memorie di uno studioso (Angelo
Belardetti, Roma 1956), Le filigrane dei paleotipi (Tipografia Giuntina, Firenze 1957),
Vita di Giovanni Papini (Mondadori, Verona
1957), Vita di Francesco Guicciardini (Angelo Belardetti, Roma 1960), Il libro dei sogni (Angelo Belardetti, Roma 1963), La parte davanti (Vallecchi, Firenze 1967), I ghiribizzi (Vallecchi, Firenze 1968), I palinfraschi (Vallecchi, Firenze 1970), Le cantafavole (Sansoni, Firenze 1977), Studi guicciardiniani (Leo S. Olschki, Firenze 1978), L’acqua del Chianti (Rusconi, Milano 1981), Addio alla Baronta (Sansoni, Firenze 1985).
719
SHAKESPEARIANA
Il «Tommaso Moro» di Shakespeare
Benché il dramma teatrale Sir Thomas More sia tuttora reperibile in
Shakespeare, teatro completo, tradotto in italiano dagli specialisti V.
Gabrieli e G. Melchiori e confluito
nei Meridiani della Mondadori
(vol. 10, Milano 1991), si raccomanda la lettura di William Shakespeare, Anthony Munday, Henry
Chettle, Thomas Dekker, Thomas
Heywood, Tommaso Moro, a cura
di Edoardo Rialti (Lindau, Torino
2014, pp. 188, euro 18), impreziosito dalla prefazione di Joseph Pearce, che ci aggiorna sul dibattito –
tuttora vivo – circa la misteriosa attribuzione a diversi autori e calligrafie (tra cui quella di Shakesapeare) del testo originale, attualmente
conservato presso la Harleian Collection del British Museum.
Un mistero
a più mani...
L’opera è un’apologia di Moro (e
del vescovo Fisher); di fatto, del
cattolicesimo. Come dunque si osò
presentarla al censore di Stato, Sir
Edmund Tilney, in un regno dove il
sovrano era capo della Chiesa anglicana e i cattolici, se identificati,
venivano impiccati e sventrati, come spie al servizio di uno Stato
straniero (la Chiesa di Roma, guidata dal Papa)?
I drammaturghi coautori sono stati
tutti identificati da esperti paleografi: sono quelli segnalati nel titolo del libro, che in realtà tace un sesto coautore, rimasto anonimo e
non identificato. Il fitto mistero di
un’opera scritta a favore del cattolicesimo si accresce ancora se si va
a scoprire chi sono – con Shakespeare (di ormai chiara appartenen-
720
San Tommaso Moro nel
1527, ritratto da Holbein il
Giovane.
za al cripto-cattolicesimo, come dimostrato in maniera inconfutabile
da Elisabetta Sala nel suo affascinate L’enigma di Shakespeare.
Cortigiano o dissidente?, Ares, Milano 2011, pp. 472, euro 24) – gli
altri coautori. Il primo di essi, Anthony Munday, attore e autore di
teatro, è passato alla storia come
uno dei più spietati e sistematici
persecutori, spie e accusatori di
cripto-cattolici durante il Regno di
Elisabetta e anche dopo. Gli altri
coautori, i drammaturghi Chettle,
Dekker e Heywood, risultano tutti
filoprotestanti e, in vario grado, tutti ostili al cattolicesimo.
Da dove partire? Partiamo dal regno di Elisabetta, Bess la sanguinaria, capo della Chiesa di Stato anglicana, in un’epoca che si distingue per la spietata persecuzione di
cattolici e di protestanti non allineati al regime. Ebbene, nel marzo
1603 la «regina vergine» e zitella si
spense senza eredi; e con lei si
estinse la dinastia Tudor, iniziata da
Enrico VII, padre di colui che fece
giustiziare il martire e umanista
cattolico, nonché già Lord Cancelliere, Tommaso Moro. Quest’ultimo oppose un rifiuto, trincerandosi
dietro il silenzio della coscienza, a
sottoscrivere l’Atto di Supremazia
con cui il Regno di Inghilterra si
sganciava dalla Chiesa cattolica e
re Enrico VIII diventava anche supremo capo della Chiesa anglicana: «Il Papa degli inglesi».
Dunque, morta Elisabetta I ed
estinti i Tudor, venne chiamato a
rappresentare il regno di Inghilterra, per via di parentele, proprio il figlio di quella Mary Stewart (Maria
Stuarda), regina cattolica di Scozia,
fatta giustiziare dalla sospettosa cugina Elisabetta, presso la quale
aveva cercato asilo dopo la perdita
del regno. Il figlio di Mary, Giacomo Stewart, divenuto poi Giacomo
VI di Scozia, sposò una principessa cattolica. Quando già si ventilava la possibilità che il candidato alla successione fosse proprio Giacomo VI di Scozia, costui lasciò che
circolassero voci di un nuovo atteggiamento, ormai tollerante, verso i cattolici inglesi. E seguirono
anche i fatti, come nota Pearce (pp.
25-26): «In uno dei suoi primi atti
ufficiali dopo l’incoronazione, Giacomo mostrò moderazione nei riguardi delle questioni religiose e
firmò la pace con la Spagna, attenuando così le tensioni di matrice
religiosa presenti nella politica
estera inglese. Nel suo primo anno
di regno, Giacomo decretò l’abolizione delle multe e di altre sanzioni previste a danno dei cattolici
[obbligati ad assistere alle funzioni
anglicane]. L’eliminazione del pesante onere economico, fece sì che
migliaia di cattolici si tenessero
Enrico VIII, così immortalato sempre da Holbein il Giovane nel 1536.
Presunto ritratto di William
Shakespeare attribuito a John
Taylor (1600/1610 circa).
Il celebre Rainbow Portrait
di Elisabetta I (Marcus Gheeraerts, 1600 ca.).
lontani delle funzioni religiose anglicane e cercassero di praticare di
nuovo la propria fede, senza ostacoli e alla luce del sole».
Tuttavia, nel luglio 1604, dopo sedici mesi di regno, ripresero più
massice che mai le persecuzioni anticattoliche. Se il protestante Enrico
di Navarra si fece cattolico pur di
diventare re di Francia («Parigi val
bene una Messa...»), il cattolico
Giacomo VI di Scozia (educato però da reggenti protestanti, dopo la
fuga della madre in Inghilterra) abbracciò decisamente l’anticattolicesimo quando comprese che i suoi
sponsor aristocratici inglesi non gli
avrebbero consentito, in caso contrario, di restare re d’Inghilterra.
Pertanto, se c’era una sola possibilità di presentare un dramma come
il Sir Thomas More, giustamente –
nota Pearce –, questa poteva darsi
solo ed esattamente nella forbice di
tempo che va dal marzo 1603 al luglio 1604. Non casuale, il titolo
della commedia di Shakespeare
che si fa risalire a quell’intervallo,
Tutto bene, ciò che finisce bene,
pensando alla fine della clandestinità dei cripto-cattolici, grazie all’avvento di Giacomo I di Inghiterra e (VI) di Scozia (i due regni, uniti nella sua persona).
Tuttavia, se il dramma Sir Thomas
More, che molti critici (ivi Pearce)
ritengono di Shakespeare, un’opera giovanile per lo stile, probabil-
mente rappresentata clandestina
nelle corti di aristocratici criptocattolici (come il protettore del
Bardo dell’Avon, il conte di Southampton), perché presentarlo ora
e per di più come opera a più voci?
È chiaro che Shakespeare pensò
che poteva finalmente far rappresentare il suo antico dramma, grazie al mutato clima dell’avvento al
trono di Giacomo I; ma lo fece, a
suo futuro vantaggio, con molta
prudenza e preveggenza; scegliendo, non a caso, coautori filoprotestanti, e addirittura un persecutore
di cripto-cattolici come il Munday.
D’altra parte, documenta il Pearce,
il Munday era un noto voltagabbana: appena cambiava il clima politico, egli mutava pelle. E ora era
ansioso di recuperare terreno con il
nuovo re, figlio di cattolici, battezzato nel cattolicesimo, sposo di una
cattolica, tollerante con i cattolici...
D’altra parte, attaccare la memoria
dei Tudor poteva essere ancora
troppo compromettente.
maggio 1517), sedata dal pronto e
ragionevole intervento dell’allora
vicesceriffo di Londra Tommaso
Moro (che poi otterrà dal re la clemenza per i capi, prima condannati all’impiccagione e poi rilasciati a
piede libero); ma, almeno in questo
caso, la censura si fonda solo sul timore di riesasperare gli animi (sotto Elisabetta si ebbero altre tre rivolte xenofobe): gli inglesi vedevano di malanimo che i primi grandi
banchieri fossero italiani (genericamente chiamati Lombards, tra cui il
lucchese Antonio Bonvisi, amico
di Moro) e che molti stranieri –
vendendosi a buon mercato – cercassero lavoro in Inghilterra, accusati perciò di togliere posti di lavoro agli inglesi.
Il secondo intervento di Tilney, assai più rilevante, ammonisce invece
gli autori a non dichiarare i motivi
che spingono Moro e Fisher a resistere al ricatto di Enrico VIII: troppo rischioso! Infatti, i motivi della
condanna a morte di Fisher e Moro
risultano taciuti, senza togliere
niente alla drammaticità del processo, della prigionia, della morte, degli affetti famigliari e alla veridica
ricostruzione del carattere gioioso
di Moro, anche nella cattiva sorte; e
qui definito da una brava donna,
sulla strada del patibolo, «il miglior
difensore che i poveri abbiano mai
avuto». Come conosceva bene,
Shakespeare, la figura di Moro!
Sotto la lente
del censore
Gli interventi del censore di Stato
Tilney, tutti signficativamente raccolti solo sulla parte scritta dal
Munday, stroncano proprio la scena scritta da Shakespeare sulla rivolta xenofoba dei londinesi (1°
721
Tutti uniti contro
l’intolleranza sovrana
Ora, veniamo all’altro risvolto del
mistero. Come mai altri tre coautori filoprotestanti e anticattolici vengono chiamati da Shakespeare a
condividere con lui la paternità dell’opera, frazionandone quindi la responsabilità, che da individuale (del
solo Shakespeare) diventava ora
collettiva e, per di più, condivisa tra
autori di fedi e opinioni diverse?
Questo, a parte la posizione del
voltagabbana Munday, che dopo la
svolta anticattolica di Giacomo tornerà a spiare e martellare i criptocattolici (ma non riuscirà a individuare l’abile Shakespeare), non
viene ben chiarito dall’autore della
prefazione, che si limita a parlare di
«mistero». E qui mi azzardo io a
proporre un’ipotesi di spiegazione.
Ricordiamoci che Enrico VIII, di
fatto bersaglio del Sir Thomas More di Shakespeare, fu parimenti inviso ai protestanti. Egli cercò invano un appoggio protestante alla sua
politica matrimoniale: Lutero (udite, udite...), al pari di Moro e di Clemente VII, dichiarò perfettamente
legittimo il suo primo matrimonio
con Caterina d’Aragona e quindi
nullo l’eventuale secondo matrimonio con Anna Bolena, essendo Caterina vivente (cfr Storia della
Chiesa, a cura di H. Jedin, vol. VI,
Jaka Book, Milano 2001, p. 397).
Ciononostante, ci furono ancora
ammiccamenti ambigui, anche perché vari collaboratori di Enrico erano filo-protestanti (si pensi al machiavellico Thomas Cromwell, o al
primate d’Inghilterra Thomas
Cranmer, sposatosi segretamente in
Germania con la figlia del luterano
Osiander); ma alla fine Enrico VIII,
che era stato insignito da Roma con
il titolo di Defensor fidei per un precedente libello antiluterano, finirà
per voler apparire in Inghilterra – in
materia di fedeltà al dogma – più
papista del Papa. Nel suo regno, sia
prima sia dopo la scissione da Roma, vari protestanti finiranno al rogo. Il protestantesimo si insinuerà
nella Chiesa anglicana, profittando
722
– da parte dei tutori – della giovane
età del successore, Edoardo VI
(presto deceduto), e, dopo la breve
parentesi di Maria la Cattolica (da
non confondere con la Stuarda, regina di Scozia), sarà conclamato nel
regno di Elisabetta I, seppure nella
forma di quel cesaropapismo così
caratteristico della storia inglese e
anomalo, tra le confessioni riformate. Forse, in qualche Stato governato da regimi ayatollah, oggi c’è
qualcosa di simile; altrimenti, occorre risalire al paganesimo della
Roma imperiale, quando l’assolutista Augusto, non pago di essersi autonominato princeps, si avocò il titolo di pontifex maximus. Non a caso Enrico comincerà ad affermare
che l’Inghilterra era un impero.
I protestanti, dunque, avevano odiato Enrico VIII e forse reclamavano
ora, con i cattolici, eguale tolleranza – da parte di Giacomo I – anche
verso il protesantesimo non conformista alla Chiesa di Stato. Inoltre,
negli ultimi anni elisabettiani la
censura era diventata insopportabile per ogni drammaturgo inglese, di
qualunque confessione o estrazione
culturale fosse. Sotto Giacomo I finì presto per inasprirsi ulteriormente (cfr, ancora di E. Sala, sempre per
Ares, Elisabetta la sanguinaria,
Milano 2010, p. 189), provocando
nel 1611 (oggi lo si chiamerebbe
così) il volontario prepensionamento di Shakespeare, che si ritirò a
Stratford, nonché la fine del teatro
inglese rinascimentale. Perciò, fu il
fatto che nel regno di Edoardo VI e
poi sotto Elisabetta la persecuzione
continuò a colpire calvinisti e protestanti «non di Stato», e non solo i
cattolici, che forse può in parte spiegare l’inattesa e sorprendente alleanza tra Shakespeare e i coautori
(caso Munday a parte), uniti contro
l’assolutismo e l’intolleranza religiosa e censoria, da parte della
Chiesa di Stato, nata proprio con il
suo primo capo: Enrico VIII.
Ciononostante, il dramma Sir Thomas More continua a mantenere
parte del suo mistero (i coautori
hanno parzialmente mutato l’originale shakesperiano, anche in previsione della censura? Non si può
certo escludere: il dramma risulta,
in certe sue parti, diseguale). Circa
il brano di autore non identificato,
il Pearce non esita a ritenere, per il
suo elevato valore (si parla di «fortuna» pagana e di provvidenza divina), che si tratti di Shakespeare
stesso, che non ha voluto apparirne
esplicitamente l’autore (ovvero si
tratterebbe di brano originale, inalterato; solo trascritto da altra mano). Non resta ora che lasciare al
lettore di affrontare la lettura del testo e i suoi contenuti. Se conosce la
storia di More, lo apprezzerà certamente come un tentativo, seppure
fallito, di portare sulla scena la storia del martire cristiano, ricordandone la memoria.
Parenti per
parte di madre
Che Shakespeare conoscesse molto bene le opere di Moro (pubblicate integralmente dal nipote W. Rastell, sotto il regno di Maria la Cattolica), lo si sta sempre più portando alla luce (cfr Charles ed Elaine
Hallett, The Artistic Links between
William Shakespeare and Sir Thomas More, Palgrave Macmillan,
New York 2011). Il massimo drammaturgo e commediografo inglese
(nonché poeta) era figlio di una Arden, di antica famiglia cattolica e
poi cripto-cattolica, con tanto di
martire: Edward, squartato come
«ricusante» cattolico, quando il nostro aveva 19 anni; e del ramo secondario degli Arden era anche la
seconda moglie di Moro, Alice (cfr
R. Norringhton, All’ombra di un
santo, Studium, Roma 2012). L’autore del Sir Thomas More poteva
dunque attingere non solo agli
scritti, ma anche agli aneddoti e ai
racconti di famiglia... Io stesso ho
riscontrato, nell’Amleto, tre debiti
letterari del Bardo dell’Avon, che
si ricollegano in modo sorprendente a opere di Tommaso Moro, o a
detti a lui attribuiti, su cui spero di
offrire – se Dio lo vorrà –, quando
mi sarò meglio documentato, un
resoconto.
Giorgio Faro
PIAZZA QUADRATA
di Dino Basili
«Tuittar no es gubernar»
Tuittar no es gubernar. Visto l’andazzo, viene voglia di
riciclare l’adagio attribuito allo scrittore spagnolo Salvador de Madariaga, col posticcio tuittar al posto di
asfaltar (preso a sinonimo di un’azione epidermica
quanto ambiziosa: molta apparenza, poca sostanza).
Superfluo aggiungere che asfalto e tweet, pur sommati, non generano rivoluzioni. Neppure in mille e una
notte. «Passodopopasso», afferma Matteo Renzi. Senza un valido pass? Ancora: «Non cederò di un centimetro». Certo, i principali dossier sono flessibili, le
scelte strategiche pure. Da Cartesio al minestrone, ripensare oh oh. Risultato? Signoreggiano le iniziali in
de: depressione, deflazione, delusione, demagogia, demerito, deprezzamento, deindustrializzazione, demotivazione e via decrescendo.
Il populismo digitale non «sblocca», anzi talvolta
«sbrocca». Cambio di consonante, tanto per imitare i
giochetti di parole così bazzicati dal Premier. Eccone
un altro: ogni promessa vana aumenta il debito. Un terzo? La carica inno-vatrice non può adagiarsi a mezza
strada: all’inno... Divertissement. La componente ludica, insegnava quel volpone di nonno Palmiro, è «tra i
bisogni elementari delle masse».
La crisi è appensantita da climi molli e aggressivi insieme. Slogan contro slogan. Tasse chiamate con un altro nome. Miliardi ballerini di tip-tap nella tragicomica
quotidiana sui tagli. Testi legislativi tecnicamente imperfetti. Proclami e smentite che serpeggiano, spirano
e risorgono nel giro di «nanosecondi» (termine in voga
a Palazzo Chigi anche in una fase più riflessiva). «Epocale» è un aggettivo bruciato. L’ottimismo programmatico sembrava dar giovamento, invece si è rivelato
dannoso. Con la velocità divorata dall’ansia.
Ripetere ogni giorno che «bisogna» fare questo e quello non allevia i «bisogni». Che sono molteplici, estesi,
urgenti. Le riforme vere, operative e non vaganti in una
sorta di universo parallelo, richiedono urticanti bagni
di realtà. In qualche misura, sollevano cumuli di scontenti assortiti e sono osteggiati dalle cupole rosse (locali, sindacali, corporative) che non permettono di
«asciugare» canali e pozzanghere della spesa pubblica
improduttiva. Scure affilata sopra burocrazie e balzelli? In un PD fragile e destabilizzante, dove c’è sabbia
perfino nei motori della corrente renziana, contano di
più gli squilibri interni, i poteri immediatamente utilizzabili, i rimasugli ideologici. Le doppiezze non hanno
limiti: diversi dem arrivano a sostenere, causa «incidenti in famiglia», che l’antiberlusconismo giudiziario
è stato un grosso errore.
In mancanza di meglio, vanno in onda segnali. Miriadi
di segnali... Previsioni indipendenti? Di questo passo,
continueremo a segnare il passo: tra comizi bollenti e
coni gelati, tortelli e candeggine per camicie eurosocialiste, patti e pacchi. Intesi questi ultimi in senso gergale. Bidoni. Con Bruxelles e Berlino di guardia (vorrebbero infilare il naso pure nei decreti attuativi delle
riforme per controllare se sono doc). Il 2015 si profila
un anno di prove assai difficili. Urne comprese? Grazie alla favorevole politica monetaria della BCE si galleggia, ma non si attraversa l’oceano dei nostri affanni.
A partire dal malessere della democrazia rappresentativa, confermato dagli strazianti scrutini a Montecitorio
per coprire i vuoti nella Corte costituzionale e nel CSM.
(Nel primo titolo, in prima pagina, del primo giornale, un sondaggio è riassunto in quattro righe quattro:
«Due italiani su tre hanno fiducia nel Premier. Le
mosse sull’economia però non convincono». Stop. A
parte che i due connazionali, a leggere nelle pagine
successive, sono «quasi due», l’apprezzamento suona
singolare. Il nostro punto più che dolente sta proprio
nell’economia: è qui, allora, che vanno valutate le decisioni e le indecisioni di chi guida il governo. La vulgata secondo cui Renzi è «il più grande comunicatore
della storia repubblicana» spiega, da un lato, il resistente appeal del personaggio; dall’altro, la diffidenza verso la cosiddetta «annuncite». Non è affatto sicuro che un abile tribuno 2.0 sia il leader capace di tirar fuori un Paese da secche e paludi. Nell’interesse
generale. Del resto, fischiettare alla gente le sue canzoni preferite è cosa differente dal «cambiar verso».
Chiudendo la parentesi, attenzione alla marea dei sondaggi ammanniti. Alle loro insidie romanzesche o
promozionali. Piuttosto, le regole dell’Authority
competente sono rispettate e aggiornate?).
l Una politologa cinese, Zang Liha, osserva che l’inefficienza è, per l’Italia, «un problema anche più grave della corruzione». Si può discutere parecchio sulle
scale di «gravezza» (si scrive, si scrive: vedi Francesco
Petrarca...). Tuttavia non fa una grinza sostenere che
l’inefficienza sistemica è una forma antica, moderna e
contemporanea di corruzione. Letale.
723
ARTI VISIVE
Segantini il grande & il mistico Chag
Il dipinto è di piccole dimensioni.
Su un neutro sfondo luminescente emerge la figura ancor più minuta di un ragazzino, contadino
vestito a festa, gambe divaricate,
mani sulla testa, sguardo fiero, timido e sprezzante a un tempo.
Non è pittura di costume, non è lo
sdolcinato pauperismo ottocentesco. Qui, oltre all’invidiabile tecnica, c’è intendimento, condivisione, amore per questo monello
che vive realmente sulla tela. Siamo nel 1880 e Giovanni Segantini, ventiduenne, mostra a Milano
il suo straordinario talento.
Esposto solo due volte da allora e
ancor oggi senza una vera storia
critica, questo Giovinetto ciociaro
è uno dei tesori della mostra in
corso a Palazzo Reale di Milano:
Segantini, a cura della maggiore
studiosa segantiniana Annie-Paule Quinsac e dalla pronipote Diana Segantini, con uno strabiliante
catalogo Skira, complemento indispensabile. Sì, perché quest’esposizione cambierà, deve cambiare, le nostre idee su Segantini.
Non c’era mai stata in Italia – ma
forse anche da nessuna parte –
una vera e propria retrospettiva
critica del pittore, che per oltre un
secolo ha vissuto nell’immaginario di tutti ricoperto da miti e luoghi comuni. L’occasione è storica.
Adesso abbiamo gli strumenti per
collocare Segantini tra i più grandi pittori della storia moderna.
Due anni prima del Giovinetto,
quando studiava ancora all’Accademia di Brera, aveva dipinto Il
coro della chiesa di Sant’Antonio
Abate in Milano, diventato famoso fin dal primo giorno. Doveva
essere solo un saggio scolastico
di prospettiva, ma ne venne fuori
724
un capolavoro. Gli stalli del coro
presi controluce, una luce che filtra dalla grande finestra in alto e
che svela le forme e le qualità del
legno, del pavimento in cotto, del
dipinto in penombra. È un prodigio di equilibrio pittorico tra descrizione ed emozione, di bilancio tra il marginale e il poetico.
Due note di questo dipinto, che è
da considerare l’esordio dell’artista, reclamano attenzione: l’ispirazione fotografica dell’insieme
e la luce come artefice delle forme e delle suggestioni. Tutta la
ricerca estetica di Segantini è uno
sviluppo di questo binario.
Un creatore
di luce
Chi pratica la pittura troverà di
grande interesse la tavolozza,
quella vera dell’artista, qui esposta. Di solito le tavolozze, a base
di mescolare colori e di raschiarli via, acquistano uno sporco tono grigio-verde. Non qui. Questa
conserva le tracce di colori primari, vibranti come negli ultimi
dipinti, quelli realizzati con questa tavolozza. Segantini, inseguitore della luce, della luce dipinta,
non è un imitatore dei fenomeni
naturali, ma un «creatore di luce». Spesso i titoli dei quadri svelano la sua intenzione: Riposo all’ombra, A messa prima, Mezzogiorno sulle Alpi, Effetto di luna,
Contrasti di luce ecc.
Se ciò è evidente nelle opere degli anni Novanta con il suo particolare divisionismo, è altrettanto
vero per l’intera sua parabola.
Contemporaneo del Giovinetto è
Il Naviglio a ponte San Marco,
dove i riflessi, il rosso dei mattoni, l’azzurro del cielo, i toni sgargianti di ombrelli e palloncini,
insieme alle oscure ombre, creano un effetto abbagliante. Così
pure nei ritratti. Quello della
Giovane signora (1880), più affrancato dalla scapigliatura rispetto ad altri, è uno sfavillio di
pulviscolo dorato intorno al volto
dai contorni imprecisi, come il
raggio di sole che filtra in una
stanza impolverata.
Nel 1887 utilizza già i forti impasti di colore, che emanano più luce. Costume grigionese, una ragazza che beve alla fonte, potrebbe esserne il manifesto. Fa ricordare gli impasti dorati di Rembrandt, ma anche il contemporaneo Van Gogh dei paesaggi provenzali. E pensare che non conosceva Van Gogh e che probabilmente non aveva mai visto Rembrandt. Segantini non è meno
grande. Ed è assai autonomo.
Dell’arte europea di fine Ottocento conosceva quel che aveva
potuto vedere in Accademia oppure nella galleria Grubicy attraverso pubblicazioni e riproduzioni. Mancava poi della formazione scolare di base. E pur essendo
introdotto nella borghesia colta
milanese, abbandonò l’ambiente
urbano della scapigliatura con la
sua poetica borghese per la quiete e la purezza montanara. Tutto
questo mantenendo per l’intera, e
breve, vita una grande popolarità
e fortuna. Ciò rivela un genio
particolare, che fu capace di teorizzare la propria poetica malgrado la sgrammaticatura.
Per la sua strada, inseguendo la
luce profonda delle tele, giunge
negli anni Novanta a un partico-
all
lare, personalissimo divisionismo. Per quanto abbia avuto notizie, come realmente accadde,
della teoria della luce, il suo non
è un divisionismo scientifico alla
francese né quello filamentoso di
Previati. Egli accosta sottili ma
grasse pennellate che nell’insieme possono dare un’idea del colore locale, ma che nella varietà
tonale fanno sì che ogni angolo
della tela vibri come i riflessi sotto il sole. Così lo descriveva Segantini stesso in un breve scritto.
Segantini non è un divisionista
puro e non è nemmeno impressionista. Una certa somiglianza
di linguaggio non comporta necessaria affinità. I grandi paesaggi degli ultimi anni sono all’opposto dello spirito impressionista. Ripropongono le vedute in
maniera concettuale e simbolica,
lontana da quel fare che nelle
sfumature di luce e nell’imprecisione della macchia cercava d’imitare il modo umano di percepire. Qui c’è una messa a fuoco totale, dal primo sasso fino all’ultima vetta e alle nuvole più lontane. Certo l’aria limpida delle
montagne svizzere facilitava
questa visione, ma essa rimane
una visione meditata, calibrata,
voluta proprio in quel modo.
Questi grandi paesaggi sono
qualcosa d’indimenticabile. È
questo un termine, indimenticabile, applicabile soltanto alla
grande arte. Con difficoltà lo si
può dire dei suoi contemporanei
milanesi, da Bianchi a Cremona
allo stesso Previati e perfino al
Longoni, con il quale Segantini
mantenne un lungo sodalizio. Oltre alla tecnica, all’abilità compositiva, alla sensibilità cromati-
Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco, 1890, St. Moritz, Museo Segantini, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini.
ca, c’è in questi dipinti, sottintesa, una sorta di sacralizzazione
della natura. Non sono paesaggi
da salotto, sono superfici spesso
vaste che ci avvolgono e ci fanno
sentire piccoli esseri, come quelli raffigurati, viventi all’interno
di un tutto smisurato e onnipotente, ubertoso e tiranno.
Visionario
& profetico
Segantini non era comunque panteista. Non vedeva Dio nella natura, non lo vedeva da nessuna
parte a dire il vero. Diceva di credere soltanto alla propria coscienza. Era ignorante, sostanzialmente, ma aveva il fiuto dell’artista vero, che è sempre visionario e profetico. È significativo
che egli volesse dipingere un panorama alpino. Intendeva quelle
pitture a cerchio, a 360 gradi o
quasi, collocate in appositi locali-baracconi, che la gente guardava estasiata attraverso dei visori.
Si fece costruire un modello in
legno a scala ridotta nel quale
provare i dipinti. Il progetto non
andò avanti, ma di panorami meravigliosi ce ne ha lasciati tanti,
specialmente quel Trittico dell’Engadina, di larghe dimensioni, non presente in mostra per
difficoltà di conservazione.
Ma un tallone d’Achille c’è ed è
la retorica adoperata in certe scene di costume contadino o montanaro. Curioso che scene simili inserite in un ampio panorama si
fondano in esso come qualcosa di
naturale e necessario. Ma le composizioni di pastori e pecore, la
fatica del contadino, e perfino la
celeberrima (e in sé bellissima)
Ave Maria a trasbordo (1886) cadono nella leziosità di chi vuole
strappare a ogni costo un lamento, un sospiro, un sussulto. Era un
atteggiamento comune nella pittura lombarda dell’epoca. Segantini studiò a fondo le diverse
composizioni «arcadiche», come
dimostra la gran quantità di disegni preparatori. Ripeteva fin nei
dettagli la stessa scena con varianti leggere. A volte i disegni
sono anche posteriori al dipinto,
come a insistere, a cercare ancora
l’effetto patetico migliore. Si tratta tuttavia di grandi disegni, ese-
725
guiti con tecnica raffinata ed efficaci come un dipinto, belli da morire. Si aggiunga questo ai meriti
della mostra: averci fatto conoscere dal vero tanti bei disegni segantiniani, esposti bene senza le
fastidiose precauzioni che di solito accompagnano la grafica impedendone di fatto la fruizione.
Un punto fermo
su Marc Chagall
Sulle pagine di Studi cattolici (n.
323) il compianto Renzo Fabris
scrisse a fine anni Ottanta un fondamentale articolo sui temi cristiani nell’arte di Chagall. Era tra
i primi a inquadrare bene il singolare fenomeno di un artista eminentemente ebraico che dipinge
Gesù in croce. L’argomento torna
ora d’attualità con la grande retrospettiva di Marc Chagall a Palazzo Reale di Milano. Curata da
Claudia Zevi e con duecentoventi
opere esposte, è da considerare un
punto fermo negli studi sul maestro russo. Contemporaneamente
il Museo Diocesano di Milano
espone la serie d’illustrazioni chagalliane della Bibbia. Ebbene, tra
le opere di Palazzo Reale si contano dodici crocifissi. Il maggiore
studioso di questo tema, Marcello
Massenzio, la definisce una «presenza ricorrente in modo ossessivo nella pittura di Chagall». E aggiunge, riferendosi ad alcuni lavori in mostra: «Un Cristo il cui
corpo androgino dalle proporzioni imponenti è rappresentato in
modo antinaturalistico con tratti
scabri, nervosi, spezzati. Un lungo scialle di preghiera si frappone
tra il legno della croce e il corpo
del Messia che si offre nudo allo
sguardo; il volto affilato è sfigurato dallo strazio, come rivela soprattutto l’impressionante dettaglio degli occhi asimmetrici: l’uno è una sottile fessura chiusa,
l’altro è fisso sulla tragedia che si
sta consumando nello spazio sottostante. La bocca spalancata
emette un grido in cui si mescolano orrore e dolore; è come se il
726
Marc Chagall, La crocifissione in giallo,
1938-42, Parigi, Centre Pompidou.
Cristo volesse dar voce ai muti
patimenti delle vittime del nazismo per impedire – è la nostra lettura – che il martirio degli ebrei,
consumato nel silenzio, finisca
col perdersi nell’oblio. Se è così,
quel grido – che appartiene non
meno a Chagall che al Cristo, con
il quale il pittore tende a identificarsi – è il sigillo del dipinto».
Difficile non essere d’accordo. Il
Cristo di Chagall è un Cristo
ebreo, con lo scialle di preghiera
e i filatteri. È una personificazione dell’atroce dolore del popolo.
Ed è illuminante che quest’iconografia inizia in Chagall con
l’arrivo di Hitler al potere. In una
lettera del 27 giugno 1933, indirizzata all’amico-scrittore Yosef
Opatoshu, l’artista racconta:
«Uno dei miei quadri proveniente da un museo in Germania
(Mangeym) [Mannheim] è stato
portato in giro per la città e poi
bruciato». Chagall era tra i più
invisi esponenti dell’«arte degenerata», da eliminare.
Ma perché Cristo? L’animo assettato di Marc guardò avidamente le immagini della cultura
occidentale al suo arrivo a Parigi.
Scrive Grazia Massone: «Le sue
tele si riempiono di immagini pescate con libertà dalla tradizione
iconografica narrativa cristiana e
da quella simbolista ebraica; Cristo in croce porta il tallet, lo
scialle rituale per la preghiera, diventando emblema della persecuzione del popolo ebraico, il gallo
ebraico che ha il potere della preveggenza ricorda ai cristiani il
tradimento di Pietro, la sposa e lo
sposo che sono il segno del patto
tra Dio e il popolo d’Israele possono alludere all’interpretazione
della Chiesa come sposa di Cristo». L’artista ha operato una sorta di fusione, leggibile da entrambi i punti di vista. Del resto
la figura di Cristo come simbolo
dell’homo patiens è antica quanto il cristianesimo.
Tutto ciò acquista senso a partire
dalla concezione dell’arte che
Chagall professava: «È un atto
religioso». E ancora: «È a torto
che alcuni hanno paura della parola mistico, che le danno una colorazione troppo decisamente ortodossa. Occorre strappare a questo termine il suo aspetto desueto, ammuffito; bisogna prenderlo
nella sua forma pura, intatta, Mistico!, quante volte mi hanno gettato in faccia questa parola, come
un tempo mi si rimproverava di
essere letterario! Ma senza mistica, esisterebbe forse al mondo un
solo grande quadro, una sola
grande poesia, o anche un solo
grande movimento sociale?»
(Qualche impressione sulla pittura francese, 1944-45).
Così, non stupisce quanto scrive
in uno degli ultimi pensieri: «Un
giorno, io lo so, mi accoglierai e
della morte svanirà il ricordo ma
non l’amore, e della vita svanirà
il mistero ma non l’incanto. E al
compagno delle mie paure potrò
mostrare finalmente quanto – segretamente – io desideravo che
mi fosse accanto nel giorno della
Tua rivelazione».
A volte, affianco al crocifisso raffigura sé stesso che lo dipinge.
Come fece Zurbarán. E in una
delle opere in mostra egli si autoritrae nella veste di un asino.
Michele Dolz
CRUCIVERBA
di Florio Fabbri
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Alcune definizioni fanno riferimento a nomi di autori e a titoli apparsi
in numeri precedenti di Studi cattolici o Fogli. Una buona occasione
per tornare a sfogliare le riviste.
Fra tutti gli abbonati che invieranno entro il 30 novembre 2014 l’esatta soluzione del cruciverba, verranno estratti tre buoni acquisto da
euro 100 in libri del catalogo Ares. Gli analoghi premi messi in palio
tra i solutori del cruciverba n. 641/42 (luglio/agosto 2014), qui risolto, sono stati vinti dai signori: Teresa Bruno, di Torino; Giovanni
Peron, di Settimo Milanese (Mi); Gloria Simeone, di Firenze.
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ORIZZONTALI: 1 Apparecchio rivelatore. - 8 Tito, eroe bresciano. - 13 Grandiosa imponenza. - 18 Il titolo dell’editoriale in
Sc 639. - 20 Organi motori dei
Mastigofori. - 21 L’intelletto di
Virgilio. - 22 Il primo romanzo di
Stendhal. - 24 L’involucro della
damigiana. - 25 La Scarnati,
giornalista TV. - 27 Due a Valencia. - 28 Domata... con l’acqua. 30 L’Innocenzo di casa Facchinetti. - 31 I re delle foreste canadesi. - 33 Il profeta, padre di Seariasùb. - 34 Ogni corda ne ha
due. - 35 Uccello che bubola. 36 Pesci dei Salmonidi. - 39 Si
dà, a volte. - 40 Si adoravano in
casa... nel Pisano. - 41 L’apparecchio disidratante descritto in Casalinghità in Fogli di marzo. - 42
Finisce... al fresco. - 44 Faglia
terrestre. - 46 Sono sorgenti. - 47
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Michele, patriota vibonese. - 49
L’oriente inglese. - 50 Adoperano
pigmenti. - 51 Dipinse L’angelo
della vita (in Sc. 637). - 53 Se aumentano, i prezzi calano. - 54 Il...
de Nangis in Les Huguenots di
Meyerbeer. - 55 Un esecutore come Uri Caine (in Fogli di settembre 2013).
VERTICALI: 1 Protetti, tutelati. - 2 La camelia... in famiglia. 3 Lo scrittore Corti (in Sc 636). 4 Chi la alza s’insuperbisce. - 5
Asportata. - 6 Il grido dell’acrobata. - 7 Paga Carlo Conti. - 8
Gianni, magistrato-giallista (in
Sc 639). - 9 Colma il serbatoio. 10 Il vulcano di Empedocle. - 11
Opere di ripristino. - 12 Sì anagrammato. - 13 Si esprimono
chioccolando. - 14 Mozza il fia-
to. - 15 Prefisso per sei. - 16
George, amata da Chopin. - 17
Le nostre edizioni. - 19 La cipria
che... asciuga. - 23 I contorni delle isole. - 25 Periodo... di digestione. - 26 Mitici folletti nordici.
- 29 Cavalletta dal forte stridìo. 30 Ente spaziale degli USA. - 32
Costituenti dell’atomo. - 34 La
regione di Mileto. - 35 Giovanni,
fotografo di moda. - 36 Eroe dei
fumetti, creato da Hergé. - 37
Una Banda... in complesso. - 38
Causa vescicole cutanee. - 39 Pelati al naturale. - 40 All’opposto
di quaggiù. - 41 Una dote dell’animo. - 42 Il profeta che incontrò
Amazia. - 43 La nave di Giasone.
- 44 La trama del film. - 45 Il padre di Edipo. - 46 Scopi... sottili.
- 48 Un... bavarese. - 50 Fa eco...
al tip. - 52 Iniziali del compositore Rota.
727
MUSICA
Infelici & felici amori
«Trepida allora Dido e fieramente / nel suo intento decisa, gli occhi torvi, / sparsa le guance frementi di macchie, / pallida già
della futura morte, / oltre le interne soglie, in cima al rogo, / irrompe furibonda, forsennata; / e
la spada d’Enea, non a tal fine / a
lui richiesta, snuda» (Virgilio,
Eneide, cap. IV, vv. 931-941).
Riscoprire Purcell
In questi versi si condensa una delle immagini più potenti che abbiano colpito la creazione di musicisti
e pittori. Da Tintoretto a Claude
Lorrain, l’abbandono dell’amato si
mescola con l’orgoglio ferito e la
nobiltà sfregiata; da Cleopatra alla
Norma, la donna abbandonata e la
regina respinta creano una mescolanza che giustifica l’odio della
stirpe, che da quel passo s’inoltra
per la storia romana, e persino
odierna. Tanta ricchezza portò con
sé una figurazione che ne fece addirittura il nerbo della prima opera
inglese, da lì a poco sopraffatta da
quella italiana, che ne soffocò gli
intenti e ne disperse i primi vagiti.
Ci riferiamo a quella che si può definire la prima opera d’Oltremanica, Dido and Aeneas di Henry Purcell, rappresentata in un collegio
femminile a Chelsea, nei sobborghi
di Londra, nel 1689, su libretto di
Nahum Tate, brillante librettista
formatosi alla scuola di John
Dryden, importante collaboratore
di Purcell. Tate fu notevole conoscitore sia di Virgilio sia di Ovidio,
del quale tradusse l’Ars amatoria e
i Remedia amoris, e fu anche editore con J. Dryden delle Metamor-
728
fosi e delle Heroides, epistole che
s’immaginavano scritte da donne
famose ai loro amanti. La settima è
proprio quella che la regina di Cartagine avrebbe scritto a Enea.
Non proprio la prima opera, se si
considera il Venus and Adonis di
John Blow, data privatamente dopo
il 1680, qualche anno prima di Albion and Albanius di Louis Grabu,
eseguito pubblicamente nel 1685,
dopo la Restaurazione: ma si trattava di due generi ibridi, quelli che
andavano sotto il nome di masque,
spettacolo già in voga dai tempi di
Shakespeare. La Didone di Purcell,
invece, rappresenta la fondazione
della lirica inglese, rafforzata dalle
grandi esperienze teatrali successive, dal King Arthur (1691) a uno
dei capolavori assoluti della storia
del teatro musicale, The Fairy
Queen (ispirato dalla shakespeariana Notte di mezza estate, 1692) fino al visionario The Tempest, or
the Enchanted Island (1695).
C’è un filo rosso che lega queste
esperienze teatrali di Purcell, mai
messo in debita luce dalle pur rilevanti biografie e studi sul maggiore musicista inglese che oggi riposa a Westminster. Nemmeno nel
fondamentale lavoro di J.A. Westrup (Professor Emeritus of Music, Oxford Univ., H. Purcell,
J.M. Dent & Sons Ltd., London
1975) ce n’è rilevante traccia: l’aspetto magico, stregonesco, fantasmagorico, celtico sarebbe da dire, che caratterizza tutte le opere
del maestro, Didone inclusa. Opposta, naturalmente, alla tradizione mitologica classica tipica dei
libretti in stile «italiano», che di lì
a vent’anni Georg Händel importerà in modo irrimediabile in Inghilterra, facendone un «protetto-
rato» dell’opera italiana fino a
Rossini e anche oltre.
L’enigmatico «Antro delle streghe» ha un che di sinistro e costruisce una elegia gotica ante litteram
che ritornerà solo nel Macbeth di
Verdi; la malvagità delle potenze di
quest’opera inquina gli edulcorati
antagonisti (i personaggi «negativi») così tipici dell’opera italiana
tutta, esacerbandone fin quasi la
struttura intera.
E l’ultima scena. Se non si può dire in assoluto, chi conosce la musica sa che questo finale è il più commovente che sia mai stato scritto.
Una scala discendente, ripetuta a
modo di passacaglia, sorregge a
gradi sempre più bassi una delle
melodie più struggenti. Didone,
metaforicamente, scende le scale
della vita verso il regno delle ombre, intanto che intona alla fedele
Blimunda «Remember me, but ah!
Forget my fate» («Ricordati di me.
Ma non del mio destino»). Il coro
finale chiede agli amori e ai cupidi
di approssimarsi, con le ali abbassate, a spargere rose sulla regale
tomba. Anche questa immagine diventerà un topos dell’iconografia
funeraria settecentesca, con scheletri e angioletti che cospargono di
rose gl’invariabili sepolcri.
«Dido and Aeneas»
a Milano
La più importante rassegna milanese di musica, MITO, ha offerto una
versione in forma di concerto del
Dido and Aeneas nella cornice suggestiva della basilica di Santa Maria
delle Grazie. Cominciamo dall’eccellente lavoro sull’Ars Cantica
Choir diretto da Marco Berrini. Co-
Federico Ferri ha diretto l’orchestra dell’Accademia degli Astrusi
La suggestiva cornice di Santa Maria delle Grazie.
minciamo da questo, perché la sensibilità delle varie voci che si sentivano quasi autonomamente e non
«impastate» in accordo unico, è cosa rara e di grandissimo gusto in
particolare da segnalarsi.
L’entrata dell’orchestra dell’Accademia degli Astrusi diretta da Federico Ferri è energica come un terremoto denso di forza, e ha impresso
un rimarchevole registro romantico
e dinamico al pathos d’insieme. La
compagnia di canto è di alto livello.
La Didone della soprano Anna Caterina Antonacci è stata di grande
sensibilità espressiva: ha avuto momenti eccelsi («Away. To death I’le
fly, if longer you delay», «Lontano,
io sarò volata, morta, se ritardi ancora») e grande perizia nel cambiare registro e tono nel ruolo della
Strega. Mi lascia più perplesso l’eccessivo vibrato («Ah! Belinda, I am
prest with torment…», «Ah! Belinda sono oppressa da un tormento...») e il monologo finale, che può
migliorare. Yetzabel Arias Fernandez, soprano, è stata una potente, sicura e determinante Belinda: il suo
grande talento si appoggia molto,
come da cantante operista, sulle vo-
cali, e questo ha lasciato un poco
più sfumata la dizione e la pronuncia del testo inglese. Laura Polverelli, Enea e seconda maga, bene
centrata sulla parte e commovente
nella sua pietas.
«Diario di uno
scomparso»
Amori sfortunati, amori a lieto fine,
anche se a caro prezzo, come sempre quando si parla d’amore. Ancora per la rassegna MITO, al Piccolo
Teatro Grassi è offerta una rara
composizione di Leoš Janáček,
Diario di uno scomparso. Mèntore
del compositore fu Max Brod, uno
degli uomini più intelligenti che informarono la cultura ebraico-praghese e tedesca dei primi del secolo: fu l’editore e in qualche modo lo
scopritore di Kafka, e alla sua segretaria – coadiuvata da figlie dai
contorni delinquenziali – andarono
(purtroppo) i manoscritti dello scrittore del Processo, ancora oggi disputa di rogatorie e processi internazionali. Appunto: processo come
destino. Di Brod però, Janáček ri-
corda che «al momento giusto arrivò come un angelo dal cielo. Lui
stesso un poeta. Ho paura di leggere le sue espressioni estatiche, temo
di inorgoglirmi troppo».
Il Diario, rappresentato per la prima volta a Brno nel 1921, è per
mezzosoprano, tenore, coro femminile e pianoforte; racconta di un
giovane attirato da una bella zingara, Zefka, che lo seduce. Dopo molti tentennamenti che mettono alla
prova il timorato e introverso Jan,
questi rompe gli indugi, abbandona
il villaggio e la sua gente: «Zefka
mi aspetta, con mio figlio tra le
braccia»; un diario d’amore, il diario di uno scomparso che fugge dal
mondo per trovare un nuovo mondo lontano denso di promesse. Il
bello è che questa vicenda aveva
qualcosa di autobiografico, essendosi Janáček effettivamente invaghito di «una donna di media altezza, scura di carnagione, i capelli ricci come le zingare e grandi occhi
sporgenti, con folte sopracciglia e
bocca sensuale», come la definisce
la moglie Zdenka, allenata a fronteggiare giovani rivali: questa aveva «conquistato il favore di mio
marito grazie al carattere allegro,
l’aspetto da gitana…». La gitana
però, pur lusingata, declina le profferte del vegliardo, da qui la sublimazione del sessantatreenne che
immagina una composizione di efficacia e concentrazione espressiva:
lui tenore, lei mezzosoprano, un
contorno di voci femminili che a
volte interviene, il pianoforte cui è
dedicato, a solo, il delicato Intermezzo erotico, nel quale si consuma
l’atto amoroso: un gesto musicale
di rara finezza. La vocalità modellata sulla prosodia, lontana da temi
conduttori o da melodie facilmente
riconoscibili, è giocata su accentuazioni emotive che sono la cifra stilistica di un autore di importante
originalità, ancora per certi versi da
scoprire al grande pubblico.
Un plauso per il contralto Veronikaq Hajnová, il tenore Richard
Samek, le soliste del Coro Filarmonico di Praga, per il pianista
Ivo Kahánek.
Massimo Venuti
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TEATRO
Teatro mensa & cibo spettacolo
Il diaframma tra attori e pubblico a
teatro è sempre più labile. Però
Pranzo d’Artista, raffinato esperimento tra cucina e narrazione proposto al Teatro dell’Arte di Milano
dalla compagnia Alkaest, o Teatro
di Terra delle Ariette, vissuto a
Torre Guaceto (Brindisi), radicalizzano l’incontro tra attori e pubblico. Che avviene banchettando.
«Pranzo d’artista»
nel segno di Babette
Tratto dal Pranzo di Babette di Karen Blixen, Pranzo d’Artista riprende l’idea del Convivio dantesco o del Simposio platonico. Attorno a una tavola imbandita, nella
condivisione di pane e vino, si crea
un intreccio esoterico. Un saggio di
training, tra misticismo e terapia.
Un contatto vagamente eucaristico.
Diletto del palato e della mente. Il
rito coinvolge 35 spettatori.
È un poema gastronomico che avvia una trasformazione. Lo spettacolo inizia quando non te l’aspetti.
Atmosfere soffuse, davanti a un
prosecco. Parte il racconto, che
neppure avevi spento il cellulare.
L’avventore con cui scambiavi due
parole si svela, in contropiede.
Esce dalla persona, entra nel personaggio. Il pavimento diventa palco.
Sembra un audiolibro. Ti ritrovi catapultato in uno scorcio scandinavo
di fine Ottocento. I personaggi
prendono respiro. Spettatori in incognito e camerieri ci confondono
nel gioco drammaturgico.
Musica da pianoforte. Note corpose: Schubert, Debussy, Mendelssohn, Chopin. Esegue dal vivo Greta Malerba. La sala da pranzo è dietro le tende. La luce disegna chiaro-
730
Due immagini tratte dallo spettacolo Pranzo d’artista, nel conviale allestimento della compagnia Alkaest, di Giovanni Battista Storti, in scena al Teatro dell’Arte di Milano.
scuri. C’è una tavolata in legno
grezzo, coperta da una nappa di cotone bianco. E un lampadario enorme di filamenti argentati, da cui
pendono tazzine, marmitte, mestoli,
schiumarole, arnesi vari da cucina.
Sorrisi, inchini. Mani vezzose accompagnano alla mensa. La narrazione della Blixen entra nel vivo. Il
pranzo di Babette è la storia di due
anziane signore figlie di un pastore
luterano, Martina e Filippa. La loro
vita compassata è sconvolta dall’arrivo di Babette, francese in fuga da
dolore e paura. La loro capacità
d’accoglierla, amarla, è ricambiata
da Babette con un pranzo sontuoso.
Il cibo è rito, viatico. Il valore di
agape dell’atto di condividere pane
e parole, è epifania, relazione.
Lo spettacolo si chiude con la condivisione rituale di cibo. Ma i dettagli di questo inconsueto epilogo sono nel contatto tra un maestro di cerimonia e il singolo spettatore/convitato, nei due giorni che precedono
lo spettacolo. Per questo non è possibile acquistare i biglietti la sera
stessa della replica, ed è necessario
che ogni spettatore prenoti lasciando un recapito per essere contattato
dal maestro di cerimonia.
È visibile l’impronta straniante, surreale di Tadeusz Kantor in questo
progetto in cui il suo discepolo Giovanni Storti, regista e attore, trucca
i luoghi da opere d’arte. Storti anima spazi non convenzionali. Ne rivela identità, memorie, appartenenze. Lo accompagnano gli attori
Paui Galli, Lorena Nocera, Erika
Urban e Marco Pepe (maestra di cerimonia Marzia Loriga, sculture
Roberta Colombo, spazio scenico
Valentina Tescari). Uno spettacolo
elegante e comunitario. Sazietà del
corpo e appagamento dello spirito
coincidono. La frugalità esteriore
lascia spazio a uno scambio interiore, ricco di emozioni e scoperte.
Natura musica cibo
nel «Teatro di Terra»
Ci sono format che sembrano creati apposta per certi contesti. È il caso di Teatro di Terra: natura, arte,
musica e cibo nei cortili dei contadini della Riserva naturale di Torre
Guaceto, sulla costa brindisina. È
il progetto Nelle case del Parco,
giunto nell’agosto 2014 alla XIV
edizione, curata dalla Compagnia
Thalassia di Mesagne. Ospitalità e
conversazione. Polenta, bruschetta
e formaggio. Peperonata, anguria e
vino. Il cortile della casa bianca di
Pinuccio Bellanova è lo scenario
ideale per Paola Berselli e Stefano
Pasquini, contadini-attori emiliani
della Compagnia delle Ariette, in
scena con Maurizio Ferraresi.
Teatro di Terra è ritrovo conviviale. Dopo gli applausi, anche qui si
mangia. Di nuovo rito, relazione.
Servito al pubblico dagli attori, il
cibo non solo conclude, dà anche il
via alla messinscena. Spicchi di
formaggio, come quello che Odisseo si aspettava da Polifemo in nome dell’ospitalità cara agli dèi. E
mandorle, sinonimo di rinascita e
saggezza, segreto e fecondità. Piatti brindisini. E cibi della terra delle
Ariette, associazione che dal 1989
Teatro di Terra
produce cultura teatrale. «Ariette»
è un podere in collina, 2,8 ettari di
terra in pendenza lungo la Valle del
Marcatore, sopra Bazzano, dalle
parti di Bologna. Qui i campi hanno un nome, come le persone: Ariette, Due querce, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Anche questa è convivialità. Come le storie che gli
spettatori ascoltano, disposti a semicerchio, intorno a una scena che
è terra e pollaio, paiolo e fornelletto a gas. E polenta, preparata durante lo spettacolo a segnare il tempo. A dare il ritmo. Lento. Solenne.
Come il movimento della «cannella», l’enorme mestolo di nocciolo
che serve a mescolare. Come il vomere per rivoltare la terra.
Teatro di terra è intreccio di esistenze e parole. «Non si può essere
contemporaneamente ciò che si è e
ciò che si è stati». È il tempo di una
trasformazione. Come per il mais
che si tramuta in polenta. Il cerchio
di terra al centro della scena è vita
da cui si nasce e polvere cui si ritorna. Ma un ciclo può anche chiudersi in modo innaturale. Come lo
sparo del G8 di Genova del 2001
che spense la vita di Carlo Giuliani, ed è una delle prime istantanee
dello spettacolo. Immagini di una
violenza qualunque. Non ci sono
imputati né schieramento ideologico. Solo la costatazione di ciò che
siamo. Capaci di donare la vita,
coltivare il pianeta, nutrire. Capaci,
anche, di distruggerci da soli. Sono
racconti di morte, amore e abbandono. Emozioni di un teatro civile.
Sono storie di semi e di carote. Cadenze di vanga e rastrello. E una
terra che è dono e sudore. Citazioni poetiche e musicali, da Pessoa a
Wim Wenders, da Tom Wait a Patti Pravo. Chiusura pirotecnica di
popcorn cotti in padella, saltellanti
come lapilli. E stelle filanti luminose, nelle mani degli attori.
Uno spettacolo sulla terra non poteva che essere artigianale. Forse un
po’ slegato drammaturgicamente e
perfettibile nella regia di Stefano
Pasquini. Per esempio, come fa lo
spettatore a capire che la genesi dello spettacolo coincide con i fatti del
G8 del 2001, e che il riferimento fu
considerato dalle Ariette un atto dovuto? Ma qui conta il cuore. E la
verità di tre figure che si presentano
in canottiera intima, con naturalezza quotidiana. Con i segni della pelle arrossata dal sole. E l’inflessione
emiliana così reale, più pulita della
dizione impostata dei teatranti.
Quando la riflessione sulla scena si
fa struggente, ecco la capacità di
smorzare: un naso da clown, una
barzelletta, palloncini multicolori.
Perché «non c’è impero o ideale
che valga un solo pupazzo di neve».
Le lacrime di un annaffiatoio sulla
parrucca di Paola Berselli; le miserie umane, non turbano la natura,
l’alternarsi di lavoro e riposo. Scopriamo che strappare a pezzettini
una banconota può essere un buon
affare. Mai smettere di sognare, ci
dicono le Ariette. Male che vada, ci
mangiamo su. Una spianata di polenta, profumi d’olio, parmigiano e
rosmarino. E un buon rosso. A scacciare la malinconia. A condividere,
con gioia.
Vincenzo Sardelli
731
CINEMA
Le stelle & l’amore per sempre
L’amore può essere per sempre? È
una domanda che i ragazzi pongono agli adulti osservando le loro famiglie frantumarsi dopo una separazione e nuovi amori nascere a
ogni età. Per fortuna, oltre alle statistiche aggiornate sull’incremento
dei divorzi e delle famiglie allargate, ci sono tante storie che possono
confermare l’eternità dell’amore,
senza stereotiparlo in un mito romantico e illusorio che non ha riscontro con la vita reale. I ragazzi
hanno sete di storie che aprano loro il cuore e che facciano intravedere la bellezza della vita, che li incoraggino a credere con ottimismo
che l’amore, come valore, è e può
essere una realtà. Per questo un
film come Colpa delle stelle, uscito a settembre nelle sale italiane,
continua a far parlare di sé, entusiasmando giovani e adulti. Adattamento cinematografico dell’acclamato romanzo dello scrittore americano John Green, diretto da Josh
Boone e prodotto da Twentieth
Century Fox, il film ha incassato,
solo in America, oltre 48 milioni di
dollari nei primi tre giorni di programmazione. Il libro di partenza,
stabilmente in classifica nelle prime dieci posizioni tra i romanzi più
venduti in America da quasi due
anni, ha conquistato anche la top
ten dei libri più venduti in Italia. Il
dato non sorprende perché l’autore,
che ha all’attivo un canale Youtube
tra i più seguiti sul WEB, è stato definito da TimeMagazine come una
delle cento persone più influenti al
mondo del 2014. Amato soprattutto dai giovani lettori, in The Fault
in our stars (questo il titolo originale dell’opera, tradotto letteralmente in italiano) ha dato vita a due
personaggi intensi e coinvolgenti,
732
Hazel Grace Lancaster e Augustus
Waters, interpretati rispettivamente
da Shailene Woodley e Ansel Elgort, attori che erano già fan del romanzo prima di essere scritturati.
Ad affascinare milioni di spettatori e lettori è la storia d’amore e
prima ancora di amicizia tra una
ragazza di diciassette anni, affetta
da un cancro alla tiroide propagatosi ai polmoni, e un ragazzo di
diciotto, ex giocatore di basket,
reduce da un osteosarcoma, a
causa del quale ha subìto l’amputazione di una gamba.
La malattia
fortifica i legami
I due protagonisti si conoscono a un
gruppo di supporto frequentato da
ragazzi malati di cancro. Gus nota
subito Hazel e non smette di fissarla. Anche Hazel ha notato quel ragazzo così carino che la guarda con
insistenza ed è imbarazzata, perché
non è abituata a essere l’oggetto di
interesse di sguardi maschili. Hazel,
fin da piccola, va in giro con una
bombola infilata in un carrettino di
acciaio che si trascina ovunque e
che le fornisce due litri di ossigeno
al minuto attraverso una cannula,
un tubo trasparente che le passa dietro le orecchie e poi si riunisce vicino alle narici. Non si è mai sentita
bella né desiderabile, perché convive con la malattia fin da piccola:
mentre lei rimbalzava tra corsie
d’ospedale e lunghe degenze, il
mondo correva veloce lasciandola
indietro, sola ed esclusa rispetto alle sue coetanee, intente a pensare
all’amicizia, all’amore, alle uscite.
Per questo sua madre pensa che sia
depressa: legge sempre e solo lo
stesso libro, non esce con nessun
amico. Eppure quando Gus entra
nella sua vita, Hazel si fa condurre
per mano e impara a controllare la
propria paura e a esserne più forte.
Gus la corteggia con delicatezza,
invitandola a un picnic, parlando
con lei di libri, regalandole fiori.
Grazie a Gus, Hazel si sente bella, come chi si vede restituita la
propria immagine dallo sguardo
dell’amato.
Hazel e Gus passano molto tempo
chattando o al computer, come i
ragazzi di oggi, ma la loro relazione non si esaurisce nel virtuale
e come tutti gli innamorati hanno
i loro leitmotiv, frasi o modi d’intendersi, che marcano l’esclusività del loro rapporto.
Hazel fa leggere a Gus il suo libro
preferito, Un’imperiale afflizione,
che ha il solo demerito di interrompersi a metà, proprio come la morte, che arriva senza preavviso a recidere il filo sottile che lega gli uomini alla vita. Gus, come ogni innamorato, vuole sorprendere e rendere felice la ragazza e per questo
si mette in contatto con Peter Van
Houten, l’autore del romanzo, riuscendo persino a farsi invitare ad
Amsterdam, dove questi vive.
Vuole regalare a Hazel la fine della
storia, come lei merita. I due ragazzi, insieme alla mamma di Hazel,
affrontano così un viaggio intercontinentale che li porterà all’incontro con lo scrittore, un misantropo cinico e crudele, ma soprattutto all’incontro con sé stessi e con
il loro desiderio di amarsi al di là
della paura. Da questo punto di
massima felicità, il film prenderà
una piega inaspettata, sorprendendo lo spettatore e travolgendolo in
una spirale d’intense emozioni.
Il rischio di inceppare in una pellicola sdolcinata o dai facili sentimentalismi e pietismi era alto, ma
l’adattamento di Boone evita tutto
ciò. Colpa delle stelle riesce a parlare del dolore in modo profondo e
non banale e lo fa nel modo più difficile, attraverso due protagonisti
adolescenti, apparentemente i soggetti meno adatti a impersonare un
tema tabù nella società occidentale
come quello della morte, per giunta per malattia. Pervaso di forte ironia, il film è a tratti persino divertente e spinge lo spettatore a interrogarsi su temi esistenziali.
I due protagonisti non sono belli e
affascinanti come gli attori di Twilight, ma proprio per questo sono
personaggi credibili e autentici.
Hanno paura di morire e sono consapevoli della gravità della loro malattia. Parlare di morte per loro non
è un tabù: Gus fa lo spavaldo, sembra molto sicuro di sé, è spiritoso e
coinvolgente. Tra le labbra tiene
sempre una sigaretta spenta, metafora del contatto con ciò che potrebbe ucciderlo, se solo lui gli permettesse di farlo. Crede nel Paradiso, perché diversamente nulla
avrebbe un senso e «Dio desidera
vedere gli uomini felici». Hazel è
più scettica, ma non cinica: pensa
che potrebbe non esserci nulla nell’aldilà, ma le parole di Gus le danno speranza. Hazel ama l’ottimismo di Gus, la sua voglia di vita, la
sua sicurezza. Gus ha solo una
grande paura: l’oblio. Ha paura che
con la morte verrà dimenticato; ha
paura di non realizzare nella sua
breve vita qualcosa di memorabile,
ma allo stesso tempo l’incontro con
Hazel abbatte in parte questa paura,
perché capisce che essere unico e
speciale per lei, gli garantisce l’immortalità nel cuore e nei pensieri
dell’amata, e questo gli basta.
Per una volta, in controtendenza
con tanti film adolescenziali in cui
l’amore si costruisce soprattutto sul
piano fisico e attrattivo, Colpa delle stelle racconta dell’innamoramento, che è paragonato al prendere sonno. Come dice Hazel parlando di Gus: «Mi sono innamorata di
lui come quando ci si addormenta.
I due giovani protagonisti di Colpa delle stelle.
Piano piano e poi profondamente».
C’è solo una breve scena d’amore
ad Amsterdam che appare meno
autentica nel contesto della storia,
perché ci mostra i due protagonisti
fin troppo disinvolti e poco timorosi per essere due ragazzi alla loro
prima esperienza. Non è però una
scena perno del film, che per il resto descrive l’amore tra i due giovani con tenerezza e delicatezza.
A parte alcune scene un po’ superflue, che allungano il film senza
aggiungere nulla di particolarmente significativo alla trama, la sceneggiatura è pervasa d’ironia e di
dialoghi intensi e significativi. La
colonna sonora, con artisti di tutto
rispetto come Ed Sheeran, è diventata famosa soprattutto per il singolo Boom Clap di Charlie XCX, tra
le hit musicali del momento sia negli USA sia in Europa.
Grande finezza
psicologica
Il film ha il merito di toccare in modo non superficiale diversi aspetti
della malattia, tra cui il rapporto tra
genitori e figli malati. Hazel è consapevole che ancora più duro che
avere un cancro è essere genitori di
un figlio che ha un cancro. I genitori di Hazel sono figure adulte presenti, affettuose, unite tra loro.
Sempre all’erta e pronti a intervenire in caso di necessità, cercano al
contempo di trasmettere serenità alla figlia, incoraggiando anche il suo
rapporto con Gus. Entrambi s’impegnano a vivere, anziché sopravvivere, e per questo, senza dirlo inizialmente a Hazel, decidono di dedicarsi al volontariato, per mettere a
disposizione di altri genitori che
condividono la loro stessa situazione la propria esperienza di vita. Hazel ne è felice, perché la sua paura
più grande è che, dopo la sua morte, i suoi genitori smettano di vivere e rinuncino per sempre alla possibilità di essere di nuovo felici.
Il film non edulcora la realtà, ma
tratta il tema della malattia e della
morte in modo consapevole. I protagonisti hanno il coraggio di dirsi
che la loro malattia è ingiusta e che
la morte è terribile per chi sopravvive alla perdita di un amato, ma
allo stesso tempo sono pieni di
amore per la vita, e non chiedono
né vogliono nulla di meno di rapporti autentici e profondi. Come dice Hazel in una delle scene più toccanti del film, tra 0 e 1 ci sono infiniti numeri, ma tra 0 e 2 ce ne sono
ancora di più, semplicemente perché «certi infiniti sono più grandi
di altri». Forse al loro amore è stato assegnato un infinito più piccolo
ed entrambi vorrebbero più giorni
da condividere insieme, ma vale la
pena amarsi per conoscere il «per
sempre» che solo l’Amore vero sa
garantire.
Eleonora Fornasari
733
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Frammenti di Festival
Uno dei privilegi di non scrivere
per un quotidiano, alla frenetica
ricerca di un titolo per la pagina
spettacoli, o per una rivista super
specializzata, dove il criterio per
valorizzare le pellicole di un Festival coincide spesso con quello
della maggiore astrusità, è proprio che di un Festival, ripensato
a qualche settimana di distanza,
si possono ricordare i film davvero amati. Quelli che chi scrive si
sente di consigliare perché possono essere un piccolo tesoro da
scovare nella rassegna colta o
una pellicola più nota, ma che
potrebbe anche perdersi nel mucchio delle uscite che ci aspettano
di qui a Natale.
Ecco perché in questo pezzo mi
prendo il lusso di evitare un semplice riepilogo dei titoli vincitori
(anche se, giusto per contraddire
le critiche di chi diceva che a Venezia ormai si premiano film che
nessuno vedrà perché non vengono distribuiti in Italia, quest’anno
i vari vincitori avranno l’onore di
qualche giorno di sala...), per raccontare che cosa ho visto di bello
(e meno bello) in qualche giorno
veneziano.
Se la sceneggiatura
fa la differenza
Ho un debole per i film in cui la
sceneggiatura fa la differenza, e
quindi mi si perdonerà se il primo titolo che cito, l’iraniano Tales (tra l’altro vincitore proprio
del premio Osella per la sceneggiatura), è uno di quelli capaci di
intrecciare storie differenti con
un forte legame tematico, in questo caso quello della sopraffazio-
734
ne nei confronti di umili e deboli, in una società, quella iraniana,
dove la burocrazia fa quasi più
paura dell’integralismo. In questo mondo sono le persone a fare
la differenza: persone come la regista Rakhshan Banietemad, che
ha voluto girare il suo film senza
compromessi con la censura, e
persone come i personaggi di
questa storia, in lotta per i loro
diritti, ma anche, come tutti, per
un pezzo di felicità.
All’estremo opposto per genere e
provenienza geografica, ma basata allo stesso modo su un incastro di precisione di situazioni e
vicende umane, si situa la commedia di Bogdanovich She is
funny that way, gioco di equivoci
e fraintendimenti un po’ alla maniera di Woody Allen, in cui l’ottimo cast (Imogene Poots, Owen
Wilson, Jennifer Aniston e molti
altri) strappa risate a ripetizione
in uno spettacolo degno della migliore commedia americana.
Per rimanere in America e in tema di grandi attori, non si può dimenticare l’abbinata paciniana
che Venezia ha regalato al suo
pubblico. Mattatore assoluto in
The Humbling (storia di un attore
in crisi, che tenta il recupero, reale o immaginario, grazie al legame con una donna molto più giovane di lui), Pacino mi è piaciuto
però molto di più nel mesto, ma
sincerissimo Manglehorn, in cui
veste i panni del proprietario di
un negozio di chiavi e ferramenta, un uomo chiusosi in sé stesso
a seguito di un amore perduto e di
un difficile rapporto con il figlio
arrivista; ma l’occasione di cambiare si presenta (e coinvolge anche una cassiera di banca che ha
il volto di una bravissima Holly
Hunter) a riprova che, forse, davvero non è mai troppo tardi.
In entrambi i film la grandezza di
Pacino è innegabile, ma in Manglehorn lo sguardo del regista
David Gordon Green fa sì che la
bravura non diventi mai maniera
e lo spettatore condivida fino in
fondo e con commozione il
dramma del protagonista.
Intenti morali
& un drammone
È passato quasi inosservato, nonostante il cast di tutto rispetto
(Andrew Garfield, il nuovo Spiderman, ma anche Michael Shannon, beniamino di tanto cinema
indipendente e villain del recente
Man of Steel), 99 Homes di Ramin Bahrani, che invece è il perfetto esempio di cinema civile
americano. È la storia di un giovane carpentiere con figlio e
mamma a carico che finisce
sfrattato e per «salvarsi» inizia a
lavorare per e con lo spietato
agente immobiliare responsabile
delle sue disgrazie. L’esito è forse scontato, ma la pellicola ha
una sua solidità e la capacità di
denunciare per l’ennesima volta
gli scandali di una società che
spinge a consumare, ma poi macina i suoi cittadini senza pietà.
Sospetto (ma dovrò aspettare come tutti l’uscita nelle sale visto
che l’ho mancato) che anche The
Good Kill di Andrew Niccol
(quello di Gattaca), dedicato alla
crisi morale di un pilota di droni
americano, faccia parte di questa
tipologia.
Così come, con altri modi e altra
provenienza, si distingue per il
suo intento «morale» anche Loin
des Hommes con Viggo Mortensen, ispirato a un racconto di Camus, che rievoca l’inizio della
guerra di Algeria, con tutte le sue
contraddizioni e i suoi dolori nascosti, nello sguardo di un uomo
«giusto» che non sa trovare ragione all’odio e alla violenza.
Mortensen, bravo come sempre,
recita senza difficoltà in francese
a fianco di Reda Kateb in un
dramma storico riuscito solo a
metà, forse troppo ingessato nel
voler proporre i suoi temi per lasciar respirare fino in fondo l’ispirazione del suo materiale di
partenza.
Altri due francesi, Trois Coeurs e
La rançon de la gloire, sono uniti dal medesimo interprete, quel
Benoit Poelvoorde, belga di nascita, reso famoso da tante commedie. Il primo è un drammone
sentimentale (due sorelle, la Mastroianni e la Gainsbourg, si innamorano in tempi diversi dello
stesso uomo, Poelvoorde, appunto) destinato a non lasciare traccia di sé, il secondo una commedia amara ambientata negli anni
’80 che invece colpisce per la
sincerità dei suoi personaggi.
Della pattuglia italiana mi sono
persa Il giovane favoloso di Martone (che ha voluto raccontare
più l’uomo di pensiero in crisi
che il poeta del dramma umano).
Per alcuni, peraltro, è stato e sarà sui nostri schermi soprattutto
il Giacomo Leopardi di Elio
Germano, a volte talmente bravo
da mangiarsi i personaggi che interpreta.
Ho invece visto, e apprezzato,
pur non gridando al capolavoro,
Il Leone d’Oro Roy Andersson
Anime Nere di Francesco Munzi,
una storia di faide famigliari tra
Calabria e Nord Italia in cui nell’ottimo cast si distingue Fabrizio
Ferracane, nei panni di un uomo
che ha tentato tutta la vita di restare fuori dal sistema criminale
nella sua terra, ma deve infine arrendersi a una logica senza misericordia o perdono, non senza che
questo porti a esiti tragici.
Personaggi
estremi
Sempre criminalità e sempre tragedie sono al centro di Senza
nessuna pietà, l’opera prima di
Michele Alhaique, che costruisce
il suo noir attorno alla fisicità deformata di Pierfrancesco Favino
(20 kg di muscoli in più per raccontare un gigante buono trascinato da una ragazza in una spirale di violenza), ma conserva nonostante la morbosità e la durezza
di ciò che racconta, a dispetto del
titolo, uno spazio per la pietà nei
confronti dei suoi personaggi.
Personaggi estremi (forse per
questo premiati entrambi con la
Coppa Volpi?) anche quelli del
nuovo film di Saverio Costanzo,
Hungry Hearts. Al centro una
giovane coppia, in cui la donna
(interpretata da Alba Rohrwacher), di fronte alla gravidanza
imprevista, comincia a sviluppare un’ossessione alimentare (un
veganesimo spinto e condito di
un’ossessione per la purezza in
senso lato) capace di portarla ad
«affamare» il figlio neonato. Il
marito (l’americano Adam Driver – del resto la storia è ambientata a New York, dove Costanzo
dice di essersi sentito spaesato e
solo quanto i suoi personaggi)
tenterà invano di riportarla alla
ragione. Personalmente ho faticato a coinvolgermi in una storia
e in un percorso umano così
estremi (che forse avrebbero meritato un approfondimento psicologico maggiore): ho trovato forzato il finale, ma non ho apprezzato nemmeno il continuo passare da un genere all’altro (soprattutto le incursioni nell’horror/thriller con tanto di immagini
deformate dell’ultima parte). E
se nel personaggio di Driver ho
comunque potuto apprezzare uno
spaccato di umanità sincera, nel
caso del personaggio della Rohrwacher mi è parso di trovarmi di
fronte a un caso limite più irritante che minaccioso.
Mi rammarico di non poter dire
praticamente nulla dei vincitori:
né del Leone d’Oro, lo svedese A
pigeon sat on a branch reflecting
on existence di Roy Andersson,
di cui tutti, anche i suoi estimatori, dicono trattarsi di un raffi-
735
natissimo esercizio stilistico e
filosofico dal discreto peso specifico; né del Leone d’Argento,
quel The postman’s white night di
Andrei Konchalovsky girato per
le steppe del Nord della Russia
con attori non professionisti, camera digitale e I-Phone. Conoscendo i miei gusti, credo che
questo ritratto quasi documentaristico di una piccola comunità
non mi sarebbe dispiaciuto.
Quanto a The Look of Silence,
documentario dello statunitense
Joshua Oppenheimer (già autore
di The act of killing, presentato a
Venezia nel 2012) e sempre dedicato al genocidio in Indonesia e
alle purghe anticomuniste degli
anni ’60 in quel Paese, non so
condividere l’entusiasmo che ha
portato ad attribuirgli il Gran premio della giuria. Il modo in cui il
film analizza il tema è inedito e
interessante, ma questo riconoscimento sembra più un omaggio
alla «moda» di attribuire premi ai
documentari (come l’anno scorso
a GRA) piuttosto che a una reale
eccellenza.
In chiusura mi permetto un’ultima raccomandazione, fondata
sulla stima per il regista, dal momento che che anche questo film
mi è sfuggito: Birdman, il film
d’apertura, firmato Iñarritu, con
un grande Michael Keaton e un
altrettanto eccellente Edward
Norton. La storia è quella di un
attore in crisi che cerca il rilancio
come regista di teatro, ma deve
misurarsi con un interprete istrionico e isterico finendo perso in
un turbine dai tratti surreali. Una
premessa che vale la scommessa
di una visione.
Luisa Cotta Ramosino
Un cocktail come la vita
Colloquio con il Leone d’Oro Roy Andersson
l Scusi, Maestro, ma c’è una
cosa che non ha mai detto a nessuno? Gliela dico se mi ripete in
svedese il titolo del mio film che
ha vinto il Leone d’oro di Venezia.
l Ora capisco il suo famoso senso del grottesco. Sì, ma il titolo?
l In italiano è: Un piccione sul
ramo che riflette sull’esistenza.
Posso arrivare all’inglese: A pigeon sat on a branch reflecting
on existence. C’è però un controsenso. Tutto il mio cinema lo è.
l Un regista qualcosa dovrebbe
insegnare, fosse anche un titolo
in svedese. Ecco il titolo: En duva satt pa en gren och funderade
pa tillvaron. Ma io non pretendo
di insegnare niente a nessuno.
l Non l’ha mai visto? Due volte l’anno andavamo nel suo ufficio e ci diceva cosa fare.
l Consigli utili? Mi aveva stroncato con una frase senza scampo.
l Se la ricorda? Certo: «Se continui a usare le cose che hai il privilegio di ottenere qui non riuscirai mai a girare un film».
Bergman, De Sica,
Fellini & Beckett
ma svedese? Avevo 24 anni e
vedevo il cinema come militanza. E poi c’era un altro fatto.
l Quale? Sapevo che Bergman
sbagliava.
l Militante ma un po’ presuntuoso. Sbagliava sulla guerra in
Vietnam.
l Sbagliava anche sul suo futuro di regista, visto il Leone
d’Oro. Ero emozionatissimo al
momento del verdetto. Non riuscivo neanche a stare seduto
sulla poltrona.
l Che cosa faceva? Usavo l’attrezzatura della scuola per filmare le manifestazioni contro la
guerra in Vietnam.
l Ha pensato alla bocciatura
di Bergman in quel momento?
L’unico regista a cui penso è Vittorio De Sica in Ladri di biciclette.
l Non lo poteva fare? Certo che
potevo.
l Perché proprio quel film?
Per una scena in particolare.
l Beh... sì. Le sembra che lui
avesse il senso dell’umorismo?
l Perché Bergman se la prendeva tanto? In realtà, non m’importava.
l Scusi, ma lei non frequentava
l Snobbava un mito del cine-
l Una sola? Al Monte dei Pegni, quando l’assistente cerca un
posto nel capannone ma ci sono
troppe biciclette portate dalla
gente impoverita.
l Da qualcuno avrà imparato,
per esempio da Ingmar Bergman? Ha mai visto un film di
Bergman?
736
la scuola di Bergman a Stoccolma? Lui era solo un osservatore.
l Che cosa l’ha colpita? La capacità di emozionare con un’allegoria. Come vorrei fare sempre
nei miei film.
l C’è riuscito col vincitore del
Leone d’Oro? È l’ultimo film di
una trilogia.
l Quando è iniziata? Nel 2000
con Songs from the second floor.
È proseguita sette anni dopo con
You, the living.
l E sette anni dopo ecco A pigeon sat on a branch reflecting
on existence. Sono 39 situazioni
su cui riflettere in modo grottesco.
l Il grottesco felliniano? Ho
sempre amato Fellini.
l I critici però dicono che lei
usa la camera fissa come faceva
Bergman. Intravedono anche l’umorismo raggelante di Beckett.
l Non se la prende? E perché?
l Come reagisce quando le dicono che il suo cinema è un
cocktail tra drammaticità e
umorismo? È così perché così è
la vita.
l Un cocktail con un retrogusto apocalittico? È uno sguardo
riflessivo sull’Aldilà.
l Uno sguardo da credente?
Non sono credente. Mi piace evocare una sensazione di purgatorio.
l Scusi Maestro, ma se non è
credente come giustifica il Purgatorio? Intanto, il mio purgatorio è con la p minuscola.
l Questione di refusi? Questione di sostanza.
l Potrebbe essere più chiaro,
per me è... svedese. Vorrei rendere tutti omogenei.
l O forse più banalmente come
Stanlio e Ollio? Anche. Per come affrontano la vita.
l In senso spirituale? In senso
universale.
l Situazioni che accomunano
un po’ tutti. Abbiamo cose basilari in comune, ovunque viviamo.
l Scusi, ma non è un po’ generico? Un mondo senza distinzione del colore della pelle.
l Scusi, ma se questa non è religione! Per me è una dimensione
senza tempo, un po’ come nel
teatro giapponese.
l Da cosa si fa influenzare nei
film oltre che dalla finta-nonreligione? Dalla storia dell’arte.
l Un periodo in particolare?
Dal Rinascimento alla Nuova
Oggettività.
l Qualche nome? Otto Dix e
Georg Scholz, due tedeschi degli
anni ’30.
l Perché proprio loro? Hanno
un tratto grottesco che sa catturare la realtà.
l Lei che cosa cercava? L’atmosfera speciale tra l’uomo e lo
spazio.
l L’ha trovata? L’essere umano
può mentire, ma l’ambiente circostante rivela sempre la realtà.
Felicità, rispetto,
tristezza & paura
l C’è un pittore che l’ha ispirata più degli altri? Bruegel il
Vecchio col dipinto Cacciatori
nella neve.
l In che senso? In senso artistico, letterario.
l Colpito dai cacciatori? I tre
cacciatori con i loro cani rappresentano le allegorie sui vizi umani.
l Ma l’idea del purgatorio,
seppure con la p minuscola? È
l’idea della sospensione del giudizio.
l Invece tra gli scrittori? Cervantes. I due commessi viaggiatori del film sono come Don Chisciotte e Sancho Panza.
l Per esempio? La felicità. Il rispetto. La tristezza. La paura.
l Quella che ci unisce di più?
La paura.
l Di che cosa? La gente ha paura del futuro.
l E lei? Di questa società che
non mi piace.
l Che cosa non le piace? La
mancanza di sensibilità verso le
persone più vulnerabili che vengono umiliate.
l Rimedi? Ciascuno deve reagire con gli strumenti che conosce
meglio.
l Il cinema, per esempio? Nel
mio film faccio un mix della realtà, che a volte è affascinante altre
spaventosa.
l Soddisfatto? Sono felice di
essere riuscito a farlo nel nuovo
stile.
l Prima, com’era? Più realista.
l Che cos’è cambiato? Sono
più coraggioso.
l Dove? Nell’abbandonare dopo
15 anni il realismo e passare all’astrazione.
l Sarà astratto anche il prossimo film? Sarà ispirato ai Los Caprichos di Goya.
l In digitale? Naturligtvis!
l Scusi? È svedese!
l Naturligtvis!
Claudio Pollastri
737
ARES NEWS
Ricominciare da Müller & Péguy
Dal 5 al 19 ottobre si è svolto a
Roma il Sinodo straordinario dei
vescovi «Le sfide pastorali sulla
famiglia nel contesto dell’evangelizzazione»: i preparativi e i
lavori hanno infiammato i mezzi
di comunicazione che spesso, come era già accaduto durante il
Concilio Vaticano II, hanno cercato di divaricare lo spazio tra le
linee «progressiste» o «conservatrici» della Chiesa. Certamente,
un ottimo spunto per riflettere è
offerto da La speranza della famiglia (Ares, Milano 2014, pp.
80, euro 9,50), il nuovo libro del
card. Gerhard Ludwing Müller,
prefetto della congregazione per
la Dottrina della Fede (qui intervistato da Carlos Granados, direttore delle Edizioni BAC). Al
volume hanno fatto riferimento
numerose testate, tra cui Avvenire, Il Giornale, Credere, Il Gazzettino, Il Giornale di Sicilia, La
Gazzettà del lunedì...). Peccato
che Andrea Tornielli sulla Stampa («Se i cardinali frenano alle
aperture del Papa», 18/9) abbia
738
ripreso facendo riferimento a
un’operazione mediatica contraria «a ogni apertura alla comunione per i divorziati risposati». I
lettori probabilmente la pensano
diversamente: il libro corre verso
la terza edizione...
Giovanni Fighera su Tempi.it
(«Famiglia sii ciò che sei», 6/10)
lo ha recensito in modo approfondito: «Müller rilancia la proposta
della tradizione cristiana, quella
dell’amore per sempre che si incarna nella famiglia stabile e duratura. La preparazione al matrimonio deve avvenire fin dall’infanzia e dall’adolescenza e deve
diventare “una delle massime
priorità educative della pastorale”». In apertura del Sinodo, La
Provincia di Como ha dedicato a
Müller due intere pagine (5/10). Il
«lenzuolo» era significativamente
titolato: «Quelle coppie senza fede nell’amore» e proseguiva: «Il
cardinale lancia l’allarme: la famiglia è stata privatizzata, non è
più sostenuta dalle istituzioni, e i
legami tra i coniugi sono troppo
spesso privi di trascendenza».
L’autorevole agenzia Zenit ha
presentato invece ampi estratti
(«L’importanza del sacramento
del matrimonio», 18/9) della prefazione al volume firmata dal
card. Fernando Sebastián: «Il nostro problema più grave è il gran
numero di battezzati che si sposano civilmente e degli sposati
sacramentalmente che non vivono né il matrimonio né la vita
matrimoniale in sintonia con la
vita cristiana e gli insegnamenti
della Chiesa, che li vorrebbe come icone viventi dell’amore di
Cristo verso la sua Chiesa presente e operante nel mondo».
Un poema limpido
& indimenticabile
La vita di Charles Péguy meritebbe un film. Povero, socialista, indomito fondatore dei Cahiers de
la Quinzaine, poeta, drammaturgo, saggista, soldato. Fu tra i primi a cadere agli albori della Prima
guerra mondiale. A spartiacque
della sua vita, il ritorno, dopo una
lunghissima elaborazione, al cattolicesimo (che gli causò l’ostilità
della moglie). Alla sua figura ardente, Roberto Gabellini ha dedicato un intenso poema (L’ultima
marcia del tenente Péguy, Ares,
Milano 2014, pp. 168, euro 14)
che rievoca i suoi ultimi trenta
giorni: la mobilitazione, la partenza verso il fronte, le marce estenuanti, l’ultima veglia di preghiera di fronte a un’immagine della
Madonna, il fatale incontro con il
nemico, il pomeriggio del 5 settembre 1914. Il volume, presentato in anteprima al Meeting di Rimini, è stato subito bene accolto al
suo esordio in libreria. Così Silvia
Stucchi lo ha presentato su Ilsussidiario.net: «Roberto Gabellini si
cimenta in un’impresa insolita e
ambiziosa, ma coronata da successo: riflettere, poeticamente,
sul destino di Charles Péguy morto un secolo fa proprio agli inizi
della battaglia della Marna. La
forma scelta è quella del poema:
poesia narrativa, in forma di ballata, che associa l’elemento narrativo con quello meditativo e introspettivo in un dialogo fra il
contemporaneo e il passato» («Tenente Péguy trenta giorni per toccare il mistero», 1/10). Del libro
si è tornato a occupare Davide
Brullo su La Voce di Romagna
(«Un riminese fa risorgere il tenente Péguy. Per le Edizioni Ares
un’opera davvero coraggiosa»,
14/10) nonché il settimanale Tempi (22/10) e Attualita.it (15/10).
Valori per i ragazzi
grazie allo sport
Bellezza gratuità cameratismo
(Ares, Milano 2014, pp. 144, euro
15) è il polifonico vademecum curato da Nicola Lovecchio e Giancarlo Ronchi per ricordare il valore formativo dello sport: «Solamente uno sport proposto e vissuto come momento di arricchimento della propria umanità, come
esperienza di autentica bellezza,
Con Il padre libertà dono (Ares, pp. 192, euro 14) Claudio Risé
si è aggiudicato la XXXI edizione del Premio Capri San Michele
sezione «Psicologia». Nella foto, l’Autore con Grazia Bottiglieri,
membro della giuria, durante la premiazione del 28 settembre.
come occasione di espressione libera delle proprie capacità è uno
sport che assolve veramente il suo
compito educativo ed è in grado
di non farsi ridurre a pura merce
di scambio, di non cedere a ricatti
di chi, per i propri interessi, lo
vuole snaturare o cerca il suo “angolino di potere”». I contributi del
libro sono di primissimo piano, da
papa Francesco a Benedetto XVI,
dal card. Bagnasco al card. Scola,
passando per celebri atleti come il
calciatore Luca Rossettini o il
campione mondiale di pallanuoto
Alex Giorgetti. Al volume è stato
dedicato un ricco servizio di
Gianluca Mazzini andato in onda
su Sportmediaset di Italia Uno alle 13 (11/10) ed è stato visto da oltre 1,7 milioni di persone. Il supplemento di Avvenire Newssport
si è soffermato a lungo sul libro
presentandone i contenuti e le finalità.
Un premio «Corti»
per le scuole
Lo scorso 6 ottobre la Fondazione
«Costruiamo il futuro» ha lanciato
la prima edizione del Premio Letterario «Eugenio Corti» riservato
alla scuole secondarie delle Province di Lecco e Monza Brianza.
Il concorso è promosso in collaborazione con l’Università Cattolica
del Sacro Cuore, le Edizioni Ares,
la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, l’Associazione
Eugenio Corti, l’Associazione
Culturale Internazionale Eugenio
Corti, e la Fondazione «Il Cavallo
rosso». I ragazzi potranno partecipare in gruppo (mostra, cortometraggio, elaborato musicale) o singolarmente (racconto, poesia). Per
informazioni www.costruiamoilfuturo.it.
Alessandro Rivali
739
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LIBRI & LIBRI
Una storia diversa
Paolo Poponessi, L’intransigente.
Storia della fondazione de L’Osservatore Romano, Il Cerchio, Rimini
2013, pp. 108, euro 14.
Anche se come numero di copie
vendute non è certamente al top
della carta stampata, L’Osservatore Romano è comunque uno dei
giornali più importanti del mondo,
uno dei non moltissimi che fanno
parte della giornaliera lettura obbligatoria delle persone che contano a livello di governo, di ambasciate, di multinazionali.
I padri fondatori furono, il 1° luglio
1861, riprendendo il nome di un
precedente quotidiano uscito a Roma fra il 1849 e il 1852, un avvocato forlivese, Nicola Zanchini, e un
suo collega di Cento (oggi in provincia di Ferrara), Giuseppe Bastia,
che ne furono anche i primi direttori. Quindi due laici, fedeli sudditi
pontifici, nati nelle Legazioni, le
province più settentrionali dello Stato Pontificio, che la storia risorgimentale presenta da sempre come le
più avverse al governo del Papa-Re.
Quando lo Stato delle Chiesa perse
le Legazioni, lo Zanchini, divenuto
funzionario pontificio nel 1846
quale segretario dell’Amministrazione Provinciale di Forlì (al concorso, nel quale aveva ottenuto il
secondo posto, il primo era stato
conseguito dal suo compaesano Aurelio Saffi, mazziniano e futuro
triumviro della Repubblica Romana), prese la via dell’esilio romano.
Non fu il solo fra i cittadini delle
Legazioni a prendere questa decisione per mantenersi fedele al Papa-
Re. A Roma, difatti, lo Zanchini incontrò fra gli altri esuli il Bastia,
che tuttavia, a differenza di lui, non
aveva rotto del tutto i legami con le
ormai l’ex-Legazioni, tanto che a
Bologna, dove aveva studiato e si
era sposato, nel 1860 assunse la difesa di mons. Gaetano Ratta, vicario della diocesi bolognese, condannato a tre anni di carcere per non
avere autorizzato il clero locale a
partecipare alle celebrazioni per
l’anniversario dello Statuto Albertino. A Bologna il Bastia rientrò dopo
avere lasciato, assieme allo Zanchini, la direzione dell’Osservatore, e
lì nel 1890 pubblicò il saggio Il dominio temporale dei Papi dal 1815
al 1846, nel quale poneva una domanda in totale contraddizione con
la storiografia ufficiale: «Non è
chiaro che l’opinione pubblica, come oggi la chiamerebbero, batteva
all’unisono col sistema, coll’indirizzo, col pensiero, colla volontà del
Governo? Che l’universalità dei
sudditi stava col Principe, paga delle sue leggi e del suo reggimento,
perché omogeneo e rispondente ai
bisogni, agli interessi, alla prosperità di tutto quanto lo Stato?».
Due personalità, quindi, di notevole spessore culturale e condannate
all’oblio, sorte comune a tanti sudditi pontifici, colpevoli di essersi
mantenuti fedeli al Papa e di non
avere, a differenza di tanti altri,
cambiato opinione dopo il ribaltone
politico-istituzionale seguito alle
vittorie delle armi franco-sabaude.
Più fortunati di altri, Zanchini e
Bastia hanno attratto la curiosità di
un sagace esploratore degli angoli
più accantonati della storia, ma
proprio per questo più interessanti
e, non di rado, più ricchi di utili rivelazioni giovevoli anche ai tempi
nostri. A riproporceli vivi e attivi,
portatori di interessi e di idee che,
nonostante i centocinquant’anni
trascorsi, rappresentano tuttora,
per dirla con il filosofo James,
«opzioni vive», è il giornalista e
scrittore Paolo Poponessi con il libro L’Intransigente, appellativo riferito a Nicola Zanchini, il cui ritratto illustra la prima di copertina,
ma includente sia il Bastia (ritratto
in quarta di copertina) sia L’Osservatore. Difatti anche il quotidiano
della Santa Sede è protagonista di
un libro che ne evidenzia le caratteristiche che lo hanno connotato
fin dalla sua nascita: l’assoluta modernità di impostazione e di linguaggio, e, soprattutto, l’universalità, indispensabile per una pubblicazione destinata al ruolo di quotidiano della Santa Sede. A questo
proposito, Poponessi evidenzia sia
il largo spazio concesso dal giornale ai dibattiti su grandi questioni
culturali, filosofiche e politiche,
sia il costante interesse per la realtà italiana in quanto più prossima e
caratterizzata da violenta conflittualità con la Chiesa cattolica, sia
gli articoli riguardanti quanto in
quegli avveniva in ogni parte del
mondo: dall’Irlanda e dalla Polonia al Messico di Massimiliano
d’Asburgo e (anche con le testimonianze di cittadini americani direttamente coinvolti) all’America del
Nord lacerata dalla guerra civile
fra Unione e Confederazione.
L’ultimo capitolo fa capire in modo
diretto la chiave interpretativa dell’impegno giornalistico dello Zanchini e del Bastia, che oggi si direbbe militante in quanto finalizzato «a
cooperare secondo le proprie forze
alla difesa della propria Religione e
del proprio Sovrano»; Poponessi in-
741
fatti riporta il testo di undici editoriali (dal 1° febbraio 1862 al 10 ottobre 1865) riguardanti gli attacchi
al cattolicesimo portati dal governo
sabaudo-liberale attraverso il tentativo di «protestantizzazione» del popolo italiano e le limitazioni imposte
alle istituzioni religiose in campo
educativo, le reazioni messe in atto
dai cattolici, gli avvenimenti, letti
assai più in chiave religiosa che nazionalistica, dell’Irlanda cattolica tenuta in stato di oppressione dal dominio protestante inglese, e della
Polonia, proprio in quegli anni insorta contro il governo zarista.
Il ritratto umano e culturale dei due
laici emiliano-romagnoli rimasti
fedeli, pur da italiani a pieno titolo
quali si consideravano, al Papa-Re,
convinti com’erano che il potere
temporale fosse garanzia di libertà
per la missione della Chiesa nel
mondo, fa anche emergere un
aspetto della loro terra negli anni
della costruzione dell’Italia sabauda alquanto diverso da quello tramandato dalla storia ufficiale. Intorno allo Zanchini e al Bastia si
intravede un mondo caratterizzato
dal permanere di una forte affezione al Papa e di fedeltà al suo governo, non solo nello «zoccolo duro» dei funzionari del regime pontificio, ma anche nella popolazione, in particolare nei ceti popolari
dei contadini e della gente umile.
Francesco Mario Agnoli
Tesi da rivedere
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI
secolo, Bompiani, Milano 2014,
pp. 948, euro 18,70.
Che cosa sappiamo della distribuzione della ricchezza e della sua
evoluzione nel lungo periodo? La
domanda apre il libro di Thomas
Piketty Il capitale nel XXI secolo.
Nell’esposizione delle sue tesi,
l’Autore – docente dell’École des
autes études en sciences sociales
di Parigi – segue tre filoni. Presenta i risultati di un’ampia ricerca
742
empirica; muove un feroce attacco
agli economisti; e, infine, conclude
in chiave di lettura politica.
La metodologia della ricerca ha suscitato un interessante dibattito. In
proposito, Francesco Forte ha manifestato perplessità sul fatto di
mettere insieme (omogeneizzare)
dati plurisecolari sulla diseguaglianza dei redditi in una ventina di
Paesi. Il principale obiettivo polemico di Piketty è l’economista Simon Kuznets, il quale aveva mostrato una visione ottimistica dell’andamento della distribuzione
della ricchezza. La «curva di Kuznets» infatti mostra che la disuguaglianza cresce nelle prime fasi dello sviluppo economico, ma, dopo
un punto di massimo, tende a ridursi. La pesante riduzione della
disuguaglianza tra il 1914 e il 1945
era dovuta alle guerre mondiali;
negli anni successivi – come documenta Piketty – la disuguaglianza
riprese a crescere. In proposito,
l’Autore è molto polemico: «La disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della
passione per la matematica e per le
astrazioni teoriche, a scapito della
ricerca storica e del raccordo con
le altre scienze sociali» (p. 59).
Questa affermazione forse mostra
che l’Autore non conosce F.A. von
Hayek e gli economisti della Scuola austriaca che non utilizzano il
linguaggio matematico e vedono
l’economia integrata all’interno di
una scienza molto più generale:
una teoria generale dell’azione
umana. Secondo Hayek, per questa
scienza generale dell’azione, il termine più appropriato è quello di
«scienze praxeologiche». Inoltre,
non possiamo tacere l’impressione
che la polemica contro l’economia
intesa come metodo sia funzionale
a una lettura ideologica. Che viene
sintetizzata in un’equazione: «r >
g», ossia il tasso di rendimento del
capitale (r) è, e secondo Piketty sarà sistematicamente, superiore al
tasso di crescita dell’economia (g),
in una spirale di progressiva concentrazione della ricchezza, proprio come prevedevano (per ragioni diverse) Ricardo e Marx.
Poiché alla lunga la crescita delle
disuguaglianze risulta insostenibile, conclude Piketty, essa deve essere corretta attraverso un’imposta
globale e progressiva sui patrimoni. L’intervento è di natura politica
perché è il funzionamento del «capitalismo» a produrre conseguenze
indesiderabili sul versante della disuguaglianza. L’argomento è tanto
apparentemente lineare quanto insostenibile; anche perché non è necessariamente vero che «r» debba
essere sempre maggiore di «g». Infatti, recentemente, Luigi Zingales,
dell’Università di Chicago, ha sottolineato che la disuguaglianza a
livello mondiale non è aumentata,
anzi: «A livello globale, tutti i decili di reddito sono cresciuti allo
stesso modo».
Roberto Giorni
Pascal inedito
Bruno Nacci, La quarta vigilia, La
scuola di Pitagora, Napoli 2014,
pp. 434, euro 35.
Pochi ricordano che Giovanni
Gentile mise come esergo del suo
testo filosofico fondamentale (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916) il famoso pensiero
di Pascal in cui all’immensità dell’universo fa riscontro quella più
grande del pensiero, ritrovando così nel pensatore francese quel primato dello spirito a cui voleva
idealmente ricongiungersi.
In realtà Blaise Pascal, se si escludono gli studiosi, in Italia è più noto che letto, ma anche tra i suoi lettori è corrente l’idea che si tratti di
uno scrittore religioso appartato,
quasi un anacoreta o un bigotto,
polemico e al limite dell’ortodossia cattolica, famoso per le sue scoperte scientifiche e per la battaglia
contro i gesuiti a favore dei giansenisti di Port-Royal. Questa biografia di Bruno Nacci riempie un vuoto nella nostra cultura sul terreno
degli studi non specialistici, mostrando al contrario un Pascal agia-
to borghese, intraprendente capitalista, spirito indipendente e fiero,
non di rado insofferente di ogni appartenenza a schieramenti o conventicole, fossero pure quelle che
ruotavano attorno a Port-Royal.
Il metodo seguito dall’autore è
quello di una cronaca degli ultimi
quattro anni e mezzo della vita di
Blaise, seguiti mese per mese, sullo sfondo della vita del piccolo
mondo delle religiose del convento, tra cui la sorella Jaqueline. Non
si tratta dunque di un racconto più
o meno romanzato, come spesso
accade nelle biografie, ma della ricostruzione documentaria della vita
del grande scienziato negli anni decisivi della composizione dei Pensieri, la sua opera incompiuta e più
famosa, sullo sfondo delle infinite
lettere, biglietti, memoriali che animano la vita del convento in uno
dei periodi cruciali della sua esistenza. Cronaca ma anche riflessione sulla vita e l’opera di Pascal, sugli stretti rapporti con il mondo
scientifico, come nel caso del concorso internazionale da lui bandito
per la risoluzione del problema matematico della cicloide, riflessione
che si fa commento di alcuni brani,
invitando a scorgervi una profondità di pensiero non di rado resa ardua da una forma d’intelligenza
tanto acuta quanto sintetica.
Ma non solo le vicende interne a
Port-Royal, costantemente minacciato dai suoi nemici, accompagnano la vita di Pascal, bensì quelle più grandi, di ordine teologico,
con l’esposizione chiarificatrice
dei termini esatti dello scontro tra i
giansenisti e i loro avversari (non
solo gesuiti), ma anche politico,
come le pagine dedicate al cardinale di Retz e alle sue smodate ambizioni. Non mancano notazioni di
carattere più concreto, che riguardano la vita quotidiana della prima
metà del Seicento, afflitta da guerre, fame, repressioni, rivolte, epidemie, alluvioni, bizzari personaggi, che illuminano le condizioni in
cui si sviluppa il pensiero pascaliano, a cospetto di un’epoca che ha
tratti simili a quelli oscuri e problematici del Novecento europeo.
La parte più avvincente di questa
«cronaca» rimane a nostro avviso
la ricostruzione del dissidio interiore che lacera, senza mai ricomporsi se non in prossimità della
morte, Pascal.
Grande fisico e matematico, famoso per le sue esperienze sul vuoto e
la pressione atmosferica, per aver
avviato il calcolo delle probabilità e
quello infinitesimale, ma anche imprenditore abilissimo (possedeva un
magazzino ai mercati generali, ideò
e realizzò il primo servizio di trasporti pubblici a Parigi, costruì la
prima calcolatrice della storia) egli,
a differenza di Cartesio, avvertì lo
smarrimento davanti alle rovine del
vecchio mondo, e colse in anticipo
e con assoluta precisione i sintomi
della secolarizzazione e di quel razionalismo integrale che avrebbero
contrassegnato in modo inequivocabile la modernità. Avvicinandosi
la fine, molto dolorosa, rinnegò tutto ciò che non fosse il sacrificio di
sé e la dedizione completa ai poveri, immagine di Cristo, si allontanò
dalle vane dispute, dall’orgoglio
della sua prodigiosa intelligenza,
dagli affetti più cari.
Commentando un famoso pensiero, Nacci, che dedica molte pagine
al rapporto tra Pascal e la sorella,
vicepriora a Port-Royal, esempio
inarrivabile per Blaise di dedizione
assoluta alla vita religiosa, scrive:
«Il Getsemani rimane nell’intarsio
della scarna prosa pascaliana un
momento alto e di quasi aperta
confessione, dove il senso drammatico della vita si trasfigura in
una verticalità inebriante, che poco
aveva a che fare con le dotte chiose dei solitaires, il loro timoroso e
antiquario senso del commento del
testo sacro come un atto, a sua volta, sacrale, per realizzare al contrario un confronto teso, in cui tutto il
materiale che gli altri si portavano
dietro, viene serbato e dimenticato
nello stesso movimento che lo supera, trasceso da un’urgenza febbrile». Né le scienze, né la tecnologia, né la nuova organizzazione
dello Stato e della società realizzate dalle classi borghesi, avrebbero
potuto ridare all’uomo la sua unità
spirituale, che per Pascal trovava
fondamento solo nella fede in Cristo, o, come avrebbe scritto un suo
studioso, Fortunat Strowski: «Gesù Cristo per lui è come un albero
o una montagna: un oggetto reale».
Luca Gallesi
Trinità & storia
Antonio Staglianò, L’Abate calabrese. Fede cattolica nella Trinità e
pensiero teologico della storia in
Gioacchino da Fiore, presentazione
di S.E. card. G. Ravasi, postfazione
di P. Coda, LEV, Città del Vaticano
2013, pp. 234, euro 16.
Come rileva il card. Ravasi nella
presentazione, Gioacchino da Fiore (Celico 1145 circa - San Giovanni in Fiore 1202), monaco cistercense, esegeta, filosofo, teologo, apologeta, riformatore, mistico, veggente, asceta e profeta, è sicuramente «una delle figure più
emozionanti, coinvolgenti e per
molti versi sconcertanti del Medioevo» (p. 9). L’intento del saggio
di mons. Staglianò, vescovo di Noto, è di dissolvere i sospetti di «triteismo» trinitario e di quello storico delle tre ère, abbattendo stereotipi interpretativi plurisecolari e
presentando un Gioacchino rassicurante nell’ortodossia della sua
fede. Come la Nota della Congregazione vaticana per la Dottrina
della Fede del 2001 ha definitivamente superato la condanna di Rosmini, sostenendo che il senso eterodosso di alcune sue proposizioni
è da ascrivere solo a possibili conclusioni tratte dalla lettura delle
sue opere, per Staglianò questo si
può ripetere per Gioacchino. Il
gioachinismo, infatti, modifica e
distorce le tesi di colui a cui pure si
ispira.
Innanzitutto, lo studioso chiarisce
come dalla lettura complessiva e
unitaria delle opere di Gioacchino
emerga che il corretto approccio
ermeneutico al suo pensiero deve
743
partire dalla dottrina trinitaria per
pervenire alla visione trinitaria
della storia, e non viceversa.
Confrontando l’ortodossia cattolica
sulla Trinità con la dottrina trinitaria
di Gioacchino, Staglianò evidenzia
come quest’ultima sia certamente
cattolica e poi come da essa derivi
una coerente e ortodossa visione
della storia (compromessa invece da
interpretazioni di altri autori che si
sentivano discepoli spirituali dell’Abate calabrese). L’aspetto che ha suscitato perplessità della visione storica di Gioacchino è la terza età della storia, connessa allo Spirito Santo, che sarà caratterizzata da una
Chiesa esclusivamente spirituale,
che avrà superato la propria configurazione gerarchico-petrina. Infatti, questa concezione parrebbe svuotare di significato l’incarnazione di
Cristo, che sarebbe ridotto a mera
prefigurazione transitoria dello Spirito Santo. Al contrario, l’insistenza
di Gioacchino sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio
implica che la terza Persona trinitaria sia lo Spirito di Cristo, sicché l’età dello Spirito conduce alla pienezza della verità che è sempre Cristo,
ossia l’incarnazione del Verbo è un
evento insuperabile, mentre crescerà
nell’età dello Spirito la percezione
comunitaria del significato salvifico
di tale evento e delle sue implicanze.
Gioacchino non è un «utopista» in
quanto non cala il Cielo sulla terra;
anzi, superando la teologia agostiniana della storia, ancora articolata
sulla base dello schema organicistico di nascita, crescita, invecchiamento e morte, per l’Abate la storia
è tesa verso il ringiovanimento, ossia verso il meglio, operato dallo
Spirito, sicché la realizzazione del
Regno di Dio sulla terra è solo l’inizio di ciò che si compirà «nell’eone
apocalittico-escatologico dell’epifania gloriosa dell’evento trinitario.
[...] Ora, benché l’età dello Spirito
sia il punto di convergenza e di risoluzione dell’intera teologia della
storia, ciò non deve far concludere
che il pensiero di Gioacchino sia
modalista o triteista», ossia che annulli la realtà delle tre Persone trinitarie o che ne faccia tre dèi vanifi-
744
cando il loro essere relazioni sussistenti nell’unica essenza divina,
«dal momento che l’azione dello
Spirito semplicemente non esclude,
né nell’essenza né nell’azione, le altre due divine Persone e l’azione dei
tre non è ternaria, bensì trinitaria»
per la circuminsessio o mutua compenetrazione delle tre Persone divine (pp. 134-135).
ria. Basta guardare l’imponenza dei
loro palazzi, a Roma, Caprarola,
Piacenza e altri luoghi. La loro storia, dal Medioevo fino all’estinzione nel Settecento, è raccontata in
maniera avvincente in questo volume curato da Stefano Zuffi e corredato da stupende fotografie e da rigorosi apparati scientifici.
Michele Dolz
Matteo Andolfo
Tra sfarzi & ombre
Stefano Zuffu (a cura di), Farnese. Duchi di Piacenza e Parma. Signori del Rinascimento e del Barocco,
Skira, Milano 2014, pp. 176 con
143 illustrazioni a colori, euro 50.
I ritratti di papa Paolo III eseguiti da
Tiziano mostrano un uomo enigmatico. Furbo, volitivo, provato. Alessandro Farnese, questo il suo nome
prima di diventare Pontefice, aveva
ottenuto il cardinalato per vie poco
chiare, ebbe diversi figli naturali e
un’ambizione sfrenata. Avviò Pierluigi, uno dei figli, alla carriera militare, con tutti gli appoggi. Ma questi fu un mercenario amorale, al miglior soldo, e tra le molte atrocità
partecipò al sacco di Roma del
1527 commettendo tali efferatezze
che Clemente VII, pur inclinato a
chiudere un occhio, dovette scomunicarlo. Alessandro Farnese fu ordinato sacerdote soltanto a quarantacinque anni, nel 1513, e con l’ordine riformò la sua vita morale.
Quando nel 1534 fu eletto Papa,
continuò a favorire il figlio nominandolo duca, gonfaloniere della
Chiesa e prospettando un ducato di
Parma e Piacenza in mano ai Farnese. Ma Paolo III fu un buon Papa:
approvò e incoraggiò i nuovi ordini
(teatini, somaschi, barnabiti, cappuccini, camilliani e gesuiti) in vista di una riforma del clero; convocò e aprì il Concilio di Trento; fu
protettore delle arti; normalizzò i
rapporti con l’imperatore. Glorie,
miserie, avventure dei Farnese, una
delle famiglie più potenti della sto-
Collasso d’Europa
Stefan Zweig, Il mondo senza sonno, tr. it. di L. Basiglini, Skira, Milano 2014, pp. 112, euro 12.
Ne Il mondo di ieri Zweig, autore
del quale oggi si assiste a una meritata riscoperta, ha sostenuto che la
seconda guerra mondiale «aveva
una ragione spirituale: si trattava
della libertà, della conservazione del
bene morale», di lottare per ciò che
rende umani; la guerra del 1914, invece, «era staccata dalla realtà, serviva ancora un’illusione, il sogno di
un mondo migliore, giusto e pacifico». A quest’illusione lo stesso scrittore viennese aveva del resto ceduto, determinandosi a collaborare al
Kriegspressquartier. L’esperienza
diretta del conflitto bellico lo rese
tuttavia conscio del fatto che la catastrofe che si era abbattuta sull’Europa non avrebbe in alcun modo ripristinato quell’ideale sicurezza che
aveva caratterizzato fino ad allora il
Vecchio Continente.
Lo si trae con chiarezza dai brevi
racconti pubblicati fra il 1918 e il
1928, ora tradotti per la prima volta
in italiano, dai quali traspare un sentimento di angosciata rassegnazione
e di cupo dolore. Come nel coevo
dramma Jeremias, trova qui espressione la febbricitante mortifera frenesia che, negli anni della Grande
Guerra, si insinuò negli Stati europei
come la vibrazione di un suono assordante o un’improvvisa scossa
elettrica. Il sonnambulismo che per
Broch caratterizzava la Germania di
Guglielmo II, si muta in Zweig in
«uno spaventoso stato di veglia che
sfavilla fra i sensi eccitati di milioni
di persone», in una compulsione che
rende sordi anche ai sentimenti più
forti. Così, in Der Zwang, l’artista
chiamato sotto le armi sembra non
poter che ubbidire all’«obbligo» che
lo vuole, a dispetto di tutto, martire
per la Patria, e solo quando la cogenza della legge gli impone di rinunciare a ogni pietà umana, egli
prova quella resipiscenza necessaria
a tornare alla vita. Da un’analoga,
stringente ineluttabilità sembra segnata l’esistenza del soldato russo
emerso dalle acque del lago di Ginevra, nell’omonimo racconto, sebbene qui la «condiscendenza» al destino che impone un’incommensurabile estraneità a sé e al mondo non si
risolva nella conquista d’una inattesa salvezza, ma in un mesto gesto
suicida. Una morte anonima, salvata
dall’oblio soltanto da una modesta
sepoltura, in nulla diversa da quelle
che ricoprono da un capo all’altro
l’Europa di quegli anni. Se ne ha
conferma visitando, nelle Fiandre, il
cimitero di Ypres, autentica «kermesse sopra i morti», dove «eserciti
di croci» sfilano ininterrotti, quasi
facendo dimenticare che sotto ognuna di quelle pietre giace un uomo
che, «senza la furiosa follia della
guerra, sarebbe ancora nel pieno vigore degli anni». Sono, quelle tombe, l’immobilità visibile della morte
di una generazione per la quale – si
legge in una intensa pagina scritta
da Zweig nel 1932 – «l’unità dell’Europa era vangelo» e alla quale è
toccato vedere «l’annientamento
d’ogni speranza».
Luigi Azzariti-Fumaroli
Donne indomite
Chiara Lossani, Le ribelli di Challant, Rizzoli, Milano 2014, pp.
396, euro 15.
Questo insolito romanzo, basato su
realtà storiche, ci fa rivivere le atmosfere del 1450 in Valle d’Aosta durante il sesto Giubileo di Papa Nicolò V, quando dal Nord Europa i pellegrini percorrevano la Via Francigena per raggiungere Roma in peni-
tenza. Sullo sfondo la Valle, per orgoglio della propria storia la più tradizionalista tra le nostre regioni, fiera di avere anticipato, con una lotta
che solo oggi appare vincente, la ribellione ai vincoli che da sempre
avevano privato ingiustamente le
donne del loro diritto naturale alla libertà. Ci sono nel romanzo, in cui si
avverte subito la modernità dell’assunto, due figure femminili che i lettori non potranno dimenticare: la
contessa Catherine di Challant, colta, esperta di lettere e di governo,
che il padre ha voluto sua erede nella guida del territorio e dei sudditi, il
cui potere è contestato dalla legge
Comitale e dai parenti maschi. Di
poco più giovane è l’altra protagonista, la tredicenne Dora Quey, intelligente e ribelle, che vive nel castello
paterno a Villa Challant, destinata
all’insulsa vita di corte limitata a interessi frivoli, mentre lei contesta tale sorte femminile comprendendo
l’ingiustizia del sistema, finché conoscerà un pellegrino giovane a sua
volta, il cavaliere Laurent de la Chavre che, come si saprà alla fine, è alla ricerca del suo vero padre. Parlando con lui, Dora scopre il piacere di
un’affinità nelle idee e nei propositi
che l’aiuta a comprendere la propria
identità ancora acerba, mentre il ragazzo, cui era parsa bruttina, guidato dalla stima e dall’amore incipiente la vede poi con occhi diversi. Intanto, la Contessa, coinvolta dai pretendenti in una guerra sanguinosa,
per meglio difendere i suoi diritti si
rifugia nel castello di Villa Challant,
oggi Issogne, protetta dall’affetto dei
sudditi che combattono con lei. Interessante è la divisione in capitoli, in
cui i protagonisti narrano i fatti secondo i propri punti di vista, a volte
perfino in antitesi, ed è anche questo
uno dei pregi del romanzo: la possibilità d’identificazione del lettore, libero di scegliere la propria verità.
Nella Valle d’Aosta è rimasto vivo il
ricordo di Chaterine, celebrata ogni
anno, durante il Carnevale di Verrès,
come il simbolo del luogo.
Armanda Capeder
Senza paura
Lorenzo Del Boca (con Giuseppe Ruga), Il mistero del cavaliere,
Piemme, Milano 2014, pp. 236,
euro 16,50.
Tutti conoscono il detto «cavaliere
senza macchia e senza paura», ma
ben pochi sono in grado di dire se
la definizione sia riferita a un personaggio realmente esistito. Qual è
la verità? E, prima ancora, quando
nacque questo motto? Nacque all’epoca delle quattro «guerre d’Italia» che sconvolsero la Penisola tra
la fine del XV e gl’inizi del XVI
secolo, quando Spagna e Francia si
spartivano il territorio a suon di assedi, battaglie, distruzioni e carneficine. In quegli eventi, emerse una
personalità senza confronti, appunto il «cavaliere senza macchia e
senza paura», del quale ora sappiamo tutto grazie al lavoro di ricerca
e alla ricostruzione storica compiuti da Lorenzo Del Boca. Il personaggio in questione era Pierre Terrail di Bayard, il giovane e imbattibile comandante dei soldati al servizio del Re di Francia, qui in Italia conosciuto come il «Baiardo».
Lorenzo Del Boca, giornalista e
saggista, già presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, vicepresidente del Consiglio di amministrazione del Salone del Libro di
Torino e autore di saggi storici di
successo come Indietro Savoia! e
L’Italia bugiarda, ha scandagliato
ogni aspetto di quella straordinaria
figura che dominò la storia militare d’Italia dei primi tre decenni del
Cinquecento. Nato in Francia, a
Pontcharra, nel 1471, Pierre Terrail
si mise in luce nel 1494, a soli 23
anni d’età, combattendo al servizio
di Re Carlo VIII durante la «prima
guerra d’Italia». Da allora fu un
crescendo. Imbattibile, imprendibile, maestro di spada e lancia,
grande cavalleggero, il Baiardo si
impose nella battaglia del Garigliano, nell’assedio di Genova, nell’assedio di Brescia, nella battaglia
di Ravenna, nell’assedio di Pado-
745
va. Temerario e invincibile, ma anche galantuomo e leale (si era opposto al progetto di avvelenare Papa Giulio II), divenne ben presto
una leggenda. Il suo momento fatale arrivò il 30 aprile 1524, durante la battaglia di Romagnano Sesia
(oggi in provincia di Novara).
«Pierre Terrail», scrive Lorenzo
Del Boca, «cavalcava in fondo al
gruppo, come ogni volta, come
sempre. Primo, quando si andava
avanti. Ultimo, se c’era da tornare
indietro. Con il drappello dei suoi
coraggiosi doveva proteggere la ritirata e, per esperienza, sapeva che
era meglio collocarsi dove la strada si chiudeva a imbuto. All’imbocco di quel ponte di barche sul
Sesia, dove la superiorità numerica
degli spagnoli contava meno e valevano maggiormente il coraggio e
la determinazione. Certo, Bayard
pensava ancora a scontri con lancia
e spada. Cavallereschi. Faccia a
faccia. Occhi negli occhi. Ma ormai, in guerra, stavano prendendo
piede quelle maledette macchine
che lui detestava. [...] Una schioppettata lo piegò in due sul cavallo e
lo sbalzò di sella». Fu l’inizio della fine. Con la schiena rotta dal
proiettile, chiese ai suoi scudieri di
esser adagiato contro un albero,
con il volto rivolto verso i nemici.
E così spirò. Lorenzo Del Boca cita in proposito gli splendici versi di
Ludovico Ariosto dedicati alla tragedia di Orlando: «O maledetto, o
abominoso ordigno, / che fabricato
nel tartareo fondo / fosti, per man
di Belzebù maligno, / che ruinar
con te disegnò il mondo / all’inferno, onde nascesti, ti rasigno».
Luciano Garibaldi
L’alba della vita
Daniele Mencarelli, Figlio, Nottempo, Roma 2014, pp. 82, euro 8.
A tre anni da Bambino Gesù (Nottetempo 2010), Mencarelli intreccia nuovi versi sull’infanzia in Figlio, racchiudendoli nell’abbraccio
746
di due poesie: Padre, che dà forma
a una figura forte nel «sacro spendersi» per il domani, e Madre, poesia-epilogo in cui la donna protegge la «carne della sua carne» fino
all’ultimo sorriso contro il male. In
un viaggio all’interno della propria
paternità, l’autore mostra una vita
in attesa, tra il silenzio di corsie
d’ospedale «vuote d’umano» e spiragli di luce, aperti dalla gioia per
una nuova vita, che porterà un figlio a diventare padre. Su questa
«mappa del soffrire e del gioire» si
muovono sguardi di genitori che
percepiscono tutto il peso della fragilità e dell’impotenza umana, desiderosi di afferrare le risposte che
salvano. Il dolore che urla da ferite
ancora aperte, lasciate da esperienze che «schiantano», può aprire all’amore, «l’abbraccio della gioia
che conosce / solo chi ha conosciuto il massacro».
Passo dopo passo, il padre dona sostegno al primo figlio, che conquista un traguardo alla volta, «di stupore in scoperta». Il cammino, tuttavia, si ferma sulla diagnosi di autismo pronunciata da medici «con
le dita a pistola», che fa inciampare anche il padre nel «fuoco d’odio», fino alla pronuncia della prima parola del piccolo, che schiude
un nuovo tempo di luce. Poi, di
fronte a un «silenzio che era battito», l’ombra della rabbia e del dubbio si fa strada e, nella terza sezione, il senso di colpa per aver negato la vita è doloroso come un «taglio preciso che spacca in due una
vita», nel buio in cui le mani sfiorano un corredo mai indossato.
Nell’ultima sezione, il Padre, «dottore senza camice» che concede
tutto anche a chi l’ha respinto e
odiato, dona un nuovo fiore, «una
figlia da baciare inginocchiati»,
speranza per una famiglia che resiste insieme al male, una sola anima
su una «zattera a due piazze». I
versi accesi e attuali di Mencarelli
portano alla luce la promessa di infinito che giace nelle vicende quotidiane, il sempre che dà senso al
presente.
In alta quota
Roberto Vaiana, Free solo. La vita
nelle mani, Idea Montagna, Piazzola sul Brenta 2013, pp. 176, euro
14,50.
Un reality ambientato in un villaggio tra le Alpi Svizzere, venti arrampicatori professionisti e non,
un consistente premio in denaro:
sono questi gli ingredienti principali dell’avvincente libro di Roberto Vaiana, che si mescolano creando in ogni pagina momenti di suspense e dando l’impressione ai
lettori di essere lì, soli sulla montagna, faccia a faccia con una ripida
parete di roccia, potendo contare
unicamente sulle proprie forze. I
personaggi affrontano tutti in modo diverso la scalata che li porterà
alla vetta: come le persone percorrono in maniere differenti la propria vita, così i protagonisti di The
Mountain, lo spettacolo televisivo
ideato per scuotere il mondo dei
reality e avere un boom di ascoltatori, si approcciano alla scalata e
quindi al premio finale secondo i
propri caratteri, esperienze e aspirazioni, intrecciando alla gara le
loro storie di vita.
Non si può che leggere tutto d’un
fiato la prima pubblicazione del
chirurgo bresciano Roberto Vaiana, che, grazie alla passione per
l’arrampicata, riesce a far vivere
anche sulla carta le sfide, le emozioni e i sentimenti dei climbers.
La prefazione dell’arrampicatore
professionista Manolo avvalora la
veridicità di tutto ciò che emana
dalle pagine del libro, capace di
coinvolgere anche un lettore estraneo al mondo del free climbing. Si
crea infatti una sorta di parallelismo tra la scalata e la vita, entrambe composte da successi e cadute,
più o meno gravi, che però non devono far dimenticare che tutto ha
uno scopo, uno scopo per ora a noi
solo parzialmente chiaro.
Elena Artoni
Francesca Turra
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alla guida dell’Opus Dei
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DELL’OPUS DEI
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IN LIBRERIA
doppia
La Doppia classifica, come dice il nome, si divide in
due parti. La pagina sinistra, qui sotto, offre una classifica mensile dei libri più venduti, compilata rielaborando le liste dei bestseller diffuse dalle principali fonti giornalistiche. Vale come un sintomo dell'aria che
tira nel mercato editoriale. Il numero su fondo nero ¶
indica la posizione attuale; il numero su fondo chiaro
¬ indica la posizione nel mese precedente; la stellina
H segnala le nuove entrate. La presente elaborazione
si riferisce al mese di settembre 2014.
Letteratura
Saggistica & varia
¶ H Ken Follet, I giorni dell’eternità, Mondadori,
Milano 2014, pp. 1.224, € 25.
¶ H Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per
un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014,
pp. 162, € 14.
L’uomo dai 150 milioni di copie vendute agguanta
la classifica con un «mastodonte» che conclude l’epica trilogia di The Century: storia di 5 famiglie dagli anni Sessanta al collasso del muro di Berlino.
Peccato che questo Big sia così suscettibile verso il
Cristianesimo: nel 2010 protestò per la visita di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito.
· ¬ John Green, Colpa delle stelle, Rizzoli, Milano 2014, pp. 348, € 16.
Due adoloscenti malati si amano per il tempo loro
concesso dal cancro. Ottima la storia, deludente la
scrittura. Il film continua a trainare il libro: per approfondire c’è Eleonora Fornasari a p. 732.
¸ H Andrea Camilleri, Donne, Rizzoli, Milano
2014, pp. 210, € 17,50.
Camilleri cerca di condensare in 39 cammei l’«infinito vastissimo mondo femminile», ma è ossessionato dall’insistenza carnale. Qualche lettore sul
web l’ha infilzato assimilandolo ad Alvaro Vitali...
¹ ® Zusak Markus, Storia di una ladra di libri,
Frassinelli, Milano 2014, pp. 564, € 16,90.
Auguriamo alla bambina che salva le persone dal fuoco nazista di ri-superare quanto prima chi la precede.
748
«Non respira, non conta più nulla, arranca, è povera, marginalizzata, i suoi edifici crollano, i suoi insegnanti sono umiliati, i suoi alunni non studiano,
sono distratti o violenti, difesi dalle loro famiglie,
capricciosi». È la foto della nostra scuola e l’incipit
di un intenso pamphlet che crede ancora nell’incontro tra maestro e discepolo. Coraggioso e sfidante.
· e ¹ H Io sono con voi. Catechismo per l’iniziazione cristiana dei fanciulli (6-8 anni) e (9-10 anni), Cei, Roma
1991, pp. 192, € 5,50.
Chissà che un giorno qualcuno non si metta a studiare la storia nascosta di questi sussidi per la Fede.
Dagli inizi degli anni Novanta (con gli auspici del
card. Ruini) continuano a seminare la Buona Novella e a vendemmiare le vendite d’autunno...
¸ H Geronimo Stilton, Nono viaggio nel Regno della Fantasia, Piemme, Milano 2014, pp. 384, € 23,50.
Il topolino senza paura alla ricerca della Regina delle Fate, del Libro dei mille incantesimi, della Sfera
di cristallo e della Bacchetta sussurrante. Dovrà
passare per mille asperità, dal Regno dei ragni invisibili all’Impero dei serpenti sibilanti. Un thriller
per lettori di 9 anni che divertirà anche i papà.
º H Sveva Casati Modigliani, Il bacio di Giuda,
Mondadori, Milano 2014, pp. 140, € 12,66.
º H Federico Rampini, Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 288, € 18.
Dopo Il Diavolo e la rossumata (2013), l’autrice milanese ritorna a tuffarsi in modo egregio nella propria
memoria: dal crudo Dopoguerra alla Ricostruzione.
«Il tecno-totalitarismo che avanza non è neutro né
innocente». Viaggio scomodo e controccorente, oltre le semplificazioni e gli idealismi.
classifica
IN REDAZIONE
di Mauro Manfredini
Qui sotto, nella pagina destra, figura un'altra classifica, che non si basa sulle vendite ma sulla qualità: è
una rassegna di volumi consigliabili e consigliati sulla
base del gusto, del buonsenso e di opinioni magari
sindacabili ma, di norma, non dissennate.
Entrambe le classifiche, quella di destra e quella di sinistra, sono accompagnate da brevi giudizi che forniscono sintetiche indicazioni critiche per un tempestivo orientamento e non pregiudicano recensioni particolareggiate in successivi numeri della rivista.
Letteratura
Saggistica & varia
¶ Donna Tartt, Il cardellino, Rizzoli, Milano
2014, pp. 892, € 20.
¶ Francisco Fernández-Carvajal, Parlare con Dio, 4
voll. inseparabili, Ares, Milano 2014, pp. 3.828, € 90.
Theo ha 13 anni quando un attentato uccide sua madre scempiandogli la vita: troverà conforto in un piccolo quadro dal fascino enigmatico. Donna Tartt ritorna a scrivere dopo 10 anni, vince il Pulitzer e conquista milioni di lettori. A p. 716 Guido Vassallo indaga i retroscena della sua creatività.
Ritorna in libreria la più celebre opera di Francisco
Carvajal, una raccolta di meditazioni, una al giorno
per tutto l’anno, per presentare tutti i temi di cui un
cristiano ha motivo di trattare nell'intimità con suo
Padre-Dio. Perché parlare con Dio non è un obiettivo
riservato a gente speciale: da tutti Dio aspetta amore.
· Patrick Modiano, Dora Bruder, Guanda, Milano
· Robert Spaemann, Dio e il mondo, Cantagalli,
La straziante ricerca di una ragazza ebrea scomparsa
nella Parigi del ‘41: un ottimo libro per conoscere il
meritato quanto inaspettato Nobel 2014 (cfr p. 714).
L’autobiografia del più grande filosofo cattolico vivente: un evento editoriale e una via privilegiata al suo
affascinante pensiero. Traduzione di Leonardo Allodi.
¸ Robert F. Scott, L’ultima spedizione, Nutrimenti, Milano 2014, pp. 592, € 22.
¸ Antonio Maria Sicari, Il tredicesimo libro dei
Santi, Jaca Book, Milano 2014, pp. 80, € 9,50.
Per la prima volta l’edizione integrale dei Diari di
Scott, assiderato al Polo a pochi km dalla salvezza:
un classico che va oltre la storia delle esplorazioni.
L’infaticabile agiografo carmelitano propone 11
nuovi splendidi «ritratti» da leggere e imitare, tra
questi, san Pietro, Matteo Ricci, Tommaso Becket,
Giovanni Piamarta, Katharina M. Drexel, Jérôme
Lejeune, Ettore Boschini, Shahbaz Bhatti.
2011, pp. 136, € 14,50.
¹ Julio Cortazar, A passeggio con John Keats, Fazi,
Roma 2014, pp. 672, € 19,50.
Un saggio straniante, una biografia notturna, scritta
negli Anni ‘50 a Buenos Aires, e soprattutto, un dialogo tra due anime tormentate dal demone della bellezza e separate da un secolo: di rara intensità.
Siena 2014, pp. 352, € 22.
¹ Piero Boitani, ll grande racconto delle stelle, Il
Mulino, Bologna 2012, pp. 616, € 65.
Abbiamo consigliato il suo Ulisse, ma questa ricognizione tra miti, poesie e stelle è più vertiginosa.
º Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti,
Adelphi, Milano 2012, pp. 234, € 20.
º Marco Bussagli, I denti di Michelangelo, Medusa, Milano 2014, pp. 174, € 19.
«Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, /
le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva
attento il capo»: Zagajewki è un grande poeta, polacco, come Milosz, Szyimborska o Karol Wojtyla.
Verità nascoste. Michelangelo ritraeva con un incisivo in più le persone senza la grazia di Cristo: è solo una delle molteplici sorprese racchiuse nel nuovo saggio di Marco Bussagli.
749
FAX & DISFAX
Noi & gli altri
«Come famiglia, i Levov seguivano ancora la rotta del razzo degli immigrati, la continua traiettoria verticale dal bisnonno sfruttato come uno schiavo al nonno
animato dall’ambizione, al padre
indipendente, abile e sicuro di sé,
fino al membro della famiglia che
puntava più in alto di tutti, il figlio della quarta generazione per
il quale l’America doveva essere
il vero paradiso» (Philip Roth,
Pastorale Americana, Einaudi,
Torino 1998, p. 124). L’Italia è,
tra le democrazie occidentali ad
alto sviluppo sociale, industriale,
sindacale e politico – forse anche
culturale (perché viviamo di rendita sull’antico) –, l’unica a non
aver assistito al percorso verticale
dei suoi immigrati; non ancora.
Ma l’America è un Paese generoso nelle opportunità e feroce nelle regole; noi siamo generosi nell’accoglienza e confusionari nelle
regole. Regole chiare e giuste favoriscono dialogo, integrazione
socio-economica, pacificazione
tra diversi. Ma quel percorso verticale che in America ha visto salire gli italiani, gli ebrei, gli irlandesi, poi i latinos, i cinesi, i coreani e adesso anche il black people, avveniva ed era reso possibile – come per il padre di John
Fante in La confraternita dell’uva
– in un Paese ad alto tasso di sviluppo dove la scuola e una laurea
non si negavano a nessuno, ma un
conto era aver frequentato la Columbia University, altro il
Pennsylvania Military College;
750
insomma, una questione di merito
legata a chi te lo riconosceva.
La competizione è l’anima della
crescita, del famoso andamento a
razzo di cui parla Roth. Ciò che favorisce la crescita è la costante osservanza del principio di non contraddizione; l’andamento verticale, anche quello della famosa «crescita», deve poter avvenire senza
intoppi logici, perché è il pensiero
che guida l’azione. Facciamo degli esempi. Dice: gli stipendi dei
manager pubblici devono adeguarsi a quello di Napolitano. Domanda: perché non portare lo stipendio di Napolitano a 120mila?
Dice: compri casa per darla in affitto per otto anni a prezzo basso e
risparmi il 20 per cento della spesa; però la legge non mi garantisce
dal moroso eventuale né lo sfratto
immediato, come in America nei
fabbricati a rent controll. Dice:
tasse da tutti meno tasse per tutti,
ma se i tagli di spesa incidono sui
consumi, entrerà meno Iva a fronte di tasse più alte. Dice: con più
figli ingresso garantito alla scuola
materna, ma i primi a entrare sono
i latinos, i bengalesi, gli indiani.
Gli immigrati stanno riaprendo arti e mestieri che gli italiani avevano dismesso, gli ambulanti italiani
hanno affittato furgone, licenza e
spazio di mercato a indiani e marocchini, mentre i titolari aspettano al bar; e infatti anche quasi tutti i camion-bar ambulanti sono gestiti da immigrati. Dice Shipon,
dal Bangladesh: «Bengalese, uno
lavora e sei mangia». E sei dormono in una camera e cucina, i letti a
castello hanno quattro piani. I subaffitti in nero pullulano, nei condomini di periferia tra bollette, spese
generali e vitto, il sogno di aver
comprato casa sta naufragando,
senza l’immigrato cinese o marocchino o rumeno arriverebbe l’ufficiale giudiziario, ma si sa che le
case all’asta si deprezzano a ogni
giro, specie per queste abitazioni
di periferia. La periferia. A sud di
Roma, lungo le direttrici CasilinaPrenestina-Tiburtina-Collatina,
specie di venerdì, di Roma appare
ben poco. I mullah sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi sottoscala uso moschea, fedeli, finanziamenti e credito; non c’è la nazione marocchina, bengalese, egizia e via distinguendo, ma un’unica nazione islamica che si ritrova e
si riconosce nel percorso orizzontale dell’identità coranica; la moschea è anche scuola e suggeritrice di comportamenti.
Qui a Centocelle di venerdì convergono tutti gli immigrati che si
sono ormai da anni allocati lungo
la direttrice del vecchio tranvetto,
un trenino elettrico che da Termini
arriva in fondo alla Casilina da dove si diramano gli autobus verso
l’entroterra; è una specie di farwest che sta invadendo i vecchi
carovanieri nostrani che dagli anni
Settanta, prima l’orto e poi la villetta abusiva, hanno popolato un
Sud di Roma poi pianificato e per
alcuni anni creato isole di vivibilità: la parrocchia, il campetto, la
pizzeria, il giardinetto, il baretto, il
supermercato, l’autobus che va su
e giù. Alle cinque di mattina c’era,
e c’è ancora, il viavai di quelli, ormai accasati, che vanno a lavorare
«in città». Altrove, metti in America, prima fanno la metro e poi le
case; qui da noi il contrario, e ci
vogliono decenni. Solo all’Eur è
successo il contrario, per l’Esposizione fascista del ’42, sospesa dal-
di Franco Palmieri
la guerra. Chi ha faticato due vite
– il padre, il figlio, e adesso il nipote, la famosa verticalità sociale
di Roth – osserva l’invasione
afroasiatica con una certa apprensione. Il dialogo. Le istituzioni dicono che il dialogo è alla base della convivenza. Con i latinos è facile, durante i campionati di calcio
in Brasile il calzolaio cileno litigava con il meccanico romanista e
facevano il tifo polemico nello
stesso bar. I romeni, gli ucraini,
poi, li trovi laddove il falegname,
l’idraulico, il muratore italiano
non ci sono più. Ma tra velature
muliebri e barbe afghane il dialogo è difficile anche per una questione di lingua. Uno più insinuante, magari anche astuto, gli si avvicina perché, certo, anche loro
così lontani e così vicini sono per
il dialogo. Però la seconda domanda è più difficile, ne potrebbe derivare una reazione: nell’ebraismo,
nel cristianesimo il dialogo può
anche essere critico, l’obbedienza
problematica, l’incontro difficile
ma paziente perché lì ci sono uomini di buona volontà e il maestro
sente e ascolta l’inquietudine del
fedele. Avrebbe voluto dire, più
chiaramente: c’è dialogo critico
nella vostra fede o solo obbedienza cieca, quella che forse arriva
anche a ottundere la ragione? Che
costruisce distanze? O c’è solo
quella cosa, la guerra fratricida tra
sciiti e sunniti? In certe periferie
italiane chi torna a casa di notte
non vorrebbe far lavorare la fantasia, tornare alla scena primordiale
dello scannamento del nemico visto in televisione, immaginarsi
uno che da dietro, zac!, e sai che è
vero. Essì, con queste fantasie in
testa il dialogo diventa difficile. Il
giovane mullah ride, la sua candida palandrana svolazza al venticello e il suo sorriso barbuto sa essere convincente, siamo fratelli
nel Dio unico, e del resto le cerimoniosità alla corte di Solimano il
Magnifico hanno istruito tante diplomazie occidentali, in altre epoche. Sembrava incancellabile lo
scenario di Casablanca, il film
con Bogart e Bergman, dove marocchini e francesi si riconoscevano in quei ritrovi fumosi conditi
con la danza del ventre.
Capisci, dopo un po’, dopo qualche giorno a gironzolare per queste periferie linde e pinte, le inferriate alle finestre e le porte blindate, che il dialogo, i suoi effetti, si
manifestano nella quotidianità, nei
rapporti che si stabiliscono tra le
persone. I convegni, quelli alti dove la tematica del dialogo ha esaurito tutti gli argomenti possibili,
sono come le scuole di musica:
dopo devi essere tu a suonare bene
lo strumento. Eccoli allora i finti
ragazzotti disoccupati, stravaccati
al bar, in realtà carabinieri pazienti e accorti che forniscono alle istituzioni il quadro reale della città.
E poi? Un diffuso clima indagatorio, fatto con tutto il rispetto possibile, quando diventa manifesto e
ufficializzato nei discorsi della politica che soffia sul populismo dove la paura è strumento di coesione, viene percepito come una persecuzione e ottiene l’effetto contrario. È quel momento difficilissimo quando stai cercando di avvicinarti a chi non vuol essere capito il quale conserva una segretezza
rigorosa e intransigente fondata
sul rifiuto di chi non è come te, e
col quale forse parlerà quando
avrai accettato di diventare come
lui; e se rifiuti? Non è contemplato, lui è nel vero e nel santo e tu lo
rifiuti, perciò sei il nemico. Vai eliminato? Tutto questo è molto elementare, ma i livelli di conoscenza vengono proporzionati al livello dei discepoli. Degli adepti. La
risposta c’è, particolarissima: dove gli immigrati arrivano, la prima
questione è economica. Noi siamo
il loro mercato; chiuderanno le
frutterie marocchine, le kababerie
(sic) egiziane, i baretti bengalesi, i
barbieri cinesi; no, i barbieri cinesi no, come ti tagliano i capelli loro per cinque euro non lo fa nessuno. Forse gli immigrati, da Sud,
Est, Nord e Ovest dovrebbero cominciare a capire che gli italiani
non hanno pregiudizi verso il «diverso», anzi lo accasano e ci
scherzano, sono pronti a ogni intrallazzo, già si dice in giro che per
fregare un romeno ci vogliono due
napoletani; e guai a interpretare
questa accoglienza semplice e
spontanea come una ingenuità. Se
un italiano ti chiude la porta non te
lo dice, te lo dimostra, e riaprirla
quella porta sarà poi più difficile.
‘Cca nisciuno è fesso. Ma questo è
il punto: chi ti dà la patente di non
essere fesso? Guarda un po’: il governo introduce per legge nella
scuola carriera e stipendio legati al
merito. E i maestri fessi chi se li
becca? Dove li mettiamo? È il
mullah che ha stabilito per legge
suprema e inappellabile che, lì,
dalle loro parti, nessuno può essere fesso. Tutti promossi, tutti maestri. E non è finita. Se poi le ragazze bengalesi o del Nord Africa
continueranno nei segreti tentativi
di sbiancarsi il volto con le pomate, allora forse il destino dell’Occidente è nelle loro mani.
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LIBRI RICEVUTI
Ringraziamo gli editori per l’invio delle loro novità. Il giudizio critico, nei limiti dello spazio disponibile alle rubriche, è cronologicamente indipendente da
questo annuncio bibliografico.
Roberto Martone, I passi fermi e gli effimeri giardini, introduzione di M.
Bacigalupo, De Ferrari, Genova
2014, pp. 114, euro 12.
Luciano Erba, I miei poeti tradotti (Testi originali e traduzioni), a cura di F.
Buffoni, Interlinea Edizioni, Novara
2014, pp. 312, euro 18.
Mecenate, Frammenti e testimonianze
latine, a cura di Stefano Costa, La
Vita Felice, Milano 2014, pp. 294,
euro 13,50.
Emma Fattorini (cur.), Diplomazia senza eserciti (Le relazioni internazionali della Chiesa di Pio XI), Carocci
editore, Roma 2013, pp. 228, euro
25.
Massimo Montanari, I racconti della
tavola, Gius. Laterza & Figli, RomaBari 2014, pp. 218, euro 18.
Guillaume Apollinaire, La canzone del
non-amato, versione di Piero Marelli, prefazione di Marco Rota, La Vita
Felice, Milano 2014, pp. 56, euro
7,50.
John Baillie, Saggio sul sublime, a cura
di S. Turco, Book Editore, Ro Ferrarese 2014, pp. 96, euro 12.
Emanuele Banfi, Lingue d’Italia fuori
d’Italia (Europa, Mediterraneo e Levante dal Medioevo all’età moderna),
il Mulino, 2014, pp. 392, euro 32.
Mario Bertin - Alessandro Ciamei
(cur.), Frate Francesco – Le fonti,
Castelvecchi, Roma 2014, pp.190,
euro 16,50.
Roberto Bizzocchi, I cognomi degli italiani (Una storia lunga 1000 anni),
Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari
2014, pp. 248, euro 24.
Giuseppe Brienza, La difesa sociale
della famiglia (Diritto naturale e
dottrina cristiana nella pastorale di
Pietro Fiordelli, vescovo di Prato),
Casa Editrice Leonardo da Vinci,
Roma 2014, pp. 162, euro 15.
Davide Brullo, Infanzia, GuaraldiLAB,
Rimini 2013, pp. 114, euro 10.
Vittorio Cagnoni, Baden (Vita e pensiero di mons. Andrea Ghetti), Tipi Edizioni, Belluno 2014, pp. 580, euro
24.
Pietro Citati, I Vangeli, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014, pp. 154,
euro 22.
Bianca Garavelli, L’oscurità degli angeli (Racconti), Giuliano Landolfi
Editore, Borgomanero 2013, pp.
102, euro 10.
Alessandro Grilli (cur.), Adone (Variazioni sul mito), Marsilio Editori, Venezia 2014, pp. 248, euro 9.
Marco Guzzi, Parole per nascere (Poesie di un nuovo inizio), Paoline, Milano 2014, pp. 176, euro13,50.
Paolo Isotta, La virtù dell’elefante (La
musica, i libri, gli amici e San Gennaro), Marsilio, Venezia 2014, pp.
590, euro21,50.
C.S. Lewis, L’ultima notte del mondo,
Castelvecchi, Roma 2014, pp.140,
euro 16.
Mario Livio, Cantonate (Perché la
scienza vive di errori), BUR, Milano
2014, pp. 462, euro 13.
Antonio López, Rinascere (La memoria
di Dio in una cultura tecnologica),
traduzione dall’inglese di T. Siciliano, Lindau, Torino 2014, pp. 152, euro 19.
Mary Eberstadt, Cómo el mundo occidental perdió realmente a Dios, Ediciones Rialp, Madrid 2014, pp. 302,
euro 21.
Rodolfo Lorenzoni - Aldo Maria Valli,
Viva il Papa? (La Chiesa, la fede, i
cattolici. Un dialogo a viso aperto),
Cantagalli, Siena 2014, pp. 142, euro
12,50.
Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione
in Portogallo, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, Edizioni Bietti, Milano
2013, pp. 314, euro 24.
Giusepper Lupo, Atlante immaginario
(Nomi e luoghi di una geografia fantasma), Marsilio Editori, Venezia
2014, pp. 160, euro 15.
Giovanni Pascoli, Poemi cristiani, a cura di A. Traina, traduzione di E.
Mandruzzato, nuova edizione riveduta e ampliata, Lindau, Torino
2014, pp. 232, euro 19.
Eros Pessina, In viaggio (Poesie e racconti nel tempo), Genesi Editrice,
Torino 2014, pp.56, euro 8.
Enrica Salvaneschi - Silvio Endrighi,
Libro linteo (Titolo IV. Efemeride),
Book Editore, Ro Ferrarese 2014,
pp. 80, euro 14.
William Shakespeare - Anthony Munday - Henry Chettle - Thomas
Dekker - Thomas Heywood, Tommaso Moro, a cura di E. Rialti, traduzione di J. Pearce, Lindau, Torino
2014, pp. 188, euro 18.
Renato Spaventa, L’altra riva del fiume
(Il viaggio del perdono), Libro +
Dvd, Intento, Roma 2014, pp. 64, euro 22.
Hans Tuzzi, Il mondo visto dai libri, Skira Editore, Milano 2014, pp. 156, euro 15.
Aldo Maria Valli, Con Francesco a Santa Marta (Viaggio nella casa del Papa), Ancora Editrice, Milano 2014,
pp. 80, euro 10.
Piero Viotto, Paolo IV – Jacques Maritain (Un’amicizia intellettuale), Studium, Roma 2014, pp.300, euro 19.
Roberto Volpi, La nostra società ha ancora bisogno della famiglia? (Il caso
Italia), Vita e Pensiero, Milano 2014,
pp. 176, euro 15.
Questo fascicolo (n. 644) è stato chiuso in tipografia il 21 ottobre 2014. Il fascicolo precedente (n. 643) è stato consegnato al C.M. Postale di Perugia, per l’inoltro agli abbonati e alle librerie, il 25 settembre 2014.
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ARES NOVITÀ
JAVIER ECHEVARRÍA
Eucaristia
& vita cristiana
& vita cristiana
Javier Echevarría
Eucaristia & vita cristiana
pp. 264 € 16
«Queste pagine raccolgono riflessioni sgorgate dalla fede
e rivolte anzitutto al credente. Ma potranno riuscire utili
anche a chi non possieda la fede cristiana: lo aiuteranno a
capire qualcosa sui motivi della vita e della speranza dei
cristiani; dei nostri sforzi per essere migliori e per aiutare
gli altri a raggiungere questa meta; del nostro gioioso coraggio per ricominciare dopo gli errori – piccoli o non tanto piccoli che siano – che costellano l’esistenza umana.
Quei motivi si trovano proprio nell’Eucaristia» (Dal Prologo dell’Autore).
Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere lo sconto del 20% richiedendo il volume alle
Edizioni Ares - Via Stradivari, 7 - 20131 Milano - Tel. 02.29.52.61.56 - fax 02.29.52.01.63 - www.ares.mi.it
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