L`asinità positiva e la fatica della verità Intervista a Nuccio Ordine

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L`asinità positiva e la fatica della verità Intervista a Nuccio Ordine
L'asinità positiva e la fatica della verità
Scritto da Cesare Del Frate
Tratto da Diogene N° 10
Intervista a Nuccio Ordine
Il suo saggio Contro il Vangelo armato, ricostruendo la riflessione bruniana sulla religione, si collega al
dibattito contemporaneo sulla laicità.
In che modo la distinzione di Bruno fra religione e filosofia può esserci utile per comprendere il
presente?
Bisogna partire da una necessaria distinzione, per evitare di scivolare in banali accostamenti: il dibattito
sulla religione nel Cinquecento si svolgeva in un contesto profondamente differente da quello attuale. La
coscienza di questa “distanza” non ci impedisce però di cogliere alcuni temi che ancora oggi sono al centro
del dibattito.
Penso che le riflessioni di Bruno sui diversi ambiti in cui operano religione e filosofia possano ancora
aiutarci a ritrovare i fili di una matassa oggi fin troppo ingarbugliata dalle continue ingerenze delle
gerarchie ecclesiastiche nella ricerca scientifica: alla religione spetta istituire leggi morali per la civile
convivenza, mentre ai filosofi spetta indagare le leggi della natura. Risulta molto chiaro che i libri sacri non
ci parlano di filosofia, non descrivono i fenomeni naturali, né tantomeno indagano il movimento degli astri
o i processi biologici.
Voler trovare risposte ai segreti della natura nelle pagine della Bibbia o del Corano produrrebbe disastri
senza fine. L’esperienza diretta di Giordano Bruno o di Galileo Galilei lo dimostra ampiamente. Le
gerarchie ecclesiastiche hanno perseguitato per secoli i seguaci di Copernico. E ancora nell’Ottocento
negare il geocentrismo era a rischio qualche “scottatura”. Del resto, lo stesso Galilei lo aveva spiegato bene
in una famosa lettera: i libri sacri ci insegnano come si va in cielo, non come va il cielo. Non mi pare che di
queste ineccepibili riflessioni si sia tenuto conto soprattutto negli ultimi decenni. Purtroppo, a distanza di
secoli, si organizzano ancora pericolosissime crociate contro il darwinismo: l’attendibilità delle teorie di
Darwin si verifica con gli strumenti della scienza e non con le “favole” raccontate nei libri sacri. Lo stesso
discorso vale per tanti altri temi per cui si chiedono ad alta voce limitazioni dell’indagine scientifica
giustificate esclusivamente da dogmi di fede. Tutt’altra cosa è il legittimo dibattito sulle scelte e sul futuro
della ricerca scientifica: ma la scienza ha un’etica che va discussa iuxta propria principia, secondo
parametri che non possono essere condizionati apriori da infallibili interpreti di presunte verità divine
A che cosa si riferisce il Vangelo armato del titolo del suo saggio?
Si tratta di uno splendido verso del grande poeta francese Pierre de Ronsard: “Ne presche plus en France
une Evangile armée, / Un Christ empistollée tout noirci de fumée”. Il padre della Pléiade, allo scoppio delle
guerre di religione in Francia nel XVI secolo, scrive di getto un pamphlet contro le rovine provocate dal
fanatismo religioso: nei Discours des Misères de ce temps vengono condannati ugonotti e papisti che,
prendendo le armi in nome della religione, hanno distrutto ogni forma di religiosità e di vita civile. Questi
versi militanti, in difesa della Monarchia, in quanto rappresentante dello Stato e garante della pace, della
legge e della giustizia, ebbero una circolazione straordinaria e suscitarono violente reazioni, soprattutto sul
fronte protestante. Non a caso Bruno se ne servirà, a distanza di oltre vent’anni, nello Spaccio de la bestia
trionfante per condannare le sterili pedanterie di folli grammatici intenti a sfornare contrastanti
interpretazioni del Vangelo fino a scatenare guerre civili in nome della propria unica ed assoluta verità.
Servirsi dei libri sacri come armi, si pensi all’uso improprio che si fa oggi del Corano, significa trasformare
i culti da utili strumenti di pace e coesione in pericolosi strumenti di guerra e di divisione. La radice del
fanatismo religioso è tutta qui: nella pretesa di imporre, anche con la violenza, la propria verità con lo
scopo di “redimere” un’umanità votata alla perdizione.
Bruno parla spesso di “asinità”, a volte positiva a volte positiva. Vuole spiegare?
La lotta al dogmatismo è un filo rosso che accompagna l’intera riflessione filosofica di Bruno. E il tema
dell’asinità esprime in maniera metaforica questo percorso. Diversi studiosi si sono soffermati sul
significato della simbologia asinina negli scritti del Nolano, confinandola esclusivamente all’interno di una
sfera negativa. All’interno del vasto fronte dell’“asinità negativa” è possibile ritrovare diversi atteggiamenti
che però finiscono per essere tutti ispirati da una presunzione di sapienza. A questa categoria appartengono
gli aristotelici e gli scettici: il “tutto sappiamo” degli uni e il “nulla sappiamo” degli altri si equivalgono
all’interno di una visione del mondo dove la totalità del sapere e la negazione di ogni sapere producono lo
stesso “non senso”. Vi sono poi i sostenitori del mito dell’età dell’oro, fautori dell’ozio e dell’immobilismo
che rimpiangono una felicità perduta, e i pedanti teologici, che svalutando la vita terrena considerano la
rinuncia al sapere come unica garanzia per conquistare l’immortalità nel regno dei cieli.
Ma accanto a questa “asinità negativa” esiste anche una “asinità positiva” in cui si riflettono quelle qualità
che per Bruno rappresentano l’esatto rovescio del dogmatismo. Innanzitutto la coscienza che non ci può
essere conquista della conoscenza senza fatica, senza umiltà, la verità non si possiede ma si cerca, senza
tolleranza l’importanza dell’ascolto e del confronto con chi esprime punti di vista diversi.
Fatica, Umiltà e Tolleranza rappresentano qualità che simbolicamente si incarnano nell’“asinità positiva”,
collocata da Bruno nel punto più alto della sua riforma celeste.
Il vero filosofo è sempre a caccia della verità. Non a caso si colloca al centro, tra due estremi opposti, i cui
protagonisti hanno rinunciato a qualsiasi ricerca della verità: se gli dei non la cercano perché già la
possiedono e gli ignoranti perché credono di possederla, l’innamorato della sapienza sa che tutta la sua vita
sarà dedicata alla quête di una verità inafferrabile.
Bruno è stato uno dei pochi filosofi a criticare la conquista delle Americhe. La sua critica alla
violenza è ancora attuale?
Le riflessioni bruniane sulle spedizioni nelle Americhe rappresentano pagine di straordinaria importanza in
cui il filosofo conferma la sua capacità di navigare controcorrente. A più riprese il Nolano denuncia i
disastri compiuti dai conquistadores. La spedizione di Colombo, infatti, non può essere salutata solo come
conquista di nuove conoscenze. Nella complessa simbologia dello Spaccio la nave Argo diventa simbolo
“dell’abominevole Avarizia”, del “desperato Piratismo”, della “precipitosa Mercatura”: non siamo di
fronte, insomma, a marinai assetati di conoscenza, ma a pirati assetati d’oro.
Bruno critica la visione eurocentrica dei conquistadores: gli indios non avevano bisogno di una civiltà di
una lingua, di una religione perché avevano già una loro civiltà, una loro lingua, una loro religione. E con la
sua critica riafferma in maniera coerente l’importanza di una visione del mondo fondata sulla pluralità e
sulla necessità di negare ogni punto di vista assoluto: non esistono la verità, la cultura, la religione, la
lingua; esistono invece le verità, le culture, le religioni, le lingue. Bruno svela che dietro le violenze contro
popolazioni inermi si nascondono disegni imperialistici ben precisi.
Il passato può servire a capire il presente. Se ieri si volevano giustificare le incursioni nelle Americhe in
nome della civiltà e nell’interesse delle popolazioni locali, considerate non alla stregua di esseri umani ma
bestie, oggi purtroppo si giustificano le violenze inflitte a innocenti cittadini indifesi in alcune aree del
Medio Oriente con l’esigenza di combattere il terrorismo e di esportare la democrazia.
Oggi chi rivendica la centralità dell’etica religiosa nella vita pubblica sostiene l’universalità di tale
etica, anche attraverso una critica del relativismo. La filosofia di Bruno ha qualcosa da dire al
riguardo?
È molto triste rispondere a questa domanda in un momento in cui dilagano sui giornali le invettive della
CEI e i pentimenti di parlamentari che esaltano il cilicio come strumento di mortificazione della carne. Mi
pare che gli attacchi al relativismo, rilanciati con vigore da Benedetto XVI, siano fortemente strumentali.
Bisogna innanzitutto intendersi sul significato delle parole.
Relativismo non significa nichilismo, mettere ogni cosa sulla stesso piano, ma negare ogni forma di
dogmatismo, combattere ogni visione assoluta della verità. Viviamo in un mondo sempre più aperto a
culture e culti diversi. Come comportarsi? Bruno aveva capito che la radice del fanatismo stava nella
pretesa di possedere una verità e definitiva. E chi è convinto di possedere la verità assoluta e definitiva non
esita ad usare la violenza per imporla: perché questa violenza viene presentata come necessaria ed ha, per i
fanatici, una funzione terapeutica. Non a caso la cosmologia infinitistica bruniana spazza con un solo colpo
l’idea che l’universo abbia un centro assoluto: nell’universo infinito il centro non esiste più. Il centro
dell’universo è l’individuo che osserva l’universo infinito.
Questa negazione di una verità assoluta non significa rinuncia alla verità. Al contrario: tutta la vita del
filosofo si dà nella ricerca della verità e non nel suo possesso. E questa ricerca implica dei valori che la
ispirano, valori forti per i quali il Nolano ha sacrificato la vita. Ma l’affermazione di questi valori passa
attraverso il dialogo, il confronto, la testimonianza, l’ascolto delle ragioni dell’altro, il rispetto della
diversità.
Il Papa non può tenere assieme atteggiamenti inconciliabili: da una parte considera la sua religione l’unica
possibilità di salvezza e poi, dall’altra parte, invita le altre religioni al dialogo. C’è una contraddizione.
Anche nella recente Spe salvi si nota la stessa contraddizione: da una parte l’esaltazione di una verità
assoluta come certezza di speranza; dall’altra la coscienza che ogni pretesa terrena di una verità assoluta e
ogni promessa di mondo migliore finiribbe per escludere la libertà dell’uomo e sarebbe un male per
l’umanità: “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa
falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà umana deve sempre di nuovo essere riconquistata per il bene.
La libera adesione al bene non esiste mai semplicimente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modi
irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per
questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone” (p. 50).
Se non è possibile fissare strutture valide una volte per tutte si accetta la possibilità di mutare e di rimettere
in discussione ogni modello. Una forma di relativismo, insomma. Ma questa è proprio la via della ricerca,
del rifiuto di ogni dogmatismo. E perché questo principio valido per il mondo terreno non può essere
applicato anche a modelli che promettono verità eterne ultraterrene? Mi pare che le pagine di Bruno
possano essere utili per capire che la molteplicità dei punti di vista, non sia da considerarsi un ostacolo ma
una immensa ricchezza.
In Lo spaccio de la bestia trionfante, immagina una riforma celeste con la quale Giove intende rifondare un
nuovo patto religioso. Quale dovrebbe essere per Bruno lo spirito che anima le religioni?
Bruno, in quanto filosofo, è indifferente al valore di verità dei culti. Non esistono religioni vere e religione
false. Chi può stabilire, per esempio, quale delle tre religioni monoteistiche sia quella vera? E a questo
proposito ricordo una novella del Decameron, che Bruno avrebbe certamente sottoscritto. Nella terza
novella della prima giornata, Melchisedech giudeo sfugge ad una trappola tesagli dal Saladino raccontando
la storia delle “tre anella”. Messo di fronte alla domanda del sultano del Cairo (“quale delle tre leggi tu
reputi la verace, o la giudaica, o la saracina o la cristiana”), il mercante ebreo risponde ricorrendo a una
situazione analoga in cui tre figli avendo ricevuto singolarmennte in eredità dal padre in fin di vita un
anello (uno vero e due copie perfette) non riuscirono a sapere chi dei tre fosse in possesso dell’originale,
perché solo il donatore morto avrebbe potuto svelare il segreto: “E così vi dico, signor mio, delle tre leggi
alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge
e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne
pende la questione”. Soltanto Dio potrebbe dirlo.
E, purtroppo, ogni rappresentante supremo di un culto garantisce che Dio è dalla sua parte. Non a caso la
questione, proprio come quella degli anelli, rimarrà irrisolvibile.
Ma se non è possibile discutere della verità di una religione, è possibile invece discutere della sua utilitas. E
per Bruno, l’utilità di una religione si misura solo in base agli effetti che produce sulla civile convivenza.
Nella riforma celeste dello Spaccio Giove sviluppa questo concetto: la religione è stata creata dagli dei non
per ricevere gloria dagli uomini ma per far sì che gli uomini possano vivere in pace tra loro. Per gli dei i
peccati supremi non riguardano le offese contro di loro: bestemmiare un dio è meno grave che turbare la
pace o indebolire lo Stato. Gli dei considerano sterili gli eremiti che rinchiusi nelle grotte pensano alla
salvezza dell’anima e premiano, al contrario, quegli uomini che con gesti eroici salvano la loro patria o si
danno da fare per creare coesione nella loro comunità sociale.
Se dovessimo attualizzare gli esempi forniti da Bruno, potremmo dire che oggi gli dei gradirebbero molto
di più una scomunica a quei parlamentari che fiancheggiano i mafiosi rispetto ad una scomunica a quelli
che firmano leggi a favore del divorzio o dell’aborto. Gradirebbero di più una condanna per l’operato di un
sindaco razzista che fomenta la caccia al rumeno piuttosto che una crociata contro gli omosessuali.
Gradirebbero la messa al bando di chi depreda le casse dello Stato che la persecuzione delle coppie fuori
dal matrimonio.
La critica bruniana al cristianesimo, in cui è possibile ritrovare l’eco di Machiavelli, si fonda proprio sulla
pericolosa devalorizzazione della vita terrena, in nome di ipotetici paradisi ultraterreni. Non a caso, in
Machiavelli e in Bruno, la religione dei Romani assume un valore esemplare proprio per il suo altissimo
valore civile. La funzione positiva di una religione, la sua utilitas, sta nel religare, nel tenere uniti, nel
cementare. Svalutare la vita terrena significa spezzare il legame tra religio e società, tra Dio e natura.
Nei dialoghi italiani di Bruno i protagonisti sono pittori filosofi oppure filosofi che dipingono. Perché
quest’analogia fra il lavoro del pensiero e quello del pittore?
Per anni ho riflettuto sul fatto che in Bruno il rapporto tra pittura e filosofia non potesse essere solo un
generico omaggio alla moda rinascimentale di accostare arte e pensiero, immagini e letteratura. In effetti, il
Nolano apre la sua “nuova filosofia” con una commedia, il Candelaio (in cui il protagonista portavoce del
pensiero bruniano è un pittore che fa il filosofo) e la chiude con un dialogo, i Furori, in cui un filosofo
dipinge immagini con le parole. L’intuizione mi è venuta tra gli scaffali del Warburg Institute a Londra. Per
caso mi era capitato tra le mani un libro sul mito delle origini della pittura. E mi aveva incuriosito il fatto
che questo mito avesse al centro il tema del contornamento dell’ombra: il primo pittore non fa altro che
contornare un’ombra. Ma anche il mito delle origini della filosofia ha al centro il tema della proiezione
dell’ombra nella famosa caverna di cui parla Platone.
Ho subito pensato che per Bruno, probabilmente, il pittore e il filosofo fanno lo stesso mestiere perché
lavorano a partire dall’ombra. Il loro compito però, per arrivare a definirsi un vero pittore e un vero
filosofo, è proprio quello di superare la soglia dell’ombra: se il pittore e il filosofo, infatti, si limitassero
rispettivamente a contornare l’ombra e ad osservare le proiezioni dell’ombra nella caverna non farebbero
avanzare né la pittura, né la conoscenza. Pittore e filosofo, insomma, lavorano con le ombre, sanno bene
che nel processo gnoseologico la vista e le immagini giocano un ruolo di primo piano. “Conoscere”
significa “vedere”. Lo sforzo della filosofia-pittura di Bruno è proprio quello di rendere visibile l’invisibile,
di mostrare “agli occhi dei mundani” ciò che non si vede. Nella Soglia dell’ombra ho potuto documentare
come Bruno finisca per indentificarsi con Narciso (e Narciso, per Alberti, è l’inventore della pittura). Non a
caso il De immenso si chiude con una ripresa di un verso delle Metamorfosi di Ovidio in cui Bruno si
presenta nelle vesti di Narciso. L’esperienza del cacciatore innamorato della sua ombra esprime
l’impossibilità dell’abbraccio con l’oggetto del desiderio. E Bruno sa che il filosofo per tutta la sua vita
cercherà disperatamente di abbracciare un’inafferrabile conoscenza, un oggetto del desiderio che non si
lasciarà mai raggiungere una volta per tutte.
Quali sono gli aspetti più attuali della filosofia di Bruno?
Innanzitutto, mi sembrano di grande utilità oggi le riflessioni bruniane sul rapporto vita e filosofia: le nostre
idee devono tradursi in una maniera di vivere. Se il pensiero non diventa vita vissuta, se i nostri
convincimenti non condizionano coerentemente anche i nostri gesti quotidiani più umili allora il sapere
perde la sua funzione principale. La visione teorica non può ridursi ad un’astratta adesione intellettuale.
L’autentica conoscenza richiede una partecipazione totale che comporti inevitabilmente una metamorfosi,
del proprio modo di essere nel mondo.
Altro ci sarebbe da dire sulle bellissime pagine di Bruno dedicate alla lode della Fatica, che smentiscono in
maniera eclatante le moderne pedagogie edonistiche che hanno ispirato le recenti riforme della scuola e
dell’università. Abbassare il livello dell’istruzione, rendere tutto più facile, non aiuta a formare le nuove
generazioni: il Nolano ci insegna con passione che il sapere non è un dono ma una faticosa conquista.
Ma c’è di più: la vera conoscenza può essere frutto solo di un amore gratuito. In altri termini: non studio
per prendere un diploma o una laurea, ma perché desidero sapere. Nello stesso tempo, però, ciò che imparo
mi fa avere una visione universale delle cose, aiutandomi a sconfiggere i meschini egoismi personali e i
piccoli interessi legati al mio particulare. Altre riflessioni, per cambiare tema, potrebbero ispirare le
osservazioni di Bruno a proposito della necessità di tenere uniti i saperi, di non separare mai i percorsi delle
scienze umane e delle scienze della natura. E qui mi fermo, cosciente della parzialità di questi schematici
accenni.